Alezio e la palma che, forse, non c’è più

di Armando Polito

Ciò che sto per dire sarebbe valido per qualsiasi nostra città o cittadina ma il caso ha voluto che oggi la protagonista fosse Alezio, grazie alle due foto, sovrapponibili, che seguono, la prima risalente, credo, agli anni ’60, la seconda tratta ed adattata da GoogleMaps. In esse appaiono riprese via Cavour e Piazza Regina Margherita.

 

Temo che, per farla completa, manchi una foto recente e, per colmare questa eventuale lacuna, confido nell’aiuto di qualche lettore locale. Nel frattempo motiverò le ragioni della mia non documentata (e mi auguro che rimanga tale) paura.

Per farla breve:  la palma che si vede nella seconda foto è rimasta vittima anch’essa del  famigerato punteruolo rosso, cioè, in ultima analisi, della  globalizzazione?  Se è così non sarà morta, forse, invano, a patto che si abbia il tempo per una riflessione semplice e banale ma, paradossalmente,  imprenscindibile, proprio perché scontata e, dunque, apparentemente non degna d’attenzione.  Già, la globalizzazione inventata non da qualche vegetale o da qualcuna delle cosiddette bestie, ma dal peggiore degli animali, cioè dall’uomo, che nella sua immensa ipocrisia, pensa di giustificare il fenomeno nascondendo il concetto concreto del profitto dietro quello astratto di fratellanza, guardandosi bene dal tradurre quest’ultimo in fatti concreti, giacché è proprio la sua depravata ed ipocrita astrattezza che lo rende compatibile col profitto.

La globalizzazione e l’esportazione della democrazia mi appaiono come la versione moderna di fenomeni antichi come la colonizzazione e l’evangelizzazione (in quest’ultimo caso di popoli cosiddetti primitivi ma in molti casi più civili di noi e dai quali, se non avessimo provocato la loro integrazione e in non pochi casi la loro estinzione, avremmo avuto molto da imparare, con un semplice, fugace contatto ispirato, e condotto, unicamente dalla voglia di conoscere l’altro). Solo che questa volta la diffusione planetaria rischia di concludersi, se non si cambia rotta al più presto, con la distruzione del pianeta  e di ogni specie vivente, compresa la nostra.

E per evitare tutto questo, magari, c’è chi in Italia pensa (e, forse, forte del suo cognome, l’avrà pure dichiarato ma me lo sono perso …) che basti un semplice sì all’imminente referendum …

Maruggio: una colonna e una stampa

di Armando Polito

Comincio dalla colonna, che, secondo quanto leggo in Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Maruggio) sarebbe (il condizionale è mio perché manca qualsiasi riferimento ad ubno straccio di fonte),  tutto ciò che rimane dell’antica Cappella della Misericordia, edificata nel 1744, quasi di fronte alla Chiesa Madre , per volere di Costantino Chigi, allora commendatore di Maruggio.

(immagine e dettaglio  tratti ed adattati da GoogleMaps)

 

Il titolo di commendatore aveva a quei tempi una valenza ben diversa da quella di oggi per alcuni sostanziali motivi, sui quali mi piace soffermarmi. Era un beneficio  concesso a un cavaliere di un ordine cavalleresco militare, oggi è un semplice riconoscimento  concesso  ad un cittadino distintosi in un’attività particolare.  Allora poteva pure capitare che la commenda toccasse a qualche militare indegno (oggi si direbbe un criminale di guerra), oggi molto spesso si scopre, dopo qualche tempo, che il beneficiario era, solo per fare un esempio, un evasore fiscale … Qualche volta l’etimologia ha in sé qualcosa di premonitorio: commendatore è da commendare  (sinonimo di approvare o raccomandare) e questo dalla stessa voce latina commendare (con gli stessi significati che oggi ha la voce italiana), formata da cum=insieme e mandare=inviare. Sorge spontanea la domanda: Cosa o chi si inviava, insieme con chi o con che cosa e, infine, a chi? Comincio dall’ultimo, che è il più facile e che è l’anello forte della catena: il potente di turno. Cosa si inviava era la lettera contenente i meriti del candidato al beneficio; poi, siccome abbondare è meglio, è presumibile che in qualche caso il latore della missiva (chi si inviava) fosse anch’esso un personaggio importante, meglio ancora se ancora più importante del destinatario. Riassumendo: si mandava  (la lettera) con (qualcuno) o si mandava (qualcuno) con (la lettera). Nel primo caso con ha un valore strumentale, nel secondo di unione. Tuttavia, dato per scontato che la lettera dovesse essere inviata non tramite posta elettronica, potrò essere tacciato di furbizia dicendo che il complemento di unione poteva essere costituito da un bel regalo di fulminante impatto psicologico condizionante? E questa volta verrebbe fuori: mandare (la lettera con qualcuno)  con (un regalo-acconto). Avrete notato come in tutta questa disquisizione la parola merito è assente; eppure, il primo significato della voce latina era proprio quella di approvare, cioè di riconoscere il giusto o il valido.

Non è finita. Commendatore è dal latino commendatore(m) che vuol dire protettore, si suppone di certi valori o, dato per scontato che anch’egli lo faccia,  delle persone che per quei valori hanno rispetto. Questo spiega perché commendatore, quando ci saremmo aspettato che il destinatario della commenda (questo era il nome tecnico del beneficio) si chiamasse commendato o commendatario. Comunque, commendato o commendatore o commendatario che sia, le sue responsabilità non erano di poco conto e investivano tanto la sfera temporale che quella religiosa: nominava il capitano (poi governatore) della collettività  per l’amministrazione della giustizia e le altre funzioni legate all’ordine pubblico, sceglieva gli amministratori locali tra quelli designati dal popolo; nominava il vicario generale, l’arciprete della Chiesa Madre e i cappellani delle altre chiese, nonché il sostituto (luogotenente) del capitano in caso di sua assenza. Il commendatore, perciò, doveva essere persona capace, dotata di “fiuto” e provata dirittura, una sorta  di meritevole (per via dell’esempio dato) paladino del merito. Mi vien da pensare, per contrasto, ai tanti commendati di oggi (e anche ai commendanti …) che continuano a fregiarsi del titolo (per quel che vale … ma per certi personaggi ogni titolo costituisce metaforicamente la pietra del proverbio salentino ogni ppetra azza parete=ogni pietra leva il muro; quello del fumo con cui annebbiano la vista degli ingenui) pur essendo stati condannati penalmente una o più volte. Lascio a chi legge ogni ulteriore considerazione … in merito.

Preferisco, infatti, tornare al passato, nonostante le sue ombre non dovute certo soltanto al trascorrere del tempo …,, proprio con Costantino Chigi. Già il cognome è tutto un programma, trattandosi di una delle più potenti casate; e poi, a proposito di … programma e di potere (che oggi non è certo sinonimo di potenza, come autorità non lo è di autorevolezza) basta pensare a Palazzo Chigi …

Non molte sono le notizie che son riuscito, nel breve tempo di due o tre giorni,  a reperire su di lui, a parte, nella scheda di Maruggio su Wikipedia al link segnalato, l’intervallo di tempo (1733-1774) in cui sarebbe stato commendatore della cittadina salentina.

Comincio dalle fonti letterarie:
Lo scuoprimento di Giuseppe a’ fratelli rappresentato nelle vacanze del Carnevale 1721 da’ Signori Convittori delle camere Piccole del nobil Collegio Tolomei, dedicata  all’Illustrissimo  Signor Marchese  Vincenzo Riccardi, Stamperia del Pubblico, Siena, 1721, s. p. :

 

Il Sentiero della gloria. Accademia di Lettere, e d’Armi dedicata Alla Serenissima Altezza Elettorale di Massimiliano, Duca dell’Alta e Bassa Baviera, etc. Conte Palatino  etc. Elettore del Sacro Romano Imperio da’ Signori Convittori del Nobil Collegio Tolomei di Siena, Stamperia del Pubblico, Siena, 1722, p. 9:

 

Tributi d’onore prestati alla Memoria dell’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana Accademia d’Armi e di Lettere tenuta da’ Signori Convittori del Nobil Collegio Tolomei e da essi dedicata all’Altezza Reale  del Gran Duca Giovanni Gastone,  Stamperia del Pubblico, Siena, 1724, p. 27:


Catalogo della Biblioteca del sagro militar ordine di S. Giovanni Gerosolimitano oggi detto di Malta compilato da Fra Francesco Paolo De Smitmer, Commendatore dello stesso Ordine, e Canonico della Chiesa Metropolitana di Vienna in Austria, s. n., s. l. 1781, p. 80:

Se le prime tre testimonianze sono riferibili agli anni giovanili di Costantino in quanto convittore del Collegio dei Tolomei  e in esse il titolo di cavaliere è una costante che sottintende gerosolimitano (nell’ordine potevano essere accolti anche minori, come più avanti documenterò), l’ultima non solo ha lasciato il titolo dell’unica opera, pur rimasta manoscritta, conosciuta del nostro3, ma  attesta inequivocabilmente la sua appartenenza ai cavalieri di Malta, nel cui ordine era entrato nel 1719.4

E lo conferma, aggiungendo altri preziosi dettagli,  l’epigrafe (oggi traslata e murata nel portico De Cateniano a Brindisi) del 1572 che ricorda la ricostruzione della chiesa di San Giovanni, sempre a Brindisi, distrutta dal terremoto del 20 febbraio 1743:

TEMPLUM HOC PRAECURSORE  MAGNO HIEROSOLYMITANO  DICATUM VETUSTATE AC TERRAEMOTU COLLAPSUM SUPPELECTILIBUS SACRIS ETIAM VIDUATUM FR COSTANTINUS CHISIUS EX MARCHIONIBUS MONTORUS EQUES HIEROSOLYMITANUS ET IAM PRAEFECTUS TRIREMIBUS  CAMERAEQUE MAGISTRALIS TERRAE MARUBII NULLIUS COMMENDATARIUS UT BRUNDUSINORUM VOTIBUS ANNUERET NON ALIO UT PAR ERAT SED CENSU SUO RESTAURAVIT COLUIT ORNAVIT A. D. 1752

(Questo tempio, dedicato al grande precursore gerosolimitano1 , crollato per l’età e per il terremoto, privato pure dei sacri arredi, Costantino Chigi dei marchesi di Montorio, cavaliere gerosolimitano e già prefetto alle triremi e commendatario della Camera magistrale2 di Maruggio terra di nessuno, per accondiscendere al desiderio dei Brindisini non a spese altrui, come sarebbe stato in suo potere fare, ma sue, ricostruì,  curò, ornò nell’anno del Signore 1752).

Apprendiamo dall’epigrafe che alla data del 1752 il nostro da tempo (già) era prefetto alle triremi;  Quel generico già può assumere connotati cronologici più precisi sulla scorta di quanto (Capitano di Galera) è riportato nel Ruolo generale de’ Cavalieri gerosolimitani  (compilazione fatta da Bartolomeo Del Pozzo fino al 1689. integrata da Roberto Solaro fino al 1713 e con un’ultima aggiunta, senza il nome dell’autore, fino al 1738), Mairesse, Torino, 1738, p. 292:

Dunque, alla data del 1738 il nostro era già Capitano di galera, grado che ritengo senza dubbio equivalente al Praefectus triremibus dell’iscrizione). Ho voluto,inoltre,  riportare buona parte dell’intera pagina perché di minore età risultano essere molti inclusi nell’elenco dei cavalieri gerosolimitani, come prima abbiamo visto anche per il convittore cavaliere Costantino, che era entrato nell’Ordine nel 17195.

Nulla si oppone, dunque, a credere che nel 1744, un anno dopo il ricordato terremoto proprio il commendatario  Costantino abbia riedificato a Maruggio  la Cappella della Misericordia inglobando la colonna superstite del vecchio tempio,  ma, come ho detto all’inizio, per il crisma della certezza è necessario un riscontro documentale (una visita pastorale, un’epigrafe, una memoria contenuta in una cronaca dell’epoca, o simili).

È, dopo quello della la colonna,  è il momento  della stampa, un’incisione di Freicenet su disegno di Jean Barbault (1718-1762), custodita nell’Istituto Max Planck a Firenze. La didascalia  è divisa in tre sezioni. Quella a sinistra reca il titolo: Veduta della Piazza di Spagna  1 Fontana detta la Barcaccia, Architettura del Cavalier Bernino  2 Scalinata, che conduce sul Monte PIncio  3 Chiesa della SS. Trinità de’ Monti  4 Collegio de Propaganda Fide   5 Strada Paolina. La centrale contiene la dedica da parte degli editori:  ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNORE IL SIG. CAVALIERE FRA’ COSTANTINO CHIGI  Commendatore della gran commenda di Maruggio ec. ec. Da Suoi Umiliss. Devotiss. Obligatiss. Servitori Bouchard e Gravier. Nella sezione a destra si legge la traduzione in francese del testo della prima: Vue de la Place d’Espagne  1 Fontaine appelée la Barcaccia, Architecture du cavalier Bernin   2 Scalier qui conduit  sue le mont Pincius  3 Eglise de la SS. Trinité sur le dit mont  4 College de Propaganda Fide  5 Rue Paoline

__________

1 Ordine religioso cavalleresco istituito nel secolo XI sotto la protezione di san Giovanni di Gerusalemme, denominato in seguito Ordine dei Cavalieri di Rodi e attualmente dei Cavalieri di Malta.

2 Sulle prerogative della Camera magistrale vedi Codice del sacro ordine gerosolimitano, Stamperia del palazzo di S. A. E. per fra’ Giovanni Mullia suo stampatore, Malta, 1782, pagina 329 e seguenti.

3 Brevi cenni biografici su Marcantonio Zondadari, ma senza alcun riferimento alla sua biografia manoscritta del nostro, sono in Notizie di alcuni Cavalieri  del sacro Ordine Gerosolimitano  illustri per Lettere e per Belle Arti raccolte dal Marchese di Villarosa, Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli,  1841, p. 346; Costantino, inoltre, non compare tra i cavalieri ricordati in quest’opera. Il suo nome compare, invece, con quello di altri membri della sua famiglia,senza cenno alcuno,però, alla commenda di Maruggio,  in

4 Francesco Bonazzi, Elenco dei cavalieri del S. M. Ordine di san Giovanni di Gerusalemme ricevuti nella veneranda lingua d’Italia dalla fondazione dell’Ordine ai nostri giorni, parte seconda (dal 1714 al 1907), Libreria Detken & Rocholl, Napoli, 1907, p. 48:


La data del  1719 è confermata, con indicazione anche di altri dati importanti come l’anno di nascita, in Ruolo delli Cavalieri Cappellani Conventuali, e serventi d’armi ricevuti nella veneranda lingua italiana della sacra religione gerosolimitana e distinti nelli rispettivi priorati, Stamperia del Palazzo di S. A. E. per Fra Giovanni  Mallia suo Stampatore, Malta, 1789, p. 3:

Dalla scheda apprendiamo pure, in conformità con la spiegazione delle abbreviazioni date nella pagina precedente,  che al momento della ricezione era Paggio (Pa.) mentre Frate (F.) allude al fatto che era professo,cioè aveva preso i voti. Nell’ultima colonna  Commendatore (Comm.) Priorato di Venezia (V.) e 24 è il numero progressivo della carica, secondo quanto riportato a p. 45:

In testa l’indicazione toponomastica della commenda , nella seconda colonna la motivazione (Cabimento, voce di origine portoghese che significa opportunità, convenienza)  del conferimento della carica, nella terza la data del conferimento.

5 I Cavalieri di Malta governarono Maruggio dal 1317 (il primo commendatore fu Nicola De Pandis) al 1801 (l’ultimo fu Giuseppe Caracciolo).

Da Tricase a Genova, ma solo sulla carta …

di Armando Polito

Topi, tarme, vandali, maniaci e non, incendi, guerre:  sono stati e sono ancora questi  i nemici delle biblioteche tradizionali. L’avvento dell’elettronica e dell’informatica sembrava garantire  con la digitalizzazione la trasmissione ai posteri della parte preponderante del patrimonio culturale dell’Umanità e, come già per il libro tradizionale il numero di copie era direttamente proporzionale alle possibilità maggiori o minori che se ne conservasse la sua fisicità, così il backup sembrò la panacea per tutte, o quasi,  le possibili malattie informatiche, dal crack improvviso di una memoria di massa ad un attacco virale più o meno grave, fino allo stupro di un hacker. Finora le difese o i sistemi di ripristino messi in atto dai grandi siti hanno in qualche modo funzionato, ma ultimamente parecchi di loro sono stati letteralmente messi in ginocchio con l’espediente più banale ed apparentemente innocuo: quello del sovraccarico degli accessi, che sembra quasi una lezione a chi si vanta di avere giornalmente un numero iperbolico di contatti …

L’unico rimedio sembra essere il potenziamento del proprio sistema (che, però, dipende da altri cui è strettamente connesso) in una corsa senza fine agli armamenti in cui il nemico è favorito, credo, dalla creazione automatica degli accessi ed il suo antagonista  sfavorito soprattutto dal fatto che non può attuare lo stesso sistema all’incontrario, cioè consentendo gli accessi solo fino a poco prima della soglia di saturazione, perché (penso ai siti commerciali) sarebbe come darsi con la zappa sui piedi e l’effetto sugli esclusi sarebbe devastante sul piano economico non solo nell’immediato ma anche in prospettiva, se si pensa all’importanza dell’immagine.

Qualcosa del genere dev’essere successo per il documento che fortunatamente avevo salvato qualche mese fa e che oggi propongo. L’avevo trovato al link http://www.san.beniculturali.it/web/san/dettaglio-oggetto-digitale?pid=san.dl.TERRITORI:IMG-00461223 ove compariva (e ancora compare) la sua miniatura e da dove si accedeva ad un altro link al momento in cui scrivo irraggiungibile (dopo alcuni secondi di speranzoso caricamento …). L’immagine (cliccandoci sopra col tasto sinistro si vedrà ingrandita) è una planimetria del porto di Tricase databile tra la fine del secolo XIX e gli inizi del  XX, custodita nell’Archivio di Stato di Genova.

Trascrivo i nomi che vi si leggono nella speranza che qualche lettore tricasino ci dia ulteriori ragguagli:

bagno Verris (molto probabilmente da leggereVeris)

proprietà dell’Abate

Strada comunale per Tricase

Cisterna

proprietà Pisanolli (molto probabilmente da leggere Pisanelli)

proprietà Panese Deodato

sottopassaggio

E, per finire, l’aspetto attuale del sito in un’immagine, più o meno sovrapponibile alla vecchia planimetria, tratta, come al solito, da GoogleMaps.

Quale focolaio di Xylella fa più paura?

Xylella time …

di Piero Sumerano

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

 

Il focolaio di xylella a Ostuni fa paura ? Fa più paura di quello di Oria? Di Torchiarolo, di San Donaci, di Trepuzzi, di Squinzano, di Veglie o di Gallipoli?
Fa più paura perché è più vicino alla terra di Bari?
L’olivicoltura della Puglia ha lo stesso valore da Santa M. Di Leuca fino a Serracapriola . Un valore sociale, economico, storico, paesaggistico, cultuale e naturalistico a prescindere se parla di terra del Salento, di Bari, delle Murge o della Daunia ! Qualcuno forse si aspettava, o peggio ancora, si aspetta che il batterio della Xylella f. si possa fermare da solo come se niente fosse? O che possa essere curato ?
O possa essere circoscritto solo al Salento ?
Che lasciare gli alberi infetti al loro posto per puro spirito patriottico non avrebbe avuto conseguenze ?
No! No! Niente di tutto questo !
La questione è ben più complessa di, come alcuni pseudo esperti o sedicenti tecnici ecologi e chi più ne ha più ne metta, vogliono farla apparire! Nessuno ha capito che siamo difronte alla più grande e catastrofica epidemia che si possa immaginare.
La malattia viaggia!! Il suo vettore fa l’autostoppista e nascondendosi nelle macchine, furgoni e camion provenienti dalle zone infette conquista nuovi territori.
Oggi la malattia la scopriamo a Ostuni; ma chissà dove sia potuta arrivare ! Forse già é al nord Italia con qualche sputacchina che innocentemente si è posata fra le fessura delle auto dei tantissimi turisti che hanno affollato l’estate salentina 2016. O magari è già scesa nelle regioni joniche.
Oggi c’è gente che parla e professa senza la più elementare competenza in materia e senza avere ben impresse negli occhi e nella mente le immagini apocalittiche degli olivi millenari della provincia di Lecce e di parte di quella di Brindisi ridotti a muti scheletri. Oggi c’è gente, purtroppo, che specula sulla vicenda Xylella solo per meri scopi di notorietà mediatica magari da spendere in qualche prossima tornata elettorale ( è già successo ) Oggi ancora c’è DISINFORMAZIONE !!! Una disinformazione quasi voluta e pilotata per creare scalpore, confusione e fare scoop mediatici! Giornalismo di basso profilo che tenta di distogliere l’attenzione dal vero problema: la morte degli olivi e la morte della nostra economia con tutto ciò che ne consegue!
In occasione del nuovo focolaio di Ostuni, leggere ancora una volta, su testate giornalistiche di portata nazionale che dietro tutto questo c’è l’ombra di qualche lobby speculatrice con chissà quali interessi di edilizia turistica sinceramente mi fa cadere le braccia ! Distogliere l’attenzione dal vero problema ( ripeto la morte certa degli olivi monumentali), per lanciare insinuazioni mentre si intervista il gestore della stazione di servizio dove é stata trovata la pianta infetta, mi sembra davvero inqualificabile. Sarebbe stato più giusto e più professionale descrivere il problema ed esortate tutti, ognuno per la propria parte, ad attivarsi per attuare tutte le pratiche per cercare di contrastare l’epidemia!
La colpa di tutto questo ?
Di tutti noi sicuramente . Di tutti quelli che a vario titolo hanno ostacolato una norma europea e la legge nazionale in materia di organismi da quarantena ( che forse andava migliorata per essere applicata ad una specie come l’olivo ) . Dei ricorsi accettati dal TAR e dei sequestri che hanno rallentato, intralciato e persino bloccato l’iter che il Servizio Fitosanitario era chiamato a svolgere! Ognuno di noi si faccia un esame di coscienza; semprechè ognuno di noi ne abbia una !!

L’avventura di Cleonimo e la presunta inesistenza del promontorio brindisino

braccesiok

 

di Nazareno Valente

Come altri condottieri greci, anche Cleonimo, spartano di stirpe reale, giunge nella penisola salentina su pressante richiesta dei Tarantini, in quel periodo in aperto conflitto con i Lucani (fine IV secolo a.C.)1. Il suo intervento, il cui obiettivo dichiarato è quello di venire in aiuto della colonia lacedemone, non è però del tutto privo di personali mire di conquista, e forse questo tramuta l’iniziale sostegno in manifesto dissenso. Infatti, in breve, i Tarantini gli si ribellano e, sostenuti anche dai Messapi, lo obbligano a salpare ed a tornarsene a Corcira2.

Cleonimo intraprende a questo punto una nuova incursione che lo porta sull’alto Adriatico, dove però non ha migliore fortuna, in quanto gli abitanti di Padova gli infliggono una sonora sconfitta e lo fanno desistere da ogni ulteriore tentativo di scorreria3. Ed è proprio l’inizio di questa seconda parte della sua avventura4 — più in particolare l’incipit del passo di Livio che la racconta — che vorremmo qui prendere in considerazione.

Narra infatti Livio che «Circumvectus inde Brundisii promunturium, medioque sinu Hadriatico ventis latus…»5, vale a dire che, doppiato il promontorio di Brindisi, Cleonimo fu spinto dai venti in mezzo all’Adriatico.

Ora gli storici assegnano poca fiducia a questo luogo di Livio, in forza d’una presunta inesistenza del promontorio brindisino6. Scrive infatti Braccesi: «Il porto di Brindisi non è delimitato né a nord né a sud da promontorio alcuno; anzi si apre inaspettatamente sulla linea di costa… quasi celandosi allo sguardo del navigante… Quindi, poiché Cleonimo si imbarca fuggitivo da una regione bimare, come il Salento, è assai probabile che Livio designi qui per estensione come promunturium Brundisii il Capo Iapigio»7.

In effetti il porto di Brindisi, com’è attualmente, non presenta evidenti promontori, quanto meno nelle immediate vicinanze; tuttavia, ai tempi di Livio, la situazione era alquanto diversa.

Già la città di per sé stessa giace su un basso promontorio, con le sue colline posizionate a nord e a sud che si protendono sul mare, ma quel che più è interessante è che, nelle immediate vicinanze del canale d’accesso al porto interno, ci sono dalla parte del ramo di ponente la Costa Guacina ed a levante la Punta Le Terrare, il cui paesaggio costiero ha subito notevoli trasformazioni nel corso dei secoli.

La Punta Le Terrare in particolare è un sito indigeno dell’Età del Bronzo e quindi, per elemento caratterizzante, sorgeva con molta probabilità su un promontorio o un’altura comunque consistente. D’altra parte questa sua caratteristica, già richiamata nel nome, viene tuttora ricordata tant’è che l’autorità portuale nel proprio sito parla esplicitamente nei cenni storici di “promontorio” di Punta Le Terrare8; peculiarità per altro evidenziata anche in studi scientifici9. E tutto questo a prescindere dal ritiro della linea di costa e dall’innalzamento del livello del mare determinatisi con il trascorrere del tempo10.

Analoghi processi naturali hanno coinvolto la Costa Guacina che ha subito in aggiunta non banali lavori di sterro necessari a portarla a livello del mare, in quanto destinata agli inizi del secolo scorso a stazione per idrovolanti, per necessità militari.

Occorre poi ricordare le opere succedutesi nel corso degli ultimi quasi trecento anni per il risanamento del porto che hanno anch’esse ulteriormente modificato la situazione in maniera tale che, non a caso, una loro narrazione fa riemergere l’ormai dimenticato «promontorio su cui sorge la città»11. Quindi, anche in giorni non troppo lontani dai nostri, la costa brindisina non si presentava affatto piatta ma proponeva collinette che, pur non ritenute degne d’essere messe in evidenza dai cartografi, giustificavano in ogni caso l’utilizzo d’un simile termine e rendevano ben visibile l’insenatura del porto ai naviganti. A maggior ragione, per le considerazioni già fatte, doveva esserlo ai tempi in cui scriveva Livio, quando lo scenario che si manifestava agli occhi d’un viaggiatore proponeva coste con pendii ancor più accentuati12.

Non credo a questo punto che vi sia motivo per non dare fiducia allo storico patavino e per non riconoscere che Cleonimo abbia effettivamente superato le coste brindisine, e non, come ora ritenuto, altro promontorio.

E c’è un’altra considerazione che spingerebbe a sostenere una tale ipotesi.

Ciò che dapprima appariva incoerente – e che di fatto mi ha incuriosito – era che Cleonimo, dopo aver doppiato il supposto Capo di Santa Maria di Leuca, fosse stato sospinto dai venti addirittura nel mezzo dell’Adriatico; evenienza questa alquanto strana, considerata la posizione del summenzionato luogo. Se invece supponiamo che Livio abbia voluto effettivamente indicare la costa brindisina, anche questa eventuale inesattezza verrebbe a cadere, ed il passo non conterrebbe due sviste consecutive in poco più d’una riga.

 

NOTE

1 Diodoro, Biblioteca Storica, XX 104, 1-2.

2 Diodoro, cit., XX 105, 1-3.

3 Livio, Dalla fondazione di Roma, X 2, 1-4.

4 Invito chi fosse interessato ai dettagli a consultare l. Braccesi, L’avventura di Cleonimo, Esedra, Padova, 1990.

5 Livio, Cit., X 2, 4.

6 Braccesi, Cit., p.31; f. grelle – m. silvestini, La Puglia nel mondo romano: storia d’una periferia., Edipuglia, Santo Spirito, 2013, p. 47.

7 Braccesi, Cit., p.31.

8 http://ww.portodibrindisi.it/1/id_29/Cenni-storici.asp

9 Auriemma, Salentum a Salo, Congedo, Galatina, 2004, p. 111.

10 Auriemma, cit., pp. 22-30.

11 Palma, la grande guerra nell’Archivio di Stato di Lecce e negli archivi storici comunali,in L’Idomeneo, n.18, Il Salento e la Grande Guerra. Atti del seminario di studi, Lecce, 2014, p. 37.

12 Va pure evidenziato che appena a nord di Brindisi s’eleva Torre Guaceto il cui promontorio, unitamente alle tre isolette antistanti ed alle due di Apani, costituiva in antico un’unica linea costiera di non banale rilievo.

 

Novoli: che fine ha fatto il Bambino?

di Armando Polito

Il  titolo di  oggi sembra una rivisitazione salentina del film Che fine ha fatto Baby Jane? del  1991. L’inziale maiuscola di Bambino, però, ci fa capire che la parola in questione è un nome proprio. E, allora, si tratta del trafugamento di qualche statua o pittura da qualche chiesa di Novoli? Dico subito che il divino non c’entra, ma il di vino sì …

Joseph De Rovasenda, Essai d’une ampelographie universelle p. 30, Coulet Montpellier e Delahaye & Lecrosnier, Paris, 1881 p. 30:

 

Se l’abbreviazione Bic. è ampiamente sciolta e definita sufficientemente  nello stesso testo (Bicocca. Località situata a Verzuolo, distretto di Saluzzo, dove si trova la collezione di viti dell’autore. Le uve di questa collezione e di molte altre saranno descritte ulteriormente, in gran parte, nel corso dell’opera, e classificate), qualcosa in più va detto su Mend., abbreviazione di Mendola. Antonio Mendola, nato a Favara (Girgenti) nel 1827 ed ivi morto nel 1908, di nobili origini (barone), ebbe come interesse principale quello della viticoltura, tant’è che impiantò nelle sue terre vitigni di ogni parte del mondo. Il primo catalogo di tale collezione fu da lui pubblicato nel 1868 in appendice al periodico Il coltivatore di Casalmonferrato. Consapevole del collegamento tra produzione vinicola e tecnica enologica, inventò la parola ampelenologia (dal greco àmpelos=vite+òinos=vino+logos=studio).

Colgo l’occasione del Bambino di Novoli per riportare dallo stesso libro le parti riguardanti vitigni salentini. Così a p. 18 leggo:

a p. 4:

 

a p. 138:

7

 

A proposito di Negro amaro: la prima attestazione del nome datata al 1887 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/04/negro-amaro-la-parola-alla-storia/) va, dunque, retrodatata al 1881.

a p. 13:

 

Qui compare una generica indicazione di provenienza (Province meridionali dell’Italia) ma ho ritenuto opportuno riportare la scheda per via delle varianti Bambino/Bombino/Bommino.

Ma siamo sicuri che debbano veramente essere considerate varianti? E la parola di partenza è Bombino (diventato poi per assimilazione Bommino) con riferimento alla forma degli acini o ad una particolare predilezione per loro delle api1? E Bambino, infine, è deformazione di Bombino o voce autonoma?

Oggi mi sento già ubriaco senza aver assaggiato neppure un goccio di vino …, perciò passo la parola ai competenti e sobri.

_______

1 Dal glossario del Du Cange riporto un lemma  che mi ha fatto pensare a tale ipotesi:

(BOMBUM, Sorbello. Glossario  glossa ad Isidoro.  Rispetto a questa voce Grevio: Il sorbello è un brodetto o qualsiasi liquido che viene succhiato: dagli scrittori del basso latino è detto anche sorbizio. Niente dunque per bombum. Indovinino altri più svegli che cosa significhi tutto questo).

Non pretendo certo di collocarmi tra i candidati più svegli, però mi meraviglio che un filologo del calibro del Grevio (1632-1703), pur nei limiti della filologia del suo tempo, non abbia colto il rapporto tra le api, il loro ronzio [in greco è βόμβος  (leggi bombos; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/)] e il sorbire il succo dell’acino, bollando la glossa come incongruente.

Lo stesso glossario poco dopo:

(BOMBIRE o BOMBILARE, si dice delle api che mangiano il bombo …)

 

Nell’autunno salentino, lenzuola sopra la terra rossa

ulive 002

di Rocco Boccadamo

In gergo comune, la gente suole definire “teli o reti” gli utili accessori o suppellettili impiegati nell’ambito e ai fini della raccolta delle olive.

A me, però, viene in mente, non a caso, di appellarli “lenzuola”.

Il riferimento attiene a una realtà operativa concreta, non solo vigente lungo queste amene plaghe del basso Salento, ma estesa all’intera Puglia e, in generale, a tutte le altre regioni, aree e, ho motivo di ritenere, anche Nazioni, dove esistono uliveti e si pone, quindi, il compito e l’obiettivo di ricavarne i preziosi frutti nella maniera migliore, sia dal punto di vista quantitativo, che sotto l’aspetto della qualità.

Si tratta di sottili strati a quadratini stretti, dai quattro lati uguali oppure, talora, in forma di rettangolo, di superficie variabile, in ogni caso almeno pari a quella corrispondente alle chiome dei singoli alberi dalle foglie color argenteo, taluni dei quali veri e propri monumenti che presuppongono, pertanto, teli o reti di dimensioni ragguardevoli o da sistemarsi in coppia ai loro piedi.

Gli accessori in discorso sono fatti di materiali plastici o similari, mentre i loro colori si alternano dall’avorio al beige chiaro, al verde intenso e al marrone, così da formare, talvolta, sequenze di pseudo tappeti policromi senza soluzione di continuità.

Ponendo l’accento, come premessa introduttiva, sull’estrema utilità di questi supporti agricoli, come cercherò di spiegare meglio più avanti, mi sembra anche il caso di rimarcare che il loro posizionamento sotto gli ulivi non avviene per semplice e libera caduta dal cielo, comportando, bensì, una non indifferente fatica, specie se il lavoro è compiuto da una sola persona.

Schiena ricurva, sforzi di braccia e gambe, paziente avvolgimento degli aggeggi intorno ai tronchi e, infine, ricerca di tantissimi ciottoli o piccole pietre, da poggiare sui lati dei teli, per evitare che il vento  li scompagini o li ripieghi.

Accennavo, prima, al prezioso scopo dell’impiego di tali accessori: in sintesi, grazie ad essi, le olive che cadono naturalmente o sotto l’effetto di abbacchiatori a batteria o di macchinari scuotitori sui tronchi, non si pongono a diretto contatto delle zolle, che possono, com’è noto, contenere sali, concimi, sostanze tossiche e altre impurità e, in tal modo, nei piccoli frutti ovali, la genuinità e la sanità degli elementi organolettici, le proprietà nutritive e le sensazioni gustative vengono sostanzialmente salvaguardate.

