La sartoria delle zie

sarta

di Chiara Briganti

Avete presente quando, alla fine del film “La Messa è finita”, don Giulio dice «Io sono fortunato, perché sono stato molto amato»? Ecco, se mi chiedessero quand’è che mi sono sentita più felice, e dunque più amata, quasi certamente indicherei quel periodo della mia esistenza, l’infanzia, che ho trascorso per buona parte nella sartoria delle mie zie.

Ci è passato un intero paese in quella sartoria, centinaia di donne, due, tre generazioni di donne, tutte a provarsi i vestiti nell’angolo della stanza con lo specchio grande, e col solo ausilio di una tendazza di panno verde, da tirare se fosse passato qualche improvvido bipede maschio (perché la sartoria era anche uno dei due ingressi della casa). Io avevo una sedia piccola per me, vicino alla Singer, e le clienti mi davano le spalle, però vedevo le loro facce riflesse nello specchio, mentre mia zia girava loro attorno con gli spilli e mi chiedeva di «’nfilare l’imbastire», prepararle cioè degli aghi col cotone bianco per le cuciture preliminari.

Ho visto centinaia di culi, da quella sediolina, culi immensi, matronali, piccoli e arresi, culi da zitella, chiappe ardite sotto schiene insospettabili, ma anche centinaia di paia di minne, coppe di reggipetti a melone, cocomero e chissà quale altra meraviglia della botanica. Riesco ancora distintamente a richiamare alla memoria il suono del ritorno elastico delle bretelle dei body, che ricadevano sulla pelle come una frustata, quando le signore si accomodavano glutei e mammelle nei tailleur ancora sfoderati e mutili. È lì che ho sperimentato la forma d’amore che poi non ho mai smesso di cercare, quella del racconto. Mia zia mi diceva «Mò se viene la tale vedi quanti fatti ci racconta!» Ed era vero.

Tantissimi fatti, una narrazione ininterrotta, un ciclo di acquisizione e riuso, perché poi, quando la cliente andava via, veniva a «sentire i fatti» l’altra mia zia, con la scopa in mano, lasciando per qualche minuto le faccende domestiche e la cura di mio nonno (che, finché è stato in vita, non ha potuto parlarmi mai: tre infarti e tre ictus non perdonano). E nemmeno io parlavo mai: ma ero felice, di una felicità talmente intera e indefettibile, che neanche il pensiero, avevo, di parlare. Il primo anno d’Università, mentre studiavamo l’epica, e gli episodi tipici, ci dissero che uno dei piaceri maggiori dell’uditorio è veder assecondato il proprio orizzonte d’attesa: non solo sentir raccontare qualcosa che già si conosce, ma esattamente nel modo in cui ci si aspetta che venga raccontata. Ed è vero, e l’avrei sperimentato in seguito, quanto s’arrabbiano i bambini quando cambi il finale delle favole che amano. Io pure, chiedevo sempre che mi raccontassero gli stessi fatti, quelli che mi avevano fatto ridere di più, e le zie avevano ormai un collaudato e solidissimo repertorio di formule.

E per il resto della mia vita, non ho mai smesso di cercare chi mi raccontasse qualcosa, e non è un caso che le mie letture preferite siano proprio i diari e la memorialistica in genere. Non conosco una manifestazione d’amore più grande di quella del parlare per qualcuno. E ancora oggi, se potessi, smetterei di parlare e ascolterei e basta, e ascolterei sempre.

Santa Maria di Casole a Copertino e le sue Sibille

copertina sibille

L’ultima fatica della Fondazione Terra d’Otranto riguarda Copertino e il suo convento di Santa Maria di Casole, che ospita nella sua navata sinistra un ciclo completo delle 12 Sibille, come in nessun altro luogo della provincia e forse della Puglia.

Edizione in tiratura limitata, non in commercio, riservata ai soci e alle biblioteche, brossura, formato A/4, 324 pagine, con centinaia di illustrazioni di Sibille nella storia dell’arte.

 

il convento di Casole a Copertino
il convento di Casole a Copertino

 

Dal capitolo II del volume:

La storia di Casole[i] è lunga e travagliata e la leggenda vuole che essa sia stata fatta edificare e donata ai monaci basiliani dalla gente del posto. La conquista normanna rase al suolo l’abitato e parte del convento rispettando solo la chiesa; e qui c’è un buco di quattro secoli, cioè dalla partenza dei basiliani fino al passaggio ai francescani al principio del secolo XVI. È legittimo supporre che poco prima la chiesa e il convento fossero stati completamente rifatti dalla munificenza della famiglia Castriota. Alla fine del XVI secolo Casole passò ai frati riformati che dal 1622 apportarono trasformazioni radicali anche all’interno del tempio. Altri cambiamenti si susseguirono nel corso del secolo successivo finché, con la soppressione del 1812, iniziò l’abbandono[ii].

La valenza culturale del convento, per quanto non in grado di competere con quella dell’omonimo otrantino è testimoniata dalla presenza di testi di rilievo, alcuni dei quali, poi, confluirono nella Biblioteca Vergari di Nardò, con annotazione della provenienza[iii]. Di alcuni di loro si tratterà in apposito capitolo.

Nel passare alle Sibille ci pare doveroso e corretto sottolineare che il nostro intento è solo documentario, per cui non ci avventureremo in tentativi di comparazione, tanto meno con lo scopo di far emergere per questo ciclo (che, comunque, ci sembra da collocare nella temperie barocca[iv]) un pregio artistico improbabile (sarà per questo che in nessun testo riguardante la chiesa non compare nemmeno un cenno a questo ciclo di pitture?[v]) non solo per lo scadente stato di conservazione che in Italia, purtroppo, costituisce in molti casi un alibi per riservare a queste testimonianze del passato la considerazione di solito riservata, questa volta giustamente, alle croste riconosciute come tali.

una delle Sibille in S. Maria di Casole
una delle Sibille in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole

 

Le nostre Sibille sono ubicate nella navata sinistra e ne sono visibili dieci.

Delle quattro raffigurate negli spicchi della volta solo due, cioè la Samia e l ‘Eritrea, sono visibili, delle rimanenti (sicuramente, per esclusione, la Libica e la Persica) sono leggibili pochissimi lacerti, insufficienti, comunque, ad identificarle singolarmente.

In totale, dunque, dodici: un hapax di sopravvivenza per il Salento, per il deterioramento subito dalla presumibile rappresentazione del tema nelle testimonianze pittoriche oggi solo parzialmente leggibili in altre fabbriche (per esempio: nella cappella dei Tolomei nel convento di Santa Maria la Nova a Racale e nella cappella di Santa Caterina dei Francescani Neri a Specchia[vi].

Sibilla Delfica a Specchia (ph Stefano Cortese)
Sibilla Delfica a Specchia (ph Stefano Cortese)

Non è da escludere l’esistenza, in passato, di cicli completi andati poi in parte o totalmente perduti. Quella di Casole rimane, comunque, una testimonianza in comune con non molti altri esempi, tra cui spicca quello della chiesa di S. Bernardino (XVI secolo) a Lallio, in provincia di Bergamo, quello della chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi in provincia di Salerno e, su un supporto diverso, quello del santuario della Madonna del Castello nel comune di Almenno San Salvatore, sempre in provincia di Bergamo.di capitolo IV), per cui la lacuna va integrata con e virgine absque umana corruptione (da una vergine senza umana corruzione).

 

 

Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole
Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole

 

sibille

[i] Ci permettiamo di correggere un’imprecisione del bel saggio di Cosimo Franco, Santa Maria di Casole tra storia di ieri e cronache di oggi, Edi/Storia 3, Copertino, 2011, dove a pag. 66 si legge parola greca che significa Casupole; in realtà casulae, con lo stesso significato, è parola tutta latina, diminutivo di casa. il greco κάσα di Ateneo, scrittore di meccanica militare del III-II secolo a. C., è lezione dubbia. Comunque, anche se non lo fosse stato, nulla sarebbe cambiato, perché il suffisso diminutivo di casulae è tipicamente latino (cfr. arèola=cortiletto, diminutivo di àrea=spazio libero senza edifici; cùpula=cupola, diminutivo di cupa=botte, etc. etc.).

[ii] Per un dettagliato e documentato excursus sulle vicende storiche della Chiesa e dell’annesso convento vedi F. B. Perrone, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Congedo, Galatina, 1981-1982, vol. I, pagg. 83-110 e Cosimo Franco, Santa Maria di Casole…, op. cit.

[iii] Nell’archivio della Basilica Collegiata di Copertino Santa Maria ad nives è custodito un inventario, comprendente anche i libri (326 volumi) , redatto il 18 dicembre 1818 nel corso della soppressione del convento; l’inventario è stato pubblicato da Cosimo Franco, Santa Maria di Casole…, op. cit., pagg. 251-259.

[iv] Tutte le pitture del tempio furono già ascritte dal De Giorgi al XVII secolo (C. De Giorgi, La provincia di Lecce, II, Spacciante, Lecce, 1884, pag. 333).

[v] Nemmeno nel saggio di G. Palumbo, Santa Maria di Casole presso Copertino, in Arte cristiana, t. XLVII (n. 7 e 8, luglio-agosto 1959) pagg. 143-147.

