Nnaspru: la cosa non è facile …

di Armando Polito

Il periodo festivo è ormai alle nostre spalle e probabilmente nel corso di qualche riunione conviviale qualcuno più giovane non indaffarato nell’uso del telefonino sarà sobbalzato nel sentire dalla nonna (più difficile dalla madre, capace, come me, di preparare solo un uovo alla coque …) un’espressione del tipo – Mannaggia, lu nnaspru m’è bbissutu fiaccu! – (- Maledizione, la glassa mi è uscita male! -). Se al sobbalzo sarà seguito il desiderio di soddisfare il sentimento di sana curiosità ormai in via di estinzione anche presso i non più giovani, si sarà sentita nell’aria un’espressione più o meno come questa : – Nnaspru? E cce ggh’è? – (‘Nnaspru? E che è? -). A quel punto la vecchietta avrà avuto il suo momento di gloria nel fornire la definizione accurata del vocabolo e anche la giustificazione, autodiagnosi impietosa, del difetto manifestato (forse solo alla sua vista o al suo palato …) dal dolce che aveva preparato con tanto amore. Nel frattempo il nipote sarà già tornato ad armeggiare con il suo giocattolo preferito e il resto della compagnia avrà fatto finta di seguire con attenzione e rispetto la lezione della vecchietta. C’è da giurare, però, che nessuno dei commensali si sarà chiesto o avrà chiesto l’origine di nnaspru; e non certo perché impegnato nella degustazione di un altro dolce senza nnaspru o tutto concentrato sulla prossima bottiglia da stappare … Ancor meno probabile che guardando dalla finestra, proprio nel giorno dell’Epifania,  il paesaggio imbiancato dalla neve, cosa molto rara dalle nostre parti, vi abbia visto un meraviglioso nnaspru confezionato da madre Natura.

Le feste son finite ma la rottura di scatole è già ricominciata, protagonista il sottoscritto. Comunque, non obbligo nessuno a procedere nella lettura, anche se qualcuno che mi ha seguito fino ad ora potrebbe far parte, magari, di quella schiera di improvvisati filologi che in questi giorni sull’origine di nnaspru si sono avventurati in rete, ma senza rete, nelle proposte più assurde. Dei loro parti, ma solo per motivi di spazio più che per carità cristiana, non riporterò, contrariamente al mio solito, nessuna schermata, ma tenterò per quanto è nelle mie capacità, di far luce su questa parola, partendo da chi, salentino come me, ha interessi di questo tipo.

Nel Dizionario Leccese-italiano di Antonio Garrisi, Capone, Cavallino, 1990)  consultabile anche in linea in http://www.antoniogarrisiopere.it/)  si legge: “nnaspru sm. Glassa, una specie di gelatina a base di zucchero, adoperata per rivestire dolciumi. Non compare, dunque, nessuna proposta etimologica.

Ecco, invece, quella avanzata da Giuseppe Presicce nel suo Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/a_1.html): dal verbo nnasprare“. E al lemma nnasprare: riteniamo derivi dal verbo latino asperare, nel senso di indurire, con il prefisso in- (nn per aferesi e raddoppiamento)“.

Pur condividendo, come si vedrà più avanti, il passaggio finale, solo quello, del Presicce, non capisco, però, come ad entrambi non sia venuto in mente, a quanto pare, di ascoltare, prima di affrettate conclusioni,  la voce di colui che ancora oggi in questo campo rimane il maestro indiscusso, pur non essendo né salentino né italiano, ma tedesco: il Rohlfs. Nel suo Vocabolario dei dialetti salentini uscito per i tipi di Congedo a Galatina nell’ormai lontano 1976, nel terzo volume, che funge da appendice, al lemma ·naspro si legge:

(L 15) chiara d’uovo. – Voce errata; si legga aspro“.

Il puntino prima del lemma sta ad indicare che si tratta di parola usata soltanto nei dialetti greci di Terra d’Otranto.

La sigla L 15 sta a significare che la voce non è stata raccolta direttamente sul campo, cioè dal parlato, ma è citazione da opera altrui, nel nostro caso da Materiali lessicali e folkloristici greco-otrantini raccolti da Pasquale Lefons e da altri e pubblicati da Giuseppe Gabrieli per i tipi di Garroni a Roma nel 1931.

Debbo osservare, innanzitutto, che non condivido l’etichetta rohlfsiana di voce errata (da intendersi credo, come erroneamente trascritta), non solo perché a Nardò si dice nnaspru e non aspru, ma perché naspro è voce abbondantemente attestata nell’italiano di qualche secolo fa, il che mette quanto meno in dubbio il limite linguistico-territoriale della Terra d’Otranto. La testimonianza letteraria più antica che son riuscito a trovare è in La singolare dottrina di M. Domenico …, Tramezzino, Venezia, 1570, s. p.:

Il Rohlfs riteneva che la forma corretta fosse aspro, ove si legge (la voce, come la precedente, è preceduta dal puntino): “(L 15, 55, cl,co, cz, z) ag. bianco; aspro ène to gala (L 55) bianco è il latte; to vùin aspro (L cl), to vidi t’aspro (L cs, z) il bue bianco; t’aspro (L co) la chiara dell’uovo [gr. ἄσπρος]“.

Probabilmente  considerava errato naspro proprio per via di n iniziale. Essa, invece, può considerarsi derivata dalla preposizione, sempre greca, ἐν (leggi en), cui corrisponde il latino in, da cui la preposizione italiana.  Da ἐν+ἄσπρος per aferesi di si è passati a νάσπρος, da cui il dialettale nnaspru con raddoppiamento di n a compensare la precedente aferesi. La conclusione, comunque, è che nnaspru deriva dal greco bizantino: infatti l’attestazione più antica di ἄσπρος citato dal Rohlfs risale a Teofane (VIII-IX secolo).

Tuttavia, prima di chiudere, non posso tacere di una cosa curiosa e che farà ringalluzzire chi pensa che il denaro è tutto nella vita: il greco-bizantino ἄσπρος deriva dal latino asper=ruvido. I Romani, infatti, chiamavano asperi nummi le monete fresche di conio, non ancora levigate dall’uso, quelle che in italiano sono dette ruspe (probabilmente dal longobardo ruspi=sporco). La voce latina, passò nel greco prima ad indicare le monete d’argento, poi ad assumere il significato più generico di bianco1, quello messo in campo per il nostro nnaspru, per cui risulta poco plausibile, nonostante l’evoluzione appena ricordata di moneta ruvida>moneta d’argento>bianco, la proposta del Presicce col passaggio dal concetto di inasprire a quello di indurire, anche perché l’ingrediente irrinunciabile per la glassa è lo zucchero, notoriamente bianco2; il fatto, poi, che la glassa stessa possa assumere un altro colore con l’aggiunta, per esempio, di cioccolato, rientra nella normale evoluzione di ogni preparato di base.

Non mi è stato facile, comunque, stendere questa nota etimologica, Sarà più facile, invece, individuare l’errore commesso dalla nonnina dell’inizio per chi, professionista nel settore,  se ne intende o per chi ha fatto tesoro degli insegnamenti della nonna o per la stessa nonnina di prima. Mi piace immaginarla pure tecnologica quanto basta perché, dopo aver letto queste righe, intervenga personalmente; altrimenti, dopo averla messa al corrente,  si faccia vivo qualche figlio o nipote. E così, oltretutto, l’ultimo modello dell’ultima generazione di telefonini, di cui va orgoglioso,  paradossalmente servirà a ridurre il gap più pericoloso che esista tra le generazioni, compresa la mia, che è riuscita a collezionare più colpe che meriti: quello affettivo, che, poi, in questo caso, ma, in fondo, in tutti, è anche culturale.

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1 Illuminante, a tal proposito, è  quanto si legge nel Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange (la traduzione a fronte è mia):

2 Glassa è dal francese glace, a sua volta dal latino glacie(m)=ghiaccio, anche se in questo vocabolo il concetto di duro (per il Presicce sviluppo di aspro) è prevalente su quello di bianco.

Boccadamo e il suo “Luca e il bancario”

Copertina 2016_colore:Coprtina Il geco (boccadamo)

Domenica 8 gennaio 2017, alle ore 19.30, presso l’Associazione culturale “Fondo Verri”, in Lecce, Via S. Maria del Paradiso 8/A (Porta Rudiae), nell’ambito della rassegna “Le mani e l’ascolto” 2016/2017, avrà luogo la presentazione dell’ultimo libro dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo “Luca e il bancario“, Spagine Fondo Verri Edizioni, dicembre 2016.

Insieme con l’autore, interverranno: Giuliana Coppola, giornalista, scrittrice e critica letteraria; Eliana Forcignanò, filosofa, poetessa e critica letteraria; Mauro Marino, operatore culturale e cofondatore del Fondo Verri.

Il vincotto

negramaro

di Massimo Vaglio

Il cosiddetto vincotto è un denso sciroppo che si ottiene facendo bollire lungamente il mosto d’uva appena ricavato dalla pigiatura dei grappoli.

Prima che inizi a fermentare il mosto viene filtrato e posto in una caldaia riempiendola per metà, in quanto, quando questo giunge ad ebollizione, monta. Viene fatto bollire lentamente e lungamente, sino ad ottenere una riduzione della metà del volume dello stesso, se si impiega mosto rinveniente da uve ad alta gradazione zuccherina, di tre quarti dello stesso, se il mosto rinviene da racèmi o da uve di più discreta gradazione. Nel Salento, si utilizza mosto rinveniente da uve da vino, nel resto della Puglia si preferisce ricorrere a mosto ricavato da uve bianche e da uve da tavola.

Al vincotto, vengono inoltre attribuite proprietà medicinali, soprattutto nelle affezioni delle vie respiratorie. Per quanto sopra, sino ad un recente passato, erano davvero poche le famiglie che nel periodo della vendemmia non ne facevano una buona provvista è un prodotto che migliora sensibilmente con la stagionatura e che si conserva anche per diversi anni..

Il vincotto era già conosciuto e adoperato in epoca romana, usato spesso misto a neve in una sorta di prototipo di sorbetto, uso che peraltro sopravvive tuttora in molti paesi della Puglia. Il suo uso è attestato sin dall’antichità con i più svariati usi, testimoniati anche negli scritti di illustri scienziati e letterati dell’antichità, tra cui: M. P. Catone Uticenze, Virgilio, Plinio e Varrone.

Nel Salento si adopera preminentemente mosto di Negramaro, il famoso vitigno locale a bacca nera, base della quasi totalità dei blasonati vini DOC locali, e preziosa fonte di resveratrolo, il polifenolo dalle riconosciute proprietà nella prevenzione dell’ Alzhaimer e delle malattie cardiovascolari.

Questo prodotto, nel Salento è molto amato e viene variamente adoperato, viene aggiunto alla neve andando a costituire una sorta di prototipo di sorbetto e viene utilizzato per dolcificare alcuni dolci tradizionali, quali le pèttole e le cartellate. Rientra nella colza e nella coddhiva, antichi dolci locali, il primo a base di chicchi di melagrana, e il secondo di grano stompato ed è anche usato come condimento per condire i maccheroncini cavati e altri formati di pasta tradizionali fatti in casa.

 

Nardò: un passaggio antiallagamento del XVII secolo in zona Parapuerti

di Armando Polito

Nell’immagine l’attuale stato, alla confluenza delle vie Regina Elena, Agostino De Pretis, Madonna di Costantinopoli e Cimitero.

Ecco come si presentava lo stesso sito nel dettaglio tratto dalla mappa di Nardò del Blaeu (1663):

Quella contrassegnata con il numero 3 era una cosiddette porta falsa, cioè un varco nelle mura più piccolo della normale porta, atto a far defluire le acque piovane dalla città all’esterno, come recita la relativa didascalia: Porta falsa, donde esce l’acqua, che piglia la città per le pilogge. Nella mappa è chiaramente visibile un deflusso in corso sormontato da un ponticello atto a valicare questa specie di canalone in cui il deflusso stesso appare convogliato. Parapuerti  corrisponde all’italiano paraporti, plurale di paraporto. Eccone la definizione tratta dalla Treccani on line: Nelle costruzioni idrauliche, lo stesso che scaricatore, cioè il manufatto, facente parte di un’opera di presa di un canale derivato, col quale si scaricano le acque sovrabbondanti nel periodo di piena del corso d’acqua principale e si libera l’imbocco del canale derivato dalle materie depositatesi nei periodi di magra. La voce è da parare+porto (nel senso di apertura, passaggio).

A testimonianza di come il tempo travolga inesorabilmente non solo il paesaggio nel suo insieme ma anche i suoi dettagli, soprattutto quando viene coinvolta, come nel nostro caso,  una zona già allora non in aperta campagna ma immediatamente a ridosso delle mura, ecco cosa oggi c’è dove un tempo si vedeva la porta falsa dei Parapuerti:


In pratica irriconoscibile, nonostante sia rimasta in piedi la torre che, fra l’altro, nella carta del Blaeu non appare strettamente congiunta con la porta falsa.

Le masserie come basi strategiche della guerriglia antiunitaria in Terra d’Otranto

Masseria Petrose
Masseria Petrose

 

Le masserie come basi strategiche della guerriglia antiunitaria. L’editto prefettizio di chiusura, e il reclamo dei massari di Sava

 

di Gianfranco Mele

Le problematiche legate all’unificazione del Regno e alla resistenza antiunitaria investono e sconvolgono, come tanti altri paesi, anche la tranquilla cittadina di Sava, che ne è coinvolta, nel periodo di maggior tumulto, per almeno tre aspetti fondamentali: 1) una rivolta popolare inaspettata; 2) la permanenza dei briganti filo-borbonici nell’agro di Sava e negli immediati dintorni, e i loro scontri con la Guardia Nazionale documentati anche dalla stampa dell’epoca; 3) l’ Editto della Prefettura della Provincia di Terra d’ Otranto e le rimostranze dei massari.

Il primo episodio si verifica l’8 dicembre del 1860: una schiera di 500 cittadini, per lo più di ceto contadino, scende in Piazza S. Giovanni al grido di “viva Francesco Secondo” e insorge ribellandosi all’ unità d’Italia e alle autorità che la rappresentano. La resistenza filo-borbonica è capeggiata, in questa occasione, da Francesco Pichierri, inserviente comunale, che raduna le genti al suono di un tamburo. Vengono bruciati gli stemmi reali e gettate pietre alle finestre delle autorità filo-governative. L’indomani i ribelli si recano nella vicina Torricella cercando di sollevare anche quella popolazione. Nei giorni successivi la Guardia Nazionale arresterà 28 savesi e 3 torricellesi. Via via la protesta antiunitaria si fa sempre più clandestina e si organizza in bande armate che nel territorio saranno guidate dal sanmarzanese Cosimo Mazzeo detto Pizzichicchio. Le boscaglie, le campagne e le masserie divengono i luoghi d’incontro e di organizzazione logistica dei briganti filo-borbonici.

Le masserie disseminate nelle campagne del Meridione costituirono una importante e funzionale base strategica per la guerriglia antiunitaria. Questi luoghi divennero basi di rifornimento e di viveri per i briganti e sedi del loro pernottamento, e anche di reclutamento di nuovi briganti e di organizzazione delle strategie di guerriglia. I briganti solevano occuparle per brevi periodi spostandosi di volta in volta da una masseria all’altra.

Contrariamente a quanto divulgato da qualcuno e anche dalla stampa dell’epoca, i rapporti tra massari e briganti in genere erano buoni, sia perchè molti massari erano filo-borbonici, sia perchè ricavavano degli utili dall’occupazione brigantesca. Tuttavia, per ovvie ragioni, i massari non dichiaravano apertamente (e tantomeno alle autorità) qualsivoglia forma di loro connivenza con i briganti. Le bande di briganti si sdebitavano nei confronti dei massari, per gli aiuti ricevuti (pernottamenti, alimenti, foraggi e ricoveri per animali, e quant’altro di cui avessero bisogno) con regolari pagamenti che provenivano dalle casse del fondo loro elargito dai Comitati Borbonici. Potevano assicurarsi in tal modo, oltre all’ospitalità e al vitto, varie altre prestazioni: difatti le masserie a quei tempi avevano un insieme di servizi e di attività che tornavano utili al soggiorno e al sostentamento dei briganti: dagli alloggi, ai laboratori del maniscalco utili a ferrare i cavalli, all’occorrente per sfamarsi, ecc. ecc.

Non di rado le masserie erano anche luoghi in cui venivano ricoverati e curati i briganti feriti dagli scontri con le Guardie o nei quali, essendo braccati e ricercati, potevano segretamente incontrarsi con i loro familiari.

Le autorità delle forze repressive piemontesi si accorsero dell’importanza strategica delle masserie nell’organizzazione della guerriglia e come luoghi di ospitalità dei briganti, e iniziarono a prendere provvedimenti contro di esse.

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In data 23 ottobre 1862 la Prefettura della Provincia di Terra d’Otranto emise, a firma del Prefetto G. Gemelli, un editto mirato a reprimere il brigantaggio nei suoi diversi aspetti; con questo provvedimento, tra le varie cose, si comandava la chiusura di tutte le masserie e case di campagna della provincia, il loro svuotamento e il ritiro nei centri abitati del bestiame e dei foraggi:

“Nei comuni più minacciati saranno adottati i seguenti provvedimenti: a) Vietarsi a ciascuno uscir di paese durante la notte, e portare il giorno viveri in campagna oltre la quantità necessaria allo stretto bisogno proprio; b) impedire che massari, coloni, lavoratori, domestici, e simili vadano o si trattengano alla campagna senza essere muniti d’una carta di sicurezza rilasciata dal Sindaco, e coi debiti connotati; c) Chiudersi, e murarsi, a spese de’ proprietarii, le masserie e case di campagna vuotandole d’ogni prodotto, commestibile, e foraggio, e trasportando il bestiame in luoghi ove sia meno esposto ad essere depredato; d)  astringere i proprietarii, che a ciò si rifiutassero con mezzi amministrativi e spediti; e) permettere soltanto di ritenere le masserie aperte a quei proprietarii che si obbligassero farle custodire da una guardia stabile non minore di dieci uomini.”

Questa disposizione colpiva duramente il ceto dei massari (oltre che, più in generale, l’industria agricola e degli allevamenti di bestiame che aveva proprio nelle masserie il suo fulcro). I massari savesi si affrettarono così a produrre un reclamo nei confronti delle autorità, sotto forma di supplica. Tale supplica verrà parzialmente presa in considerazione dal Prefetto il quale, pur nel rispetto dell’ Editto, rimetterà al Sindaco di Sava la decisione di individuare le masserie da chiudere quali potenziali ricettacoli di briganti, sulla base della “loro posizione topografica” o dell “indole sospetta dei padroni o dei massari”.

Masseria Coppola
Masseria Coppola

 

Le restanti masserie, per concessione del prefetto, sarebbero potute restare aperte “vuotandosi però di foraggi e commestibili, non dovendosi serbare che la quantità strettamente necessaria alle persone che vi abitano” (questo provvedimento, sempre al fine di evitare che i briganti vi si stanziassero trovandovi quanto a loro necessario).

Di fatto, a quanto sembra l’ Editto non riuscì a scongiurare quanto prefissatosi oppure non venne mai applicato alla lettera, in quanto i pernottamenti dei briganti nelle masserie continuarono per un certo periodo di tempo anche dopo la sua emissione, fin quando, in ogni caso, la repressione della guerriglia non raggiunse il suo apice con la cattura e la fucilazione di molti rivoltosi.

Cinque giorni dopo l’emissione dell’ Editto, il massaro Donato Nardella della masseria di Pasano in Sava, chiede al Sindaco di Sava “giusto la lettera E dell’art. II° dell’ Editto di Prefettura, di tenere aperta la sua masseria e di farla custodire da una Guardia di dieci uomini, che prega volergli concedere dalla Guardia Nazionale di Sava”. In alternativa, e nel caso il Sindaco dovesse decidere, sulla base dell’Editto prefettizio, di far murare la masseria di Pasano, il Nardella chiede con questa missiva di potersi trasferire con il bestiame nella vicina masseria Grava o nella masseria Monaci. Due giorni dopo la data della lettera inoltrata al Sindaco, il Nardella è co-firmatario insieme ad altri dieci massari savesi di un reclamo indirizzato direttamente al Prefetto.

A seguire, il il documento del Nardella, il documento-reclamo sottoscritto dai massari di Sava e la risposta del Prefetto, da questi trasmessa al Sindaco di Sava. Occorre notare che nel documento i massari prendono le distanze sia dalla resistenza borbonica che da ogni forma di connivenza con i briganti, asserendo anche che le loro masserie non sono mai state oggetto di visite da parte dei guerriglieri.

In realtà da ricostruzioni storiche, da notizie degli organi di stampa dell’epoca e dagli stessi documenti del Tribunale di Taranto relativi al processo a Cosimo Mazzeo detto Pizichicchio, emergerà che oltre a frequentare le campagne savesi, i guerriglieri avrebbero stanziato nel novembre 1862 (successivamente all’ Editto) presso la masseria di Pasano e in altri luoghi dell’agro di Sava, nonchè in zone limitrofe; il periodico “Il Cittadino leccese” in data 4 dicembre 1862 riporta ancora notizie relative alla presenza di briganti in agro savese e più in generale nella provincia e nelle masserie della zona, dedicandovi un numero speciale e ospitando le dichiarazioni del deputato manduriano Schiavoni che polemizza rispetto alla mancata applicazione ferrea dell’ Editto.

Masseria di Pasano
Masseria di Pasano

 

A.C. Sava

Richiesta del massaro Donato Nardella

Al Signor Sindaco del Comune di Sava

Il massaro Donato Nardella, conduttore della masseria Pasano, richiede al Sig. Sindaco di Sava a volergli permettere, giusto la lettera E dell’art. II° dell’ Editto di Prefettura, di tenere aperta la sua masseria e di farla custodire da una Guardia di dieci uomini, che prega volergli concedere dalla Guardia Nazionale di Sava. Ovvero che murando la sua masseria, vuotandola di ogni prodotto commestibile e foraggio, gli fosse fatta facoltà tramutarsi col bestiame o nella masseria Grava o a quella de’ Monaci, riunendosi al fittuario Orazio Schifone e mantenere …… la Guardia richiesta. Si prega inoltre al Sig. Sindaco a voler concedere giusto la lettera B del predetto art. II la carta di sicurezza a tutti i coloni e lavoratori del sottoscritto.

Taranto 28 ottobre 1862

F.to

Donato Nardella

Reclamo dei Massari di Sava avverso l’ Editto di chiusura delle masserie.

All’ Egregio Signor

Prefetto della Provincia di terra d’Otranto Lecce

 

Li qui sottoscritti e crocesegnati Orazio Schifone fu Pietro, Luigi Antonucci, Giovanni Toma, Pasquale Spagnolo, Salvatore Schifone, Donato Nardella, Luigi Schifone fu Giovanbattista, Michele Melle, Oronzo Malagnino, Tommaso Pizza, Luigi Schifone di Orazio del Comune di Sava, massari il primo della masseria Torre, il secondo della masseria Tima, il terzo del masseria Monache, il quarto della masseria Agliano, il quinto della masseria Grava, il sesto della masseria Pasano, il settimo e l’ottavo delle due masserie Coppola, il nono della masseria Petrose, il decimo della masseria Scersa, l’undicesimo della masseria Prati. In omaggio dell’ Editto del 2° ottobre 1862, spedito all’ E.S. ed in conseguenza delle disposizioni del Sindaco locale, loro notificate a 28 spirante mese di chiudere, e murare le dette masserie, vuotandole di ogni prodotto, commestibile e foraggio di ogni specie, trasportando il bestiame in luogo sicuro vicino al paese. Umilmente sottopongono al retto sentire dell’ E.S. affliggenti di loro posizioni di dare sfogo alle lodate disposizioni, può l’ E.S. compenetrarsi della loro precisa rovina, e del danno incalcolabile alla società, per la mancanza dei prodotti all’anno venturo, sicchè si benigna le stesse modificare per la tenuta Sava per le sopralodate masserie. E per accettare di buon grado la presente supplica umiliano le presenti industriali circostanze, la posizione topografica delle masserie, ed i rapporti morali nelle quali si vive.

Le masserie descritte ai numeri 1, 3, 4, 5, 6, 8, 11, hanno ognuna la dotazione di 500, a 700, animali pecorini e caprini, gravide e partorienti, che ammovendoli dai loro siti, è un rinunciare ai loro capitali, per la mancanza del pascolo, del sito naturale, del ricovero, per quell’assistenza che non possono ricevere gli animali partorienti, la 2, 6, 7, 10 masserie hanno un gregge ognuno da 300 a 400 animali pecorini e caprini: ed il peso tenero di detti animali mancherebbe di pascolo immediato dell’orzame, che trovasi seminato accanto delle masserie, non essendo animali da transitare da un fondo all’altro.

Li bovi non sono a (illegibile) ma addetti alla coltura e continua aratura delle terre, ed alla semina delle biade, a stento si trascinano a passo grave alla masseria, dopo aver solcato la terra per una giornata. Essendo lavoro che deve farsi, e sia permesso dirlo, per avere tutti di che mangiare e pagare li vistosi fitti per il maggior numero di esse di doc. D. 1600,00, come ritirare gli animali in vicinanza del paese, che non sono distanti che da un miglio e mezzo? E dove poggiarli ? Per sfinirli, non più per seminare. E le paglie che a rimetterle ne i serbatoi han costato un’estate, dove posarle e custodirle? E per l’acqua onde abbeverarli ad ora, e tanti animali come farsi ritirandoli in paese, mentre manca per gli uomini?

Ottimi provvedimenti in casi così estremi, in cui si geme. Ogni uomo che ha un cuore, ed interesse freme di ira contra i malvagi, ogni uomo vuole fare, i supplicanti vogliono ancor essi fare e più ardenti degli altri, perchè si hanno beni, industrie agrarie, dove vogliono essere presenti essi, co’ propri figli e tutti i loro cari. I supplicanti vogliono sottomettersi a ogni misura draconiana, la implorano, essendo in grado di ottenerla per la posizione territoriale:

Tramontana strada Francavilla   masseria Torre,
Strada S. Marzano masseria Tima,
Strada S. Marzano masseria Monache,
Strada cons.re per Taranto masseria Agliano,
Strada cons.re per Taranto masseria Grava,
Strada per Lizzano masseria Pasano,
Strada per Torricella masseria Prati (Monache),
Strada per Torricella masseria Coppola,
Strada per Maruggio masseria Petrose,
Strada per Maruggio masseria Scersa.

Le dette masserie distano dal paese un miglio, circa due miglia le più lontane e circoscrivono il paese; fra loro distano un miglio l’una dall’altra. Per andare a Torre si va con la via per Francavilla; a Tima colla via per S. Marzano; alle Monache e Agliano colla via nuova per Taranto; per la Grava e Pasano per quella di Lizzano; per le masserie Prati e Coppola colla via nuova per Torricella; per le Petrose e Scersa colla via per Maruggio. Tutte strade popolatissime in ogni ora. Tutte territorio aperto e piano, e le masserie si veggono le une le altre. Nel paese si vive bene. Tutti gli sbandati, e tutte le reclute del Comune un dì si presentarono e servono militarmente. Lo spirito pubblico è lodevole; le nostre campagne non sono state mai minacciate dal Brigantaggio. I supplicanti vogliono concorrere con tutte le loro forze alla loro distruzione; han tolto dalle masserie quanto di meglio avevano per il comando della vita, i viveri per essi e per i coloni si portano mattina per mattina. Voler dieci uomini a masseria sarebbe denudare il paese di tutta la forza, e per salvare una parte potrebbesi perdere tutto. S’ingegneranno masseria per masseria avere un fidato vigilatore per avvertire di volo il paese, se alcun brigante osasse mettere piede su questo territorio. Sono utilissime le continue perlustrazioni delle nostre Guardie Nazionali, e con queste ci offriamo di concorrere allo sterminio degli assassini.

Supplichiamo di rimanere fermi ai rispettivi interessi, alle proprie industrie, svincolati dall’ordine di smettere tutto, ed essere di vanguardia alla forza che gira, anzicchè i nostri abituri potessero tornare centri di agguato alla Guardia Nazionale, ove siamo, abbiamo figli di sangue nostro.

 

Da Sava, 30 ottobre 1862

F.to

Oronzo Malagnino

Giovanni de Toma

Luigi Antonucci

Pasquale Spagnolo

Salvatore Schifone

Luigi Schifone ( fu Giovanbattista)

Luigi Schifone (di Orazio)

Michele Melle

Segno di croce di Orazio Schifone

Segno di croce di Tommaso Pizza

Segno di croce di Donato Nardella

da-il-cittadino-leccese-del-13-ottobre-1862
Da “Il Cittadino leccese” del 13 ottobre 1862
da-il-cittadino-leccese-del-22-novembre-1862
Da “Il Cittadino leccese” del 22 novembre 1862
da-il-cittadino-leccese-del-29-novembre-1862
Da “Il ciiradino leccese” del 29 novembre 1862

 

BIBLIOGRAFIA

Pichierri, Resistenza antiunitaria nel tarantino, Lacaita Editore, Manduria, 1988

Durelli, Colpo d’occhio su le condizioni del reame delle Due Sicilie nel corso dell’anno 1862, stampato nel 1863 e rieditato da Ripostes Ed., 2010

Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid, 1983

Gemelli, Editto Provincia di Terra d’Otranto del 23.10.1863

Archivio Comunale di Sava cat. XV, cart. 174, v. 5 (documenti raccolti e trascritti da G. Pichierri, op. cit.)

Internet Culturale, Cataloghi e collezioni digitali delle biblioteche italiane, testi a stampa www.internetculturale.it

 

Lu cuntu ti Natale… (in dialetto salentino)

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Natale a ‘mParadisu

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando non ci saranno più racconti da raccontare

finiranno davvero tutti i sogni.

 

Questa non è una leggenda.

È un fatto miracoloso e realmente accaduto, scritto sui libri delle fate, che si raccontava di casa in casa e che anch’io ho sentito raccontare, molti secoli fa…

 

A casa nòscia li cunti ni li cuntava la nonna Anna – originaria de Sujanu, ca tenia cchiui de centu anni –, in compagnia de la zì Teresina, vecchiareddha puru iddha, ca intervenìa de tantu in tantu, quandu la nonna se rescurdava de qualche particulare importante, o puramente quandu “mbiscava fave e foje”, confundendu nu cuntu cu l’addhu.

Difatti, certe fiate, comu se nienti fosse, passava de la storia de lu re de Francia, ca tenìa la caddhina Picciò, ca li facìa l’ovu su lu cumbò, a quiddra de la scupa de la strega Petrusella, ca li l’hia rrubbata la fata ‘Nfinferlina, ca se zzava de notte e durmia la matina.

Vabbè, comu ede, ede…

Lu cuntu ca mo’ vu cuntu zzaccava cusì:

«Nc’erana fiata na cristiana, ca nun era del tuttu na bona cristiana, anzi a lu paese sou la chiamavanu Vitamaria “la fiacca”. Ca poi, però, tantu fiacca mancu era. Nu pocu cresta, macàri, ca si la mberzava pe nienti. Forsi percè s’ia fattu vecchia e era rrimasta sula, senza maritu né fiji, e cu qualche parente luntanu luntanu ca propiu luntanu stava, e nu se vidìanu mai. Mangiava pocu e nnienzi. Cicore creste e pane e cipuddha. Quandu succedìa, li facia le servizzie a qualche signora ca li rrecalavana lira o doi, e a la stagione ccuìa l’uva o le vulìe a campagna de li patruni… Insomma: se rranciava.

Eppuru, alla fine, quandu putìa, facìa puru la carità a quiddhi ca eranu cchiù poveri de iddha. E se qualche fiata era furba (anzi, sempre!) era percè tuccava cu se cuarda de nanzi e de retu, e nu si facìa passare muschia pe nasu, e cusì se llitacava quasi sempre cu tutti.

Rrivata l’ora soa, la Vitamaria morse. E sùbbitu li se ppresentau lu Diàvulu, cu tantu de corne e de cuda pizzuta, pungendula de retu cu lu furcone, cu la fazza sbricare, percè l’ia ccumpagnare de pressa a lu ‘Nfiernu, comu difatti fice in quattru e quattr’ottu.

  • Cce ete, ccquai?, dumandau la Vitamaria quandu rrivara a nnanzi a na crotta, de la

quale ssìa nu focu e fiamme.

  • Lu ‘Nfiernu!, li respusera de intru la crotta,cu na voce cupa cupa.
  • Lu ‘Nfiernu?!… No, no! Purtàtime a lu Paradisu, ca a mie a lu Paradisu me ttocca!

 

E cusì, dopu qualche discussione,secutàra cchiù nnanzi.

Camina e camina, rrivara a na specie de bburrintu.

(- Nonna, cce ede lu ‘bburrintu’?, dumandavamenui piccini, cu la vucca perta e cu l’occhi spalancati. – Lu bburrintu, ni spiecava la zì Teresina, ede na specie comu sia de na chiazza mbrujata, cu tante vie e vijceddhe, scale e scaleddhe, porte e porticeddhe… Comu lu ‘labbirintu’ de lu sciocu de la loca, iticapitu?! – Sì! Sì!…, rispundiame nui, ma nun ìame capitu propiu nienti.E intantu la nonna secutava a cuntare).

Toc! Toc!,tuzzàu la Vitamaria a n’addhu purtone, mentru lu Diàulu la pungìa cu lu furcone. – Cce ete, ccquai?…

     -Lu Purgatoriu!, li respuse de ddha intru n’addha voce, lamentusa lamentusa.

     -No, no! Purtàtime a lu Paradisu, ca a mie a lu Paradisu me ttocca!

Altra discussione a non finire, e secutàra cchiù nnanzi.

 

Finalmente rrivara a lu Paradisu.

La Vitamaria de nanzi, e lu Diàvulu sempre de retu, cu lu furcone mpizzatu ‘nculu ‘nculu.

Se capìa subitu ca a ddhu eranu rrivati era lu Paradisu: pe via del’angeli ca scìanu e bbenìanu, vulando intru a nuvole d’oro, e pe la luce forte forte ca quasi te cecava, e la musica celestiale, e le stelle, ca luccicavanu a mijare ea milioni, e una era puru ‘na stella cumeta, cchiù crande e cchiù luccicante de tutte.

(- Nonna, nonna, ma deveru ca la stella cumeta tene la cuda longa longa ca pote rrivare puru finu a ‘ncielu?, dumandàvame nui, ca la stella cumeta l’ìame vista sulamente a lu presepiu. -Hai voglia!, rispundìa la zì Teresina. E nu ggiungìa addhu, lassanduni cchiù curiositusi de prima…).

 

Quandu la Vitamariatuzzàu a la porta d’oru de lu Paradisu, li aprìu San Pietru, ca tuttu sapìa.

  • Cce ede ca voi?, li ddumandau, quasi stizzatu.
  • Voiucu trasu a lu Paradisu!
  • Sì, e stai frisca!…Quistu nun è postu pena peccatrice comu tie! Te ne poti scire!…
  • E tie, ci sinti?
  • Ci suntu iu?! Iu suntu San Pietru!
  • Ah, bella percalla! Ca ti nnecasti tre fiate Gesù Cristu! Se mo’tiestai a ‘mParadisu, allora puru iu pozzu stare a cquai a paru cu tie!…

 

Poi, non cuntenta, la Vitamaria aggiunse:

  • E scummettu, ca cu tiec’è puru Santu Paulu, no?
  • Naturale! Puru Santu Paulu!…, li respùse seccu San Pietru.
  • Altra bella pezza! Unu, ca prima cu se pentisca e cu se cunverta a Cristu, ccise 99 cristiani, e n’addhu intru a la Chiesa, e fannu 100! Se mo’ tie e iddhu stati a ‘mParadisu, allora pozzu stare puru iu a paru cu bbui!…
  • Ti dissi ca puzzi de peccatu!… Vane, ca quistu nun è postu pe tie!

 

E se zzaccare a litacare. E siccomu se strolacàvanu forte e nu la spicciavanu cchiui, e per giunta era propiu lu santu giurnu de Natale, rrivau laMadonna in persona, cu Gesù Bambinu a mbrazze, e con calma e dolcezza se rivolse a la Vitamaria:

  • Fija mia, bisogna cu tieni pacienza, specialmente osce ca ede lu giurnu cchiù santu de tutti li giurni! San Pietru t’have dittu ca a cquai nun c’è posto per te, e San Pietru,cchiùi de tutti, sape ci pote stare a ‘mParadisu, e ci no… Queste sono le regole.