A questo punto, mette conto di annotare che i teli o reti esistono e si utilizzano  appena da alcuni decenni, mentre, in precedenza, si era fermi a modalità di raccolta delle olive di tutt’altro genere:   una per una o quasi,  mediante velocissimi movimenti delle dita delle mani e loro custodia in appositi sacchetti di tela (pusceddri) che si tenevano legati davanti al corpo, ovvero con ripetute ramazzate dei frutti giacenti sul terreno e la formazione di apprezzabili mucchi, riposti poi, a manciate, nei sacchi o in altri contenitori.

ulivo6

In sfida ai miei quindici lustri di età, conservo viva l’immagine di compaesani, specialmente compaesane, intenti a siffatti metodi di raccolta, negli anni quaranta/cinquanta dello scorso secolo, un lavoro che iniziava di primo mattino e terminava al tramonto, con un brevissimo intervallo per la consumazione di una frisella, condita con pomodori, accompagnata da un sorso d’acqua e, se e quando c’era, da un dito di vino.

Al paese, per altro, non esistevano grandi estensioni di uliveto, tali da assicurare un lavoro, ancorché stagionale, a molti, erano prevalenti le piccole proprietà frazionate, certamente non bastevoli e, di conseguenza, alle scene di siffatte attività in loco si aggiungevano quelle delle partenze di folti gruppi di concittadini, soprattutto donne, di età dai dodici a sessantacinque/settanta anni, che lasciavano Marittima per raggiungere il fieu (feudo, volendo riferirsi a una grande coltivazione ad uliveto) in qualche paese distante, in genere del tarantino o brindisino, dove trovare occupazione per un discreto periodo.

Dette trasferte, unite a quelle per la coltivazione del tabacco nelle pianure lucane, rappresentavano gli strumenti o fonti di reddito a che  le famiglie avessero modo di edificare una casa nuova (frabbicu) per i figli maschi o di preparare il corredo per le figlie femmine.

Anche il giorno d’oggi, per la verità e soprattutto per essere realisti, non tutti i proprietari di terreni a uliveto, piccoli o grandi che siano, si possono permettere di adoperare, o semplicemente vi ricorrono,  i teli o reti o le lenzuola come a me piace appellarli.

Coloro che non lo fanno, si preoccupano unicamente di ripulire le aree sottostanti agli alberi, per poi scopare i frutti caduti e sottoporli, quindi, a una cernita attraverso setacci manuali o meccanici. Certamente, in cotale guisa, il risultato sul piano della qualità dell’olio emerge radicalmente differente.

E però, richiamando l’immagine allegorica delle lenzuola e andando con i miei capelli bianchi ad antichi ricordi correlati, in particolare inerenti alle stagioni passate, anche in casa, anche riguardo ai letti, al riposo e al sonno, taluni, o per scarsità di risorse finanziarie o sulla scia di abitudini radicate, facevano a meno delle lenzuola, spesso materialmente mancanti, avvalendosi invece di semplici e spartani giacigli, riparandosi, d’inverno, dal freddo, sotto umili coperte o zinzuliere, nella migliore delle ipotesi, attraverso le imbottite, i piumoni di una volta, contenenti all’interno fiocchi di bambagia.

Scorrono i tempi, si succedono, come in questo periodo, le stagioni autunnali, sulla scena agreste e paesana dominano gli stupendi e maestosi ulivi e la raccolta dei loro irrinunciabili frutti.

La scena è allietata e colorata, non tanto dalla policromia dei teli o reti o lenzuola, quanto dalla sfumatura rosso vivo dei corbezzoli che giungono a maturazione esattamente nella presente fase dell’anno e dalla macchia, di eguale ma più tenue tonalità, che spicca sul petto di simpatici uccellini, i pettirossi, ghiotti e grandi piluccatori, guarda caso,  sia di olive sia di corbezzoli.

ulivo235

A proposito di immagini e rimembranze di molti calendari fa intorno alla raccolta delle olive,  mi viene spontaneo focalizzare un flash sulle particolari unità di misura di tali prodotti, contenitori metallici in forma cilindrica di varia capacità: il tomolo (tumminu) corrispondente a 55,54 litri attuali, il picciolo (picciulu) pari a 27 litri all’incirca, lo stoppello (stuppeddru) che conteneva circa 6,8 litri. Vi era inoltre una differenza tra recipiente colmo, raso e pieno: nel primo caso “la materia di cui era stato riempito sopravanzava su di esso in forma rotondeggiante a mo’ di cupola; nel secondo, la materia era al pari degli orli in tutta la sua superficie; nel terzo caso, nel recipiente sarebbe potuta entrare ancora qualcosa di più”.

Gli attrezzi in discorso sono da un bel po’ andati completamente in disuso e rappresentano ormai unicamente un flebile ricordo nel sentire e nella mente degli anziani.

Da ultimo, mi sovviene una località, Monteruga, situata in un triangolo di confine tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto, posta precisamente fra San Pancrazio Salentino e Torre Lapillo, avente una storia particolare: nel corso di cinquanta/sessanta anni, durante il secolo scorso, era un vero e proprio piccolo paese, con una comunità stanziale, la chiesetta e finanche una caserma, popolato in buona parte da famiglie provenienti dal basso Salento.

Successivamente,  fra il 1970 e il 1980,  poco per volta,  Monteruga  è purtroppo rimasta miseramente disabitata,  al punto da ridursi a niente più che una località fantasma.

 

20 ottobre 2016

Rocco Boccadamo

Lecce

Email: rocco_boccadamo@alice.it

 

12 allegati

Tante ricette salentine per fare le polpette

polpette

di Massimo Vaglio

Polpette di cavallo

Le polpette di cavallo, per il loro gusto marcato, sono state particolarmente apprezzate come accompagnamento al vino, il che, ne ha fatto uno degli stuzzichini principe delle cosiddette “putee te mieru” , ovvero delle tradizionali bettole salentine con mescita. La carne equina, normalmente derivata da tagli secondari, deve essere stata passata due volte al tritacarne munito di trafila fine, per ogni chilo di carne unite duecento grammi di pangrattato, centocinquanta grammi di formaggio Gavoi o pecorino locale piccante grattugiato e 5-6 uova. Prezzemolo, pepe nero macinato e due-tre spicchi d’aglio completano il novero degli ingredienti.

Amalgamate diligentemente tutti gli ingredienti, aggiungendo sale se necessario. Formate delle polpette, della grandezza massima di una noce, friggetele in abbondante olio di frantoio ben caldo. Estraendole non appena avranno acquisito una bella colorazione oro bruciato.

 

Polpette di carciofi    

Prendete una decina di carciofi, nettateli per bene e lessateli in acqua salata, quindi dopo averli ben sgocciolati passateli al passa verdure incorporate alla purea due etti di formaggio Gavoi grattugiato, altrettanto pangrattato, tre o quattro uova, una manciatina di prezzemolo tritato, pepe e sale. Amalgamate bene il composto, formate delle polpette, passatele nella farina, poi nell’uovo sbattuto, infine nel pangrattato e friggetele in abbondante olio. Si possono gustare tali ben calde oppure dopo averle passate per una ventina di minuti in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

 

Polpette di melanzane  

In modo analogo alla precedente ricetta, potete preparare delle polpette utilizzando delle melanzane al posto dei carciofi.

 

Polpette di lampascioni

Ad un chilogrammo di lampascioni ben lessati e diligentemente schiacciati, con l’ausilio di una forchetta, amalgamate: quattro-cinque uova, duecento grammi di pangrattato, centocinquanta grammi di pecorino di Gavoi piccante grattugiato, due-tre spicchi d’aglio tritati, prezzemolo tritato e pepe nero macinato al momento. Formate delle polpette, passatele nella farina, poi nell’uovo sbattuto, infine nel pangrattato e friggetele in abbondante olio, estratele quando avranno acquisito una bella colorazione bruno dorata e servitele ben calde.

 

Polpette di baccalà

700-800 grammi di baccalà già ammollato, 250 grammi di mollica di pane, 5 uova, ½ litro di passata di pomodoro, olio extravergine d’oliva, 2-3 spicchi d’aglio, farina 00, pangrattato, prezzemolo, pepe nero,sale.

Lessate il baccalà preventivamente bagnato, sgocciolatelo, spinatelo, spellatelo e tritatelo molto finemente. Unite al baccalà tritato della mollica di pane bagnata nel latte e ben strizzata , tre uova, prezzemolo tritato molto finemente e pepe nero macinato al momento. Formate le polpette, passatele nella farina 00, poi nell’uovo battuto e nel pane grattugiato ed infine friggetele in abbondante olio da frittura sino a quando non avranno acquisito una bella colorazione dorata. Preparate un blando sughetto facendo riscaldare in un filo di ottimo olio extravergine d’oliva gli spicchi d’aglio ed aggiungendo la passata di pomodoro ed un mazzetto di prezzemolo. Dopo averlo fatto cuocere un po’ calate le polpette e allungate con acqua sino a ricoprirle. Qualche minuto di permanenza, da quando inizierà l’ebollizione, in questo sughetto e le potrete servire cosparse di prezzemolo tritato.

 

Polpette di sarde

Ingr. : 1 kg di sarde, 150 g di pangrattato, 100 g di pecorino grattugiato, 3 uova, mezzo bicchiere di latte, 2-3 spicchi d’aglio, prezzemolo, pepe nero, sale.

Squamate, decapitate, eviscerate e diliscate accuratamente le sarde. Risciacquatele, tritatele e unite la polpa ottenuta a tutti gli altri ingredienti. Impastate accuratamente il tutto quindi formate le polpette e friggetele in abbondante olio da frittura bollente. Estraetele dall’olio quando avranno acquisito una bella colorazione dorata tendente al bruno, ponetene a perdere l’unto sopra un foglio di carta assorbente e servitele ancora ben calde.

 

Polpette di grano stompato e sarde

Ingr. : 1 kg di sarde, 200 g di grano perlato, 5-6 uova, 150 g di Gavoi o pecorino locale grattugiato, pangrattato, 2 spicchi d’aglio, 2 pizzichi di maggiorana, 1 pizzico di pepe nero, prezzemolo, sale.

Lessate il grano perlato sino a renderlo sufficientemente tenero, condizione denunciata dalla rottura delle cariossidi stesse, a fine cottura salatelo, scolatelo e lasciatelo raffreddare. Squamate, decapitate e diliscate del sarde che devono essere freschissime e tritatele minutamente su di un tagliere lavorando diligentemente con la lama di un trinciante. Unitele al grano insieme alle uova al formaggio e a tutti gli altri ingrediendi. Formate infine delle polpette della grandezza di una noce, rotolatele nel pangrattato e friggetele in abbondante olio da frittura ben caldo sino a farle acquisire la canonica doratura.

 

Purpette di chinza

Polpette di gattuccio

Il gattuccio, parente stretto del più blasonato palombo, costituisce nelle nostre acque il più piccolo rappresentante della famiglia degli squali. Pesci importanti nella cucina sarda ove sono protagonisti della famosa “burrida”, famoso piatto della cucina cagliaritana, sono invece di interesse marginale in Puglia ove vengono pescati quasi esclusivamente con le reti a strascico, a notevole profondità, e vengono venduti a poco prezzo, generalmente già spellati, operazione indispensabile qualunque debba essere la loro preparazione. Il loro sapore è ottimo ricordando quello della polpa di granchio. Si prestano egregiamente ad essere fritti a tocchetti e rientrano nel novero dei pesci utilizzabili nelle zuppe. Condizione essenziale qualunque debba essere la loro preparazione è che siano pesci freschissimi , essendo le loro carni , come d’altronde anche quelle degli altri squali facilmente deperibili.

Lessate i gattucci preventivamente spellati in acqua regolarmente salata, eliminate loro la colonna vertebrale e spappolate accuratamente le carni con l’ausilio di una forchetta. Per sei- settecento grammi di polpa aggiungete 200 grammi di pangrattato, 80 grammi di formaggio pecorino piccante grattugiato (particolarmente indicato il Gavoi), prezzemolo tritato, pepe nero macinato al momento e quattro o cinque uova, amalgamate il tutto accuratamente, formate le polpette della grandezza di una noce, passatele nella farina e friggetele in buon olio da frittura bollente sino a quando avranno acquisito una invitante colorazione bruno dorata. Possono essere gustate tali, ancora calde e croccanti, oppure dopo averle fatte cuocere per una ventina di minuti in un blando sughetto di pomodoro aromatizzato con aglio e prezzemolo.

 

Polpette di polpo

Ingr. : 800 grammi di polpo, 150 grammi di canestrato pugliese grattugiato, 200 grammi di pangrattato, 4 uova, 1 spicchio d’aglio, la scorza di un limone grattugiata, prezzemolo, pepe nero.

Per questa preparazione sono senz’altro da preferire i grossi polpi poiché il tritato che ne deriva ha una maggiore consistenza ed anche il gusto ne guadagna. Per rendere più agevole l’operazione di tritatura prendete il polpo per la sacca e calatelo e cacciatelo per qualche minuto da una pentola contenente acqua in ebollizione, quindi lasciatelo raffreddare, fatelo a pezzi e procedete a tritarlo con un comune tritacarne, anche manuale, con il quale otterrete un risultato nettamente migliore se alternerete ad ogni pezzo di polpo un pezzetto di pane secco. Amalgamate al polpo tritato il formaggio, le uova, il pangrattato, la scorza di limone, lo spicchio d’aglio e il prezzemolo tritati e un pizzico di pepe nero macinato al momento. A questo punto procedete a formare delle polpette, passatele nella farina, poi nell’uovo sbattuto, infine nel pangrattato e friggetele in abbondate olio da frittura ben caldo. Quando avranno acquisito una bella colorazione dorata ritiratele e ponetele sopra un foglio di carta a perdere l’unto in eccesso. Le polpette di polpo, si possono gustare semplicemente fritte accompagnandole con un’insalata di rucola di campo e pomodorini sia dopo averle passate in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

 

Polpette di caciocavallo

Ingr. : 250 g di caciocavallo stagionato, 200 g di pane raffermo, prezzemolo, 4-5 uova a seconda della grossezza, olio per friggere, poca farina bianca, noce moscata, pepe, sale fino.

Mettete in una terrina il formaggio, il pane grattugiato, una buona presa di prezzemolo tritato, un pizzico di noce moscata e di pepe nero appena macinato, sale q.b. e amalgamate il tutto unendo tre uova.Versate il composto che deve risultare piuttosto sodo, sulla spianatoia infarinata; dividetelo in 2 o 3 parti e tate dei cilindretti grossi quanto un pollice.Tagliateli quindi a pezzi di circa tre centimetri ricavate delle palline e schiacciatele ricavandone delle polpette alte circa 1 centimetro. Passate le polpette nella farina poi nell’uovo battuto con un po’ di sale e friggetele in abbondante olio da frittura ben caldo. Scolatele ben dorate e ponetele man mano su dei fogli di carta assorbente onde perdano l’unto in eccesso. Servitele ben calde.

La Puglia, il Salento, Brindisi e la Grande Guerra. La base area di Brindisi

Ottobre, 25, martedì. Inizio ore 17.30. Accoglienza 17.15 

XI Convegno Nazionale di Studi e Ricerca Storica

La Puglia, il Salento, Brindisi e la Grande Guerra

V sessione. La base area di Brindisi 

Brindisi. Sala Regia del Grande Albergo Internazionale

“Il solo diritto, o piuttosto il solo dovere che ci spetta, è di non perdere mai la consapevolezza della feroce stupidità a cui l’uomo può discendere trattando l’altro uomo come materia di strazio o spettacolo di spasimi, a suo utile o a sua dilettazione”.

Benedetto Croce

banner-grande-guerra

La sezione di Brindisi della  Società di Storia Patria per  la Puglia,  in uno con Rotary Club Brindisi e Società Storica di Terra d’Otranto, con l’adesione e la collaborazione di Assoarma Brindisi, ha organizzato un ciclo d’incontri sul tema: “Brindisi e  la Grande Guerra “. L’itinerario di studi è suddiviso in tre panels: politico, militare e di relazioni internazionali. Dopo l’incontro introduttivo dello scorso 15 ottobre 2014 è seguito l’altro del 13 maggio 2015 in cui si è proposto di ripensare, in maniera critica,  il periodo della neutralità italiana, ricollocandolo a pieno titolo nella storia della prima guerra mondiale e esaminando i vari aspetti che caratterizzarono l’Italia dalla dichiarazione di neutralità all’intervento in guerra. Il 22 settembre 2015 sono state ricostruite le cause che portarono all’affondamento, nel porto di Brindisi, della corazzata “Benedetto Brin” il 27 settembre 1915.

Il I aprile 2016 il focus è stato rivolto alla grande operazione di salvataggio dell’esercito serbo, trasferito dai porti albanesi a Brindisi. Molteplici i riferimenti: al sistema politico italiano, con particolare riferimento a vertici istituzionali, forze parlamentari e politiche, correnti d’opinione, stampa e associazionismo; alla situazione delle forze armate italiane alla vigilia del conflitto, preparazione militare, mobilitazione industriale, esercito e opinione pubblica; alla neutralità italiana e al peso del suo intervento militare nel sistema delle alleanze e nella considerazione delle principali potenze belligeranti. Particolarissimo interesse ha, per quel che concerne Brindisi, la complessiva strategia navale italiana; il ruolo del porto si configura quale essenziale nel momento in cui l’Italia, scendendo in guerra a fianco dell’Intesa, deve affrontare il pericolo costituito dalla flotta austroungarica, alla fonda nei sicuri porti adriatici della sponda balcanica.

Un capitolo poco noto è quello riferito alla guerra aerea che ebbe in Brindisi un riferimento essenziale. L’esercito italiano iniziò il conflitto con una sessantina di aeroplani, quasi tutti di tipo antiquato e di costruzione francese, o realizzati su licenza, e tre dirigibili La marina, che si era dotata di una componente aerea nel 1913, aveva in linea quindici idrovolanti e due dirigibiliL’aviazione austro-ungarica aveva una settantina di aeroplani con caratteristiche tecniche avanzate. I compiti iniziali furono ricognizione a vista e fotografica su prime linee e  retrovie, oltre all’osservazione e all’aggiustamento del tiro d’artiglieria.

Lo sviluppo della tecnica aeronautica durante la guerra ebbe immense ripercussioni in campo civile negli anni venti. Le fabbriche, nella loro riconversione all’economia civile, non dimenticarono le innovazioni ottenute per scopi bellici e le modificarono per adeguarle a un impiego pacifico. In questo modo l’aviazione civile si affermò sia nel trasporto passeggeri sia in quello merci.

 

Indirizzi di saluto

Salvatore Munafò

Presidente Rotary Club, Brindisi

 

Domenico Urgesi

Presidente della Società Storica di Terra d’Otranto

 

Interventi

Giuseppe Genghi

Presidente AssoArma Brindisi

Esame dei rapporti di volo scritti dai piloti della Stazione Aeronautica di Brindisi al rientro da una missione di guerra

 

Giuseppe Teodoro Andriani

Società di Storia Patria per la Puglia

La Stazione Aeronautica di Brindisi nella Prima Guerra Mondiale

 

Conclusioni

Giacomo Carito

Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia

 

Coordina e introduce i lavori

Antonio Mario Caputo

Società di Storia Patria per la Puglia

 

Organizzazione

Rotary Club – Brindisi

Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Brindisi

Società Storica di Terra d’Otranto

Adesioni

AssoArma, Brindisi

 

Partner:    Prefettura di Brindisi; Marina Militare Italiana (Brigata Marina San Marco); Archivio di Stato, Brindisi.

Sponsor: Grande Albergo Internazionale, Brindisi

 

A questa intrapresa culturale la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha concesso, in data 13.3.2015, l’uso del logo ufficiale del Centenario della Prima Guerra Mondiale;   le manifestazioni sono comprese nel calendario ufficiale pubblicato in http://eventi.centenario1914-1918.it/it/evento/brindisi-e-la-grande-guerra-dalla-neutralita-allintervento e   rientrano  nel calendario concordato con la Prefettura di Brindisi.

Notizie inedite su Matteo Tafuri (1492-1584). Nuove rivelazioni da un manoscritto seicentesco

M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola. Proprietà L. Galante
M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola.
Proprietà L. Galante

 

di Luigi Galante*

In una pagina famosa della sua Galatina letterata, pubblicata nel 1709, Alessandro Tommaso Arcudi dà una notizia, e tutti la ricordiamo, su Matteo Tafuri; ed è una notizia tanto celebre, quanto, come sempre per il Tafuri, controversa. Cosa scrive Arcudi? Egli ricorda “Conservavasi nella mia casa (degli Arcudi) la sua (di Gio. Tommaso Cavazza) Calvarie; insieme con quella del tanto nominato, e famoso al mondo Matteo Tafuro di Soleto, ma nell’anno 1672 a tempo ch’io facevo l’anno del noviziato, la vedova mia madre per alcuni timori e scrupoli feminili, fecele ambedue secretamente gettare nel publico cimiterio: non sapendo di che grand’uomini erano quelle, e di che bella memoria alla nostra casa”[1].

Molti studiosi si sono interrogati sul significato di questa ambigua parola: ‘calvarie’, perché quello che sembra il significato del termine più vicino al tempo in cui Arcudi viveva è indubbiamente ‘teschio’. Però certamente è sempre sembrato in qualche modo preoccupante che in una casa privata si conservassero dei teschi anche se appartenuti ad uomini illustri del passato; senza poi voler considerare la difficile compatibilità di questa conservazione con le regole della religione cattolica della quale Arcudi, dotto domenicano, era severo custode. Sicché è del tutto comprensibile che alcuni studiosi abbiano interpretato la parola ‘calvarie’ in modo diverso, ed abbiano sostenuto, non senza argomentazioni e riscontri, che il significato reale intendesse alludere invece a studi o scritti. Questa è stata l’opinione di esperti accreditati del mondo tafuriano e, a tacere di altri, ricordo il compianto Prof. Giovanni Papuli e la sua allieva Luana Rizzo[2]. Soltanto Luigi Manni, tra gli studiosi recenti, ha sostenuto con forte determinazione che per ‘calvarie’ non poteva che intendersi il teschio.[3]

Come stanno davvero le cose? Ancora una volta il dilemma è svelato da una inedita pagina del Galatinese Pietro Cavoti (1819/1890) che ci dà,oltre a questa rivelazione, una serie di sconosciuti particolari sulla sepoltura del Tafuri e, incredibile a dirsi, anche sulle vicende successive delle sue spoglie mortali. Facciamogli allora comunicare le notizie preziose che egli nelle sue peregrinazioni per la provincia, lesse in un antico manoscritto della famiglia Carrozzini, che oggi è probabilmente perduto, ma che nel 1884 si conservava a Soleto presso il canonico Giuseppe Manca il quale lo mise cortesemente a disposizione del Cavoti.

Ricordo dei fatti storici di Soleto da un manoscritto della Fam. Carrozzini. Matteo Tafuro morì il dì 18 novembre 1584, fu seppellito nella cappella di S. Lorenzo delli Tafuri a mano destra sotto l’immagine della Madonna con Nostro Signore. Furono tolte le ossa del filosofo di Soleto per volontà della Famiglia Carrozzini e deposte nel Monastero di S. Nicola in Soleto dentro una cassetta di legno con l’arme dei Tafuro. Vollero donare il teschio di questo insigne, alla famiglia Arcudi di Galatina. Alcuni frammenti dei suoi abiti consumati dal tempo e dai vermi, conservansi come reliquie da questa onorabile famiglia Carrozzini di Soleto. Notizie avute dal canonico Manca di Soleto. Conservasi detto manoscritto in casa sua. Mi mostrò il manoscritto per una mia visita il dì 26 ottobre 1884 per l’acquisto di alcune monete antiche trovate nell’agro di Soleto[4].

L’inclinazione del Manca a collezionare ed acquistare monete antiche, è confermata da una lettera dell’anno successivo, che il canonico scrive a Cavoti:  “Mio amatissimo Pietro. Ho visto le nove monete; pare appartengono al numero delle sessantatrè trovate qui. Sono greche e buone.… Se per vostro conto volete farne l’acquisto di qualcuna, preferite quella di Velia, cioè l’unica in cui si trovansi un leone, oppure qualcuna di Napoli scegliendola tra quelle che portano il bue a faccia umana barbato, le altre scartatele tutte, ma cercate di dar la preferenza a quella di Velia, che potreste pagarla £ 1:50 non più. Qui si son trovate molte altre, e nell’istesso luogo; basta ne parleremo. Vostro affezionatissimo amico e sempre Giuseppe canonico Manca[5].

Insomma, grazie al cimelio che Pietro Cavoti ci ha consegnato, e che è una ennesima riprova di quanto prezioso sia lo studio delle sue carte superstiti nel Museo galatinese, possiamo oggi dire non solo che Luigi Manni ha avuto, a sua tempo, la giusta intuizione, ma possiamo anche conoscere con esattezza il luogo della sepoltura originaria del Tafuri ; (cioè nella chiesa S. di Lorenzo dei Tafuri, e successivamente in S Nicola, oggi scomparse) e così combinando queste notizie con quelle di Arcudi , possiamo anche definire il destino finale del teschio tafuriano. C’è poi tra le cose da notare una data di morte: quella del 18 novembre 1584, che è a me pare, perfettamente bencredibile, perché contraddice, è vero, quella tradizionale divulgata da Girolamo Marciano (al 13 giugno 1582), ma è perfettamente compatibile con i dubbi di quanti hanno notato che nelle opere di Gian Michele Marziano (1583) e di Francesco Scarpa (1584), il Tafuri sembra essere considerato vivente[6].

Non mi parrebbe completo chiudere questo articolo, se non ricordassi anche il contributo iconografico importantissimo che Cavoti ha dato alla scuola tafuriana, non solo copiando da vari luoghi, e conservando per noi le immagini che io ho edito di Matteo Tafuri, ma anche quelle, sempre edite da me, di Sergio Stiso, suo predecessore, e dei suoi allievi, Cavazza, Scarpa e forse Lorenzo Mongiò. Perciò mi pare opportuno pubblicare qui due immagini cavotiane di altri due uomini legati forse al mondo tafuriano, e cioè quella di Giovan Paolo Vernaleone junior e di Stefano Corimba.

Infine aggiungo a complemento del ritratto molto importante del Galateo che ho pubblicato mesi fa insieme a quelli del Galatino,[7] anche il disegno cavotiano di un famoso amico galatinese del Galateo, Girolamo Ingenuo, che Cavoti copiò in casa della famiglia Tanza, da un originale che tutto lascia supporre essere perduto. Ma nelle carte cavotiane c’è di più: un ritratto di G.B. del Tufo8, che è poi il destinatario del famoso pronostico tafuriano che attende ancora di essere edito.

 

[1] A. T. Arcudi, Galatina Letterata (ristampa anastatica), Aradeo, 1993, pag. 49

[2] L. Rizzo, Umanesimo e rinascimento in terra d’Otranto: il platonismo di Matteo Tafuri, Galatina, 2000, pag 121

[3] L. Manni, La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP, pag 113

[4] Il documento cavotiano è conservato presso il Museo Civico di Galatina, come tutti i ritratti riportati in queste pagine, comprese quelle nel saggio del Prof. G. Vallone, eccetto l’immagine tratta dal ms. Vat. lat. 6046. Essi sono di esclusiva proprietà del Comune di Galatina-Museo Cavoti. Per la riproduzione parziale o integrale delle immagini qui riprodotte, è vietata qualunque riproduzione senza autorizzazione scritta al Comune di Galatina, nonchè la richiesta di citazione dell’autore. Ringrazio l’Assessore alla Cultura di Galatina Prof.ssa Daniela Vantaggiato, che mi ha autorizzato alla pubblicazione.

[5] Lettera scritta dal canonico Manca di Soleto al Cavoti l’8 ottobre 1885. Cfr. L. Galante, Pietro Cavoti. I tesori ritrovati, , Galatina, 2007, EdiPan, pag. 76.

[6] G. Vallone, Restauri Salentini, in BSTO, Galatina, 1-1991 nota 14, pag. 155.

[7] L. Galante, Iconografia del Galatino, in Studi Salentini, LXXXV/2009-2010, pp. 75-88.

8  “Per un approfondimento sulla famiglia del Tufo vedi, L.  Manni La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP,”

 

Pubblicato su “Il Filo di Aracne”.

Non essendo in possesso di autorizzazioni alla pubblicazione non abbiamo potuto riproporre le tavole citate nel testo

Viaggio nel Salento. Le torri costiere

torre-colimena
Torre Colimena

 

di Mauro De Sica*

Per la sua posizione geografica strategicamente importante, il Salento è stato da sempre considerato la principale porta verso l’Oriente e dall’Oriente. Infatti, nel corso dei secoli, il territorio salentino è stato terra di transito per l’Italia settentrionale e l’Europa, ma anche viceversa. Non si dimentichi che alcuni contingenti delle varie crociate partivano dai porti di Brindisi e Otranto.

Il continuo flusso di genti non si è mai interrotto, prova ne sia che dal 1992 sino a primi anni del 2000 i salentini hanno assistito, quasi impotenti, a sbarchi considerevoli di albanesi in cerca di lavoro. Oggi quel flusso di migranti, come tutti sanno, si è spostato a Lampedusa, Siracusa, Crotone ed altre località meridionali.

Va anche ricordato che il Salento ha subito nel corso dei secoli numerose invasioni e scorrerie da parte di pirati albanesi, turchi, saraceni, mori ecc.,che saccheggiavano le popolazioni rivierasche (soprattutto nel basso Adriatico), portando via monili d’oro e d’argento, preziosi arredi e quant’altro avesse un certo valore.Venivano catturati giovani aitanti per essere venduti come schiavi nei mercati orientali o anche destinati al “remo” delle galee. Nel caso in cui i rapiti appartenessero a famiglie facoltose, per il loro riscatto era richiesta una consistente somma di denaro.

Per ovviare alle continue scorribande, molte popolazioni preferirono abbandonare i villaggi costieri e rifugiarsi nell’entroterra a 5-6 chilometri di distanza dal mare, dove un attacco saraceno sarebbe stato meno probabile. Ovviamente i sovrani delle varie epoche, allarmati dalla grave situazione, tentarono in ogni modo di arginare il fenomeno piratesco, ergendo rudimentali costruzioni di avvistamento, poste in luoghi sopraelevati rispetto alle marine, per segnalare con fuochi, fumi o suoni acuti l’imminente pericolo. Le costruzioni erano situate a non molta distanza tra di loro per consentire in breve tempo la comunicazione visiva o acustica dell’avvistamento di imbarcazioni piratesche. I primi ad edificare costruzioni di riparo e di sorveglianza furono i Romani, senza però ottenere grandi risultati. Anche durante la dominazione bizantina, normanna, sveva, angioina e aragonese furono costruite diverse torri, prevalentemente a pianta quadrata, con basamento a scarpa e terrazza sommitale demarcata da merlature con delle feritoie sulle pareti.

torre-squillace2
Torre Squillace

 

L’organizzazione difensiva di queste costruzioni si dimostrò spesse volte inadeguata nei confronti delle incursioni di pirati, che erano diventati un vero incubo per le popolazioni salentine rivierasche.

All’inizio del XVI secolo le torri assunsero una forma generalmente a pianta circolare, con basamento a scarpa e con l’ingresso sopraelevato, accessibile mediante una rampa di scale munita di ponte levatoio. Questo sistema, molto più sicuro dei precedenti, garantiva una certa protezione al personale che vi abitava.

torre_puntapenne-2
Torre Puntapenne – Brindisi

Grazie alle tante nuove costruzioni e grazie agli espropri delle torri private, fu finalmente ultimata la lunga catena di torri costiere nel basso Adriatico e nello Ionio salentino. La guarnigione di ciascuna torre fu affidata a militari spagnoli, molto esperti in materia di avvistamenti e di resistenza ai saccheggi.

Alla fine del ’500 in tutto il Regno di Napoli si contavano ben 400 torri, rispettivamente disposte a distanza variabile dai due ai cinque chilometri e distribuite con adeguati criteri logistici lungo la costa.

Nel Salento troviamo circa 80 tra torri di avvistamento e fortini costieri, alcuni dei quali sono giunti quasi intatti sino ai giorni nostri, molti altri invece non sono riusciti a sopravvivere al tempo e all’incuria dell’uomo, altri ancora sono addirittura scomparsi. Va comunque osservato che il disfacimento di alcune torri è da attribuire soprattutto alla trascuratezza delle varie municipalità d’appartenenza, le quali, oltre ad utilizzare materiali di scarsa qualità nella loro costruzione, non provvedevano ad eseguire i periodici lavori di manutenzione e di consolidamento. Come dire che, anche a quelle epoche, la corruzione nella realizzazione e nella gestione di importanti opere pubbliche era viva e si faceva sentire.

torre suda
Torre Suda
  • pubblicato su “Il Filo di Aracne”

Salento a tavola. Polpette e polpettoni

di Massimo  Vaglio

Per una polpettata per sei persone occorrono 700 grammi di carne di manzo macinata due volte, 200 grammi di mollica di pane raffermo, una manciatina di prezzemolo tritato, 150 grammi di pecorino sardo tipo Gavoi*, oppure, a seconda dei gusti, 150 grammi di pecorino locale stagionato o 200 grammi di parmigiano grattugiato 4-5 uova, sale e pepe nero macinato al momento.

Ammollate bene la mollica, strizzatela e mescolatela alla carne macinata in una capace terrina, aggiungete il prezzemolo, il formaggio, il sale, il pepe e le uova. Impastate amalgamando bene il tutto, ricavate tante piccole porzioni quanto più omogenee possibile; e sagomatele arrotondandole con le palme delle mani quindi friggetele un po’ alla volta in una padella con abbondante olio di frantoio. Appena avranno superato il colore dorato, divenendo quasi brune, toglietele dalla padella e mettetele su della carta assorbente. Si possono consumare tali, oppure dopo averle passate in una salsa di pomodoro molto diluita a base di cipolla e fatte sobbollire una decina di minuti; in questo modo acquisiscono un sapore eccellente e lo conferiscono anche al sugo che può essere utilizzato per condire maccheroni fatti in casa che si servono incoronati delle stesse polpette e innevati di formaggio.

Per l’impasto dei polpettoni procedete nello stesso modo, dopodiché dividete il composto in sei porzioni, foggiate i polpettoni nella forma caratteristica e riempiteli a piacere di uova sode a fettine, mortadella di Bologna e caciocavallo, oppure di salame di Mugnano e caciocavallo o mozzarella. Friggeteli sino a color bruno, passateli in salsa di pomodoro e serviteli ben caldi.

 

*in molte ricette di cucina salentina, anzi come caratterizzante di molte ricette salentine rientra, il cosiddetto formaggio Gavoi, (dall’omonima cittadina del Nuorese), si tratta di una particolare tipologia di Fiore Sardo prodotto, secondo un particolare protocollo, pressoché esclusivamente per il mercato salentino, ove da tempo immemorabile, viene esportato, tanto che in Sardegna, risulterà persino molto difficile reperirlo. Prodotto con latte di ovino nella zona del Nuorese, Si presenta in forme di circa quattro chili dalla particolare forma a scalzo tondeggiante. Crosta nero antracite non edibile. Pasta dura bianca, con occhiatura minuta, rada o quasi assente, sapore caratteristicamente aromatico più o meno piccante a seconda della stagionatura Dal gusto inconfondibile, viene apprezzato soprattutto per il suo aroma molto intenso e particolarissimo.