[vi] Si ringrazia Stefano Cortese per la segnalazione della loro presenza nelle due fabbriche e per le foto, sue, gentilmente concesseci.

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Castro e la sua Protettrice

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di Rocco Boccadamo

Si contano, ormai, a milioni, in Italia, in Europa e addirittura Oltre Oceano, le persone che conoscono, hanno visitato e amano Castro, la minuscola ma fulgida e unica Perla del Salento.

D’altronde, la località rappresenta, davvero, un eccezionale concentrato di storia, monumenti, vestigia, bellezze naturali e tradizioni.

Riguardo all’ultimo aspetto anzi richiamato, è risaputo, anche, che la cittadina ha per protettrice la Madonna, precisamente Maria SS. Annunziata, cui è intitolata la chiesa parrocchiale, appellata, a buon titolo, ex cattedrale, a motivo che Castro, fra l’altro, è stata, sino al 1818, sede vescovile.

Un’intensa e viva devozione regna, da secoli, in seno alla popolazione, tant’è che, fra gli abitanti, sono diffusi i soggetti dal nome, chiaramente dedicato, di Annunziata, Nunziata, Nunziatina, Tina e Nunzio.

Ogni anno, in onore della Vergine patrona, nella seconda metà di aprile, si svolgono solenni festeggiamenti, sia di carattere civile, con luminarie e fuochi d’artificio, sia d’impronta prettamente religiosa.

Il cuore delle celebrazioni religiose è la processione, con la statua in cartapesta della Madonna portata lungo le strade del paese; vi partecipa l’intera comunità, evidentemente pervasa da spontaneo riguardo e devozione verso la Vergine tutelare.

castro1

Uomini, donne, bambini, giovani, anziani, tutti in corteo rigorosamente con l’abito della festa e adornati sobriamente di ori e preziosi. E’ il caso di rimarcare “sobriamente”, giacché, nella fattispecie, non è questione di moda o ostentazione, bensì di un atto di mero omaggio e di devozione alla Madonna.

A proposito della protettrice Maria SS. Annunziata e dei connessi festeggiamenti, quest’anno mette conto di dare rilievo a un evento straordinario assai indicativo: il restauro del simulacro in cartapesta, affrontato, sotto il coordinamento del parroco pro tempore don Fabiano Leone, grazie al generoso sostegno di alcuni devoti e della popolazione castrense in generale.

L’intervento di ripristino della statua è stato appena ultimato e la Madonna – sabato 25 marzo, giorno della sua festa liturgica – farà ritorno, bella e splendente come e più di prima, nella sua Casa.

Nardò e altri centri limitrofi in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

 

Aradio vel Artellte: oggi Aradeo; Artellte ha tutta l’aria di essere errore di lettura/scrittura, ma di che?

Casale Rocco: attendo notizie.

Crustano: oggi Torre Uluzzo (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/15/torre-santisidoro-e-torre-uluzzo-sulla-costa-di-nardo/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/22/lasfodelo-uluzzu-erba-degli-eroi/).

Mi pare poco probabile che Crustano derivi da κρῆθμον (per cui vedi più avanti lo crito); vittima, forse, di una fantasia troppo fervida, io non escluderei che possa derivare dal greco ἀκροστόμιον (leggi acrostòmion)=sommita della bocca, con riferimento all’insenatura limitrofa, anche se è scontato che ogni torre fosse collocata nel punto più elevato del tratto costiero interessato.

Fogona: oggi S. Barbara o, meglio, Collemeto? Leggo in rete che in epoca medioevale la prima si sarebbe chiamata S. Barbara de paludibus. Non vorrei che le consuete mancate indicazioni bibliografiche e/o documentali facessero il paio con uno straripamento non delle antiche paludi ma della mia attuale fantasia che mi ha spinto a considerare il toponimo della carta come una  versione popolare del nome della santa notoriamente connessa con il fuoco. Tuttavia, fantasia per fantasia, Fogona potrebbe essere una variante, sempre popolare, della Casa rossa che compare nella carta di Rizzi-Zannoni e che come dislocazione sembra più di S. Barbara in linea con Fogona. Perciò in alternativa privilegiata ho posto Collemeto. Attendo notizie.

galatula: oggi Galatone

laghistrello: in un primo momento avevo ipotizzato che corrispondesse agli attuali Patuli (Paludi), luogo ancora oggi soggetto ad allagamenti, fenomeno evocato da laghistrello che sembra essere italianizzazione di un latino *lacustrellum, diminutivo neutro sostantivato parallelo al classico lacusculus=fossato. Tuttavia un po’ più a nord (non visibile nel dettaglio riportato) compare un Laghiastro con accanto cinque casette contro le quattro che accompagnano Laghistrello. Tutto ciò mi fa pensare che Laghistrello sia diminutivo di Laghiastro e che quest’ultimo corrisponda ad Ogliastro, per il quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/28/vicende-della-masseria-e-feudo-diogliastro/. Laghiastro sarebbe deformazione di Ogliastro per probabile incrocio italianizzante con laghi che a questo punto appaiono, è il caso di dire, come pesci fuor d’acqua essendo impensabile che un centro abitato, per quanto minuscolo, potesse sorgere in una zona paludosa. Quanto alla l iniziale si tratta di un fenomeno del tipo di Alimini, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/16/alimini-appunti-storia-del-toponimo/.

la Assanta vel S. Maria della Aillo: oggi Torre S. Maria dell’Alto; Assanta e della Aillo errori di lettura/scrittura per Assunta e dell’Alto, in cui la profondità del mare (o la relativa altezza del luogo, come afferma il Tafuri1, con il quale, una volta tanto …, sono d’accordo tenendo presente la forma antica del toponimo: Torre del salto della capra2) si fonde con il cielo?

labagnola: attendo notizie.

lo Crito: oggi Torre Inserraglio o Torre Critò (Inserraglio potrebbe evocare una funzione detentiva o di quarantena, anche se non ho notizie in tal senso; non credo che possa essere deformazione di saracchio, perché quest’erba alligna nei luoghi sabbiosi; Critò è probabilmente dal greco κρῆθμον (leggi crethmon)=finocchio marino).

lo Artilli: oggi Torre dell’alto lido (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/10/la-montagna-spaccata-e-la-rabbia-12/). La Torre, rappresentata sulla carta a sinistra del gruppo di case, trae da questo il suo nome o viceversa? Questo, secondo me,  è uno dei tanti elementi interni da tenere in conto per la datazione finale  stessa della carta.

Nardo: oggi Nardò

Neviano: oggi Neviano

Noia: oggi Noha

Scaleone: potrebbe essere deformazione di Scaglione, famiglia gallipolina citata più volte in Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, pp. 207, 264, 265 e 516.

Secli: oggi Seclì

Sta Catharina Nova: oggi S. Caterina Novella

S.to Nicola delli Pergolesi: oggi S. Nicola di Pergoleto

S.to Pietro in Galatina: oggi Galatina

Tabella:  è il feudo Tabelle,  il cui nome compare per la prima volta in un diploma del 1092 ora perduto, del quale si fa menzione nel regesto compilato in occasione della visita pastorale di Cesare Bovio del 1578, in cui si legge: Instrumentuo donationis factae Ecclesiae predictae quae tunc temporis erat Monasterium sub titulo S. Mariae de Nerito per Goffredum Inclitum sic appellatum qui comes erat sub anno 1092 de terra una extra civitatem Neritonensem in loco Sancti Nicolai  iuxta fines ibi tradditos. Item de terra una quae fuit cuiusdam Ugerii in loco Tavelle et de alia terra quae est in loco de Derneo iuxta fines ibidem tradditos (Atto di donazione fatta alla chiesa predetta, che allora era del monastero sotto il titolo di S. Maria di Nardò da Goffredo l’Inclito così chiamato che era conte nell’anno 1092, di una terra fuori la città di Nardò, in località S. Nicola presso i confini ivi riportati. Parimenti di una terra che fu di un certo Ugerio in località di Tavella e di un’altra terra che è nel luogo di Arneo presso i confini ivi riportati).

Torretta: attendo notizie.

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

________

1 Giovanni Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito, ed antichità della città di Nardò, Zane Venezia, 1735, p. 54. Per la recentissima, pregevole riproduzione anastatica a cura di Massimo Perrone vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/12/08/dellorigine-sito-ed-antichita-della-citta-di-nardo-la-ristampa-anastatica-a-cura-di-massimo-perrone/.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/06/11/sulla-torre-di-s-maria-dellalto-a-nardo/

 

Stille di scrittura, intorno a cento anni di dolcezza

Stille di scrittura, intorno a cento anni di dolcezza: 20 marzo 1917 – 20 marzo 2017

di Rocco Boccadamo

Esattamente un almanacco fa, in concomitanza con una meno indicativa e strettamente personale ricorrenza, mi venne di cavare dalla penna le seguenti note, incipit di un testo intitolato “I quindici lustri di un narrastorie salentino” e opportunamente più articolato:

Duemila sedici meno mille novecento quarantuno, fanno settantacinque. A Marittima, Basso Salento, nel rione popolare dell’Ariacorte, erano circa le 3:00 del mattino di una lontana, lontanissima domenica intorno a metà marzo, quando, nella modesta abitazione a piano terra di proprietà dei coniugi Immacolata e Silvio, si accingeva a venire al mondo il loro secondogenito, ossia a dire, si andavano schiudendo alla vita gli occhi dell’autore delle presenti righe.