 

  • E ssignuria, chi siete?, li dumandau la Vitamaria, cu la capu calata pe la soggezione.
  • Io sono la madre di Dio.

 

Allora quiddha se menau subitu a nterra, chiangendu e precandu ngenucchiuni:

 

Vergine Matre, santa apparizzione,

regina te lu Cielu, fiurita e bella,

a te mi prono cu crandeadorazzione,

stella lucente cchiui de ogni stella!

Regina ca de luce tefacisti,

divotamente te vegnu a precare:

te precu pe ddhu Fruttu ca facisti,

ca parturisti ‘sta notte de Natale:

te precu, Matre santa e adorata,

core benigno de carità serena,

porta lu balsamu a ‘st’anima malata,

mèdica l’anima mia che mal si mena.

E ‘stu diàvulu nimicu e vicilante,

fallu cu se ne vàscia cchiù distante.

A te mi voto, bella Madonna mia,

ecu lu core ti recitu l’Ave Maria!.

 

E se mise a recitare pe tridici fiate l’Ave Maria, mentru lu Diàvulu se rrevutava de cquai e de ddhai, se girava comu na giostra, e nu sapìa cchiui comu ia de fare cu si la scuaja luntanu de tutte ddhe suppliche, preghiere e giaculatorie, ca pe iddhu eranu pèsciu de centu curteddhate.

(- Nonna, nonna, ma le ‘curteddhate’ cce ssuntu, comu le carteddhate?, dumandavane nui, ca vulìame cu sapimu sempre tuttu e subitu. La nonna prima ridìa, poi cuardava la zì Teresina, ca se mentìa a ridìre puru iddha, e alla fine, unu retu l’addhu, ridìame tutti a crepapelle, senza mancu cu capimu percè. Poi la nonna secutava a cuntare…)

 

A quel punto la Madonna, parlandu cu l’occhi commossi a Gesù Bambinu, li disse: – Fiju miu,quella poveretta nu mi è parsa na fiacca cristiana. S’have menatu cu preca cu vera devuzzione… E se qualche peccatu have fattu in vita soa, è statu pe debulezza e povertà, ma no pe cattiveria. Cu lu permessu tou, iu la facia trasìre. Anche perché, osce ede Natale, lu giurnu cchiù bellu de tutti ligiurni… Insomma: pe mie, pote stare a ‘mParadisu. E pe tie…?

Lu Bambinieddhu, allora, fice segnu de sì, e li fice segnu puru a San Pietrucu apra la porta d’oru. E cusì Vitamaria “la fiacca”trasiu a ‘mParadisu propriu lu giurnu de Natale!

E alla fine, tutti rrumàsera felici e cuntenti.

Menu ca lu Dìavulu, naturalmente, ca pe la ràggia spezzau lu furcone, e sparìu intru a na nuvola de fumu».

Cuntu cuntai. N’addhu cuntu vu lu cuntu crai. E se lu cuntu è statu bellu, dì la prechiera a lu Bambinellu.

Buone Feste! (Antonio Mele ‘Melanton’).

pubblicato su “Il filo di Aracne”

Omaggio ad Antonio Baldari

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Omaggio ad Antonio Baldari, una tre giorni all’Arci di Galatone (Le) per ricordare l’uomo e l’artista, strenuo difensore della terra salentina

di Paolo Rausa

L’Arci Rosa Luxemburg, a Galatone, nell’entroterra salentino di Gallipoli, la bella, il 27 28 e 29 dicembre dedica una serie di iniziative per ricordare Antonio Baldari, grande combattente per la libertà del Salento. Della sua e della nostra terra. Ci ha lasciato qualche mese fa Antonio, da tempo malato. Sempre al centro propulsore di iniziative a difesa della terra salentina, terra di eroi non del dire ma del fare. Il nome dell’Arci sarebbe piaciuto ad Antonio, perché ricorda le comuni radici ideologiche e politiche. Rosa Luxermburg ci era cara perché fra le poche donne politiche, teoriche del socialismo rivoluzionario marxista, sempre in prima linea nella rivoluzione d’ottobre in Russia e in Germania, a difesa dei principi egualitari e di libertà contro lo sfruttamento dell’uomo su l’uomo. Antonio aveva via via ampliato la sua visuale teorica passando alla teorizzazione di una visione dell’esistenza che comprendeva fra le condizioni del benessere anche quelle ambientali. Anzi il presupposto della felicità sulla terra, su questo lembo di terra, era preservare la natura, il paesaggio e l’albero principe e simbolo del Salento, l’ulivo. Ecco perché gli sembrava strano e paradossale che dopo secoli e secoli di suo dominio incontrastato sulle vaste superfici planiziali del Salento ora una minuscola causa, la cosiddetta xylella fastidiosa, potesse essere la responsabile del deperimento di enormi piantagioni di ulivi disseccati. Aveva dedicato ogni suo attimo vitale a scoperchiare, accanto al popolo degli ulivi, quella che riteneva una congiura ai danni del paesaggio agrario e naturale. E usava tutti i mezzi possibili per bandire le ignominie di una verità contrabbandata come scientifica, ma per lui prona agli interessi di speculatori immobiliari di casa nostra e d’oltralpe. Perciò si sgolava a manifestare per le strade dei paesi colpiti, davanti alla prefettura e al tribunale che non si trattava di un batterio ma di un piano delittuoso ordito alle spese della nostra terra che si doveva fermare. Gli amici di tante lotte lo ricordano all’Arci di Galatone con diverse iniziative che prevedono l’esposizione dei suoi quadri, i filmati dei suoi interventi e le testimonianze dei tanti compagni di lotte e di viaggio tra le campagne salentine. Il giorno dell’inaugurazione, il 27 dicembre alle ore 18, sarà dedicato alla presentazione della sua produzione pittorica. Il 28 dicembre alle ore 20, un incontro con tutti gli amici del forum ambiente e salute e gli attivisti salentini ricorderà le sue battaglie comuni. Mentre il terzo giorno, il 29 dicembre alle ore 20, verterà sulla figura di politico e ‘partigiano’ dell’ambiente e della libertà, come politico e attivista ambientale. Ma Antonio esaltava anche i momenti di intrattenimento musicale e coreutico. Per questo sono stati chiamati a manifestare con le loro armi dalle ore 22 diversi musicisti. Il primo giorno sarà ospite il jazzista Francesco Coppola, il secondo giorno gli Astèria, cantori di musica grika, e il 29 dicembre il gruppo di Salvatore Alessio & Friends. L’ingresso agli eventi è gratuito. Info: Arci Rosa Luxemburg, via R. Vaglio 16, Galatone (Le), tel. 327 737 9181.

Gesù bambino in alcune marche editoriali cinquecentesche

di Armando Polito

Leggendo un titolo simile chiunque penserebbe che marche di tal fatta  siano appartenute ad editori specializzati in pubblicazioni di carattere religioso. Lo pensavo, prima di partorirlo,  anch’io quando mi sono imbattuto nel primo titolo: Missale secundum chorum alme Ecclesie Strigoniensis, Urbano Kaym, Venezia, 1518.

La marca mostra la Madonna in piedi, con Gesù bambino in braccio. Fiamme sullo sfondo. In basso le iniziali dell’editore V. K. sormontate da croce.

Mi son dovuto ricredere, pur con qualche riserva, col secondo titolo: Calandra. Comedia di Bernardo Divitio da Bibiena intitolata Calandar, Giovanni Antonio Borgo, Milano, 1545.

La marca mostra Gesů bambino benedicente con la destra mentre con la sinistra regge un globo sormontato da croce.

Il terzo titolo mi ha convinto ad abbandonare ogni riserva o idea di beneficio d’inventario. Esso conferma definitivamente  la fallacia del pensiero inizialmente espresso e la marca, per giunta, tradisce l’attaccamento dell’editore, che è lo stesso del titolo precedente, allo stesso tema, anche se la sua rappresentazione cambia in qualche dettaglio: Formulario overo Epistolario volgare, cioe modo de insegnare a dittare lettere missive, et responsive ad ogni persona de qualunque grado si sia, con ornato et elegante parlare, et anchora a sapere fare le mansione di dentro ey di fuora con facilita. Composto alla comune utilita delli indotti, et novamente stampato, Giovanni Antonio Borgo, Milano, 1546.

I cambiamenti più appariscenti sono l’aggiunta su un lato del ramo di olivo, sull’altro di palma e il cartiglio al cui interno si legge il motto EGO SUM LUX MUNDI1 (Io sono la luce del mondo).
Ci vedo la celebrazione dello spirito del Rinascimento, in cui la rivalutazione dell’uomo non relegò mai di fatto la divinità su un piano secondario ma propiziò il felice connubio (a parte le deviazioni dal giusto equilibrio presenti in ogni epoca storica, anche in quella relativamente più felice) del sacro e del profano, del laico, credente e non, e del religioso (anche di professione…). Ma ci vedo pure, anzi, soprattutto, l’occasione per augurare ad ogni specie vivente (e, perché no, anche ai sassi …), ma soprattutto alla nostra, dalla quale dipende anche il benessere delle altre, se non un nuovo Rinascimento, almeno la rinascita dei valori fondamentali che sono alla base di ogni civiltà, compresa la nostra che, nonostante i mille sbandieramenti, mi pare li rispetti solo a parole …

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1 Vangelo secondo Giovanni, 8, 12.

Una triste storia di Natale accaduta all’alba dell’Unità d’Italia

Il pastorello e gli scarponi

Pasquale non aveva mai calzato un paio di scarpe; quando decise di farlo,

per tener fede ad una promessa d’amore, pagò un prezzo altissimo

 

di Rino Duma

 

Premessa

Il fatto che sto per raccontare è realmente accaduto poco dopo l’Unità d’Italia a Picerno, un paesello dell’alta Basilicata, che a quei tempi contava appena tremila anime. Erano gli anni in cui il Regno delle Due Sicilie era stato invaso dalle truppe piemontesi e annesso al Regno d’Italia, nonostante la strenua ed impari lotta della popolazione fedele a re Francesco.

Ho appurato questa triste storia leggendo “La conquista del Sud”, un appassionante romanzo di Carlo Alianello[1], che ha descritto il “Risorgimento meridionale” con dovizia di particolari e con un singolare ed impareggiabile trasporto emozionale. Il libro è pieno di episodi di struggente ed inaudita crudezza, ma – credetemi, amici lettori – questo che sto per narrarvi supera ogni altro per il modo con cui si è svolto e per il crudele epilogo.

L’antefatto

Il personaggio coinvolto in questo patetico e sconcertante avvenimento è un pastorello, orfano di entrambi i genitori, che conduce una vita grama alle dipendenze di una famiglia di pastori in un casolare di campagna ad un chilometro dal paese. Il suo nome è Pasquale Pagliuca, la sua età si aggira tra i sedici e i diciassette anni, forse di più, forse di meno. Il ragazzo è un tipo macilento, bruno di carnagione, alquanto grossolano negli atteggiamenti ed essenziale nel vestire, di poche parole ma gran lavoratore, buono come il pane e dolce come il miele. Cammina scalzo sin da quando è nato. Alla sua giovane età, Pasquale ha già la pianta dei piedi dura e nodosa come il legno, più tenace della terra che calpesta; ma lui non se ne cura, non avverte alcun disagio a muoversi su terreni accidentati, scivolosi e pieni di rovi. Solo raramente usa i “sandali fasciati”[2] per recarsi a Picerno in occasione dell’annuale mercato boario, per partecipare alla festa patronale di San Nicola e per assistere, almeno una volta al mese, alla santa Messa domenicale e comunicarsi.

Il fatto

Siamo entrati da poco nel mese di dicembre 1863. Pasquale ha conosciuto, nella chiesa matrice di Picerno, tramite l’amico Gennaro, Maria Gerarda, una bella ragazza della sua stessa età, molto schiva e contenuta, ma dagli sguardi seducenti ed ammiccanti. Il ragazzo rimane estasiato dal fascino che emana e non smette mai di sognarla e di immaginarsi suo sposo. Per tale motivo si reca ogni domenica a Picerno per incontrarla in chiesa e farsi, almeno con gli occhi, un’abbuffata di cotanta bellezza. La Messa scivola via senza essere percepita minimamente dal ragazzo. I suoi occhi sono puntati costantemente su di lei e ne ammira le grazie e le movenze.

Anche Maria Gerarda si volge spesso verso il ragazzo e gli lancia fugaci sguardi e sorrisi appena abbozzati. Pasquale non ce la fa più: ormai ha deciso di affrontarla e di fare il passo dovuto. Rompe ogni indugio e ferma la ragazza, appena fuori dalla chiesa, e, seppure con il cuore che gli sobbalza in petto, le esterna con poche ed insicure parole il messaggio d’amore. Maria Gerarda, che altro non si sarebbe aspettata, riesce a malapena a contenere la gioia, vorrebbe gridargli in faccia il sentimento amoroso che prova per lui, ma, come prassi vuole, non può farlo, non può pronunciarsi subito e quindi rimanda la sua risposta al prossimo incontro.

Trascorre un’altra interminabile settimana.

E allora, Maria Gerarda, cosa hai deciso?”[3]– esordisce Pasquale con il cuore in gola.

Beh, non posso prendere una decisione così su due piedi… io… io ti conosco da poco” – gli risponde la giovane, a testa bassa per la vergogna, comportamento tipico delle ragazze di quei tempi.

“Se cominciamo a frequentarci, possiamo conoscerci meglio… Io sono disposto a presentarmi subito ai tuoi genitori… Le mie intenzioni sono serie, molto serie”.

“Sì, però…”.

Però!…però, cosa?!”– la incalza Pasquale.

Ecco, devi essere un po’ più ordinato nel vestire, devi curare meglio quei capelli arruffati e poi… e poi, se veramente vuoi chiedere la mia mano, non devi presentarti scalzo a mio padre. Lui, ne sono certa, non ti accetterebbe!”.

Ti prometto che comprerò un paio di scarpe… le migliori scarpe, a costo di lavorare anche di notte per un intero anno!… Te lo prometto, amore mio!”.

E corre via per l’enorme contentezza, senza neanche salutarla.

All’indomani mattina, ottenuto il permesso da Nicola[4], Pasquale ritorna a Picerno ad incontrarsi con Gennaro per aggiornarlo su ogni cosa.

Perciò, Gennaro, tu che vivi qui a Picerno conoscerai senz’altro un calzolaio a cui rivolgermi per un paio di scarpe”.

Lascia fare a me, conosco un tizio che ha tanti indumenti, come pantaloni, cappelli, pastrani, maglie, camicie ed anche un paio di scarponi di media misura, per i quali pretende, se ben ricordo, sette carlini d’argento oppure una pelle di capra in cambio” – gli risponde di rimando l’altro.

Sette carlini!!!… mai visti tanti soldi in vita mia!…” – gli ribatte Pasquale senza troppo pensare – “…Caso mai posso fare un tentativo con la pelle di capra, ma prima devo sentirmi con Nicola. Tu, intanto, parla pure con quel tizio e mantieni caldo l’affare”.

Nicola, che non vuole tradire le aspettative del ragazzo, gli offre la migliore pelle di capra in suo possesso, ma con l’impegno di cardare e filare una grande quantità di lana, dopo essere tornato dal lavoro. Pasquale accetta.

Dopo un paio di giorni il pastorello conclude l’affare; finalmente possiede i tanto agognati scarponi e, in più, ha un coltellino, avuto in omaggio da quel tizio. Ora può presentarsi ai genitori di Maria Gerarda per averla in sposa.

Prima di salutare Gennaro, inforca gli scarponi e, fischiettando, se ne torna verso il casolare. Poco fuori dal paese incontra una pattuglia di quattro carabinieri che rientrano a Picerno.

Ehi, tu, ragazzì, cosa porti ai piedi?” – dice un po’contrariato uno dei quattro.

Sono i miei scarponi nuovi!” – risponde innocentemente il ragazzo.

Quelli non sono tuoi, non ti appartengono… li hai rubati ad un carabiniere!…”- ribatte il militare in modo burbero – “…Conduciamolo in caserma, questo qui deve appartenere ad una banda di briganti!”.

Io brigante?!… ma vi state sbagliando… io sono un pastorello che non ha fatto mai male a nessuno!”.

Pasquale, nonostante le continue insistenze e resistenze, viene ammanettato e condotto in caserma. All’indomani mattina, è trasferito da Picerno a Potenza per essere giudicato dal Tribunale militare.

Una volta in aula, il presidente legge il verbale dei carabinieri e, dopo essersi sentito brevemente con il segretario, interroga il ragazzo.

Voi siete quindi Pagliuca Pasquale di Picerno?”.

Sì, signore, sono Pasquale Pagliuca ed abito nel casolare di Nicola Settembrino, ad una ventina di minuti da Picerno”.

Quanti anni avete?”.

“Non lo so, signore… io… io non ho mai conosciuto i miei genitori”.

E nel mentre abbassa istintivamente il capo.

Come siete venuto in possesso di quegli scarponi… Lo sai che appartengono all’arma dei carabinieri?”.

“Io… io non sapevo che fossero di un carabiniere, altrimenti non li avrei acquistati”.

Chi te li ha venduti?”.

“Non lo so, signore… non l’ho mai visto quel tizio. Io gli ho dato una pelle di capra e lui mi ha consegnato in cambio gli scarponi e, in omaggio, mi ha regalato anche un coltellino”.

“Nonostante l’evidenza dei fatti, avete una bella faccia tosta a negare ogni cosa…” – conclude il presidente, alquanto arrabbiato. Dopodiché si allontana dall’aula insieme al giudice a latere e al segretario per discutere ed emettere la sentenza. Non passano cinque minuti che i tre sono già di ritorno.

“In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio e volontà della nazione […] a norma dell’art. 2 della legge sul brigantaggio, avendo il qui presente Pagliuca Pasquale opposto resistenza alla Forza Pubblica, essendo stato trovato in possesso di due scarponi appartenenti all’Arma dei Carabinieri ed inoltre di un coltello in dotazione alla stessa Arma, il Tribunale di Guerra di Potenza, oggi, 23 dicembre 1863, riunitosi collegialmente nell’edificio del Distretto, condanna l’imputato alla pena capitale mediante fucilazione da eseguirsi in giornata”.

Pasquale, che non ha capito un’acca di quello che è stato letto, viene condotto in cella.

Avanti un altro brigante!”– ordina il segretario.

Ma, invece di un brigante, entra in aula un delegato della Pubblica Sicurezza, il quale ha un dispaccio della Soprintendenza di Napoli. Il Presidente, dopo aver tolto i sigilli, legge il contenuto della missiva e strabuzza gli occhi man mano che prosegue nella lettura. Si tratta di un’informativa rivolta ai Tribunali di Guerra e contiene ulteriori istruzioni per quanto riguarda l’esecuzione dei condannati alla fucilazione o all’impiccagione.

Bella questa!…” – dice ridacchiando il Presidente.

Presidente, cosa c’è di tanto strano?” – s’insinua il segretario.

Il sovrintendente pretende che, prima di ogni esecuzione, il condannato debba essere vestito con un abbigliamento signorile e, successivamente, fotografato, in modo da dimostrare, attraverso la stampa nazionale ed estera, che “i briganti” appartengono anche alla classe borghese e che non sono affatto degli straccioni”.

“…Ed allora iniziamo dal Pagliuca!” – gli risponde di getto il giudice a latere.

Ben detto… iniziamo proprio da lui!” – conclude il Presidente.

Pertanto dà ordine ad un carabiniere di prendere dal magazzino quanto occorre per vestire il condannato, come richiesto dall’ordinanza.

Ehi, ragazzo, oggi t’agghindiamo a festa… sei fortunato, figliolo!…” – dice con molta ironia l’uomo – “…Su, tìrati su… Ti vesto da capo a piedi… Ti faccio bello e poi usciamo per il paese a fare una passeggiata. Intanto tira fuori quei luridi e puzzolenti stracci e inizia ad indossare questi mutandoni, poi metti anche i pantaloni”.

Pasquale non capisce, è frastornato… Però l’idea di vestirsi a nuovo gli piace. Dopo aver indossato anche il camiciotto, il ragazzo chiede al militare se sia possibile indossare i suoi scarponi. Pasquale è accontentato. Inoltre, gli viene data una giacca un po’ larga ma profumata e nuova. Per ultimo, il carabiniere gli porge un cilindro ed uno specchio in cui rimirarsi.

Pasquale non crede ai suoi occhi. È però ancora incredulo e sconcertato.

“Giovinò, siamo pronti?…” – conclude con molto sarcasmo il militare – “…Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria. C’è un sole meraviglioso e due fotografi sono pronti ad immortalarti per l’eternità… C’è anche una parata di militari!… Tutto solo per te!”.

Pasquale è ancora di più disorientato e intontito, non riesce a darsi una ragione di ciò che gli sta accadendo. Si guarda ancora nello specchio e s’accorge di essere un bel ragazzo.

Poi pensa e dice fra sé e sé: “Chissà se fuori non incontrerò Maria Gerarda?”.

Esce scortato da sei militi, che si dirigono al centro del paese.

Appena arrivati nella piazza principale, Pasquale nota una decina di militari armati di fucile, disposti uno accanto all’altro, e due fotografi che si trovano rispettivamente ai lati. C’è anche della gente, tanta gente, che è stata invitata ad assistere a quell’indecente spettacolo. Tutti, però, sono tristi e bisbigliano tra di loro. Di fronte ai militari, a non più di dieci metri c’è una sedia, poggiata ad un muro ed un prete corrucciato che prega a voce sommessa. Ora Pasquale capisce ogni cosa. Prende il cilindro e lo lancia per aria, urlando qualcosa di indecifrabile; poi, in preda ad un’irrefrenabile convulsione, si strappa da dosso la giacca, la camicia e si leva i pantaloni, ma gli scarponi, no, quelli sono suoi.

E poi urla ai presenti: “Voglio morire nudo, come mi ha fatto mammà!”.

Alcuni militari lo bloccano e lo legano alla sedia, lui si dimena. Il prete, in lacrime, gli unge la testa con gli oli sacri, lo benedice e, allontanandosi, continua a pregare a testa bassa.

In un ultimo momento di lucidità, il ragazzo trova la forza per esternare alcunipensieri.

San Nicola mio, aiutami tu!… Maria Gerarda, ti amoooooo!”.

Una scarica di proiettili lo investe in pieno, ma solo sette arrivano a segno. Tre militari, forse perché meridionali, hanno preferito non colpirlo.

Conclusione

La storia di Natale che ho testé raccontato è una delle tante accadute nel Meridione d’Italia durante i primi otto anni di Unità. Ve ne sono altre, alcune note, altre (le tante) subito dimenticate. Ce ne sono a centinaia, a migliaia, per descrivere le quali non basterebbe una decina di corposi volumi. Fra le più eclatanti voglio ancora una volta ricordare le stragi di Pontelandolfo e Casalduni, che mai, in tanti di anni di storia, sono state ricordate dalle istituzioni pubbliche, se non da quelle locali. Come se quei morti fossero diversi da quelle anime innocenti che perirono a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzena, a Cefalonia, alle Fosse Ardeatine o nei campi di sterminio! Ladifferenza, signori miei, sta nella diversa nazionalità di chi commise quelle efferate esecuzioni. Nel primo caso furono gli stessi italiani ed i morti vennero immediatamente dimenticati, nel secondo furono i tedeschi ed i morti sono ricordati ogni anno.

Quanto è strana la vita!…

Nonostante tutto, da queste colonne rivolgo un augurio di Buon Natale a tutti voi, amici lettori, dovunque vi troviate e chiunque siate. Allo stesso tempo non posso non formulare, anche se con centocinquant’anni di ritardo, i miei migliori auguri al giovane pastorello Pasquale, tradito da un paio di scarponi che mai avrebbe immaginato di indossare, se non si fosse innamorato di una bella ragazza.

Buon Natale anche a te, Maria Gerarda.

[1] L’ultima edizione di quest’interessante romanzo è stata edita da Rusconi editore nel 1971.

[2] I “sandali fasciati” erano delle calzature molto grossolane, usate dalla gente umile e povera. Erano costituiti da un plantare di cuoio o, in mancanza, di corteccia spugnosa e da una striscia di tela o di lana che si avvolgeva, ben stretta, intorno al plantare, sino ad arrivare all’altezza del ginocchio. Per certi aspetti richiamavano la struttura dei calzari degli antichi romani.

[3] Ovviamente il discorso intrattenuto dai due giovanetti è in dialetto lucano (quasi simile a quello campano), che omettiamo di riportarlo per non creare difficoltà nei lettori, ma anche per rendere più scorrevole la lettura.

[4] Nicola è il pastore che ha accolto Pasquale sin da quando è rimasto orfano.

Pubblicato su “Il filo di Aracne”

Buon Natale … dal dottor Jekyll e da mister Hyde

di Armando Polito

Affermo di non aver assunto nessuna pozione e che tutto ciò che seguirà è frutto di una coscienza sempre vigile, anche se piuttosto tormentata e che il mio aspetto fisico, a differenza di quanto succedeva al personaggio creato dalla fantasia di Robert Louis Stevenson,  resterà immutato (guardandomi allo specchio non saprei dire se questo in sé sia un bene o un male, anche se, si dice, per il peggio non c’è mai fine …).  Lascio agire la prima componente, quella, se volete, educata, precisina, buonista, etc. etc.

Tutte le immagini che vedrete, cioè una serie di stampe (antiche e meno antiche) sul tema della Natività, sono tratte, quando non è diversamente indicato, dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia, dove sono custodite.

 

XV SECOLO

Le due tavole appena presentate sono incisioni di Martin Schongauer (1448 circa-1491) alias Bel Martino o Martino d’Anversa o Martino Tedesco; fu anche pittore e in tale veste ebbe parte nella formazione di Michelangelo e nella sua attività giovanile di “falsario”, secondo quanto ci ha tramandato Giorgio Vasari  (1511-1574) nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri: … e ciò che era, che tutto il sapere e potere della grazia era nella natura esercitata dallo studio e dall’arte; per che in Michelangelo faceva ogni dì frutti più divini, come apertamente cominciò a dimostrarsi nel ritratto che e’ fece dui una carta di Martino Tedesco stampata, che gli dette nome grandissimo; imperoché, essendo venuta allora in Firenze una storia del detto Martino, quando i diavoli battano Santo Antonio, stampata in rame, Michelangelo la ritrasse di penna di maniera, che non era conosciuta; e quella medesima con i colori dipinse; dove per contrafare alcune strane forme di diavoli, andava a comperare pesci che avevano scaglie bizzarre di colori: e quivi dimostrò in questa cosa tanto valore, che e’ ne acquistò e credito e nome. Contrafece ancora carte di mano di vari maestri vecchi; tanto simili, che non si conoscevano; perché tignendole ed invecchiandole col fumo e con varie cose, in modo le insudiciava, che elle parevano vecchie, e, paragonatele con la propria, non si conosceva l’una dall’altra: né lo faceva per altro, se non per avere le proprie di mano di coloro, col darli le ritratte, che egli per l’eccellenza dell’arte amirava, e cercava di passargli nel fare; onde n’acquistò grandissimo nome.

XVI SECOLO

Incisione di Marcantonio Raimondi (1480?-1534?).

Incisione del 1504 di Albrecht Dürer (1471-1528); di seguito il dettaglio.

 

XVII SECOLO

Incisione di Jean Baptiste De Poilly (1669-1728) riproducente una pittura su legno di Gaudenzio Ferrari (1480-1546?), originale del quale, purtroppo (perché sarebbe stato interessantissimo fare un confronto), non son riuscito a reperire immagine alcuna (vedi, però, l’aggiornamento in calce al post).

Incisione di Jacques Callot (1592-1635).

XVIII SECOLO

Vista di Betlemme con I Re Magi che portano i doni; incisione di Georg Balthasar Probst (1673-1748).

XIX SECOLO

Incisione su legno di anonimo pubblicata ad Epinal, a pochi km. da Nancy, dall’editore Pellerin.

La didascalia è costituita da un cantico in francese, in cui una pastorella e dei pastori si scambiano delle battute. Di seguito riporto il testo originale e la mia traduzione:

CANTIQUE Air: J’ai l’humeur gaie.

La Bergère: J’ai l’humeur gaie, je rise et suis joieuse,/de m’affliger n’aurais-je pas grand tort?/J’ai vue mon Dieu qui vient me render hereuse/et vaincre l’Enfer et la Mort/Courez-y touz, bergers, sortez des plaines,/n’oubliez pas vos flutes et chalumeaux:/Jésus naissant vient pour briser nos chaînes,/et nous délivrer des nos maux. 

Les Bergers: Partons, bergers, sans tarder advantage,/pour adorer notre Roy, notre Dieu:/il naît pour nous retire d’esclavage;/bergère, enseignez-nous ce lieu./

La Bergère: Regardez bien cette étoile éclatante,/et suivez-la, entrez dans ce hameau,/vous y verrez une mere charmante,/allaiter cet Enfant nouveau./

Les Bergers: Par nos concerts célébrons la naissance/de notre Roi, le premier des Pasteurs;/dans ce lieu,par notre réjouissance,/exprimons la joie de nos coeurs./

En entrant dal l’Etable: Nous le voyons, de Poupon adorable,/couché tout nu entre deux animaux;/quelle bonté! naissant dans une étable,/d’endurer tant de maux./Vous soupirez, nous en sommes la cause;/pour nos péchés vous souffrez ces douleurs:/le Fils de Dieu sur la paille repose;/nous lui causons tous les malheurs./Tous prosternés à vos pieds, divin Maitre,/vous adorant, nous vos offrons nos coeurs; recevez-les, et faites-leur connaître,/qu’on ne doit aimer qu’un Sauveur!  

CANTICO Aria: Sono di buon umore.

La pastorella: Sono di buon umore, riso e sono giosa, avrei forse il gran torto di non affliggermi? Ho visto il mio Dio che viene a rendermi felice ed a vincere l’Inferno e la Morte. Accorrete tutti, pastori, uscite dalle pianure, non dimenticate i vostri flauti e zufoli: Gesù che nasce viene per spezzare le vostre catene e a liberarci dai nostri mali.

I pastori: Partiamo, pastori, senza tardare oltre per adorare il nostro Re, il nostro Dio:nasce per redimerci dalla schiavitù; pastorella, indicaci questo luogo.

La pastorella: Guardate questa stella sfavillante e seguitela, entrate in questa stalla, vi vedrete una madre incantevole allattare questo Neonato.

I pastori: Con i nostri canti celebriamo la nascita del nostro Re, il primo dei Pastori; in questo luogo con la nostra allegria esprimiamo la gioia dei nostri cuori.

Entrando nella stalla: Lo vediamo il Bambino adorabile, coricato tutto nudo tra due animali; che bontà,  nascendo in una stalla, sopportare tanti disagi! Voi sospirate, noi ne siamo la causa; per i nostri peccati voi soffrite questi dolori: il Figlio di Dio riposa sulla paglia, noi gli causiamo tutti i mali. Tutti prosternati ai vostri piedi, divino Maestro, adorandovi vi offriamo i nostri cuori; accoglieteli e fate conoscere loro che si deve amare un solo Salvatore!

XX SECOLO 

 

Incisione su legno del 1920 di Jules Chaudel (1870-1941).

Cedo ora la parola a mister Hyde, il violento, il rompiscatole, l’incontentabile, il dissacratore, il contestatore, l’accolito (forse anche l’inventore, visto che non voto da più di trent’anni) dell’antipolitica, anzi il sovversivo …, che già da un po’ di tempo aveva cominciato ad agitarsi …

Per la serie solo me la suono e solo me la canto una presentazione, a posteriori, di natura tecnica. La composizione (!) è un sonetto con rime ABAB ABAB CDC DCD. In più (le disgrazie, come si sa, non vengono mai da sole) è acrostico (vedi sequenza iniziali di verso in grassetto) e, aggiungo io, anche abbastanza ipocrita visto che il tema centrale è la stigmatizzazione dell’uso vacuo della parola, ma il giochetto (ignobile scusa!) mi serviva per giustificare, in qualche modo, il titolo e per unirmi, in una forma  un po’ diversa, al coro.

E, a proposito di sonetto, m’immagino già le espressioni più ricorrenti dopo la sua lettura: Ma questo è proprio suonato! o (quest’ultima dai conterranei) Ci t’ha ssunatu!, in cui ssunatu è usato come sinonimo del participio passato di un verbo che ha a che fare con il bagno …

Ma, anche in considerazione delle frustate che mi sono appena dato da solo per bruciare sul tempo qualche lettore,  vi sembra più degno di rispetto o, almeno, di simpatia, il dottore-parassita che non ha mostrato la minima vergogna nello sfruttare il lavoro altrui nella missione impossibile di farsi bello o il mister-poetucolo (se mister, con tutto il rispetto, non fosse sinonimo di allenatore sportivo quasi quasi mi piacerebbe …) che allo stesso scopo, correndo forse un rischio poco o superficialmente calcolato …,  ci ha messo del suo?

AGGIORNAMENTO: Grazie alla segnalazione contenuta nel commento del sig. Giovanni Lacorte, che ringrazio ed al quale ricambio gli auguri per il nuovo anno, la comparazione è ora possibile.

Il lettore noterà l’assoluta fedeltà dell’incisione rispetto al dipinto originale, salvo l’inversione speculare risultante dopo la stampa.

E’ Natale

Natività (cartapesta di M. Grazia Presicce)
Natività (cartapesta di M. Grazia Presicce)

 

di Maria Grazia Presicce

In questa strana società indaffarata bizzarra confusa frettolosa e superficiale è difficile cogliere quelle sfumature semplici e genuine che accompagnavano gli antichi riti delle ricorrenze festive.

Tutto oggi è usa e getta, cosicché anche sensazioni e sentimenti son diventati plastica per i più. Anche il Natale, quindi, è solo festa di un fare convulso, dell’essere impulso caotico di attrattive futili mera rappresentazione ipocrita di sfuggenti convenevoli che non lasciano scia nel cuore e nell’animo e si dissolvono come nebbia al sole.

Mi chiedo cosa resterà ai bambini di questi Natali frenetici tra “sbrilluccichio” di lucine troppo splendenti, negozi e vetrine troppo agghindate, vie chiassose di gente che raccatta regali il più delle volte solo apparenze fugaci senza essenza.

Si festeggia il Natale senza penetrarne l’essenzialità. Basta divertirsi, strafogare, bere e porre in mostra, spesso anche quel che non si ha, senza soffermarsi davanti alla grotta a contemplare l’intima unione di quelle tre anime, emblema di famiglia, di calore di gesti, di armonia, di amore, di dignità.

C’è tutto in quella grotta che ognuno sistema nella propria casa e poi la dimentica, privilegiando l’albero scintillante coronato di pacchi e pacchetti ben confezionati.

Dov’è finito quel Natale composto, silenzioso, genuino, armonioso, senza regali e senza nemmeno Babbo natale? Lui non faceva parte della nostra tradizione, c’era solo San Giuseppe sotto la grotta, compagno di Maria e padre del Bambinello, e c’era la Befana a portare i doni: come pecore poi abbiamo adottato e voluto Babbo natale. Ci siamo, come si dice, adeguati e ora cerchiamo frettolosi regali da sistemare sotto quest’albero che tempo fa non esisteva per noi, anzi una cima c’era a sovrastare il presepe e la grotta, ma era una semplice cima di pino addobbata d’ arance, melegrane, mandarini, caramelle e chi poteva cioccolatini.

Ora abbiamo l’albero finto di tutto: di finte luci, di finte palline colorate, finto di emozioni e di finta armonia.

Dov’è quel Natale che una volta cominciava in famiglia tanto tempo prima con l’esortazione e le promesse a divenire più buoni tra i consigli di madri, padri e nonni tra i loro racconti del Bambinello, i proverbi, le preghiere di grandi e piccini davanti a quella grotta fatta di ceppi e di carta colorata illuminata solo dalla sfuggente luce di un “lampino” ( lumicino che ardeva in bicchiere per metà colmo d’acqua ed olio) posto in un angolo del presepe?

Davanti a quella grotta la notte della vigilia, dopo le preghiere, i bambini recitavano le poesie imparate a scuola e quelle insegnate dalla nonna o dalla mamma; eccone una:

Bambinieddhu

Bambinieddhu

all’annu giustu

mi presentu a nnanti tie

picca cranu e picca mustu

imu fattu picca ulie;

e cce ‘ai bammbinu mia

ca ti esciu tantu maru?