Salento: niente futuro, ma tanti avverbi di tempo …

di Armando Polito

Qualche settimana fa (per la storia il 19 settembre) l’amico Massimo Vaglio in un post sul suo profilo Facebook così scriveva:  Crai, puscrai, puscriddhri, puscriddhrinu, puscriddhrozzi; niente male per un dialetto (quello di Nardò) che non coniuga i verbi al futuro!!!

E, probabilmente a causa di un commento che esprimeva, se non incredulità, meraviglia, il buon Massimo ha ritenuto opportuno documentare anche il passato con ieri, nusterza e nustirzignu.

Cominciamo dal futuro, ignoto, come ci ricorda Massimo, alla nostra coniugazione e il cui concetto è affidato all’avverbio temporale che accompagna il presente (crai parlu: alla lettera domani parlo). Su tale assenza rinvio il lettore al post di Gianni Ferraris in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/02/in-salento-manca-il-futuro/, dove, fra l’altro, nel mio commento il lettore troverà un sinteticissimo tentativo di interpretazione antropologica (!) di tale fenomeno.

In un commento al post di Massimo un lettore (si dice il peccato, non il nome del peccatore …) mi chiamava in causa per un eventuale approfondimento. Ho già iniziato qui ed al già detto aggiungo solo note etimologiche, che, poi, credo fossero quelle richiestemi.

crai: dal latino cras (=domani). La i finale probabilmente è dovuta ad analogia con mai, che è dal latino magis. Da Cras in latino è derivato l’aggettivo cràstinus/a/um =del giorno dopo, da cui l’italiano letterario cràstino (Dante, Paradiso. XX, 54: fa crastino  là giù de l’odïerno) e il derivato composto verbale procrastinare.

puscrai: da pus– (dal latino post=dopo)+crai. Corrisponde all’italiano posdomani o dopodomani.

puscriddhi: da post+cras+illud, alla lettera dopo domani quello (altro). L’taliano è costretto ad usare tre parole (fra due giorni), per cui vien da dire che il salentino, almeno in questo, fa concorrenza all’inglese …

puscriddhignu: da puscriddhi+il suffisso anche e soprattutto psicologicamente attenuativo (come in asprigno rispetto ad aspro), perché la scadenza diventa meno impellente (tant’è che è pià facile dimenticarsene …). In italiano si continua con l’espediente precedente e si dice fra tre giorni.

puscriddhuzzi: da puscriddhi+un suffisso diminutivo (come in italiano animale>animaluccio) con effetto attenuativo ancora più spinto di quello della voce precedente.

Non si deve pensare, tuttavia, che crai e puscrai siano esclusivi del nostro dialetto, perché crai è attestato non solo in parecchi poeti anonimi appartenenti alla scuola siciliana (XII-XIII), ma anche in altri autori delle origini appartenenti ad ambito fiorentino: Guittone d’Arezzo (XIII secolo): ma no lasciava già per ciò lo  crai; Jacopone da Todi (XIII-XIV secolo): attènnite a noi,ché ‘l farim crai.

Una serie quasi completa come quella salentina compare in Luigi Pulci (XV secolo), Morgante,  XXVII, 55, 4:  crai e poscrai e poscrigno e  posquacchera, in cui poscrigno e posquacchera sembrano formazioni legate al carattere giocoso dell’opera.

Passo ora agli avverbi del passato, soprassedendo su ieri che ha la stessa etimologia della voce italiana: dal latino heri, non senza aggiungere (e meno male che dovevo soprassedere! …), anche se non rientra nella dimensione temporale qui trattata, che anche osce (come il corrispondente italiano oggi) è dal latino hodie (a sua volta da hoc die=in questo giorno).

nusterza: dal latino nudius (=è ora il giorno, a sua volta composto da nunc=ora+dius per dies=giorno)+tertia=terza (dies in latino può essere maschile o femminile; qui è femminile, percio tertia, a differenza del latino classico dove è maschile e la locuzione è nudius tertius). In italiano alla lettera, contando anche il giorno di partenza com’era la regola per i latini, il tutto va tradotto ora (è) il terzo giorno. Tale significato letterale,però, non si adatta all’uso corrente di misurare il tempo, per cui nusterza è, partendo da ieri e non da oggi e procedendo a ritroso,  non il terzo ma il secondo giorno e corrisponde all’italiano  l’altro ieri o ier l’altro o due giorni fa.

nustirzignu: da nusterza+il suffisso di cui sì è detto a proposito di puscriddignu. Corrisponde,perciò, a tre giorni fa.

Mi auguro che  il niente futuro del titolo si riduca solo al campo grammaticale, senza l’intervento (non in questo campo nel quale annegherebbero miseramente …) di personaggi come Flavio Briatore, perché il suo futuro futuro  non vale una cicca, secondo me, del nostro attuale niente futuro. Pure il suo nome anagrammato dà questo responso, che per essere capito non ha bisogno dell’intervento della Sibilla: Oliveti? Farò bar!

Lecce, piazza S. Oronzo in un disegno della fine del XVIII secolo

di Armando Polito

A chi, come me, è un cibernauta incallito sarà tante volte capitato di sentire il bisogno di rilassarsi, prima di spegnere il pc, concludendo una sessione di lavoro (io lo chiamo così, anche se non mi fa guadagnare un centesimo), caratterizzata da una ricerca in rete mirata (anche se spesso ravvivata proficuamente dalla scelta di parole-chiave a prima vista destinate all’insuccesso), con un’ultima disordinata scorreria dando in pasto al motore di ricerca la prima parola che viene in mente. Succede pure che in questa situazione ci si imbatta in qualcosa di interessante e che, data la stanchezza, si spenga il pc prima di annotare il prezioso link. Niente di drammatico se prima di togliere gli alimenti giornalieri al nostro prezioso strumento non abbiamo avuto l’infelice idea di purgarlo eliminando la cronologia. Fortunatamente questo non è successo con l’immagine di testa, un disegno  custodito nel Museo nazionale di Svezia, dal cui sito (http://emp-web-22.zetcom.ch/eMuseumPlus?service=ExternalInterface&module=collection&objectId=47787&) l’ho tratta. Grazie alle informazioni contenute nella scheda ho appreso che l’autore non è Pinco Pallino e nemmeno Pallone Gonfiato, ma, nientepopodimeno, il grande Jean Louis Desprez (1743-1804). La stessa scheda mi fa sapere che del disegno si è occupato Nils G. Wollin in Desprez en Italie, dessins topographiques et d’architecture, décors de théâtre et compositions romantiques, exécutés 1777-1784, J. Kroon. Malmö, 1935, fig. 68. Purtroppo l’OPAC mi segnala che il libro è consultabile solo nella Biblioteca comunale centrale di Milano e nella Biblioteca nazionale di S. Luca a Roma. Ho detto peccato, perché, consultandolo,  avremmo avuto non solo la certezza che non si tratta di una semplice attribuzione ma, probabilmente, qualche dato in più. Com’è noto i disegni del Desprez vennero utilizzati da Jean-Claude Richard de Saint-Non (1727-1791) per le tavole del suo Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de SIcilie, Clousier, Parigi, 1781-1786. Tuttavia nella parte del terzo tomo dedicata alla Terra d’Otranto sono presenti  tavole dedicate a Gallipoli (una), Manduria (una), Soleto (una), Squinzano (una) Maglie (una), Taranto (due) e Brindisi (due). Per Lecce compare solo una tavola raffigurante il chiostro dei Domenicani e solo quelle di Gallipoli, Soleto (Soletta nella didascalia) e Squinzano recano come nome del disegnatore quello del Desprez.  Non so quanto il saggio di Wollin aiuti ad individuare o ad intuire i motivi che spinsero il Saint-Non a non utilizzare il disegno del Desprez. Ammettendo che lo conoscesse, una ragione del mancato utilizzo potrebbe risiedere nella difficoltà di trasferirlo sul rame a causa della sua densità, soprattutto nella parte inferiore, rispetto al disegno del soggetto prima citato, cui fu affidato il compito di rappresentare Lecce. E questo spiegherebbe l’assenza, a quanto ne so, di stampe derivate. Piazza S. Oronzo, comunque, dopo il disegno del Desprez, che molto probabilmente ne costituisce la rappresentazione più antica1, ebbe occasione di rifarsi ampiamente nel secolo successivo, come si può vedere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/04/lecce-plagiata/.

_____________

1 Nella seconda parte Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, opera di  Giovanni Battista Pacichelli (1541-1695), uscita postuma per i tipi di Parrino a Napoli nel 1703,  tra le pp. 176 e 177 reca inserita la veduta di Lecce che di seguito riproduco e dalla quale ho tratto il successivo dettaglio della piazza, che non presenta, a parte la diversa cura rappresentativa dei particolari (dovuta, secondo me, non solo al minor spazio a disposizione ma soprattutto  ad una stereotipa simbologia delle fabbriche), sostanziali differenze rispetto al disegno del Desprez, posteriore di più di settanta anni.

 

Per la descrizione pacichelliana di Lecce e di Piazza S. Oronzo in particolare vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

Salento a tavola. “Li spicaluri” (i Sugarelli)

spicaluru

di Massimo Vaglio

I sugarelli (Trachurus spp.) sono pesci marini pelagici della famiglia dei Carangidi, ottimi nuotatori popolano la colonna d’acqua alle più varie profondità. Nel Mediterraneo, come nelle acque del Salento vivono tre diverse specie: Trachurus trachurus, Tracurus mediterraneus e Trachurus picturatus, tutte tre le specie sono molto simili tra di loro per cui distinguibili solo da veri esperti, peraltro hanno in comune tutte le caratteristiche più salienti, ossia: il corpo affusolato di colore blu verdognolo sul dorso, fianchi argentei con riflessi giallo iridescenti che sfumano verso il bianco nella zona ventrale, scaglie piccolissime e lungo i fianchi presentano una linea laterale dotata di caratteristici scudetti cornei, una peculiarità che rende questi pesci inconfondibili. Il muso è appuntito, con mascelle prominenti e la bocca è larga con gli angoli rivolti verso il basso. Gli occhi sono piuttosto grandi e dotati di palpebre trasparenti. Tutte le tre specie presentano inoltre una piccola macchia nera in corrispondenza dell’opercolo.

La lunghezza massima si aggira intorno ai 40-50 centimetri. I giovani esemplari recano una colorazione grigio argentato con riflessi verdognoli. Molto comuni nel Mar Mediterraneo, si trovano pure nell’Oceano Atlantico nord-orientale dall’Islanda al Senegal, comprese le isole del Capo Verde, mentre loro presenza è più limitata nel Mar Nero. Sono state censite due popolazioni principali, una nel Mare del Nord e un’altra nell’Atlantico orientale al largo del Portogallo che viene attivamente insidiata dalla locale flotta peschereccia soprattutto per la produzione di farina di pesce.

Come tutti i pesci azzurri, hanno abitudini prettamente gregarie, e si riuniscono in grandi banchi nelle acque costiere, dove si nutrono di crostacei, cefalopodi e piccoli pesci. I giovanissimi esemplari, si riuniscono in branchi sotto l’ombrello di grosse meduse, soprattutto della bellissima Rhizostoma pulmo, sotto il quale trovano riparo e protezione senza subire alcun danno, in quanto immuni dal veleno dei suoi organi urticanti.

Nelle acque profonde dei mari del Salento questi pesci vengono abbondantemente catturati con le reti a strascico per tutto l’arco dell’anno, anche se soprattutto in primavera la loro presenza diviene molto consistente anche nelle acque costiere dove divengono preda di vari sistemi di pesca, da quella notturna praticata dalle cosiddette “lampare” con il cosiddetto cianciolo, a quella con le lenze praticata dai numerosissimi pescatori dilettanti locali.

Dal punto di vista gastronomico, il sugarello che nel Salento viene appellato spicaluru o traulu, in linea con quanto avviene nel resto d’Italia è molto sottovalutato. Infatti, a dispetto della bassa quotazione commerciale, le sue carni sono magre, saporite e dall’elevato valore nutrizionale per il contenuto di proteine di elevato valore biologico, ove il contenuto degli acidi grassi omega-3 è prevalente rispetto agli altri acidi grassi. Inoltre, circostanza assolutamente non trascurabile, sono certamente fra le più delicate e digeribili fra quelle della maggior parte degli altri pesci azzurri.

Infatti, a differenza dello sgombro e del lanzardo che risultano indigesti ai più, i sugarelli previa una semplice lessatura possono essere consumati anche da anziani e bambini. Si tratta di pesci molto versatili che si prestano alle preparazioni più disparate, ottime anche alla griglia, al forno, al cartoccio e in umido mentre in passato, soprattutto a Castro, gli esemplari più piccoli chiamati zazarieddhri, venivano persino conservati sotto sale alla stregua delle sarde. Ultimamente in occasione di incontri con i pescatori di diverse marinerie del Salento mi era stata segnalata la comparsa di un’insolita specie ittica, una cosiddetta specie aliena ritenuta dagli stessa una sorta di ibrido tra il sugarello e la ricciola. La cosa mi ha intrigato e non poco, quando finalmente ho avuto modo di trovare e di acquistare alcuni di questi pesci, presso il mercato ittico di Taranto, appena sbarcati da un peschereccio praticante la pesca a strascico. Nello stesso mercato mi venne riferito che da qualche mese la cattura di questa specie era più o meno costante. Il pesce in questione, era chiaramente un carangide e mi è bastato compiere una piccola ricerca per verificare che, come sospettavo non era un ibrido, bensì una specie ben definita, presente in alcune aree del Mediterraneo anche se molto rara e che risponde al nome di carango mediterraneo ossia Caranx crysos.

A conferma della rarità, si conosce una sola denominazione dialettale: “sauru ‘mpiriale”, attribuita a questo pesce a Messina, dove la cattura di questa specie è stata comunque sempre piuttosto sporadica. Questo carangide, si distingue dal sugarello per avere il corpo più alto, più arcuato dorsalmente, più compresso lateralmente e coperto di squame piccolissime. Sui fianchi presenta sempre degli scudetti ossei, ma molto più piccoli. La pinna caudale è forcuta con i lobi acuti.  Le pinne pettorali sono falcate ed acuminate e la colorazione è grigio verde con iridescenze dorate sul dorso e  bianco argenteo sui fianchi. Sull’opercolo superiore presenta una piccola macchia nerastra. In Italia, sino agli attuali sconfinamenti questa specie veniva segnalata seppure come accidentale solo a Palermo, Messina, Napoli e Genova. Comunque, il suo arrivo nelle acque salentine, salvo essere una preoccupante conferma di un incalzante riscaldamento climatico, è positiva dal punto di vista gastronomico, in quanto, a differenza di tante altre specie aliene di incerta qualità organolettica il carango mediterraneo ha carni a dir poco squisite.

Sugarelli con le olive

Ingr. : un chilo e mezzo di sugarelli, 250 grammi di olive verdi snocciolate, vino bianco secco, olio di frantoio, aglio, origano, prezzemolo, sale.

Squamate ed eviscerate dei sugarelli di 3-400 grammi cadauno, ponete nel ventre di ognuno qualche rametto di prezzemolo e qualche lamella di aglio, allineateli in una teglia con un filo d’olio sul fondo, unite le olive snocciolate, versate un bicchiere di vino bianco secco, cospargeteli con origano e sale eponeteli nel forno riscaldato a 190 °C sino a cottura:

Sformato di sugarelli e patate

Squamate, eviscerate, risciacquate, rimuovete gli scudetti e sfilettate dei sugarelli freschissimi. Preparate un composto aromatico unendo a del pangrattato, formaggio semipiccante grattugiato, un trito di origano, prezzemolo ed aglio, pepe nero e sale. Ungete una teglia di ottimo olio di frantoio; sistematevi uno strato di patate tagliate a fettine; sistemate sopra a queste un leggero strato di pomodorini affettati; i filetti di pesce e cospargete il tutto con il composto aromatico. Spruzzate la superficie con acqua, irroratela con dell’altro olio e ponete in forno a 180°C per una quindicina di minuti e comunque sino a quando la superficie si presenterà di un’invitante colorazione dorata.

 

Sugarelli al cartoccio

Squamate ed eviscerate dei sugarelli da porzione, adagiatene ognuno su di un foglio di alluminio insieme a tre-quattro cozze, cospargete il tutto con un filo d’olio di frantoio, unite una presina di pomodorini maturi triturati, un pizzico di origano fresco, uno di prezzemolo tritato, uno di sale, e uno di pepe nero macinato al momento. Infine spruzzate blandamente di vino bianco secco, richiudete i fogli in modo da formare dei cartocci ben sigillati, poneteli su di una placca da forno e infornateli a 200 °C per una ventina di minuti. Servite i cartocci in tavola, ancora chiusi.

Sugarelli in umido

Pulite, nel modo descritto nella ricetta precedente, quattro-cinque sugarelli freschissimi del peso complessivo di un chilo e mezzo. Preparate un trito con una cipolla di media grandezza, una costa di sedano, due – tre spicchi d’aglio, un ciuffetto di prezzemolo, un peperoncino e fatelo soffriggere in mezzo bicchiere di ottimo olio di frantoio. Quando il trito avrà preso colore aggiungete 500 grammi di pomodori freschi tagliuzzati o se preferite l’equivalente di pelati triturati, un paio di bicchieri d’acqua, portate ad ebollizione, aggiustate di sale, unite il pesce, lasciate cuocere per una ventina di minuti e servite ben caldo.

Sugarelli in padella

Squamate, eviscerate e allineate in un’ampia padella dei sugarelli di medie dimensioni, versatevi mezzo bicchiere di olio, un bicchiere di aceto bianco di vino, cospargete di sale e pepe nero e ponete la padella coperta sul fuoco. Fate cuocere a fiamma allegra sino alla completa evaporazione dell’aceto, avendo cura di girare il pesce almeno una volta.

Sugo di sugarello

Ingr. : 2-3 sugarelli per complessivi 6-700 grammi, una melanzana, 250 grammi di pomodori rossi o pelati, mezzo bicchiere di vino bianco secco, 2 spicchi d’aglio, olio di frantoio, prezzemolo, menta, peperoncino, sale.

Squamate, eviscerate, lavate, rimuovete gli scudetti e sfilettate i sugarelli. Tagliate i filetti a trancetti. Friggete la melanzana tagliata a dadini, e quando questi saranno ben dorati toglieteli e poneteli a cedere l’unto su di un foglio di carta assorbente. Versate in una padella un filo d’olio e fate imbiondire leggermente gli spicchi d’aglio, eliminateli e unite i trancetti di pesce, rosolateli, sfumateli con il vino bianco e aggiungete i pomodori privati dei semi e delle bucce, le melanzane precedentemente fritte, prezzemolo tritato, e peperoncino. Cuocete sino a quando non vedrete affiorare l’olio in superficie e completate con un po’ di foglioline di menta. Utilizzate il sugo per condire delle casarecce artigianali o dei tradizionali pizzarieddhri fatti a casa e serviteli cosparsi con un supplemento di foglioline di menta.

 

Non c’è salentino che non le mangi

                polpette

di Massimo Vaglio

La polpetta è nata sicuramente per la necessità, nelle famiglie numerose di un tempo, di allungare, con ingredienti “meno nobili o costosi ”, le scarse quantità di carne che l’austerità dei tempi imponeva. Carni, che oltretutto, almeno per quanto riguardava i ceti popolari, non erano quasi mai di prima qualità, ma dure e tigliose in quanto quasi sempre derivate da animali da lavoro a fine carriera, per cui la macinatura era uno dei pochi espedienti per renderle più grate e appetibili. Ben presto, però, le polpette si sono fatte largo ed hanno acquisito una dignità propria tanto da uscire dal menu dei poveri per entrare anche in quello delle famiglie agiate, superando i non pochi iniziali pregiudizi. Una piena riabilitazione della polpetta avvenne però solo successivamente con l’invenzione del polpettone, in cui quello che si risparmiava in carne poteva essere tranquillamente speso per gli ingredienti del ripieno, mettendo al riparo da accuse di tirchieria e nobilitando uno dei piatti di carne sicuramente più gustosi e universalmente graditi. Quindi, la polpetta per antonomasia e quella di carne, ma la fantasia e la proverbiale frugalità delle massaie salentine hanno saputo sostituire la carne con dei validi succedanei, creando tutta una serie di varianti il più delle volte vegetali, ma anche delle sfiziosissime polpette a base di pesci poveri e altri prodotti del mare.

A rendere le polpette salentine di qualunque derivazione siano particolarmente gustose è la “Reazione di Maillard” attivata empiricamente dalla indispensabile frittura delle stesse sino a far acquisire loro una marcata colorazione bruna. Infatti, quando cocendo un cibo “imbrunisce” quasi sempre è opera di questa reazione, che avviene ad alte temperature, tra i 140°C e i 180 °C, dall’interazione degli amminoacidi delle proteine con gli zuccheri. La si può sperimentare già friggendo delle patatine, oppure cuocendo del pane o dei biscotti e ovviamente le nostre polpette, il gusto aumenterà proporzionalmente al grado di doratura della superficie degli alimenti. Una condizione assolutamente necessaria perchè avvenga la Reazione di Maillard, è che la temperatura raggiunga almeno i 140 °C. Nel caso delle nostre polpette la temperatura dell’olio di frittura deve essere non inferiore a 170-180 °C in tal modo l’imbrunimento sarà rapido e la formazione della crosticina avverrà solo sulla superficie delle polpette lasciando al contempo le stesse morbide, infatti all’interno delle polpette è sempre presente dell’acqua che impedisce loro di superare i 100 °C.

 

Alessandro Tommaso Arcudi di Galatina, il wikipediano ante litteram …

di Armando Polito

Le precedenti immagini sono tratte da http://www.unigalatina.it/attachments/article/687/Alessandro%20Tommaso%20Arcudi.jpg; per saperne di più su questi ritratti invito il lettore a prendere visione al link segnalato di un interessantissimo post a firma di Luigi Galante con nota di lettura di Giancarlo Vallone.

 

Non è raro incontrare in Wikipedia nelle schede relative ai toponimi una sezione apposita in cui sono elencati con i loro dati essenziali i personaggi famosi che hanno onorato un luogo con la loro nascita o coni rapporti con esso intercorsi. Il wikipediano del titolo è da intendersi con riferimento non all’utente ma al collaboratore.

Se la tecnologia digitale e la relativa cultura  fossero esistite qualche secolo fa, Tommaso Alessandro Arcudi  sarebbe stato un ottimo compilatore della scheda relativa a Galatina (allora si chiamava S. Pietro in Galatina), dov’era nato nel 1665. E, tra l’altro, gli sarebbe bastato sintetizzare quanto aveva registrato in Galatina letterata uscita per i tipi di Giovan Battista Celle a Genova nel 1709. Di seguito il frontespizio tratto da  http://digital.onb.ac.at/OnbViewer/viewer.faces?doc=ABO_%2BZ204638008, dove l’opera è integralmente leggibile.

 

Immediata simpatia ha suscitato, almeno in me, quell’Autore dell’Anatomia de gl’Ipocriti sotto nome anagrammatico di Candido Malasorte Ussaro. La prima parte del titolo può sembrare un abile espediente pubblicitario (simile all’attuale reduce da una trionfale tournée in America) della sua precedente pubblicazione (Anatomia degl’Ipocriti Opera utilissima a’ predicatori evangelici; illustrata con varie, e peregrine interpretazioni di Sacri Testi à confusione dell’Ipocrisia d’Oggidì uscita per i tipi di Girolamo Albrizzi  a Venezia  nel  1699).


Il lettore noterà che anche in questo secondo frontespizio è ripetuta la seconda parte del titolo del primo, in cui compare solo l’anagramma. Non credo che l’assenza del vero nome qui sia legato a timore di rappresaglie1, anche perché la presenza nella pubblicazione del 1709 del nome vero e del suo anagramma ribadisce, secondo me, la fedeltà al suo coraggioso pensiero. Non credo nemmeno che lo stesso anagramma faccia soltanto parte di quel gioco di parola così caro agli accademici ed al gusto in generale del periodo barocco2 e spiego perché. Alessandro Tommaso Arcudi anagrammato può dare anche, tra i più allusivi,  narrami modulo scassa dote o narrami de modulo scassato o modulo scosta da sè marrani. Alessandro, invece, ne scelse uno in cui Candido è interpretabile nello stesso tempo come nome proprio e come aggettivo e Malasorte come cognome, insieme allusivi alla punizione di un puro. Ussaro, infine, mi ha giocato un brutto scherzo. In un primo momento,infatti, mi era parso che avesse la la stessa funzione che il cognomen aveva nei tria nomina dei Romani, per lo più legato ad una caratteristica fisica o morale; e qui, visto che gli ussari erano soldati appartenenti a speciali reparti di cavalleria leggera, in un primo momento avevo pensato che  Ussaro sostanzialmente fosse sinonimo di soldato  speciale. Insomma, un anagramma, se volete, un po’ presuntuoso (ma l’autoironia riscatta anche la presunzione, reale o … presunta) ma non certo millantatore. A smentire la mia interpretazione iniziale, poi, anche se la funzione di cognomen rimane, e a riprova che la fantasia in qualsiasi indagine è indispensabile ma pericolosissima quando un’ipotesi non trova conforto in nessun dato che abbia  la valenza, se non di prova, almeno di indizio, sono intervenute le stesse parole dell’Arcudi che  nella sua opera polemica così giustifica la sua scelta:  L’ipocrisia opera sempre dietro una maschera, ed io la combatterò mascherandomi anch’io; contro gl’ipocriti sarò tutto “Candido”, esponendomi di conseguenza ad ogni “Malasorte”, onde mi occorre la pazienza di un “Ussaro”, quella di Giobbe cioè, che fuit de terra Hus (Giob., I, 1: “Vir erat in terra Hus, nomine Job, et erat vir ille simplex, et rectus ac timens Deum”3). Così la mia ipotesi dell’impeto cavalleresco è miseramente annegata nel concetto di pazienza messo in campo dallo stesso autore.

Chi ha interesse a conoscere i personaggi presentati in Galatina letterata non ha che da leggere il libro o, in caso di ricerca selettiva, consultare i due indici alfabetici. Va da sé che la consultazione dell’opera è fondamentale per chiunque abbia intenzione di avere lo spaccato letterario di Galatina fino ai tempi dell’autore o semplicemente di aggiornare la scheda virtuale che l’Arcudi stilò molto prima dell’avvento della realtà virtuale …

____________

1 Esse pure ci furono, tant’è che a causa di questo pamphlet contro i Gesuiti  (sul cui conto  l’autore nella parte introduttiva  così si esprimeva: Ho molto abominato quelle persone, e massime ecclesiastiche e regolari, che dovendo secondo il debito dell’ufficio sepelirsi nella ritiratezza dell’operazioni e de’ studi, consumano scioperatamente il tempo nelle sessioni delle botteghe e delle porte, ne’ circoli de’ cortili, ne’ passeggi delle piazze, nelle visite di feminelle, lacerando l’altrui fama, e la propria anima contaminando), i superiori lo “esiliarono” nel convento di Andrano dove rimase fino alla morte.

2 In questo l’Arcudi va considerato un vero specialista. Infatti nella Galleria di Minerva (una sorta di miscellanea di novità editoriali) edita da Girolamo Albrizi a Venezia) del 1696 fu pubblicato un saggio dal titolo Miniera dell’argutezze scoperta dal signor Silvio Arcudi, ed illustrata dal Padre Alessandro Tomaso Arcudi sui Pronipote, de’ Predicatori (pp. 297-306). Se è impossibile individuare quanto è di Silvio e quanto di Alessandro, è certo che l’illustrazione è degna della miniera, come può controllare chi lo voglia all’indirizzo  http://digital.onb.ac.at/OnbViewer/viewer.faces?doc=ABO_%2BZ164590208. A p. 396, in coda alla Miniera …, lo stesso editore dava notizia che era in fase di stampa l’Anatomia degli ipocriti e ne forniva una sorta di recensione anticipata.

3 Nella terra di Hus vi era un uomo, di nome Giobbe, e quell’uomo era semplice e retto e timoroso di Dio.

Un bagno ottobrino, tra onde d’umanità

marittima castello

di Rocco Boccadamo

Anche per me, sebbene sia ancora portato a sperare in qualche giornata a venire eccezionale – cioè a dire se non propriamente calda, almeno tiepida e senza vento – si è sostanzialmente compiuto il tempo delle immersioni nell’accattivante e tonificante mare del Basso Salento.

Tuttavia, ieri, sono stato protagonista e beneficiario, in pratica ho goduto, di un’immersione di tutt’altro genere, e, però, devo riconoscere, non meno coinvolgente: un bagno tra persone.

Per eseguire un piccolo esame, di quelli di verifica e controllo cui periodicamente si sottopongono i “ragazzi di ieri”, i quali, come è noto, nella stragrande maggioranza, devono rinunziare al sonno notturno di un’unica ininterrotta durata, ho raggiunto il poliambulatorio del presidio ospedaliero più vicino.

Sostando nell’astanteria nelle more che si accendesse il numerino del mio turno, ovviamente in vicinanza e quasi a contatto di vista e udito rispetto a una piccola folla di pazienti, ho  inconsapevolmente e, però, attivamente convissuto con una lunga e variegata sequenza di ricordi, riflessioni e suggestioni.

Innanzitutto mi si è affacciata l’immagine, rimasta particolarmente impressa nella mente e dentro, di due famosi e conosciuti protagonisti del cinema italiano, Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi, nella scena di un’intervista sul piccolo schermo, nel corso della quale e alla domanda di come si snodasse la loro vita privata e famigliare, col sorriso sulle labbra e con semplicità e naturalezza, facevano cenno proprio a determinate impellenze che spezzavano l’arco del loro riposo. In ciò, evidentemente, affatto divi, anzi comuni mortali.

Nella platea dei presenti nella sala poliambulatoriale, invero, ho scorto una sola figura dal volto conosciuto, il marittimese Paolo F., che, in un attimo, ho rivisto bambino, mentre, ora, si presenta con una folta capigliatura di colore bianchissimo, fratello minore di un mio coetaneo e compagno di scuola.

In stagioni ormai molto lontane, le nostre rispettive famiglie d’origine erano particolarmente vicine, dato il forte legame d’amicizia esistente fra i due “capi”, mio padre e il genitore di Paolo, purtroppo andatosene prematuramente, nemmeno quarantenne.

Ieri, durante l’attesa analoga alla mia, Paolo, in questo periodo domiciliato in una località contermine a Marittima, era intento a discutere con un compaesano, nella comune veste di membri del Comitato festa cittadino, in merito alla scaletta delle realizzazioni e manifestazioni – luminarie, bande musicali, processione, fuochi d’artificio – connesse con la celebrazione annuale, giusto in questi giorni, della Madonna del Rosario, protettrice del loro luogo di abitazione.

Arriva, intanto, nel salone una ragazza, assai aggraziata di suo, che, ad ogni modo, si pone in evidenza soprattutto per via di un imponente pancione: di sicuro, quindi, è prossima al parto.

La giovane, facendo a meno di rispettare il turno grazie a una positiva e civile prassi ormai consolidatasi, si porta direttamente allo sportello, al fine di disbrigare le proprie occorrenze.

Confesso che, per il mio sentire, la vista di una donna che sta per mettere al mondo una nuova vita è sempre motivo di gioia e ammirazione.

Una signora di mezza età, invece, presentatasi davanti all’impiegata addetta e a una domanda di quest’ultima, declama ad alta voce di abitare nella cittadina di Alessano, in via Carlo Alberto n. 68.

Nell’udire il nome di tale località, io non resisto a volare col pensiero in direzione di una speciale e amata figura del mondo cattolico e religioso, don Tonino Bello, in vita vescovo di Molfetta e Presidente di Pax Christi, adesso in odore di santità.

Don Tonino era originario proprio di Alessano e le sue spoglie riposano nel locale cimitero, al centro di un piccolo e infiorato giardino, meta di folti gruppi di visitatori e devoti estimatori che arrivano finanche dall’estero.

Strana coincidenza, l’ennesima delle mie, una volta concluso il  piccolo esame e lasciato l’ospedale, percorsi in macchina pochi metri, incrocio il furgone di una ditta di lavori idraulici, con sede sempre in Alessano e con denominazione, riportante il cognome del titolare, guarda un po’, Bello, lo stesso di don Tonino.

toninobello

Le sopra accennate persone, con correlati accostamenti, sono indubbiamente quelle che più marcatamente mi hanno suscitato riflessioni e suggestioni, ma, per fedele completezza, devo dire che, attraverso il rapido soffermarmi nel passare in rassegna il loro viso e il loro guardo, mi è rimasto qualcosa, un segno, di tutte indistintamente le persone presenti.

Come se si fossero accesi dentro di me piccoli fuochi d’interesse e, soprattutto, illuminanti, anche se non chiaramente descrivibili.

Insomma, pure in assenza del mare trasparente, il mio bagno di ieri mi ha fatto bene.

Mentre vado buttando giù queste note, odo chiaramente il crepitio, con saltuari più sonori rimbombi, dei fuochi pirotecnici, protrattisi per circa un’ora e mezza, sparati nella vicina località, nell’ambito dei festeggiamenti in onore della Patrona, Madonna di Pompei.