A quei tempi, è diffusamente noto, i bambini non nascevano in ospedale oppure in clinica come accade adesso, bensì nella casa dei genitori, sul letto grande, con la puerpera, sorretta, assistita e aiutata dalle mani abili della levatrice e dall’esperienza delle altre donne di famiglia già sposate e mamme.

Nel ruolo d’ostetrica condotta comunale si trovava Donna Elvira Vainò, originaria, se ben ricordo, della zona di Galatina, la quale abitava nella frazione capoluogo di Diso, insieme con il marito Don Consalvo e, ironia del fato, senza figli. Lei compieva il suo prezioso servizio, con copertura, anche, ovviamente, delle altre frazioni di Marittima e Castro, muovendosi in sella a una bicicletta da donna e portando con sé, appesa al manubrio, una capiente borsa, contenente quanto necessario all’atto degli interventi d’assistenza. Pur essendo, la protagonista del lieto evento che stava per maturare, una donna mite e soprattutto paziente, i suoi naturali e comprensibili lamenti durante il travaglio arrivavano a raggiungere l’udito dei vicini e di qualche compaesano che si trovava a transitare lì, all’angolo tra la breve via Nizza (così era denominata l’attuale via Piave) e la strada che, ancora oggi, si diparte in direzione di un vasto comprensorio agricolo, fino alla scogliera demaniale, per sfociare in corrispondenza dell’amenissima, anzi, in un certo qual modo magica, insenatura “Acquaviva”.

Sì, un comune effetto, in questo caso beneaugurante, delle doglie, percepibile anche all’esterno delle mura domestiche strettamente interessate, che suscitava sentimenti di tenerezza all’indirizzo di una giovane mamma (a distanza di alcuni giorni, avrebbe compiuto ventiquattro anni), da tutti conosciuta e stimata, in seno alla minuscola località, per le spiccate doti di semplice e intensa bontà, dolcezza e cordialità. Ancora oggi, capita, spesso, sotto lo stimolo di reminiscenze ormai così distanti e, tuttavia, sempre vive, che siffatto impulso emotivo s’ingeneri dentro di me, nel ricordo di mia madre. Pensare, che, dopo averne fatti, in totale, ben sei, di figli, la donna se ne sia andata esattamente mezzo secolo addietro, col nascituro di quella metà marzo 1941 nel frattempo arrivato a venticinque primavere, in sostanza pressappoco alla stessa età della sua mamma intenta, sul lettone di casa, a dischiudere generosamente il proprio grembo per lui.

1953, mia madre in abito da festa per il matrimonio del fratello Toto.
1953, mia madre in abito da festa per il matrimonio del fratello Toto.


                                                                       °   °   °

Allora, il riferimento anagrafico era, è ovvio, a me e, però, dalle suddette righe, traspare come il sentimento e la mano del narratore incedessero indirizzandosi e rivolgendosi a un’altra precisa persona, con l’intento di rendere un ennesimo, forte omaggio postumo, alla sua indimenticabile figura.

Già, mentre, scorrendoli alla stregua dei cerchi concentrici arrivati a spuntare e a sovrapporsi con straordinaria precisione lungo il tronco di un ulivo senza età, mi rendo conto che i miei grani esistenziali hanno, nel frattempo, oltrepassato di un’unità gli indicativi quindici lustri, in occasione del presente nuovo spunto a narrare, mi succede, specialmente, d’avvertire dentro sentimenti più forti, un’emozione che mi prende quasi come un nodo in gola, dita che, serrandosi a impugnare e guidare la penna, non denotano l’abituale assetto fermo ma, al contrario, sembrano inevitabilmente prese da fremito e tremore. Ancora già, sull’orizzonte innanzi a me, si staglia una differente data di nascita, 20 marzo 1917, e dunque, con riferimento a quell’altra persona, nel mese andante, viene a comporsi e a rintoccare un intero secolo.

Ed è grande il desiderio, anzi il bisogno, nel sentire del ragazzo di ieri, di cercare di ripercorrere, almeno per qualche tratto, il suo purtroppo breve passaggio accanto alle persone care e famigliari e, allargando lo scenario, a tutti quelli che hanno avuto agio di conoscerla e frequentarla.

A connotare la sua figura, le precipue doti di dolcezza, empatia, semplicità, generosità, bontà, impegno, pazienza, spirito di comprensione e tolleranza, amorevolezza e mitezza, qualità o virtù, assimilate, con concorso quasi equanime, dai genitori Lucia e Giacomo. Ma, oltre che alla naturale vicinanza a questi ultimi, tracciando un arcobaleno ideale poggiato su una serie di generazioni, mi piace riandare pure alla consuetudine, di mamma Immacolata, ragazzina e adolescente, di compiere un affettuoso e intenso scambio suppletivo con la sua progenitrice nonna Raffaela, nella cui casetta, per lunghi periodi, si portava, puntualmente, la sera, restandovi a dormire.

La mia famiglia nel maggio 1949 (manca l'ultimogenito che nascerà nel dicembre successivo)
La mia famiglia nel maggio 1949 (manca l’ultimogenito che nascerà nel dicembre successivo)

 

Ciò, in parallelo, alla prestazione, da primogenita, di costanti cure verso i fratelli e le sorelle più piccoli e, ancora, dei primi aiuti a beneficio dei genitori, ai fini dell’espletamento dei lavori in campagna.

Intanto, avanzavano le sue stagioni, contraddistinte in via preponderante, fa niente se lo ripeto, da dolcezza, toni sempre concilianti, compostezza e sorriso sulle labbra e negli occhi. Andava, così, sbocciando e fiorendo una giovane donna esemplare e, insieme, di bell’aspetto e, perché tale, affatto inosservata e, a ogni modo, assai benvoluta fra coetanei e coetanee. Esito di siffatte qualità, ad appena ventun anni, passava già a sposarsi. A proposito della sua giovane età all’atto delle nozze, lei soleva talvolta rammentare, sorridendo, a se stessa e a chi la ascoltava, come la sua fortunata metà (mio padre), soprattutto agli inizi del ménage, se ne uscisse con l’evidenziazione, in dialetto salentino, “eri nna vagnona, mancu mpinnata bbona” (traduzione in italiano: “eri una ragazza, neppure ricoperta a sufficienza da piume, peli e (nel nostro caso umano) capelli”. Mpinnata o meno, nell’arco di dieci anni, ben sei maternità e lei, per ciò, intensamente e diuturnamente presa dalle fatiche, anche dure, per crescere la prole.

Quante fasce (all’epoca, non esistevano i pannolini) da avvolgere, svolgere, pulire e lavare, quanti lavandini di piatti, pentole e stoviglie, quante pappine da predisporre e somministrare, quanti bucati, piccoli e grandi (cofini), da eseguire.

Rivedo ancora, vivide, screpolate, talora quasi sanguinanti, le sue mani consumate e rovinate dal sapone e dalla liscivia (acqua del cofinu, a lungo portata a ebollizione insieme con strati di cenere per pulire e rendere bianco il bucato più grosso).

Purtroppo, i precari benefici di qualche pomata che il medico di famiglia le prescriveva, erano vanificati dall’impossibilità di fermarsi o di tenere riguardati gli arti, le necessità della famiglia non concedevano tregua, con la conseguenza che, nella migliore delle ipotesi, i tempi della guarigione si protraevano.

Intanto, lei si occupava anche di seguire i figli durante i loro primi impegni scolastici. Inoltre, in talune occasioni, non esitava a intervenire con la sua pacatezza per fronteggiare e controbilanciare qualche saltuario e inevitabile sbotto del capo famiglia, inducendolo, in breve, a quietarsi e a passare alle scuse.

Come era bello, per noi figli, man mano che ci avviavamo alla crescita, osservare il suo volto nei momenti di serenità, con gli occhi neri che brillavano sopra e accanto a un composto, e a modo suo accattivante, accenno di sorriso!

Fino a quando, poco più che quarantenne, una terribile frana non ebbe a caderle addosso, raggelando, d’intorno, tutti e tutto.

Ciò nonostante, durante la parentesi di circa sette calendari che si susseguì, pur tra sofferenze, preoccupazioni e comprensibili timori, giammai mutò il suo modo di comportarsi. Quasi, a voler, fortemente, continuare, come se nulla le fosse occorso, a incoraggiare e spronare, la sua famiglia, le persone care e gli amici, a non abbattersi, a guardare, invece, avanti e ad aver fede e fiducia.

A un certo punto, nel decorso del problema di salute, si aprì un precipizio, lasciandole, però, lo spazio di vedere due figli mettere su, a loro volta, una famiglia e la gioia di tenere, sia pure a fatica, tra le braccia, nel ruolo di madrina di battesimo, il primo nipotino, la cui vicinanza le allietò anche il Natale che precedette la sua dipartita.