Allu mundu non c’è sbrigu

quandu manca lu tenaru.

L’annu scorsu ti priai

e ti dissi tante fiate:

fa cu spìccianu ‘sti guai

cconza prestu ‘sti annate,

ma sirà, ca fici pesciu,

fu nu chiantu generale

no se fattu nuddhu riesciu

e mò stamu già a Natale.

Mò so certa e so sicura

ca ndi pienzi e cu ndi scusi

mò ti preu pi l’annu inturu

cu ndi carichi ti fusi.

Mò ti preu puru pi l’addhi

notte e giurnu, sera e matina

fande stare ti signuri,

fa cu spiccia la risina.

Cu le fiche

a statotiche e miluni

ogni purieddru lassa dica:

tegnu a casa li muntuni.

Mò sta begnu intra stanotte

cu ti faci na mangiata

tò pilusi ti ricotta

tò casieddhi e na sciuncata.

Mangia e bii ca à fattu scelu

e lu tiempu stae alla nee

quando ti ndi sali a ncelu

tu ricordate di me.

Questo componimento è testimonianza orale di nonna Tittì (Concetta) Donadei

Bambinello dopo un anno/ mi presento davanti a te/ poco grano e poco mosto/ abbiamo raccolto poche olive./ E cos’hai Bambinello mio che ti vedo così triste?/ Al mondo non c’è tranquillità/ quando manca il denaro./ L’anno scorso ti pregai/ e ti dissi tante volte:/ fa che finiscano questi guai/ sistema presto queste annate./ Ma forse è stato peggio,/ fu un pianto generale/ non si è fatto nessun passo avanti/ e ora siamo già a Natale./ Ora sono certa e sono sicura/ che ci pensi e che ci scusi/ ora ti prego per l’anno venturo/ di caricarci di fusi./ Ti prego anche per gli altri/ notte e giorno, sera e mattina/ facci stare da signori/ fai finire la penuria/ con fichi a strati e meloni / fa che ogni povero possa dire/ ne ho a casa cataste./ Ora sto venendo questa notte/ per farti fare un pranzo/ con due pilusi ( residuo di formaggio che si estrae dal siero prima che si formi la ricotta) di ricotta/ due caciotte e una giuncata./ Mangia e bevi che è calato il gelo/ e sta per nevicare/ quando salirai al cielo/ Tu ricordati di me.

Note sulla chiesa dei Paolotti a Nardò

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di Marcello Gaballo

Sorta su una preesistente chiesetta dedicata a S. Maria di Costantinopoli o del Canneto, fu ricostruita dal duca di Nardò Belisario II Acquaviva d’ Aragona (1569-1623), figlio di Giovanbernardino II, per un evento prodigioso occorso nella sua vita tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, nel giardino annesso al castello ducale.

Lo conferma un atto notarile conservato nell’ Archivio di Stato di Lecce, del notaio Pietro Torricchio, in cui si legge che lo stesso duca Belisario “…tenere et possidere in burgensaticum… jardenum unum cum arboribus communibus et cannito et cum ecclesia sub titulo S. Maria de Costantinopoli, existente intus eodem jardenum, in latere versus boream, et de novo aedificata cum maiori parte espensarum ipsius ducis, sita extra et prope menia et castrus eiusdem civitatis, iuxta tres vias publicas et terras mense episcopalis neritonensem…”.

La chiesa era perciò di patronato della famiglia Acquaviva e lo stesso duca aggiunge nel documento “pro salute eius anima, constituere, erigere et fundare quoddam beneficium ecclesiasticum perpetuum sub titulo S. Maria de Costantinopoli in ecclesia predetta…”.

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interno della chiesa con la tomba di Giovan Bernardino Tafuri

 

Che la chiesa fosse preesistente al convento lo si rileva in un atto notarile del 1606, quando Gio. Battista Serpante da Forlì annulla il suo lascito del 1/7/1606 ad Alessandro delli Falconi, a favore della chiesa di S. Maria di Costantinopoli “extra moenia in jardeno Ducis”. Già nel 1573 la chiesa risulta comunque esistente, sempre dedicata a S. Maria di Costantinopoli. Secondo il Moroni i frati si insediarono a Nardò durante l’episcopato di Girolamo De Franchis (1617-1634).

Ciò che oggi si vede fu ricostruito nel 1745, essendo crollata la maggior parte della struttura originaria per il terremoto del 1743. Ciò è ricordato da un’ epigrafe (DOM/ TEMPLUM HOC/ X. CAL. MARTIAS ANNO D.NI MDCCXLIII/MAGNO CIVITATIS EXCIDIO TERRAEMOTU EVERSUM/ NERITONORUM PIETAS/ S. FRANCISCI PAULANI PATRONI PRAESENTISSIMI/ INNUMERIS COMMOTA MIRACULIS/ A FUNDAMENTIS RESTITUIT/ FRATES MINIMI NE POSTEROS LATERET BENEFICIUM/ GRATI ANIMI MONIMENTUM POSUER./ ANNO MDCCXLV).

A ridosso c’era il convento dei Minimi Riformati o Paolotti, che si stabilirono nel convento nel XVII sec. per restarvi sino al 7/8/1809.

La chiesa, con pianta a croce latina, fu consacrata nel 1706 dal Vescovo Fortunato, ma fu in buona parte ricostruita dopo il terremoto del 20 febbraio 1743, forse nel 1749, quando fu riedificata la sacrestia da Mons. Carafa e suo fratello Antonio, come ricorda l’ epigrafe che ancora si vede.

Il prospetto, sobrio ma elegante e slanciato, secondo il gusto dell’epoca, presenta paraste lisce con capitelli adornati da volute. Sui gradini posti all’ esterno della chiesa è visibile l’ insegna dei frati (sole raggiante caricato della parola CHA-RI-TAS).

altare di San Francesco da Paola
altare di San Francesco da Paola

 

Degno di particolare nota è il bellissimo altare di S. Francesco da Paola, nel transetto destro, realizzato dallo scultore di Alessano Placido Buffelli, e qui trasferito dalla Cattedrale, ove era dedicato a S. Francesco di Sales. Presenta triplici colonne a spirale, con un incredibile animazione di putti in differenti pose. Nella parte superiore vi è la nicchia con la statua del Santo titolare e l’ insegna dei frati, mentre inferiormente sono impresse le armi dei nobili Montefuscoli.

Altrettanto notevoli, dal punto di vista artistico, la tela posta a lato di questo altare e l’affresco originario della Madonna di Costantinopoli. Sempre qui è presente la tela di S. Nicola Pellegrino, del 1615, di Donato Antonio d’ Orlando.

particolare dell altare di S. Francesco da Paola
particolare dell altare di S. Francesco da Paola

 

Sulla chiesa si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/20/1607-lavori-nella-chiesa-di-s-francesco-da-paola-in-nardo/

Il marchese di Oria Bonifacio tra i seguaci di Pietro Valdo

Giovedì 15 dicembre 2016. Ore 19.00

Hotel Palazzo Virgilio – Brindisi

XLVIII Colloquio di studi e ricerca storica

Dal conflitto alla comunione.

Note sul quinto centenario dell’inizio della Riforma

                                                              

«Ciò che ci unisce è molto più di ciò che ci divide»

                                                                  Giovanni XXIII

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Come Madre di Dio è elevata sopra tutti gli uomini, eppure rimane sì semplice e modesta che a questo riguardo non potrebbe tenere sotto di sé una piccola ancella. O poveri noi uomini, che quando abbiamo qualche bene, potere od onore, anzi se soltanto siamo un po’ più belli degli altri, non possiamo stare a fianco di uno minore di noi e le nostre pretese divengono smisurate, che cosa faremmo se ricevessimo dei beni tanto grandi e sublimi?“ Martín Lutero

Il dibattito sulla riforma coinvolse pienamente il mezzogiorno d’Italia anche sull’eco delle tesi di Juan de Valdés (1505 1541); la sua casa alla Chiaia divenne un circolo letterario e religioso, e le sue conversazioni e le sue opere, che circolarono manoscritte, stimolarono il desiderio di una riforma spirituale della Chiesa. Tra i frequentatori della sua casa si ricordano, fra i tanti, l’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio di Capua, Galeazzo Caracciolo, Caterina Cybo, il vicario generale dell’ordine dei cappuccini Bernardino Ochino, il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, Bartolomeo Spadafora, il vescovo di Cheronissa Giovanni Francesco Verdura, Pietro Martire Vermigli. Secondo la testimonianza resa il 7 marzo 1564 da Francesco Alois, condannato come luterano, fra i simpatizzanti di Juan Valdés bisogna includere anche Nicola Maria Caracciolo (1512-1568), vescovo di Catania, che nel testo del suo sinodo diocesano, scritto in lingua volgare, dimostra una spiritualità vicina agli “alumbrados”. Dalle armi della critica non di rado si passò alla critica delle armi, con uso della forza;   nota è, ricorrendo l’anno 1561, la persecuzione dei valdesi in Calabria, lì insediati da  circa duecentocinquant’anni. Si trattò di provvedimenti che miravano allo sradicamento culturale di queste comunità cui s’imposero matrimoni misti con cattolici e la proibizione dell’uso della lingua occitana. I seguaci di Pietro Valdo (1140-1206), erano giunti in Calabria circa il 1315 per sfuggire alle persecuzioni di cui erano fatti oggetto nelle valli piemontesi e nella Francia Meridionale. La situazione mutò quando si pose  in Europa la questione protestante e vi fu il timore di una deriva calvinista della comunità. Nel Salento è nota la vicenda del marchese di Oria Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), in gioventù tra i frequentatori della casa napoletana di Giovanni Maria Bernardo, che formavano un circolo valdesiano di letterati e colti gentiluomini. È ignota la data della sua partenza da Oria: nell’ottobre 1556 si trovava ancora nei suoi feudi, ma già pensava di stabilirsi definitivamente a Venezia. Soggiornò effettivamente sulla laguna, ma nell’estate del ’57 raggiunse Basilea insieme con due schiave berbere che lo servivano, due ex monaci, l’uno nativo di Oria, l’altro di Sicilia o di Puglia, e un francese che viaggiava anch’egli al suo seguito; il 15 agosto interveniva a un banchetto offerto dall’università di Basilea. Era l’inizio di un peregrinare attraverso l’Europa che l’avrebbe infine fatto approdare a Danzica ove terminò i suoi giorni. Il 1591, donò al Senato di Danzica la sua biblioteca, comprendente 1.043 opere in 1.161volumi, ricevendone in cambio un vitalizio di un fiorino d’oro mensile e un’abitazione nell’antico monastero francescano. La biblioteca, che rifletteva gli interessi religiosi e umanistici del marchese di Oria, fu aperta ufficialmente al pubblico il 1596.

 

 

Indirizzi di saluto

Corrado Nicola De Bernart

Presidente Rotary Club Brindisi Appia Antica

 

 

Interventi

Dario Stomati

Rotary Club Brindisi Appia Antica

 

Pastore Bruno Gabrielli

Chiesa Evangelica Valdese

 

Alfredo Di Napoli ofm cap

Storico della Chiesa

 

Giacomo Carito

Società di Storia Patria per la Puglia

 

 

Organizzazione:

Rotary Club Brindisi Appia Antica

Gallipoli e il suo gemellaggio secentesco con Anversa

di Armando Polito

La prima immagine è nota ai visitatori più affezionati di questo blog essendo stata oggetto di attenzione prima altrui (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/05/gallipoli-porto-europeo-dellolio/), poi mia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/).

La seconda è una tavola della stessa opera (tomo VI uscito  nel 1626) cui appartiene la prima (tomo IX uscito nel 1629). Per i restanti dettagli bibliografici e per una comprensione migliore del post rinvio al secondo link segnalato. Qui mi limito solo a tradurre il titolo (che è una sentenza) e la didascalia (che lo spiega) della seconda tavola, entrambi in latino.

ABSIT SUPERBIA ET NON NOCEBIT DIVITIARUM AFFLUENTIA=Sia assente la superbia e l’affluenza della ricchezza non nuocerà.

Antorff è il nome tedesco di Anversa.

Divitiis multis plerumque superbia iuncta est. Si tollas fastum haud res opulenta nocet (A molte ricchezze per lo più è congiunta la superbia. Se elimini l’ostentazione nessuna abbondanza nuoce.

E chiudo con una domanda, dopo aver detto che nel testo compaiono altre tavole raffiguranti un porto ma  nessuna né nel titolo né nella didascalia reca accenno alla ricchezza. Se Gallipoli non fosse stata all’epoca la capitale europea dell’olio sarebbe stata scelta insieme con Anversa come esempio di produzione e circolazione di ricchezza e come pretesto per una riflessione di ordine morale?

I caratteristici dolci salentini del Natale: purciddhuzzi e cartiddhate

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di Massimo Vaglio

Nonostante mezzo secolo di campagne pubblicitarie plurimilionarie tendenti alla completa globalizzazione delle abitudini e dei gusti di tutti gli italiani, condotte dalle ricche aziende produttrici di panettoni e pandori, alcune tradizioni culinarie locali resistono saldamente e talvolta, si persino rafforzano, in una spesso inconsapevole difesa della propria cultura popolare. Perché, non sembri pomposo il termine, di cultura si tratta, infatti, se leggiamo la definizione data dall’Unesco a questa parola, ci rendiamo conto dell’appropriatezza, del suo utilizzo: “La cultura in senso lato può essere considerata come l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali unici nel loro genere che contraddistinguono una società o un gruppo sociale. Essa non comprende solo l’arte e la letteratura, ma anche i modi di vita, i diritti fondamentali degli esseri umani, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze” (definizione Unesco di cultura, espressa nel Rapporto finale della conferenza internazionale organizzata dall’UNESCO a Città del Messico dal 26 luglio al 6 agosto 1982).

Una delle tradizioni più radicate e care ai salentini di ogni ceto e generazione è quella legata al consumo dei dolci natalizi e in particolare di quelli dalle tipologie più semplici, viene infatti considerata triste e sconveniente l’assenza sul desco natalizio, non tanto dei prelibati dolci di pasta mandorla, vanto e orgoglio dell’arte pasticcera locale, quanto quella dei purciddhuzzi, delle cartiddhate e delle pèttole.

Dolci semplici, poverissimi, ma che intrinsecamente offrono un senso di familiarità, dolci che con muta eloquenza, materializzano l’amore di qualche familiare che con pazienza e dedizione li prepara per tutti gli altri.

Consumare insieme questi semplici dolci è un po’ come rinnovare promesse, spezzare e consumare insieme il Pane dell’Alleanza, infatti la società e la famiglia di oggi appaiono spesso sclerotizzate, ma, né più, né meno, di quanto lo fossero quelle in cui Cristo, tradito da Giuda e rinnegato per ben tre volte da Pietro andava a fondare l’istituzione Eucaristica.

Inconsapevolmente e con le dovute distanze il consumo di questi semplici cibi rituali, rinforza il vincolo familiare e rinnova il miracolo di una famiglia che come nell’ Eucaristia avvicina e accoglie tutti con amore e senza pregiudizi, andando a costituire il nucleo per una società più umana. Quindi antichi cibi rituali, legati alla più importante ricorrenza liturgica e, come tali, semplici, poveri alla portata di tutte le famiglie, in una sorta di fratellanza universale che un tempo univa persone e persino animali.

La tradizione popolare infatti voleva che anche gli animali domestici la notte di Natale parlassero e assumessero altre capacità e sensibilità umane. Per tale ragione dovevano essere trattati meglio del solito, quasi umanamente, trattamento che spesso si concretizzava con una più abbondante somministrazione di cibo e con la distribuzione a tutti di pèttole fritte, anche queste universalmente gradite, sia dai piccoli carnivori domestici, quanto dai grandi erbivori.

I purciddhuzzi e le cartiddhate, erano e restano dei dolci ghiottissimi, trasversalmente apprezzati da adulti e bambini. I primi sono più diffusi nel Salento e nel Tarantino, ove vengono appellati sannacchiudere, mentre le cartiddhate, termine più frequentemente italianizzato in cartellate, sono diffuse un po’ in tutta la regione, ma maggiormente nel barese.

La loro origine è incerta, ma pare che dolci simili ai purciddhuzzi siano stati portati già dai greci già in periodo Magnogreco. Infatti, nella cucina greca esiste ancora una preparazione simile, i loukoumades, mentre nell’antica Roma erano in auge dolci simili, fritti e cosparsi di miele, molto utilizzati anche come offerta rituale alle divinità. Dall’ evoluzione di questi arcaici dolci sono stati derivati anche la cicerchiata abruzzese, la cicirata lucana e gli struffoli partenopei, tutti parenti stretti dei nostri purciddhuzzi, ma la più antica citazione riguarda gli struffoli che compaiono nel ricettario di Bartolomeo Crisci del 1634. Però non parla del loro consumo in relazione al Natale, tradizione evidentemente sopravvenuta più tardi. L’etimo, secondo alcune fonti, deriva da porcellino, di cui ricorderebbe vagamente la forma; secondo altri dalla Ciprea (Ciprea lurida), una bellissima conchiglia tondeggiante, appellata in vari idiomi pugliesi appunto purciddhruzzu, che montata in argento veniva utilizzata come amuleto porta fortuna. La credenza voleva che questa conchiglia, legata alla caviglia del bambino, lo avrebbe aiutato a crescere in salute come il porcello di Sant’Antonio.

L’origine delle cartellate è ancora più incerta, così come pure l’etimologia, di certo la loro produzione è abbastanza datata, sono riportate, infatti in un registro spese del 1762 (tenuto presso l’archivio della Basilica di San Nicola di Bari) ove, le monache Benedettine di Santa Scolastica che reggevano l’Ospizio dei Pellegrini di San Nicola di Bari, riportavano i pasti e le spese delle domeniche.

Probabile, quindi che come tante altre prelibatezze dolciarie siano nate proprio in qualche convento e da lì, pian piano, si siano diffuse in tutta la Regione.

L’impasto è semplice, ricalcando nella composizione quello dei purciddhuzzi, ma la fattura è più complessa, richiede una discreta manualità, specie nelle artistiche elaborazioni a forma di fiore di dalia.

Purciddhuzzi e cartiddhate, preparazione

1 kg. di farina di grano duro setacciata, 2 dl di olio, vino bianco secco o liquore all’arancia o all’anice, un pizzico di sale, vincotto, miele, cannella in polvere, farina supplementare, “anisini”, pinoli, olio di frantoio.

Ponete la farina a fontana sulla spianatoia, versate al centro l’olio, il sale e un poco di vino bianco secco tiepido. Amalgamate bene il tutto sino a che risulti una pasta compatta; raccoglietela, arrotolatela e avvolgetela in un panno dove si farà riposare per un paio d’ore. Quindi infarinate leggermente la spianatoia e ponetevi sopra l’impasto, lavoratelo un poco e tiratelo con l’aiuto del matterello, sino a ricavarne delle sfoglie sottilissime. Col tagliapasta dentellato ricavate delle losanghe con cui formate rosette, farfalle, nocche o semplici rombi e altre forme a piacere e friggetele in ottimo olio di frantoio aromatizzato con delle scorze di limone o mandarino; ritiratele dall’olio ben dorate e croccanti e ponetele su carta assorbente. Immergetele man mano nel miele scaldato a bagnomaria, disponetele in terrine e guarnitele con confettini colorati (anisini), pinoli, mandorle spellate e cannella in polvere.

Una variante consiste nel sostituire il miele con il vincotto.

Volendo, semplificare un poco il lavoro potrete utilizzare una comune macchina per la pasta: preparate delle sfoglie che siano più o meno spesse quanto le tagliatelle, tagliatele a strisce della larghezza di un paio di centimetri con l’apposita rotella dentellata, e pizzicate le strisce di pasta unendole a tratti alterni per tutta la loro lunghezza. Infine, arrotolate le strisce su se stesse, comprimendo ogni tanto in modo da unirle in varie parti, bagnando eventualmente, con un po’ d’acqua, andrete così a formare dei fiori simili alle dalie. Continuate cosi, fino a consumare tutto l’impasto, deponendo man mano i fiori su tavolieri di legno.

Per preparare i purciddhuzzi che nel Tarantino vengono appellati sànnacchiudere preparate un impasto analogo a quello già descritto, con la sola differenza che, invece di ricavarne sfoglie, ricaverete dei piccoli gnocchi che friggerete, e confetterete nello stesso modo descritto per le cartellate. 

Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò (1695-1760) e Angelo Calogerà (1696-1766)

di Armando Polito

La prima immagine è tratta da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli compilata da Domenico Martuscelli, Nicola Gervasi, Napoli, tomo I, 1813; la seconda è una stampa custodita nella Biblioteca Nazionale Austriaca (http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126022685.html?q=caloger%C3%A0)

Per chi non lo sapesse va preliminarmente detto che Giovanni Bernardino Tafuri fu un erudito neretino del secolo XVIII e Angelo Calogerà, patavino, suo contemporaneo, fu un monaco camaldolese, prima bibliotecario presso la chiesa di S. Michele di Murano, poi priore del monastero di San Giorgio Maggiore.

Il primo ebbe credito assoluto e stima incondizionata da parte della cultura del suo tempo, riconoscimenti offuscati col passare dei decenni dalla scoperta di veri e propri falsi, pur abilmente confezionati. Anche se le falsificazioni sono sempre esistite, a prima vista sembrerebbe che il secolo dei lumi fosse una culla poca adatta per la loro nascita. In realtà l’amore per la ricerca documentaria in chi non è animato da acribia e rispetto assoluto per la conoscenza ed è invece solleticato dalla tentazione di conferire a tutti i costi prestigio alla propria patria o, peggio, alla propria parte o, peggio ancora, a se stesso, rappresenta una tentazione troppo forte per non interpretare in mala fede, manipolare o, addirittura, confezionare prove. Di questo il Tafuri fu capace e tutto ciò fa rabbia come succede ogni volta che ci si trova di fronte ad un talento prostituito. Si aggiunga a questo che la storia locale è forse quella che più  si sottrae al controllo, ammesso che si trovi qualcuno disposto a visitare le coltivazioni dell’orto altrui col rischio che per rappresaglia il controllato, a torto o a ragione disturbato dall’intrusione, ricambi la visita di cortesia …

Il secondo personaggio di oggi è noto agli studiosi soprattutto per aver pubblicato, insieme con Antonio Vallisneri, la Raccolta di opuscoli scientifici e filologici in 51 tomi: i primi 17 uscirono per i tipi di Cristoforo Zane a Venezia dal 1728 al 1738; i restanti per i tipi di Simone Occhi, sempre a Venezia,  dal 1738 al 1757.

Nella tabella che segue (per leggerla più agevolmente cliccare una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento, una seconda) ho riportato tutti gli estremi dell’ospitalità goduta dal neretino presso il Calogerà.

 

Aggiungo che la Raccolta del Calogerà ospitò anche quattro contributi dei fratelli Pollidori/Pollidoro (La stessa forma latina del nome, vedi nella tabella seguente, giustifica  come traduzione in italiano ora  Pollidori ora Pollidoro)in particolare i due di  Pietro, che del Tafuri fu compagno di merende …

A riprova ulteriore del credito e della stima del Calogerà per il Tafuri va ricordato che il tomo XVI del 1738 è indirizzato allo storico neretino, come si legge nel frontespizio.

Il volume, inoltre, si apre con una dedica in cui il Calogerà, dopo aver ringraziato il Tafuri per i suoi innumerevoli contributi, ne tesse le lodi, in cui spicca, oggi offuscato dalla luce beffarda della storia, il riferimento alle singolari prerogative del bello e candido animo vostro. Segue una dichiarazione di modestia per cui il Calogerà delega al Cavaliere Signor Ignazio Maria Como (era uno specialista di componimenti del genere e la biblioteca Riccardiana a Firenze ne conserva un buon numero manoscritti) il compito di celebrare il Tafuri con un canto in distici elegiaci, che ho ritenuto opportuno riprodurre con le immagini originali, aggiungendo di mio quello che è quasi d’obbligo in queste circostanze, cioé la traduzione e qualche nota.

 

Giuseppe Greco e le sue poesie in lingua salentina di Parabita

‘Sciòscia, matreperle te pansieri, poisie’ di Giuseppe Greco

 giuseppe-greco

di Paolo Rausa

Un minuscolo ma intenso libretto raccoglie una trentina di poesie scritte da Giuseppe Greco per lo più in lingua salentina di Parabita, prossima al mare di Gallipoli. Ci conosciamo da parecchio tempo con Giuseppe, da quando iniziarono un po’ per passione un po’ per esibizione le letture di poesie al Circolo Nautico di Santa Cesarea Terme, almeno da dieci anni. Avevo ripubblicato in una nuova edizione dal titolo ‘Terra mara e nicchiarica’ (Terra amara e desolata) alcune poesie che mio padre Fernando aveva scritto in lingua salentina di Poggiardo e pubblicato poco prima della sua morte, nel 1977. D’estate sullo sperone del Circolo, rimirando le stelle e il luccichio del mare ci abbandonavamo ai sogni sotto forma di parole. Un abbandono sensuale, profumato di salsedine e della linfa dei pini, mentre il vento suggeriva parole poetiche da uno all’altro dei convitati, quasi fosse un simposio a cui poeti e artisti salentini partecipavano con le loro immagini sussurrate o dipinte. Serate di grande compartecipazione emotiva.

Giuseppe con le sue poesie dettate dal cuore di artista si inerpica su nel cielo cullandosi sulle onde del mare prospiciente, con uno sguardo ora voglioso ora velato rivolto alla luna, contornata di stelle. A lei Giuseppe affida gran parte delle sue liriche come testimone muta e dolente delle vicende umane che il poeta espone in quadri dipinti di colori. Come Astolfo sull’ippogrifo Giuseppe ci conduce a visitare i solchi sul pianeta caro ai romantici e le ampolle delle menti umane avviluppate dai sogni. I suoi versi, armoniosi e suggellati dalle visioni sovrumane, centellinano le parole, scelte come note a comporre un quadretto, una sinfonia, dove ogni elemento visivo e sensitivo partecipa per esprimere lo stato d’animo del poeta, colmo di meraviglie, leggero come le comete, gli aquiloni, un sentimento appena accennato, la visione di lei trasfigurata in un fiore, in un colore, nella luce, nello sciabordìo delle acque ad indicare pena, risucchio, amore, ricerca di amore, mancanza di amore. Situazioni, alla ‘mpete, a piedi, creano visioni, desideri, che si sperdono nell’immaginazione del creato dove ogni elemento rende l’immensità e la meraviglia, lo stupore delle nostre visioni…

Giuseppe Greco, artista, scenografo, docente, si misura con lo strumento linguistico come il pittore, dosa i colori-parole, li espande come note che risuonano, crea armonie, piaceri, ascolti, situazioni indelebili che trapassano dagli occhi al cuore e viceversa.

Sensazioni e palpitazioni che ci sommergono di meraviglia ogni volta che leggiamo un verso, ogni volta che Giuseppe si approssima sul palco per cantare la canzone della vita, dolce, sommessa e carica di passione amorosa. La prossima presentazione alla Casa di SilLa a Taviano (Le).

 

Storni, migranti e civili

images

di Rocco Boccadamo

Il mio appartamentino si trova affacciato su un ameno parco, impreziosito da una selva di pini, circondante il plesso di una scuola dell’infanzia.

Cosicché, le mie soste domestiche, vuoi durante le giornate di sole, vuoi col cielo grigio, hanno agio di trarre un senso di godimento non da poco, grazie alla visione di siffatta oasi di verde, specie quando la stessa è abbinata allo spettacolo, con vocii, rincorse, giochi e vivacità, dei bambini in ricreazione.

In aggiunta alle piacevoli sensazioni di tutti i giorni, questo pomeriggio, fra le sedici e le diciotto, il suddetto habitat naturale mi ha regalato una serie di emozioni inconsuete e ancora più intense.

Mentre rientravo a casa da un’incombenza presso l’ufficio postale, a un certo punto la mia attenzione è stata, infatti, attirata da un mare di cinguettii, non assordanti e tuttavia intensi, connessi con l’arrivo e la sosta sui rami dei pini, senza esagerazione, di alcune migliaia di storni, i minuscoli volatili di colore bruno che hanno proprio la caratteristica di viaggiare compatti in assembramenti considerevoli, sovente tracciando sulla volta celeste tavolozze di disegni fantasmagoriche, estemporanee e mutevoli in un baleno, che nessun artista, a mio avviso, sarebbe in grado di emulare.

Non è la prima volta che assisto a calate di storni in città, e però, in questa circostanza, sono stato colpito da un episodio collaterale mai incontrato prima.

In mezzo a quel cinguettio diffusissimo degli storni, alcuni esemplari di tortore o di piccioni, padroni quotidiani del boschetto nell’abitato urbano, si libravano allontanandosi, quasi a voler lasciare il posto ai più minuscoli, e probabilmente più bisognosi di quiete, ristoro e riposo, compagni di specie.

Mi è sembrata una spontanea e silenziosa lezione di accoglienza e ospitalità.

La visione dei nugoli di storni in discorso ha portato istintivamente il mio pensiero verso le moltitudini, migliaia notevolmente moltiplicate, dei migranti che calano sulle coste del nostro paese, peraltro rischiando, durante le loro peregrinazioni e traversate, rischi ben più pesanti, in certi casi fatali, in confronto agli uccellini bruni visti e incontrati a Lecce.

Purtroppo, com’è noto, all’indirizzo di dette moltitudini umane, il livello di accoglienza ospitalità e assistenza si rivela spesso insufficiente è precario.

Peccato che tanto accada e si ripeta in seno ad esseri definiti civili.

Che dire, in conclusione? Senza cadere nella vuota retorica, credo che la migliore sorte cui vanno incontro gli storni dovrebbe quantomeno indurre a riflettere.

 

Iconografia di S. Lorenzo da Brindisi

di Armando Polito

Nel recentissimo post Lorenzo da Brindisi e la battaglia di Albareale (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/12/04/91499/) proprio all’inizio viene citato il nome di Alberto Del Sordo che in un suo scritto del 1959 ebbe a rilevare come l’iconografia laurenziana rappresenta molto spesso San Lorenzo da Brindisi sul campo di battaglia mentre incoraggia i Cristiani  a combattere contro l’esercito ottomano. Purtroppo non sono riportati gli estremi bibliografici del saggio che, tuttavia, credo sia Il più illustre cittadino di Brindisi, Grafiche Milillo, Bari, 1958 (ristampato per i tipi di Schena a Fasano nel 1989).

Dopo questa precisazione bibliografica della quale attendo conferma dall’autore del post, non intendo certo contestare l’affermazione dell’autore del libro per un motivo semplicissimo: non mi è stato possibile, finora, leggerlo. Avendo, però, nelle mie scorribande in rete messo da parte una cospicua serie di immagini del santo, con l’intento di sfruttarle con un apposito post il 21 luglio p.v., non mi è sembrato fuori luogo anticipare i tempi inserendole  di seguito ad integrazione, spero gradita, del post stesso,

Da Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli,  Gervasi,  tomo XI, 1826 (incisione di G. Morghen)

Da http://www.esbirky.cz/predmet/178249

Da http://depot.lias.be/delivery/DeliveryManagerServlet?dps_pid=IE4885278 

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199225.html

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199232.html

Da https://wellcomeimages.org/indexplus/image/V0033323.html (incisione di G. Baratti; vedi la prima del Morghen)

Da http://www.portraitindex.de/documents/obj/33912388/co-xii-208-139

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199229.html

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126146603.html

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199232.html

Da http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000132424

Da http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000172256 

Da Angelo Maria De Rossi, Vita del Ven. P. Lorenzo da Brindisi, Bernabò, Roma, 1710   

Il drago araldico: dai bestiari medievali alle armi delle casate Trane e Protonobilissimo

di Marcello Semeraro

Il drago è, insieme all‘aquila, il solo “animale” che appartiene all’emblematica di tutti i paesi e di tutti i tempi. La seguente ricerca, scevra da qualunque pretesa di esaustività, si propone di individuare il ruolo che questo mostro leggendario ebbe nello specifico ambito araldico, con una particolare attenzione alla Terra d’Otranto.

IL DRAGO IN ARALDICA

Nell’araldica europea il drago è la creatura più instabile e polimorfa del blasone. Bipede o quadrupede, alato o attero, monocefalo o bicipite, il drago araldico è una figura chimerica ibrida che prende in prestito le sue parti da vari animali: dai rettili (il corpo e la coda), dall’aquila (le zampe e gli artigli), dal pipistrello (le ali), dal leone (talvolte le zampe), dall’uomo o dalla capra (la barba e talora anche la testa), dal pesce (talvolta la coda), dal grifo (le orecchie) e dal coccodrillo. Questa sua natura instabile e composita si ritrova, del resto, anche nei bestiari medievali, quella particolare categoria di manoscritti che descrivono le proprietà delle bestie per ricavarne significati morali e religiosi e che, com’è noto, esercitarono un’influenza notevole sull’arte, sull’iconografia e sulla stessa araldica (figg. 1 e 2).

Fig. 1. Il drago, animale reale per gli uomini del medioevo, è la creatura più instabile e composita della zoologia del bestiari. Esso è il risultato della fusione in una sola creatura di tradizioni più antiche, bibliche, orientali, grego-romane e germaniche. Nasce in Etiopia, in India e in “Barbaria” ed è il più grande dei serpenti, da cui si differenzia per avere le zampe, almeno due. E’ terribile, rumoroso, viscoso, ha un odore mefitico, un alito pestilenziale e la sua carne è disgustosa. Dalle orecchie e dalla bocca escono fiamme distruttive. Ma la sua grande forza risiede nella coda, che soffoca e distrugge tutto ciò che stritola. Ha paura di una sola cosa, il fulmine. E’ una creatura diabolica, il simbolo del Male. Londra, British Library, Harley MS 3244 (ca. 1255-65), fol. 59r.
Fig. 1. Il drago, animale reale per gli uomini del medioevo, è la creatura più instabile e composita della zoologia del bestiari. Esso è il risultato della fusione in una sola creatura di tradizioni più antiche, bibliche, orientali, grego-romane e germaniche. Nasce in Etiopia, in India e in “Barbaria” ed è il più grande dei serpenti, da cui si differenzia per avere le zampe, almeno due. E’ terribile, rumoroso, viscoso, ha un odore mefitico, un alito pestilenziale e la sua carne è disgustosa. Dalle orecchie e dalla bocca escono fiamme distruttive. Ma la sua grande forza risiede nella coda, che soffoca e distrugge tutto ciò che stritola. Ha paura di una sola cosa, il fulmine. E’ una creatura diabolica, il simbolo del Male. Londra, British Library, Harley MS 3244 (ca. 1255-65), fol. 59r.

 

Fig. 2. Drago che combatte con un elefante, suo nemico mortale. La miniatura è tratta dal Bestiario di Aberdeen. Aberdeen, The Aberdeen University Library, ms. 24 (ca. 1195-1200), fol. 65v.
Fig. 2. Drago che combatte con un elefante, suo nemico mortale. La miniatura è tratta dal Bestiario di Aberdeen. Aberdeen, The Aberdeen University Library, ms. 24 (ca. 1195-1200), fol. 65v.

 

Per gli autori dei bestiari e, più in generale, per la cultura medievale europea – memore delle tradizioni bibliche – nessun drago è positivo. È una creatura diabolica, il simbolo del Male e sconfiggerla è un’impresa che possono compiere solo certi santi, come Giorgio (fig. 3), Michele, Marta e Margherita, o certi eroi leggendari (Tristano, Artù, Sigfrido). In araldica il drago si rappresenta generalmente rampante, con il corpo munito di scaglie, testa allungata, fauci spalancate, lingua sporgente a forma di dardo, ali di pipistrello, due o quattro zampe, con la coda aguzza, spesso acciambellata e terminante a dardo (fig. 4).

Fig. 3. William Bruges, Re d’armi della Giarrettiera, vestito con un tabarro alle le armi reali inglesi, inginocchiato di fronte a San Giorgio che trafigge il drago. Bruges Garter Book, Londra, British Library, Stowe MS 594 (ca. 1430- 1440), fol. 5v.
Fig. 3. William Bruges, Re d’armi della Giarrettiera, vestito con un tabarro alle le armi reali inglesi, inginocchiato di fronte a San Giorgio che trafigge il drago. Bruges Garter Book, Londra, British Library, Stowe MS 594 (ca. 1430- 1440), fol. 5v.