Voci e locuzioni neretine legate all’inverno, del passato …

Gli stupendi uliveti acquitrinosi del cuore del bassoSalento, beni paesaggistici da-tutelare, foto di Giovanni Enriquez
Gli stupendi uliveti acquitrinosi del cuore del bassoSalento, beni paesaggistici da-tutelare, foto di Giovanni Enriquez

 

di Armando Polito

Se alcune voci dialettali sono, direi fisiologicamente, condannate per quanto detto magistralmente da Pier Paolo Tarsi nel suo saggio che ho citato recentemente riferimento in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/06/carmare-e-craminare/, i cambiamenti climatici hanno sconvolto anche  i riferimenti stagionali, ragion per cui non è fuori luogo proporre ad autunno non ancora iniziato questa serie di vocaboli, alcuni dei quali rientrano, ormai, nell’elenco di quelli moribondi, se non già morti e seppelliti (almeno tra chi ha meno di quarant’anni. Sullo stato di salute o di putrefazione, comunque, mi soffermerò caso per caso.

scampare=spiovere

Il Rholfs registra due lemmi distinti.  Il primo è proprio il nostro, con un invito a confrontare la voce calabrese (che è tal quale) e lo spagnolo escampar. L’etimo proposto è da *excampare. Il secondo scampare è, tal quale, formalmente e semanticamente, la voce italiana usata intransitivamente col significato di sfuggire e transitivamente con quello di liberare (questo secondo dignificato muove da un valore fattitivo del primo: fare scampare=liberare). Per scampare 2 non è riportato alcun etimo, il che significa che per il Rohlfs  esso è lo stesso della voce italiana. Però, poiché essa deriva da s– (ciò che rimane della preposizione latina ex=lontano da)+campo, come faccio a non pensare che pure scampare 1 (tanto più con quell’*excampare) non abbia lo stesso etimo? Tuttavia, secondo me bisogna tener conto pure di campare che, alla lettera, vuol dire stare in campo. Non credo che il concetto di sopravvivenza sia legato al significato di campo connesso con la cultura contadina, per cui campare significherebbe fruire di ciò che il campo (colto o incolto) è in grado di offrire. Secondo me, purtroppo, il campo in questione è quello di battaglia, per cui campa chi ancora è in grado di combattere, scampa alla morte chi, ferito o di propria iniziativa, esce dal campo di battaglia. Così scampare2 non solo significherebbe che la pioggia (di solito connessa on il maletiempu che prevede tuoni e fulmini) sta uscendo dal campo visivo o che le nubi si stanno allontanando o dissolvendo,  ma pure che la battaglia meteorologica è terminata. Tutto ciò senza negare l’intermediario spagnolo. Finché questa sfumatura militare prevarrà su quella contadina la parola dialettale ha buone probabilità di sopravvivere, favorita anche dall’analoga italiana.

inziddhisciare=piovigginare

La voce è forma incoativa (ma finisce per assumere pure una sfumatura iterativa) di un inusitato ‘nziddhare, a sua volta da nziddhu=goccia. ‘Nziddhu è da un latino *uncillum (nel latino classico unciola, usato da Giovenale nel senso spregiativo di dodicesima parte di un’eredità,  d minutivo di uncia=oncia (dodicesima parte di un tutto). Certo, se l’eredità è cospicua anche un un dodicesimo non è da buttar via, ma l’oncia, a parte i significati tecnico-specialistici, ha assunto quello generico di piccola quantità. Credo, però che, non essendo oncia una parola di uso comune, nonostante la sua attualità come unità di misura di peso nei paesi anglosassoni …, anche la morte di ‘nziddhisciare, se non è già arrivata, è imminente.

trubbu=torbido, nuvoloso

Corrisponde all’italiano torbido che è dal latino tùrbidu(m), da turbare. Trubbu comporta la seguente trafila: tùrbidu(m)>*trùbidu (metatesi tur->tru-)>*trubdu (sincope di –i-)>trubbu (assimilazione –bd->-bb-). L’esito trubbu rispetto a torbido non depone a favore della durata per lungo tempo della voce dialettale.

ddirlampare=lampeggiare

Da un latino *dilampare, formato dalla preposizione de+il latino medioevale lampare=illuminare; trafikla:*dilampare>*dillampare (geminazione di –l– di natura espressiva)>dirlampare (dissimilazione –ll->-rl– propiziata dalla natura liquida di entrambe le consonanti.

sta ssitazza=pioggerellina sottile e incessante (alla lettera sta setacciando); a Vernole la locuzione è face lu sitazzu=fa il setaccio.

L’espressione, molto pittoresca (la pioggia sottile è paragonata ad una farina setacciata dalle nuvole), è tra quelle destinate a scomparire per prime, visto che il sitazzu (setaccio) è ormai un oggetto da museo, specialmente da quando in Puglia (e non solo) la coltivazione del grano è stata abbandonata e vengono importate farine che sarebbe già strano se fossero di grano tenero, un miracolo tutto da verificare se di grano duro …

sta lla face più piu=sta piovendo lentamente

La differenza rispetto a  sta ssitazza è nel ritmo più lento e rispetto a ‘nsiddhisciare nella quantità maggiore di gocce.La forma iterativa piu piu non credo sia mediata dal mondo contadino, dove è la riproduzione onomatopeica del pigolio dei pulcini e degli uccellini nel nido, con presunto  riferimento alle loro  dimensioni ridotte. Credo che potrebbe essere una riduzione eufemistica di pipì (pisciareddha è detta la pioggia dipoca durataed entità). Un’origine più nobile, invece, potrebbe essere vantata da piu piu se esso fosse connesso con piulisciari usato col significato di piovigginare nel Tarantino a Sava. Piulisciari è da un latino *pluvitiare, forma iterativa dal classico pluvies=pioggia; In ogni caso, essendo finiti i  tempi in cui si allevavano i pulcini (magari tenendoli in casa sotto il letto;oggi sopra al letto si potrà trovare, al più, un pulcino elettronico …) e non essendo di comune conoscenza il significato, non dico di Giove Pluvio, ma di un semplice pluviale, a piu piu, ammesso che sia ancora in vita,non rimangono molti giorni,

frùsciu=breve caduta di pioggia (da segnalare pure, decenza permettendo, scire a ffrùsciu=soffrire di attacchi di diarrea).

sta lla mena a ccieli pierti (alla lettera:la sta buttando a cieli aperti) oppure comu Ddiu cumanda (come Dio comanda)=sta piovendo a dirotto.

sta ‘ndi ‘nfoca (alla lettera: ci sta affogando)=ci sta sommergendo di pioggia. Da notare ‘nfoca è da ‘nfucare che,rispetto all’italiano affogare ha sostituito con la preposizione in (che poi ha subito aferesi) la preposizione ad che in affogare entra in composizione con il latino faux=gola.

Tante ricette col polpo

di Massimo Vaglio

Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/
Immagine tratta da http://bari.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/foto/puglia_da_amare-36424684/7/

Polpette di polpo

Ingr. : 800 grammi di polpo, 120 grammi di canestrato pugliese grattugiato, 200 grammi di pangrattato, 4 uova, uno spicchio d’aglio, scorza di limone, prezzemolo, pepe nero.

Per questa preparazione sono senz’altro da preferire i grossi polpi poiché il tritato che ne deriva ha una maggiore consistenza ed anche il gusto ne guadagna. Per rendere più agevole l’operazione di tritatura prendete il polpo e calatelo e cacciatelo per qualche minuto da una pentola contenente acqua in ebollizione, quindi lasciatelo raffreddare, fatelo a pezzi e procedete a tritarlo con un comune tritacarne, anche manuale, con il quale otterrete un risultato nettamente migliore se alternerete ad ogni pezzo di polpo un pezzetto di pane raffermo. Amalgamate al polpo tritato il formaggio, le uova, il pangrattato, lo spicchio d’aglio, la scorza grattugiata di mezzo limone e il prezzemolo tritati e un pizzico di pepe nero macinato al momento. A questo punto procedete a fare le polpette e friggetele in abbondate olio da frittura ben caldo. Quando avranno acquisito una bella colorazione dorata ritiratele e ponetele sopra un foglio di carta a perdere l’unto in eccesso. Le polpette di polpo si possono gustare semplicemente fritte accompagnandole con un’insalata di rucola di campo e pomodorini che dopo averle passate in una blanda salsa di pomodoro alla cipolla.

 

Polpo fritto con cardoncelli e fave bianche

Lasciate in ammollo le fave bianche, ossia private del tegumento bruno, in acqua tiepida dalla sera precedente per un’intera notte. Al mattino, risciacquatele sempre con acqua tiepida, mettetele in una pentola, aggiungetevi una costa di sedano, un mazzetto di prezzemolo, qualche pomodoro da serbo pelato, un mestolino di olio di frantoio e sale. Ricoprite d’acqua al cui livello farete superare il tutto di quattro dita e cuocete a fuoco lento, rimestando di tanto in tanto, sino ad ottenere appunto una sorta di purea e controllate di sale. A parte trifolate dei funghi “cardoncelli” (Plerotus eringi) ovvero passateli in padella con olio di frantoio, prezzemolo e qualche pomodorino da pendola pelato e filettato. Ancora a parte friggete del polpo dopo averlo fatto a tocchetti e infarinato in farina di semola di grano duro. A questo punto versate nei piatti un letto di purea di fave bianche, disponetevi sopra uno strato di funghi trifolati e sopra ancora i tocchetti di polpo fritto, il tutto ancora ben caldo e servite subito.

 

Polpo al forno

Pulite un polpo di almeno un chilogrammo, battetelo ed “arricciatelo”, per intenerirlo quanto più possibile, ungetelo di ottimo olio extravergine d’oliva e incartatelo in un ampio foglio di carta oleata da forno. Poggiatelo in una teglia, ponetelo in forno ben caldo e cuocetelo per circa mezz’ora. Servitelo appena estratto dal forno senza alcun condimento, può costituire anche un originale antipasto caldo.

 

Polpo marinato

Infarinate e friggete il polpo tagliato a piccoli pezzi in abbondante olio da frittura bollente. Sgrondatelo bene e ponetelo a perdere l’unto in eccesso su carta assorbente. Sistematelo in una terrina alternandolo a strati con un miscuglio di pangrattato, aglio e prezzemolo tritati. Coprite il tutto con dell’ottimo aceto di vino bianco leggermente salato in cui avrete sciolto dello zafferano in quantità tale che colori il tutto di un bel colore giallo limone. Coprite la terrina e lasciate riposare la preparazione in luogo fresco per almeno tre giorni prima di servirla. Una versione sensibilmente più soft prevede che il polpo venga lessato invece che fritto e condito come sopra.

 

Marende ti pane cu la melana di purpu

Tartine al nero di polpo

La <melana>, dal greco melànos, cioè nero, si riconosce, una volta rivoltata la sacca per l’aspetto di una piccola patata di colore brunastro, invero si tratta di due distinti organi; il fegato racchiuso in un’unica membrana e una piccola vescichetta strettamente aderente alla prima, che contiene l’inchiostro usato dai polpi, come dagli altri cefalopodi per sfuggire ai predatori. Fate scaldare in una padella un filo di olio di frantoio unite una mezza cipolletta tritata molto finemente e appena questa sarà appassita un po’ mettetevi la melana che avrete cavato da due chilogrammi di polpi, e amalgamate con un cucchiaio di legno facendo attenzione che non vi schizzi l’olio negli occhi. Aggiungete velocemente un pugno di pangrattato e due cucchiai di capperi sott’aceto tritati grossolanamente, incorporate il tutto mescolando e diluendo con un bicchiere d’acqua. Quando il composto avrà ripreso densità, aggiungete una cucchiaiata di pecorino piccante, un pizzico di pepe nero o del peperoncino affettato a rotelline, mescolate il tutto e sarà pronto da spalmare su fette di pane pugliese casereccio fresco tagliato a fette sottilissime. Questa prelibatezza si può considerare il caviale della cucina pugliese.

 

Serpente? Presente!

di Armando Polito

So benissimo che la sola parola serpente oggi mi ridurrà drasticamente il non sempre esaltante numero di lettori e potrò sembrare un testardo autolesionista se insisto sull’argomento dopo averne già trattato qualche anno fa su questo stesso blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/20/due-specie-di-serpenti-piu-diffuse-nelle-campagne-salentine/). A poco servirà per evitare il fuggi-fuggi generale far osservare che la seconda parola del titolo è l’anagramma di serpente. Insomma, oggi rischio di essere letto solo da Federico La Sala che, con la sua serie di commenti al recente post sui carmati (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/13/dalla-sibilla-ai-carmati-di-san-paolo-e-allorto-dei-turat/) e in particolare con l’ultimo, mi ha obbligato dolcemente ad aggiungere un’altra tessera a questo che, come la conoscenza in genere, sembra essere un mosaico sempre in fieri. Mi preme, però, ribadire una volta per tutte (veramente è la seconda o la terza, ma prometto che non succederà più e i nuovi, eventuali, lettori pensino pure quel che credono …) che i riferimenti a contributi precedenti non sono vacua ed idiota autoreferenzialità ma un comodo espediente per sintetizzare la pappardella e per stimolare il lettore curioso.

Non ho l’autorità per formulare ipotesi o trarre conclusioni di natura antropologica, per cui mi limiterò a fornire alcuni dati in cui il drago o il serpente recitano la parte … del leone.

 APOLLO è dal latino Apollo, a sua volta dal greco Ἀπόλλων che potrebbe essere connesso con il verbo ἀπόλλυμι=distruggere, per cui alla lettera significherebbe “colui che distrugge”, con riferimento all’uccisione da parte sua del drago Pitone che terrorizzava gli abitanti di Delfi, dove c’era il suo oracolo.  È uno dei tanti miti basati sull’eroe o sul dio del quale viene istituito il culto per un dovere di riconoscenza. Lo stesso succederà nel mondo cristiano: basti pensare, solo per fare qualche esempio, alla leggenda di San Giorgio e il drago e, proprio in riferimento ai serpenti, a San Paolo ed ai suoi carmati col suo gemello San Domenico da Foligno ed i suoi serpari.

L’immagine che segue è un’ncisione di Virgilio Solis (1514-1562) tratta da un’edizione tedesca del 1569 delle Metamorfosi di Ovidio illustrate.

In alto due distici elegiaci: Magnus Apollo perimit Pythona sagittis/qui nova tum populis causa timoris erat,/Python ille nocens fuit exhalatio terrae,/quam radiis ardens solvit Apollo suis (Il grande Apollo uccide con le frecce Pitone che allora era per i popoli una singolare causa di paura. Pitone fu quella nociva esalazione della terra che dissolse Apollo ardente dei suoi raggi).    

PITONE è dal latino Pyton, a sua volta dal greco Πύθων. Siccome πὐθων è pure il participio presente di πύϑω1=fare imputridire, alla lettera (l’essere) che fa imputridire, azzardo l’ipotesi (non mi risulta prima avanzata) che ci sia connessione tra il nome proprio del drago e il verbo. Credo, se ciò fosse vero, che, a differenza della Gorgone (che aveva serpenti, tanto per cambiare …, per capelli e il cui solo sguardo bastava per pietrificare  chiunque la guardasse negli occhi, insomma, un’ipnotizzatrice ante litteram …), che la putrefazione fosse preceduta dal morso, naturalmente letale.

Segue una stampa custodita nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. L’incisore è il cosiddetto Maestro del dado (1512-1570), nome fittizio con cui si indica quest’anonimo autore che si firmava con una B apposta sulla faccia di un dado (qui visibile in basso a destra).

Nella didascalia: Uccide Phebo il gran Phiton Serpente/Et altier di suo forza  Amor disprezza/Che’ nell(‘)aria fanciul dice impotente/Quell(‘)arco non conviene a’ tua bassezza/ Ma di tanta arroganza poi si pente / Che’ con quell(‘)arco il fere el cuor gli spezza/Sendo in parnaso in tra le noVe suore/Tal che per Daphne poi si strugge e muore.

Tocca ora ad un olio su tela di Rubens del 1636-37, custodito nel Museo del Prado al quale fu donato dalla duchessa María Dionisia Vives y Zires nel 1889.


PIZIO è dal latino Pythius, a sua volta dal greco Πύθιος (dal precedente Πύθων); era uno degli appellativi di  Apollo.

L’immagine è tratta da Jean Jacques Boissard (1528-1602), Tractatus posthumus de divinatione et magicis praestigiis, Theodor de Gallen, Oppenheim, 1615. Nella didascalia: Sive Clarum, aut Delphos habitem, Delumve natantem/fatidico ex adytis me iuvat ore loqui (Sia che risieda a Claro o a Delfi o nell’isola di Delo mi piace nelle parti più interne del tempio parlare con voce profetica).

PIZIA è  dal latino Pythia (a sua volta dal greco Πυϑία); era l’antica sacerdotessa che a Delfi su richiesta degli interessati, entrata nel tempio e, sedutasi sull’aureo tripode, cadeva in estasi (primo trucco? …) e pronunciava parole … sibilline che il sacerdote ( o il ciarlatano? …) addetto trasformava in versi (secondo trucco? …). Tale trasformazione in versi e non in prosa non era casuale, essendo noto il potere evocativo e l’ambiguità della poesia rispetto alla prosa; per quanto riguarda la prosa, però, va detto che con il livello culturale di oggi e soprattutto nel politichese, l’ambiguità ormai supera quella della “poesia” dell’interprete di Apollo e di qualsiasi Sibilla. Ma il nostro è  un paese in cui l’abuso di credulità popolare è un reato ascrivibile a tutti, meno che a maghi, a politici e, ultima genìa, agli allevatori di bufale … sulla rete.

La tavola è tratta da Anton van Dale, De Oraculis veterum ethnicorum dissertationes duae, Boom, Amsterdam, 1683.

Lasciando da parte il serpente per colpa del quale, grazie alla complicità involontaria di Eva, avremmo perso il paradiso su questa terra, e il serpente piumato Quetzalcoatl (attenzione a non sbagliare la pronuncia delle prime cinque lettere …) non guasta ricordare che esso compare come dettaglio nell’iconografia di alcune divinità pagane. Di seguito, riprodotto da Wikipedia,  il caduceo [dal latino cadùceum, trascrizione deformata del greco (dorico) καρύκειον (in attico κηρύκειον) =bastone dell’araldo; aggiungo che un’iscrizione, riportata da  Eduardus Schwyzer in Dialectorum Graecarum exempla epigraphica potiora, Hirzel, Lipsia, 1923, attribuisce ad Apollo l’epiteto di  κηρύκειος). Inutile sottolineare il legame concettuale tra la profezia (annuncio di un evento futuro per ispirazione della divinità) e il bando (annuncio di una disposizione nata, questa volta, dal potere laico).

In Hermes, che era il messaggero degli dei, dunque mediatore della loro volontà, il caduceo era simbolo dell’equilibrio tra il bene (simboleggiato dal bastone) ed il male rappresentato,e ti pareva, … dai serpenti. Non a caso in araldica,quando compare nello scudo, il caduceo è considerato come il riferimento ad un periodo di tregua.

Nell’immagine che segue una moneta del III secolo a.C. proveniente da Eno, città della Tracia, mostra al dritto la testa di Hermes con il caratteristico cappello chiamato petaso  e al rovescio il caduceo con legenda AINOS (=Eno).

Attualmente il caduceo è il simbolo della medicina e, senza scomodare l’epigrafe prima citata, occorre ricordare che Asclepio, dio della medicina, era figlio di Apollo e che aveva ereditato i suoi poteri dal padre. Forse per modestia o prudente rispetto … il suo simbolo mostrava (immagine successiva tratta sempre da Wikipedia) un solo serpente.

Seguono due tavole tratte da Vincenzo Cartari, Le imagini degli Dei degli Antichi, Tozzi, Padova, 1607.

Credo (e meno male che non dovevo avanzare ipotesi! …) che la svolta metaforica del contrasto tra la difficoltà di conoscere la verità e la sua, sempre parziale e provvisoria, acquisizione stia alla base della sua adozione come dettaglio di base in alcune marche tipografiche, naturalmente datate (oggi, tutt’al più, possiamo trovare l’icona, più o meno stilizzata di qualche granfratellista …).

Marca dell’editore Cornelio Benigno da un’edizione del 1515,

Marca dell’editore Guglielmo Roviglio in un’edizione del 1560

Marca dell’editore Furlani in un’edizione del 1571

Marca dell’editore Baldini in un’edizione del 1595.

Ora, per concludere veramente con un volo pindarico, ricordo ERMETE TRISMEGISTO (o TRIMEGISTO), figura preclassica campione di sapienza, fondatore di quella corrente filosofica che da lui prese il nome di ermetismo (a distanza di millenni lo scimmiottamento dell’omonima corrente letteraria …). Se scherzosamente ho messo in campo il concetto di modestia per le rappresentazioni di Esculapio col suo bastone dotato di un solo serpente in confronto a quelle di Hermes, lo stesso, sempre sherzosamente, non posso fare per Ermete Trimegisto che onora in pieno il detto latino nomina omina (i nomi sono presagi). Anche se al nostro sapientissimo il nome non venne appioppato alla nascita, pur sempre esso (che sempre dal greco deriva …) alla lettera significa Hermes tre volte grandissimo. Tanto grande che l’immagine che segue (tratta da Jean Jacques Boissard, De divinatione et magicis praestigiis, op. cit.) sembra il compendio di quanto fin qui detto, non escluso il mappamondo che compare nella seconda marca tipografica.

Fuori figura: Mercurius Trismegistus (Mercurius è il nome latino di Hermes)In alto a destra sul sole ΘΕΟC=Dio; la didascalia in basso è un distico elegiaco: Quod Iove sis genitus magno, vis enthea mentis/divinae, et coeli cognitio alta probat (Poiché saresti nato dal grande Giove la forza invasatrice della mente divina e la conoscenza del cielo fanno risaltare conquiste elevate).

Una sua rappresentazione forse più sobria, nonostante non sia l’unico personaggio, è in un mosaico del pavimento della cattedrale di Siena.

Mancano proprio i serpenti? Guardate le code dei due leoni. Però ora il carburante sta per finire ed io sono costretto (tra una miriade di era ora! …) ad atterrare …

_______

1 In latino: putère=essere putrefatto, puter (o putris) e putridus==marcio; pus=marciume, purulentus=marcio, da cui in italiano puzzare, putrido, imputridire,  pus e purulento (per citare i principali e tralasciare i composti).

Le torri costiere del Salento nelle mappe di Giuseppe Pacelli

di Armando Polito

L’immagine rappresenta una mappa che fa parte di un manoscritto, datato tra il 1803 e il 1850, custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi (segnatura ms. N/9), contenente la copia di Atlante sallentino, ossia la Provincia di Otranto divisa nelle sue diocesi ecclesiastiche,  quarta sezione, terminata nel 1803, dell’opera del geografo manduriano Giuseppe Pacelli (1764-1811), le cui altre tre parti riguardavano l’aspetto politico, economico e militare.

Nel manoscritto si alternano carte contenenti testo, cui segue, volta per volta, una mappa. Le mappe sono in totale 25 e recano i seguenti titoli:

1) Mappa topografica della Provincia di Lecce. Da notare il titolo Provincia di Lecce già sostitutivo di Provincia di Terra d’Otranto.

2) La metropoli di Taranto e le sue diocesi suffraganee

3) Diocesi di Taranto

4) Il porto di Taranto

5) Mare piccolo di Taranto

6) L’Albania salentina

7) Diocesi di Motola e di Castellaneta

8) Diocesi di Oria

9) La metropoli di Brindisi con la sua suffraganea

10) Diocesi di Brindisi

11) Il porto di Brindisi

12) Diocesi di Ostuni

13) La metropoli di Otranto colle sue diocesi suffraganee

14) Diocesi di Otranto

15) Il porto di Otranto

16) La Limine di Otranto

17) La Grecia salentina

18) Diocesi di Lecce

19) Diocesi di Nardò e di Gallipoli

20) Il porto di Gallipoli

21) Diocesi di Castro

22) La Punta di Castro

23) Diocesi di Ugento

24) Diocesi di Alessano

25) Il promontorio salentino detto la Punta di Leuca o il Capo di S.ta Maria

 

Partendo dalla mappa n. 1 (quella riprodotta in testa da www.internetculturale.it; per ingrandirla e leggerla agevolmente nei dettagli basta cliccare su di essa col tasto sinistro; dopo qualche secondo necessario per il caricamento  poiché l’immagine è piuttosto “pesante” il cursore assumerà l’aspetto di una lente d’ingrandimento e ad ogni clic corrisponderà una zoomata) e facendo la collazione con le altre, ho redatto l’elenco completo delle torri costiere (78, di cui due registrate come dirute), riservando alle note il compito di specificare l’esistenza di eventuali varianti o l’assenza di uno o più toponimi in qualcuna delle mappe.

Mi è parso interessante riportare in elenco anche i toponimi presenti nell’opera cartografica più famosa di quel tempo, l’Atlante geografico del regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi-Zannoni con incisioni di Giuseppe Guerra uscito per i tipi della Stamperia reale a Napoli dal 1789 al 1808.

_________

 1 Torre della Specchiola nelle mappe 13 e 18.

2 Manca nella mappa 13, dove, però c’è il simbolo della fabbrica; è presente, invece, come Torre di Fiumicelle dir(uta) nella mappa 14.

3 Torre di Palascia dir(uta) nella mappa 13.

4 Torre del Porto Miggiano nella mappa 21.

5 Torre della Cata nella mappe 13 e 14.

6 Torre del Porto Tricase nella mappa 21.

7 Torre di Pallana nella mappa 24.

8 Torre di Boraro nelle mappe 13 e 24.

9 Presente solo nella mappa 25.

10 Torre di S. Gioanni nella mappa 19.

11 Torre del Pizzo nella mappa 19.

12 Torre di S. Gioan(ni) nella mappa 13.

13 Torre di S. Catarina nella mappa 19.

14 Torre di S. Isidoro nella mappa 19.

15 Torre della Chianca nella mappa 19.

16 Presente solo nella mappa 19.

17 Lo stesso nella mappa 2, con Colu-mena sovrascritto a Casti-glione.

 

Anche Vincenzo Ciardo (1894-1970) nel Museo dimenticato di Arezzo

di Danilo Sensi

Esiste un museo ad Arezzo, la Galleria Comunale di Arte Contemporanea, che purtroppo è un museo fantasma. Ha una sede, inaugurata nel 2003 in pieno centro e costata due milioni di euro, un luogo espositivo importante ed affascinante, ( l’ex Albergo Chiavi D’Oro contiguo alla Chiesa di San Francesco, ove si può ammirare “La Leggenda della Vera Croce” di Piero della Francesca ) e restaurato su progetto dell’Architetto Andrea Branzi; ed ha una collezione, un patrimonio di circa 370 pezzi, dei quali 344 documentati e alcuni solo citati fra disegni, sculture, pittura e grafica, raccolti dal 1959 ai giorni nostri. Opere di particolare pregio, riconosciuto già da Enrico Crispolti e di importanti autori italiani del secondo novecento fra cui; Castellani, Maccari, Ciardo, De Gregorio, Clemente, Calabria, Vespignani, Attardi, Cagli, Berti, Venturi, Chini, Norberto.

Un museo fantasma perchè esiste solo sulla carta, o meglio, su un catalogo curato nel 1995 da Enrico Crispolti. Un museo inaccessibile, un museo in cui non è possibile entrare, un museo che non porta nulla alla collettività perche dal 1988 non è possibile vedere le opere che conserva in quanto scelte politiche non ne hanno mai consentito l’effettiva apertura dopo il restauro. Fra i tanti artisti presenti in collezione, troviamo un altro importante esponente del 900″ italiano, Vincenzo Ciardo (Gagliano del Capo, 23 ottobre 1894 – 26 settembre 1970). Ciardo frequentò studi di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino e si trasferì a Napoli nel 1920.

Vincenzo Ciardo, Estate salentina (1961)
Vincenzo Ciardo, Estate salentina (1961)

Fu inizialmente influenzato dal verismo tradizionale, con radici nel naturalismo della scuola di Posillipo. Fece quindi parte del Gruppo Flegreo e del Novecento napoletano, aggiornando la propria pittura verso un postimpressionismo ispirato a Paul Cézanne e a Pierre Bonnard.

Insieme a Giuseppe Uva, Saverio Gatto, Alberto Buonoconto, Biagio Mercadante, Carlo Striccoli, Giuseppe Rispoli, Antonio Bresciani, Ettore Lalli, Francesco Paolo Prisciandaro e il critico d’arte e pittore Alfredo Schettini, fu tra i protagonisti dell’esperienza bohèmien del Quartiere Latino a Napoli. Frequenta il poeta e barone di Lucugnano Girolamo Comi contribuendo all’esperienza culturale iniziata con Michele Pierri, Ferruccio Ferrazzi, Maria Corti e Donato Valli.

Ad Arezzo Ciardo partecipa al “Premio Arezzo” del 1962 e l’opera ” Estate salentina ” del 1961, venne donata dall’Artista alla nascente Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, ed ha subito la sorte comune, accantonata in un magazzino o appesa come arredo in un ufficio.

ciardo

La storia della Galleria

La collezione comunale di Arezzo nasce dal “Premio Arezzo” di pittura, presentato al pubblico nel 1959 e che per cinque edizioni di seguito, ogni anno a primavera e con successo di espositori, pubblico e stampa, fece apprezzare Arezzo in Italia e all’estero come uno dei centri più attivi per la conoscenza e la diffusione dell’Arte italiana del dopoguerra, anche se, come dichiara uno dei primi e più attivi promotori della stessa, nella più totale indifferenza della cittadinanza. L’evento ebbe grande successo sia per la formula, il rifornimento della costituenda Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea sia per il premio, un chilo d’oro fino presentato nella forma di un peso da bilancia. La Galleria iniziò la sua attività espositiva sotto la guida del professor Dario Tenti che riuscì nella difficile impresa di organizzare una serie di mostre di grande interesse e che contemporaneamente avviò la raccolta di un’originale collezione permanente puntando sia su artisti toscani che su artisti italiani già affermati o emergenti. Il patrimonio di opere, in gran parte donato dagli stessi autori, ha un valore molto elevato, sia materiale che storico e culturale e viene esposto al pubblico fino al 1988 nelle sale di Palazzo Guillichini.

Dopo varie vicissitudini la nuova sede della Galleria aretina viene inaugurata il 13 dicembre 2003. Da quella data e fino ad oggi la Collezione non ha trovato mai posto nella nuova sede di Piazza San Francesco appositamente restaurata e ovviamente viene da chiedersi perchè ciò non è avvenuto e dove sono state collocate le opere. L’ apertura di nuovi uffici comunali nell’ex Caserma Cadorna di Arezzo ha in parte risposto alla domanda, infatti alcune opere della collezione comunale fanno bella mostra di se nelle pareti degli uffici. Scelta saggia ma che pone degli interrogativi: Dove e come, sono conservate le opere della collezione? quante sono rovinate? quante scomparse o perdute? Quali ragioni politiche o economiche non hanno dato corso al naturale collocamento della collezione negli spazi dell’ex Chiavi D’Oro? Negli ultimi anni alcuni giornalisti hanno cercato di porre il problema ai vari Assessori alla Cultura del Comune di Arezzo, che per tutta risposta hanno sempre definito “non particolarmente pregiata la collezione” e “troppo costoso tenere aperta la sede della galleria”. Con tali affermazioni smentiscono uno dei più colti e autorevoli Critici d’Arte del nostro paese, Enrico Crispolti, che definisce la raccolta “un patrimonio cospicuo di opere sia sotto il profilo qualitativo che di esperienze, quanto sotto il profilo economico”; offendono l’ Amministrazione Comunale che al fine di ospitare la collezione, ha restaurato e adeguato una sede spendendo più di due milioni di euro; tradisce i promotori del “Premio Arezzo” che coltivavano un sogno e in primo Dario Tenti che ricorda quel periodo “pieno di fermento e di desiderio di recuperare il tempo perduto” e che con una parola definisce quel fermento come “fame di cultura”; oscura la memoria storica di Arezzo, decine di mostre realizzate dal 1959 ad oggi, alcune memorabili, con la partecipazione di artisti quali; Magritte, Ernst, De Chirico, Savinio, Vespignani, Bacon, Carol Rama, Morlotti, Fontana, Burri, Guttuso, solo per citarne alcuni e priva la città di Arezzo della libera fruizione di un bene, che viene considerato sia culturalmente che economicamente importante.

Tra le pietre dell’Orto dei Tu’rat

parole-sante

Daniela Liviello

 

Io avevo una pietra

e questa pietra aveva un orizzonte

e l’orizzonte un desiderio

di spaccarsi, di fendersi

in melagrana…..”         Vittorio Bodini

 

Il nostro Bodini, il poeta che ne LA LUNA DEI BORBONI scriveva:

“Sulle pianure del sud non passa un sogno” avrebbe incontrato un sogno di pietra

e di terra che aspetta un sospiro di vento; così voglio immaginare, pensare un suo sorriso mentre piano cammina tra le pietre dell’ Orto dei Tu’rat. E mi piace immaginare che avrebbe continuato la passeggiata tra ventagli di pietra con in alto la luna, vecchia signora che scosta le tende a guardare, con Antonio Verri, il poeta che ha ispirato la prima antologia poetica PAROLE SANTE, curata dall’associazione culturale Orto dei Tu’rat per Kurumuny edizioni.

“Parlava a pietre una sull’altra”. E’ il verso che ha ispirato i ventotto poeti presenti nella raccolta e che hanno seguito l’incitazione verriana del “fate fogli di poesia, poeti! “ Voci poetiche dell’Italia intera, dal “profondo” nord all’estremo sud hanno letto nel giardino “della pietra che ha un orizzonte” per ancora richiamare Bodini. Si, perché qui, nell’orto, la pietra sposa l’orizzonte e il vento umido di scirocco che, poggiando, libera il suo potere umidificante e fecondante la terra ed i suoi frutti.

Quella pineta da Torre S. Andrea fin quasi ad Otranto

wp_20160903_12_22_50_pro

di Renato Delfiol

Da Torre S. Andrea fin quasi ad Otranto la costa adriatica è coperta, come si sa, da una pineta, che ricade sotto il Comune di Otranto, correndo il confine di Melendugno poco prima del suo inizio, al margine dell’abitato di S. Andrea. La pineta non è quella originaria che probabilmente fin da tempi antichissimi ricopriva vari tratti delle coste del Salento.

E’ una pineta artificiale e questo si può osservare sia dalla disposizione regolare degli alberi, distribuiti in filari, sia dai leggeri rilievi su cui sono piantate le piante, che formano tra di loro altrettanti leggeri avvallamenti destinati allo sgrondo delle acque, indirizzati verso il ciglione sovrastante il mare. E’ probabile che molti alberi originari siano stati tagliati nel corso del tempo, forse durante la guerra, per far fronte alla penuria di combustibile, come è avvenuto in quei tempi in tante zone del nostro Paese. Le amministrazioni del dopoguerra decisero evidentemente di ripiantare la pineta e io suppongo che, per farlo, dettero vita a quei “cantieri di lavoro” che servirono ad assorbire la disoccupazione del dopoguerra e a compiere, con investimenti relativamente modesti, molte opere utili. Non lo posso dire con certezza, perché non sono salentino, anche se frequento questa zona da almeno 30 anni, ma questo è quello che successe in altre parti d’Italia. Dovette essere un compito ampio, dato il numero delle piante. Può darsi, comunque, che in alcune zone, soprattutto verso Otranto, la pineta sia autoctona, dato che le piante non vi sono disposte in modo regolare (per esempio nelle zone prospicienti le spiagge di Alimini). Io mi riferisco soprattutto alla zona che va da S. Andrea a Frassanito.

wp_20160903_12_22_47_pro

In passato le auto dei gitanti si inoltravano nella pineta e fin che erano poche nessuno se ne lamentava. Io stesso ci entravo spesso, per avere l’auto vicina quando andavo al mare scendendo ai “salottini”. Col passare degli anni, naturalmente, aumentarono e cominciò una certa opera di dissuasione. Ricordo di aver visto vigili a cavallo del Comune di Otranto che invitavano a portar fuori le auto, pena contravvenzione. I risultati furono per molto tempo modesti. Anzi qualcuno andava a campeggiare nella pineta, spesso indisturbato. Diversi anni fa ci fu anche un raduno di giovani (venivano identificati come “punkabbestia”) i quali lasciarono la pineta in uno stato miserevole di sudiciume e di escrementi, che si aggiungevano ai rifiuti che gli altri frequentatori spesso lasciavano. Questa dei rifiuti è, purtroppo, una costante delle zone costiere salentine.