Estate 1942 al Serritu, con nonni e zii e zie materni
Estate 1942 al Serritu, con nonni e zii e zie materni

Messi di ricordi, a lei correlati, si muovono, dal sentire inferiore alla mente, e si affastellano. Si tratta per me di un vero e proprio patrimonio ideale e morale, che, da sempre, tengo a serbarmi accuratamente dentro, come compagnia per le mie giornate, sia in rapporto al periodo più lungo già percorso, che riguardo al sentiero che mi resta davanti. Avverto, nondimeno, il bisogno di inserire, in questi appunti, la memoria di una particolare lettera, purtroppo, andata in seguito, non so come, perduta, che volli scriverle, verso la fine del 1965, da Firenze, dove mi trovavo, temporaneamente, per ragioni di lavoro. Con un tono colloquiale, in quel testo, mi soffermavo, principalmente, sulla circostanza che lei avesse concorso a formare e allevare una famiglia numerosa, con sei figli nettamente diversi tra di loro e, però, tutti contraddistinti da una caratteristica comune: il bene profondo, un’autentica devozione nei suoi confronti.

Ora, a così tanti anni di distanza temporale, mi sta sembrando di dedicarle una seconda lettera, che, non a caso, desidero chiudere con una piccola serie di documenti, ricordi e immagini che hanno a che fare con la speciale destinataria.

Con sincero, immenso affetto e amore, carissima mamma, anche a nome (lo faccio senza alcuna remora pure per loro), di tuo marito (mio padre) che si trova lassù con te e degli altri tuoi figli (miei fratelli e sorelle).

Mesagne e la festa di San Giuseppe

s-giuseppe

di Carmelo Colelli

La festa ti San Giuseppu cuntata ti lu zzu Cocù

-Bongiornu zzu Cò, comu stai?

-Beh! Non cc’è mali ndi putimu ccuntintari! Tegnu quasi novant’anni e rringrazziandu a Ddiu pozzu ncora caminari, ncuntrari li cristiani e rraggiunari cu loru.

-Uè zzi t’agghiu nnuttu to zeppuli ti San Giuseppu, cussì ti li mangi a mmenzatia culla la zza Rosa.

-A fattu buenu figghiu mia, ca iu m’aggiu rricurdatu ca osci eti San Giuseppu, prima sobba allu calandariu lu mintiunu a rrussu, ma moni, avi bueni anni ca non lu mentunu cchiui pirceni la festa l’annu llivata. Prima sta festa era proriu nna bella festa ti devozzioni pi llu santu falignami e puvirieddu.

-Zzu Co’, contimi nnu picca, com’era prima la festa ti San Giuseppu.

-Tant’anni aggretu pì sta festa si ncuminzava a priparari già parecchi ggiurni prima, nc’era l’usanza la sera ti San Giuseppu cu si ppicciava lu “Fanoi” e la menzatia cu ssi priparava la “Tria”.

Pì priparari lu fanoi, tutti li vagnuni sciunu girandu casa casa pì circari sarcini e salimienti e ogni cristianu nci tava to tre sarcini, ognunu ti loru si nni caricava una sobba alli spaddi e lla purtava all’angulu chiù largu ti li strati.

A quiddi tiempi la campagna stava vicinu alli casi e li vagnuni sciunu puru fori, allu vicinu e sa ccugghiunu ramagghia ti aulii e ntenni siccati ca li uemmini erunu lassatu nterra toppu la putatura.

Chianu chianu all’angulu si facia na catasta sempri chiù ierta e chiù llarga, li villani la sera quandu si rritiraunu ti fori, cu li traini, puru loru nnuciunu atri sarcini, salimienti, ramagghia e ntenni siccati, e la catasta si facia sempri chiù ierta e chiù grandi.

Pì lli vagnuni era nnu sciecu, faciunu a gara a ci purtava cchiù sarcini, nc’erunu quiddi ca cu ssi fannu a vetiri ca erunu chiù forti sobbra alli spaddi si nni caricaunu puru toi e ttreti.

Comu t’agghiu tittu prima, siccomu San Giuseppu eti lu santu ti li puvirieddi, nc’era puru l’usanza ti priparari lu pranzu pi tridici puvirieddi, ttreti ti loru rapprisintuaunu San Giuseppu, La Matonna e Gesù Cristu e l’atri rapprisintaunu li Santi, e forsi pi sta rascioni lu pranzu si chiamava la “Tria”.

Qua vicinu, n’cera lu nunnu Vitucciu, ca ogni annu facia la “tria”, stu cristianu non era riccu, pi iddu era nu sacrificiu, ma tinia sta devozioni, era aiutari quiddi ca no putiunu mangiari, armenu cuddu ggiurnu.

Totta la famiglia ti lu nunnu Vitucciu, ccuminzava qualchi sittimana prima a priparare ciò ca nci sirvia, pi prima cosa sgumbraunu ti li scigghi la rimesa, la ncuacinaunu e all’angulu ti fronti allu purtoni faciunu n’altarinu cu li tauli e li banchi, rricupriunu tutto cu li coprilietti ti seta colorati, sobbra nci mintinu nnu lanzulu biancu rricamato e sobbra allu lanzulu, sistimaunu llu quadru ti San Giuseppu.

La taulata la faciunu cu lli tauli ti lu liettu, mintiunu na banca e nu picca chiù luntanu n’atra banca e sobbra ntra una e l’atra nci ppuggiaunu li tauli.

Pì quddu ggiurnu la nunna Ntunietta, assia li tuvagghi chiù belli ca tinia, quiddi rricamati a manu, quiddi ca era avuti pì tota, li llavava e li stirava e la matina ti la festa li sistimava sobbra alla taula.

Li femmini ti vicinu casa nsiemi alli fili sua l’aiutaunu, nc’era ci llavava piatti e bicchieri, ci vacava lu vinu ntra li bucali, ci priparava la verdura pi sobbrataula, ci cucinava, edda sistimava bicchieri, furcini, curtieddi e fiuri sobbra alla taula, pi urtumu nci mintia vicinu a ogni postu nu panittuddu ti pani, lu pani spiciali a forma ti frisedda grandi, cuddu ca era fattu lu ggiurnu prima.

Lu ggiurnu ti la festa, sotta allu quadru, tanti candeli, tanti portafiuri cu tanti fiuri, li fiuri no ssi ccattaunu, li purtaunu li cristiani ti qua nnanzi, tannu ntra ogni ortali nuestru crisciunu tanti belli fiuri, li calli bianchi, li bocca ti lupu, li rosi, li garofuli e tanti atri.

Sotta menzatia quedda rimesa simbrava diversa ti tutti l’atri ggiurni, simbrava nu saloni pi lli festi, sobbra alla taula nc’era tuttu lu ben di dio, atturnu li tridici puvirieddi, a caputaula san giuseppu e ti costi a iddu la matonna, e all’atru costi gesù cristu.

Lu nunnu Vitucciu e la nunna Ntunietta, tisi ti fronti alla taula, vicini a loro lu previti cu toi picuezzuli, vistuti comu quandu stannu sobbra all’altari, atturnu atturnu li cristiani ti vicinu casa, crandi e piccinni.

Lu previti biniticia la taula e tutti li cristiani ca staunu ntra quedda rimesa, toppu la binidizioni ognunu turnava a casa sua e lu nunnu Vitucciu e la nunna Ntunietta ccuminzauno a sirviri lu pranzu a li puvirieddi, loru quddu ggiurnu no si ssittaunu a quedda taula, la devozioni loru era cu servunu a ci avia bisuegnu.

Tanti erunu li cosi ca la nunna Ntunietta era priparatu, pietanzi nustrani e sapuriti, ti la tradizioni ti li villani ti lu paisi nuestru, tutti cosi curtivati ti loro stessi o ti li vicini ti casa.

Alla fine ti lu pranzu lu nunnu Vitucciu sirvia a tutti li zeppuli ti San Giuseppu, l’era sa ccattati la matina prestu ti lu bbarra ca stava alla Porta Grandi.

A ogni puvirieddu, la nunna Ntunietta nc’era priparato nu fagottu e intra nc’era misu na pagnotta ti pani, na buttiglia ti vinu e atri cosi ca erunu rimasti ti lu pranzu, nsomma quiddi puvirieddi putiunu mangiari ancora pi natri toi tre ggiurni.

La sera quandu lu sole era calatu, sempri ci nc’era statu, pirceni a marzu lu soli nu picca stai e nu picca si nni vai, lu nunnu Chiccu ccuminzava a mettiri fuecu sotta alla catasta sistimata all’icrocio ti li strati.

Chianu chianu lu fuecu pigghiava forza, ti nn’angulu all’atru si tava voci ca lu Fanoi sta ppicciava, e li cristiani si ccuminzaunu a nvicinari.

Nanzi nanzi, atturnu atturnu, staunu tutti li vagnuni chiù piccinni, chiù ggretu li crandi, tutti li famigli si rriuniunu vicinu allu Fanoi, pi tradizioni, pi devozioni e pirceni era proriu bellu cu vitivi li fiammi gialli e russi, ca si azaunu versu lu cielu ca oramai s’era fattu scuro e si vitiunu li stelli e la luna.