 

Fig. 4. Arma della famiglia Borghese, col capo dell’Impero. Raccolta Ceramelli Papiani, Firenze, Archivio di Stato, fasc. 894.
Fig. 4. Arma della famiglia Borghese, col capo dell’Impero. Raccolta Ceramelli Papiani, Firenze, Archivio di Stato, fasc. 894.

 

Raramente è rappresentato in atto di vomitare fiamme. Cronologicamente, i più antichi esemplari di scudi recanti draghi sono quelli ricamati su alcune scene dell’arazzo di Bayeux, il celebre manufatto tessile realizzato intorno al 1080, probabilmente nel sud dell’Inghilterra, su richiesta di Oddone, vescovo di Bayeux e fratellastro del re Guglielmo, per celebrare la conquista normanna dell’Inghilterra (fig. 5). Ma è soprattutto nell’araldica immaginaria – una moda che a partire dalla fine del XII secolo si diffuse parallelamente alla diffusione delle armi vere e proprie – che questo animale leggendario godette di una certa popolarità. La fantasia degli artisti galoppò e furono attribuiti stemmi recanti draghi a certi personaggi del ciclo arturiano (Uther Pendragon, Ariohan di Sassonia, Brehus, Calinan, Seguran, ecc.) e, addirittura, a figure bibliche come Giosuè e Giuda Maccabeo (fig. 6). Nel stemmi d’invenzione, tuttavia, la fortuna di questa figura è legata soprattutto alla sua funzione peggiorativa.

Fig. 5. Scudo normanno pre-araldico con drago. Arazzo di Bayeux (ca. 1080)
Fig. 5. Scudo normanno pre-araldico con drago. Arazzo di Bayeux (ca. 1080)

 

Fig. 6. Scudo di Giuda Maccabeo pendente da un alberello. I nove Prodi (ca. 1416-1420), Manta (Cuneo), castello.
Fig. 6. Scudo di Giuda Maccabeo pendente da un alberello. I nove Prodi (ca. 1416-1420), Manta (Cuneo), castello.

 

Nel bestiario del Diavolo e dei nemici della cristianità il drago occupa infatti il primo posto, tanto che neI secoli XIII e XIV divenne l’emblema degli eretici e dei capi musulmani. Ciò nonostante, nel blasone vero e proprio il suo indice di frequenza è piuttosto basso, mentre in epoca moderna prevale il suo uso come figura parlante. Non di rado il drago compare anche quale ornamento esterno dello scudo, sia come supporto, sia, soprattutto, come cimiero. Celebri sono i cimieri innalzati, a partire dal XIV secolo, dai sovrani aragonesi e portoghesi, cimieri che, per motivi ereditari, ricomparvero qualche secolo dopo sulle armi di Filippo II di Spagna e dei suoi successori: in Terra d’Otranto se ne conserva ancora qualche traccia (fig. 7).

Fig. 7. Mesagne, Porta Nuova, stemma di Filippo III di Spagna con triplice cimiero: i due laterali raffigurano i draghi aragonese e portoghese, mentre quello centrale il cimiero parlante di Castiglia.
Fig. 7. Mesagne, Porta Nuova, stemma di Filippo III di Spagna con triplice cimiero: i due laterali raffigurano i draghi aragonese e portoghese, mentre quello centrale il cimiero parlante di Castiglia.

 

IL DRAGO NEL BLASONE DI TERRA D’OTRANTO

Valutare l’indice di frequenza del drago nel blasone delle famiglie nobili e notabili di Terra d’Otranto non è un’operazione facile. Malgrado la grande quantità di manufatti araldici di cui è ricco il territorio, mancano infatti repertori completi e aggiornati in grado di offrire un quadro d’insieme del fenomeno e i pochissimi stemmari a disposizione dello studioso presentano non poche lacune. La migliore raccolta pubblicata finora, sebbene imperfetta e parziale, resta ancora l’Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, opera pubblicata agli inizi del Novecento da Amilcare Foscarini. Nell’Armerista il drago ha un indice di frequenza bassissimo. Statisticamente, tra i quattrocentoquaranta blasoni censiti dal Foscarini, solo due hanno un drago, ossia lo 0,45% del totale. Gli stemmi appartengono alle famiglie Trane (o Trani) e Protonobilissimo.

I primi, originari di Trani e conosciuti dapprima come Gaza, presero in seguito il cognome dal toponimo d’origine. In Terra d’Otranto ebbero i feudi di Guardigliano, Tutino, Lucugnano, Montesano, Tiggiano, Torrepaduli, Specchiapreti, Scorrano, Martano, Calimera e Corigliano. Foscarini attribuisce loro un blasone acromo avente “un drago alato e rivoltato, mirante una stella di sei raggi e sostenente con la branca sinistra una testa di toro” (fig. 8).

Fig. 8. Ugento, Museo diocesano, stemma della famiglia Trane
Fig. 8. Ugento, Museo diocesano, stemma della famiglia Trane

 

Quanto ai Protonobilissimo, furono un’antica schiatta attestata sin da XIII secolo. La famiglia, di origini amalfitane, passò dapprima a Sorrento e da lì a Napoli, dove fu aggregata al seggio di Capuana. Conosciuti anche come Faccipecora (fig. 9), si suddivisero in vari rami. In Terra d’Otranto possedettero i feudi di Brongo, Palagiano, Leporano, Roca, Mottola, Specchiapreti e Muro Leccese, concesso nel 1438 dal principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Florimonte Protonobilissimo ed in seguito (1723) elevato a principato. Il Mazzella, il Foscarini, il Crollalanza e il Rietstap assegnano ai Protonobilissimo uno scudo “di rosso, al drago alato d’oro” (fig. 10).

Fig. 9. Arma dei Faccipecora, incisione tratta da C. Borrelli, Difesa della nobilta napoletana scritta in latino dal P. Carlo Borrelli C. R. M. contro il libro di Francesco Elio Marchesi, volgarizata dal P. Abbate Ferdinando Ughelli, Roma 1655, p. 121
Fig. 9. Arma dei Faccipecora, incisione tratta da C. Borrelli, Difesa della nobilta napoletana scritta in latino dal P. Carlo Borrelli C. R. M. contro il libro di Francesco Elio Marchesi, volgarizata dal P. Abbate Ferdinando Ughelli, Roma 1655, p. 121

 

Fig. 10 .Stemma Protonobilissimo, incisione tratta da S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1601, p. 639
Fig. 10 .Stemma Protonobilissimo, incisione tratta da S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1601, p. 639

 

Tuttavia, l’analisi di un frammento di piatto stemmato, conservato presso il Museo del Palazzo del Principe di Muro Leccese, dimostra che il ramo murese dei Protonobilissimo caricò il drago d’oro non su un campo di rosso, ma d’azzurro (fig. 11).

Fig. 11. Muro Leccese, Museo del Palazzo del Principe, frammento di piatto con arma dei Protonobilissimo.
Fig. 11. Muro Leccese, Museo del Palazzo del Principe, frammento di piatto con arma dei Protonobilissimo.

 

Recuperato durante gli scavi nel Palazzo del Principe e databile alla fine del XVI secolo, questo frammento ceramico è una fonte araldica di primaria importanza perché contiene dati che furono controllati direttamente dalla committenza. Tale considerazione ci permette di affermare che la diversità del colore del campo che si osserva nei due blasoni dei Protonobilissimo poc’anzi descritti è legata a esigenze di brisura di linea. Con questo termine si intende un’alterazione dello stemma originale, operata per distinguere i vari rami di una stessa famiglia. L’uso delle brisure, particolarmente diffuso nell’araldica del regno di Napoli, si espresse attraverso varie modalità, fra cui la modificazione degli smalti dello scudo, ottenuta invertendo gli smalti del campo e della figura principale, oppure cambiandone solo uno, come si vede nello stemma del Protonobilissimo di Muro. Per differenziarsi, infatti, essi modificarono l’arma tradizionale “di rosso, al drago d’oro”, mutando in azzurro il colore della superficie dello scudo. In ogni caso, quale che sia la brisura impiegata dai Protonobilissimo, il drago, animale “totemico” della casata, rimase sempre d’oro.

 

BIBLIOGRAFIA

– G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890.

– A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903 (rist. anast. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1978).

– E. Noya di Bitetto, Blasonario generale di Terra di Bari, Mola di Bari 1912 (rist. anast. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1981).

– M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012.

– M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.

– J. B. Rietstap, Armorial général précédé d’un dictionnaire des termes du blazon, 2 voll., Gouda 1884-1887.

Diego Tafuro da Lequile (XVII secolo): un frate fra santi, prìncipi e parole (3/3).

di Armando Polito

Debbo confessare che il giudizio del copertinese Giovanni Battista Fulino (L’autore è quel fra Diego de Lequile, che sotto i piedi del niente, ò perde affatto l’essere di buono scrittore, ò è manco del nulla in bene scrivere) riportato quando, nella puntata precedente, ho citato la prima pubblicazione del Tafuro, mi ha lasciato piuttosto perplesso, anche perché bene in vista nel frontespizio del suo libro.  Chi non avrebbe pensato, come io ho fatto, alla rabbia dettata dall’invidia per un concorrente? Mi è sembrato strano, però, che anche il giudizio del Lezzi (Grande strepito nel passato Secolo fece il P. Diego da Lequile, e nel suo Ordine de’ Riformati di S. Francesco, e nella corte austriaca, e in Roma,e colla Predicazione, e con parecchi Libri pubblicati, i quali però sono andati tutti a perir nell’obblio), decantato dal trascorrere del tempo, ne fosse la conferma. Non sono un esperto di teologia ma la lettura, per quanto frettolosa (all’inizio è stata più attenta, poi è diventata pallosa …), delle opere del Tafuro di argomento strettamente teologico mi ha dato la conferma di quei giudizi impietosi. Risparmio al lettore quello maturato dopo la lettura (anch’essa frettolosa dopo un po’ …) delle opere encomiastiche, in cui spicca il già citato scimmiottamento virgiliano Enea>Iulo>gens Iulia, con l’aggiunta dell’ultima tappa, cioè la casa austriaca. Fossi stato io l’arciduca dedicatario o uno dei cortigiani e, voglio rovinarmi, uno dei più umili sudditi sufficientemente acculturato, mi sarei sentito offeso … A proposito della gens Iulia e sul mio ferreo convincimento che la vera nobiltà, come la vera competenza, non si basa sui titoli, evito di riproporre qui un aneddoto familiare che chiunque abbia interessa potrà leggere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/03/mia-madre-e-orazio/.

Rem tene, verba sequentur è la citazione d’esordio utilizzata due puntate fa. Credo che il Tafuro ne sconfessi la validità assoluta, nonostante qualcuno, probabilmente suggestionato solo dalla quantità della sua produzione, lo ammirasse senza beneficio d’inventario …1

Insomma il nostro apparterrebbe a quella categoria di persone dalla parlantina facile che, a seconda degli interlocutori, riesce a mascherare la pochezza dei contenuti. Se da un lato, poi, come abbiamo visto, sembra vergognarsi del suo paese d’origine, dall’altro, sublime narcisistica contraddizione, accetta il Diego Lequile che si legge in alcuni frontespizi e in alcune epistole a lui indirizzate (vedi nota 1). Sarebbe  come se Giuseppe Faiella avesse scelto a suo tempo come pseudonimo non Peppino di Capri, ma Peppino Capri.

E io? Il mi limito ad adattare la prima parte della sentenza latina sostituendo rem tene=possiedi l’argomento con argumentum pone=esibisci la prova (incontrovertibile, cioè non passibile, pur nei limiti dell’umana capacità, di interpretazioni ambigue o, peggio, diametralmente opposte). Spero di esserci riuscito. Quanto al verba sequentur, lascio il giudizio, qualunque esso sia,  al lettore.

_____________________
1 Riporto alcune lettere indirizzategli da un nobile, sfegatato, ma anche, forse, narcisisticamente opportunista, suo ammiratore da Delle lettere del sig. Giovanni Francesco Loredano nobile veneto … raccolte da  Henrico Giblet, parte II, Appresso li Guerigli, Venezia, 1661, pp. 45-50, 56, 279, 287 e 484:

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/25/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-23/

Diego Tafuro da Lequile (XVII secolo): un frate fra santi, prìncipi e parole (2/3)

 

Le statue di due imperatori romani a Otranto

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di Alfredo Sanasi

 

Perché le statue di due imperatori romani furono erette ad Otranto ? Ed in base a che cosa possiamo affermarlo se oggi non esistono più ? Ne restano testimonianze indiscusse ? Ma andiamo per gradi e per ordine, delineando il periodo storico del tempo.

I due imperatori in questione sono Marco Aurelio e Lucio Vero, ambedue adottati dall’imperatore Antonio Pio e a lui succeduti nel 161 d.C.

Quando nel 161, col titolo di Marco Aurelio Antonino, Marco successe al trono, egli chiese immediatamente al senato che Lucio Vero, suo collega nel consolato, ricevesse la potestà tribunizia e proconsolare e il titolo di AUGUSTUS con autorità pari alla sua: così per la prima volta nella storia di Roma il principato veniva diviso tra due imperatori di pari grado. Certo Lucio Vero non era per natura pari al fratello e dimostrò nella conduzione della sua carica di non essere idoneo ad un posto tanto alto. Marco Aurelio, definito “un saggio sul trono “, univa l’amore per la cultura e per la scienza alla severità dei costumi stoici e romani dei tempi più antichi. Allevato nell’amore degli studi, attratto per naturale tendenza ad una meditazione filosofica, Marco Aurelio saggio, generoso, amante della pace e dell’ordine, dovette pur tuttavia condurre lotte interne e guerre esterne, principalmente contro i barbari che, da alcuni anni e soprattutto sotto il suo principato, avevano cominciato a premere ai confini dell’impero a Nord ed a Oriente.

Quindi anche se a partire dal 161 la filosofia stoica era giunta alla direzione dell’impero, Marco Aurelio non poté che scindersi: se per un verso dovette fare il mestiere d’imperatore , con tutta la durezza che comportava l’esercizio del poter specialmente in quel terribile e critico momento storico, per l’altro verso riservò la propria meditazione filosofica ai dodici libri dei Colloqui con se stesso, sia mentre si trovava a Roma sia durante le campagne militari. Marco Aurelio domò una rivolta dei Britanni e respinse una aggressione dei Catti, ma intanto in Oriente i Parti, impadronitisi dell’Armenia, sconfissero due eserciti romani. Fu allora che nel 162 Marco inviò Vero con un forte contingente ai confini orientali. Lucio Vero si rivelò troppo temporeggiatore e quindi non arrivò a destinazione prima dell’anno successivo. Solo con l’intervento del governatore della Siria, Avidio Cassio, una volta recuperata l’ Armenia e invasa la Mesopotamia, venne ristabilito l’ordine sui confini orientali. Lucio Vero quindi con il suo procedere lento e indulgente, non fu certo all’altezza del compito, anzi per colmo di sventura le sue truppe di ritorno a Roma portarono una terribile pestilenza che si diffuse in tutto il mondo romano. Due anni dopo, intorno al 166, alcune tribù germaniche si riversarono oltre il Danubio. Reclutate due nuove legioni Marco Aurelio vinse gli invasori e trasformò la Dacia (odierna Romania) in “ provincia consolare “. Marco Aurelio e Lucio Vero di ritorno raggiunsero Aquileia nel 168, ma durante il viaggio Vero morì di apoplessia, liberando Marco da un collega incomodo e che per giunta, nel 162, come si è già detto, partendo per l’Armenia non aveva certo domato i gravi torbidi in quella terra di confine, risolti subito dopo da Stazio Prisco.

Da dove Lucio Vero allora s’imbarcò con notevoli truppe, partendo dall’Italia? Verosimilmente da Otranto e non da Ancona o da Brindisi, come era avvenuto in altre spedizioni romane. Da Otranto era assai comodo e più breve passare in Grecia, a tal punto che, come ci testimonia Plinio il Vecchio[1], in questo punto della penisola la maggiore vicinanza ai lidi della sponda opposta aveva fatto sorgere il desiderio, prima a Pirro e poi a Marco Varrone, di costruire un ponte per congiungere su quel tratto di mare l’Italia alla Grecia. Di tale passaggio da Otranto di Lucio Vero sono chiara testimonianza le due grandi basi ortogonali in marmo bianco, rinvenute all’inizio del XVII secolo all’interno della città e là ora murate, come piedritti, ai lati del portone di Palazzo Arcella, al n.41 di Corso Garibaldi.

Le due basi, costituite da uno zoccolo ed un coronamento, che inquadrano dentro una stretta cornice le epigrafi, una a Marco Aurelio e l’altra a Lucio Vero, sono appunto sormontate da grossi plinti, destinati chiaramente come piedistalli, a sostenere le statue dei due imperatori.

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Quando furono erette le due statue sulle rispettive basi? Certamente, come statue onorarie, furono dedicate ed erette nell’anno 162 d.C. quando l’imperatore Lucio Vero , inviato da Marco Aurelio, s’imbarcò da Otranto per la campagna contro i Parti. Anche Marco Aurelio verosimilmente, almeno otto anni dopo, s’imbarcò da Otranto per visitare le provincie orientali Egitto, Siria, Asia Minore, ma allora Lucio Vero era già morto tra il 169 e 168. Quindi non avrebbe avuto senso che gli Idruntini innalzassero allora le statue a tutti e due gli imperatori, cioè sia a M. Aurelio che a L. Vero. Per questo motivo è evidente che ciò avvenne subito dopo il 162, dopo cioè il passaggio per Otranto di Lucio Vero.

L’omaggio ovviamente era rivolto anche al fratello Marco Aurelio che aveva voluto e disposto tale spedizione.

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Il Mommsen nota che fra i titoli di Marco Aurelio è stato omesso quello di Pontefice Massimo, forse per non ledere il prestigio del collega Lucio Vero, al quale tale attributo non era dovuto. Le due epigrafi[2], dall’accurata incisione, integrate debitamente nelle parti sottolineate, sono le seguenti:

 

IMPERATORI   CAESARI   MARCO            IMPERATORI  CAESARI   LUCIO   AV

AURELIO   ANTO                                            RELIO   VERO   AUGUSTO

NINO AUGUSTO   TRIBUNICIA                  TRIBUNICIA   POTESTATE  II CONSULI II

POTESTATE   XVI   CONSULI III                 DIVI   ANTONINI   FILIO

DIVI   ANTONINI   FILIO   DIVI                   DIVI   HADRIANI

HADRIANI   NEPOTI   DIVI                           NEPOTI  DIVI   TRAIANI

TRAIANI   PARTHICI   PRONEPOTI            PARTHICI    PRONEPOTI

DIVI   NERVAE   ABNEPOTI                           DIVI   NERVAE   AB

PUBLICE                                                               NEPOTI

DECURIONUM     DECRETO                          PUBLICE | DECURIONUM    DECRETO

 

All’imperatore Cesare Marco Aurelio          

Antonino Augusto insignito della potestà   

tribunizia sedici volte, console tre                 

volte, figlio del divino Antonino, nipote del   

divino Adriano, pronipote del divino Traiano 

Partico, discendente del divino Nerva       

per decreto dei decurioni ufficialmente,

 

All’imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero

Augusto, insignito della potestà tribunizia

due volte, console due volte, figlio del divino

Antonino, nipote del divino Adriano pronipote

del divino Traiano Partico, discendente

del divino Nerva, per decreto dei decurioni

ufficialmente.

Perché le statue di Otranto non furono conservate sui loro basamenti ?

Oggi delle due statue imperiali non è rimasto nulla o, comunque, non è stato rinvenuto nulla. E’ probabile che nei tempi successivi al secondo secolo, in epoca cristiana, esse furono distrutte al pari di tante altre immagini pagane. Certo Marco Aurelio , in epoca di già vincente cristianesimo, era stato eternato in effigi tra gli dei penati nelle dimore delle classi alte, oltre che in luoghi aperti e per pubblica decisione. Per una singolare ironia della storia, come afferma Luciano Canfora, la statua equestre di Marco Aurelio sul Campidoglio fu risparmiata dai Cristiani e lasciata al suo posto perché scambiata per una effigie di Costantino, l’imperatore che mostrò uno spiccato favore verso la Chiesa, la liberò da ogni intralcio e legiferò nel suo interesse. Secondo quanto scrive Eusebio di Cesarea[3] infatti Costantino, prima della sua vittoria su Massenzio al ponte Milvio, aveva visto apparire nel cielo l’immagine della croce con l’iscrizione “in hoc signo vinces”.

Costantino proclamato il Cristianesimo “religione lecita” con l’Editto di Milano nel 313, sancì il principio della tolleranza religiosa e liberò i Cristiani dalle persecuzioni.

Le sue immagini vennero considerate sacre anche dai Romani cristiani e venerate con grande devozione: la più bella statua di Marco Aurelio, eretta sul Campidoglio, dunque, scambiata per quella di Costantino fortunatamente, è giunta fino a noi, al contrario di tante altre sue effigi che vennero distrutte, perché condannate ed esecrate come pagane.

 

BIBLIOGRAFIA

1) Th. Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, libro IX, 15-16, Berlino 1889

2) L. Maggiulli, Otranto, Lecce 1893

3) Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino il Grande, Heikel 1902

4) C. Plinio, Naturalis Historia, ed C. Mayhoff, Lipsia 1906

5) Marco Aurelio Antonino, Colloqui con se stesso, trad. di F. Lulli, Rizzoli Editore, Milano 1953

6) H. Lamer, E. Bux, W. Schone R. Bosi, Dizionario della Civiltà classica, Milano 1959

7) Oxford Classical Dictionary, versione italiana di M. Campitella, London 1962

8) L. Canfora, Antologia della letteratura greca, III, Bari 1987

9) G. Paduano, L’ellenismo, Bologna 1996

 

NOTE

[1] Plinio, Naturalis Historia, III, 100-101 : Hidruntum….qua in Graeciam brevissimus transitus……hoc intervallum pedestri continuare transitu pontibus iactis primum Pyrrhus Epiri rex cogitavit ; post cum M.Varro, cum classibus Pompeii piratico bello praeesset…

[2] Th. Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, libro IX, 15-16, Berlino 1889.

[3] Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino il Grande, I, 28

 

Pubblicato su “Il delfino e la mezzaluna”, n°2 (2014)

 

Galatina. Palazzo Mory, il recupero e la scoperta

Galatina, Palazzo Mory (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory (ph R.G. Mele)

 

di Andrea Panico

In corso agli interventi di ristrutturazione, il complesso edilizio, di proprietà Micheli-Vergine, in via Del Balzo, sta ritrovando luce nuova sui suoi secoli di storia.

Qui, fino a tutta la metà del XIX secolo visse la famiglia Mory ed è probabile che questa sia l’originaria residenza di questa famiglia che successivamente, nel corso dell’ampliamento cinquecentesco dell’abitato, volle costruirsi un nuovo palazzo dall’altra parte della città nella via che portava e porta ancora il loro nome.[1]

Lo stemma di famiglia – un giovane armato di alabarda e sormontato da un crescente, in postura frontale fuoriuscente da un’alta torre merlata –, si vede ancora in chiave al cinquecentesco portale al quale sono state rasate le bugne in un tempo imprecisato. Un’analoga arma in pietra è presente sul portale tardo-cinquecentesco del palazzo sito in via Mory. Lo stemma, non ultimo – con la variante di un piccolo crescente rovesciato e l’impugnatura della lancia, invece dell’alabarda o della spada –, è dipinto in due scudi araldici, posti ad ornamento del complesso programma iconografico del chiostro della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina[2].

Galatina, chiostro della basilica di S. Caterina d'Alessandria, stemma dei Mory (ph R.G. Mele)
Galatina, chiostro della basilica di S. Caterina d’Alessandria, stemma dei Mory (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory (ph F. Mazzotta)
Galatina, Palazzo Mory (ph F. Mazzotta)
Galatina, Palazzo Mory, facciata (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory, facciata (ph R.G. Mele)

 

I lavori in corso hanno riportato in luce un’edicola votiva posta in facciata. Questa occultata in un dato tempo alla vista dei passanti, si presenta dipinta in tutte le sue parti. L’opera se pur conservata parzialmente è ancora leggibile nel suo insieme.

L’immagine, sulla parete di fondo, è ricavata dai racconti della Passione nei Vangeli canonici, di cui può essere considerata un riassunto visivo, ed anzi presuppone forse un intento didattico e mnemonico.

La figura patetica di Cristo – Uomo dei dolori –, è un soggetto che si diffonde soprattutto durante il XV secolo e si tratta in prevalenza di un’interpretazione iconografica non congiunta specificamente a un testo. È legata alla Passione ma “proiettata” fuori dal tempo. Nell’arte, il soggetto presenta alcune importanti varianti, come nella pittura del palazzo Mory.

Galatina, Palazzo Mory (ph R. G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory (ph R. G. Mele)

 

Nelle opere che raffigurano l’Uomo dei dolori, il Cristo compare da solo, con il corpo martoriato e le ferite delle mani, dei piedi e del costato.[3] In alcuni casi, specie nell’arte italiana, Cristo viene raffigurato in piedi all’interno del sepolcro, con gli occhi chiusi. Nella pittura in esame, è inserita, come in una scena di Pietà, la disperazione privata, solitaria, inconsolabile di Maria che stringe a sé il Figlio morto.

Sullo sfondo, la Croce incombe sulla “muta” adorazione di Maria. Nella parte alta, inserito in un cartiglio, vi è l’iscrizione I.N.R.I, acronimo di Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, Gesù di Nazareth re dei Giudei. Si tratta della motivazione della sentenza di morte, ufficialmente legata alla pretesa di Gesù di essere riconosciuto come re.

Fra le Arma Christi compaiono, oltre la Croce: la corona di spine, la canna con la spugna intrisa d’aceto, la lancia di Longino e la scala a pioli.

L’immagine centinata è riquadrata da un ornamento in doratura che separa quest’ultima dalle pitture realizzate ai lati dell’edicola. Questo spazio è suddiviso in tre campi distinti. In alto, un cielo trapunto di stelle ed una decorazione a “rosetta” posta a finta chiave di volta. Ai lati, due santi, entrambi barbuti. Di quest’ultimi, l’uomo posto a destra dell’osservatore ha il capo coperto da un possibile cappuccio e nella mano destra un libro.

Galatina, Palazzo Mory, facciata (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory, particolare (ph R.G. Mele)

 

L’opera, non ancora oggetto di un’indagine scientifica ed in corso di restauro, può con tutta probabilità ascriversi nelle immagini devozionali eseguite nel corso del XVI secolo.

Particolare con il santo di sinistra (ph R.G. Mele)
Particolare con il santo di sinistra (ph R.G. Mele)

 

NOTE

[1] Palazzo Mory, come altri edifici analoghi sono il risultato dell’occupazione edilizia dei suoli ricaduti nell’ampliamento cinquecentesco del circuito murario. CAZZATO M., Palazzi e famiglie. Architettura civile a Galatina tra XVI e XVIII secolo, Galatina, Congedo 2002.

[2] Nel chiostro della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, gli scudi araldici, inseriti nel ciclo pittorico del 1696 di fra Giuseppe da Gravina, sono dipinti in posizione centrale al di sotto delle storie francescane, inseriti nella parte superiore degli allungati cartigli al cui centro trovano posto le ottave in endecasillabo. Le scene ornate dallo stemma dei Mory sono San Francesco dinanzi al Sultano e San Francesco riceve le stigmate. PAPADIA B., Memorie storiche della città di San Pietro di Galatina nella Japigia, ristampa, a cura di Vallone G., Galatina, Congedo, 1984. MONTEFUSCO L., Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce, 1997. SPECCHIA D., Gli affreschi del chiostro. Basilica di S. Caterina d’Alessandria Galatina, Galatina, Salentina 2007.

[3] L’Uomo dei dolori, non va confuso con le versioni “solitarie” dell’Ecce Homo. Anche qui Cristo compare da solo, con il corpo martoriato e l’espressione afflitta: però mancano i segni dei chiodi della Croce, mentre sono messi in evidenza la corona di spine, il mantello rosso e lo scettro di canna.

Diego Tafuro da Lequile (XVII secolo): un frate fra santi, prìncipi e parole (2/3)

di Armando Polito

Nella parte di manoscritto esaminata nella precedente puntata il Lezzi registra, per quanto riguarda le opere del Tafuro, sei titoli, ai quali il De Leo ne aggiunge uno.  Tenendo conto della diffusione della stampa nel secolo XVII, della la tiratura che per le opere specialistiche si suppone ancora oggi limitata, degli strumenti di ricerca limitati, e comunque, molto laboriosi, ai tempi del Lezzi e del De Leo, tutto ciò appare prodigioso1 e mi chiedo cosa sarebbero stati in grado di fare studiosi del loro calibro se avessero potuto fruire dei mezzi moderni, in primis la rete, con l’aiuto della quale illustrerò più estesamente ed integrerò il loro elenco. Seguirò l’ordine cronologico di pubblicazione.
1) Sentenze di S. Antonio di Padova disposte in proposizioni quadragesimali da F. Diego da Lequile Minorita della più stretta osservanza serafica, Cavallo, Napoli, 1646 (https://books.google.it/books?id=82o67g3Dtg0C&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).

Curioso è il fatto che, come si legge nel frontespizio, il testo fu pubblicato a spese del M(olto) R(everend)o D(on) Giovanni Battista Fulino da Copertino Dottor di S(acra) T(eologia) e paroco di S. Giovanni à Porta di NapolI, il quale nello stesso anno, presso lo stesso editore e sempre a sue spese pubblicò Avvento con le proposizioni di S. Antonio di Padova. L’autore è quel fra Diego de Lequile, che sotto i piedi del niente, ò perde affatto l’essere di buono scrittore, ò è manco del nulla in bene scrivere. Un salentino che stronca un salentino rifacendosi alla teoria aristotelica ricordata da me ricordata all’inizio della prima parte.

2) La vite mariana di S. Antonio di Padova, Micheli, Lecce, 1648

3) L’ epenodoro del p. Tafuro Academico Sconosciuto nell’annuncio di buon Capo Danno all’ill.mo et ecc.mo signore il sig. D. Gio. Girolamo Acquaviva D’Aragona conte di Conversano, duca delle Noci, di Nardò, Micheli, Lecce, 1649

Epenodoro è neologismo  composto da due parole greche: ἔπαινος (leggi èpainos)=lode, approvazione e δῶρον=(leggi doron)dono. In greco, però, oltre ad ἔπαινος sostantivo esiste anche il suo quasi omografo ed omofono (cambia solo l’accento, l’etimo è lo stesso) aggettivo ἐπαινός/ἐπαινή/ἐπαινόν (leggi epainós/epainé/epainón)=terribile, terrificante (non a caso, al femminile, era l’appellativo di Persefone). Il significato dell’aggettivo deriva da quello del sostantivo attraverso una trafila concettuale basata sull’assunto che è prudente lodare o approvare il detentore del potere e che il terrore è l’arma principale di quest’ultimo. Tuttavia non riesco nemmeno di sospettare che il Tafuro, così vicino, come vedremo, a poteri ben più grandi di quelli cittadini, fosse consapevole dell’ambiguità etimologica di un termine che, invece, metterei le mani sul fuoco, ha utilizzato col valore semantico positivo creando un termine che non mi risulta usato da altri. 

Academico Sconosciuto: anche per quanto detto a proposito di epenodoro mi pare impossibile sospettare un pizzico di umiltà non tanto in academico (in cui lo scempiamento di c è dovuto ad un latinismo, visto che accademia deriva dal latino academia) quanto in Sconosciuto (ne è una spia l’iniziale maiuscola, nonostante l’uso spropositato che se ne faceva nel XVII secolo); l’Accademia degli Sconosciuti, però, era stata fondata a Guastalla dall’abate Giuseppe Negri e dal conte Alessandro Pegolotti nel 1724. Dunque, quando essa nasceva, Diego era passato da tempo a miglior vita. E allora?

In Giovanni Battista Spada, Giardino de gli epiteti, traslati et aggiunti poetici italiani, Erede di Vittorio Benacci,  Bologna, 1648, s. p. è nominato un poeta Girolamo Prioli con il soprannome di accademico sconosciuto. Non è l’unico, considerando,   nostante a sconosciuto si aggiunga unito, i frontespizi,  che seguono, di due volumi encomistici, appartenenti, cioè, al filone prediletto dal Tafuro.

Credo si possa legittimamente sospettare, dunque, uno scimmiottamento, sia pur parziale, da parte di Diego, on tanto del Prioli quanto dell’autore di questi due volumi, dei quali, forse, aveva letto non il solo titolo.

4) Novo quaresimale ripieno di pensieri, e concetti eruditi con tutti li Sabbati delle prediche di Maria N. Signora, Storti, Venezia, 1650

5) L’Anna rappresentata; overo, La grazia, e la bellezza in teatro guerregianti, festegianti, trionfanti. Con la sua prosa nel fine [da] Lequile, Agricola, Innsbruk, 1651

6) L’ arciduca d’Austria Fernando-Carlo conte regnante del Tirolo: ouero Panegirici poetici in sua lode con le lor prose politiche: con un essatto racconto delle opinioni piu ò meno famose intorno l’augustissima casa d’Austria. Opera dedicata alla S(ua) c(esarea) M(aestà) di Ferdinando III Austriaco Augusto composta dal F. Diego Lequile R(iformato) di S(an) F(rancesco) T(eologo) Predicatore e Cronista Arciducale, in Anversa nella  Officina Plantiniana, 1653

Alla fine della dedica, quasi si vergognasse della città d’origine, si spaccia per napoletano:

7) Il santo di Padova, Agricola, Innsbruck, 1654. Di seguito il frontespizio e due tavole che lo corredano.

8) Sanctus magnus Nicolaus Myrae episcopus, Agricola, Innsbruck, 1654

9) Relazione delle principali curiosità di questo contado del Tirolo,  Wagner, Innsbruck,  1655

 

Alla fine della relazione le pagine 398-409 contengono il resoconto delle opere pubblicate e di quelle destinate ad esserlo e questa sorta di stacco pubblicitario si conclude con queste parole:

10) Festivus adventus virginis Christina, Wag, Innsbruck, 1655

11) Collectaneae P. Lequilis de omnibus Austriis rebus sub unico ac felicissimo pietatis symbolo septies varieque auspicatus,  Agricola, Innsbruck, 1656

Visto il tema e il dedicatario, il volume non poteva non essere impreziosito dall’antiporta di seguito riprodotta, con la sua pomposa didascalia costituita da due distici elegiaci, con il primo verso del primo citato da Virgilio (Eneide, I, 33).                                                                                                                                    

Tantae molis erat Romanam condere gentem ,/unde Leone potens Austria origo fuit./Ars divina facit, reverenter Mundus honorat,/persequitur Satan, servat ab hoste Deus (Di tanta mole era fondare la gente romana,donde fu l’Austria potente per il leone Il mondo l’onora, Satana la perseguita. Dio la salva dal nemico.

La citazione del verso dell’Eneide non è casuale e la presunta trafila virgiliana Enea>gens Iulia>Augusto  qui si arricchisce dell’ultimo passaggio; l’Austria, con la celebrazione poetica della didascalia, quella grafica del dettaglio in alto al centro e quella, per così dire, teorica, di un passo che a p. 141 del suo volume Diego cita da Cornelio Vitignano, Vera geneaologia e discendenza dell’augustissima ed invittissima prosapia d’Austria …,  Carlini e Pace, Napoli, 1599:

E, ad integrare definitivamente tutto ciò con una sintesi visiva, alcune tavole di formato ridotto, in pratica una serie di slides (a me questo modo di procedere solo per convincere e suggestionare gli altri e fare infuriare pochi, tra cui il sottoscritto,   mi ricorda qualcuno …):

Chiudo la disamina di questo volume riportando le altre tre tavole a pagina intera:


Austria dum trina PIETATIS imagine visa/septem cum stellis Herculis Hydra perit. Altera victa cadit, dum victrix altera surgit/exprimit ac Orbi quidquid in Orbe beat (L’Austria vista con una triplice immagine della Pietà con sette stelle,mentre l’Idra di Ercole perisce. L’una cade vinta mentre l’altra vincitrice si solleva ed esprime al mondo tutto ciò che nel mondo bea).