Dove le pinete non sono ripulite dai gestori dei bagni, dei campeggi, delle aree di sosta, è tutto un accumulo di cartacce, bottiglie, sudiciume vario che tutti producono e che nessuno pensa di conferire nei contenitori appositi o di riportarsi a casa. La gente comune pensa che le zone pubbliche non siano di nessuno e che quindi possano essere rovinate, mentre si dovrebbe pensare che sono di tutti e di ciascuno e che quindi vanno preservate come cosa propria.

Negli ultimi anni ho comunque constatato che anche il problema della sporcizia è stato parzialmente superato, cioè occultato, dal fatto che, anche in connessione col mutamento del clima, aumento del vento e delle piogge, grosse quantità di aghi hanno formato un consistente tappeto che ha coperto tutto. La ormai scarsa frequentazione della pineta, salvo la zona prospiciente la strada a fianco dell’abitato di S. Andrea, dovuto all’aumento delle piogge e alla mancata manutenzione, ha permesso la crescita di un folto sottobosco.

Ma il motivo per il quale occorre richiamare l’attenzione sullo stato della pineta è il fatto che moltissimi alberi secchi in tutto o in parte sono caduti gli uni sugli altri creando anche un potenziale pericolo per i frequentatori e certamente uno spettacolo di degrado e di incuria. Come si vede dalle foto parecchi alberi si sono molto inclinati probabilmente per la spinta del vento e forse anche per mancanza di spazio per le radici e le chiome, perché si presentano sicuramente troppo fitti. Oltre un certo angolo di inclinazione le radici (che nel pino sono scarse e superficiali) non ce la fanno più a sostenere il peso della pianta e questa viene sradicata. In qualche caso si è provveduto a tagliare degli alberi, ma sono stati lasciati sul posto.

wp_20160903_12_13_17_pro

L’idea che mi è venuta osservando la situazione è che una migliore manutenzione, col taglio degli alberi e dei rami pericolanti e il loro allontanamento dalla pineta, potrebbe avere una ricaduta economica. Il legno di pino non è buono per bruciare allo stato naturale, ma può essere vantaggiosamente trasformato in pellet, di cui non so in Salento, ma altrove c’è grande richiesta, dato che l’uso del pellet è uno dei sistemi più vantaggiosi di riscaldamento. Il pellet è ecologico, fa pochissima cenere e scalda il doppio del legno. Le macchine per la trasformazione del legno in pellet non sono particolarmente costose. Ho fatto una ricerca sul web   e ho visto macchine per piccole produzioni a prezzi davvero contenuti. Ci vorrebbe un imprenditore interessato, ma il un Comune non potrebbe farsi imprenditore?

Il Mare con le opere di Vittoria Chierici a Ruffano

il-mare-di-vittoria-chierici

 

Il 6 ottobre 2016 la Pinacoteca Comunale di Ruffano inaugura la mostra Il Mare con opere di Vittoria Chierici, artista visiva, attiva a Bologna, la sua città natale, Milano e New York. Con lei dialogherà Patrizia Dal Maso, docente di Storia dell’arte dell’Accademia di Belle Arti di Lecce.  L’evento è patrocinato dal SAC Serre Salentine. Saranno esposte opere che la Chierici ha creato durante i suoi viaggi nel Nord dell’Atlantico, in Islanda, di fronte al mare della Groenlandia e al Nord dello stato americano del Maine. Per l’artista il mare è “un concetto simbolico e vuol dire prendersi delle libertà […]”. Le sue opere “sono caratterizzate dal movimento, che è la conseguenza della sua vitalissima irrequietezza e curiosità, ma anche il risultato di un profondo rapporto con l’arte del movimento per eccellenza: il cinema, da lei sempre amato, studiato e praticato […]. Ci troviamo cosi di fronte a opere che svelano, in presa diretta ma anche con l’aiuto dei ricordi, una sorte di animismo che domina la realtà, e che l’arte tenta di svelare” (F.M. Cataluccio). Dice Vittoria Chierici: “Il mio lavoro d’artista si è maturato in un rapporto nomadico con la realtà. Vuol dire viaggiare, filmare, fotografare e dipingere. Nei miei lavori uso tre tecniche, la pittura, il disegno e il video che si uniscono nel ritmo e nel movimento”.

La mostra rimarrà aperta dal 6 ottobre al 22 dicembre 2016, presso la Pinacoteca Comunale di Ruffano (Le) in Piazza della Libertà, tutti i pomeriggi dalle ore 16.00 alle 19.00, il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 9.00 alle 12.00 e il sabato e domenica dalle 16.30 alle 18.30 (tel. 389 0945405).

www.vittoriachierici.com

Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria

 

Il territorio di Sava nella ricerca e nelle ipotesi di Cesare Teofilato:

Allianum cittadella messapica, tempio di frontiera e avamposto della scomparsa cinta megalitica di Sava e delle mura di Manduria

 

di Gianfranco Mele

Cesare Teofilato (1881-1961), originario di Francavilla Fontana, fu uno storico, bibliotecario, giornalista e politico.

La figura di quest’uomo è particolarmente legata a Sava in quanto vi trascorre gran parte della sua vita, a partire dal 1910, anno in cui riceve in questo paese una cattedra di insegnamento nelle scuole elementari. Il legame con Sava è determinato sia dalla sua carriera di insegnante, che ivi svolge per oltre un ventennio, sia da un suo matrimonio con la savese Ermelinda Caraccio. In ambito storico-archeologico si occupò del territorio pugliese con una vasta produzione di reports, ricerche e saggi molti dei quali incentrati sullo studio di specchie e megalitismo.[1]

Ritratto di Cesare Teofilato
Ritratto di Cesare Teofilato

 

Nel 1935, con un articolo apparso sul Gazzettino – eco di Foggia[2], si occupa della storia antica di Agliano, contrada savese, da lui reputata una antica cittadella messapica, sulla scorta di studi sul campo effettuati sin dagli anni ’20.

Il contributo e l’analisi del Teofilato alla storia di Agliano sono importanti e poco noti, poiché prevalgono, nella ricostruzione e nelle citazioni effettuate nei moderni reports storici e archeologici, le osservazioni, le scoperte e le interpretazioni fornite dallo storico savese Gaetano Pichierri, entusiasta studioso di Agliano, il quale intravede in questo sito una facies magnogreca, dedotta da una serie di ritrovamenti e da una sua personale ipotesi circa l’espansione tardiva della Chora tarantina sino a parte del territorio di Sava.[3] Sulla stessa scia del Pichierri si muove un altro storico locale, Annoscia, pur contestandogli alcuni punti, in particolare, in merito all’interpretazione del culto di Agliano come dedicato a Demetra e Kore: in ogni caso, anche l’ Annoscia intravede Agliano come un luogo di culto magnogreco.[4] In questi autori e negli altri contemporanei che si sono occupati di Agliano, anche con semplici citazioni[5], non viene mai citato il lavoro del Teofilato.

Oggi è largamente accettata la tesi del Pichierri su Agliano come luogo di culto dedicato a Demetra e Kore[6], ma l’ identificazione del sito come Santuario di frontiera magnogreco è frutto, come si è detto, di una ipotesi del Pichierri presa per buona dai vari autori senza troppo scandagliare nel merito della “grecità” del luogo e della effettiva estensione dei confini magno-greci.

Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri
Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri

 

Di fatto, il complesso dei ritrovamenti presenti in Agliano presenta nella coroplastica sicuramente influssi di tipo tarantino, ma è anche del tutto simile alle tipologie presenti presso Monte Papalucio ad Oria[7], santuario demetriaco di origini messapiche.

Se si prendesse per buona l’analisi del Teofilato i parametri si invertirebbero: Agliano sarebbe stato sì un Santuario di Frontiera, ma messapico, situato all’interno di una vera e propria cittadella-avamposto, a sud della quale si estendevano, secondo lo storico francavillese: a) una cinta megalitica negli immediati paraggi della attuale Sava, della quale si è persa ogni traccia (in quanto“barbaramente distrutta o seppelllita”, asserisce il Teofilato)[8]; b) le mura manduriane.

In questa prospettiva, potremmo aggiungere, Agliano si inserirebbe coerentemente lungo l’asse di una linea strategico-difensiva all’interno della Messapia, che comprende tutto l’insieme dell’ambiente circostante Sava, ovvero le alture del monte Masciulo, già descritte per le sue caratteristiche di sito funzionale all’avvistamento[9], e quelle del monte Magalastro con analoghe funzioni[10].

Ai tempi del Teofilato esistevano ancora in Agliano tracce di costruzioni consistenti in “enormi massi squadrati come quelli delle mura di Manduria”, cosa che non hanno potuto notare i ricercatori successivi (in quanto asportati o divelti sin dall’epoca delle ricerche del Pichierri) .

Altro particolare fornito dal Teofilato: “In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro”. Questa osservazione coincide con parte delle descrizioni del Coco, il quale pure vi intravede i resti di costruzioni e di un antico tempio[11].

Lo storico francavillese intravede in Agliano un insediamento che doveva costituire notevole importanza e consistenza, poiché, come afferma, “nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri”. La descrizione è particolareggiata e più precisa e ricca di informazioni rtispetto a quella del Pichierri, che si ritroverà 40 anni dopo a scandagliare i resti di un sito ulteriormente violentato, distrutto e saccheggiato, tanto che il ricercatore savese, pur entusiasta delle sue scoperte, è molto cauto nelle affermazioni circa l’estensione, l’importanza e le caratteristiche del sito: lo definisce un santuario di frontiera, ma non intravedendovi costruzioni né rovine, rimanda ai risultati di auspicati lavori di scavo una descrizione circa le dimensioni dell’insediamento e dello stesso santuario.[12]

Oscillum
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri

 

Il Teofilato ha anche occasione di presenziare a un saggio di scavo, sui risultati del quale fornisce precise descrizioni.

Un altro importante dato che ci fornisce il Teofilato riguarda il tratto del Paretone che passava per Agliano. Di questo, il Pichierri non dubitava l’esistenza ma non potè scorgerne resti in quel tratto specifico (li trovò in contrada Camarda, nei pressi di Pasano), mentre lo storico francavillese può constatare nei pressi della masseria di Agliano l’esistenza dei “massi poligonali uniti senza cemento”.

5.Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion
Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion

 

Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri
Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri

 

Il Teofilato ci offre anche una importante descrizione del Paretone come “in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi fa cui si elevava la specchia interna savese denominata specchia Mariana”. Dell’esistenza di questa specchia e del suo rapporto con il Paretone abbiamo effettivamente notizia da vari documenti, a partire dal cosiddetto inventario orsiniano redatto tra il 1420 e il 1435. Allo stato attuale sfugge la localizzazione della suddetta specchia[13], poiché evidentemente il toponimo ha subito, nel tempo, dei cambiamenti[14].

Ai tempi del Teofilato deve essere ancora popolare la denominazione “Paretone del Diavolo” come   nome popolare del cosiddetto “Limitone dei Greci” in quanto egli stesso la utilizza: questo toponimo dialettale trova riscontro nel racconto fornito al sottoscritto da un anziano contadino savese che, in una intervista del 2015, ha memoria di una curiosa leggenda tramandata da generazioni nell’oralità contadina: “Lu paritoni lu fècira li tiauli ‘ntra ‘na notti” (il paretone fu costruito dai diavoli in una notte).

Oltre alla descrizione particolareggiata della Agliano messapica, il Teofilato offre indizi circa la presenza bizantina in loco, peraltro ripresa nel 1975 dal Lomartire con ulteriori osservazioni.[15] L’autore riferisce anche del periodo romano[16], deducendo che anche in quell’epoca Agliano doveva rivestire notevole importanza a giudicare da tracce che testimoniano la presenza di riti nuziali, di sacerdoti officianti culti (flamini), di pontefici e di famiglie della nobiltà romana.

Infine, il Teofilato scopre in Agliano un’iscrizione che segnala all’emerito studioso Prof. Francesco Ribezzo, e “ al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera[17].

una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto
una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto

 

 

APPENDICE

da Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2

 

Segnalazioni Archeologiche Pugliesi

ALLIANUM

Questa breve nota aspirerebbe ad aprire la via alla migliore e più larga conoscenza di una zona archeologica troppo trascurata.

I prossimi fascicoli della Rivista Indo-Greco Italica diretta dal prof. Francesco Ribezzo della R. Università di Palermo recheranno la puntata del Corpus Inscriptionum Messapicorum per tutto il Capo di Leuca e la relazione dell’iscrizione subpicena della statua del «Guerriero» presabelico scoperto a Capestrane (Pòpoli).

Le premure del Ribezzo, e le mie, non hanno potuto ottenere ancora il calco o la fotografia del frammento d’iscrizione messapica savese rinvenuta da me nel 1921, poi fatta osservare a mio cugino dottor Ettore Caraccio del Ministero dell’ Educazione Nazionale e infine segnalata allo stesso prof. Ribezzo, al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco.

Dopo tre lustri, la segnalazione assume pubblica forma e si rivolge alla R. Sovrintendenza alle Antichità di Puglia. Credo inutile dire che detta iscrizione, a suo tempo, fu pure annunziata, ma solo verbalmente, al comm. Quintino Quagliati, già R. Sovrintendete in Taranto, ora defunto.

Per una più chiara informazione del luogo da cui essa proviene, e della sua importanza archeologica, estraggo qualche notizia dai miei appunti di trovamenti.

Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.

La contrada o masseria di Aliano, a circa tre chilomertri da Sava, direzione W, su la Via Consolare, conserva la toponomastica dell’antico oppido e appartiene all’agro savese. Alla distanza indicata si trova, su la sinistra, una vecchia strada, che mena ai fondi interni.

Questa lascia a destra un vecchio caseggiato con arcate cieche, che è la masseria dei Fratelli Spagnolo e che è pure il centro delle rovine di Allianum. Sotto una delle arcate che rasentano la strada, trovasi inserita nel muro una iscrizione messapica che sembra retrograda e che letta da destra a sinistra offre i seguenti approssimativi elementi alfabetici disposti sopra un unico rigo:

  1. Asta verticale (lettera j ?);
  2. Lambda? (Angolo acuto con vertice in alto percorso da varie linee orizzontali);
  3. R latina;
  4. Asta verticale (lettera j ?);
  5. Segno simile a epsilon minuscolo retrogrado, cioè rivolto a sinistra, ma che sembra avere un occhio centrale dove le curve si toccano (lettera N ?);
  6. Segno simile al numerale 1;
  7. Asta verticale (lettera j ?); Non potetti mai controllare detta iscrizione, che è corrosa dagli agenti atmosferici, in favorevoli condizioni di luce. Non posso quindi garantire l’esattezza del testo.Questo megalite, nel medioevo, segnò col Paretone del Diavolo il confine del Principato di Taranto.Nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri.E’ un errore cronologico ritenere Allianum una villa del periodo romano, sorta nel III secolo av. Cr. con la deduzione delle colonie nell’agro tarantino. In Aliano la colonizzazione romana si sovrappose certamente ad un remoto centro di anteriore vita messapica.Vi notai la esistenza di molte ceneri, dei noti massi isodomi, di ossa umane, di frammenti di vasi grezzi o dipinti, grandissimi o piccolissimi. Il materiale appariva rimescolato da antiche e recenti violazioni e riportai l’impressione di un vasto incendio dovuto a saccheggio saraceno o a demolizioni e a distruzioni cristiane.Probabilmente, nell’epoca bizantina, il luogo ospitò una comunità di monaci greci, come deducesi da croci incise sui massi di carparo, in tutto simili a quelle osservate da me stesso su le pareti delle Cripte.Venivano poi i resti di pavimenti e d’intonachi, o stucchi, dipinti in rosso, gli usuali vasetti di periodo più tardo e alcuni assi sconservati dalla penultima riduzione al peso (A. 217 – 89 av. Cr.). Penso, per averne trovato alcuni esemplari, che quivi circolò un asse sestantario, o contorniato, commemorativo di Roma, senza segno del valore, con la solita testa di Giano Bifronte sul D), la prora sul R), e, su la prora, la Lupa che allatta i Gemelli. Sotto, ROMA.Per questo dovrebbe ammettersi in Aliano l’uso del matrimonio sacro tra famiglie nobili, e la presenza di Pontefici, di Flamini e di Patrizi.  8. la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato
  8. 7. una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci “i confini del territorio di Taranto…”
  9.    Cesare Teofilato
  10. Notevole il rinvenimento di impronte fittili per focacce sacre e di coppe a pareti spesse con canaletti di scolo, adatte alla preparazione del panis farreus, che occorreva al rito nuziale della confarreatio.
  11. Il materiale documentario più antico che vi potetti raccogliere è costituito da amuleti cuoriformi di pietra con foro, da piramidette di terracotta di varie fogge e dimensioni, dalle piccole alle grandi; da collane fittili (fuseruoli) e da frammenti ceramici a figure rosse del IV secolo av. Cristo.
  12. Mia cognata signora Bice Caraccio-Spagnolo mi favorì una piccolissima lucerna a vernice nera e un medaglione funerario di terracotta, provenienti dalle solite tombe rettangolari a cassettone.
  13. Nell’ aprile 1922, per cortesia di mio cognato sig. Giovacchino Spagnolo, podestà di Sava e comproprietario della masseria omonima, presenziai ad un saggio di scavo, che raggiunse la profondità di circa due metri dal piano di campagna.
  14. Le costruzioni di cui resta qualche traccia sono enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria. In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro.
  15. Le specchie e il Paretone, come altrove, si riconnettono al costume dei primitivi limiti di territori, indicati nei documenti locali con l’appellativo improprio di Limitone dei Greci e ritenuti ingenuamente, dai vecchi scrittori, come opera di epoca longobarda.
  16. Da Aliano si diparte un interessante tratto del Paretone del Diavolo a massi poligonali uniti senza cemento, che si congiungeva con l’ oppido di Pasano, scendendo a sud, e poi risaliva a N.E., fin verso l’inizio della via per Torricella, presso Sava. Il Paretone era in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi, fra cui si elevava la specchia interna savese denominata Mariana.
  17. Lettura probabile di tutta l’iscrizione: IRINI (?).
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l'articolo del Teofilato
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato

 

Note

[1]N.M. Ditonno Jurlaro, Cesare Teofilato (1881 – 1961), note biografiche e bibliografiche, Studi Salentini 1986-87, pp. 165-182

[2]C. Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi – ALLIANUM Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII

[3]G. Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in: Sava nella storia a cura di G. Lomartire, Cressati, Taranto, 1975, pp. 98-11

[4]M. Annoscia, Indizi del culto di Dioniso e dei Dioscuri in un insediamento di sud-est della chora tarantina, in Sava – schede di bibliogrtafia ed immagini per una storia del territorio e della comunità, Del Grifo Ed., Lecce, 1993, pp. 97-112. L’ Annoscia presenta in questo testo foto di frammenti raffiguranti testine di cavallo e criniere, e da qui ipotizza l’esistenza di un culto dei Dioscuri. Inoltre, rinviene una testina in terracotta che identifica in una raffigurazione di Dioniso, ma molto più probabilmente si tratta della rappresentazione di Hades o di un defunto.

[5]Cfr.: M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri: documentazione archeologica e ricostruzione storica – Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1992, pag. 33

(Agliano: pag. 33)

[6]Ibidem

[7]v. G. Mastronuzzi, Il luogo di culto di monte Papalucio ad Oria, Edipuglia, 2013

[8]Riferimenti ad una antica cinta muraria e ad un insediamento di origini messapiche precedente la Sava del XIV secolo si trovano nel manoscritto di A. D’Elia Sava e il suo feudo, storia paesana (1889) andato perduto ma ampiamente citato dal Coco nella sua opera “Cenni Storici di Sava” (note a pp. 58-60). Per approfondimenti: G. Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, in “Terre del Mesochorum”, luglio 2015 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/ ; v. anche G. Mele, “Sava e il suo feudo” : il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale in “Academia.edu”, https://www.academia.edu/11884984/_Sava_e_il_suo_feudo_il_contributo_di_Achille_DElia_alla_storia_antica_locale_con_a_margine_cenni_sulla_produzione_letteraria_dellautore_

[9]C. Desantis, Sava – Monte Maciulo – torre classica e strutture medievali, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 148-151

[10]M. Annoscia, Sava, Monte Magalastro – resti preistorici e fortificazione classica in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 151-152

[11]P.Coco, Cenni Storici di Sava, Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1915, nota (1) a pag. 16. Questa la derscrizione del Coco: “Ad Agliano, poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche. Pare, per ciò che riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano. Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal Feudatario Signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.”

[12]G. Pichierri, op. cit., “note aggiuntive” pp. 109-11: l’autore si preoccupa (per difendersi dalle critiche degli scettici e dei suoi detrattori) di giustificare la mancanza, già ai suoi tempi, di tracce visibili di edifici, con la spiegazione che la presenza di un culto può anche essere resa possibile dall’ esistenza di una piccola ara. Tuttavia la consistenza del sito e la presenza di edifici adibiti a luoghi di culto sono rilevate già nel citato lavoro del Coco. Il Teofilato ne riprenderà la descrizione osservando altri particolari, e nel 2008 due saggi di scavo intrapresi dalla Coop. “Museion” riporteranno alla luce alcuni resti di edificazioni: frammenti decorativi e massi squadrati di grandi dimensioni (cfr. F. Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2).

[13]Cfr. Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, pag. 66

[14]Coerentemente con la linea confinaria indicata nei vari documenti rintracciati dal Carducci, si potrebbe ipotizzare che la Specchia Mariana, altrimenti detta Muryanam, Muriana e Majorana, coincide con la zona in agro di Sava denominata “San Giovanni”, situata in prossimità delle contrade Agliano, La Zingara, Le Monache, Tima. Queste ultime sembrano avere una relazione sia con la antica Agliano che con il “Paretone”, mentre la località “San Giovanni” iniste in un punto strategico (su una altura dalla quale si domina una vasta parte del territorio circostante), ed è caratterizzata dall’emergere di numerosi frammenti di varie epoche a partire da quella neolitica, e dai resti di cumuli di pietrame proprio intorno all’area di maggior intensità di presenza dei suddetti frammenti.

[15]G. Lomartire, Sava nella storia, Cressati, Taranto, 1975, pag. 18: l’autore riferisce e mostra le foto di una scultura ritrovata in Agliano, una Madonna con Bambino a suo avviso di epoca bizantina. Dettagli su questo argomento e più in generale sulla presenza bizantina nel territorio savese sono rintracciabili nel seguente articolo: G. Mele, Presenze bizantine nel territorio savese: il mistero dell’antica chiesa di San Nicola, i resti della chiesa di S. Elia, e altre note in: Terre del Mesochorum, agosto 2016 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2016/08/13/presenze-bizantine-nel-territorio-savese-il-mistero-dellantica-chiesa-di-san-nicola-i-resti-della-chiesa-di-s-elia-e-altre-note/comment-page-1/

[16]Del periodo della colonizzazione romana, nonché dello stesso toponimo di derivazione romana, parla diffusamente P. Coco nella citata opera “Cenni storici di Sava”, pp. 9-16.

[17] F. Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105

 

Le foto di questo articolo sono tratte dai seguenti testi:

  • Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in “Sava nella storia” a cura di G. Lomartire, Tip. Cressati, Taranto, 1975;
    • Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2;
  • Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, 1993

Il ritratto del Teofilato e la pagina del Gazzettino-Eco di Foggia sono tratti rispettivamente da www.brindisireport.it e www.internetculturale.it

La Fondazione Terra d’Otranto è lieta di partecipare la nascita di ….

La riproduzione anastatica di un libro antico è di per sé un’iniziativa editoriale meritoria per due buoni motivi. Anzitutto perché riporta nel circuito della memoria qualcosa che aveva visto progressivamente ridursi la sua fisicità ad oggetto da antiquariato; e poi perché si tratta, visti anche i tempi che stiamo attraversando e la scarsa importanza che alla cultura viene attribuita, di un’operazione-coraggio, che farà di un oggetto raro un prodotto di nicchia dalla tiratura limitata e dall’incerto beneficio economico.
Libera da quest’ultima preoccupazione, la Fondazione Terra d’Otranto presenta la sua più recente neonata (aprile 2016):  la riproduzione anastatica di un testo del 1620, cioé del Trattato delle piante & immagini de Sacri Edifizi di Terra  Santa di Bernardino Amico da Gallipoli, con introduzione e note di Marcello Gaballo ed Armando Polito. Il testo è impreziosito dal corredo di ben 47 tavole incise dal Callot su disegno dell’Amico (di seguito la n. 2).

Al di là dei meriti generali espressi all’inizio, questa pubblicazione ha un valore affettivo particolare, ancor più per Nardò, in quanto è, per così dire, la celebrazione di un quasi insperabile ritorno a casa, cioè  del recupero di un testo trafugato negli anni ’70 dalla biblioteca diocesana “Antonio Sanfelice” ad opera di un prelato che aveva un perverso senso del concetto del prestito, per cui l’Amico ritrovato del titolo della prefazione non è un semplice gioco di parole, ma l’affettuoso bentornato ad una parte del nostro patrimonio, checché si pensi,  più importante: quello culturale.

 

Vedi anche:

Bernardino Amico di Gallipoli, disegnatore del XVI-XVII secolo

Echi ideali da Marittima

Echi ideali da Marittima

Volti, luoghi, testimonianze e ricordi di un nido senza tempo

800px-torre_marittima2

di Rocco Boccadamo

Francesco Nullo, Giacomo Leopardi, Pier Capponi, Isonzo, Piave e Premuda sono le denominazioni di sei viuzze, lunghe al massimo sessanta/settanta metri, che, susseguendosi oppure incrociandosi, delimitano e nello stesso tempo racchiudono il minuscolo territorio, in forma di quadrilatero irregolare, su cui si trova insediata una sorta di suggestiva bomboniera della tradizione, ossia a dire il rione Ariacorte della mia Marittima.

Un agglomerato di modeste, eppure dignitose, casette e, soprattutto, per secoli, lungo le scansioni del pendolo nei tempi andati,un concentrato di nuclei famigliari, un coacervo di vite per molti aspetti uniformi, pulsanti sulle medesime lunghezze d’onda, in stretta comunione interpersonale.

Non è lontano dalla realtà parlare di cuori che battevano all’unisono e, insieme, costantemente dischiusi al sentimento della solidarietà e del mutuo soccorso e sostegno, dischiusi esattamente al pari, per scendere sul piano della quotidianità pratica, degli usci delle abitazioni.

Quindici lustri fa, sul lettone di casa dei suoi genitori, proprio nell’Ariacorte,  chi scrive s’è trovato ad aprire gli occhi alla propria avventura esistenziale.

Ariacorte, in fondo zona periferica nel perimetro urbano di Marittima, un solco nel campicello paesano, un angolo modesto e, tuttavia, affatto anonimo, non fosse altro per essere costeggiato, sfiorato e occhieggiato nei suoi tessuti interni dalla generalità della popolazione, con maggiore e intensa frequenza nell’arco della stagione estiva, poiché area coincidente con la direttrice che porta alla locale marina per antonomasia, ovvero l’incantevole insenatura Acquaviva.

l’insenatura Acquaviva
l’insenatura Acquaviva

A proposito di quest’ultimo sito, piccola ma lucente perla naturalistica, per chi ha i capelli bianchi e radi come me, è bello e gratificante osservare che, un tempo, vi accedevano, per prendere i bagni nelle sue fresche e corroboranti acque, unicamente gli indigeni o nativi, a voler esagerare gli abitanti delle località contermini, mentre, il giorno d’oggi, l’Acquaviva è meta conosciuta su scala nazionale e, addirittura, anche all’estero, visitata nel corso di tutto l’anno e, a luglio e agosto, letteralmente gremita di gente, dalle prime ore del mattino fino a notte inoltrata.

Ritornando all’Ariacorte e alla sua evoluzione sotto l’aspetto demografico, compresi i correlati costumi, e rapportandomi, ovviamente, ai miei primi ricordi, peraltro tuttora vivi, ho potuto agevolmente stabilire che, nel decennio 1945-1955, vi dimoravano quaranta famiglie, con un totale di centonovantanove componenti, cioè, in media, cinque persone per nucleo.

In termini di paragone, ora, i medesimi valori riferiti ai residenti si attestano su basi numeriche ben più ridotte, nell’ordine, rispettivamente di dieci e sedici, poco più di una persona e mezzo per ogni singolo focolare. Per completezza, bisogna però osservare che alcune abitazioni sono nel frattempo passate di mano, andate in proprietà a forestieri approdati a Marittima per turismo, i quali, in certo qual modo, le animano nel canonico bimestre estivo.

Sia come sia, rispetto al pullulare intenso di vita di un tempo, l’Ariacorte si è trasformata in un’oasi di silenzio, di rari passi, di quiete.

Piace in modo speciale, al narrastorie che già c’era da bambino – ragazzo e che, per sua buona sorte, vive ancora e si trova sovente a osservare di passaggio l’ambiente in cui è nato, piace, dicevo, e gli è caro, rievocare determinate figure che sono rimaste a palpitare nella sua memoria e, finanche, nelle sue suggestioni interiori.

Per la verità, si conserva nitida l’immagine, con particolari e dettagli, di tutti i centonovantanove abitanti dello scorso secolo, a cominciare, ovviamente, da quella dei nonni paterni, degli zii e delle zie.

‘A Valeria ‘e l’Ancilu (Valeria, moglie di Angelo) aveva, specialmente, le mani fatate, sapeva fare tante cose.

Era mescia (maestra) del magazzino, una delle quattro manifatture di tabacco che operavano nel paesello. Inoltre, grazie alle mani fatate, era bravissima nella tessitura a mano e, mediante un vecchio ma efficace telaio di legno, realizzava manufatti di particolare pregio, commissionati da innumerevoli famiglie del paese; insomma, non vi era ragazza in procinto di sposarsi che non tenesse a poter dire di avere qualche capo del proprio corredo realizzato da Valeria. ‘A Valeria ‘e l’Ancilu, ben voluta da chicchessia. Trifone Mariano, al vertice dell’omonima famiglia, si distingueva per la bella abitudine della preparazione annuale, nella ricorrenza del 19 marzo festa di San Giuseppe, di un pentolone di massa, tagliolini fatti in casa, piatto tipico di quel giorno, a beneficio delle famiglie meno abbienti del paese, in altri termini una tavolata, detta, non a caso, di San Giuseppe.

Giovanni ‘u Pativitu (discendente da un certo Ippazio Vito), il quale divideva il tetto con la consorte Ndolurata, era contadino e però, a tempo perso, anche fabbricante di panieri e cesti di giunchi e vimini.

Peppe ’u cardillu era un uomo di bassa statura, buono e scherzoso, sebbene, ogni tanto, preso di mira da noi bambini che gli cantavamo

Zzumpa cardillu

mmenzu sti fiuri

zzumpa cardillu

lalleru lallà.

Cosimo maccarrune, al contrario, si offendeva sentendosi appellare con detto nomignolo e, quindi, bisognava contenersi.

Giulia era giunta a Marittima da un paese vicino, sposando Fortunato e, a distanza di circa un anno, aveva messo al mondo Teresa, classe 1941 come me.

Purtroppo, ancora giovane, la donna scivolò in condizioni di salute precarie, con gravi problemi all’apparato respiratorio.

Spesso, pareva che le mancasse il fiato e, nelle fasi maggiormente critiche, se ne usciva da casa e si portava in un vicino slargo, dove c’era più aria e soffiava diritta la tramontana, restandosene lì per ore, magari al freddo, seduta sugli scalini di chianche della casa di Siveria: almeno respiro, si consolava.

Toti anzi cumpare Toti, vicinissimo di casa, era un contadino, sposato con, a carico, la moglie, sei figli e la suocera. Un buon uomo, ma, invero, non un grande lavoratore, nella sua magione, di conseguenza, non regnava benessere, si avvertiva, al contrario, una sensazione di fame, il pane si mangiava se e quando c’era, sulla tavola appena una minestra di verdure coltivate nell’orto.

Ciononostante, cumpare Toti giammai intese rinunziare ad allevare un uccellino, ora un cardellino, ora un canarino. Teneva tanto a ciò, al punto che, in un’annata in cui anche la sua famiglia fu costretta a emigrare in Basilicata, dove coltivare, in mezzadria, estensioni di tabacco, all’atto di caricare l’autovettura a noleggio che doveva trasportare persone e suppellettili, Toti fu irremovibile nel pretendere che, nell’abitacolo del mezzo, trovasse posto anche la gabbia con l’amato uccellino.

Costantina ‘u medicu, da parte sua, era una vecchietta minuta ma assai sveglia e dotata di forte temperamento. Vedova, viveva da sola alla fine di via Isonzo e attendeva con premura alle necessità di due nipoti, Maria e Costantino, rimasti orfani in tenera età, intanto già divenuti adulti e però non ancora sposati. Mi è rimasto impresso il particolare che Costantino, quando compì la fuitina con Gemma, pensò di cercare e trovare rifugio presso la nonna, la quale tenne la coppia in casa per qualche tempo, sino a quando non le parve giusto di intimare ai due sposini di andare a starsene da soli, in un’abitazione tutta per loro.

Aveva, Costantina, un vezzo, diciamo così, non gradito a noi bambini e ragazzi del rione, era contraria a che, durante le nostre giocate a palla in via Isonzo, lanciassimo la sfera a sbattere spesso sulla porta o sulla parete esterna della sua casetta. Talvolta, ci sequestrava la palla e ci toccava insistere a lungo per averla in restituzione.

I germani Luigi e Tore ‘u casinu, abitanti a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro ed entrambi proprietari di una doppietta, erano soliti andare a caccia insieme; ricordo, particolarmente, gli apprezzabili carnieri di tortore che riuscivano a portare a casa, utilizzando tali bottini come pietanze per le rispettive famiglie.

A fianco della citata anziana Costantina, si ergeva l’abitazione di Peppe ‘e Tuie, netturbino e necroforo comunale, coniugato con Cesira e padre di Nata, Cici e Ucciu, gli ultimi due miei cari amici e compagni di giochi.

Pressoché attigua, la dimora di Consiglio ‘u minicone e Concepita e dei loro otto figli, tra maschi e femmine e, esattamente di fronte, l’abitazione di Rosaria ‘u fusu, sul cui nucleo vado a soffermarmi diffusamente nelle righe che seguono.

Rosaria, proveniente da Andrano, reduce da un primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe) ‘u fusu, reduce anche lui da una precedente unione, padre di tre figli e, pure, rimasto prematuramente vedovo.