Si cantava, si parlava, si nbivia ncunu bicchiere ti vinu e chianu chianu la sirata passava e lu fanoi cu li fiammi e li scintilli divintava sempre chiù bellu.

Si scia ti nu fanoi all’atru, pi vetiri quali sta ppicciava megghiu, qual’era cuddu chiu grandi e cuddu ca turava ti cchiui.

Ogni tanto sintivi scattarisciari qualche ntenna, li vagnuni si anchiunu li poti ti sali cruessu e ogni tantu lu iaticaunu ntra lu fuecu senza cu si faciunu avvetiri, subbuti sintivi scattarisciari e vitivi tanti scintilli, tanti cristiani si spantaunu e si lluntanaunu e li vagnuni ritiunu.

Quandu oramai lu fuecu s’era sbasciatu e staunu tanti crauni belli rrifucati, chianu chianu li cristiani si anchiunu li frasceri e si li purtaunu ntra casa loro, era lu fuecu binidettu ti San Giuseppu.

Era na festa pì tutti, pì crandi e piccinni, e puru ca annu passati tant’anni no ti la puè scurdari.

La cenniri ca rumania si ccughia e lu ggiurnu toppu li villani la spandiunu fori sempri in onori ti lu Santu Falignami e Puvirieddu.

Moni la festa eti tiversa e menumali ca armenu annu rimasti li zzeppuli.

Le Tavole di San Giuseppe 3

 

La festa di San Giuseppe di tanti anni fa, a Mesagne (Brindisi), raccontata da zio Cosimo

Bungiorno zio Cosimo, come stai?

Beh! Non c’è male, ci possiamo accontentare.

Ho quasi novant’anni e ringraziando Iddio posso ancora camminare, incontrare le persone e ragionare con loro.

Zio ti ho portato due zeppole di San Giuseppe, le mangiate a mezzogiorno insieme alla zia Rosa.

Hai fatto bene figlio mio, io mi sono ricordato che oggi è San Giuseppe, prima sul calendario il 19 Marzo era colorato di rosso, adesso non lo è più perché questa festa l’hanno tolta.

Questa festa era proprio bella, una festa di devozione per il santo falegname e poverello.

Zio, raccontami come si festeggiava San Giuseppe qui a Mesagne.

Il racconto ha inizio:

Tanti anni fa, per questa festa, i preparativi iniziavano alcuni giorni prima, vi era l’usanza la sera di San Giuseppe di accendere i falò, “Li fanoi”, per le strade, a mezzogiorno si preparava un pranzo speciale per i poveri, detto: “La Tria di San Giuseppe”.

Per preparare il falò, tutti i ragazzi del quartiere andavano di casa in casa a chiedere fascine e salmenti: tutti ne donavano. Ogni ragazzo si caricava in spalla le fascine e le portava all’incrocio più largo tra due strade.

Per i ragazzi era un gioco, facevano a gara a chi riusciva a trasportare più fascine, vi erano alcuni che per dimostrare la loro forza se ne caricavano sulle spalle anche due o tre, era una festa la preparazione.

Pian piano, all’incrocio, la catasta diventava sempre più alta e più larga, i contadini, la sera, tornando dalla campagna, con i carretti, portavano altre fascine e altri rami secchi di albero di ulivo, resti della potatura degli alberi, la catasta diventava sempre più alta e più grande.

Siccome San Giuseppe è il santo dei poverelli, vi era l’usanza di preparare un pranzo per tredici poveri, tre di loro rappresentavano San Giuseppe, la Madonna e Gesù, gli altri i vari Santi, un pranzo senza carne ma con tredici portate, chiamato da sempre: “La Tria di San Giuseppe”.

Vito, un mio vicino di casa, ogni anno preparava “La Tria”, non era ricco, per lui era un sacrificio, aveva però questa devozione, desiderava aiutare chi non poteva mangiare, almeno il giorno della festa di San Giuseppe.

Tutta la famiglia di Vito collaborava alla preparazione, la settimana prima, gli uomini sgombravano la rimessa, il locale dove tenevano gli attrezzi da lavoro per i campi, che era quello più grande per ospitare tante persone, lo imbiancavano con calce bianca e, all’angolo di fronte al portone d’ingresso, con tavole e tavolini, preparavano l’altarino.

Le donne ricoprivano la struttura con vari copriletti di seta colorata, sopra veniva steso un lenzuolo bianco e ricamato, il più bello che la padrona di casa aveva avuto in dote, al centro, in alto troneggiava il quadro di San Giuseppe.

Per sistemare la lunga tavolata, erano utilizzati dei tavoli, avuti in prestito dai vicini di casa, su cui erano poste le tavole del letto.

Per quel giorno Antonietta, la moglie di Vito, apparecchiava la tavola con le tovaglie più belle, il giorno prima le prendeva dall’ultimo cassetto del comò, le lavava e le stirava.

Tutte le donne del vicinato insieme alle figlie di Antonietta collaboravano ai preparativi, chi lavava piatti e bicchieri, chi riempiva i boccali di vino, chi preparava la verdura per la “sopratavola”, chi cucinava.

Una pagnottella di pane a forma di frisella, preparata il giorno prima, veniva sistemata al posto di ogni commensale.

Il giorno della festa, sotto il quadro di San Giuseppe, tante candele e tanti fiori, portati dai vicini.

Poco prima di mezzogiorno, tutto era pronto per la festa, sulla grande tavolata vi erano tante cose buone, attorno i tredici poveri, al centro San Giuseppe alla sua destra il figlio Gesù e alla sua sinistra Maria.

Vito e Antonietta, in piedi di fronte alla tavola, accanto a loro il prete con i due chierichetti, attorno i vicini di casa, grandi e piccoli.

Dopo che il prete aveva benedetto la tavola e i presenti, Vito ed Antonietta cominciavano a servire il pranzo ai loro ospiti.

Tante cose buone preparate da Antonietta, pietanze della tradizione contadina, il piatto principale era composto da ceci e piccolissime lasagne fatte in casa, alcune fritte, dette in tutto il Salento “tria”, da qui il nome: “La tria di San Giuseppe”

Alla fine del pranzo, Vito serviva a tutti le zeppole di San Giuseppe, le aveva comperate la mattina presto dal bar, vicino alla Porta Grande.

Per ogni povero, Antonietta aveva preparato un fagottino, con dentro una pagnotta di pane, una bottiglia di vino ed altre pietanze rimaste dal pranzo, così potevano mangiare ancora per altri due tre giorni.

La sera quando il sole era calato, Chicco, un signore anziano del vicinato, accendeva la catasta di legna sistemata all’incrocio delle strade.

Piano piano il fuoco prendeva forza, da un angolo all’altro ci si dava voce che il Falò era stato acceso, la gente cominciava ad avvicinarsi.

In prima fila, in cerchio c’erano i ragazzi, quelli più piccoli, dietro quelli più grandi, attorno intere famiglie. Tutti attorno al Falò, per tradizione e per devozione, era proprio bello vedere le fiamme gialle e rosse che si alzavano verso il cielo, oramai fattosi scuro, si vedevano anche le stelle e la luna.

Si cantava, si parlava, si beveva qualche bicchiere di vino, pian piano la serata passava ed il falò con le fiamme e le scintille diventava sempre più bello.

Si andava da un falò all’altro, per vedere quello più bello, il più grande e quello che durava di più.

Ogni tanto si sentiva qualche scoppiettio, erano i rami secchi. Alcuni ragazzi si riempivano le tasche di sale da cucina, quello grosso e, ogni tanto, senza farsene accorgere lo lanciavano nel falò, si sentiva subito scoppiettare ancora e si alzavano tante piccole scintille, molte persone si spaventavano e si allontanavano e i ragazzi ridevano a crepapelle.

Quando la catasta si era quasi consumata e i carboni erano belli ardenti, le persone si riempivano “le frascere”, dei contenitori in rame per il fuoco e le portavano a casa, era il fuoco benedetto di San Giuseppe.

La cenere che rimaneva si raccoglieva ed il giorno dopo i contadini la spargevano in campagna in onore del Santo Falegname.

Era una festa per tutti, per grandi e piccoli, anche se sono passati molti anni non la si può scordare.

Zio Cosimo conclude dicendo:

“Ora la festa è diversa, sono però rimaste le zeppole”.

A zio Cosimo luccicano gli occhi ed io ho un nodo in gola, lo ringrazio per il bel racconto e mi allontano.

 

“Fra’ Giuseppe Desa da Copertino”- processo neretino di beatificazione (1664)

La Società di Storia Patria, Sede- Delegazione di Copertino, la Custodia Generale del Sacro Convento di Assisi, le Province Francescane di Puglia e delle Marche presentano l’Opera, a cura di Francesco Merletti e Mario Spedicato, il 23 marzo alle 18,00 presso la Chiesa ex Clarisse di Copertino.

Si tratta di uno studio che getta nuova luce sulla conoscenza della figura del Santo dei Voli. Nasce, infatti dall’acquisizione di un documento inedito conservato presso l’Archivio Vaticano, il Processo di Beatificazione Neritonensis del 1664. Esso presenta interessanti peculiarità rispetto al documento conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce, il Processo Apostolico del 1689, di cui lo stesso prof. Spedicato si è precedentemente occupato. Siamo di fronte al processo informativo, il primo di Nardò, che dette l’avvio all’iter per la canonizzazione del Santo copertinese.