Nobile et antiquum AUSTRIADUM quae prodit imago,/haec Genus, horrendum comprimit alma caput./Ac pede colla simul multorum inimica potenter/ calcat, et in stirpes unica Sole micat (La nobile ed antica stirpe drgli Austriadi, che quest’immagine mostra, calpesta benefica un orrendo capo. E nello stesso tempo nemica di molti col piede preme potentemente i colli e unica tra le stirpi brilla al sole).

Hic Pietatis honos fulgens sculptura triumphans/AUSTRIACA, ingenuos pandit in Orbe Toros./Quae laqueos FORTUNA pares fecundior,/attulit. Europae splendida iuga trahens? (Qui l’onore della pietà fulgida scultura austriaca che trionfa spiega nel mondo nobili letti nuziali. Quale destino più favorevole portò mai all’Europa pari legami, conducendo splendidi gioghi?).

12)  Colossus angelicus, Austriacus, siue Austriae sobolis admiranda moles apocalypsea, religione constans, maiestata rara, matrimoniis ingens. Item Austriacae pietatis per felicissima coniugia, et omnia Catholica connubia in unico CXVII. interfecti Colubris reciso capite triplex triumphus, nouo apparatu exhibitus a F. Didaco, de Lequile, atque ab eodem ad Catholicum Regem  Philippum IV missum, ad quem auctor alterum etiam sui laboris Gentilitium consecrans, varia modo una cum insigni historia de Christina Suetiae Regina scribit, duplici iacta eicone, super qua nonnulla, haud quidem spernenda commentantur, Oenipontui, excudebat Hyeronimus Agricola, 1659 Superiorum permissu

Questo volume può essere considerato la riedizione rinnovata del precedente, con le stesse tavole ed una diversa disposizione dei capitoli.
13) Il santo di Padova dall’estrema Spagna all’estrema Italia epiche narratiue del Lequile a cinque gran monarchi per mezzo di cinque reverendissime eminenze, Dragondelli, Roma, 1662

 

14) Il santo di Padova dicerie miscellanee del Lequile sopra le sue epiche narrative, Dragondelli, Roma, 1662

 

15) Hierarchia Franciscana in quatuor facies historicè distributa, Dragondelli, Roma, 1664

Questo frontespizio ci offre una nota biografica dall’improbabile sfumatura di modestia con con Minimo inter Minores S. Francisci Transiberini de Urbe coenobita (Monaco minimo tra i Minori di San Francesco di Roma). È il convento di San Francesco a Ripa, passato ai Riformati nel  1579.  Il volume è corredato della tavola di seguito riprodotta.

3

16)  Franciscus ter legislator evangelicus, Ercole, Roma, 1667

 

Anche qui, come nel precedente volume, quasi a ridimensionare quel monaco minore tra i Minori , la nota biografica data da Ord(inario) Hist(oriae) ad S(anctum) Franc(iscum) Transt(iberinum)=ordinario di storia presso (il convento di) S. Francesco trasteverino (alias il già visto S. Francesco a Ripa).

17) Relatio historica huius reformationis Sancti Nicolai -1647. Il manoscritto di quest’opera fu ritrovato nei primi anni ’70 da padre Benigno Perrone nell’archivio del collegio francescano irlandese di S. Isidoro a Roma e da lui  pubblicato per i tipi di Edizioni del Grifo a Lecce nel 2004.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/30/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-33/

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1 Tanto più che un autore quasi contemporaneo registra solo due titoli: Nicolò Toppi, Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 1678, p. 70:

La baia ed il porto di Brindisi fotografati da Hackert

di Nazareno Valente

 

Jakob Philipp Hackert, più noto come Filippo Hackert, è comunemente indicato come uno dei più importanti paesaggisti in attività tra il XVIII e XIX secolo. La maggior parte della sua vita artistica la consumò per lo più a Napoli, dove era stato nominato primo Pittore di Paesi, Cacce e Marine alla corte di re Ferdinando IV di Borbone, che gli affidò vari incarichi tra i quali quello di dipingere i porti del regno.

Era la primavera del 1788 quando Hackert iniziò il viaggio che lo avrebbe tenuto impegnato alcuni mesi nella visita delle tre estreme province orientali, vale a dire Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto, per eseguire i disegni preparatori dei porti lì situati. Nacquero così le 17 pregevoli vedute tuttora conservate presso la reggia di Caserta.

Uno dei primi quadri della serie – per la precisione, il secondo – riguardò Brindisi, la cui Baja e Porto, realizzata nel 1789 come annotato in calce al dipinto stesso, verrà da noi esaminata, non già da un punto di vista artistico, ma per il suo possibile valore topografico. Infatti uno dei pregi generalmente riconosciuto ad Hackert è la maestria con cui sapeva tradurre un paesaggio in una struttura grafica corrispondente alla realtà. In altre parole i suoi paesaggi possono essere considerati per certi versi delle fotografie e, proprio per questo, ci avventuriamo in un percorso mai imboccato prima: riconoscere e dare un nome ai diversi particolari del dipinto, così da riscoprire anche ciò che la memoria comune non ha saputo conservare. Per rendere più agevole il compito del lettore, faremo costante riferimento al dipinto (figura n. 1) in cui i diversi luoghi identificati sono stati contrassegnati con un apposito numero.

hackert porto

  1. Castello Aragonese o Alfonsino o Rosso con il vicino Forte a mare.

Se ne vuole qui indicare la sola presenza, considerato che, grazie ai tanti studi pubblicati, la storia della struttura è talmente nota da rendere superflua ogni possibile annotazione.

 

  1. Cala delle Navi.

Dopo gli splendori del periodo romano ed i buoni momenti normanno-svevi e angioini, Brindisi visse periodi bui, in cui l’unico mezzo di difesa della città parve quello di isolarla dal mondo, ostruendo il canale che metteva in comunicazione il porto interno con quello esterno e abbandonando il tutto alla più totale incuria. Sicché i seni interni – le cui sembianze erano accostabili più ad una palude che ad una distesa di mare – potevano essere attraversati solo da barche dal modesto pescaggio. L’unico porto utilizzabile rimase quindi quello esterno e la Cala delle Navi, che si trovava sulla costa Guacina poco lontana dalle Fontanelle, ne costituiva l’approdo più affidabile. Ed è appunto in direzione della Cala delle Navi che si dirigono i velieri d’una certa stazza disegnati da Hackert.

Sia pure in maniera anonima, la Cala delle Navi è stata rappresentata graficamente per la prima volta nella pianta del Blaeu1 del XVII secolo (figura n. 2) e il relativo ormeggio era espressamente indicato nella cartografia del tempo. Il toponimo ebbe quindi ampia diffusione e fu comunemente utilizzato nei secoli successivi, sino a quando, all’incirca nella seconda metà del XIX secolo, con la messa in piena funzione del porto interno, lo scalo non andò in disuso; in seguito finì nel dimenticatoio tanto da non trovare menzione neppure negli scritti degli storici locali.

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  1. Canale Borbonico.

Una decina d’anni prima del viaggio di Hackert, Ferdinando IV aveva inviato a Brindisi il tenente colonnello Andrea Pigonati con il compito di provvedere finalmente alla bonifica ed alla riapertura del porto interno. I lavori si svolsero tra il 1776 ed il 1778 e s’incentrarono principalmente nella realizzazione d’un canale, che potesse consentire ai velieri di accedere nei due seni del porto interno, e nel colmare le varie paludi che rendevano l’aria della città malsana.

Pigonati chiamò il canale scavato Borbonico mentre ai moli, che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto preservarlo dall’interrimento, lasciò il compito di protrarre la memoria dei sovrani denominando Carolino, quello di ponente, e Ferdinando, quello di levante. Purtroppo, dopo breve tempo, i lavori si dimostrarono del tutto insufficienti e, quando Hackert visitò la città, la situazione del porto era nuovamente precaria, tanto da giustificare l’avvio di nuovi interventi.

 

  1. Canale Angioino.

Prima dei lavori del Pigonati, era questo l’antico canale di collegamento tra i due porti. L’incuria a cui era stato abbandonato l’aveva reso poco agibile con conseguenti gravi limitazioni nelle possibilità di accesso al porto interno che, proprio a causa dell’inadeguato ricambio delle acque, presentava chiazze di maleodoranti paludi in gran parte della sua estensione. Con molto probabilità, quando Hackert lo ritraeva, i bassi fondali lo avevano reso ormai del tutto impraticabile.

È comunemente ritenuto opera degli angioini, sebbene non pare disponibile alcuna fonte o documentazione che lo attesti.

 

  1. Isola Angioina.

A seguito dell’intervento del Pigonati, il porto interno e quello esterno furono collegati con il nuovo canale Borbonico che, unitamente al preesistente canale Angioino, finì per formare un’isola di modesta ampiezza la quale conferì al bacino di collegamento una caratteristica forma ad Y che permase nello scenario del porto brindisino per oltre settant’anni.

A cominciare dal disegno (figura n. 3) che il Pigonati inserì in appendice al resoconto ufficiale dei lavori2, l’isola appare in tutte le successive mappe pubblicate in quel tempo, lasciata però – per quello che s’è potuto constatare – sempre nel più completo anonimato. Bisogna infatti scartabellare i vari progetti presentati per la bonifica del porto per venire a conoscenza che essa era identificata come isola Angioina.

È pertanto del tutto comprensibile che l’isoletta sia di fatto scomparsa dalla memoria collettiva; un po’ meno che non trovi spazio, se non di sfuggita e al pari di un’entità sconosciuta, nelle cronache cittadine, a dispetto del rilievo avuto per la funzionalità del porto. Dalla lettura dei progetti appena menzionati appare appunto evidente che la presenza dell’isola Angioina creava grossi problemi alla navigabilità del bacino ed al flusso e riflusso delle maree. E non a caso, come meglio vedremo in seguito, se ne decise dapprima l’abbassamento e poi la completa rimozione.

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  1. Le Torrette.

Sulle opposte sponde del vecchio canale Angioino c’erano due torrette che gli angioini stessi avevano fatto costruire nel 1279 per impedire che la città fosse attaccata dalla parte del mare. La più grande, fabbricata sulla riva di ponente, era collegata all’altra torretta con una catena che, in caso di bisogno, un congegno tendeva in modo da precludere l’accesso al porto interno.

Con il passare del tempo simili metodi di difesa divennero anacronistici e le due torri subirono successivi riadattamenti, tant’è che il Pigonati, all’iniziò dei suoi lavori, attesta ancora l’esistenza della maggiore – risistemata però per alloggiare le guardie della dogana – ed i soli «avanzi»3 di quella costruita a levante.

Il dipinto di Hackert avvalora le affermazioni del Pigonati presentando a ponente quella divenuta dogana e, sulla riva opposta, una base cilindrica nella quale si potrebbero identificare gli avanzi dell’altra torretta. Tale testimonianza grafica serve inoltre a confutare le critiche che l’Ascoli espresse sui lavori compiuti da Pigonati proprio riguardanti le torrette.

Afferma infatti l’Ascoli che il Pigonati, nel fabbricare il molo a ponente del canale, trovatosi in difficoltà per la penuria di materiale, «impiegò le pietre estratte dalla diruta casa della Torretta fabbricata dagli Angioini»4. Smentito in ciò dalla stesso interessato, il quale nelle sue memorie precisa d’aver sopperito alla bisogna ordinando di <cavar pietre dall’isoletta»5, vale a dire dall’isola Angioina, e, come appena riportato, dal dettaglio del dipinto. E poi prosegue: «Di questa torretta rimasero le fondamenta che aperto il canale, furono interamente ricoperta dalle acque, formarono col tempo una secca abbastanza estesa, chiamata secca Angioina»6. In definitiva, a detta dell’Ascoli, la secca, che sarebbe divenuta fonte di gravi alterazioni per l’agibilità del porto brindisino, era diretta conseguenza di uno dei tanti errori compiuti dal Pigonati, a cui doveva quindi addebitarsi anche questo ulteriore guasto.

Se l’accusa fosse passata sotto silenzio, la questione non avrebbe avuto rilievo alcuno. Il problema è che, invece, tutti i successivi autori, ritenendola credibile, l’hanno propagata sino a farla passare per una delle tante verità incontrovertibili.

Eppure, a guardare il dipinto, sembrerebbe discutibile che il canale scavato dal Pigonati abbia potuto influire più di tanto sul flusso delle acque nel canale Angioino, sulla cui sponda di levante, come sappiamo, si trovava la diruta torretta. Hackert non vi disegna infatti neppure una piccola barca in transito, a esemplificazione del fatto che il canale Angioino continuava ad avere un fondale bassissimo ed era di fatto impraticabile. Se poi consideriamo che, di lì a breve, pure il nuovo canale Borbonico avrebbe incominciato ad insabbiarsi limitando ancor più il flusso delle maree, verrebbe da presumere proprio il contrario, cioè a dire che in quella zona gli allagamenti erano in effetti impossibili.

Ma di là dalle congetture, ci sono i documenti a smentire le affermazioni dell’Ascoli.

La cartografia della seconda metà del XIX secolo ha infatti rappresentato in maniera chiara la situazione che s’era creata nel porto brindisino ed è pertanto sufficiente esaminare una qualsiasi pianta dell’epoca per ricavare che la secca Angioina, oltre ad essere molto estesa, si trovava proprio nel punto in cui sino a poco tempo prima era posizionata l’isola Angioina con i suoi bassi fondali.

Ed è quanto emerge in tutta la sua evidenza in un particolare del Piano generale del porto di Brindisi7 del 1866 (figura n. 4): la secca angioina ha due lati ampi più di cento metri ciascuno ed è disegnata proprio dove una volta c’era l’isoletta.

Appare a questo punto ovvio che le fondamenta di una torretta alta pochi metri non avrebbero mai potuto generare una secca di simile sviluppo, la cui origine era molto più semplicemente dovuta ai lavori per l’abbassamento dell’isola Angioina iniziati formalmente nel 18428 e conclusisi attorno al 1860. È infatti nelle mappe di quegli anni che la secca Angioina incominciò a prendere il posto dell’omonima isoletta.

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Di tali lavori si può trovare traccia, oltre che nelle fonti letterarie, anche nella documentazione ufficiale, tipo la relazione del Giordano per il porto di Bari, dove l’autore cita espressamente la proposta per il «profondamento dell’isola Angioina, sino alla profondità di palmi 8»9.

Scavata quindi sino a restare poco al di sotto della superficie del mare, l’isola Angioina non poteva che trasformarsi in secca. Con buona pace della bizzarra versione dell’Ascoli, che ancor oggi trova unanime accoglimento10.

 

  1. Il Barcaturo oppure molo di collegamento con l’isola Angioina.

Non molto lontano dalle Colonne Romane, a sud di quello che era il palazzo Cocotò, c’era un «ponte di legno detto Barcaturo o Cavalcaturo»11 che il Vacca ritiene di riconoscere nel pontile raffigurato da Hackert.

Abbinamento plausibile, se non ci fosse un attracco (7a), disegnato proprio di fronte sull’isola Angioina, che sembra strettamente collegato con questo pontile, mentre è certo che il molo di collegamento con il Barcaturo (il cosiddetto Sbarcaturo) si trovava su un’altra costa, quella di Posillipo sul Casale.

In ogni caso l’ipotesi è suggestiva poiché il Barcaturo fa parte della storia brindisina associato com’è con la festività dell’8 settembre, occasione della Natività di Maria. Il protocollo della festa ci racconta infatti che i pellegrini iniziavano il loro tragitto dal Barcaturo e, utilizzando il servizio di barche arcivescovili, chiamate imbarcaturo o varcatoro di Santa Maria, si portavano sulla riva opposta del porto. Sbarcati sullo Sbarcaturo, s’incamminavano lungo un percorso che toccava la chiesetta del Cristo del Passo, dove si raccoglievano in preghiera, prima di proseguire per la loro meta ultima, vale a dire la chiesa di Santa Maria del Casale.

C’è pero da osservare che il Barcaturo si trovava alquanto più a nord e, quindi, anche contando sulla rinomata precisione di Hackert, sarei più propenso a credere che questo pontile venisse utilizzato come collegamento con l’isola, soprattutto per le merci da scaricare o caricare sui velieri ancorati nella Cala delle Navi.

Anche la stessa barca disegnata da Hackert lo lascia intendere. Si tratta infatti di una chiatta che i brindisini chiamavano lontro, dal basso pescaggio e dalla forma piatta (in questo caso allargata) che ricorda le famose caudicarie impiegate dai romani per il trasporto fluviale mediante un sistema di alaggio. Lo si nota pure dagli scalmi presenti a poppa e a prua, ed invece assenti ai lati dove comunemente trovano posto i remi12, la qual cosa chiarisce che l’imbarcazione era trainata a braccia con l’aiuto di una fune tesa tra questo e il corrispondente pontile dipinto sull’isola.

D’altra parte era del tutto usuale, nei porti pugliesi con i fondali bassi o interriti, che le navi restassero ancorate al largo e che le operazioni di carico fossero svolte con barchette dallo scarso pescaggio, molto simili a quelle ancora in uso sui fiumi13.

 

  1. Il molo di porta Reale.

Era uno dei punti più caratteristici della città, dove avveniva il caricamento dell’olio contenuto in botti di legno.

Il ponte si trovava appena usciti da porta Reale, nei cui pressi c’erano pure «le Pile di misura Regia de’ caricamenti dell’olio… e costituiva il luogo più puzzolente del porto»14.

Per tutto il periodo in cui il porto interno era interrito le botti di olio erano qui collocate su barche per poi essere trasportate sino alla Cala delle Navi dov’erano infine trasbordate sui bastimenti. Quando i lavori di Pigonati ne consentirono la riapertura, fu per i brindisini un avvenimento vedere le navi arrivare sin sul molo di porta Reale per caricare direttamente le botti di olio, «con gran risparmio de’ negozianti»15.

Fu questo il primo evidente beneficio derivante dalla riapertura del porto interno e fu accolto dalla cittadinanza con molto entusiasmo. Peccato, però, che di lì a poco i problemi riemersero e, proprio mentre Hackert tracciava i primi schizzi, era già in programma un nuovo intervento di bonifica.

In effetti quasi tutti i porti meridionali vivevano in quel periodo un momento difficile, eppure è questo un aspetto che non si coglie nei dipinti di Hackert. Il porto di Brindisi sembra anzi in piena attività e la gente vi passeggia serena, come se non vi fossero problemi di navigazione per i velieri e di frequentazione per le persone. Il che contrasta alquanto con la situazione critica attestata dalle fonti e dai tipici visitatori impegnati in un Grand Tour.

Hackert tanto fedele e minuzioso nel riprodurre le coste, le insenature, i moli ed ogni altro elemento del paesaggio, appare al contrario alquanto fantasioso nel cogliere gli aspetti della vita quotidiana. E, d’altra parte, quale primo Pittore alla corte borbonica non poteva certo rappresentare la realtà nuda e cruda così com’era, soprattutto se sgradita, ma doveva giocoforza abbellirla e renderla in qualche modo funzionale agli interessi propagandistici del datore di lavoro.

 

1 W. J. Blaeu, Pianta, tratta da: Nicola Vacca, Brindisi ignorata, Vecchi & C. Editori, Trani, 1954, Ristampa anastatica, CCIAA di Brindisi, Fasano, 1969, pp. 168-169.

2 A. Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV, Michele Morelli, Napoli, 1781, Tav. II.

3 A. Pigonati, Cit., p. 12.

4 F. Ascoli, La storia di Brindisi, Forni Editore, Sala Bolognese, 1981, ristampa dell’edizione Malvolti, Rimini, 1886, p. 367.

5 A. Pigonati, Cit., p. 72.

6 F. Ascoli, Cit., p. 367.

7 L. balatri, Piano generale del porto di Brindisi, 1866, Maps, Huntington Digital Library, Huntington Rare Books, Sir Richard Francis Burton Map Collection.

8 S.  Morelli, Brindisi e Ferdinando II o il passato, il presente e l’avvenire di Brindisi, Del Vecchio, Lecce, 1848, p. 118.

9 L. Giordano, Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bari, Fratelli Cannone, Bari, 1853, p. 26.

10 Si citano per tutti: F.A. Cafiero, La città di Brindisi all’apertura del canale Pigonati, in Brundisii res, Amici della “A. De Leo”, Brindisi, 1969, p. 54 e G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Lulu.com 2016, pp. 72 e 105.

11  N. Vacca, Cit., p. 309.

12 La paternità dell’affermazione sugli scalmi è di Andrea Nicolau che la formulò nel corso di una chiacchierata su Facebook.

13 Nel periodo in cui il porto interno era inaccessibile alle barche d’una certa stazza, i lontri più comunemente usati dai brindisini erano molto simili alle canoe e, quindi, con una configurazione ben più limitata di quello raffigurato da Hackert.

14 Pigonati, Cit., p. 23.

15 P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787), A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”, Brindisi, 1978, p. 459.

 

Vino su tela. L’arte enoica di Arianna Greco

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di Arianna Greco

“Amor che move il sole e l’altre stelle”, frase che segna la fine del paradiso dantesco e che ben si adegua a descrivere, invece, il mio inizio. Sì, perché l’idea di usare il vino al posto dei colori nasce proprio da un “amore”, pur continuando ora senza di esso. O, forse, esso c’è ancora ma ha assunto altre forme, altri volti e altre grandezze.

Ma devo fare un passo indietro per raccontare quell’incipit a cui, in fondo, devo tanto.

2012… per me il vino altro non era che un semplicissimo “alimento”, in vendita presso enoteche o supermercati in modo indifferenziato. Una bottiglia valeva l’altra, non guardavo nemmeno che vitigno fosse. Ma, soprattutto, non lo bevevo.

La mia vita privata però ha avuto la fortuna di iniziare un percorso con un uomo la cui quotidianità, ironia della sorte, era incentrata proprio sul vino: per passione e per lavoro. Due mondi lontani i nostri che ho cercato di avvicinare interessandomi a quel “liquido odoroso”, come lo definisce Sandro Sangiorgi, egregio scrittore enoico. Degustazioni, letture di manuali, incontri e scambi d’opinione con addetti ai lavori, tutto parlava di vino. Ma a quel punto i miei “amori” erano due: da sempre quello per la pittura e, da poco, l’amore per quell’uomo. Come fare nostro quel suo mondo? Come avvicinarmi a lui? Attraverso la sua passione, il vino. Ma dovevo filtrarlo attraverso ciò che ero io e per questo motivo ho colto, durante una degustazione, l’elemento che più si confaceva a me: l’esame visivo con le sfumature che si evidenziano, quel rosso rubino con venature granata o a volte violacee, quel rosso porpora, quel rosa cerasuolo…perché allora non cercare di carpire proprio questo aspetto? E così l’idea di intingere il pennello nel vino! Da sola, a Bari nel silenzio di una piccola camera. Certo che a pensarci ora mi vengono i brividi, ora che sono alla vigilia dell’ennesimo evento in cui le mie opere saranno in mostra in Russia, a San Pietroburgo e tra qualche giorno ci sarà la quarta proiezione italiana del film-documentario “Vino su tela. L’Arte Enoica di Arianna Greco”. Un salto enorme che copre un arco di tempo limitato, appena quattro anni. Ma procediamo con ordine e torniamo a quella prima tela. Una piccola tela, appena 30×40 cm. Una donna assorta nei propri pensieri, seno nudo, capelli raccolti e calice pieno in mano, intenta ad osservare quel vino che sapeva essere unico compagno di confidenze. Ricordo che andai ad acquistare appositamente la bottiglia nel supermercato di fronte casa e scelsi un Primitivo di Manduria di un’azienda sconosciuta. Intingevo il pennello e lo posavo sulla tela creando un lago sanguigno per terra…ma quasi subito la sorpresa: il vino a contatto con l’aria si ossida molto più rapidamente di come farebbe in barrique o in bottiglia. Così quel rosso violaceo stava cambiando colore davanti ai miei occhi, piano piano. A distanza di qualche giorno la differenza era già visibile e aumentava nel corso del tempo. Da viola ad arancione! Lì ho capito che dovevo continuare a sperimentare perché quel divenire mi affascinava.

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Ho avuto fortuna fin da subito, fin da quella piccola prima tela che, oggi, è la copertina di un libro “L’amore è come un bicchiere di vino rosso” di F. Biolchini, regista teatrale nonché coregista di Pippo Franco ed è inserita nel “Manuale della Storia Italica” del prof. Franco Niedda Crispo. Dopo la prima …una seconda, una terza tela…ma cambiando vitigno. Dopo il Primitivo di Manduria è stata la volta del Negroamaro e del Nero di Troia, ancora una volta una sorta di preludio a ciò che sarebbe stato: di lì a qualche mese infatti lo scrittore grossetano Andrea Zanfi mi avrebbe chiesto di realizzare la copertina del suo lavoro sulla Puglia Enoica, un manuale in cui racchiudeva la storia di trentanove importanti aziende pugliesi divise in tre sezioni, Primitivo, Negroamaro e Nero di Troia! Proprio i primi tre vitigni da me scelti e gli stessi che poi ho personificato nella copertina de “Le Puglie, storie di Terre e vini”. A quel punto è stato un susseguirsi di vicende. Dopo circa un mese da quell’inizio, la prima richiesta da parte del direttore di un museo, il Piero Taruffi di Bagnoregio (VT). Il dott. Verzaro, da buon sommelier mi chiedeva di realizzare quella che sarebbe stata l’opera simbolo del museo stesso per un intero anno, in un filone che aveva visto in precedenza nomi quali Enzo Naso, autore dei poster della Mille Miglia e di casa Ferrari. E così è stato. A quello ha fatto seguito il museo di Pulcinella in Campania dove ora son presenti mie opere assieme, addirittura, a disegni del Tiepolo e del quale, con cerimonia ufficiale, sono stata nominata “Ambasciatrice nel Mondo”. Sempre in quel primo anno la richiesta di essere presente con una mostra personale a Firenze presso Palazzo Bartolini Salimbeni in occasione di Wine Town, ospite dell’azienda della famiglia Ferragamo e di realizzare un’opera per loro. È nato così “Il Bacco di Arianna”!

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I libri con mia copertina son passati presto da due a cinque e tra questi mi piace ricordare “Isolina, il momento perfetto” scritto da Gianni Mauro, artista eclettico che ha calcato il palco di Sanremo con Rino Gaetano, ha scritto brani per Gabriella Ferri e altri grandi della musica italiana e che ha voluto onorarmi dedicandomi il suo libro.

Dai libri alle etichette per bottiglie di vino: da “Il Capriccio della Marchesa”, un Fiano da invecchiamento, all’opera per 1312 magnum di Taurasi di Villa Raiano, “Il Lotto del Presidente”. Da “Daidalos”, un Moscato di Trani, a “Ligia”, una birra artigianale fermentata con mosto d’uva; fino ad arrivare all’etichetta di uno zibibbo calabro di prossima uscita.

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Mi aspettavo tutto questo turbinio? Decisamente no, ma ne sono entusiasta. Mi è servito a crescere, a comprendere che bisogna credere in sé stessi e nelle proprie passioni anche se queste sembrano ben lontane dal concreto. L’Arte vien vista, anche nella mia famiglia, come un qualcosa in più, un non-lavoro. Per tale motivo io non ho frequentato né un liceo artistico né un’accademia. La mia formazione è stata diversa, liceo classico prima, Odontoiatria e Protesi Dentaria poi. L’Arte poteva esserci ma…in parallelo. Però ora, per me, quel binario parallelo sta diventando il binario principale.

Non mi son fermata alla Puglia né tantomeno all’Italia. L’anno successivo a quello d’inizio è stata la volta del mio primo “live” di pittura col vino ad Hong Kong. Nel frattempo avevo iniziato a prendere confidenza con i live, notando quanto la gente fosse incredula e curiosa nel vedermi reggere un calice in cui vari pennelli facevano bella mostra di sé. Alla fine i live ad Hong Kong sono stati quattro: l’occasione era rappresentata dalla presentazione di una linea cosmetica a base di Barolo. I polifenoli delle uve a bacca rossa sono antiossidanti e antiradicali liberi quindi ottimi ingredienti per prodotti di bellezza: nove prodotti, dall’antietà alla crema schiarente per pelli asiatiche, dal latte detergente al fitoestratto lenitivo e nove mie opere dipinte con Barolo che facevano da testimonial per la linea cosmetica. Un successo inaspettato replicato poi a Milano per la Settimana della Moda presso Chateau Monfort. Addirittura un uomo veniva ogni giorno a trovarmi lì (ad Hong Kong) per osservarmi dipingere e portarmi suoi regali, da monete d’oro a collezioni di banconote, ad una collana di perle! Forse il vino fece il suo effetto, inebriandolo!

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Intanto i giorni avanzavano e io cercavo di “classificare” cromaticamente le opere. Notavo che nel corso del tempo il Negroamaro tendeva ad assumere il color marrone mentre la Barbera aveva cromaticità differenti a seconda del produttore: una Barbera prodotta sul Gargano mi dava color rosso mattone mentre una Barbera prodotta in Piemonte tendeva al grigio. Ad un certo punto mi sono chiesta cosa potesse accadere ad un vino invecchiato. Avevo fino ad allora usato vini relativamente giovani, al massimo con cinque o sei anni di imbottigliamento. Mi son recata allora presso un rigattiere dove, in vetrina, avevo intravisto diverse bottiglie…un Barolo del 1976, un Salice Salentino del 1964, un Dolcetto delle Langhe del 1981, un altro Barolo del 1979…ho comprato tutto! La prima ad essere aperta è stata la bottiglia del 1976: aveva un odore strano, diverso dal solito, un odore che non ho più dimenticato da allora. Ma, soprattutto, aveva un colore che a me piaceva. Era ocre e difficilmente bagnava la tela. Ma l’ho lasciato riposare per giorni su quel supporto finché non è stato assorbito. L’opera ottenuta è stata “Come mi vuoi” e raffigurava una donna stesa, nuda anche lei e anche lei intenta a riflettere, a pancia in giù, con ai piedi una sola scarpa col tacco. Il titolo, come in ogni mio dipinto, nasceva da una canzone. Un giorno mi chiamano al telefono “Scusi, cerco Arianna Greco”, “mi dica” rispondo, “è proprio lei?”, “sì, con chi parlo?”, “sono Simona e in questo momento mi sto tatuando sulla schiena un suo dipinto…”…era proprio “Come mi vuoi”. Ovviamente ho conosciuto Simona, una sommelier e donna del vino di Manduria dove gestisce, insieme al compagno Andrea, uno splendido ristorante il cui menù, non a caso, riporta in copertina una mia opera “Incondizionatamente”. Perché la vita non ha condizioni. Non accetta mezze misure.

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Così la mia sperimentazione continuava e mi son ritrovata ad essere presente in due tesi di laurea. La prima del dott. Jean Pierre Mellone del 2013 “Il mito della velocità”, in cui si discuteva della mia opera per il museo Taruffi. La seconda, di quest’anno, il 2016, “Le molteplici identità socio-culturali del vino: uno sguardo antropologico” della dott.ssa Cristina Ranieri – Università degli Studi di Milano Bicocca, incentrata sul “vino” che da semplice alimento diviene soggetto dotato di una propria agency. Di pochi giorni fa è la richiesta di un’altra ragazza, mia concittadina, laureanda in Conservazione dei Beni Culturali e che mi ha chiesto di essere l’oggetto della sua tesi! Non posso ricevere onore più grande.

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Sto cercando di perfezionare la mia tecnica e di aumentare la plasticità dei corpi che dipingo. Vorrei che l’espressività delle mie donne riuscisse a non passare inosservata. Non a caso i miei soggetti son principalmente donne. Mi piacciono i volti tristi o eccitati e i corpi che si intrecciano e si contorcono. Ultimamente sto inserendo anche parti di quadro non complete, con angoli non dipinti in cui il vino segna semplicemente dei rivoli colando giù. Mi piace l’idea del divenire, dell’incompletezza in contrapposizione con la precisione del tratto nelle altre parti della tela. Così sono nati “Omnia” e altri dipinti esposti a San Pietroburgo già a marzo di quest’anno presso lo State Hermitage Official Hotel in St Petersburg in occasione del secondo Golden Tour di cui sono stata ospite. La prima volta in Russia è stata nel 2015, a Mosca, dove ho realizzato due opere live in giorni successivi tenendo tre master class organizzati da Andrea Sarasso per importatori e stampa russa di settore. Un’esperienza incredibile…mi ritrovavo ad avere interpreti personali italiano-russo, a firmare autografi, a parlare di vino davanti ad addetti al settore, a far dipingere spiegando loro cosa fosse la pittura col vino e perché applicarlo in un modo o in un altro. Ho notato tanto interesse ed ho conosciuto, addirittura, una donna che aveva prenotato la presenza lì al master class tenuto da ma perché mi seguiva da ben tre anni, dal primo articolo sulla stampa russa!

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Non solo Russia….i miei live e la mia arte hanno fatto tappa anche in Brasile, a San Paolo, per Encontro de Vinhos, la fiera mondiale dei vini che fa tappa in sette città brasiliane, da Rio de Janeiro a Curitiba, a Campinas con evento principale a San Paolo. Il direttivo dell’organizzazione, capeggiato dal giornalista Beto Duarte che ha realizzato più di duecento documentari per la TV brasiliana, ha deciso per il 2016 di affidare ad un’artista internazionale l’incarico di realizzare l’immagine ufficiale dell’evento: e quell’artista sono proprio io! All’inizio non volevo crederci… però ho ideato e dipinto l’opera cercando di portare avanti le mie radici e la mia Terra. Per tale motivo ho scelto due vitigni importanti: Primitivo di Manduria e Salice Salentino quindi, ancora una volta, il mio Primitivo e il mio Negroamaro. L’opera è stata presentata sia in Italia che a San Paolo per la TV nazionale brasiliana e sempre in quell’occasione ho dipinto live con vini brasiliani. Tanto calore, tanto entusiasmo e tanta “italianità” che mi hanno fatto innamorare del Brasile!

Ovviamente le opere dipinte col vino hanno un loro “segreto”: il colore tenderebbe col passare del tempo a venir meno, per tale motivo un’azienda ha ideato appositamente sia un fissativo che un isolante che, applicati, permettono al vino di evolvere assumendo le proprie tonalità ma di bloccarsi e di persistere ad evoluzione avvenuta. Un segreto…che rimarrà tale.

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Grazie a tutto questo mio “girovagare”, a questo tentativo di far conoscere i colori della mia terra, è arrivato un premio importante. Nel corso di questi quattro anni ho ricevuto altri riconoscimenti ma, a mio avviso, quello che ritirerò in Croazia il prossimo novembre ha una valenza di cui a stento mi capacito: in occasione del 34^ European Award for the Tourism nell’ambito del 19th International Tour Film Festival, riceverò l’importante riconoscimento internazionale di Benemerita del Turismo Culturale. Il prestigioso riconoscimento è destinato a coloro che si sono distinti nel comparto del turismo ai vari livelli ed ha avuto per il passato varie personalità come il francese Paul Bocuse e l’italiano Gualtiero Marchesi per la gastronomia; il regista italo-polacco Zanussi e Franco Zeffirelli per i documentari turistici.

Son stati quattro anni intensi e il quotidiano lo è altrettanto. Ad oggi mi ritrovo a programmare un live in Siberia oltre ad altri appuntamenti nostrani come il Primitivo Jazz Festival, il Castro Wine Festival, il Premio Terre del Negroamaro al fianco di ospiti che prima vedevo solo sullo schermo o di cui leggevo online.

A volte leggere “ospite d’eccezione di questa edizione è l’Artista internazionale Arianna Greco…” non mi sembra vero. La strada che devo percorrere però è lunga e tortuosa ma, come recitano le parole che ho tatuato sulla mia pelle, “one life, one chance” e io mi impegnerò per dare il massimo.

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Pubblicato su “Il delfino e la mezzaluna”, nn. 4-5 – 2016

Verso levante. Un secolo di poesia pugliese (1943-2013)

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di Alessandra Peluso

La poesia ha una verità estrinseca, è cromatica, si eleva al caleidoscopio della vita con l’umana bellezza di chi la scrive, ne parla, la comunica magari davanti ad un caffè proprio come era solito fare il nostro Antonio L. Verri (Caprarica di Lecce, 1949-1993).

Sulla scia indicata dal Verri, oggi si offre a testimonianza Verso levante. Un secolo di poesia pugliese (1943-2013), l’antologia poetica curata da Salvatore Francesco Lattarulo (Stilo Editore).