Rosaria e Giuseppe, insieme, procrearono ulteriori quattro figli, sicché, a un certo momento, venne a formarsi un antesignano nucleo allargato, con, in totale, undici persone, fra i due coniugi e i nove figli dell’insieme di letti.

Non era per niente facile, per Rosaria e Giuseppe, e tanto meno per Rosaria da sola quando lei rimase vedova per la seconda volta, far crescere tanti rami della pianta famigliare, ma, con il loro personale impegno e sacrificio e, quindi, il conseguente buon esempio, aiutati, sin dalla tenera età e vie più man mano che crescevano, da figli e figlie, conducevano in veste di mezzadri una serie di terreni, una vera e propria “masseria” (grande azienda agricola) la chiama adesso Costantino, il penultimo dei figli sopravvissuto insieme con la sorella Concetta.

Molti i ricordi e le annotazioni, taluni particolari, vuoi per averli vissuti da testimone diretto, vuoi per essergli stati riferiti, che si affacciano nella mente del narrastorie riguardo ai componenti della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.

Innanzitutto, intorno alla fine degli anni Trenta o agli inizi del Quaranta del secolo scorso, la scomparsa di Giuseppe a causa di un incidente, una rovinosa caduta mentre era intento a fissare a un gancio del soffitto un chiuppu di tabacco già essiccato (una sorta di grosso casco, prendendo a riferimento le banane), in attesa d’essere conferito al magazzino.

Di seguito, nel 1945, io avevo appena compiuto quattro anni, il matrimonio di Pippina, che rivedo nell’atto di varcare la soglia di casa nell’Ariacorte in abito bianco e con un’acconciatura semplice e tondeggiante di egual colore a cingerle il capo. Pippina, minore di solo un anno rispetto a lei, era grande amica di mia madre.

Poi, esattamente il 22 gennaio 1947, le nozze dell’altro figlio di primo letto di Rosaria, Andrea, con Valeria, coetanea e cognata di Pippina, anche lei amica di mia madre, giacche, da nubile, abitante di fronte e, in sostanza, cresciuta insieme sulla via Convento.

Ora, in quel lontano 22 gennaio 1947, Marittima registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata: bellissima ed eccezionale, perciò, la scena dell’uscita dalla chiesa dei novelli sposi, intanto che gruppi di ragazzi e giovanotti facevano a gara nel formare grandi palle di neve e a sospingerle a rotolare sulla strada, in leggero declivio, dalla piazza del paese verso la Campurra.

A più riprese, negli ultimi anni, imbattendomi in Valeria, non ho resistito a ricordare la coincidenza e, sempre, la donna ha di buon grado assecondato la mia rievocazione della scena, senza mancare, nello stesso tempo, di porre l’accento sui legami d’amicizia e d’affetto che aveva nei confronti della mia genitrice, la quale che, purtroppo, non c’è più da mezzo secolo.

Mentre, Valeria, l’ho rivista ancora ieri seduta in poltrona, esitante sulle gambe, ma lucida, a casa sua.

Nel 1951, virgola capitò, invece, un’improvvisa e brutta traversia a Vitale, il secondo dei quattro figli di Rosaria e Giuseppe, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede. La situazione era divenuta quasi tragica, una mattina ci fu grande scompiglio nel rione Ariacorte, meno male che, provvidenzialmente, si trovò, per il malcapitato, la possibilità di un’immediata corsa in macchina e del ricovero nell’ospedale di Lecce. Dopodiché, Vitale guarì e riprese completamente la sua attività di contadino.

Costantino, fratello minore di Vitale, mi ha precisato che, in quel frangente, egli era assente da Marittima, da poco partito per il servizio militare in Marina e si trovava di stanza alla Spezia, imbarcato su un dragamine: chiosa dell’interessato, buon vitto a bordo e pure la paga era buona, rispetto ai magri guadagni da contadino al paesello.

A quest’ultimo proposito, ha soggiunto Costantino, quanta fatica, quanti sforzi a zappare, soprattutto, o per seminare, falciare, raccogliere grano, lupini, altri legumi, fichi, olive, carrube e tabacco, nella “masseria” che aveva per base il fondo denominato “Magno”, con un grande capannone!

Affondi di zappa o semina di lupini, in un terreno, fra gli altri, denominato Cisteddru ‘a chiesia. La prima accezione, richiamante, forse, due tipi di manufatti artigianali, ciste e cistizzi, fabbricati da alcuni compaesani marittimesi, mediante l’utilizzo di steli di cereali intrecciati, manufatti poi adibiti alla conservazione del grano o di prodotti similari.  Della chiesa, perché, a quei tempi, il bene, verosimilmente pervenuto per donazione, era di proprietà della locale parrocchia.

Il comprensorio dei cisteddri ha la caratteristica d’essere situato al culmine di un piccolo promontorio affacciato sulla distesa azzurra nel nostro mare e di vantare una pregevole veduta panoramica sulla località di Castro, una delle più fulgide perle del Salento.

Ieri, ispirato delle antiche testimonianze di Costantino, ho voluto fugacemente avventurarmi dentro la plaga agricola in discorso, cogliendovi una sensazione di pace assoluta, diffusa sia sui tappeti di terra rossa profumata di lontani sani sudori e di sante fatiche, sia nelle sacche di frescura donate dalle argentee chiome degli ulivi.

Con la chicca, della visione di minuscoli grilli nell’atto di saltellare aprendo le loro alette, dall’interno di colore fra il celeste e il ceruleo, e dell’ascolto, in pieno giorno, anche del canto di qualche gufo o civetta, rapaci che, come è noto, capita, in genere, di udire nelle ore notturne.

La Terra d’Otranto in una mappa dell’Europa del secolo XVI

di Armando Polito

Nel 1573 usciva il libro del quale riproduco il frontespizio.

 

Tra i fogli 4v e 5r c’è questa mappa dell’Europa.

Ingrandisco  il dettaglio che ci riguarda.

Osservo, in rapporto all’uso delle maiuscole e delle minuscole, che la grafia Apruso (in cui solo la lettera iniziale  è maiuscola) costituisce graficamente una via di mezzo tra ITALIA (tutto in  maiuscole) da una parte e terra d’otranto e calabria (tutto in minuscole) dall’altra. Non sarebbe fuori luogo cogliere in questo l’origine dell’atavico isolamento del sud, che continua a distanza di quasi cinque secoli (vedi Freccia rossa-contentino che arriva fino a Lecce ma su binari preistorici …, per non parlare del sistema aeroportuale).  Non vale mettere in campo l’arbitrarietà, in quei tempi, e non solo nelle mappe, dell’uso di maiuscole e minuscole, perché, da un punto di vista storico l’Italia come entità politica, pur nel suo frazionamento in singoli stati, si fermava, di fatto, a Roma. Se è così, però, non appare casuale napo-li con la sillaba finale facilmente confondibile con i trattini/onde circostanti (De Luca/Crozza direbbe: Se sò arrubbato pure ‘na sillaba …) in contrapposizione a TIRENO (il mare) e Tireno (la costa),il che vale pure per Ionico, mentre Mare Adriatico appare sottolineare non solo con l’aggiunta dell’apposizione (Mare) ma anche con le due iniziali maiuscole M ed A la sua importanza, mentre il minuscolo delle restanti lettere potrebbe trovare giustificazione nello spazio a disposizione.

Certo, quest’interpretazione “politica” della mappa da un “antipolitico” come me sembrerebbe il colmo. Ma, specialmente oggi, essere “antipolitico” (lungi da me il grillare … a scatola chiusa …) non è forse anch’essa una (op)posizione “politica”?

Libri| Canto per te. Omaggio a Tito Schipa

CONSERVATORIO “TITO SCHIPA” DI LECCE – AUDITORIUM

VENERDÌ 30 SETTEMBRE 2016

ORE 18.00

PRESENTAZIONE DEL VOLUME

Canto per te. Omaggio a Tito Schipa

a cura di ELSA MARTINELLI

Lecce, Ed. Grifo, 2016

 30sett

Saluti istituzionali

On. NICOLA CIRACÌ, Presidente del Conservatorio di Lecce

M° SALVATORE STEFANELLI, Direttore del Conservatorio di Lecce

Interventi

della CURATRICE, degli AUTORI e dell’EDITORE

Introduce e modera

Prof. MAURIZIO NOCERA

Omaggio musicale

a cura di RAFFAELLA LICCARDI soprano

ALBERTO NARDELLI fisarmonica

VALERIO DE GIORGI pianoforte

FRANCESCO SABATO – MARCELLO BALDASSARRE

FERNANDO TOMA – ANTONIO ZITANO quartetto d’archi

 

In occasione del 50° anniversario della morte (New York, 1965), la città di Lecce ha reso omaggio a Tito Schipa con una serie di eventi commemorativi, ufficiali, istituzionali e spontanei, compositi o episodici. Anche il Conservatorio di Lecce, che oggi perpetua il nome di Schipa, avendo ereditato il lascito istituzionale del già Liceo Musicale a lui intitolato, ha inteso onorare la memoria di questa importante figura della storia della vocalità. Accanto a varie altre manifestazioni promosse per l’occasione dell’anniversario, l’Istituto ha dato alle stampe un volume commemorativo miscellaneo, per la cura scientifica di ELSA MARTINELLI.

Promosso dal Miur e dal Conservatorio di Lecce, il volume ha il patrocinio morale di Regione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Lecce, Archivio di Stato di Lecce, Università del Salento, Accademia di Belle Arti di Lecce, Società di Storia Patria per la Puglia, Agenzia Euro-Mediterranea e Archivio “Schipa-Carluccio”. Oltre alla presentazione di TITO SCHIPA JR., il libro riunisce i saggi di studiosi di varia formazione professionale: MICHAEL ASPINALL esperto di storia della vocalità e maestro di canto attivo a Napoli, GIGLIOLA BIANCHINI documentalista e bibliotecaria del Conservatorio di Torino, MARIA GIOVANNA BRINDISINO già bibliotecaria del Conservatorio di Lecce, ingegnere GIANNI CARLUCCIO responsabile dell’Archivio “Schipa-Carluccio” di Lecce, LUCIANA D’AMBROSIO MARRI sociologa attiva a Roma, MARIACARLA DE GIORGI musicologa dell’Università del Salento, GIOVANNI INVITTO professore emerito dell’Università del Salento e già vicesindaco di Lecce, ALESSANDRO LAPORTA direttore emerito della Biblioteca Provinciale di Lecce, architetto BEATRICE MALORGIO di Lecce, musicologa ELSA MARTINELLI del Conservatorio di Lecce, PIERO MENARINI esperto di letteratura ispanica dell’Alma Mater di Bologna, senatrice ADRIANA POLI BORTONE già sindaco di Lecce, DARIO SALVATORI giornalista e critico musicale RAI di Roma. La presentazione del volume si terrà venerdì 30 settembre 2016, nell’Auditorium del Conservatorio di Lecce, alle ore 18.00.

Moderati dal Prof. MAURIZIO NOCERA, gli interventi del Presidente del Conservatorio di Lecce On. NICOLA CIRACÌ e del Direttore M° SALVATORE STEFANELLI, della CURATRICE del volume, degli AUTORI e dell’EDITORE, saranno incorniciati da un omaggio musicale a cura del soprano RAFFAELLA LICCARDI, col sostegno di ALBERTO NARDELLI alla fisarmonica, di VALERIO DE GIORGI al pianoforte e del quartetto d’archi formato da FRANCESCO SABATO, MARCELLO BALDASSARRE, FERNANDO TOMA e ANTONIO ZITANO.

 

INGRESSO LIBERO

La dolcissima arte del soffice panettone

panettone

di Nunzio Pacella

Sabato mattina lo specchiese Giuseppe Zippo titolare della pasticceria “Le Mille Voglie” sarà protagonista a Milano della finale di Panettone Day 2016.

In palio, il titolo di “Miglior panettone artigianale d’Italia”.

Il concorso premia i migliori panettoni artigianali e promuove l’eccellenza della pasticceria italiana. Panettone Day, durante la manifestazione “Sweety of Milano”, importante evento gourmet aperto al pubblico, è articolato in due giornate, sabato 17 e domenica 18 settembre a Palazzo delle Stelline.

Il panettone artigianale di Zippo realizzato con prodotti di qualità della Cream Gel di Lecce di Oronzino Palma, è al primo posto tra i 20 finalisti selezionati per la categoria  “Miglior panettone artigianale d’Italia” tra i 150 concorrenti provenienti da tutte le regioni e al settimo posto per quella di “Miglior panettone creativo dolce” dove sono stati selezionati per la finale solo i primi 5 pasticcieri.

La giuria di esperti presieduta  dal maestro pasticciere Iginio Massari  e composta da Gino Fabbri, Salvatore De Riso e Chiara Maci valuterà ogni panettone tradizionale secondo alcune caratteristiche fondamentali: gusto, forma, colore, qualità degli ingredienti, profumo,  sofficità, fragranza,  taglio, alveolatura, uniformità di distribuzione della frutta candita e cottura.

All’interno di “Sweety of Milano”ci sarà un vero e proprio moderno concept store nel temporary shop Panettone Day. La location esclusiva nel cuore di Milano è uno spazio dedicato sia alle operazioni di assaggio da parte della giuria sia alla proclamazione dei vincitori che costituirà un vero e proprio evento aperto al pubblico. Inoltre, per tutto il prossimo mese di ottobre, i finalisti avranno l’opportunità di esporre e vendere i panettoni tradizionali e creativi dolci in un vero e proprio negozio firmato “Panettone Day”.

Nunzio Pacella su La gazzetta del Mezzogiorno del 14 settembre 2016

 

E in effetti il pasticciere Giuseppe Zippo di Specchia ha vinto poi il premio, classificandosi al primo posto:

http://www.corrieresalentino.it/2016/09/a-specchia-il-miglior-panettone-tradizionale-ditalia/

Itinerari medievali di pellegrinaggio. Da Brindisi a Gerusalemme

In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico.

Ovunque vada è la propria anima che sta cercando.

Per questo l’uomo deve poter viaggiare. Andrej Tarkowsky

 

Lunedì 26 settembre 2016, con inizio alle ore 18.00, nella chiesa di San Benedetto in Brindisi (g.c.), si avrà il II Incontro di studio  sugli  Itinerari medievali di pellegrinaggio con riferimento particolare al tema Da Brindisi a Gerusalemme. Ne discuteranno Giacomo Carito, vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia, Anna Cinti,  Presidente Associazione Le Colonne, e Giuseppe Marella del Viator Studies Center – Research and Development of Vie Francigene and Historical Routes – Università del Salento.  I lavori,  introdotti e coordinati da Giuseppe Rollo della sezione di Brindisi della Società di Storia Patria per la Puglia, saranno aperti dagli indirizzi di saluto delle autorità e dei responsabili del Club per l’Unesco di Brindisi e della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione di Brindisi, sodalizi promotori e organizzatori. Aderiscono all’iniziativa l’associazione “Le Colonne”, la Pro Loco di Brindisi e il Medieval Fest.

L’Italia è meta, per essere sede del romano pontefice,  di chi fa della fede una ragione di vita e di chi vuole conoscere alle radici un mondo che ha saputo creare arte, architetture e oggetti di inestimabile valore.  Le mete più frequentate, già a partire dal IV secolo, sono la Terrasanta, cioè i luoghi della vita e della morte di Gesù Cristo e Roma, sacra per la tomba di san Pietro. Poi, col IX secolo, acquista sempre più importanza il santuario di San Jacopo di Compostela, nella Spagna nord-occidentale, città sorta attorno al sepolcro dell’apostolo Giacomo. In Puglia il cammino della Via Francigena attraversa per intero il territorio regionale, dai Monti Dauni nell’Appennino settentrionale per giungere fino a Brindisi, principale città di imbarco per Gerusalemme, con un itinerario principale che conduce a Monte Sant’Angelo per scendere lungo la costa e una dorsale interna. Con deliberazione della giunta regionale pugliese del I luglio 2013, n. 1174 si è avuta la formale approvazione del tracciato del percorso che la Regione Puglia ha inoltrato all’Istituto Europeo degli Itinerari Culturali per ottenere il riconoscimento dalConsiglio d’Europa.

Il provvedimento regionale riafferma come nella storia della Puglia e del suo territorio abbiano assunto un ruolo importantissimo le Vie di fede, lungo le quali per secoli si sono svolti pellegrinaggi di natura religiosa, in parte orientati a raggiungere i principali luoghi di culto del nostro territorio, in parte volti ad attraversarlo per raggiungere come meta finale Gerusalemme. Possiamo immaginare sulle banchine del porto di Brindisi i pellegrini rivestiti delle loro antiche armi simboliche: il bordone e il bastone, la bonaccia e la bisaccia, il mantello e il cappello, la conchiglia di Saint-Jacques che richiude sul petto le cappe santePeregrini sono “quelli che vanno oltre il campo” (per agrum), gli oltrepassanti, i transeunti. E Ultreia!,“più lontano”, è da sempre il loro motto. Passando attraverso gli ostacoli naturali e le insidie del lungo viaggio, gli uomini del medioevo si fanno pellegrini per purificarsi e meritare il cospetto di Dio.

Questi cammini tuttora rappresentano un importantissimo riferimento, sia per la storia culturale della Puglia e le caratteristiche del suo paesaggio, sia dal punto di vista turistico, anche in considerazione del grande rilievo che stanno assumendo la mobilità lenta e il turismo spirituale.

La Regione Puglia, che ha aderito alla Associazione Europea Vie Francigene (di seguito AEVF), Rete Portante del Consiglio d’Europa, e che ne detiene la Vicepresidenza ha ritenuto di dover collaborare con il Consiglio d’Europa nell’auspicabile obiettivo di ottenere il riconoscimento del tratto pugliese della Via Francigena nel Sud. AEVF propone che vi sia una sola Via Francigena europea, che colleghi Canterbury, ma anche Santiago e Stade, a Montefiascone, per poi dirigersi a Roma e Gerusalemme, e indica la necessità di provvedere ad un’ampia rappresentanza delle nuove “aree strada” coinvolte dall’allargamento dell’Itinerario Culturale Europeo: a ovest verso Santiago, a nord verso Stade ed a sud di Roma, verso Gerusalemme. Per il tratto sud, in particolare, indica la Regione Puglia come “motore di sviluppo” e come “capofila” dell’istanza di riconoscimento al Consiglio d’Europa. La Regione ha definito un tracciato che si snoda attraverso le seguenti località: Celle San Vito – Troia – Lucera – San Severo – San Marco in Lamis – San Giovanni Rotondo – Monte Sant’Angelo – Manfredonia – Barletta – Bisceglie – Molfetta – Giovinazzo – Bari – Mola – Monopoli – Torre Canne – Torre Sabina – Brindisi.

Terra di pellegrinaggi, la Puglia è disseminata di luoghi di devozione e di culto; rappresenta essa una meta unica e obbligata per coloro che vogliono percorrere le strade della fede, quali la via Francigena.  Il tragitto rappresentava in sé un atto di penitenza, simbolicamente e materialmente consegnava il pellegrino nelle mani di Dio. Ha scritto Henri Engelmann: “Il pellegrinaggio è una forma eminente di preghiera e vale a colui che lo compie grazie eccezionali: nel Giudizio Universale di Autun, i morti escono nudi dalla tomba ad eccezione di due pellegrini il cui tascapane è contrassegnato sia dalla Croce di Terra Santa che dalla conchiglia di San Giacomo. L’idea evidente dello scultore è che sotto la protezione di simili emblemi si può tranquillamente affrontare il giudizio di Dio”.

pellegrinaggi

PROSSIMO APPUNTAMENTO

6-7 ottobre con In_Chiostri due giorni tra libri, gusti e storie che racconta un percorso dalla scalinata Virgiliana a Porta Mesagne, o viceversa, per far vivere testi, parole, narrazioni e gusti: muovere i sensi, rileggere parole che hanno descritto, nei secoli, la città e il territorio, ascoltare la voce del mare e dei poeti con recital e letture collettive.

Otranto: l’arcivescovo sospettato di eresia e una richiesta di raccomandazione in tre lettere inedite

di Armando Polito

(da Giovan Battista Pacichelli, Il regno di Napoli in prospettiva, v. II, Parrino, Napoli, 1703)

 

Pietro Antonio Di Capua, appartenente, tanto per cambiare… ma quelli (?) erano i tempi, a nobile famiglia napoletana, fu arcivescovo di Otranto dal 1536 al 1579, anno della morte. Il punto interrogativo tra parentesi  che accompagna quelli vuole amaramente sottolineare che, mutate le condizioni sociali, alla nobiltà sono subentrate nuove forze, ancor meno nobili di quella, per ciò che riguarda lo spirito e che in tutti gli ambienti, soprattutto nel settore riguardante la gestione del potere, oggi più che mai il merito e la degnità sono titoli poco spendibili.

Ho sempre avuto simpatia per gli eretici, non fosse altro che per il fatto che essi costituiscono, secondo me, gli unici palpiti di vita in un organismo che parecchi vorrebbero immobile e non al passo con i tempi, soprattutto, sottolineo soprattutto, quando si tratta di difendere l’indifendibile (per esempio: il principio dell’infallibilità del Papa ex cathedra; sarebbe, sul piano laico, come dire che i gerarchi nazisti, le SS e gli esecutori dei loro ordini fecero bene a fare quel che fecero fidando nell’infallibilità di quell’altro capolavoro della natura che fu Hitler. Pur non ragionando più con i criteri del passato, forse per questo  agli occhi di qualcuno il papa attuale sembrerà un eretico …).

Comunque stessero le cose, al nostro, comunque, andò bene: è vero che, a causa dei sospetti, non riuscì a diventare cardinale, ma, in compenso, non solo non subì alcuna condanna ma addirittura fu uno dei protagonisti del Concilio di Trento. Merito di più di un paracadute o forza dell’innocenza non disgiunta dall’intelligenza? Se prevalse l’ultima coppia,  si deve concludere che non può essere tacciata di furbizia la giustificazione principe con cui il nostro si discolpò dall’accusa di alcune letture di autori sospetti e dalla loro stessa frequentazione: come si può combattere un fenomeno se prima non lo si studia?

A chi volesse conoscere la biografia dettagliata segnalo il link http://www.treccani.it/enciclopedia/di-capua-pietro-antonio_(Dizionario-Biografico)/; qui il lettore troverà solo un piccolo tassello a conferma  che i santi ai quali il Di Capua ricorse nei momenti di difficoltà non stavano in cielo e neppure, tutto sommato, in terra ecclesiastica, ma in territorio laico (leggi imperatore), a conferma degli intrecci, sovente torbidi, con cui il potere, anzi i poteri …, si assicurano la sopravvivenza.

Di seguito riproduco tre lettere (facenti parte di un fondo di otto custodito nella nella Biblioteca Nazionale di Spagna (segnatura: MSS/7911/167-174; le tre qui riprodotte sono la 167, la 169 e la 170). Non sono autografe, ma originali, nel senso che non sono state stilate di propria mano dall’arcivescovo ma recano il suo sigillo. Figurarsi se allora un personaggio importante non poteva permettersi uno scrivano, visto che oggi pure un semplice sindaco, magari di un paesino che non conta più di mille abitanti, non può fare a meno di uno staff che comprende, ad essere sparagnini, almeno un addetto stampa ed un segretario particolare. E pure allora, proprio come ancora oggi, non è che lo scrivano fosse proprio all’altezza, anche quando non aveva qualche difetto di udito, per scrivere fedelmente e come l’ortografia del tempo comandava ciò che il suo padrone gli dettava. Per dimostrarlo ho collocato subito dopo la riproduzione di ogni foglio originale la trascrizione con lo scioglimento delle abbreviazioni e in calce le note esplicative e l’eventuale commento. Ho ritenuto opportuno collocare alla fine del post una galleria di immagini, per lo più stampe antiche, dei personaggi più importanti che via via sono nominati nelle lettere. Purtroppo manca proprio quella del nostro arcivescovo; d’altra parte, se fossi riuscito a trovarne una, la sua collocazione obbligata sarebbe stata in testa e non in coda …

MSS/7911/167

 

Ill(ustrissi)mo et Rever(endissi)mo signor mio oss(ervandissimo)

Per lettere del p(rese)nte huomo mio e di M(esser) Natale Musi Agente dell’ecc(ellente) del(egato) del Signor Don F(e)rr(an)tea con le quali ricevi(st)i questi dì adietrob il dispaccio di su(a) Maestàc per le cose mie di qua, ch’io aspettava, et desiderava per darle fine, come farò subito che sarà ritornato il s(igno)r Don Diegod à Roma, ò che mi scriveva ordinandomi quel ch’io haverò à fare, hò inteso la solita benig(ni)ta di v(ostra) s(ignoria) Ill(ustrissi)ma et Rever(endissi)ma verso di me, et la continua memoria, et protettion che mercè sua, hà tenuto delle dette cose mie appresso sua M(aest)a, et le ne rendo quelle maggiori, et più vive gratie, che io posso et debbo, supplicandola humilmente, che così come io piacendo al signoree mi forzarò in brieve uscir da questi travagli, et fastidij, et far chiara alla M(aest)a sua, et à tutto il mondo l’innocenza mia et tutte le ciance, et calunnie di coloro che sinistramente hanno procurato di offendermi, così v(ostra) s(ignoria) Rever(endissi)ma et Ill(ustrissi) ma dove bisognarà, et dasef, et essendo richiesta, se voglia dignare continuam(ente) di raccomandarmi à su(a) M(aest)a et mantenermi nella sua buona gratia, sì come io spero, acciocheg con il favore et gran protettion sua, io ne habbia et possa sperare sempre ogni grande effetto ad honore et essaltation’ mia, et della casa mia, con la quale io non pensarò mai, se non di servir V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma et Rever(endissi)ma et pregare Iddio come farò sempre per la contentezza et felicità di quella, alla quale bascioh le mani et riverentem(en)te mi racc(oman)do. Di Roma il dì ultimo di F(eb)br(ai)o 1552. D(i) V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissim)a et R(everendis)s(ima) obligatiss(im)oi  s(er)vitore Larcivesc(ov)o Dotrantol.

a Ferrante I Gonzaga (1507-1557) fu uomo di fiducia dell’Imperatore Carlo V che lo nominò viceré di Sicilia dal 1535 al 1546 e governatore di Milano dal 1546 al 1554. Vedi nella galleria finale le tavole 1 e 2.

b Forma, insieme con a dietro e addietro, regolarmente in uso in passato.

c Carlo V. Vedi nella galleria d’immagini finale le tavole 3, 4 e 5.

d Diego Hurtado de Mendoza y Pacheco, poeta e ambasciatore di Spagna in Italia. Vedi nella galleria di immagini finale le tavole 6 e 7.

e Non credo che un arcivescovo, per quanto sospetto eretico, avrebbe scritto di proprio pugno signore per Signore

f Per da sé, altro dettaglio dimostrante che la lettera non è autografa, ma dettata.

g Forma regolarmente in uso, insieme con acciocche,  nei secoli scorsi.

h Per bacio. La forma basciare in passato si alternava regolarmente con baciare.

i Forma regolarmente in uso nei secoli scorsi, non saprei dire se lo scempiamento di b è un latinismo (obbligare in latino è obligare) o uno spagnolismo (obligar).

l Queste due ultime parole mostrano che con elisione ed apostrofo in particolare lo scrivano aveva un rapporto piuttosto conflittuale …

 

All’Ill(mo) et Rever(endissi)mo  s(igno)r mio oss(ervand)o Mons(ignor) d’Arrasa del cons(iglio) secreto della M(aes)ta All’Ill(mo) et Rever(endissi)mo  s(igno)r mio oss(ervand)o Mons(ignor) d’Arrasa del cons(iglio) secreto della M(aes)ta Ces(are) b vizc  Corte Ces(are)

a Antonio Perenot de Granvella (1517-1586), vescovo di Arras dal 1542, poi arcivescovo di Malines dal 1561 e nello stesso anno fatto cardinale da Pio IV, fu anche ambasciatore a Roma e viceré del Regno di Napoli dal 1571al 1575. Nel 1550 era subentrato al padre Nicola nella carica di consigliere di Carlo V. Vedi nella galleria di immagini finale le tavole 8, 9, 10, 11 e 12.

b Maestà cesarea era stato già appellativo degli imperatori del Sacro Romano Impero a partire da Ottone I (962), poi, a partire dal 1512 con Massimiliano I, del Sacro Romano Impero della nazione germanica. Qui l’imperatore è Carlo V, per il quale vedi nella galleria di immagini finale le tavole 3, 4 e 5.

abbreviazione di origine medioevale del latino videlicet, che è da videre licet=si può vedere, col significato di chiaramente. Qui ha la funzione di chiudere la parte della lettera con l’indicazione del destinatario.
Prima di passare alla seconda lettera mi soffermo sul sigillo per dire che, purtroppo, nonostante tutti i tentativi, non esclusa l’elaborazione elettronica per renderlo più leggibile, mi è rimasto indecifrabile. Di seguito l’immagine nativa (del sigillo della lettera 169 che meglio si prestava all’operazione) e quella elaborata a confronto, nella speranza che qualche lettore possa illuminarci, anche sulla scorta della terza e quqrta immagine immagine che presentano, rispettivamente lo stemma arcivescovile del Di Capua (lo scuso come appare in Ferdinando Ughelli, Italia sacra, tomo IX, Mascardi, Roma, 1662, colonna 87, e lo stemma della famiglia (la corona è, addirittura, principesca).

 

MSS/7911/169

Ill(ustrissi)mo et R(everendis)s(i)mo s(ign)or mio oss(ervandissi)mo Di tanti, et sì grandi et continui favori che io ricevo da v. s. Ill(ustrissi)ma, et di questo ultimamente delle l(ette)re ch’ella si è dignata mandarmi à favor di questa mia causa, dirette a Mons(ignor) R(everendis)s(i)mo Puteoa, et di Gihennab, piene di quella cortesia, et amorevolezza che per sua mi ha già mostrata sempre, io non posso se non ringraziarnela, et saperlene quel gradoc che io debbo, ciò è grande et infinito, il quale officio se ben io hò fatto altre volte, mi giova ora di replicarlo se non per altro che so non bisog(n)a almeno per ricordarle la servitù mia amorevole, et supp(li)car S(ua) S(ignoria) Reverendissima come faccio, che col comandarmi ove io sia buono à servirla, ne voglia tener memoria, tuttavia conservandomi nella sua solita buona già, et in quella di Sua M(aest)a Ces(are)ae secondo più particolarmente Lei intenderà dal p(rese)nte Messer Natale Musi, poi che quanto di bene, et di honore io spero al mondo, tutto lo spero dalla grandezza et favor della M(aest)a sua, col mezzo del patrocinio di V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissim)a alla quale riverentemente raccomandomi bascio le mani, et priego il sig(nor)e che la conservi feliciss(im)a Di Roma il dì VII di Luglio 1552. D(i) V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma et R(everendis)s(i)ma obligatiss(im)o servitore Larcivescovo Dotranto  Sul margine inferiore sinistro si legge Mo(nsignore) R(everendis)s(i)mo d’Aras.

a Giacomo Puteo o Dal Pozzo (1495-1563), arcivescovo di Bari e Canosa, poi creato cardinale il 20 novembre 1551 da papa Giulio III.

b Geenna è il nome di una valle dell’Antico Testamento dove sarebbe stato praticato il culto di Moloch. Il re Giosia la sconsacrò A questo culto facendola diventare l’immondezzaio di Gerusalemme. Nel Nuovo Testamento la parola è sinonimo di Inferno. Nella lettera la parola in questione (di Gienna è coordinato con di questa mia causa, locuzioni entrambe dipendenti da à favor) partecipa dell’una e dell’altra idea (fango gettatogli addosso e sofferenza derivante dall’ingiusta accusa).

c manifestarle quella gratitudine.

All’ill(ustrissi)mo et Rever(endissi)mo mio oss(ervandissi)mo Mons(ignor) il Vescovo d’Aras, del Cons(iglio) secreto di sua M(aest)a Ces(are)a viz

 

MSS/7911/170    

Ill(u)s(trissi)mo et Re(verendis)s(i)mo Mons(igno)r mio oss(ervandissi)mo

Io non vorrei (sallo Iddio) dar maggior fastidio a V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma di quello, che io l’ho dato per le cose mie, a questi tempi così contrarii,et poco atti a trattar simili negotii, et forse ne sarò ritenuto importuno, ma io non posso fare altrimenti, così sforzato dall’honor mio, che mi preme, et dal torto, che io vedo, che mi è fatto; la onde la supp(li)co, che mi perdoni, et sappi come più volte gli ho scritto, come da me non è mancato, con ogni mio potere et sforzo, tuttavia di sollecitare la speditione di esse, et quando io sperava dapoi d’haver dal canto mio sodisfatto appieno et contentato Mons(igno)re R(everendis)s(i)mo Puteo, à cui sà V(ostra) R(everendis)s(i)ma, che questa causa fu commessa, non solo di quello, che era necess(a)rio, ma che si poteva far (per me) che S(ua) S(anti)taa essendole referito da S(ua) S(ignoria) R(everendis)s(i)ma dovesse imporle, che ci donasse fine, per che così era da farsj, otto dì sono, che la san(tit)a sua forse non ricordandosi di quello che S(ua)M(aest)a C(esare)a più volte gli ha fatto far istanza, che in niun modo questa causa dovesse farla trattare da persone dell’inquisizione, et a me sospette et inimiche, come lei sà; volse che di nuovo il detto R(everendis)s(i)mo Puteo, la referisse in presentia di tutti loro, essendo in piena congregatione, il che quantunque à me non habbia offeso punto, anzi alla fine n’ho preso piacere considerando, che quato più s’intende, tanto più la nettezza dell’animo et la innocentia mia si fa palese à tutto il mondo, non di meno con tutto ciò, io non vedo ancora 

a Giulio III; vedi nella galleria d’immagini finale la tavola 13.

che la sia spedita, ne che vogliano spedirla altrimenti, senza l’aiuto et autorità di S(ua) M(aesta), la quale di nuovo ne faccia istanza a sua M(aesta), non aspettando farsi altro, che questo, per farsene buono con la M(aesta) sua sì come habbiamo raggionato insieme con Mons(ignore) R(everendissi)mo Paceccoa, e ‘l seg(reta)rio. Però io supp(li)co V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissima) quanto più strettamente posso, che si vogli degnare per amor mio, con quella solita affectione, che m’ha dimostrata sempre per sua gratia di oprarsi con il voler suo, di ottenermj una lettera di S(ua) M(aesta), che à lui sarà facile, diretta qui al detto R(everendissi)mo Pacecco, che in nome della M(aesta) sua, non vi essendo altri al presente, abbia da far questo officio con sua S(anti)ta di pregarla che a questa causa per quanto comportera la giustitia, ci s’habbia ad impor fine hormai che di tutto ne restarà con perpetuo obligo a V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissima) la quale anco mi farà gratia inviarmela quanto più p(re)sto sia possibile, desiderandolo solo dalle mani sue, et così ancora, con le occasioni, che s’appresentaranno, ricordarsi di raccomandarmj a S(ua) M(aesta), et dirle,che da poi che da me non e mancato, di far quanto ho potuto in questo negotio, per sodisfare a costoro qui, che del resto io non curava, si degni aver per racc(omanda)to me et l’honor mio, come sempre ha fatto, et io spero, nella benignità sua, et nel suo favore, et patrocinio di V(ostra) S(ignoria) R(everendis)s(i)ma, à cuj bascio le manj pregando N(ostro) S(igno)re Dio che la conservj feliciss(im)a Da Roma il dì XVI di Novenbre 1552. D(i) V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma et R(everendis)s(i)ma obligatiss(i)mo servitore larciv(escov)o Dotranto  

a Pedro Pacheco de Villena (1508-1579),  cardinale dal 1545, fu vicerè di Napoli dal 1553 al 1556. Al tempo della lettera (1662) era vescovo di Jaén (vedi il suo stemma nella galleria finale di immagini, tavola 14).