La peculiarità dell’opera riguarda le testimonianze, dato che su 43 testi 39 sono copertinesi, in grado quindi di descrivere con dovizia di particolari episodi, incontri, elementi di territorialità di quella società rurale in cui il Santo visse e nella quale aveva un posto rilevante la fede, così come la solidarietà e l’accoglienza. Fortemente emergono le virtù dell’umiltà, della povertà, della mansuetudine, dell’amore per la natura di S. Giuseppe e soprattutto la sua disponibilità verso chi gli si accostava, la tenerezza per l’umanità sofferente. Va inoltre rilevata la puntuale e paziente trascrizione del documento svolta da Padre Francesco Merletti.

Manifesto-01

Ci pensa alla gente campa miseru e pizzente!

mugnaio_asino_fontaine

di Vincenzo Mariano

Or mi ricordo e vi racconto. La provenienza? Boh… Forse una lettura alle elementari o nu cuntu ti lu zi Totò da me fantasiatu.
Quella mattina si erano alzati presto padre, figlio e puru lu ciucciu. Lu jaddru non aveva fattu ncora lu sua dovere e iddri stìanu già alla distilleria.
La giornata fu lunga da passare: li fae a ncufanare e poi a spuntare, li fiche a putare e poi li sarmente pi li spicaluri.

Tutto fatto. “Giusta lu ciucciu ca turnamu a casa”, tisse lu sire a lu figghiu.
Il timido sole diceva che era già passata menzatìa quannu giùnsera alla distilleria.

Su lu purtone, cu lu sicaru curtu, lu Ntoni li edde e disse:

– iti e biti, lu poru ciucciu, no sulu li sarmente, ma puru iddri a ncaddru. Ah sorta sua!

Il padre, sentito, scese dall’asino e così fece fare al figlio. Prese lu fascettu ti sarmente sulla spalla e si avviarono. Lu castieddru ncora no parìa quannu li edde la Consulata ti li passaricchi, che alla scena, così reagì:

– lu munnu s’à firmatu, comu! iddri a mpete e cu li sarmente a ncueddru e lu ciucciu a passeggiu? Fanne salire almenu lu frusculieddru. Mah, ah sorta loru.

Fu sotta a la fica ti li Capuccini che il padre fece salire il figlio sull’asino e così, con lui a piedi, andettero.
Lu firraru faceva sentire il martello sull’incudine e più forte la sua voce:

– a cosa si assiste, lu figghiu a ncaddru e lu sire a mpete e puru cu li sarmente. E lu rispettu? S’à persu!

Rriati alla porta ti San Giuseppu, il padre fece scendere il figlio, ni tese a manu la corda ti lu ciucciu e lui si accomodò ngroppa cu tutte li sarmente. Superata la porta, ma no castieddru, fu na Trisicchiula che rivolta a na Carcaluru strulicàu:

– quiddri sta bèninu ti la fica paccia, lu figghiu a mpete e lu sire a ncaddru. Mmara a lu figghiu ci tene nu tristu patri.

Alla funtana ti castieddru, lu Filiciettu, che sarebbi statu lu patri, pigghiàu lu pane ti la sacchittola, lu mmuddrau e cu la muddrica fece quattru palle. Toi a li recchie ti lu figghiu e doi a li sua. Salira su llu ciucciu e caminara. Quannu girara pi la chiesa rande, no sintianu mancu li zzòcculi ti lu ciucciu sobbra a li chianche. Silenziu assolutu.
Videra nu Scaculi gesticolare, ma non sentendolo, proseguirono sereni fino a lu palazzu ti don Ronzu, dove nelle vicinanze insisteva la staddra e fu subito casa, fu famiglia e fu riposo.

 

Ricordo di Salvatore Toma, a 30 anni dalla sua morte

FORTEZZA IN OPERA

Ipogeo Bacile-Teatro Sotterraneo/Spongano

Salvatore Toma
Salvatore Toma

 

Teatro S- Ricordo di Salvatore Toma

17 marzo 2017- ore 20.30

CANZONIERE DELLA MORTE

concerto poetico su testi di Salvatore Toma

 

Voce e Regia Salvatore Della Villa

Quartetto D’archi “Nuova Musica”

Violini Annalisa Monteduro  Flavio Caputo

Viola   Andrea Caputo

V.Cello Paolo Ferulli

Musiche Vito Cataldi, Giuseppe Gigante, Luigi Maci, Daniela Monteduro

Ricordare Salvatore Toma, a 30 anni dalla sua morte, è festeggiare il “piacere dell’intelligenza”, quel piacere tipicamente salentino della creazione immediata, estrosa, ironica. La sua biografia non conta fatti eclatanti, ma atti poetici importanti… questo sì. I motivi della morte, del sogno e della natura sono certo ricorrenti, come rivelano le tre sezioni del Canzoniere della morte, ma c’è un elemento nella poesia di Toma in continuo fermento: il tratto farsesco e burlone che fa scivolare nel gioco la materia poetica e la vita.

I versi poetici di Salvatore Toma, accompagnati dalla forza espressiva della musica scritta per l’occasione da Vito Cataldi, Giuseppe Gigante e Luigi Maci, docenti del Conservatorio ‘Tito Schipa’ di Lecce, e da Daniela Monteduro, docente presso il Conservatorio di Matera, saranno proposti in una lettura onirica densa di toni ambrati e nuove sfumature espressive, in una formazione di grande forza espressiva e di coinvolgente sentimento. Un’interpretazione del tutto originale della “musica” contenuta nei versi, attraverso la creazione di un percorso policromo ricco di suggestioni melodiche e timbriche alquanto nuove.

biglietto  € 7,00 posto unico

 

Salvatore Toma nasce a Maglie nel Salento nel 1951, da una famiglia di fiorai. Frequenta il liceo classico, ma non prosegue gli studi, anche se coltiva da autodidatta le materie che più gli interessano: letteratura e ovviamente poesia. Pubblica (dal 1979 al 1983) sei raccolte di poesie, rispettivamente: PoesieAd esempio una vacanzaPoesie scelteUn anno in sospesoAncora un anno e Forse ci siamo. La sua notorietà deriva dalla pubblicazione della raccolta di poesie Canzoniere della Morte (Einaudi 1999), a cura della filologa Maria Corti. Dopo la scomparsa della Corti, avvenuta nel 2002, la poesia di Toma rischiava di essere definitivamente dimenticata. Un folto gruppo di intellettuali meridionali promosse una raccolta di firme per chiedere la ristampa del volume al tempo esaurito, tentando anche di rilevare i diritti di autore per pubblicare il libro altrove. L’iniziativa provoca una vasta eco in tutta Italia e la casa editrice decide, di ristampare il Canzoniere.

 

Alimini: appunti per una storia del toponimo

di Armando Polito

immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Laghi_Alimini#/media/File:Laghi_Alimini_Otranto.jpg
immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Laghi_Alimini#/media/File:Laghi_Alimini_Otranto.jpg

 

 

Per la serie quandoque bonus dormitat Homerus, dopo quanto ebbi occasione di rilevare a proposito di una proposta etimologica del grande Rohlfs (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi permetto oggi, per quanto indegno di Omero, del Rohlfs e di chi sto per nominare,  di ricordare la proposta etimologica che di Alimini fece Giacomo Arditi (1815-1891) nella sua Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Stabilimento tipografico “Scipione Ammirato”, Lecce, 1879-1885. Riproduco  da p. 301 la parte di testo che ci interessa e la relativa nota.

L’Arditi sembra mettere in campo un Λιμυις. Visto che non c’è ombra d’accento debbo rinunciare alla mia consueta lettura/trascrizione per chi non conosce il greco. Tuttavia, qualsiasi accento si ipotizzi, la voce in greco non esiste. Ipotizzando, invece, un errore di stampa (-υ– per –ο-) potremmo pensare in teoria ad una lettura Λίμοις (Lìmois) o Λιμοῖς ( Limòis). Ho detto in teoria perché in pratica Λίμοις non esiste e Λιμοῖς potrebbe essere solo dativo plurale del nome comune λιμός (leggi limòs), che significa fame. Ora, a parte il fatto che non si capisce che origine abbiano la A–  e il –ni– di Alimini, nemmeno λιμός potrebbe essere messo in campo perché in questo caso non si capisce come un dativo, per giunta plurale, per giunta di un nome astratto (anche se i suoi sintomi sono, eccome, concreti …), possa aver dato vita ad un toponimo. D’altra parte neppure l’ipotesi di uno scambio, sempre per errore di stampa, di -ν- con -u- porterebbe a nulla perché anche Λιμvις (qualunque sia l’accento) in greco non esiste.

Tuttavia, prima di prendercela con l’Arditi, non trascuriamo la nota 1, anche se tutto lascerebbe presagire il gioco dello scaricabarile o della fiducia cieca …

Galat. cit. oper. si riferisce al De situ Iapygiae di Antonio de Ferrariis alias Galateo (circa metà del XV secolo-1517), opera uscita postuma per la prima volta a Basilea per i tipi di Perna nel 1558.