È un prezioso libello da leggere, contemplare, amare, da diffondere e poi custodire gelosamente. La cura di Salvatore Francesco Lattarulo è di grandissimo valore perché crede che la poesia abbia un senso, un significato che deve essere diffuso ovunque, deve insinuarsi e raggiungere le zone più impervie e imperscrutabili della mente umana.

«Tutti devono saperne di poesia», sembra un imperativo categorico che Lattarulo pone; tutti devono conoscere, indistintamente dall’amare o odiare, ma conoscere i propri poeti e – la terra pugliese – di poeti ne ha da invidiare. Così come è necessario sapere della loro storia che è insita nel “Dna” del territorio pugliese.

A cominciare da Antonio L. Verri che nel corso della sua vita dedica la stessa alla poesia in un altalenarsi sfuggente e quasi simbiotico, un’esigenza parlare di poesia per il poeta di Caprarica non certo roba di «poetine e poetini» come diceva lui. Non è una questione provinciale.

Da Marino Piazzolla, Luigi Fallacara, a Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, a Girolamo Comi descritto come «figura-ponte che permette di collegare le due zone contigue della Puglia, l’idruntina e la barese, in un itinerario che qui si snoda a rovescio rispetto all’ordine sequenziale degli autori antologizzati del volume, procedendo dal Capo al Gargano, dal mare alla montagna». (p. 25).

Verso levante è un pullulare di poeti che hanno tessuto le trame della storia della poesia pugliese, terra che si affaccia dove sorge il sole, a Levante appunto, che abbraccia i paesi del Mediterraneo caldi, solari, solitari, deliranti, discordanti in un ritmo contraddittorio eppur meraviglioso. Come polline hanno seminato i loro versi i nostri padri della poesia pugliese fino a generare figli desiderosi, ingordi di poesia come Lino Angiuli, Emilio Coco, Salvatore Toma, Antonio L. Verri: «Aspetto il pane quotidiano / delle tue parole / nate dal canto delle rose. / Aspetto il sussurro della tua voce / dall’intrico di chiome d’ulivi». (Grazia Stella Elia, p. 93). E ancora: «Quatti quatti / come randagi gatti / con due versi in tasca / frangemmo il muro / della notte / e del dolore». (Daniele Giancane, p. 123).

Poeti che hanno cantato la vita in poesia, per necessità, per mestiere – come afferma Rina Durante – con fatica hanno cercato di raccontare la verità di tutti e hanno raggiunto il loro scopo egregiamente, forse purtroppo di questa bontà somma non sono stati ripagati da tutti gli italiani allo stesso modo.

C’è tuttavia chi ancora oggi fortunatamente parla di poesia, la fa, la vive come si propone di fare con un progetto ambizioso e rischioso, probabile soggetto-oggetto di critiche insulse e pregiudi- zievoli, come spesso accade in terra pugliese, Lattarulo con questa antologia poetica dà voce a padri, figli e nipoti, permettendo di vivere e rivivere la Poesia con la P maiuscola.

Il lettore non può saltare alcun verso, né può permettersi di leggere scorrendo rapidamente, rischierebbe di soffocare, sì, perché i versi qui riportati comprendono tre generazioni di poeti dal nord della Puglia sino al lembo più a sud, il Salento, e impongono una doverosa attenzione, meditazione, contemplazione del verso, per far sì che si possa sentire l’odore della poesia, godersela, calarsi in versi vissuti sofferti, raccontati con fatica.

«Torniamo a casa stinti dall’inedia. / Nel cavo di una sedia. / Attorno al cavo cranio / un fascio di particolare compone / un tronco senza nome. Il corpo estraneo». (Enzo Mansueto, p. 173). Mentre «La gente s’ammazza / per la strada senza motivo. / Mi restano 4 gomme da masticare che si trasformano nella mia / bocca / in serpenti dalle bizzarre circonferenze». (Stefano Donno, p. 185).

E questo è solo un assaggio che dà il senso di come l’intera antologia poetica Verso levante. Un secolo di poesia pugliese (1943-2013), a cura di Salvatore Francesco Lattarulo sia da non perdere perché ognuno di noi possa conoscere la poesia delle nostre generazioni, possa tutelarla e trasmetterla orgogliosamente alle future con la stessa intensità, amore e sofferenza che è stata scritta e vissuta dagli uomini-poeti.

 

  • pubblicato su “Il filo di Aracne”

Vito D’Elia. Terre solari, fatte come d’argilla viva

Suggestivo e singolare il suo modo di fare arte

Vito D’Elia

Terre solari, fatte come d’argilla viva

vitodelia2012-invito

di Roberto Budassi

Un respiro caldo e profondo, che profuma d’antico, si eleva sopra le terre riarse dal sole e, brulle, si specchiano le ombre immortali su quelle pieghe d’argilla che narrano, ancora, di uomini e miti, di lavoro e fatica, di quella solitudine millenaria che sembra eterna quanto non più eterne, ma brevi, sono divenute le stagioni della vita.

Argilla modellata dal silenzio e dal rigore dell’ispirazione, che non cede mai il passo all’improvvisazione, chiusa com’è in quell’alveo dell’isolamento pensoso che precede l’atto creativo finale. Materia calda e terrosa, passata al fuoco lento della fucina di Efesto non prima di immergersi nella casta bellezza di Afrodite, sua sposa.

Natura solare e mediterranea, che ispira da lungo tempo l’arte fittile di Vito D’Elia e si riversa copiosa sulle sue opere, già esposte nella storica bottega di Giovanni Santi, in quella che un tempo fu la Casa Natale di Raffaello ad Urbino. Sono sculture significative, in terracotta, che appartengono alla stagione più matura dell’arte del maestro galatinese, che catturano la nostra attenzione per quell’essenza immaginifica, per quella sostanza metafisica, per quel modo di esprimere, attraverso le modulazioni chiaroscurali e volumetriche della luce, la verità di una forma che conquista prepotentemente lo spazio e diventa, nel breve volgere di un battito d’ali, stile e metafora di una raggiunta sintassi espressiva.

Sono una ventina di piccoli capolavori che trasmettono il misterioso fascino dell’enigma insoluto, dell’apparizione improvvisa, dell’emozione subitanea che sorprende e stupisce anche per quel continuo variare d’accenti lirici e note in prosa che formano, nell’insieme dei soggetti trattati, il carattere più evidente di una perfetta coralità narrativa, dal profondo contenuto poetico. Non è poi così difficile riconoscere, in quei teatrini metafisici del silenzio, in quegli ambienti domestici violati dallo sguardo e dalla natura impervia dell’ora, in quelle dimore di pietra che celano il mistero dell’esistenza; insomma, in quei luoghi severi e spogli, dove si consumano le stagioni della vita entro le misure di uno spazio angusto, dove la solitudine rende l’uomo straniero di se stesso e del proprio tempo, riconoscere la sostanza iconografica di un’epica narrativa, di una cultura figurativa che fonda le sue radici nella storia millenaria di una terra e di un popolo, il cui respiro sconfina dai ristretti limiti della tradizione più illustre verso l’essenza di una comune matrice di appartenenza, di natura mediterranea, che è propriamente legata ad un modo d’essere e percepire, di vivere ed esperire la realtà tutta, nel suo perpetuo divenire storico e fenomenico.

È per noi, invece, davvero incomprensibile il lungo e immotivato silenzio che l’artista galatinese ha imposto alla sua arte, al suo lavoro, tanto che sorprende come questa, fortunatamente, ha sopportato il trascorrere del tempo e il vivere appartato del suo artefice, presentandosi ora, al nostro sguardo, ancora fresca e sincera, d’umori e sostanze poetiche che paiono indelebili tanto sono impresse sulla materia nobile dell’argilla, come gli afrori di marzo che inebriano l’aria al passare della tempesta, come il decantare di un distillato carico di aromi e profumi.

Come spesso accade, l’opera d’arte riflette l’animo dell’artista, la sua personalità, il suo carattere, tant’è riconducibile all’impronta del suo temperamento, alla dimensione del suo tempo vissuto, alla sua sensibilità e intelligenza creativa.

Le sculture fittili di Vito D’Elia sembrano indicare che l’artista ha operato nella piena consapevolezza dei propri mezzi espressivi e nella convinzione che il lavoro, quello serio, col tempo ripaga i sacrifici e gli sforzi fatti per conquistare la sostanza stessa dell’arte, così da cavare dalla materia più inerte quella scintilla di luce che rende più comprensibile ogni frammento di verità e bellezza.

S’intuisce che Vito D’Elia ha preferito l’isolamento, l’operare pensoso, il lavoro appartato e febbrile, per esprimere le temperie personali. Rileggendo i suoi dati biografici si capisce come D’Elia si sia volutamente e consapevolmente tenuto “lontano” dai clamori della mondanità e abbia preso le distanze dal chiassoso chiacchiericcio modaiolo ed effimero che circonda l’attuale mondo dell’arte, che alimenta le futili velleità di chi aspira più al riconoscimento immediato, in termini soprattutto economici, del proprio lavoro che alla reale consistenza della propria visione del mondo, quale essa sia.

Non da meno egli ha scelto, quale terreno fertile su cui far germinare la metrica del suo linguaggio poetico, la scultura fittile, che gode di una tradizione antica quanto illustre, che radica le sue origini nell’arcadia dell’arte greca e, ancor più oltre, nella profondità della civiltà mediterranea, ma che oggi è quasi caduta in disuso, tant’è negletta presso gli artefici del nostro tempo (pur facendo i soliti distinguo e pur riconoscendo qualche sporadica, seppur significativa, eccezione del caso). Non, dunque, la scultura di tradizione aulica, marmorea e monumentale, fatta “in levare” con la fatica dello scalpello che opera rumorosamente e incessantemente sulla pietra dura o sul nobile marmo, ma il modellato plastico, scelto quale mezzo più silenzioso e certamente più riflessivo per realizzare forme e composizioni che passano attraverso la paziente manipolazione dell’argilla, che diventa lavoro febbrile solo all’approssimarsi di quel tocco finale, che precede di poco la “cottura”, ultima alchimia rigenerativa del fuoco che trasforma la materia friabile dell’argilla in calda terracotta umbratile.

Dunque, scelte tecniche precise che possono apparire anacronistiche e controcorrente ma che palesano, invece, una sensibilità ed una intelligenza espressiva che si pone fuori dai canoni comuni e dalle convinzioni che regolano l’attuale panorama artistico.

E ancor più la tecnica rivela come il respiro creativo di Vito D’Elia non è afflitto dai consueti mali che contaminano tanta parte dell’arte del nostro tempo; la sua opera non si piega alle tendenze del gusto e della moda corrente, non strizza l’occhio alle soluzioni facili e d’effetto, figlie di una speculazione oratoria che ottunde l’intelligenza estetica di questa nostra civiltà speculativa. Civiltà sempre più effimera e di massa per quanto omologata su stereotipi mediatici, di comunicazione virtuale e informatizzata. Ancor meno si contamina dei germi depressivi propri di un’affabulazione nichilista, di natura antiestetica, che s’inchina all’oratoria ermetica e neghittosa dei discepoli dell’arte concettuale, povera, minimale tipico di questa confusa babele d’accenti e dialetti da “villaggio globale”.

La sua arte è sincera, il messaggio è chiaro ì, anche quando esprime il mistero, l’enigma del silenzio, che possono condurre al disorientamento, all’incomprensione. È un’arte che conduce, semmai, alla riflessione pensosa, al richiamo costante verso i canoni estetici e ai valori formali della tradizione figurativa più illustre, che trae le sue origini dal mondo classico ma che, al contempo, sa rigenerarsi bagnandosi nella linfa della modernità, nel flusso vitale che genera lo scorrere del tempo presente su quello passato. I soggetti, trattati nel vigore di un modellato plastico perentorio per quanto evidente nella definizione della forma, nascono come avulsi ad ogni facile affabulazione iconografica, contrari ad ogni forma di cinismo figurativo.

Il significato poetico si allinea sui valori e sugli esempi più illustri che hanno caratterizzato tanta parte della cultura figurativa del nostro Novecento. Su quelle pieghe di argilla cotta, sulle curve e masse plastiche, su quei rilievi di luce non meno che su gorghi generati dalle tenebre e dall’ombra passano ancora le passioni plastiche e pittoriche che animarono il purismo di Arturo Martini, i teatrini immaginifici di Fausto Melotti, le metafisiche contemplazioni di De Chirico e le visioni surreali di e stranianti di Savinio, ma anche e soprattutto la delicata fronda, venata di nostalgia e luce mediterranea del realismo magico, che impiantò la modernità sulle radici stesse del sentimento classico.

Per chi è ancora capace di “vedere”, queste di Vito D’Elia sono sculture dove il movimento della forma assume un tono potentemente evocativo, riservato entro la misura di una sospensione temporale degli eventi, dello spazio e del tempo, che mantiene in sé proprio quel carattere metafisico, classico e mediterraneo, che noi riconosciamo come storicamente e culturalmente “nostro”, dove il silenzio domina l’astrazione del gesto, dove l’evento vive nell’attesa spasmodica del suo compimento e l’accadimento entro il mistero inspiegabile della vita, enigmatici per quanto imponderabili ma, per questo, ancor più sorprendenti e misteriosi.

  • pubblicato su “Il filo di Aracne”

Sedere e potere

di Armando Polito

 

Domenica scorsa a Che tempo che fa è intervenuto il primo amministratore del nostro Paese; scrivo Paese con l’iniziale maiuscola solo perché qualcuno non pensi, anche se cambia solo l’aspetto territorial-dimensionale, che l’amministratore sia il sindaco di Nardò, con il nostro riferito solo ai miei concittadini.

Approfitto, perciò, della popolarità che questo blog si è conquistato anche oltre i confini della Terra d’Otranto per condividere una mia brevissima riflessione sull’ultima performance di colui che viene considerato un mago della comunicazione, affermando preliminarmente, senza mezzi termini,  che ci sono i maghi perché ci sono i creduloni.

Egli non può fare a meno di ricorrere ogni volta al gioco di parola che, riconosciamolo, fa il suo bell’effetto su chi ascolta, e suscita tanta, tanta simpatia, tant’è che Crozza, per quanto bravo, non poteva fare a meno di non stigmatizzare questo dettaglio nelle sue imitazioni.

Questa volta, dopo l’incidente di cultura umanista per cultura umanistica (nel corso dell’illustrazione dei punti cardinali della sua Buona scuola!) il nostro ha affermato che Potere è un verbo, non un sostantivo!

Ora non si pensi che questa sorta di ripasso grammaticale sia nelle intenzioni la compensazione parziale ed autorevole dei danni culturali che la Buona scuola sta producendo, completando, per la verità, un’operazione iniziata qualche decennio fa. Chi conosce la grammatica sarà rimasto sbalordito dalla banalità dell’affermazione e chi non la conosce sarà rimasto solamente sbalordito e si sarà precipitato ad annotarla in attesa di fare un figurone  sfruttandola su Facebook …

A qualche conoscitore della grammatica, però, sarà sfuggito il probabile (sottolineo probabile …) significato profondo della frase, giocato sul fatto che il sostantivo prevede solo il genere ed il numero, mentre il verbo, oltre al tempo ed al modo, anche le persone. La frase, perciò, sottenderebbe uno slancio democratico, anche se, come al solito, arriviamo in ritardo, essendo un ricalco del Yes We Can di Obama …

Non voglio minimamente perdere tempo con la reale o presunta democraticità dello slancio e mi avvio a concludere.

Va ricordato che potere, come qualsiasi altro verbo, può assumere un valore sostantivato se preceduto dall’articolo, ma il presunto significato profondo della frase andrebbe riconosciuto concretamente (prima di tutto a livello legislativo, cominciando dalla famigerata riforma della Costituzione) anche a sedere. Ma sedere, come verbo è riservato a pochi (fra poco manco eletti …) dalle chiappe dorate e che abbandonano una poltrona solo per assidersi su un’altra più prestigiosa; e sempre sedere, però come sostantivo, vale, invece, per tutti gli altri accomunati da un destino riassumibile in una metafora tanto amara da far rimpiangere anche l’immagine pornografica da cui ha avuto origine …

P. S. Qualcuno potrebbe osservare che il titolo poteva essere Potere e sedere. Già, ma anche io debbo tutelare i miei interessi (?): con l’antipolitica galoppante, chi sarebbe andato a leggere oltre? Sedere, invece …

Musei di Puglia| Convegno Internazionale di Studi dedicato ad Antonio Cassiano

La fitta presenza di musei su tutto il territorio pugliese, alcuni di nuova istituzione, impone una riflessione su numerosi problemi di gestione e di dialogo col territorio, oltre che di rapporti con il mondo della ricerca, con le imprese, con i giovani laureati e con il turismo. Si avverte la necessità di un coordinamento e di una risposta alle nuove esigenze di fruizione, ma al tempo stesso la necessità di individuare e preservare i valori irrinunciabili della storia.
Per affrontare queste tematiche e discutere sulla “Identità, ruolo, mission e gestione dei musei della Puglia, nel confronto con la realtà italiana ed europea, in vista della creazione del sistema museale regionale” si terrà il Convegno Internazionale di Studi dedicato ad Antonio Cassiano, Direttore del Museo provinciale “Sigismondo Castromediano”.
La giornate di studi si apriranno a Bari il 17 novembre dalle ore 09.30 presso la sede della Fondazione Puglia (Via Venezia 13, Bari) e si chiuderanno a Lecce il giorno seguente, 18 novembre, presso  l’Auditorium del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” con l’inizio dei lavori dalle ore 09.00.
Qui potete scaricare la locandina con il programma:

 

 

rape

di Massimo Vaglio

Le “Rape salentine” (Brassica rapa subsp. sylvestris var. esculenta), omologhe delle baresi “Cime di Rapa”, gustose rappresentanti della famiglia delle Brassicaceae o Crociferae, costituiscono una specialità orticola pressoché esclusivamente italiana e in particolare meridionale. Infatti, le sue numerose varietà orticole vengono coltivate in Puglia e in Campania, seguite a distanza il Lazio, ove la loro odierna e piuttosto ampia diffusione, discende da una più recente contaminazione culturale.

Questi gustosi ortaggi rientrano infatti nella schiera di quei prodotti con più forte connotazione identitaria, sono evidentemente, una di quelle specialità di cui gli emigranti soffrono maggiormente la mancanza, ragion per cui le cime di rapa vengono coltivate anche in numerosi distretti statunitensi e australiani ove è maggiore la presenza di datate comunità italiane.

Allo stesso modo, le comunità salentine presenti in Germania e Svizzera se le fanno puntualmente recapitare a mezzo corriere, insieme al Negroamaro ai lampascioni e al caffè Quarta, una predilezione che diviene quasi una dipendenza e che non conosce differenze di ceto, se è vero, come è vero, che persino il segretario del partito fascista Achille Starace non mancava mai di farsele recapitare in quel di Roma e le faceva puntualmente coltivare persino nel giardino della sua dimora romana.

Non se ne conosce l’origine, comunque, senza paura di essere tacciati di campanilismo, possiamo affermare che le selezioni effettuate dall’orticoltore salentino hanno fatto raggiungere a questo ortaggio una perfezione mai eguagliata in altri contesti. La Cima di rapa, è una pianta di origine ignota ma certamente mediterranea che si differenzia dalla rapa comunemente detta per il ciclo annuale e la radice fittonante non ingrossata. All’inizio si sviluppa una rosetta di foglie allungate provviste di picciolo, irregolarmente lobate e dentate, glabre o poco pelose. Dopo un breve periodo di tempo variabile a seconda della precocità della cultivar emette uno scapo fiorale carnoso e molto ramificato con i racemi ossia le infiorescenze serrate, ombrelliformi che vengono raccolte prima dell’apertura dei fiori che sono di colore giallo oro. L’attitudine al ricaccio permette di fare più raccolte nel corso del ciclo.

I fiori e la biologia fiorale, sono simili a quelli della rapa vera e propria (Brassica rapa subsp. Rapa), da cui la nostra potrebbe essere stata derivata. Infatti, la rapa propriamente detta, è un ortaggio originario del nord Europa, di cui, come è noto, viene utilizzata la radice globosa, in genere di colore biancastro o a seconda delle varietà, che sono svariate, più o meno variegata di rosso, la polpa di colore bianca o giallognola è croccante e di gusto dolciastro, la sua presenza è di rigore nella classica giardiniera e nelle cosiddette insalatine capricciose.

Vengono estirpate in diversi periodi dell’anno, ma essendo molto resistenti al freddo nelle zone di produzione costituiscono un tipico ortaggio vernino. Vennero introdotte nella penisola dai Romani, e per la loro facile e produttiva coltivazione, divennero, secondo quanto riportato dallo storico Plinio, il terzo prodotto in assoluto più coltivato dopo il frumento e la vite, nonché elemento base della dieta, utilizzato, però come alimento dozzinale, destinato soprattutto all’alimentazione degli schiavi, dei ceti meno abbienti e come foraggio per il bestiame. Dobbiamo aspettare il Medioevo perché questo ortaggio venga, per così dire, riabilitato per merito di presunte proprietà afrodisiache, ed essere così finalmente universalmente accettato e ammannito anche sulle tavole dei nobili.

Probabilmente, per quanto riguarda la Puglia, il consumo di queste rape, alimento principe dei popoli nordici, ovvero dei cosiddetti barbari, suonava un po’ come abdicazione della cultura locale, di nobile derivazione magnogreca, all’imbarbarimento, ragion per cui, forse anche un po’ inconsapevolmente, fu iniziata una progressiva opera di selezione, tendente ad ottenere un incremento della parte aerea di queste piante a scapito della porzione sotterranea.

Si era così iniziata, la selezione della “Rapacàula”, ossia di una rapa con caratteri più tendenti verso il congenere cavolo che verso quelli della progenitrice rapa. A testimonianza di ciò, anello intermedio di questa lunga opera di selezione è rimasta la cosiddetta “Rapestre”, “Lapistra” o “Rapa ti Massaria” , un’ antica varietà di cima di rapa, un tempo intensamente coltivata nel Salento e oggi sul filo dell’estinzione, che presenta appunto la radice ingrossata, e per tale ragione, sino ad un recente passato veniva intensamente coltivata presso tutte le masserie ad indirizzo zootecnico con il duplice scopo di fornire alimento agli uomini tramite la parte aerea e foraggio per il bestiame attraverso le grosse e appetite radici.

Le varietà orticole, o più propriamente gli ecotipi, ricordano nella denominazione le località ove sono stati selezionati, oppure ove sono oggetto di coltivazione: Cima di rapa Cassanese, Rapa Riccia di San Marzano, Rapacàula di Galatina, oppure la lunghezza del ciclo vegetativo (Quarantina, Sessantina, Novantina, Natalina, Marzatica) oppure ancora derivano dalla combinazioni tra i due caratteri (Quarantina di Otranto, Novantina di Nardò, Tardiva di Fasano, Aprile di Carovigno).

Le varietà precoci impiegano 80 giorni dalla semina alla fioritura (es. Quarantina) quelle più tardive (es. Cima di rapa di aprile, Maggiaiola di Sala Consilina) 190-200 giorni. L’altezza della pianta è di norma proporzionale alla lunghezza del ciclo di crescita: le popolazioni precoci sono generalmente di taglia bassa mentre le tardive sono un po’ più alte.

Questo umile ortaggio non richiede grandi cure e non richiede terreni particolarmente fertili e profondi, è infatti una di quelle colture poco esigenti che un tempo venivano classificate come: “uertu te chiesura” onde distinguerle da colture più esigenti cui dovevano essere destinate le “ciardine” ossia i fertili, e sovente irrigui orti suburbani. Per cui, qualunque campo, anche se costituito da terreno poco profondo e ricco di scheletro, purché ben drenato ovvero non soggetto a ristagni idrici e blandamente concimato si presta proficuamente a questa coltura. Si semina a partire dall’estate, a spaglio, direttamente in pieno campo, oppure si trapiantano le piantine prodotte in appositi semenzai approntati sempre in estate o all’inizio dell’autunno.

Nel Salento, tale incombenza viene ricordata da un antico detto:

Male, a queddhra rapa ca ti acostu nu n’è nata,

e ci no è nata, armenu cu si troa siminata

Il trapianto lo si esegue generalmente alla distanza di 30 cm tra le file e 30 cm sulla fila, mettendo così a dimora circa 11 piante per metro quadrato. La pianta nella prima fase vegetativa emette una rosetta basale di foglie, mentre in fase riproduttiva sviluppa steli terminanti in infiorescenze tenere e carnose. La raccolta è scalare, e si esegue a seconda della precocità e della lunghezza del ciclo dell’ecotipo, a partire dall’autunno, oppure, può iniziare in inverno o nella successiva primavera e si esegue recidendo le infiorescenze con lo stelo fino all’inserzione delle infiorescenze laterali, con tutte le foglie annesse.

L’apertura dei fiori, che può essere accelerata da un andamento climatico mite o influenzato dalla prevalenza di venti sciroccali, deprezza notevolmente la qualità del prodotto, che viene in questo caso scarsamente apprezzato. La succitata attitudine al ricaccio, permette di fare più raccolte nel corso del ciclo, sempre che, non ostacolata da un andamento climatico fortemente umido o piovoso che può provocare la marcescenza delle piante.

La Rapacàula salentina, ha mediamente un basso valore calorico, 25 kcal su 100 g. La sua composizione chimica media presenta circa il 92% di acqua, 2,9% di proteine, 0,3% di lipidi, 2% di carboidrati e 2,9% di fibra, è ricca di ferro, calcio, fosforo, vitamina C, A, B2, possiede un buon contenuto di polifenoli ed è un naturale disintossicante per l’organismo e infine, importanti studi la accreditano come potenziale coadiuvante nelle cure anticancro.

 

Rape ‘nfucate

Mondate le cime di rapa, asportando la parte più dura e fibrosa, fate imbiondire leggermente due spicchi d’aglio in una casseruola con olio di frantoio ed unite le cimette ben mondate e lavate, salate, coprite e abbassate la fiamma in modo che queste cuociano, per quanto possibile, “con la loro stessa acqua”, aggiungendo solo se occorre qualche mestolo d’acqua; potrete ottenere un gusto piccante aggiungendo del peperoncino. Se vorrete invece ottenere un gusto meno marcato potrete lessare precedentemente le cime di rapa sino a metà cottura.

 

Pane cuèttu cu li rape

Questo antico piatto pastorale, ha come la più nota, acqua e sale inequivocabilmente una stretta analogia con lo spagnolo gazpacho, un altro probabile retaggio quindi della lunga denominazione spagnola, anche se è difficile uscire dal campo delle ipotesi. E’ una cosa certa invece che questa minestra di pane ha costituito da tempo immemorabile il principale piatto invernale per i pastori e i braccianti durante la loro permanenza nelle masserie, lontano dalle proprie case, proprio come per i loro omologhi spagnoli appunto il gazpacho . La versione base era costituita da pane, acqua e olio, ma a seconda della stagione rientravano nella sua preparazione gli ingredienti più vari: ortaggi, verdure, erbe spontanee e oggi si contano decine di varianti, alcune delle quali prevedono anche l’inserimento di uova. Il tipo di pane occorrente è naturalmente quello salentino di grano duro, che deve essere piuttosto raffermo. Mettete in una pentola poco più di mezzo litro di acqua per commensale, quindi, sempre per ogni porzione, mezza cipolla, qualche oliva nera e una manciata di cime di rapa, completate con peperoncino, qualche foglia di alloro e un giro di ottimo olio di frantoio, salate, portate ad ebollizione e lasciate cuocere il tutto per una ventina di minuti. Ponete le fette di pane rappreso in singoli piatti fondi, versatevi sopra questo rustico saporito brodo con tutte le verdure, completate con un altro filo d’olio e coprite con un altro piatto. Lasciate riposare per qualche minuto prima di consumare.

 

Scarfatu

Questo nutriente quanto gustoso piatto costituiva sin ad un paio di generazioni fa la colazione quotidiana per i contadini salentini, veniva velocemente preparato tutte le mattine utilizzando i le rimanenze di legumi e di verdure dei pasti principali del giorno precedente. Mettete a bagno la sera prima i ceci e fagioli. Accomodateli in una pignatta di terra cotta, copriteli d’acqua fredda e cuoceteli possibilmente al fuoco del camino. Aggiungere altra acqua calda durante la cottura perché i legumi devono rimanere sempre coperti. A metà cottura schiumate e aggiungere sedano, pomodori, alloro, cipolla o cipollotti, olio extravergine d’oliva e aggiustate di sale. Nel frattempo, mondate, lavate le rape e lessatele a parte. Completata la cottura dei legumi, aggiungete le rape lessate ed infine “dei tocchetti di pane salentino di grano duro raffermo o di pane raffermo fritto dorato in olio di frantoio. Portate il tutto nuovamente a bollore e, trascorsi una decina di minuti, servite.

 

Orecchiette con le cime di rapa

Per sei porzioni occorrono mezzo chilo di orecchiette ed un chilo di cime di rapa al netto degli scarti.

Mettete abbondante acqua in una capace pentola e quando arriva a bollore calate le cime di rapa e salate; quando queste saranno a metà cottura calate le orecchiette. Nel frattempo mettete ad imbiondire in una padellina 3-4 spicchi d’aglio in un bicchiere scarso d’olio extra vergine d’oliva e non appena questi saranno imbionditi spegnete la fiamma e aggiungete 4-5 acciughe sotto sale diliscate. Scolate le orecchiette con le rape ponetele in una zuppiere e versatevi sopra il contenuto della padellina, mescolate bene, e servite. A piacere potrete aggiungere pepe o peperoncino

Diego Tafuro da Lequile (XVII secolo): un frate fra santi, prìncipi e parole (1/3).

di Armando Polito

Alla fine saranno chiare, almeno lo spero, le motivazioni che mi hanno indotto alla composizione del titolo di questo post in cui non ho fatto mancare nulla, nemmeno l’accento su prìncipi. Tuttavia è proprio dalle parole che voglio iniziare, e lo faccio con la massima latina attribuita a Catone il censore (III-II secolo a. C.) rem tene, verba sequentur (conosci l’argomento, le parole seguiranno!). A distanza di più di un secolo Cicerone esprimerà un concetto analogo (De oratore, III, 125): Rerum enim copia verborum copiam gignit (infatti la ricchezza degli argomenti genera quella delle parole). Pur essendo un nemico dichiarato dell’ipse dixit, questa volta, dopo le perplessità di natura pratica, non ideale,  espresse in un altro post sull’altra massima ciceroniana relativa alla storia maestra di vita (una volta tanto non riporto il link; chi ha interesse sfrutti il motore interno di ricerca), debbo dire che io non sto né con Catone né con Cicerone ma con l’ipse, che, poi, è il più vecchio. Il suo pensiero sull’argomento (Retorica, III, 1) si può sintetizzare così: la conoscenza dell’argomento dev’essere supportato dall’abilità nell’esporlo; in altri termini: la parlantina, la dialettica, l’arguzia sono elementi fondamentali per esaltare la propria conoscenza di un argomento e renderne partecipi gli altri, prima di convincerli …. L’ideale sarebbe possedere l’una (conoscenza) e l’altra (abilità espositiva), ma non sempre è così, anzi, quasi mai e in questi casi la forma asfalta (per usare un termine di moda in questi ultimi tempi) la sostanza. Basti pensare all’esito dei recenti duelli tra costituzionalisti di chiara fama e politici rampanti che riescono, con un semplice gioco di parola, ad essere anche arrapanti nei confronti di una popolazione avviata da tempo sulla strada che porta all’ignoranza totale. Lo stesso vale per certi autori dalla produzione sterminata, autori di ogni tempo, dei quali propiro il tempo è stato sempre (e lo stesso vale per gli incantatori di folle) il giudice inesorabile. Era indispensabile che io facessi questa breve premessa perché fosse progressivamente più nitida la conoscenza che oggi faremo insieme del frate del titolo.

Biografia ed opere

Il primo passo nell’approccio ad un autore consiste nel fornire essenziali note biografiche e, per chi ha interessi e capacità di pura divulgazione, compilare una scheda con un adeguato copia-incolla dai testi più disparati, si spera affidabili. Nel nostro caso vano sarebbe cercare notizie sul nostro nelle opere di prima, fondamentale consultazione in casi del genere: nulla di nulla si trova in Domenico De Angelis (Le vite de’ letterati salentini (parte prima, s. n. Firenze, 1710; parte seconda, Raillard, Napoli, 1713)  né in Giovanni Bernardino Tafuri (Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli , Mosca, Napoli, 1744-1770) né nei 15 volumi della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, usciti per i tipi di Gervasi a Napoli dal 1814 al 1830.

Al momento, a quanto ne so, la biografia più completa di Diego Tafuro è quella di Giambattista Lezzi. Fa parte, insieme con altre vite di letterati salentini, del manoscritto autografo  ms D/5 custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. Chiunque può avere informazioni sul documento all’indirizzo http://www.europeana.eu/portal/it/record/2048088/CNMD0000209711.html?q=giambattista+lezzi

e leggerlo nella versione digitale all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209711.html?q=giambattista+lezzi.

Sul Lezzi ed il De Leo segnalo: http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Brundisii%20Res/1971/Articoli/Giovanni%20Battista%20Lezzi%20Primo%20Bibliotecario%20della%20De%20Leo%20e%20Biografo%20Salentino.pdf.

Nel manoscritto la biografia del nostro va da p. 507 a p. 510. Ogni pagina comprende due colonne di scrittura, una di pugno del Lezzi (all’epoca bibliotecario della biblioteca arcivescovile), l’altra con le integrazioni di pugno del De Leo (fondatore della biblioteca che porta il suo nome). Dal link prima segnalato riproduco le pagine che ci interessano facendo seguire volta per volta ad ogni pagina originale la mia trascrizione, occasione che ho sfruttato per aggiungere qualche nota.

p. 507

p. 508

p. 509

p. 510

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/25/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-23/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/30/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-33/ 

Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Particolare del ritratto di Giuliano Sangiorgi
Particolare del ritratto di Giuliano Sangiorgi

 

di Gianluca Fedele

 

La prima volta che vidi Paola Rizzo all’opera fu nel 2011 sulla “liama” della “Vinotecheria Musicale Vite”, un luogo nel centro storico di Nardò che purtroppo oggi non esiste più. La pittrice, durante un’estemporanea, dipingeva un ulivo accompagnata dalle note della canzone “Arbulu te ulie” del cantautore tugliese Mino De Santis. Conservo ancora dei bellissimi ricordi di quella serata e quando ho ritrovato Paola è stata una tra le prime cose che ci siamo raccontati. Ciò che colpisce della sua arte è la fedeltà dell’immagine, caratteristica che si esprime al massimo attraverso i ritratti realizzati con grafite; un osservatore poco attento ai dettagli infatti troverebbe veramente arduo distinguere un’opera frutto della sua maestria rispetto a un’immagine fotografica.

Anche se piena di impegni l’artista mi concede volentieri un paio d’ore di un sabato mattina e quando la raggiungo nella sua abitazione immersa nelle campagne di Sannicola (LE) è divertente scoprire che aveva completamente scordato il nostro appuntamento. Ad accogliermi ci sono tre cucciolotti vivaci che ci terranno compagnia durante tutta la chiacchierata.

 

D.:

Guardandomi intorno vedo finalmente dal vivo le opere che avevo potuto apprezzare solo sul web. Mi stupisce la varietà degli stili e della tecnica, indice di una elevata capacità espressiva: da quanto tempo dipingi?

 

R.:

Le mie prime e precoci attrazioni nei confronti della grafica risalgono ai tempi delle scuole elementari. Ricordo che all’epoca omaggiai una mia insegnante regalandole un intero blocco di disegni; a quei tempi disegnavo perlopiù il mondo nel quale ogni bimba di quell’età ama immergersi, abitato naturalmente dalle beniamine dei cartoni animati. Nel percorso scolastico ho poi incoraggiato questa propensione per il disegno frequentando il liceo artistico, nonostante mio padre non fosse particolarmente felice della scelta che mi avviavo a compiere; anche perché comportava il doversi spostare da Galatina, la mia città, a Lecce per studiare. A convincerlo ci pensò un nostro parente che, dopo aver visto un mio dipinto, lo esortò a tal punto da farlo cedere. Dopo il diploma ho proseguito intraprendendo l’Accademia delle Belle Arti, sempre a Lecce. Successivamente ho approfondito la mia esperienza con il restauro e da poco mi sono catapultata anche nel settore del make up che in questo momento mi completa artisticamente.