All’Ill(ustrissi)mo et R(everendis)s(i)mo s(ign)or mio oss(ervandissi)mo Mons(ign)or d’Aras del cons(igli)o secreto di S(ua) M(aes)ta Ces(are)a viz

Perpendicolarmente in basso a destra L’Arcivesc(ov)o d’Otranto La causa sua non si espedisce anchor che sia stata inserita due volte dal Car(dina)le Puteo, et presenti gli Inquisitori, p(er)tanto desidera una l(etter)a di S(ua) M(aes)ta al Car(dina)le Paccecco [Pacecco nella lettera] acciò che in nome de la M(aes)ta sua ne parli et solleciti l’espedissione.

Chiudo con un’osservazione banale ma necessaria per introdurre un ultimo documento, quest’ultimo già pubblicato. Gli epistolari (soprattutto non quelli a senso unico, ma che raccolgono il messaggio inviato e la relativa risposta pervenuta) sono una fonte fondamentale nella ricostruzione del passato. Come l’archeologo scavando ha occasione di approfondire ciò che le fonti letterarie ed epigrafiche hanno tramandato, così lo storico può rinvenire nell’epistolario una conoscenza più profonda, per quanto soggettiva e di parte, sul piano umano. Ecco il simpatico quadretto, anche psicologico, emergente da un brano di una lettera del 24 ottobre 1549 (pubblicata in Krista De Jonge e Gustaaf Janssens, Les Granvelles et les anciens Pays-Bas, Presses Universitaires de Louvain,  2000, pp. 84-85),  in cui il vero protagonista non è il mittente Natale Musi o il destinatario Ferrante I Gonzaga  o i nominati sua Maestà Cesarea l’imperatore o il Monsignor d’Arras (personaggi che abbiamo avuto modo di conoscere), ma un’ umile scatola di cotognata, anzi, cotognada … (probabilmente il Musi era di origine veneta).

Così scrive il Musi al Gonzaga: Hebbi l’altro giorno insieme con la lettera di Vostra Signoria Illustrissima la scatola di cotognada ch’ella mandava per Sua Maestà et comparve in tempo ch’io non usciva di camara per la mia indisposizione: volle la sorte che in quel medesimo tempo Monsignor d’Arras mi venne a visitare et vista la scatola mi dimandò che cosa v’era dentro, et dicendoli ch’era cotognada che Vostra Signoria Reverendissima mandava a Sua Maestà mi disse queste formali parole: -Musi, io son per far alcuni banchetti alli parenti di mio fratello et quelle cotognade mi verrebbono grandemente a proposito, per vostra fede datemele e scrivete a Monsignor Reverendissimo che l’havete date al’imperatore perché ad ogni modo non si saperà -. – Sarà manco male – gli dissi io – ch’io scriva a sua Signoria Reverendissima  che le havete havuto voi, perché non le sarà men caro che le habbiate che Sua Maestà le avesse -. – Non per amor d’iddio – mi rispuose egli – scrivetele che Sua Maestà le ha havute, et le mandate pur in casa mia -, et contutto che me lo comandasse alhora nol feci, con pensamento ch’egli se le dovesse scordare et io in tal caso le harei dato a Sua Maestà: ma la mattina seguente visto che non le mandavo mi mandò un suo paggio a dirmi che poiché m’ero scordato di mandargliele mandava a ricordarmi che le mandassi, come feci malvolentieri, né io seppi negargliele per quel bisogno che Vostra Signoria Reverendissima et il signor mio Illustrissimo tengono di lui, sich’io la supplico humilmente a volerlo ricevere in grado et tenermi per iscusato.  

E, umanità per umanità, mi piace immaginare lo sviluppo dell’episodio nel modo che segue.

 

Chi, dei tre personaggi, avrebbe mai potuto supporre che a distanza di quasi cinque secoli uno qualunque, per giunta del profondo sud, li avrebbe messi alla berlina? Se fossi vissuto al loro tempo, forse  avrei rischiato seriamente la vita. Oggi non mi sentirei di escludere che qualche loro discendente idiota (il fenomeno si verifica spesso tra i cosiddetti nobili o sedicenti tali …) possa pensare di lavare con una querela l’onta familiare subita.

                                                     

GALLERIA D’IMMAGINI

1 Ferrante I Gonzaga in un’incisione di Martino Rota (del 1536-1546) custodita nella Kunstsammlungen der Veste a Coburg

2 Ferrante I Gonzaga in un incisione del 1600-1604 circa di  Dominicus Custos custodita nel Rijksmuseum ad Amsterdam

3 Carlo V in un’incisione del 1644 di Peter Soutman custodita nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel

 

4 Carlo V in una tavola tratta da Emanuel  Van Meteren, Historie der Neder-landscher ende haerder na-buren oorlogen ende geschiedenissen …, Hillebrant Iacobssz van Wouw, . ‘s Graven-Haghe, 1614

 

5 Carlo V in un’incisione del 1600 di Philips  Gale custodita nel Plantin-Moretusmuseum ad Anversa

13b

6 Diego Hurtado de Mendoza y Pacheco in un’incisione del 1845 circa di Camillo Alabern custodita nella Biblioteca nazionale di Spagna

7 Diego Hurtado de Mendoza y Pacheco in un’incisione di José Gomez y Navia (1757-1812) custodita nella Biblioteca Nazionale del Portogallo

 

8 Antonio Perrenot de Granvella, vescovo di Arras, in una tavola tratta da Emanuel  Van Meteren, Historie der Neder-landscher ende haerder na-buren oorlogen ende geschiedenissen …, Hillebrant Iacobssz van Wouw, . ‘s Graven-Haghe, 1614


9 Antonio Perrenot de Granvella, vescovo di Arras, in una incisione del 1650 circa custodita nel Museum Catharijneconvent en Vrije Universiteit ad Amsterdam

10 Antonio Perrenot de Granvella, vescovo di Arras, in una incisione del 1692 custodita nella Biblioteca nazionale di Spagna

 

11 Antonio Perrenot de Granvella, vescovo di Arras, in una incisione del 1750 circa custodita nel Museum Catharijneconvent en Vrije Universiteit ad Amsterdam

 

12 Antonio Perrenot de Granvella, vescovo di Arras, in una incisione del 1750 circa custodita nel Museum Catharijneconvent en Vrije Universiteit ad Amsterdam

 

13 Giulio III in una tavola tratta da Onofrio Panvinio, XXVII pontificum maximorum elogia et imagines, Antoine Lafréry, Roma, 1568

 

14 Stemma di Pedro Pacheco de Villena in una tavola tratta da Martin de Ximena Jurarado, Catalogo de los obispos de las iglesias catedrales de la diocesi de Jaen, s. n., Madrid, 1564

Libri| Mia madre che amava le bambole

copertina-2016_mia-madre-che-amava-le-bambole_romano_comete-1-copia

Raccontare storie per riscattare la bellezza del nostro vivere quotidiano, per osservarlo con gli occhi dei grandi affabulatori, capaci di cogliere qualcosa di unico anche nelle storie più comuni: è quanto accade in questa raccolta di racconti ad opera di Alfredo Romano. Dal Salento alla provincia viterbese, tra l’euforia delle feste popolari e i sapori della cucina tradizionale, fra i ricordi di scuola, gli uliveti d’argento, le vigne e la raccolta del tabacco, un mosaico di storie che vengono fuori da un tempo sospeso, come le bambole dai comò delle nostre madri.

In chiusura del volume una chicca: il racconto-reportage Un salentino sulle tracce di Cesare Pavese, frutto del viaggio che l’autore ha compiuto nel maggio del 1976 alla ricerca dei luoghi e dei personaggi pavesiani. In particolare, nel racconto si parla dell’incontro con Pinolo Scaglione, il Nuto del romanzo La luna e i falò, il quale offre una testimonianza sull’uomo Pavese, visto non attraverso gli occhi dei critici ma attraverso quelli dell’amico più caro.

A 16 anni passa un caporale con un furgone stipato di facce scure e pensierose, e ti porta via. Allora tu ti lasci dietro tutto: l’infanzia, gli affetti, gli amici, il primo amore. Ti lasci dietro parole, suoni, profumi, odori, la frisa, li maccarruni fatti ‘ccasa, la ricotta schianta. Ti lasci dietro il mare.

Dopo, la vita è tutta una corsa a recuperare, a ricordare, a non dimenticare. Si sa, si ama ciò che non si ha, e tutto ciò che hai lasciato viene relegato nel mito. Scrivere è fermare quel mito, stagliarlo sul tuo orizzonte personale, sulla tua identità. Restando a Collemeto, non avrei mai avuto bisogno di affermare la mia identità, ma ora mi tocca farlo, quasi ogni giorno: io vengo da Collemeto, dalla Lecce barocca, dalla Terra d’Otranto.

A 16 anni passa un caporale con un furgone stipato di facce scure e pensierose, e ti porta via. Allora tu ti lasci dietro tutto: l’infanzia, gli affetti, gli amici, il primo amore. Ti lasci dietro parole, suoni, profumi, odori, la frisa, li maccarruni fatti ‘ccasa, la ricotta schianta. Ti lasci dietro il mare.

Dopo, la vita è tutta una corsa a recuperare, a ricordare, a non dimenticare. Si sa, si ama ciò che non si ha, e tutto ciò che hai lasciato viene relegato nel mito. Scrivere è fermare quel mito, stagliarlo sul tuo orizzonte personale, sulla tua identità. Restando a Collemeto, non avrei mai avuto bisogno di affermare la mia identità, ma ora mi tocca farlo, quasi ogni giorno: io vengo da Collemeto, dalla Lecce barocca, dalla Terra d’Otranto.

 

 

ALFREDO ROMANO è nato a Collemeto (Lecce) nel 1949. Vive a Civita Castellana nel Viterbese dove ha diretto la biblioteca comunale per quarant’anni fino al 2010.

Fra le opere di cui è autore ricordiamo: Salento tra mito e realtà. Canti e monologhi in dialetto salentino (1993), Ci sono notti che io (1994) e Cantavamo Contessa (1998). Per Besa editrice ha già pubblicato Tradizioni popolari e storie di vita nel Salento (2005) e Amneris, che morì di poesia (2006), mentre per Negroamaro nel 2011 sono usciti Piccoli seminaristi crescono e Lu Nanni Orcu e altri racconti salentini.

Lo stemma dei principi di Taranto Filippo I, Roberto e Filippo II

I gigli, il lambello e la banda: breve studio sulla genesi e l’evoluzione

dello stemma dei principi della Casa d’Angiò-Taranto

 

di Marcello Semeraro

Sull’araldica dei principi angioni di Taranto del Trecento (Filippo I, Roberto e Filippo II) non esistono studi specifici. Il presente contributo, pur nella sua brevità, si propone di colmare in parte questa lacuna, richiamando l’attenzione degli studiosi su un campo di ricerca particolarmente interessante, anche per via delle sue notevoli implicazioni interdisciplinari. Per comodità di trattazione, abbiamo suddiviso la nostra indagine in due parti: nella prima ci occuperemo dello stemma innalzato da Filippo I d’Angiò, nella seconda di quello dei suoi successori.

 

Lo stemma Filippo I d’Angiò

Si dicono brisure (dal francese briser, “rompere, spezzare”) quelle varianti introdotte in uno stemma rispetto all’originale per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. Comparse verso la fine del XII secolo – ovvero in un’epoca in cui le armi cominciarono a diventare ereditarie – e diffuse soprattutto nei paesi di araldica classica (Francia, Inghilterra, Scozia, Paesi Bassi, Germania renana, Svizzera), le brisure furono istituite probabilmente dagli araldi per ragioni essenzialmente militari: riconoscere gli individui apparentati che innalzavano armi simili nel campo di battaglia o nel torneo, ovvero nei luoghi dove materialmente comparvero le prime armi nella prima metà del XII secolo.

Il sistema si basava su un principio molto semplice: all’interno di una stessa famiglia, solo il più anziano del ramo primogenito aveva il diritto di portare le armi familiari piene, ovvero il blasone primitivo senza alterazioni di sorta. Gli altri (il primogenito, vivente il padre, e i cadetti, con l’esclusione delle donne) dovevano apportare una leggera modifica all’interno dello scudo originario che li differenziasse dal capo d’armi.

L’uso delle brisure, che ebbe il suo apice fra il XIII e il XIV secolo e che diminuì man mano che l’araldica perse la sua centralità nel campo di battaglia, non fu mai sottoposto ad un sistema di regole uniformi e valide per tutte le epoche e tutti i luoghi, ma fu piuttosto un fenomeno legato ad abitudini familiari, mode geografiche o cronologiche. In linea di massima si possono distinguere tre principali modi di brisare un’arma: la modificazione degli smalti (che si ottiene, ad esempio, invertendo gli smalti del campo e delle figure), la modificazione delle figure (aumento o diminuzione del numero delle figure uguali, cambiamento della forma o della posizione oppure sostituzione di una figura con un’altra) e l’aggiunta di altre figure specifiche chiamate pezzi di brisura (lambello, banda e sue diminuzioni, bordura, quarto franco, stelle, merlotti, anelletti, conchiglie, ecc.).

Dal XIII secolo quest’ultima modalità rappresenta il procedimento più diffuso per brisare uno stemma. Manca lo spazio per approfondire la questione. Qui ci limitiamo ad osservare che in Italia le brisure non ebbero mai una speciale importanza, tranne a Venezia e nel reame napoletano, dove se ne fece un uso abbastanza ampio. Ma è soprattutto con le dinastie capetingia e plantageneta che si assiste ad un impiego massiccio di brisure e di sovrabrisure (ulteriori modifiche di uno stemma già brisato), utilizzate per distinguere i cadetti e le linee da essi derivate (fig. 1).

L’arma d’Angiò antico viene anche detta d’Angiò-Sicilia e d’Angiò-Napoli.
Fig. 1. Alcune brisure e sovrabrisure portate dalla Casa di Francia. Grand Armorial équestre de la Toison d’or (Lille, ca. 1435), Parigi, Bibl. de l’Arsenal, ms. 4790, fol. 54r.

 

Lo stemma gentilizio innalzato dal principe di Taranto Filippo I d’Angiò (†1331) ce ne offre un fulgido esempio (fig. 2).

Fig. 2. Riproduzione grafica dello stemma d’Angiò-Taranto
Fig. 2. Riproduzione grafica dello stemma d’Angiò-Taranto

 

La linea d’Angiò-Taranto nacque come ramo cadetto uscito dalla Casa d’Angiò-Napoli del ceppo capetingio, generato dal predetto Filippo, quarto figlio del re di Napoli Carlo II (†1309) e di Maria d’Ungheria, principe di Taranto dal 1294 al 1331 e dal 1313 imperatore titolare di Costantinopoli a seguito delle nozze con Caterina II di Valois-Courtenay. Essendo un ultrogenito, egli dovette giocoforza adottare un’arma che lo differenziasse da quella adoperata dal padre.

Fig. 3. Saluto d’oro di Carlo II d’Angiò. Sul recto, stemma partito di Gerusalemme e d’Angiò antico senza il lambello.
Fig. 3. Saluto d’oro di Carlo II d’Angiò. Sul recto, stemma partito di Gerusalemme e d’Angiò antico senza il lambello.

 

Come re di Napoli, Carlo II portava lo scudo del padre Carlo I d’Angiò (†1285), suo predecessore sul trono partenopeo sin dal 1282, ovvero un partito di Gerusalemme (d’argento, alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso) e d’Angiò antico (d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso)1 (fig. 3). L’uso di questa associazione d’armi risale tuttavia al 1277, quando Carlo I, re di Sicilia dal 1266, si intitolò, senza esserlo mai stato di fatto, re di Gerusalemme e sanzionò araldicamente questa pretensione inaugurando uno scudo partito dove pose a destra (sinistra per chi guarda) l’insegna gerosolimitana e a sinistra (destra per chi guarda) quella gentilizia. In precedenza, a partire dagli anni 1246/1247, dopo essere stato appannaggiato delle contee d’Angiò e del Maine, Carlo portò l’arma di Francia antica (d’azzurro, seminato di gigli d’oro), insegna propria dei sovrani capetingi di Francia (figg. 6 e 7), brisata da un lambello di rosso (figg. 4 e 5).

Fig.4. Scudo d’Angiò antico del re di Sicilia. Livro do Armeiro-Mor (1509), Campo Grande (Lisbona), Arquivo Nacional da Torre do Tombo, fol. 11r.
Fig.4. Scudo d’Angiò antico del re di Sicilia. Livro do Armeiro-Mor (1509), Campo Grande (Lisbona), Arquivo Nacional da Torre do Tombo, fol. 11r.
Fig. 5. Reale di Carlo I d’Angiò per Messina (1266-1277). Al rovescio, lo scudo d’Angiò antico
Fig. 5. Reale di Carlo I d’Angiò per Messina (1266-1277). Al rovescio, lo scudo d’Angiò antico

 

Fig. 6. Chartres, cattedrale Notre-Dame, rosone (ca. 1215-1216). Il principe Luigi (il futuro Luigi VIII) in grande tenuta araldica, porta uno scudo di Francia antica. Si tratta del più antico esemplare smaltato dell’arma dei capetingi.
Fig. 6. Chartres, cattedrale Notre-Dame, rosone (ca. 1215-1216). Il principe Luigi (il futuro Luigi VIII) in grande tenuta araldica, porta uno scudo di Francia antica. Si tratta del più antico esemplare smaltato dell’arma dei capetingi.

 

Fig. 7. Wappenrolle von Zürich (Zurigo, ca. 1330-1335), Zurigo, Schweizerisches Nationalmuseum, AG 2760, fol. 2r. Al centro l’arma piena del re di Francia.
Fig. 7. Wappenrolle von Zürich (Zurigo, ca. 1330-1335), Zurigo, Schweizerisches Nationalmuseum, AG 2760, fol. 2r. Al centro l’arma piena del re di Francia.

 

Quando la ribellione dei Vespri siciliani (1282) scacciò re Carlo dalla Sicilia, riducendolo al possesso dei territori meridionali al di qua del Faro, lo scudo partito di Gerusalemme e d’Angiò antico divenne proprio della corona di Napoli e della pretensione, ad essa collegata, al trono gerosolimitano. Carlo I morì nel 1285 e il suo regno, unitamente alla pretensione gerosolimitana, fu ereditato dal figlio Carlo II, al quale il padre trasmise anche lo stemma. Nel 1273 re Carlo II sposò Maria, figlia del re d’Ungheria Stefano V. Da questo matrimonio nacquero quattro diramazioni principali, corrispondenti ai figli e alle terre che essi ereditarono: il primogenito Carlo Martello fu lo stipite della linea d’Angiò-Ungheria, Roberto continuò quella reale d’Angiò-Napoli, mentre Filippo e Giovanni diedero vita rispettivamente alle linee d’Angiò-Taranto e d’Angiò-Durazzo.

Non potendo portare in quarto di pretensione gerosolimitana, in quanto legato esclusivamente alla corona di Napoli, Filippo I si limitò a sovrabrisare la sola arma d’Angiò antico, facendola attraversare da una banda d’argento. Lo stemma che ne risultò può essere così blasonato: d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso; con la banda d’argento, attraversante sul tutto (Angiò-Taranto).

L’arma del principe di Taranto è dunque il risultato di una sovrapposizione di tre piani diversi, ottenuta dapprima brisando e poi sovrabrisando lo stemma originario capetingio.

Il piano di fondo (il seminato di gigli d’oro in campo azzurro dei re di Francia) è quello più antico, seguito da quello intermedio (il lambello di rosso, proprio dei re angioni di Napoli) e da quello più recente (la banda d’argento, tipica dei principi angioini di Taranto). E’ così, del resto, che devono essere letti tutti gli stemmi, ovvero partendo dal piano di fondo fino ad arrivare a quello più vicino all’osservatore, secondo un ordine di lettura contrario alle nostre abitudini moderne.

Per comprendere meglio come sia avvenuto storicamente questo processo di alterazione della primitiva insegna capetingia riteniamo sia utile soffermarsi sulla genesi e lo sviluppo delle figure che compongono lo scudo di Filippo I.

A partire dal regno di Filippo Augusto (1180-1223), i sovrani capetingi di Francia portarono come insegna araldica un seminato di gigli d’oro in campo azzurro. Questa scelta non fu casuale. Il giglio fa parte del repertorio delle insegne e degli attributi della monarchia francese sin dai tempi di Luigi VI (1108-1137) e Luigi VII (1137-1180). Esso è allo stesso tempo un attributo mariano (simbolo di purezza e verginità) e un simbolo di sovranità. Questa sua duplice dimensione simbolica (religiosa e regale) è rafforzata dalla particolare disposizione in seminato con cui i gigli sono distribuiti sulla superficie dello scudo.

Nell’iconografia medievale la struttura in seminato è quasi sempre legata a un’idea di sacro. L’arme di Francia antica ha dunque un’essenza divina e sottolinea al tempo stesso la speciale protezione accordata dalla Vergine ai re di Francia e la dimensione religiosa della funzione regale. Per modificarla i cadetti adoperarono varie figure, fra cui il lambello che costituisce la più antica brisura portata dai principi capetingi. Il primo ad impiegarla fu Filippo Hurepel (†1234), figlio cadetto del re di Francia Filippo Augusto e di Agnese di Merania, come testimonia un esemplare raffigurato su una vetrata della cattedrale Notre-Dame di Chartres.

Circa un ventennio dopo – intorno agli anni 1246/1247 (vedi supra) – Carlo d’Angiò, ultimogenito di Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, modificò l’arma piena dei re di Francia, scegliendo come brisura una figura che poteva liberamente adottare dopo la morte di Filippo Hurepel, fratellastro di Luigi VIII. Ricordiamo che fra tutte le figure aggiunte per alterare lo stemma originario, il lambello è quella che si riscontra con maggiore frequenza nelle armi, nonché quella più tipicamente indicativa di un intervento di brisura. Nel Medioevo la sua forma è variabile. La versione primitiva (chiamata più propriamente rastrello) è costituita da un listello orizzontale munito di pendenti lunghi e rettangolari che diventeranno trapezoidali (cioè un lambello tout court) solo verso la fine del XV secolo. Il listello tocca quasi sempre i bordi dello scudo fino alla fine del XIV secolo, mentre in quello successivo si trova sia intero che scorciato. Per quanto riguarda il numero dei suoi pendenti, il lambello a cinque è quello più impiegato fino agli anni 1270-1275, mentre successivamente prevale quello a tre. Anche la banda è una brisura molto usata, ma raramente è impiegata come sovrabrisura.

Fig. 8. Sigillo equestre di Carlo d’Angio, principe di Salerno, appeso a un atto del 1280 (cfr. M. Pastoureau , Traité d'héraldique, Paris 2008, p. 185).
Fig. 8. Sigillo equestre di Carlo d’Angio, principe di Salerno, appeso a un atto del 1280 (cfr. M. Pastoureau , Traité d’héraldique, Paris 2008, p. 185).

 

Prima di Filippo I, conosciamo un solo caso di scudo d’Angiò antico sovrabrisato da una banda d’argento. Si tratta dell’arma del padre Carlo II d’Angiò quand’era ancora principe di Salerno, come dimostrano due esemplari raffigurati rispettivamente su un sigillo equestre appeso ad un atto del 1280 (fig. 8) e sull’Armorial Wijnbergen (ca. 1265-1270). Divenuto re di Napoli nel 1285, Carlo II eliminò la banda dal suo scudo e adottò un partito di Gerusalemme e d’Angiò antico, stemma, come abbiamo già osservato, ereditato dal padre Carlo I d’Angiò, suo predecessore sul trono napoletano. Dopo questa data, quindi, Filippo d’Angiò fu libero di poter aggiungere allo scudo gentilizio d’Angiò antico la banda d’argento. Lo studio delle testimonianze sfragistiche e numismatiche relative a Filippo I permette di affermare che per tutta la durata della suo principato (1294-1331) egli portò il solo scudo d’Angiò-Taranto, senza ulteriori ampliamenti. A riprova di ciò consideriamo come estremi cronologici due controsigilli appesi a due documenti datati rispettivamente 1303 e 1321, ovvero prima e dopo l’acquisizione del titolo di imperatore latino di Costantinopoli (1313).

Fig. 9. Controsigillo di Filippo I d’Angiò, appeso ad un documento del 13 marzo 1303 (da Il segno del potere. I sigilli della Curia Arcivescovile di Taranto dal principato all'età contemporanea, a cura di Francesco Magistrale et al., Taranto 1992, pp. 80-81).
Fig. 9. Controsigillo di Filippo I d’Angiò, appeso ad un documento del 13 marzo 1303 (da Il segno del potere. I sigilli della Curia Arcivescovile di Taranto dal principato all’età contemporanea, a cura di Francesco Magistrale et al., Taranto 1992, pp. 80-81).
Fig. 10 Sigillo e controsigillo di Filippo I di Taranto, appeso ad un atto datato settembre 1321 (da G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890, p. 26 e pl. VII).
Fig. 10 Sigillo e controsigillo di Filippo I di Taranto, appesi ad un atto datato settembre 1321 (da G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890, p. 26 e pl. VII).

In entrambi i casi compare uno scudo gotico con la sola arma d’Angiò-Taranto, racchiusa da una cornice esalobata (figg. 9 e 10). Lo stemma gentilizio appare anche sul recto di un gettone anepigrafo, che reca sul verso un altro scudo a sé stante, quello dell’impero latino di Costantinopoli (di rosso, alla croce accantonata da quattro anelletti crociati, ciascuno accompagnato da altrettante crocette, il tutto d’oro). Coniato per Filippo d’Angiò dopo la sua nomina imperiale, questo gettone non mostra, quindi, una combinazione d’armi, ma due scudi diversi, rappresentati separatamente (fig. 11).

Fig. 11. Gettone anepifrafo e stemmato di Filippo I d’Angiò, principe di Taranto e imperatore titolare di Costantinopoli (da H. de La Tour, Catalogue de la collection Rouyer, Parigi 1899, n° 307 e pl. VIII, fig. 8.).
Fig. 11. Gettone anepifrafo e stemmato di Filippo I d’Angiò, principe di Taranto e imperatore titolare di Costantinopoli (da H. de La Tour, Catalogue de la collection Rouyer, Parigi 1899, n° 307 e pl. VIII, fig. 8.).

 

Sarà invece il figlio Roberto (†1364), principe di Taranto dal 1331 e imperatore titolare di Costantinopoli dal 1346, il primo ad associare in un unico scudo partito le insegne araldiche paterne e quelle costantinopolitane ereditate dalla madre. Ce ne occuperemo nella seconda parte di questa indagine.

 

  1. L’arma d’Angiò antico viene anche detta d’Angiò-Sicilia e d’Angiò-Napoli.

Bibliografia

G.B. di Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca. Prontuario nobiliare, Pisa 1876-1877.

H. de La Tour, Catalogue de la collection Rouyer, Parigi 1899.

C. de Mérindol, L’héraldique des princes angevins, in Les Princes angevins du XIIIe au XVe siècle, a cura di Noël-Yves Tonnerre e Élisabeth Verry, Rennes 2003.

F. Magistrale et al., Il segno del potere. I sigilli della Curia Arcivescovile di Taranto dal principato all’età contemporanea, Taranto 1992.

O. Neubecker, Araldica, Milano 1980.Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.

M. Pastoureau , Traité d’héraldique, Paris 2008.

M. Pastoureau, Héraldique et numismatique: quatre jetons aux armes d’Anjou, in Revue numismatique, anno 1977, vol. 6, n. 19.

G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890.

San Giuseppe da Copertino: alcune tavole, un certificato di autenticazione di una sua reliquia e una preghiera, anche per chi se ne approfitta …

di Armando Polito

Felice il paese che non ha bisogno di eroi! – fa dire Bertolt Brecht in Vita di Galileo. Io agli eroi, per la circostanza odierna, aggiungo anche i santi e lascio alla libera interpretazione del lettore i documenti che seguono.

Comincio con una serie di stampe antiche, forse le meno note tra le tante che ne riproducono le sembianze, ma che hanno ispirato in tempi diversi gran parte delle serie di santini in circolazione. Le prime tre sono custodite nella Biblioteca nazionale austriaca.

S. Joseph à Cupert(ino) Or(dinis) Mi(norum) Con(ventualiumRaptus sum usque ad tertium caelum =San Giuseppe da Copertino. Sono stato rapito fino al terzo cielo (citazione dal capitolo dodicesimo della seconda lettera di S. Paolo ai Corinzi).

In basso a sinistra: Luigi Pianton del(ineavit)=Luigi Pianton disegnò; non son riuscito a reperire notizie su di lui ma molto probabilmente è coevo dell’incisore. In basso a destra Andrea Rossi incid(it)=Andrea Rossi  Andrea Rossi, veneziano, fu attivo dal 1727-1775).

Incisione di Franz Sebastian Schauer (attivo dal 1746 al 1779).

Incisione di anonimo. O.M.C.=Ordine Minori Conventuali

Disegno di C. S. Dittmann; tavola tratta da Roberto Nuti, Lebens-Beschreibung Deß grossen Diener Gottes Josephi Von Copertino, Sinapi, Brünn, 1695.

Da http://www.portraitindex.de/documents/obj/34704960/gs93288d

Effigie di S. Giuseppe da Copertino Sac(erdo)te  Min(o)re Conv(entua)le morto in Osimo l’anno 1663, celebre per l’insigne (sic) sue mortificazioni, con mirevole unione con Dio, e pel dono delle frequenti estasi sue stupendissime. Volabo et requiescam (Volerò e mi darò pace)

In basso a sinistra Pietro Novelli inv(enit)=Pietro Novelli ideò, disegnò. Pietro Novelli (1603-1647), pittore ed architetto siciliano per il prestigio di cui godeva era soprannominato pittore reale. In basso a destra Giuseppe Leante scul(psit)=Giuseppe Leante incise (su Giuseppe Leante non son riuscito a trovare nessuna notizia, ma è legittimo supporre che fosse coevo del Novelli).  Nel lembo inferiore destro del foglio appo Wagner  Ven(ezi)a C(um) P(rivilegio) E(xcellentissimi) S(enatus)=presso Wagner con privilegio dell’eccellentissimo senato (significa che ne aveva ottenuto l’esclusiva di pubblicazione. Joseph Wagner (1706-1780) fu pittore, disegnatore, incisore ed editore tedesco attivo a Venezia.

Da http://www.portraitindex.de/documents/obj/33813153

B(eatus) Joseph a Cupertino Ordinis Minorum Conventualium Sacerdos. Ex Archetypo Assisiensi, a Francisco Providonio olim picto, Polanzanus sc(ulpsit)=Beato Giuseppe da Copertino Sacerdote dell’Ordine dei Minori Conventuali. Da un archetipo dipinto un tempo da Francesco Providoni. Polanzani incise.

incisione di Felice Polanzani  (1700-1783) da un archetipo di Assisi dipinto da Francesco Providoni (attivo nella seconda metà del XVII secolo). Credo che la stampa abbia un valore particolare per i motivi che seguono: siccome Giuseppe visse dal 1603 al 1663, la beatificazione avvenne nel 1753 e la canonizzazione nel 1767, l’archetipo (sarebbe interessante sapere che fine ha fatto) del Providoni sicuramente ritraeva Giuseppe prima che fosse beatificato (il Providoni a quella data doveva essere morto da un bel pezzo). La rielaborazione del Polanzani, invece, sicuramente è successiva al 1753. Conclusione: l’archetipo probabilmente è (o, forse più correttamente, era) la più antica immagine di Giuseppe e non è da escludere che sia stata realizzata mentre era ancora in vita.

7

Tavola tratta da Angelo Pastrovicchi, Compendio della vita, virtù e miracoli del Beato Giuseppe da Copertino, Zempel, Roma, 1753.

Ioseph a Cupertino Ordinis Minorum Conventualium Sacerdos, super almam Domum Lauretanam Angelos cernens, velut alter Iacob, descendentes, et acendentes, ad quinquaginta palmorum spatium in aera rapi ab itineris sociis visus est=Il beato Giuseppe da Copertino Sacerdote dell’Ordine dei Minori Conventuali, vedendo, come un altro Giacobbe1, gli angeli che discendevano e salivano sopra la benefica Casa di Loreto, fu visto dai compagni di viaggio essere rapito in aria fino alla distanza di cinquanta passi.

Nel margine inferiore sinistro: Ioa(nnes) Barbauli inv(enit) e(t) del(ineavit)=Giovanni Barbauli ideò e disegnò. Nel margine inferiore destro Fran(cisc)s Mazzoni sculp(sit)=Francesco Mazzoni incise.  il pittore francese Jean Barbauli visse dal 1718- a 1762), Francesco Mazzoni fu attivo a Roma dal 1737 al 1759).

La tavola, a corredo del testo uscito subito dopo la beatificazione, fu oggetto di un fenomeno che definirei plagio (forse nella morale cattolica non è contemplato come peccato, sia pur veniale …), perché venne riciclata, con qualche dettaglio cambiato, in pubblicazioni successive, come l’edizione tedesca dell’opera del Pastrovicchi uscita nello stesso anno per i tipi di Hautt e un’altra  uscita per i tipi di Rieger ad Augusta nel 1843. Di seguito, a confronto,  la tavola originale e le sue due rielaborazioni.


La prima rielaborazione, in cui la variante più cospicua è data da una semplice inversione orizzontale, reca la firma di F. X.  Schönbächler. La seconda a distanza di quasi un secolo si rifà pedissequamente all’originale tagliando la didascalia, cosa giustificata dal fatto che Giuseppe era ormai santo, ma anche il nome del disegnatore e dell’incisore; comunque già il fatto che non compaia nessuna firma denota un comportamento più corretto di quello tenuto nel caso precedente.