Marciano, cit. oper. si riferisce a Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, di Girolamo Marciano (1571-1628), uscita postuma con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (1638-1685) per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.

Procedo al controllo e riproduco di seguito dall’edizione citata del Galateo il brano che ci interessa; per facilitare la comprensione di quanto dirò, prima della traduzione fornirò la trascrizione.

 

 

 

 

 

In ora Ionii, quarto ab urbe lapide lacus est piscosus, cymbis tantum piscatoriis nabilis, quem incolae afhuc Graecè λίμνην nominant; seu ut Galenus ait, Limnothalassan (ita enim ille appellat lacus qui in mare fluunt,  refluunt).

Lungo la riva dello Ionio a quattro miglia dalla città vi è un lago pescoso, navigabile solo da barche da pesca, che gli abitanti ora chiamano con nome greco λίμνην, oppure, come dice Galeno, Limnotalassan (così infatti egli chiama i laghi che affluiscono in mare e ne rifluiscono).

Intanto c’è da dire che nel Galateo non si trova Λιμοις ma λίμνην, accusativo di λίμνη, che significa acqua stagnante, palude, lago. La voce è legata al verbo λείβω (leggi lèibo), che significa stillare, versare, spandere , con cui è connesso a sua volta il latino libare che significa versare o spargere a terra o su un altare latte, vino e simili in onore degli dei o dei defunti oppure assaggiare oppure sfiorare leggermente, oppure, per traslato, conoscere superficialmente, oppure diminuire, intaccare. L’originaria valenza religiosa di libare, già traballante in latino, è scomparsa completamente nell’analoga voce italiana sinonimo di brindare, per non parlare del significato assunto da libagioni e da illibata, che oggi potrebbe definirre la donna che ha avuto contemporaneamente una decina di relazioni … Parenti stretti  di λίμνη sono λείμαξ (leggi lèimax), che significa prato, e λειμών (leggi leimòn)=luogo irriguo, prateria, con cui è connesso il latino limum=fanghiglia, da cui l’italiano limo , mentre limaccioso è da limaccio, a sua volta dal latino tardo limaceu(m), forma aggettivale dal citato limum. Per completare il commento aggiungo che Limnothalassan è trascrizione del greco  λιμνοθάλασσαv (leggi limnothàlassa), accusativo di λιμνοθάλασσα, composto dal già noto λίμνη+θάλασσα che significa mare.

Passo ora al Marciano col dettaglio di p. 198; lo riproduco più estesamente di quanto sarebbe necessario perché contiene una notizia interessante anche nel riferimento storico che la correda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora è chiaro che dal punto di vista etimologico fa testo il Galateo, travisato, non riesco a capire per quale motivo, dall’Arditi; tuttavia il della Limini del Marciano è prezioso per l’Alimini attuale, perché costituisce la fase intermedia, come vedremo. Limini, infatti è da λίμνη con epentesi di una –i– per ragioni eufoniche. Ancora più vicino a λίμνη per la terminazione in –e si presenta il toponimo Lìmene (nel dettaglio che segue evidenziato in rosso) della carta del Mercatore del 1589.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una sorta di italianizzazione nella desinenza, invece, si nota nel Lìmina che si legge nella carta aragonese della quale mi sono occupato in diverse puntate (per la nostra zona vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle carte del secolo XVII si legge: la limine nel Bulifon

 

 

 

 

La Limina nell’Hondius e nel Magini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Limmene nel Castaldi

 

 

 

 

Andando avanti nel tempo: La Limana nel De Rossi (1714)

 

 

 

 

Gli Alimeni nell’atlante di Rizzi-Zannone (1789-1808)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A questo punto, col frettoloso processo di ricostruzione cui ho dato vita, non mi è stato possibile stabilire, per l’esiguità del materiale esaminato, la data di nascita precisa dell’attuale Alimini, anche se essa è presumibilmente da collocarsi verso la metà del XVIII secolo.

Ma dirà il lettore, come si è passati dal limne del Galateo ad Alimini?

Ecco la trafila completa: limne>lìmene (la già nominata epentesi di –e– per motivi eufonici)>la Lìmene>l’Alìmene (agglutinazione della –a dell’articolo1). A questo punto il nome è diventato Alimene e, siccome i laghi che compongono lo specchio d’acqua sono due, l’Alìmine è diventato prima Gli Alìmeni e poi gli attuali (ma il processo, come dimostra la storia, non è destinato ad interrompersi) Alìmini o Laghi Alìmini.

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1 Fenomeni del genere appaiono di origine popolare, perché nascono da un fraintendimento che conduce ad un’errata grafia, la quale poi finisce per imporsi con l’uso, che nella lingua è sovrano, forse troppo sovrano per i miei gusti . Un esempio simile ad Alimini è quello di la radio>l’aradaio>aradio. Tuttavia non mancano casi in cui, al contrario,  la forma corretta si è conservata nella voce dialettale e la scorretta si è imposta nella lingua nazionale, sia pure con la complicità, forse, nell’esempio che farò, di un incrocio con altra parola. All’italiano lastrico corrisponde il salentino àstricu, che è dal latino medievale astracu(m), a sua volta dal greco ὄστρακον (leggi òstracon) che significa coccio, conchiglia (il pensiero corre, giustamente, al cocciopesto). Lastrico nasce proprio dall’incorporazione dell’articolo (l’astrico>lastrico) con lo zampino, forse, di lastra.

Lecce e territori a sud-est in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

 

 

 

 

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Per altri dettagli della stessa carta vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

 

 

Gallipoli e dintorni in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

Il lettore noterà che questa volta il numero dei toponimi per la cui identificazione chiedo il suo prezioso aiuto è notevolmente aumentato rispetto a quello delle sezioni della carta esaminate nelle precedenti puntate. A tal proposito prego chi vorrà intervenire di corredare il suo commento con la citazione di fonti attendibili e controllabili. Non saranno tenute in considerazione, fra l’altro, notizie tratte da wikipedia e simili quando esse siano orfane di qualsiasi riferimento bibliografico. Faccio presente, inoltre, che da elementi interni che stanno via via emergendo la datazione della carta è da collocare più plausibilmente nel XVI secolo e non nel XV, indicazione iniziale che, tuttavia, lascio per ora nel titolo.

Aequilina dir(uta): Equilina nelle carte del XVII secolo; attendo notizie.

Alicie vetere dir(uta): vedi S. M(aria) delle alice.

Are di Calo: credo che il luogo coincida in parte con l’attuale via Matteo Calò. In Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, p. 242, nota 1, si legge: Era pure delle primarie la famiglia Calò, e molti della medesima si trovano nell’elenco de’ passati Sindaci. La Casa di loro abitazione era quella vicina all’abolito Convento de’ Paolotti, che guarda il Porto, e che tuttavia si nomina dei Calò. Si possiede attualmente con altri beni dai Signori de Pandi di Nardò, forse per successione. Il Ravenna a p. 548 dichiara di dover molto nella stesura della sua opera alla storia manoscritta di Leonardo Antonio Micetti (nato nel 1641). E nel manoscritto del Micetti (custodito attualmente nella Biblioteca Provinciale di Lecce, ms 36) ecco cosa si legge a proposito di Matteo Calò: Fiorì in armi in questo secolo [XVI] nella Città di Gallipoli Matteo Calò, Gentil’huomo della medesima, mio consanguineo, il quale servì Sua Maestà Cattolica da Venturiero a proprie spese molt’anni. Egli servì nel 1571 nella …

Callipoli: oggi Gallipoli.

Balderano: attendo notizie.

Le Figgie (oggi Li Foggi); Ancora oggi esiste il Consorzio di bonifica  Ugento-Li Foggi … Visti i benefici dei consorziati rispetto alle cartelle esattoriali c’è da provare quasi nostalgia per il vecchio toponimo. Tuttavia il pantano (quello delle poltrone e dei posti clientelari) è rimasto …

Leonardo: in Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, p. 406, si legge: Trovo notato nella visita di Monsignor Montoya, che la Chiesa suddetta apparteneva un tempo all’Abazia di San Leonardo … Purtroppo non compare nessuna indicazione circa la dislocazione di tale chiesa. Nella carta in corrispondenza c’è un simbolo che potrebbe benissimo corrispondere ad una fabbrica di tal genere, ma il toponimo non è preceduto, come ci saremmo sspettato, da S.to. Appare chiaro, comunque, come la consultazione delle visite pastorali in un’indagine di tal fatta assume (essendo ormai chiaro, ho usato l’indicativo …) un ruolo irrinunciabile e come il contributo degli appassionati locali è determinante, comunque imprescindibile.

Pantano delle Figgie (vedi anche Le Figgie): nel volume prima citato del Ravenna a p. 178 si legge la notizia di  un articolo contenuto in un privilegio concesso nel 1197 da Federico II così riassunto: Che restasse abilitata la cura del lino nel ristagno detto li Foggi. E il Ravenna in nota osserva: In quei tempi la semina del lino era di maggiore importanza nel nostro territorio. Al presente se ne coltiva pochissimo. Dato per scontato che oggi non se ne coltiva nemmeno l’ombra, sarebbe interessante conoscere la situazione alla data presumibile della mappa. Saremo grati a chi, studioso di storia economica, ci segnalerà qualche dato.