Omaggio ad Adolphe Sax
Omaggio ad Adolphe Sax

 

D.:

A proposito di make up, ho visto che collabori spesso nei set cinematografici: dov’è che si trova il punto di congiunzione tra le polveri del trucco sulla pelle e la grafite sul foglio di carta?

 

R.:

Si, sono stata su importanti set di cortometraggi, shooting fotografici, spot, quelli dei videoclip sono la mia passione, soprattutto quando incontrano il mio stesso gusto musicale. Paolo Conte, Carmen Consoli, Eros Ramazzotti, Daniele Silvestri, Carolina Marquez, Sud Sound System, Boomdabash e J-Ax per citarne alcuni. Iniziamo col dire che personalmente considero il make up al pari di una qualsiasi altra forma d’arte e che per essere make up artist è certamente necessario possedere una non trascurabile manualità tecnica e conoscenza dell’anatomia umana. L’interesse per questa nuova attività è stato quasi fisiologico, oltre che voluto, poiché da sempre nutro una profonda attrazione nei confronti dei volti, oggetto di tante mie opere, per cui ora che mi trovo a utilizzare la pelle come supporto vivente del disegno, si è concretizzata ancora di più questa sinergia.

C’è da aggiungere anche un altro aspetto, che è quello prettamente legato al mio percorso di studi, in quanto la conoscenza delle tecniche di lavorazione della creta, acquisita già ai tempi del liceo, mi ha consentito di perfezionare abilità manuali necessarie al fine di operare anche con prodotti del make up per gli effetti speciali.

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D.:

Sempre sfogliando il tuo profilo Facebook mi è capitato di osservare diverse fotografie di te all’opera in set di film d’azione o horror, intenta nel ricreare ferite e lacerazioni: c’è una predisposizione da parte tua per questi generi?

 

R.:

Assolutamente no! Non riesco nemmeno a vederli i film dell’orrore. Io poi ho una grande paura del sangue e per un taglio mi è anche capitato di svenire, figuriamoci. Però sul set so scindere bene la realtà dalla finzione e quando riproduco un taglio alla trachea o il foro di un proiettile, nonostante mi impegni a rendere l’effetto conclusivo assai realistico, non ho alcuna impressione perché so bene di cosa è fatto.

Gianluca Fedele e Paola Rizzo
Gianluca Fedele e Paola Rizzo

 

D.:

Ora vorrei che mi parlassi degli ulivi, anch’essi importantissimi soggetti della tua produzione: da dove scaturisce il bisogno di dipingerli?

 

R.:

Per ben quindici anni ho dipinto tele che avevano come protagonisti indiscussi gli alberi d’ulivo. Una dipendenza quasi ancestrale tra me e quest’albero considerato da molti un nume tutelare del luogo. Ho visto nell’albero d’ulivo un soggetto nel quale io stessa mi sono spesso identificata.

Tocchi di pennelli sulla tela e gli ulivi in campi di natura isolati, in cammino a passo lento, sospesi in volo, in abbandono, vittoriosi dopo una lunga battaglia. C’è un legame intimo con questa pianta ed è quel forte richiamo che amo assecondare.

Ricordo che da bambina adoravo trascorrere del tempo arrampicata sui rami più alti di questi autorevoli padroni delle nostre campagne, forse per quello resta il sogno di possedere una casa sull’albero.

Ho percorso un quindicinale con accanto questo amabile compagno, l’ulivo. Con esso sono cambiate varie stagioni creative, senza tralasciare neppure l’interminabile parentesi legata al fenomeno della xylella che, come tutti, non mi ha assolutamente colta indifferente.

Forse ho già detto tutto, forse è solo una pausa, forse sono in piena profonda crisi d’identità, fatto sta che mi sono fermata con questa produzione. Le mie energie sono convogliate nel campo del trucco, del cinema e degli effetti speciali. Sono appagata.

 

D.:

Ritieni che la tua capacità di riprodurre fedelmente volti e figure sia una dote anacronistica al giorno d’oggi, in un’epoca nella quale la duplicazione delle immagini è facilitata dalla diffusione della tecnologia?

 

R.:

No, assolutamente. Molti artisti, anche famosi, lo fanno. Credo che ogni artista debba esprimere il proprio pensiero attraverso il mezzo che gli viene più congeniale. Personalmente sperimento tanto e ho attraversato anche momenti di grafica informale , ma è col figurativo che do il meglio di me.

Grafite è Musica. Ritratto matita su carta di Nandu Popu
Grafite è Musica. Ritratto matita su carta di Nandu Popu

D.:

Quali sono gli artisti che ti hanno ispirata?

 

R.:

Sarò controtendenza ma penso di essere stata ispirata da artisti musicali più che di altro genere.

In ogni caso, tutta la storia dell’arte è fonte di ispirazione, sicuramente Giovanni Segantini e le sue opere mi hanno influenzata per certo periodo, benché la mia tecnica differisca completamente dalla sua.

Un artista che mi lascia a bocca aperta è Roberto Ferri, profondamente ispirato dai pittori del barocco, in particolare Caravaggio, ed altri antichi maestri del Romanticismo, dell’Accademismo e del Simbolismo, quali: David, Ingres, Girodet, Gericault, Gleyre, Bouguereau, Moreau, Redon, Rops, ed altri. Un contemporaneo capace di dimostrare che, persino al giorno d’oggi, il figurativo guidato dalla mano di un genio è sempre vincente.

 

D.:

In che modo la musica contagia la tua arte?

 

R.:

La musica sfiora l’anima ed è questo il presupposto da cui bisogna partire. Un compositore che non mi stanco mai di ascoltare, ad esempio, è Ludovico Einaudi al quale ho anche realizzato un ritratto che ora è in suo possesso. Come con lui, ho lasciato traccia di grafite nelle abitazioni di artisti di fama internazionale come Bay-C, Giuliano Sangiorgi, Terron Fabio. Mi lascio accarezzare i sensi da qualsiasi genere musicale: da Chopin ai Pink Floyd, senza alcuna discriminazione.

Gli artisti che vedi ritratti gli incontrati personalmente e con loro ho innanzitutto stabilito un contatto. Il primo ad essere ritratto fu Terron Fabio, da quella commissione la mia matita non ha smesso di tracciare su carta l’anima di questi artisti. Poi fu la volta di Giuliano Sangiorgi che volevo conoscere assolutamente, Caparezza, Luca Aquino e Nandu Popu dei Sud Sound System e tanti altri.

Volti come quello di Nandu Popu, mi hanno particolarmente ispirata e appassionata in quanto sul suo viso leggo la stessa forza di un albero di ulivo; non a caso da anni si batte come me e tanti altri nella tutela di questo albero che è natura vivente e non morta.

E’ divertente ascoltare i commenti, durante le mostre, degli spettatori che leggono nei tratti della mia grafite l’anima nel soggetto ritratto.

Un’opera invece che per le dimensioni mi ha portata ad avere un approccio ancora più intimo con la grafite plasmandola con i polpastrelli delle dita, consumandoli quasi, è quella concepita ed esposta a Lecce nella splendida cornice dell’accademia delle belle arti nel 2014 e ispirata ad Adolphe Sax: un sassofono e le mani dell’artista in atto di pigiar tasti per creare musica. Un enorme manifesto di chiaroscuri dalle dimensioni 200 x 150.

Nella stessa occasione Attilio Berni esponeva alcuni pezzi della sua più grande e importante collezione di sassofoni al mondo nella mostra Saxophobia.

 

D.:

Ti segue qualche galleria d’arte?

 

R.:

Francamente non ho dei rapporti particolarmente idilliaci con i galleristi e critici d’arte anzi, posso raccontare di un’esperienza con un noto truffatore che fingendosi critico mi ha sottratto due opere e del denaro.

So comunque che il successo di un artista e la sua notorietà passano anche attraverso quei meccanismi di commercio ma per il momento non sono predisposta per questo tipo di scelta e dunque dipingo soltanto per me stessa.

 

D.:

Oltre agli ulivi e ai ritratti ci sono altri soggetti ai quali ti ispiri o altre tematiche?

 

R.:

Mi è capitato di realizzare su commissione dei dipinti di arte sacra.

 

D.:

E tu sei credente?

 

R.:

Sono credente. Esistono vicende della vita in cui ho percepito la presenza di qualcuno che c’è sempre accanto a noi. Quella voce è presenza eterea che ci guida e ci sorregge nel duro cammino che è la vita. Non sono una praticante ma credo che gli angeli esistano. L’ho dipinto il mio Angelo Custode, inconsciamente ma l’ho dipinto.

Vi racconto un piccolo aneddoto: avevo realizzato un dipinto raffigurante la figura di un angelo il quale era improvvisamente scaturito da una esigenza intima e profonda, non da una commissione. Era un esperimento, si è rivelato essere un segnate tangibile e un messaggio di luce d’anima. Ho infatti scoperto durante la sua esecuzione di avere un carcinoma al seno. Dopo essere rientrata da Modena, a seguito dell’operazione – la prima e mi auguro l’ultima della mia vita – ho avuto modo di rimanere a tu per tu col mio dipinto ed è stato in quel momento che ho notato con meraviglia che la mia tavolozza di colori si era arricchita di una tonalità mai mescolata prima: lo sfondo verde che non avevo mai usato prima, aveva lo stesso tono dei camici indossati dai medici nella sala operatoria. La sua mano era posata sul seno destro corrispondente al seno operato.

Credo che se non fossi stata guidata da una mano angelica forse non avrei mai scoperto lo strano nodulo e di conseguenza non sarei qui a parlarne.

Le dita erano aperte sul numero tre, come a simboleggiare la mia età, trent’anni appena compiuti.

È rimasto incompiuto per molto tempo, l’ho ultimato qualche anno dopo e ora è luce d’anima. Non ho avuto bisogno di altri segnali.

 

D.:

Credi sia utile fare arte oggi?

 

R.:

L’arte è un potente mezzo espressivo. La storia dell’arte ci insegna come grandi artisti hanno denunciato la realtà mediante espressione artistica. Ma quella la ritengo una missione per pochi. Allo stato attuale, attraverso un periodo di confusione, dovuta alla mancanza di certezze e le tendenze della società mi destabilizzano. Il senso di impotenza di fronte ai poteri forti, padroni della comunicazione e di ogni mercato, rende il mio disagio insopportabile e per questa ragione faccio arte solo per me stessa, senza ipotesi né aspettative altrui.

 

D.:

L’essere donna secondo te indebolisce il messaggio che tenti di lanciare?

 

R.:

Sicuramente non sono agevolata in questo ma non demordo. È proprio attraverso l’arte che voglio riscattare la figura della donna. Ricordo che quando ero a Noha (LE), il paesino nel quale ho avuto per quindici anni il mio primo atelier di pittura, in molti mi scrutavano con aria perplessa e ironica, non riuscendo a comprendere il senso del mio lavoro. Soltanto ora che sono andata via forse qualcuno mi rimpiange.

L'Infinito - Olio su tela
L’Infinito – Olio su tela

 

D.:

Cosa dovrebbe accadere perché tu riacquistassi fiducia nel mondo?

 

R.:

Ci vorrebbe un miracolo! Un mondo senza il male.

Consapevole che questo sia un irraggiungibile sogno traggo fiducia e forza da ciò che mi fa vivere serenamente. Mi accontento di continuare a fare arte.

Amo questa casa nel bosco e non mi faccio mancare l’affetto dei miei cari, dei nipoti, degli amici veri e degli amici a quattro zampe. Per ora tutto in solitudine.

L’amore che aspetto e che tarda ad arrivare troverà in ogni caso una donna forte che ama la vita e la natura.

 

Pubblicato su “Il delfino e la mezzaluna” n°4-5 (2016)

Il Salento e il Vesuvio: una poesia di Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce.

di Armando Polito

Il grande Vico ci ha insegnato che la storia si ripete, ma ogni volta  lo schema, collaudato da millenni e che fa della massima ciceroniana historia magistra vitae etc. un’utopia bellissima, presenta dettagli nuovi. Per esempio: la fuga dei cervelli non è un fenomeno che si nota ora per la prima volta; solo che il trascorrere del tempo, con le sue implicazioni di ogni tipo, in primis quelle politico-amministrative, ha fatto sì che il fenomeno attualmente riguardi tutti i cervelli della penisola, mentre in passato (sono coinvolti nella fattispecie i secoli XVI-XVIII) esso coinvolgeva  solo quelli dell’estremo sud costretti a trasferirsi a Napoli o a Roma, per vedere il loro talento emergere, essere riconosciuto e valorizzato. In particolare la schiera  dei salentini  che a Napoli fecero fortuna e che, grazie alla loro coraggiosa scelta (non è mai facile allontanarsi dagli affetti natii), non sono rimasti anonimi ma si sono mostrati personaggi di spicco nella cultura del tempo, è corposissima e di più di uno ho avuto occasione di trattare su questo blog. Prendendo in considerazione Napoli è risaputo che la città si identifica ancora oggi nel mondo con la triade Vesuvio, pizza e mandolino. Sarò banale, ma ho citato tre ingredienti del corteggiamento amoroso di un tempo, cioé i tre elementi che potevano dare un aiutone nel fare breccia in un cuore e, almeno per i maschi, non solo in quello … La vita frenetica di oggi ci costringe a non perdere tempo nemmeno in questo tipo di conquista e così si tende subito, da una parte e dall’altra, a passare subito al dunque (non c’è bisogno di dare definizione dettagliata  del valore sostantivato di questo che nativamente è un avverbio …), saltando la contemplazione di un elemento esterno accattivante (qui leggi Vesuvio, ma può essere un tramonto, una scogliera, un albero, un animale perfino un sasso …) prima, la classica cena a lume di candela (leggi pizza) poi e, infine,   la culla sensuale e preludente di un ballo lento (leggi mandolino).

Non fa perciò meraviglia che il Vesuvio costituisse nella letteratura amorosa1 del passato un topos, metafora quasi fatale di un cuore innamorato. Questa condizione mette a dura prova la caratteristica fondamentale di qualsiasi opera d’arte, cioé l’originalità e nel nostro caso in particolare non si può sfuggire, neppure volendolo, a quella che sembra una scelta obbligata, cioé l’utilizzo, tra tante figure retoriche, della similitudine. Così nella produzione poetica amorosa che utilizza quest’immagine non è dato cogliere, a mio avviso, nulla di particolarmente caratterizzante, se non qualche guizzo formale, soprattutto, e non poteva essere altrimenti, in quella di epoca barocca.

E proprio a tale periodo risale la poesia di oggi, quella di un salentino di cui mi sono ripetutamente già occupato su questo blog (segnalo un solo link, il più recente, dal quale si potrà risalire agli altri: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/31/pellegrino-scardino-san-cesario-lecce-la-tarantata/).

La riporto da Peregrini Scardini epigrammatum centuria, Vitale, Napoli, 1603; a fronte la mia traduzione e in calce qualche nota di commento.

In cinque distici elegiaci si consuma la celebrazione di un amore forse non corrisposto (ma lo si può immaginare pure semplicemente lontano) con la consueta similitudine iniziale che nel suo sviluppo si rivela immediatamente per contrapposizione e che alla fine passa da un sentimento di partecipe fratellanza a quello di una dichiarata invidia. L’unico guizzo formale (un vero e proprio gioco di parole) sarebbe potuto essere plagis, dativo plurale di plaga. Se il fascino della parola poetica consiste nella sua ambiguità, la migliore occasione a tale scopo è offerta dagli omofoni (per i non addetti ai lavori: parole che hanno la stessa forma ma significato ed etimo diversi). Di plaga in latino ne abbiamo ben tre: uno significa colpo, percossa, l’altro zona, regione, l’ultimo rete, laccio. Anche il meno dotato di fantasia comprende come i concetti di colpo  e di laccio ben si adattino a quello di amore (basta pensare a colpo di fulmine e lacci d’amore); eppure l’autore sembra essersi negato  questa possibilità accoppiando plagis con l’aggettivo superis  in una locuzione che inequivocabilmente nell’uso comune (attenzione a comune!) assume sempre il significato che in traduzione sono stato costretto a privilegiare (parallelo al sublimis nubibus riferito al vulcano), nonostante per l’innamorato anche uno schiaffo molto energico e qualsiasi limitazione della sua libertà  possano essere superi. Comunque,  il pregio maggiore del componimento, se non l’unico, secondo me sta proprio nella brevità; e questo mio giudizio, per quel che può valere, non equivale necessariamente ad una stroncatura …

_________

1 Per il taglio del post sono obbligato a dire qui che il vulcanismo  anche come fenomeno scientifico non fu estraneo alla cultura salentina, in particolare neretina,  anche se quest’ultima con riferimento  alla zona dei Campi Flegrei (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/26/marco-antonio-delli-falconi-di-nardo-tiene-a-battesimo-il-monte-nuovo/). E per la descrizione poetica, sempre salentina,  di un’eruzione del Vesuvio, quella devastante del 1631 (qui la metafora amorosa non c’entra), rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/.

LO STEMMA DEL PALAZZO BASILE DI FRANCAVILLA FONTANA: UN CURIOSO CASO DI ARMA PARLANTE

di Marcello Semeraro

PREMESSA

Uno degli aspetti più interessanti ricavabili dallo studio del blasone delle famiglie storiche francavillesi – notabili o nobili che siano, il confine spesso è molto labile – è lo stretto rapporto che intercorre fra araldica e antroponimia. Ci riferiamo, in particolare, a quella tipologia di armi che recano una o più figure che richiamano il nome del titolare e che gli araldisti chiamano, non a caso, parlanti. Classificarle non è facile. Grossomodo si può dire che la relazione che si stabilisce tra le figure dello scudo e il cognome può essere di tipo diretto (armi parlanti dirette), allusivo (armi parlanti allusive), oppure può articolarsi su un gioco di parole (armi parlanti per gioco di parole). Considerate dagli araldisti dell’Ancien Régime meno nobili e meno antiche, queste armi esistono in realtà sin dalla nascita dell’araldica e furono adoperate da dinastie di grande importanza.

Basti pensare ai sovrani di Castiglia e León, che a partire dalla seconda metà del XII portarono uno scudo raffigurante un castello e un leone, ai conti di Bar, che innalzarono due branzini (bar) addossanti, oppure, per restare in ambito italiano, ai Colonna (una colonna), ai Della Rovere (una rovere), ai Della Scala (una scala), ecc. L’indice di frequenza di questa categoria di armi è molto elevato, sia nell’araldica gentilizia che in quella civica. Si calcola che circa un 20% di armi medievali siano qualificabili come parlanti. Ma questa percentuale è destinata a crescere alla fine del Medioevo e in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e fra le comunità. D’altra parte, se ci pensiamo bene, l’impiego di figure parlanti è il procedimento più semplice per crearsi uno stemma.

Ma veniamo all’araldica francavillese – i cui usi, è bene ricordalo, si iscrivono nel più ampio quadro dell’araldica del Regno di Napoli – e al suo rapporto con l’antroponimia familiare. Dallo studio degli esemplari araldici di cui è disseminato il centro storico francavillese emerge chiaramente che le famiglie nobili e notabili che fecero uso di armi parlanti adoperarono varie formule per rappresentare la relazione fra le figure dello scudo e il nomen gentilizio. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede ci limitiamo a dire che il rapporto fra il significante (la figura) e il significato (il cognome) può costruirsi su una o più figure associate fra loro e svilupparsi in modo diretto (un cane per i Caniglia, ad esempio), allusivo (come nello stemma dei Carissimo, raffigurante un cuore sormontato da tre stelle) o attraverso un gioco di parole, come nel caso dello stemma oggetto di questo studio. Si tratta, comunque, di un corpus molto interessante di stemmi che ci auguriamo divenga oggetto di uno studio organico che sia in grado di offrire una visione d’insieme del fenomeno, così da valutarne meglio la portata.

 

LO STEMMA DELLA FAMIGLIA BASILE

Fra gli esempi più curiosi di armi parlanti riscontrabili nel blasone francavillese, un posto di primo piano spetta sicuramente allo scudo innalzato dalla famiglia Basile. L’insegna è scolpita al di sopra dell’elegante portale con fornice ad arco a tutto sesto che nobilità la facciata dell’omonimo palazzo (oggi di Castri) ubicato in via Roma, l’antica via Carmine (fig. 1).

Fig. 1. Francavilla Fontana, via Roma, portale d’ingresso del palazzo Basile (ora di Castri).
Fig. 1. Francavilla Fontana, via Roma, portale d’ingresso del palazzo Basile (ora di Castri).

 

La costruzione del palazzo risale alla fine del XVIII secolo, datazione che viene confermata anche dall’analisi stilistica del manufatto araldico. La composizione, di fattezze tipicamente settecentesche, reca uno scudo perale con contorno a cartoccio, timbrato da un elmo aperto, graticolato e posto in terza, ornato di svolazzi e cimato da una corona nobiliare.

Per quanto riguarda il contenuto blasonico, la composizione presenta varie figure, delle quali hanno una natura parlante che si evince solo da un’attenta analisi dell’iconografia araldica. Lo scudo raffigura, infatti, un basilisco (il mostruoso gallo serpentiforme con il corpo intriso di veleno, capace di uccidere con il solo sguardo), ardito su una pianura erbosa, tenente con la zampa destra un vaso nodrente una pianta di basilico, accompagnato nel cantone sinistro del capo da una cometa ondeggiante in sbarra e attraversato da una banda diminuita e abbassata rispetto alla sua posizione ordinaria (figg. 2, 3 e 4).

Fig. 2. Francavilla Fontana, via Roma, palazzo Basile (ora di Castri), particolare dello stemma.
Fig. 1. Francavilla Fontana, via Roma, portale d’ingresso del palazzo Basile (ora di Castri).

 

Fig. 3. Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. E’ sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). E’ il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63v.
Fig. 3. Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. E’ sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). E’ il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63v.

 

Fig. 4. Stemma parlante della famiglia Basilicò (da V. Palazzolo Gravina, Il Blasone in Sicilia, Palermo 1871-75, tav. XVIII, n° 11).
Fig. 4. Stemma parlante della famiglia Basilicò (da V. Palazzolo Gravina, Il Blasone in Sicilia, Palermo 1871-75, tav. XVIII, n° 11).

 

Come si vede dal blasone, la relazione fra le figure parlanti e il nome di famiglia è di tipo indiretto e si ottiene associando nello scudo due figure diverse che richiamano il cognome attraverso un gioco di parole (Basile/basilisco/basilico). Ma questa relazione nasconde anche una comune radice etimologica, giacché sia la forma cognominale Basile (come vedremo più avanti), sia i lemmi basilisco (gr. βασιλίσκος, lat. basiliscus, “piccolo re”) e basilico (gr. βασιλικόν, lat. basilicum, “pianta regale”) derivano da βασιλεύς (lat. basileus), nome che nell’antica Grecia designava il re. Tuttavia, questa connotazione parlante dello stemma Basile non è stata colta né dagli studiosi di storia locale che se ne sono occupati, né dagli araldisti che ne hanno fornito il blasone.

Lo storico francavillase Pietro Palumbo, ad esempio, in una pagina della sua celebre Storia di Francavilla nella quale descrive l’arma Basile, scambia erroneamente il basilisco per un “gallo coronato” e la pianta di basilico per dei “fiori”. Lo stesso dicasi per un araldista attento come Edgardo Noya di Bitetto, che nel suo Blasonario generale di Terra di Bari assegna ai Basile, nobili di Molfetta e originari di Bisceglie, uno scudo d’azzurro, al gallo d’oro, crestato e barbato di rosso, ardito su una pianura erbosa al naturale, mostruoso con la coda attorcigliata di serpe, tenente con la zampa destra un vaso d’oro, ansato con mazzo di fiori, al naturale, nudrito nel vaso; alla banda di rosso attraversante. Il blasone riportato dal Noya di Bitetto, che differisce da quello francavillese per l’assenza della cometa, ha tuttavia il merito di restituire allo stemma Basile la sua cromia originaria. Cosa non di poco conto se si pensa che, contrariamente a quanto doveva essere in origine, il manufatto scolpito sul portale d’ingresso del palazzo di via Roma si presenta oggi acromo. Assodata l’origine parlante dello stemma in esame, resta da sciogliere una questione: è stato il nome a generare l’arma o viceversa?

Benché manchi un repertorio cronologico-figurativo attraverso cui poter studiare l’origine e l’evoluzione della suddetta insegna, ci sentiamo di poter rispondere a questa domanda mettendo in campo considerazioni di natura etimologica e antroponimica.

Il gentilizio Basile è la cognominizzazione del nome Basilio, continuazione del latino Basilius – che a sua volta è l’adattamento del personale greco Βασίλειος, che propriamente significa regale – affermatosi in Italia già in epoca altomedievale soprattutto per il prestigio e il culto di San Basilio il Grande di Cesarea, vissuto nel IV secolo d.C. Essendo il nome di famiglia derivato da un nome proprio, è lecito quindi pensare che sia stato il cognome a precedere lo stemma parlante, non il contrario. Del resto l’impiego di figure parlanti era il modo più semplice che ebbe questa famiglia per dotarsi di uno stemma gentilizio.

Un analogo procedimento di trasformazione grafica del nome, d’altronde, si riscontra anche altrove, sia dentro che fuori lo scudo: la famiglia siciliana Basilicò, ad esempio, porta un vaso nodrente una pianta di basilico (fig. 4.); i napoletani Basile, un basilisco su un monte di tre cime all’italiana (fig. 6); la città di Basilea, sempre un basilisco, ma impiegato come supporto parlante all’esterno dello scudo (fig. 5).

Fig. 5. Basilisco che fa da supporto all’arma civica di Basilea. Stampa del XVI secolo, archivio personale dell’araldista Ottfried Neubecker.
Fig. 5. Basilisco che fa da supporto all’arma civica di Basilea. Stampa del XVI secolo, archivio personale dell’araldista Ottfried Neubecker.

 

Fig. 6. Arma dei Basile di Napoli (da V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1935, suppl. 1°, p. 302).
Fig. 6. Arma dei Basile di Napoli (da V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1935, suppl. 1°, p. 302).

 

Sulle origini della famiglia Basile di Francavilla poco si sa. Le informazioni tramandate dagli storici locali sono parziali e lacunose e i non pochi casi di omonimia rendono la ricerca più difficoltosa. Tuttavia, lo stemma in esame è uno dei quei casi in cui l’araldica diventa un prezioso ausilio della genealogia, permettendo, in base al blasone, di distinguere o accomunare le famiglie omonime. Il Palumbo vuole i Basile originari di Martina Franca, ma sulla base del comune blasone dobbiamo ritenere che appartenessero allo stesso ceppo dei Basile “originari di Bisceglie” di cui parla il Noya di Bitetto. Ulteriori ricerche, miranti all’individuazione di un solido aggancio genealogico, fornirebbero alla nostra tesi i necessari riscontri. Come gli altri palazzi presenti in via Roma, l’edificio sulla cui facciata è collocato lo stemma fa parte del sistema dei palazzi signorili costruiti a seguito della sistemazione urbanistica voluta dai principi Imperiali nel XVIII secolo. Vera e propria firma della committenza, l’arma in questione è una testimonianza importante che si iscrive nel più vasto ambito dei sistemi di rappresentazione dei segni d’identità di cui si servirono le maggiori famiglie francavillesi parallelamente all’affermazione e al consolidamento del proprio status, in un lasso di tempo che va dal XVI al XVIII secolo. Si tratta di un linguaggio importante, poco investigato ma ricco di contenuti e di implicazioni su più fronti (storia della mentalità, gusti e tendende artistiche dell’epoca, modi di presentarsi al pubblico, ecc.) che ci auguriamo sia fatto presto oggetto di uno studio specifico. Nonostante il cambio di proprietà e i rimaneggiamenti cui è stato sottoposto il palazzo in questione nel corso del tempo, l’arma innalzata dai proprietari originari (non sappiamo esattamente da chi all’interno della famiglia) è ancora lì a perpetuarne la memoria e a tirare fuori molti fili rossi di una storia a lungo trascurata dai cultori di memorie patrie.

 

Bibliografia

– E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano 1978.

– G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890.

– E. Noya di Bitetto, Blasonario generale di Terra di Bari, Bologna : A. Forni, 1981.

– P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Bologna : A. Forni, 1974.

– M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012.

– M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.

– V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana. Famiglie nobili e titolate viventi riconosciute dal R° Governo d’Italia. Compresi: città, comunità, mense vescovili, abazie, parrocchie ed enti nobili e titolati riconosciuti, Milano 1928-1935.

Nardò e il Vesuvio: anno più, anno meno …

di Armando Polito

Tra le fonti della storia di Nardò è da annoverare il Libro d’annali de successi  accatuti nella Città di Nardò. notati da Don Gio. Battista Biscozzo di detta Città. Quest’opera rientra nel filone delle cronache locali e copre il periodo che va dal 1° novembre 1632 al 2 settembre 1656. A chi fosse interessato a sapere nel dettaglio come l’opera è giunta fino a noi segnalo G. B. Biscozzi e il suo “Libro d’Annali”  di Nicola Vacca, in Rinascenza salentina, anno IV, n. 4, Pinto, Lecce, 1936 (http://www.emerotecadigitalesalentina.it/file/912#page/1/mode/1up). In appendice allo stesso numero della rivista lo stesso interessato troverà il testo del Biscozzo pubblicato dal Vacca (per la prima parte: http://www.emerotecadigitalesalentina.it/file/910#page/20/mode/1up; per la seconda http://www.emerotecadigitalesalentina.it/file/911#page/1/mode/1up). Qui basti dire che il manoscritto autografo è andato perduto, ma di esso restano alcune copie di epoca posteriore, da una delle quali il Vacca trasse il testo da lui pubblicato.

 

A p. 8 si legge:

Un’eruzione dagli effetti così spettacolari non può essere che quella, devastante,  del  Vesuvio, avvenuta il 16 dicembre del 1631. Se è assolutamente plausibile che le ceneri siano piovute a quasi una settimana dal catastrofico  evento ed assolutamente credibile il dettaglio del loro arrivo a Costantinopoli1, non è assolutamente pensabile che lo stesso fenomeno sia avvenuto a distanza di circa un anno e una settimana dall’eruzione.

Un evento così tragico trovò un’eco immediata, prolungatasi poi negli anni successivi, nella produzione letteraria e scientifica. Sterminato è, in particolare per questo secondo filone, il numero di ragguagli e relazioni, la cui attendibilità trova conforto nell’autorevolezza dei personaggi e nella loro contemporaneità.

Mi limito a riportare solo la testimonianza di Giulio Cesare Braccini che all’evento dedicò due scritti. Il primo ha per  titolo Relazione dell’incendio fattosi nel Vesuuio alli 16 di decembre 1631. Scritta dal signor abbate Giulio Cesare Braccini da Giouiano di Lucca, in una lettera diretta all’eminentissimo card. Girolamo Colonna, Roncagliolo Napoli, 1631.

Del secondo  riproduco il frontespizio e la parte che ci interessa, tratta da p. 36:

Tra un testimone probabilmente oculare (Braccini) e un altro che quasi sicuramente non lo fu (Biscozzo), a chi dareste più credito? Senz’altro al primo. Come spiegare, allora la data riportata nella cronaca neretina?

A me vengono in mente le seguenti ipotesi e sarei felice se qualche lettore ne correggesse qualcuna o ne integrasse la serie:

1) Può essere successo che il copista abbia letto l’originale 1631 come 1632. Bisognerebbe immaginare, però, che tale errore sia stato ripetuto per tutti gli eventi attribuiti al 1632 ma che nella copia madre (a maggior ragione nel perduto autografo) erano registrati per il 1631. La cronaca originale, perciò, sarebbe iniziata dal 1631 e non ci sarebbe niente di strano che essa poi saltasse il 1632 passando al 1633, perché nulla è registrato pure per gli anni 1634, 1637, 1640, 1641, 1642, 1644, 1645, mentre la cronaca diventa più dettagliata, si direbbe giornaliera, a partire dal 1647.

2) Non è da escludere che l’errore sia nativo, che cioè il Biscozzo abbia intrufolato nel 1632 l’evento dell’anno precedente a causa del ricordo cronologicamente impreciso  di un evento relativamente lontano (essendo nato nel 1613, alla data dell’eruzione aveva 18 anni), che, per quanto sconvolgente, era stato, se non rimosso, almeno elaborato.

3) Non credo che sia sufficiente questo benedetto 1632 per giungere alla conclusione, in parte esiziale per tanti studi sulla storia di Nardò che hanno tenuto in conto questa fonte, che la cronaca stessa sarebbe un falso.

__________

1 A parte la decisiva testimonianza esibita successivamente, il Vesuvio aveva dato almeno un’analoga prova della sua potenza:

CARLO SIGONIO (1520-1584)

Caroli Sigonii Historiarum de occidentali imperio libri XX, Wechel, Hanoviae, 1618, pagg. 146 e 280.

Libro XIV:

Anno 472 Vesuvius mons in Campania intimis aestuans ignibus viscera exusta evomuit, nocturnisque in die tenebris incumbentibus, omnem Europam minuto cinere cooperuit. Itaque eius portenti memoriam annuam Constantinopolitani in-stituerunt 8 Idus Novembris. Ea re Leo Imperator exterritus urbe excessit atque ad S. Mamantem consedit.

(Nell’anno 472 il monte Vesuvio in Campania ribollendo di fuochi interni vomitò le bruciate viscere e, mentre tenebre notturne incombevano sul giorno, ricoprì di sottile cenere tutta l’Europa. Così i cittadini di Costantinopoli istituirono la com-memorazione di quel prodigio il 6 novembre202. Per quel fatto l’imperatore Leone si allontanò dalla città e si stabilì presso [la basilica di] S. Mamante)

Per completezza (e per dare a Cesare quel che è di Cesare …) va detto che il Sigonio ricalca pari pari MARCELLINO COMES (V-VI secolo d. C.), Chronicon (in Migne, Patrologia Latina, vol. 51):

  1. C. 472. Ind. X, Marciano et Festo coss. Vesuvius mons Campaniae torridus intestinis ignibus aestuans exusta evomuit viscera, nocturnisque in die tenebris incumbentibus, omnem Europae faciem minuto contexit pulvere. Hujus metuendi memoriam cineris Byzantii annue celebrant VIII idus Novemb.

(Anno di Cristo 472. Decima indizione, sotto i consoli Marciano e Festo il monte Ve-suvio in Campania incandescente di fuochi interni vomitò le viscere bruciate e men-tre notturne tenebre incombevano di giorno ricoprì tutta la superficie dell’Europa di minuta polvere. Bisanzio celebra il ricordo di questa temibile cenere ogni anno il 6 novembre)

 

 

il culto dei Santi presso il popolo salentino

di Giuseppe Corvaglia

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)

I Santi nel Salento fanno parte di esso, della sua cultura, dei suoi sapori, dei suoi colori, delle sensazioni che evocano, insomma, per citare Marti e Spedicato, di quella piccola Patria di cui si sentono parte i Salentini, nativi o adottivi.

L’idea di scrivere dei santi ha un po’ meravigliato mia madre e, forse, anche molti amici che mi conoscono come uomo di scienza e sufficientemente laico. Questa idea prescinde la fede e la devozione, che afferiscono alla sfera prettamente personale, e nasce dal fatto che conoscere la loro storia , per quanto talvolta fantasiosa e incredibile, ti fa comprendere la rappresentazione che di essi viene fatta e può aiutare a comprendere le ragioni di alcune forme devozionali.

Qualcuno potrebbe pensare che le loro storie sono spesso poco storiche e scientifiche, ma al di là di supplizi più o meno truculenti, resta sempre l’atto di grande fede, per chi crede, ma anche di libertà che caratterizza tutti: la libertà di amare Dio e il Prossimo rinunciando ai propri beni alla propria vita e alla propria libertà.

Pittori e artisti li rappresentano con dei simboli che si riferiscono al loro martirio e alla loro vita e noi, conoscendone la vita e le gesta, possiamo riconoscerli in una cattedrale, in una edicola, in una chiesetta di campagna o in un museo o anche solo in una casa.

Apprezzare l’arte è una delle cose più belle della vita e per farlo occorre sapere e capire.

Mi viene in mente un episodio che riportava mio padre: un esperto di banda e melomane ascoltava la Traviata in piazza. Un signore si avvicinò e, conoscendo la sua fama gli disse:« Maestro cosa suonano?» Lui lo guardò perplesso e poi disse, scuotendo la testa: «Se la senti e non la capisci se ti dico la sai?»