Passo ad altro. Il documento che segue l’ho trovato qualche settimana fa su ebay; nel momento in cui scrivo è ancora reperibile all’indirizzo http://www.ebay.it/itm/Certificato-autentica-reliquia-San-Giuseppe-da-Copertino-1770-/152179418354?hash=item236e99a4f2:g:cSkAAOxyBjBTSwx7 e credo che resterà in vendita per più di una settimana dopo il 18 settembre …

D(ominus) Arnaldus Speroni Nobilis Patavensis Ordinis S(ancti) Benedicti Congregationis Casinensis Dei, et Apostolicae Sedis gratia Episcopus Adriae, S(anctissi)mi D(omini) N(ostri)  Divina Provvid(enti)a Papae Clementis XIV Praelatus Domesticus ac Solio Pontificio Assistens Universis et singulis presentes nostras authenticas litteras inspecturis fidem indubitatam facimus, atque testamur, qualiter nobis devote exhibitis plurimis Sacris Reliquiis, eas ex authenticis locis extractas, ac documentis authenticis munitas, diligenter recognovimus, ex quibus sequentem extraximus videlicet ex cingulo S(ancti) Ioseph  a Cupertino prius recognito ab Ill(ustrissi)mo et R(everendissi)mo Domino  D(omino) Ioanne Francisco Nora (?)  episcopo. Adriae die 20 Augusti 1760; quam reverenter colocavimus in Theca ex Argento confecta unica cristalo ab anteriori parte munita, et funiculo serico rubri coloris bene colligavimus, et in cera rubra hispanica sigillo D(omini) Vicarii nostri  Generalis  Ferrariae residentis munita, et pro maiori dictae Sacrae Reliquiae identitate obsignata, et ad maiorem Dei gloriam suorumque sanctorum  dono dedimus, et elargiti fuimus ad effectum et cum facultate paenes se retinendi, aliis donandi, nec non in quacumque ecclesia, oratorio, seu capella pubblicae Christi fidelium venerationi exponendi, et collocandi, in quorum fidem has pr(aesent)es nostras manu eiusdem D(omini) Vicarii subscriptas, suoque firmatas sigillo, expediri mandavimus. Datum   ex tribunali nostrae residentiae hac die 20 7mbris 1770 septuagesimi. Dominicus Angelini Vicarius G(e)n(ra)lis   Caietanus Antonius Meloni Notarius et Cancellarius E(lectus)

Fornisco la mia traduzione e ne approfitto per aggiungere qualche nota esplicativa.

[Noi], don Arnaldo Speroni, nobile patavino della congregazione di Cassino dell’ordine di San Benedetto, per grazia di Dio e dell’Apostolica Sede vescovo di Adria, per la Divina Provvidenza di Nostro Signore Prelato Domestico di Papa Clemente XIV e Assistente al Soglio Pontificio, a coloro che insieme e da soli vedranno la presenti nostra scrittura autentica, facciamo indubitata fede ed attestiamo come, esibite a noi devotamente parecchie sacre  Reliquie, le abbiamo diligentemente riconosciute come estratte da luoghi autentici e munite di documenti autentici, dalle quali [reliquie] abbiamo estratto questa, cioè dal cingolo di San Giuseppe da Copertino prima riconosciuto dall’Illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Giovanni Francesco Nora vescovo di Adria il giorno 20 agosto 1760; l’abbiamo rispettosamente collocata in un’unica teca d’argento munita di cristallo nella parte anteriore e la legammo ben bene con una cordicella di seta di colore rosso e munita del sigillo in cera rossa spagnola del nostro Signor Vicario Generale residente a Ferrara e contrassegnata per maggior [garanzia dell’]identità di detta Sacra reliquia e per maggiore gloria di Dio e dei suoi santi, l’abbiamo data in dono  e l’abbiamo elargita con l’effetto e la facoltà di tenerla presso di sé, di donarla ad altri, nonché di esporla e collocarla alla pubblica venerazione dei fedeli di Cristo in qualunque chiesa, oratorio o cappella; in fede di ciò abbiamo dato ordine di inviare la presente scrittura sottoscritta dalla mano nostra e del signor Vicario medesimo e confermata dal suo sigillo. [Atto] emesso dalla sede della nostra residenza in questo giorno 20 settembre 1770 di settuagesima. Domenico Angelini Vicario Generale Gaetano Antonio Meloni Notaio e Cancelliere eletto.

Arnaldo Speroni (1727-1801) degli Alvarotti fu creato vescovo di Adria nel 1766. Avviò nel 1779 la costruzione del nuovo seminario di Rovigo e la concluse nel 1794. A lui parecchi letterati del tempo dedicarono le loro opere, ma lui stesso fu autore abbastanza prolifico, Di seguito lo stemma di famiglia (come appare nel timpano della chiesa di S. Agostino a Rovigo) comparato con quello della lettera e col sigillo, elettronicamente elaborato, del documento, nonché alcuni frontespizi delle sue opere.

 

 

 

 

 

 

 

 

La parte finale (pp. 312-323) di quest’opera il cui frontespizio è stato riprodotto per ultimo è dedicata dallo Speroni alla sua biografia fino al 1788 e, in particolare, a p. 313 si legge: Insuper anno 1770 die 9 Septembris primum posuit Lapidem novae Ecclesiae Parochialis Guardae Ferrariensis, quo tempore percussum fuit Numisma cum Ipsiusmet Episcopi effigie (Inoltre nell’anno 1770 nel giorno 9 di settembre pose la prima pietra della nuova chiesa parrocchiale di Guarda Ferrarese, nella quale occasione fu coniata una medaglia con l’immagine dello stesso vescovo.

Non c’è nel testo l’immagine della medaglia; però, la rete (http://www.astanumismatica.it/it/asta_numismatica_ranieri_n_3/medaglie_straniere_299/medaglia_1770__993_.aspx) che sta a fare? …

 

Al recto: D(OMINUS) ARNALDUS SPERONIUS NOB(ILIS) PATAV(INUS) EPISC(OPUS) ADRIEN(SIS) PRIMUM LAPI(DEM) POS(UIT)

(Don Arnaldo Speroni nobile padovano vescovo di Adria pose la prima pietra)

Al rovescio: ECCLESIA SANCTAE MARIAE VILLAE GUARDIAE  FERRARIENSI V IDUS SEPTEMBRIS MDCCLXX (

(Chiesa di Santa Maria di Villa Guarda Ferrarese il 9 settembre 1770). Da notare GUARDIAE contro Guardae del testo del vescovo.

Ritornando all’autentica della reliquia, va detto che quella relativa a San Giuseppe da Copertino non è l’unica rilasciata dallo Speroni. Il documento che segue (http://www.comune.rovigo.it/MyPortal/comuneRovigo/archivio/beata_vergine_del_soccorso/bsv26.html), datato 1790, coinvolge, addirittura, la croce di Cristo.

Lasciando il lettore alle sue libere riflessioni, di qualsiasi tenore esse siano, risparmiandogli le mie …, mi congedo con una preghiera risalente al XIX secolo, che ho trovato sul sito della Mediateca di Montpellier. Ringrazio Laura Presicce ed Alvaro Gonzalez Flores per l’aiuto gentilmente fornitomi nella traduzione.

Componimento in lode del serafico San Giuseppe da Copertino. Si celebra la sua festa il 18 settembra.

Per il vostro grande fervore/un serafino vi ha creato:/ sii per noi difensore, o Giuseppe/e infiammaci./Nato da genitori poveri,/Copertino,il suolo natale,/vi  vide poi/essere fornito di mille grazie del cielo;/per un tenero fanciullosiete stato/ nella maggiore perfezione. Sii per noi etc./I vostri genitori con cura/vi avviarono al lavoro/e vi osero apprendista/del lavoro di calzolaio:/sul sentiero francescano/vi guidò una luce superiore. Sii per noi etc./Francescano e Cappuccino/chiedesti il santo abito,/ottenesti due rifiuti,/ma per superiore destino/alla Grottella  si convenne/che voi entraste come laico minore. Sii per noi etc./La vostra grande penitenza,/la vostra umiltà e dolcezza/fecero sì che ad Altamura/vi si ordinasse in obbedienza/di salire senza resistenza/all’onore di sacerdote. Sii per noi etc./Per l’ariain estasi/frequentemente volavate,/e sette giorni passavate/senza provare altro boccone/che il pane da voi consacrato/con ammirevole fervore. Sii per noi etc./Disprezzato dai vostri,/tenuto per stregone,/sottoposto all’Inquisizione,/fosti dichiarato innocente/e acclamato santo/dallo stesso inquisitore. Sii per noi etc./Ostinati peccatori/furono da voi convertiti;/grazie a voi furono allontanati/scrupoli e timori,/perché con luci superiori/penetravi nell’intimo. Sii per noi etc./Come Paolo hai desiderato con ansia/che terminasse la vostra vita/per restare per sempre unita/la vostra anima all’oggetto amato,/fu dal cielo ascoltato/il vostro incessante clamore. Sii per noi etc./Hai tanto ascendente/sulla divina presenza/che nonc’è tipo disofferenza/che non ceda nel momento/nel quale vi prostrate di vostro intento/davanti al trono del Signore. Sii per noi etc./Potente benefattore/del devoto tribolato/sii per noi, Giuseppe, difensore/e infiammaci nell’amore.

Cuore mio e carne mia                                                                  Esulteranno in Dio vivo 

   PREGHIAMO

Dio, che disponesti di trarre tutte le cose  a tuo figlio unigenito elevato dalla terra, porta a termine la tua opera più propiziamente, affinché per i meriti e l’esempio del serafico tuo proclamatore di fede  Giuseppe elevati al di sopra di tutte le terrene passioni meritiamo di giungere a lui. Per Dio etc.

Anche se è poco cristiano, chiudo con un po’ di autopubblicità segnalando sull’argomento:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/09/san-giuseppe-da-copertino-in-due-medaglie-del-xviii-secolo-custodite-nella-biblioteca-reale-del-belgio/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/17/san-giuseppe-da-copertino-12-san-giuseppe-e-dante/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/17/san-giuseppe-da-copertino-12-san-giuseppe-e-dante/ 

_____________

1 Allude al cosiddetto sogno della scala di Giacobbe: durante la sua fuga per riparare presso lo zio Labano una notte Giacobbe sognò una scala che da terra giungeva sino al cielo, con angeli che vi salivano e scendevano, mentre Dio gli  prometteva la terra sulla quale stava dormendo.

 

L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n. 6

di Armando Polito

Capita non di rado, in Italia come all’estero, di imbattersi in qualche locuzione latina presente sulle pareti esterne di  fabbriche di una certa età, oggi, forse anche all’origine, private.

Sotto questo punto di vista probabilmente a detenere il record mondiale  è proprio una cittadina salentina, Giuliano di Lecce, il cui centro storico pullula di epigrafi. Di una di esse mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/23/unepigrafe-in-via-regina-elena-a-giuliano-di-lecce/ e già allora pensavo di compiere con lo stesso metodo un’indagine sulle altre. Poi le mie difficoltà di deambulazione ed altri interessi sopravvenuti mi hanno distolto. Tuttavia i due ostacoli sono facilmente rimovibili: il primo con l’aiuto delle foto di uno o più lettori che gentilmente potranno inviarle alla redazione con indicazione del loro nome e cognome, nome e numero civico della via; il secondo ostacolo posso rimuoverlo solo io ma è facilmente comprensibile come un’adeguata rimozione del primo costituisca una condizione ineludibile ma  fungerà, lo giuro, da irrefrenabile catalizzatore1.

Qualche mese fa nel mio raro girovagare a briglia sciolte (cioè in modo non mirato) in rete sfruttando Google Maps mi sono ritrovato, non ricordo neppure da dove son partito, a Morciano di Leuca. La mia attenzione è stata subito attratta dallo scorcio dell’immagine di testa (che ho adattato, appunto, da Google Maps), con l’arco trilobato, probabilmente bugiardo, cioé avente una funzione puramente decorativa e non di sostegno (a chi ha specifica competenza  la conferma o la smentita).

Google Maps non mi ha consentito un’ulteriore zoomata sulla lastra con epigrafe che si nota nella parte superiore; fortunatamente ho reperito in rete l’immagine che di seguito riproduco (a suo tempo, pur avendo messo da parte la foto, non mi sono annotato il link e attualmente l’immagine è introvabile).

Si legge, direi agevolmente nonostante la definizione non eccelsa, NEC TE QUESIERIS EXTRA (E non cercarti fuori) e nell’altra linea, con notevole spaziatura tra le cifre, 1562.

Conforto il lettore già in preda all’apprensione promettendogli subito che non spenderò nemmeno una parola (né aprirò una delle mie interminabili parentesi …) sull’annosa quanto, secondo me, idiota contrapposizione tra la cultura umanistica e quella scientifica, né, per scendere terra terra, sull’opportunità o meno della sopravvivenza del latino e del greco tra le materie scolastiche e, soprattutto, della metodologia d’insegnamento-apprendimento.

Voglio con questo mio post solo condividere con lui il mio pensiero critico sulla superficialità e frenesia della vita attuale, in cui ci sono minuti e minuti per postare su Facebook citazioni di ogni tipo ma non c’è mai più di un secondo per rispondere (utilizzando quella stessa rete che in pratica abbiamo sempre con noi in tasca o nel taschino …) alla domanda che inevitabilmente ci si dovrebbe porre quando ci si imbatte in qualcosa di sconosciuto; nella fattispecie: cosa vorrà mai dire quella frase latina?

So che facendo così mi brucerò l’ulteriore attenzione di quei pochi lettori che fino ad ora me ne hanno privilegiato, ma ci sarà pur sempre qualcuno (sono un illuso?) che mi seguirà fino in fondo.

Allora: Nec te quesieris extra si traduce con E non cercarti fuori. Le epigrafi di questo tipo , cioè quelle apposte su fabbriche che hanno più di un secolo di vita (nel caso in cui se ne apponga qualcuna su una fabbrica moderna quasi sicuramente la lingua usata sarà l’inglese …) sono di regola frasi latine tratte da autori classici o dell’Umanesimo e del Rinascimento. Il gusto di queste citazioni celebrò il suo trionfo letterario nei secoli XVI e XVII con il filone di quella produzione emblematica di cui mi sono occupato (con specifico riferimento al Salento) in più riprese:

https://www.fondazioneterradotranto.it/wp-admin/post.php?post=84490&action=edit 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/31/la-puglia-e-la-taranta-in-un-repertorio-di-simboli-del-1603/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/

Il testo della nostra epigrafe è tratto da Aulo Persio Flacco (I secolo d. C.) e, precisamente, è il secondo emistichio del verso 7 della satira I, in cui, guarda caso!, polemizza contro le mode letterarie del tempo e invita il lettore a non lasciarsi condizionare dall’opinione altrui, quando questa non è adeguatamente motivata, e a non sottovalutare se stesso. Insomma, una lezione di estrema attualità, un elogio dello spirito critico che oggi più che mai può essere traslato dal campo letterario ad ogni altro, a cominciare da quello degli opinionisti da strapazzo e a finire con quello politico e le sue quotidiane fanfaronate, alla cui genialità non credono più nemmeno i cortigiani leccaculo che abbiano conservato un minimo di attività neuronale …

Mi piace ora riportare  di seguito le testimonianze di tale massima nella letteratura emblematica alla quale ho fatto poc’anzi cenno.

Comincio da Symbolorum et emblematum ex aquatilibus et reptilibus desumptorum centuria quarta a Iachimo Medi. Nor.  coepta, absoluta post eius obitum Ludovico Camerario Joachimi filio, s. n., s. l., 1604. Di seguito la p. 98:

In alto il motto che conosciamo (quaesiveris corrisponde alla forma sincopata quesieris che si legge  a Morciano), nella didascalia il distico elegiaco: Non tibi tela nocent latitanti, erumpere at ausum/configunt: temere qui ruit, ille perit (Le frecce non nuocciono a chi si nasconde, ma trafiggono chi ha osato uscir fuori: muore chi si precipita temerariamente).

Il Camerario, dunque, fornisce un’interpretazione non fedele al concetto originale di Persio e, con l’immagine eloquente della chiocciola trafitta dalla freccia, il suo emblema finisce per essere un elogio della prudenza, un invito a non correre avventatamente rischi.

Non a caso lo stesso Camerario aveva sfruttato l’immagine della chiocciola nell’emblema precedente:

La citazione ovidiana compare tal quale, invece, in una stampa del 1650 che fa parte della collezione di Michel Hennin (1777-1863), custodita nella Biblioteca nazionale di Francia da cui (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8404199s.r=descartes) la riproduco. È un ritratto di Cartesio.
Qui il motto è una citazione, adattata, da Ovidio [Tristia, III, 4, v. 15: Bene qui latuit, bene vixit (Chi si è nascosto bene ha vissuto bene)] : Bene qui latuit (Bene chi si è nascosto) e la didascalia: Exemplo domiporta tibi sit cochlea/quisquis exoptas tuto consenuisse domi (Ti sia d’esempio la chiocciola domiporta [è , nella nomenclatura binomiale, il nome del genere; alla lettera porta della casa, con riferimento all’opercolo], se desideri invecchiare al sicuro in casa). Anche qui va detto che il pensiero originale, come prima quello di Persio, risulta travisato in quanto Ovidio semplicemente invitava un amico a non mettersi troppo in mostra per soddisfare il desiderio di raggiungere traguardi forse troppo velleitari.

La citazione ovidiana compare tal quale, invece, in una stampa del 1650 che fa parte della collezione di Michel Hennin (1777-1863), custodita nella Biblioteca nazionale di Francia da cui (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8404199s.r=descartes) la riproduco. È un ritratto di Cartesio.

In Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Bene_vixit_qui_bene_latuit) leggo: “Evidente l’affinità con il consiglio epicureo λάθε βιώσας láthe biôsas, “vivi nascostamente. Era il motto fatto stampare sul suo stemma nobiliare dal grande matematico, filosofo e uomo d’arme René Descartes, Sieur Du Perron, conosciuto come Cartesio“.

Nulla da dire sull’affinità con il consiglio epicureo, anzi ringrazio l’anonimo autore della scheda per avermi risparmiato di dirlo, ma temo che abbia scambiato per motto araldico quello che in Bullettin de la société  archéologique deTouraine, Péricat, Tours, 1896, v. XI, p. 13 viene definito come devise chère à Descartes (motto caro a Cartesio) e che sembra sintetizzare perfettamente la celebrazione di quel posto privilegiato che il filosofo francese aveva riservato alla solitudine fin dal Discours de la méthode. Perfettamente in linea  con Il Cogito ergo sum (Penso, dunque esisto) a tutti noto;  siccome  è pericoloso, però, oltre che fuorviante, unire concetti che anche per la loro sinteticità possono assumere un carattere apodittico, dogmatico, da vero e proprio postulato,  mi permetto di osservare, in rapporto al pensiero solitario che, poi, rischia di diventare pensiero unico …, che solo dal confronto tra i vari pensare la conoscenza può progredire.

Qualche anno dopo il Camerario l’immagine a corredo del motto sarà costituita da due navi sul mare in tempesta; sulla più vicina si scorge un uomo che con un lungo cannocchiale scruta le stelle (le due stelle della noStra epigrafe sono solo una coincidenza con valore puramente decorativo?). Tutto questo in Marci Zverii Boxhornii Emblemata politica et orationes, Jansson, Amsterdam, 1635 (https://www.yumpu.com/la/document/view/20119042/emblemata-politica-amp-orationes-ex-officina):

Ancora qualche anno e alla chiocciola del Cemerario e alle navi dello Zverio subentrerà l’ostrica che il testo a corredo  (è in prosa, abbastanza lungo e non lo riporto per non perdere l’ultimo lettore rimasto a seguirmi …) qualifica come perlifera, a sottolineare che ognuno di noi ha nel suo intimo quella ricchezza (spirituale, naturalmente) che talora cerca in un altro. Di seguito l’immagine da  Idea principis christiano-politici, centum symbolis expressa a Didaco Saavedra Faxardo, Vivien, Bruxelles, 1649 (http://www.fondiantichi.unimo.it/fa/emblem01/saav032.html):

Da notare nel motto, come già nel simbolo precedente e nelle due immagini che seguono, NE invece di NEC. Non cambia assolutamente nulla anche se in Persio si legge nec e non ne.

Tutti gli emblemi fin qui proposti sono successivi al 1562, il che garantisce la scelta autonoma rispetto alla letteratura emblematica e la dipendenza diretta da Servio di chi volle quell’epigrafe a Morciano. Anzi, se tutto non fosse stato casuale, avremmo potuto dire che il portale salentino e la sua epigrafe ispirarono le metafore emblematiche  (con le corrispondenze arco e porta d’ingresso /opercolo, casa/guscio e epigrafe/motto) della chiocciola e dell’ostrica.

In una sorta di amara ripresa per contrasto del timore manifestato all’inizio che le nuove epigrafi dei nostri giorni, se apposte, saranno in inglese, riporto dalla rete le due immagini che seguono insieme con le scarne informazioni presenti nel rispettivo link (https://www.flickr.com/photos/coglaz/14497017535 e https://www.flickr.com/photos/wolflawlibrary/6902192728/in/photostream/): Toulouse, Rue du Taur per la prima e nulla di nulla per la seconda.

 

Le due ultime immagini sono le sole, tra tutte quelle mostrate, emblemi compresi, a riportare il classico quaesiveris (non sincopato e col dittongo) invece di quesieris. Precisazioni che sembrano quasi ridicole rispetto alla serietà (leggi gravità) della situazione attuale (e non mi riferisco solo al terrorismo) che, senza tanti voli pindarici, bizantinesche contorsioni e ardite metafore, obbliga la massima di Persio ad assumere, purtroppo, un significato che, terra terra, è il consiglio di non uscire di casa nella speranza, così facendo, di limitare il rischio di perdere la vita, il che equivale a dire che in duemila anni il nostro degrado morale ha assunto un livello spaventosamente vergognoso; e tutto questo, paradossalmente, proprio mentre il progresso ha quasi annullato le distanze; solo quelle fisiche, purtroppo …

____________

1 A tal proposito vanno citate le seguenti pubblicazioni uscite tutte per i tipi di Congedo a Galatina:

Iscrizioni latine del Salento : Otranto, a cura di Antonio Corchia, 1992

Iscrizioni latine del Salento: Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, a cura di L. Graziuso, E. Panarese, G. Pisano, 1884

Iscrizioni latine del Salento: Melendugno e Borgagne, Parabita, Tricase e frazioni, a cura di C. Mancarella , L. Barone, M. Monaco, 1996.

Iscrizioni latine del Salento: paesi del Capo di S. Maria di Leuca, a cura di A. Caloro, M. Monaco, F. Leonio, F. Fersini, 1998.

Iscrizioni latine del Salento: Galatone, Diso e Marittima, Andrano e Castiglione, Lizzanello, Collepasso, Tuglie, a cura di F. G. Cerfeda, D.Marina, M. Paturzo, V. Zacchino, 2000.

Iscrizioni latine del Salento: Trepuzzi, Squinzano, Cavallino, Galatina, a cura di

V. Vissicchio, E. Spedicato, M. E. De Giorgi, 2005.

L’iniziativa è senz’altro meritoria, ma, la sua collana, pur soddisfacente sul piano meramente documentario e, quindi, preziosa per riscontri e studi futuri, avrebbe meritato un apparato critico più ricco di quello che appare in più di un caso piuttosto superficiale, per non dire banale, e non privo di errori.

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna, nn. 4-5, agosto 2016

Nardò| L’arte paleolitica di Grotta del Cavallo

CONFERENZA

“I primi artisti dell’umanità.

L’arte paleolitica di Grotta del Cavallo”

   

Domenica 25 Settembre 2016

ore 19.00

Sala don Pietro Serio, Piazza Libertà – Campi Salentina

 portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

L’iniziativa dell’Associazione Culturale La Coorte di Campi Salentina si svolge nella serata di domenica 25 settembre 2016 a partire dalle ore 19.00, presso la Sala don Pietro Serio (Ex Biblioteca Comunale) in Piazza Libertà a Campi Salentina.

L’Associazione La Coorte intende portare avanti una proposta culturale aperta e continuativa, densa di spunti e nuove prospettive di condivisione e interesse pubblico. In una sorta di filo conduttore nella valorizzazione del patrimonio locale, La Coorte si fa promotrice della riscoperta dei “Tesori dietro l’angolo”, che conduce alla conoscenza per divenire consapevolezza.

La conferenza riguarda le indagini in corso nel sito paleolitico tra i più rilevanti d’Europa, la Grotta del Cavallo, inestimabile patrimonio naturale e storico, ubicata nella Baia di Uluzzo, nel territorio costiero di Nardò.

Attraverso i primi esempi di reperti di espressione artistica del mediterraneo, si fa luce su un passaggio fondamentale nell’intera preistoria: dalla presenza incontrastata dell’uomo di Neanderthal alla supremazia dell’Homo Sapiens.

Il Professore Fabio Martini, Ordinario di Preistoria, Protostoria e Paletnologia presso l’Università degli Studi di Firenze, che dal 1974 opera nella Grotta del Cavallo, prende parte alla conferenza con il suo importante intervento scientifico, frutto anche della campagna di ricerche dell’equipe dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze da lui guidata, nell’ambito degli studi su un sito preistorico tanto significativo.

L’iniziativa diviene ancora più interessante, considerata l’occasione di svolgimento dei lavori di ricerca e di scavo nelle stesse giornate, nelle quali il gruppo è impegnato al completo.

 

Associazione Culturale La Coorte, Piazza San Pietro, 13, Campi Salentina (Lecce)

Roberto Ferri. Elegiaco cantore di un universo visivo

10 ferri21

La nascita dell’eclissi

di Claudio Strinati

Roberto Ferri si è già da tempo segnalato come un artista drasticamente orientato su scelte figurative di nitida e lucidissima evidenza, di nobile e raffinata ispirazione, con ampio spettro di riferimenti al passato glorioso dell’ arte italiana e non solo italiana attraverso un interessante sovraccarico di echi soprattutto seicenteschi. L’ evidenza assoluta delle forme, la tornitura perfetta dei corpi, l’ insistita attenzione per aspetti talvolta estatici, talvolta foschi e tenebrosi, talvolta languidi, ne dimostrano l’ adesione verso un ideale figurativo che trae indubbiamente le sue origini dal pieno Barocco italiano. In tal senso Ferri si direbbe inquadrabile in una linea di tendenza che, senza costituire un vero e proprio movimento, è presente in Italia dagli anni settanta del Novecento e che ha visto e vede operosi artisti grandi e grandissimi accanto a artisti mediocri se non irrilevanti. Tuttavia Ferri è artista alieno da qualunque coinvolgimento in una direzione teoretica precisa e accademicamente definibile.

E’ pittore che può certamente essere accostato a esperienze più o meno recenti di altri, ma fa sostanzialmente “parte per se stesso” e come tale va visto e giudicato. Ciò non toglie che certi accostamenti siano legittimi e aiutino a comprendere meglio il senso profondo del suo fare. E’, in sostanza, il destino di quell’ orientamento che si può far risalire fino alle meditazioni di Giorgio de Chirico ( un maestro talvolta citato in rapporto a Ferri) tra la fine degli anni venti e l’ inizio degli anno trenta, a proposito del recupero della eccelsa tecnica seicentesca che sembrò al “pictor optimus” un punto di arrivo insuperabilie per tutta la storia dell’ arte europea e che avrebbe quindi ben potuto essere ripresa da chi fosse stato in grado di coglierne il senso profondo. E indubbiamente tra queste postulazioni dechirichiane e la moderna arte di Roberto Ferri un qualche rapporto c’è anche se non è esattamente questo l’ orientamento di Ferri, di cui è stata notata invece una volontà di fermo distacco dal passato pur in un clima rievocativo o, meglio, evocativo di una stagione gloriosa e rispettata profondamente. Peraltro non era questo neppure l’ orientamento vero ed esclusivo di de Chirico stesso. Basti pensare, infatti, alle sue elette ed evidenti citazioni da Renoir proprio nel momento dell’ appassionato culto seicentesco. E proprio qui si potrebbe, appunto, ravvisare un avvicinamento tra la venerata esperienza dechirichiana e le idee di un così fervido artista nostro contemporaneo come Ferri, appunto nel segno della continuità conseguita da entrambi gli artisti, ancorchè sulla base di presupposti diversi e di acquisizioni diverse, ma tenendo ben fermo quel principio di coinvolgimento e venerazione verso un passato che resta presente nelle coscienze e funge da stimolo continuo alla creatività. Ferri arriva a suo modo a questo tipo di pittura, così carico di evidenza e estenuazione insieme, ma transitando comunque attraverso l’ Ottocento.

La nascita dell'eclissi
La nascita dell’eclissi

 

Un suo artista di riferimento è, come è ben noto, Bougereau, una sorta di “metafisico ante litteram”, pittore di qualità suprema e ricco di ambivalenze segrete sul piano espressivo, tanto da non ammettere una facile e immediata decifrazione delle sue intenzioni più intime e autentiche. Ciò detto è imprescindibile per Ferri il riferimento al naturalismo seicentesco che nel nome del Caravaggio trova una specie di simbolo universale che ha colpito le menti e l’ immaginazione di molti e ancora oggi colpisce un’ anima sensibile e fine come quella di Ferri. Ma il “caravaggismo” di Ferri sembra scaturire più che da un rapporto diretto con la grande fonte antica, dalla rilettura del Caravaggio operata nell’ ambito del neoclassicismo francese da pittori come David ( soprattutto) e Ingres. E’ da quel punto di osservazione che l’ arte sottile di Ferri nasce e si sviluppa, e da quel punto di osservazione meglio si comprendono lo stato d’ animo del pittore e il suo orizzonte creativo. I titoli delle opere, attentamente meditati dall’ autore, dicono molto sul tema della “malinconia” e del “male” cui l’ artista dedica tanta attenzione e totale coinvolgimento. Ma i due termini non sono affatto inevitabilmente dipendenti l’ uno dall’ altro. E’ l’ artista che talora li sovrappone e li elabora poi dialetticamente. La dimensione della “nigredo” e quindi della Melanconia, infatti, non è assolutamente quella stessa del male e del “requiem”. L’ una è l’ elegia, l’ altra la tragedia. Può sembrare una sottile distinzione ma va presa nel suo giusto verso perché Ferri, in definitiva, non è un artista da affrontare attraverso sfumature troppo sottili. Anzi è diretto e la sua volontà di colpire al cuore l’ osservatore non gli consente di porsi quale distillatore di quintessenzae. In questa dialettica inquieta gioca un ruolo essenziale la questione del “peso dei corpi”. Ferri, in parte ispirandosi al Seicento in parte rimeditando forse aspetti fondamentali delle poetiche primonovecentesche soprattutto dannunziane ( come, per fare un solo emblematico esempio, nel caso di Giulio Aristide Sartorio) pone al centro del suo lavoro la rappresentazione del “peso del corpo”. La densità della stesura e l’ evidenza con cui il maestro descrive il concetto stesso della rappresentazione, sono volte al fine principale di farci percepire l’ arrivo dei corpi sul quadro realizzato quasi fosse un arrivo dall’ iperurano, come è stato peraltro autorevolmente detto sul suo conto.

Così le figurazioni piombano sull’ osservatore e viene pienamente giustificata quella sensazione da “sabba delle streghe” che circola insistentemente in tanti suoi lavori, persino in quelli esplicitamente sacri, elaborati, del resto, con estremo scupolo verso le esigenze della committenza. Sovente questi nudi, maschili o femminili, sono dipinti come evidentemente minacciati dal logoramento, dalle ferite, dalle escrescenze mostuose che sembrano prodursi nella purezza adamantina dei corpi con un’ ottica che non è certo immune dalle suggestioni dell’ “horror” cinematografico, pur nel costante riferimento caravaggesco e, si potrebbe aggiungere qui, riberesco quando il nostro giovane maestro ingaggia la sua sfida rispetto alla rappresentazione di corpi anziani e quasi oltraggiati dal trascorrere implacabile del tempo. Questa complessa componente in Ferri c’è e si sviluppa nelle opere compiute ( ma sovente anche negli studi disegnati preliminari) dove troviamo grande autonomia di espressione e forza esasperata nel dominio dell’ espandersi delle forma quasi che una determinazione inconscia premesse all’ interno del razionale esplicitarsi dell’ intenzione creativa dell’ autore. Attrazione e Repulsione sono, quindi, due poli dialettici del suo fare arte e i due termini sono sempre presenti nelle sue elaborazioni. Ferri, alla fin fine, non è disturbante e non è rassicurante, ma immette nelle sue opere una energia inquieta e impetuosa che seduce l’ osservatore convincendolo pienamente della forza vitale delle opere ma tenendolo anche come a distanza, per il timore di scoprire nella perfezione quasi ostentata della materia i segnali di un perturbante che aggredisce la materia stessa e mira a rovesciare la percezione, da lieta a angosciata, da compiaciuta a preoccupata.

Questo deriva dall’ approccio generale che Ferri ha con le sue stesse immagini. Le spinge, allora, su un piano avanzato e tormentato di perfezione esecutiva dando a chi guarda l’ idea di una precisissima e lenticolare attitudine a riattivare un mondo di belleza e di seduzione che per molti era come irrimediabilmente perduto. Poi, però, quando l’ immagine è giunta al suo livello massimo di evidenza e efficacia, sembra aggredirla lui stesso, corroderla, estrarne l’ altro da sé, una componente malata e “malvagia” che si impone quasi fosse ineliminabile. E’ costante in lui l’ idea della figura che si libra o cerca di librarsi in volo e, all’ opposto , della figura che precipita come fosse condizionata dalla sua stessa fisicità. E’ appunto quel nodo inestricabile di melanconia e di negativo che urge dentro la forma realizzata. Una “vitalità del negativo” ( per evocare un antico, bellissimo titolo riferito a ben altri fenomeni di molti anni fa) preme dentro quella che potremmo chiamare, a contrapposizione, l’ “estenuazione del positivo” che Ferri rappresenta con tanta energia e tanta determinazione. Ferri è ben consapevole, del resto, delle forti emozioni che promanano dalle sue opere ma Fabio Isman, discorrendo di lui qualche anno fa, ribadiva la positività e la profonda religiosità di un artista che ama la musica rock e la danza, da cui trae spunti poderosi alla sua creatività e che, nel contempo, ha ben in evidenza nella sua biblioteca, ideale e reale, Baudelaire e Pirandello. Un uomo del nostro tempo, dunque, che ragiona in un’ottica non tanto antica quanto ancestrale, elegiaco cantore di un universo visivo che confina con la dimensione del sogno e, nel contempo, racconta una realtà impossibile e non visibile se non con gli occhi della pittura.

Claudio Strinati da “Noli foras ire – Roberto Ferri e la…” ed GIUNTI

Crepuscolo del mattino
Crepuscolo del mattino

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!