Così per l’arte sacra, ma anche per le rappresentazioni mitologiche: se le storie non le sai non puoi capire le immagini anche se qualcuno ti dice chi è il personaggio e se non comprendi non puoi godere a pieno l’arte.

eligio

Sant’Eligio (Santu Liggiu o Sant’Alòi) 1 dicembre
Sant’Eligio (Santu Liggiu o Sant’Alòi) era un santo molto venerato nel Salento, soprattutto dai contadini che avevano un cavallo, una mucca o un mulo o un asino.

La ragione sta nel fatto che questo santo, orefice prima di diventare consigliere del Re, monaco e poi Vescovo, avrebbe riattaccato la zampa rotta di un cavallo, come si vede in dipinti nella chiesa di Santa Marina a Muro e nella cripta della Madonna della Crutta a Ortelle.

Veniva citato dai contadini che, nei casi disperati, erano soliti dire “Santu Liggiu ne azza i fierri” volendo dire che se un Santo capace di tali imprese raccoglieva i ferri del mestiere per andarsene non c’era proprio rimedio.

In caso di malattia della bestia i contadini facevano fare all’animale il giro di alcune cappelle, ove era effigiato il Santo. Una di queste era la cappella di San Vito e la Madonna della Crutta a Ortelle.

Santa Marina 17 luglio
Santa Marina di Antiochia in Pisidia era figlia di un sacerdote pagano. Dopo la morte della madre, il padre la affidò a una nutrice che praticava il cristianesimo e la educò ai principi della nuova religione. La stessa Santa è nota anche con il nome di Margherita. Con questo nome compare in una nota preghiera:

Santa Margherita,

si bella e si pulita,

do’ ancili ammenzu a casa,

doi nthra lu lettu,

la Madonna la portu ampettu,

Gesù Cristu an capitale,

Lu Nimicu cu se pozza scunfunnare.

Fusci, fusci, Tantaziune,

ca su fija de Maria,

ca la Madonna m’aje prumisu

ca me daje lu paradisu ,

se no osci crai

quannu moriu me lu dai.

Marina, dicevamo, si era convertita; quando il padre lo scoprì la cacciò via e la riaccolse la sua nutrice. La fanciulla, anche se povera, era bellissima e la notò il governatore di quei posti che voleva sposarla. Marina, però, rifiutò e fu imprigionata. In prigione fu tentata dal demonio che le si presentò sotto forma di dragone e la inghiottì viva. Lei non si perse d’animo e gli squarciò la pancia con la croce, uscendone viva. Fu poi ancora seviziata e infine decapitata.

La bellezza del suo volto e il bel colorito la facevano invocare, perché preservasse e guarisse dall’ittero (mal di fegato) e dal pallore (anemia) mentre il fatto di essere uscita dalla pancia del drago, la fece invocare per le partorienti. L’ittero anticamente veniva chiamato male dell’arco, poiché si riteneva un cattivo influsso dell’arcobaleno e i fedeli compravano dei nastrini colorati, le zagarelle, le strofinavano sulla statua della santa e poi sul viso proprio e dei bambini per poter avere sempre un colorito sano.

In alcuni dipinti la croce nella mano della santa è diventato un martello che simboleggia la pazienza e la perseveranza.

A Ruggiano chi andava in pellegrinaggio a Santa Marina si fermava e urinava nei pressi di un arco, come un atto di purificazione, recitando la formula

Arcu bell’arcu

bellu pintu e bellu fattu,

ci te vide e no te saluta,

de culure cu tramuta.

Ieu te vitti e te salutai,

lu culure no persi mai. (o te culure ne guadagnai)

Qualcuno aggiunge:

Santa Marina, ca an Paradisu stai,

famme na grazia ca la potenza l’hai,

fammela prestu e no ntardare

ca sinti Santa ca la pote fare.

Santa Marina viene invocata anche contro l’emicrania e contro le maldicenze, ma in questo caso si confonde con un’altra Santa, santa Marina di Bitinia, che visse come monaco in un convento e fu accusata di essere il padre di un bambino e per questo allontanata col figlio dal convento. Accettò la punizione finché fu riaccolta nel convento in punto di morte. Quando, dopo morta, i monaci andarono a lavare il corpo, per prepararlo alla sepoltura, scoprirono il segreto del monaco Marino, che aveva accettato tutte le bugie in silenzio fino a morirne.

San Giorgio
san giorgio

San Giorgio era un soldato, cavaliere originario della Cappadocia.

Un giorno, passando da Silene in Libia (ma per altri da Berito, l’attuale Beirut, in Libano), vide una fanciulla atterrita sulla riva di uno stagno.

Gli abitanti di quel posto erano terrorizzati da un dragone orribile che viveva in quello stagno e ogni tanto ne usciva per uccidere animali o persone che incontrava.

Si era arrivati ad offrire del bestiame, ma questo non bastò, per cui si decise di immolare un fanciullo o una fanciulla, scelti a sorte fra i giovani della città.

Quel giorno era toccato alla figlia del Re. Giorgio, che passava, la vide e aspettò la bestia, la tramortì e la portò vicino alle mura della città dove la uccise fra il tripudio della gente che si convertì al cristianesimo.

La vicenda è propriamente simbolica dove il cavaliere è la Chiesa e il dragone il paganesimo e il male.

Anche il nome, Giorgio, vuol dire in greco uomo che coltiva la terra è significativo. Il martire è stato uno dei santi più presenti nella tradizione orientale e perciò il suo culto fu molto diffuso dai monaci basiliani. Secondo la tradizione fu decapitato in Palestina. A Ortelle viene invocato contro la malaria.

S. Vito   2° e 3° domenica di ottobre
Calimera_Cappella_San_Vito

S. Vito, giovinetto siciliano di Mazzara del Vallo, venne martirizzato a Roma, con la nutrice Crescenza e il pedagogo Modesto, che lo avevano educato alla cristianità, per ordine dell’Imperatore dopo che il Santi aveva salvato proprio il figlio dell’Imperatore stesso posseduto dai demoni.

Viene raffigurato con uno o due cani perché protegge dalle bestie inferocite, in particolare protegge dalla rabbia, poiché la leggenda vuole che sia stato gettato in una fossa con delle bestie feroci che però lo risparmiarono.

Viene invocato anche per il ballo di San Vito o Corea, una malattia neurologica che porta i soggetti affetti a fare dei movimenti involontari, ampi e bruschi soprattutto con gli arti come se fossero una danza. Il patrocinio fa riferimento alla vita del Santo quando si cercò di sedurlo tramite delle avvenenti danzatrici che, coi loro corpi splendidi e le loro movenze seducenti, avrebbero dovuto farlo rinunciare alla fede. Il Santo capì e mise nelle scarpe dei chiodini che lo tormentavano scacciando la tentazione.

Una particolare protezione veniva chiesta contro i licantropi o lupi mannari cioè quelle persone che in concomitanza con alcune fasi lunari si trasformano in creature belluine.

Le persone capaci di dominarle si chiamavano “Manure de Santu Vitu”.

S. Oronzo   26 agosto
FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A

S. Oronzo è uno dei primi martiri del Salento. Patrizio leccese, pagano, mentre si divertiva andando a caccia, incontrò un uomo lacero che si chiamava Giusto e che veniva da Corinto, mandato da S. Paolo, che lo convertì.

Si racconta anche che, una volta convertito, sia andato a Corinto a trovare San Paolo che lo nominò vescovo di Lecce. Scoperto, fu perseguitato e si rifugiò prima in una grotta di Ostuni e poi in Turi, dove fu catturato e riportato a Lecce.

Qui fu portato fuori dalla città e decapitato. I resti furono lasciati alla mercè delle intemperie e delle bestie, ma furono poi raccolti da una pia donna e divennero meta di pellegrinaggio. Sul luogo del martirio, detto Capu de Santu Ronzu, fu edificata una chiesa.

La storia di Sant’Oronzo è a dir poco particolare: non se ne trova traccia nel Martirologio, ma la storia viene riferita da un monaco visionario calabrese, sollecitato dal Vescovo Luigi Pappacoda, che, attraverso le sue visioni, fa ritrovare le reliquie del Santo nel 1500.

Il momento è particolare, la penisola Salentina ha conosciuto la tragedia della conquista ottomana con il suo strascico di morti, prigionia, crudeltà e la fede inizia a vacillare. In questo periodo viene nominato vescovo Pappacoda che governa la città disciplinando il clero, cercando di stimolare la spiritualità dei leccesi e incentivando gli ordini religiosi a costruire nuove chiese: così nascono le splendide chiese che oggi ammiriamo.

Oronzo era un santo locale non di origine greca e si prestava bene, secondo i canoni del Concilio di Trento, a ricoprire il ruolo del patrono.

Santa Vittoria     8 agosto   23 dicembre
Santa Vittoria fu una giovane fanciulla di famiglia nobile romana che era stata promessa in sposa ad un altro rampollo della nobiltà: Eugenio. Fu educata al cristianesimo dalla cugina Anatolia e si convertì decidendo di dedicare la sua vita e la sua persona a Gesù. Eugenio, d’accordo con il fidanzato di Anatolia, decise di separarle e le inviarono nei loro possedimenti in campagna, ma a nulla valse il sopruso: entrambe furono ancora più salde. Anzi Vittoria operò anche dei prodigi, come allontanare un dragone che affliggeva la zona di Trebula nella Sabina dove stava, e cominciò a fare apostolato fra le fanciulle del luogo, per la qual cosa oggi viene considerata la protettrice della gioventù femminile di Azione Cattolica.

Denunciata al pontefice del Campidoglio, venne obbligata a offrire sacrifici a Diana e al suo fermo rifiuto venne uccisa con la spada.

Nel Salento viene festeggiata a Spongano.

S. Donato   7 agosto
San Donato Vescovo di Arezzo fu martirizzato con decapitazione il 7 agosto del 362 sotto Diocleziano. Viene rappresentato con un calice, perché fra i suoi prodigi è riferito che, mentre celebrava messa e distribuiva il vino consacrato in un calice di cristallo, entrarono dei pagani che ruppero il calice. Il Santo ne ricompose i frammenti e continuò a distribuire la comunione. Viene anche rappresentato con dei libri e con un bambino esanime fra le braccia della madre, riferimento a un altro episodio della sua vita quando libera dai demoni.

Fu decapitato e viene invocato a protezione del mal di testa e, soprattutto a Montesano Salentino, per l’epilessia, detto dagli antichi male sacro.

Nei giorni della festa del Santo la statua viene portata dalla chiesa al santuario a lui dedicato. Qui in passato restavano con lui gli epilettici giorno e notte che pregavano, ma anche parlavano e gridavano in un rapporto diretto (qualcuno raccontava di dialogare proprio con il santo e magari inveiva anche contro o lo implorava di farlo guarire). Gli stessi epilettici durante la processione camminavano all’indietro non potendo staccare lo sguardo dal volto del Santo. La base della statua era adornata da basilico.

La suggestione era massima ed era rinforzata dagli stessi epilettici.

Santa Lucia   13 dicembre
Santalucia

Il culto di Santa Lucia era molto diffuso in tutto il Salento.

Santa Lucia era una bellissima fanciulla che era stata promessa in sposa. Fu educata al cristianesimo, ma decise di dedicarsi anima e corpo a Gesù, dopo un pellegrinaggio a Catania sulla tomba di sant’Agata della quale ebbe una visione. Vendette i suoi beni e li donò ai poveri. Il fidanzato, per farla desistere, la denunciò e venne martirizzata con la spada. La leggenda vuole anche che prima di ucciderla, le siano stati cavati gli occhi e da questo episodio deriva il suo patronato sulla vista e il raffigurarla con gli occhi in una ciotola.

La sua festa arriva il 13 dicembre quando si avvicina il Natale e si comincia a pensare alle feste, ma si è ancora in Avvento. Importanti sono le fiere che si tengono nel suo giorno a Lecce (che poi prosegue fino a Natale con la vendita dei pupi del Presepe) e a Scorrano dove fra le altre cose si fa provvista di fichi secchi e di stoccafisso.

S. Rocco     16 agosto
San Rocco

S. Rocco era un santo molto venerato nel Salento, ma se vogliamo anche in tutto il mondo. Nato a Montpellier decise di andare in pellegrinaggio a Roma. Nel suo viaggio a Roma si imbattè nella peste. Capì che la carità non poteva essere solo di parole e, mentre tornava da Roma, si prestò a curare gli appestati. Si ammalò e decise di ritirarsi in un eremo per non contagiare nessuno. Si trovava in una grotta presso Piacenza e lo andava a trovare un cagnolino che rubava un pane alla mensa del suo padrone e glielo portava leccandogli la piaga. Un giorno il padrone lo seguì, scoprì Rocco e lo portò a casa aiutandolo a guarire. Guarito, si incamminò verso Montpellier, ma a Voghera fu arrestato con l’accusa di essere una spia e imprigionato per 5 anni senza nemmeno essere riconosciuto dal governatore di quei luoghi che era lo zio. Alla sua morte venne riconosciuto per un difetto del corpo: una sorta di angioma a forma di croce che Rocco aveva da quando era nato sul fianco sinistro (come pure viene cantato nel responsorio: Ave Roque santissime,/ nobili nate sanguine,/ crucis signate schemate/ sinistro tuo latere).

Inizialmente invocato contro la peste, fu poi invocato a protezione di ogni tipo di piaga. Infatti nella società contadina dei tempi passati, in assenza di antibiotici, era facile che una ferita procurata nei campi potesse infettarsi e cronicizzare oppure portasse a conseguenze ancora più gravi. Viene rappresentato come un pellegrino con un bastone e la borraccia, una mantellina con la conchiglia di Compostella, detta Capasanta, e un cane con un pane in bocca.

San Nicola  6 dicembre 9 maggio
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La figura di San Nicola è molto diffusa nel mondo occidentale, ma soprattutto in Puglia e nel Salento, sia per la presenza e l’opera dei monaci basiliani, sia per l’influenza che aveva su questi territori il Catapano bizantino che stava a Bari dove c’erano le sue reliquie, trafugate da Mira in Asia minore, ad opera di una compagnia di marinai baresi.

Questo rinforzò la fama che aveva fin lì accompagnato il santo venerato sia il 6 dicembre, ma soprattutto in Puglia il 9 di maggio memoria dell’arrivo delle sue reliquie a Bari.

Nato a Patara, in Asia minore, presto si trasferì a Mira dove si avvicinò al Cristianesimo e dove, ancora giovane, venne eletto vescovo di quella città . L’epoca delle prime persecuzioni era finita e Costantino, con l’editto di Milano, aveva sancito la libertà di culto per i cristiani.

Lui fece il vescovo con grande energia rispettato dal popolo e dalle autorità che lo invitarono a dare giudizi preziosi anche in sede conciliare, come nel Concilio di Nicea, quando affrontò l’eretico Ario che negava la natura divina di Gesù.

Viene rappresentato con il pallio, il pastorale   e il vangelo in mano per la sapienza mostrata nel contrastare gli eretici, ma anche con tre palle d’oro, tre bambini in una tinozza o con un mattone che brucia che si riferisce a un miracolo operato durante il concilio di Nicea. Per spiegare la trinità Nicola prese un mattone che conteneva in origine terra, fuoco e acqua, ma che ora era altro dei tre elementi. Il mattone prese a bruciare e a gocciolare acqua e alla fine rimase terra secca.

Le tre palle d’oro sono la semplificazione di tre borse di monete d’oro che Nicola donò a un padre nobile, caduto in disgrazia, il quale, non avendo i soldi per il matrimonio e la dote delle figlie, le voleva avviare alla prostituzione. Nicola gettò in casa un sacchetto con le monete impedendo che la figlia grande si prostituisse e consentendo il suo matrimonio. Fece così altre due volte salvando anche le altre due sorelle, ma la terza volta il padre, che stava nascosto, lo scoprì.

I tre bambini si riferiscono a un altro prodigio operato dal santo a cui un oste presentò un piatto di carne. Il Santo non volle toccarne e chiese all’oste di portarlo dove teneva quelle carni. Una volta vicino alla tinozza della salamoia il Santo pregò e dalla tinozza emersero tre bambini che l’oste aveva ucciso e le cui carni venivano servite agli avventori. Questo episodio, leggendario, potrebbe essere influenzato da un altro più storico quando Nicola si adoperò per salvare tre uomini condannati a morte ingiustamente.

Comunque la generosità verso le fanciulle, la protezione verso i bambini e una vita svolta a proteggere attivamente il suo popolo hanno fatto sì che si generasse nell’immaginario collettivo la figura di Santa Klaus (contrattura nordica del latino Nicolaus), il nostro Babbo Natale che porta doni ai bambini. L’abito rosso e il cappuccio non sono altro che riferimento ai paramenti vescovili così come il colletto bianco un riferimento al pallio.

San Pantaleone o Pantaleo   27 luglio
San Pantaleone era un medico anargiro di Nicomedia. Medico brillante (aveva curato anche il figlio dell’Imperatore) un giorno si convertì al cristianesimo, vendette le sue sostanze e le distribuì ai poveri, curando tutti senza compenso. Per questo venne osteggiato dai suoi colleghi e denunciato come Cristiano all’Imperatore per la qual cosa fu lungamente torturato e poi ucciso.

Viene raffigurato legato ad un albero secco, mentre viene seviziato con il fuoco e i flagelli, o vicino a una vasca perché subì anche la tortura dell’annegamento. La leggenda tramanda che l’albero a cui il santo era legato, benché secco, si ricoprì di frutti. Le sevizie non convinsero il Santo ad abiurare e fu martirizzato.

Nel Salento si festeggia a Martignano, ma il suo culto era molto diffuso nella provincia.

San Lazzaro
Lazzaro era uno dei migliori amici di Gesù. Viveva a Betania, con le due sorelle Marta e Maria.

Il Vangelo ci narra di come Lazzaro fosse morto. Gesù si recò al sepolcro, fece togliere la pietra che ne chiudeva l’entrata e chiamò Lazzaro, il quale uscì vivo dal sepolcro, ancora avvolto nelle bende funebri. Dopo la morte e resurrezione di Gesù venne preso di mira dal sinedrio che voleva cancellare le opere compiute dal Messia e dovette partirsene dalla Palestina.

Secondo la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, Lazzaro andò a predicare in Francia con le sue sorelle e lì divenne il primo vescovo di Marsiglia.

Invece secondo la tradizione orientale, Lazzaro divenne vescovo di Cipro e durò nell’episcopato per circa un trentennio. A supporto di questa versione, nell’anno 890 fu ritrovata una lapide con l’iscrizione “Lazzaro, l’amico di Cristo”. Successivamente le reliquie furono traslate a Costantinopoli e quindi in Francia dai Crociati. Nel 1972 sotto l’altare della chiesa di Larnaca fu rinvenuta un’arca di marmo, contenente resti umani, che si ritengono quelli di Lazzaro. Secondo quest’ipotesi, il trasferimento delle reliquie a Costantinopoli fu soltanto parziale.

Nel Salento viene venerato in pochi luoghi come una parrocchia di Lecce città, ma ci sono immagini sue anche in altre chiese. Tuttavia viene citato in prossimità della Pasqua. In questo periodo gruppi di contadini, dotati di strumenti musicali e buone voci, giravano per le case o per le masserie in una sorte di folkloristica questua da cui ricevevano prodotti della terra detta, appunto, “Lu Santu Lazzaru”. Queste rustiche compagnie musicali andavano in giro con un ramo di ulivo dove venivano attaccate figurine e nastrini colorati (zagarelle) cantando la storia di Cristo e concludendo che Santu Lazzaru, che risorse, oggi sarà Cristo che risorgerà a Pasqua.

Viene rappresentato come Vescovo.

Il San Lazzaro povero, straccione e spesso rappresentato con dei cani è il Lazzaro, mendicante, che viveva fuori dalla casa del ricco epulone implorando di ricevere le briciole del suo desco, ricevendone insulti e umiliazioni. Quando sarà in paradiso, nel grembo di Abramo, il giovane, maleducato e cattivo, patirà le pene dell’inferno e implorerà un conforto da Lazzaro che, stando fra i beati, non potrà dargli.

Santi Cosma e Damiano 26- 27 settembre
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Santi Cosma e Damiano, conosciuti come Santi Medici, erano medici anargiri che curavano senza compenso.

Originari dell’Arabia o della Siria, svolsero la loro opera in Turchia. Prima di approcciarsi a un malato pregavano intensamente e poi svolgevano la loro opera. La leggenda racconta di un loro contrasto dovuto al fatto che Cosimo avesse accettato 3 uova da una donna che aveva curato. Il fatto amareggiò Damiano che dispose di non essere sepolto accanto al fratello. Scoperti cristiani furono processati e martirizzati. Mentre ci si stava disponendo a seppellirli, lontano uno dall’altro, un cammello parlò e disse che Cosimo aveva accettato quelle uova solo per non umiliare la donna e furono uniti nella sepoltura.

Vengono rappresentati con in mano dei balsamari   per gli unguenti e delle cassette per i ferri chirurgici.

Nel Salento il loro culto è molto sentito e in passato erano diffusi anche i nomi Medico e Medica.

San Vitale  28 aprile
Sposato con Santa Valeria, era padre dei santi Gervasio e Protasio.

Vitale, soldato romano, accompagnò un magistrato a Ravenna dove assistette alla condanna a morte per Cristianesimo di Ursicino. Lui incoraggiò il martire che andava al supplizio e, dopo la morte , lo seppellì.

Denunciato come cristiano venne condannato a essere sepolto vivo da pietre e terra. Così accadde e quel sepolcro, che era stato patibolo, divenne luogo di culto, tanto che quando venne la moglie Valeria a riprendersi le spoglie del caro, trovò l’opposizione dei Ravennati.

Di ritorno, la santa donna troverà un gruppo di fanatici pagani che al suo rifiuto a sacrificare al dio Silvano, faranno seguire una punizione fatta di bastonate che ridurranno in fin di vita la donna che spirerà qualche giorno dopo a Milano.

I figli Gervasio e Protasio erano anche essi cristiani e vissero facendo del bene finché non furono uccisi nelle persecuzioni. I corpi furono ritrovati ai tempi di Sant’Ambrogio e vicino al loro capo vi era un libretto che raccontava la loro storia e quella dei loro genitori. Sul luogo del loro ritrovamento nacque una basilica.

San Giuseppe da Copertino   18 settembre
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Giuseppe Maria Desa nacque ai primi del ‘600, in un momento di grandi difficoltà della famiglia e vide la luce in una stalla del suo paese, Copertino, adattata a casa. Il padre, abile artigiano, aveva sposato una donna benestante ed era uomo di fiducia dei Signori di Copertino, ma si ritrovò povero e morì ancora giovane per aver garantito per mille scudi un amico che fallì.

La povera vedova e i figli vissero anni durissimi; Giuseppe faceva il garzone e non riusciva a imparare un mestiere e in paese lo chiamavano “Ucchipertu/Boccaperta” per la sua abituale distrazione; dovette pure lasciare la scuola per una brutta piaga che lo afflisse per 5 anni e guarì per intercessione della Madonna delle Grazie. Questo accrebbe la sua fervida devozione mariana.

Il creditore del padre aveva ottenuto dal Tribunale che Giuseppe, unico figlio maschio di Felice e Franceschina, una volta raggiunta la maggiore età, fosse obbligato a lavorare senza paga fino a saldare il debito del defunto genitore. L’unico modo per sottrarsi a quella che sarebbe stata una vera e propria schiavitù era diventare sacerdote o frate, ma Giuseppe non era istruito e non poteva ambire perciò al sacerdozio. Cercò quindi di entrare in un convento e a 17 anni bussò alla porta dei Frati Francescani Conventuali, nel convento detto della ‘Grottella’, a due passi da Copertino, dove un suo zio era stato padre Guardiano, ma dopo un periodo di prova fu mandato via, “per la sua poca letteratura, per semplicità ed ignoranza”. Passò allora ai Francescani Riformati e poi ai Cappuccini di Martina Franca, ma la distrazione, l’inettitudine e le estasi gli facevano fare veri e propri danni, per questo fu mandato a casa dove non venne bene accolto.

Fu solo grazie all’interessamento dello zio e dopo molte insistenze che riuscì a farsi accettare di nuovo dai Conventuali della ‘Grottella’. I frati, informati della sua situazione e della condanna del Tribunale, presero a cuore la situazione e lo ammisero nella comunità, prima come oblato, poi come terziario e finalmente come fratello laico.

Addetto ai lavori pesanti e alla cura della mula del convento, Giuseppe ben presto espresse il desiderio di diventare sacerdote e lo divenne per situazioni a dir poco prodigiose. Nonostante gli sforzi era rimasto ignorante, ma negli esami accaddero cose incredibili: in uno il vescovo gli chiese l’unica cosa che sapesse e nel secondo, il vescovo, dopo aver visto una grande preparazione nei primi studenti interrogati, decise di promuovere tutti, anche San Giuseppe.

Si definiva fratel Asino, ma riusciva a parlare di teologia in maniera semplice ed efficace anche con persone di elevata cultura, perché possedeva il dono della scienza infusa, sapeva essere sapiente nel dare consigli ed era molto ricercato dentro e fuori del suo Ordine, nonostante che si definisse “il frate più ignorante dell’Ordine Francescano”.

Un’altra sua caratteristica erano le estasi e i voli durante queste.

In effetti volava nell’aria come un uccello, il fatto storico è che questi fenomeni sono avvenuti in presenza di tanta gente stupefatta. Proprio la presenza intorno a lui di tanto popolo costituì un problema per i suoi Superiori, che lo mandarono in vari conventi dell’Italia Centrale, proprio per distogliere da lui l’attenzione del popolo, che sempre più numeroso accorreva a vedere il santo francescano. Di lui si interessò l’Inquisizione di Napoli, che lo convocò per capire di che si trattasse e proprio davanti ai giudici, Giuseppe ebbe un’estasi; la Congregazione romana del Santo Uffizio alla presenza del papa Urbano VIII, lo assolse dall’accusa di abuso della credulità popolare e lo confinò in un luogo isolato, lontano da Copertino e sotto sorveglianza del tribunale. Fu mandato da un convento all’altro: a Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone e infine ad Osimo (Ancona) dove morì il 18 settembre 1663 a 60 anni.

Mia nonna Rosa nel rosario pregava San Tommaso d’Aquino, professore alla Sorbona, e San Giuseppe da Copertino che infondessero nelle nostre menti intelligenza e buon senso o con lo studio, come nel caso del domenicano, o senza studio, come era accaduto al francescano salentino; a lui si rivolgono gli studenti prima degli esami, specie coloro che si rendono conto dei propri limiti.

S. Antonio da Padova 13 giugno
Figura 6. G. A. Colicci, SantÔÇÖAntonio da Padova, 1736 Lequile (Le)

Antonio nacque a Lisbona (Portogallo) nel 1195, battezzato come Fernando, ebbe la sua prima formazione in una famiglia cristiana, importata a Lisbona dopo che fu liberata dai musulmani. Studiò alla scuola della cattedrale e li sbocciò la sua vocazione religiosa. Ancora adolescente entrò negli agostiniani prima a Lisbona e poi a Coimbra. Li ricevette una completa formazione religiosa e teologica, grazie alle sue doti: una grande pietà e una fervida intelligenza.

Nel 1220 venne a sapere di alcuni francescani che erano stati uccisi in Marocco mentre cercavano di evangelizzare quelle genti e decise di entrare nell’Ordine francescano, mutando il suo nome originario, Fernando, in Antonio. Quando riuscì, partì per il Marocco, lì si ammalò e si reimbarcò per ritornare in patria, ma delle tempeste marine lo portarono in Sicilia, dove fu curato nel convento francescano di Messina. Qui venne a conoscenza del Capitolo generale dei francescani, che avrebbe avuto luogo ad Assisi, nella Pentecoste di quel 1221 e vi partecipò. Vide san Francesco, ma non si fece conoscere. Frate Graziano, ministro provinciale della Romagna, lo accolse nella sua compagnia   e lo destinò al romitorio di Montepaolo dove Antonio visse la regola dell’eremita francescano.

Un giorno, in occasione di un’ordinazione sacerdotale celebrata a Forlí, dovette, per obbedienza, tenere un discorso e mostrò doti di eloquenza e preparazione teologica eccellenti tanto da essere destinato a diventare predicatore, docente e ministro dell’Ordine. Dalla Romagna propriamente detta la sua predicazione si allargò all’Italia superiore e alla Francia meridionale.

In seguito il suo compito principale fu l’insegnamento della Teologia ai frati minori nelle scuole di Bologna e di Montpellier, primo docente di Teologia francescana.

Alla fine arrivarono gli incarichi di responsabilità come custode della provincia di Limoges e poi come ministro provinciale della provincia di Romagna, che si estendeva allora anche a tutta l’Italia settentrionale, ma sfatto dalle fatiche e dall’idropisia, nel luglio del 1230 ottenne d’essere liberato da ogni incarico e di ritirarsi a Padova nel convento di Santa Maria Madre del Signore dove morì il 13 giugno 1231. Il suo corpo per espressa sua volontà restò a Padova; fu canonizzato neanche un anno dopo la sua morte e sette secoli dopo papa Pio XII lo proclamò “Dottore della Chiesa”.

Viene rappresentato con il Bambino Gesù per le estasi che più volte ha vissuto, con dei libri, simbolo degli studi e della sua sapienza, e un giglio simbolo di purezza.

Nel Salento si prega con questa preghiera:

Sant’Antoniu meu bidegnu

Tuttu chinu de santità

Tridici grazie fai lu giurnu,

fammene una per carità.

Fammela prestu e non tardare

Ca tie si santu ca me la poti fare,

Tie sì santu mannatu de Diu

Fammela prestu sant’antoniu miu.

Arcangeli S. Michele, San Gabriele e San Raffaele
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Gli Arcangeli sono i sette spiriti che stanno al cospetto del trono di Dio, sono coloro che godono della luce del suo volto e ne ascoltano la voce. Di questi ne conosciamo tre, per riferimenti biblici che li riguardano: Michele, Gabriele e Raffaele.

Michele (in ebraico Chi è come Dio?) è l’arcangelo che combattè contro Lucifero e tutti gli altri angeli che si erano rivoltati contro Dio e li allontanò dal Paradiso confinandoli nell’inferno.

Altri appellativi di questo arcangelo che interviene nella lotta contro il male sono : difensore degli amici di Dio e protettore del suo popolo. Viene raffigurato come un giovane gagliardo con la spada in mano e, talvolta con armatura, mentre sottomette il demonio.

Gabriele (Forza di Dio) è colui che spesso porta dei messaggi di Dio all’uomo. Lui   rivela a Daniele i segreti del piano di Dio, annunzia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista ed è lui che annuncia a Maria che da lei nascerà Gesù.

Secondo i musulmani è sempre Gabriele a dettare il corano a Maometto.

Viene raffigurato, generalmente, mentre incontra Maria a Nazareth.

Raffaele (Dio guarisce) è l’arcangelo che   talvolta scendeva nella piscina di Betzaida e agitava le acque, concedendo la guarigione dalle malattie a chi vi si immergeva, ma è soprattutto la guida che scende in terra dopo le preghiere di Tobi e accompagna il figlio Tobiolo a riscuotere un credito in Media, l’attuale Iran. Lì guarirà Sara che è tormentata dal diavolo Asmodeo e che poi si unirà in matrimonio con Tobiolo. Mentre fanno ritorno, Tobi, che si sente vicino alla morte ed ormai è cieco, chiede la grazia al Signore di rivedere per una ultima volta il figlio prima di morire. Raffaele allora dice a Tobiolo di tuffarsi nel fiume e prendere un grosso pesce che troverà. I viaggiatori mangeranno il pesce, ma conserveranno, su indicazione di Raffaele, le interiora che poi spalmate sugli occhi di Tobi gli faranno riacquistare la vista e rivedere il figlio e la nuora.

San Raffaele è raffigurato mentre accompagna un ragazzo che porta un pesce. Questo lo differenzia dall’Angelo custode pure raffigurato mentre guida un bambino, talvolta schiacciando il diavolo tentatore.

San Giuseppe Patriarca.
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Giuseppe è un uomo giusto, della stirpe di Davide, che sposa Maria e che, quando scopre che è incinta vorrebbe ripudiarla, ma poi accetterà di tenerla con sé e farà da padre putativo a Gesù.

Viene considerato Patriarca (πατήρ αρχή il padre dell’inizio di una vita nuova, di una nuova generazione) perché dalla sua famiglia nascerà un popolo nuovo.

Viene raffigurato come un uomo attempato che tiene in braccio il bambino Gesù e si appoggia a un bastone fiorito.

Il bastone fiorito si riferisce a un prodigio riferito dai vangeli apocrifi. Il sacerdote Zaccaria aveva infatti ordinato che venissero convocati tutti i figli di stirpe reale per sposare la giovane Maria, vissuta per nove anni nel tempio. Per indicazione divina, questi celibi avrebbero condotto all’altare il loro bastone, Dio stesso ne avrebbe poi fatto fiorire uno, scegliendo così il prescelto. Fiorì il bastone di Giuseppe, della stirpe di Davide, e accettò di prendere in sposa Maria, nonostante la differenza di età. In seguito, sapendo che era incinta, pensò di ripudiarla, ma, dopo una visione angelica, non lo fece e crebbe Gesù.

La sua festa fino a non molto tempo fa era festa di precetto e festa civile (fino al 1977); in molti paesi del Salento è rimasta una festa rilevante. Alcuni devoti in suo onore fanno un pranzo, la Tavolata di San Giuseppe, dove gli invitati rappresentano la Sacra Famiglia e altri Santi. Gli invitati mangiano le portate, tutte di magro poiché ci si trova in Quaresima, e devono portarsi a casa i resti del pasto. Altri devoti distribuiscono la caratteristica pasta (massa e ciciri o ciceri e tria) o anche del pane benedetto.

 

Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce e la tarantata

di Armando Polito

C’è chi, ed io sono tra questi, rivendica anche alla poesia una capacità di conoscenza di regola attribuita solo alla scienza;  e questo, se fosse vero, sarebbe più che sufficiente  per liquidare in un attimo come insensata ogni contrapposizione tra le due culture. In particolare, sul fenomeno del tarantismo  credo di aver tentato di provarlo in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/25/anche-questanno-la-notte-della-taranta-e-andata-ma-non-rinuncio-a-dire-la-mia-il-tarantismo-ovvero-laddove-la-poesia-arrivo-prima-della-scienza/. Le testimonianze allora addotte  non vantavano la paternità di autori del nostro territorio ed erano in prosa.

Oggi sottopongo all’attenzione del lettore una poesia di un salentino doc, del quale il lettore ha già letto il nome nel titolo. Di quest’autore abbastanza prolifico mi sono già occupato per un’altra questione in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/. Ho segnalato il link non per vanitoso compiacimento ma per dare un’idea dello spessore del personaggio che può vantare un cospicuo numero di pubblicazioni, anche se in prevalenza di natura encomiastica  Di seguito l’elenco completo delle opere da lui pubblicate:

Vaticinium Tiberis ad urbem Romam de Sixto Quinto pontificem maximum, Zanetti, Roma, 1589.

De illustrissimo ac reverendissimo d. Scipione Spina Lupiensium pontifice creato Peregrini Scardini Sancaesariensis carmen, Cacchio, Napoli, 1591.

In admodum reuerendum d. Petrum Antonium De Ponte Congr. clericum regularem theologum, et concionatorem destrissimum, elogia, Guerilio, Venezia, 1599.

Oratio habita Lupiis in funere Hispaniarum, et Indiarum regis catholici Philippi II, Carlino & Pace, Napoli, Neapoli, 1599.

Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603

Discorso intorno l’antichità e sito della fedelissima città di Lecce, Pace, Bari, 1607.

Sonetti di Peregrino Scardino al molto illustre signor Gioseppe Cicala di Lecce, Gargano & Nucci, Napoli, 1609.

Del terzultimo titolo riproduco il frontespizio

e il testo della poesia (in distici elegiaci) che è a p. 107, con la mia traduzione a fronte

2

Capito? – Certamente! – direte. Ma io intendevo dire (senza alcuna velleità poetica per via delle rime)  – Avete capito come il nostro salentino Pellegrino Scardino aveva capito tutto, anticipando di 359 anni Ernesto De Martino? -.

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