Pirella: attendo notizie.

Rivobono: oggi Sannicola ?. La pur dubbia identificazione con Sannicola nasce dal fatto che le carte del XVII secolo (in sequenza i dettagli dalle carte di Janssonius, Bulifon, Hondius r Fabio Magini  ) in quella posizione recano il toponimo Rivo Callo/Rivocallo, che potrebbe essere deformazione di Rodogallo (in zona oggi, poco lontano da Sannicola, ci sono Villa Rodogallo e Via Rodogalli).  In Bullettino delle leggi del Regno di Napoli, Anno 1807, I semestre. Da gennajo a tutto giugno, Napoli, Fonderia Reale e Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato, 1813, p. 69, nell’elenco riportato dei centri rientranti a far parte del circondario di Parabita sono censiti anche Santa Maria dell’Alice (è tornato il pesce …) e Rivocallo, con accanto l’annotazione deserti. Non escluderei che Rivobono e Rivocallo siano entrambi deformazione di Rodogallo.

Sapea: oggi Torre Sabea.

Selva di Callipoli: una fotografia aerea basterebbe a documentare come si è ridotta la selva in quasi cinque secoli.

S. M(aria) delle alice: oggi Alezio. In Luigi Tasselli, Antichità di Leuca, II, 10, Micheli, Lecce, 1693, p. 138: … Santa Maria della Lizza, che prima era Città e si chiamava Aletio nel feudo si Gallipoli … Il toponimo registrato nella carta e che costituisce uno dei tanti esempi di storpiatura, nemmeno il più eclatante, spinge ad esclamare – Certi pesci! – …

S,to Andrea: oggi Isola di Sant’Andrea.

S.to Joanni Malancone (?): attendo notizie.

S.to Justo: in Bartolomeo Ravenna, op. cit. p. 371; Nella fabbrica  [il monastero Cappuccini, la cui costruzione era iniziata nel 1583] s’impiegaron più anni demolendosi l’antica Chiesa di San Giusto … Questo Monastero è circa un miglio distante dalla Città situato su di una collinetta verso levante ch’è molto deliziosa per la veduta del mare che bagna l’uno e l’altro littorale di rimpetto alla Città. Sembrerebbe che il monastero sorse quasi sullo stesso posto della chiesa demolita e il fatto che questa non si registrata come diruta nella carta è un elemento prezioso per affermare che la carta stessa non può essere successiva al 1583.

S.to Mauro: oggi S. Mauro; vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/18/san-mauro-con-il-tetto-rosa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/17/labbazia-di-san-mauro-il-giorno-dopo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/17/san-mauro-il-gruppo-archeologico-di-terra-dotranto-si-costituisce-parte-civile/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/15/incredibile-scelleratezza-nei-confronti-dellabbazia-di-san-mauro/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/12/17/antico-esempio-di-aridocoltura-nei-pressi-della-chiesetta-bizantina-di-san-mauro/

S.to Nicola: in Bartolomeo Ravenna, op. cit., pp. 405-406: .. nella medesima [chiesa di S. Maria del Canneto] vi è l’antica statua di pietra rappresentante S. Nicola, che un tempo era collocata nell’altare di un’antica chiesa, dedicata a tal Santo, che esisteva nel littorale di Gallipoli. E in nota: La Chiesa dedicata a San Nicola era situata vicino al lido di tramontana, più verso al mare, ove sono le fabbriche di bottame. Questa chiesa era antichissima, ed è indicata nella pianta di Gallipoli, rapportata da Giorgio Braun. Fu distrutta questa Chiesa sul principio del secolo XVI con quella del Canneto, quando i Francesi tennero assediata Gallipoli.Venne poi riedificata coll’elemosine dei cittadini. Nel 1765 si demolì intieramente … Con un’approssimazione ancora più spinta della data del 1583 (vedi S.to Giusto) si può dire che la carta è contemporanea della prima ricostruzione (circa la metà del secolo XVI). Il Ravenna cita la mappa di George Braun, che è del 1591 (di seguito con il dettaglio che ci interessa: n. 20 nella didascalia).

 

Però, per dare a Cesare (per giunta, in questo caso, non romano ma gallipolino …)  quel ch’è di Cesare non posso fare a meno di riprodurre la carta di Giovan Battista Crispo, che è del 1591, e il dettaglio relativo:  n. 21 nella didascalia.

S.to Pietro di Samaria: oggi S. Pietro dei Samari; vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/19/gallipoli-san-pietro-dei-samari-xii-sec-appello-di-italia-nostra/

Tone di S.to Joanni: emendato Tone in Torre, la corrispondenza con l’attuale Torre San Giovanni la Pedata è perfetta.

 

 

Su altri dettagli della stessa carta vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

 

Alle donne, da Mesagne

mimosa

di Carmelo Colelli

Fèmmana

(in mesagnese)

 

Ogni fèmmana voli bbeni

 e voli cu ‘nci vòlunu beni,

 camina e va annanzi,

 ttuppa, cadi, si aza e camina,

 voli beni alla vita in tutti li manieri.

 

 Lu bbeni sua

 e lu desiseriu sua cu ‘nci vòlunu beni

 lu faci sintiri comu ‘nna canzoni liggera liggera,

 comu a ‘nn’ àlitu ti ientu

 comu a ‘nnu prufumu ca si spandi pi ll’aria.

 A tutti vui femmini!

 Grazzi!

 

Donna

Ogni donna ama

e vuole essere amata,

cammina e va avanti,

urta, cade, si rialza e cammina,

ama la vita in tutte le maniere.

 

Il suo amore

e il suo desiderio di essere amata

lo fa sentire come una canzone leggera-leggera,

come un alito di vento,

come un profumo che si spande per l’aria.

A voi tutte donne!

Grazie!

 

Copertino a tutela dell’ambiente

Amianto

La raccolta fondi cittadini per l’acquisto di telecamere mobili contro l’abbandono dei rifiuti nelle periferie non decolla? Basta non arrendersi! I copertinesi che ci tengono alla tutela dell’ambiente rilanciano infatti con determinazione, presentando nuove iniziative per incentivare la raccolta anche nel mese di marzo! Un rapido resoconto: finora sono stati raccolti 1360 euro dei 4600 necessari all’acquisto delle telecamere.

campagna salentina (ph Fondazione TdO)

Mancano dunque ancora 3240 euro all’obiettivo ambito dai cittadini coinvolti, semplici copertinesi accomunati da una iniziativa che, sebbene avanzata da alcuni attivisti 5 Stelle, non ha e non vuole avere connotazioni politiche. Si tratta infatti di una inziativa aperta alla partecipazione di tutti, volta com’è alla tutela di un ambiente sano e pulito che avvantaggia semplicemente tutti, senza distinzioni di sorta. Le idee e la voglia comune di molti cittadini di raggiungere presto l’obiettivo non mancano. Ne è un esempio l’iniziativa spontanea del dottor Alessandro Calcagnile, noto cardiologo copertinese, il quale, proprio a sostegno della raccolta fondi, si propone alla cittadinanza tutta offrendo una sua visita gratuita per tutta la giornata di domenica 12 marzo, a partire dalle ore 9:00, in via Campania n° 3 a Copertino, presso la propria abitazione.

Il dr. Calcagnile effettuerà un controllo cardiologico, una visita più un elettrocardiogramma, in cambio solo di un libero contributo (anche di un solo euro!) da destinare ai salvadanai cittadini per le telecamere.

Per prenotare la propria visita basta chiamare al numero 3282168921.

Altri cittadini inoltre piazzeranno 15 nuovi salvadanai in nuovi punti di Copertino (bar, farmacie, attività commerciali ecc). Per non favorire alcuna attività, si è lasciata ai titolari di pubblici esercizi che volessero partecipare massima libertà di farsi avanti per accogliere un salvadanaio a disposizione della propria clientela. Per domenica 26 marzo infine tutta la cittadinanza è invitata in piazza Umberto I, dove sarà posizionato un gazebo per pubblicizzare ulteriormente l’iniziativa e raccogliere altri contributi con cui chiudere il bilancio della raccolta di marzo.

Castro e dintorni in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

 

Basta: oggi Vaste, frazione di Poggiardo.

Mediano Vetere: oggi Miggiano. Molto probabilmente Miggiano, di cui il Mediano della carta (il Vetere sembra alludere, per contrasto, ad un abitato più recente che sulla carta non si vede)   rappresenta un’italianizzazione, è dal latino Medianu(m) da intendere o come aggettivo (=centrale), con allusione alla posizione geografica tra due estremi da chiarire) o, più verosimilmente (e in questo il suo destino è simile a tanti toponimi del Salento, e non, terminanti in -ano), un prediale; infatti Medianus è ampiamente attestato a livello epigrafico. 

Monte Saracino: da notare in corrispondenza sulla costa una torre, sicuramente quella citata da Girolamo Marciano (1571-1628) nell’opera postuma  Descrizione, origini e successi della provincia di Terra d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855, p. 142: Dalla Torre di Misciano alla Torre di Monte Saracino miglia 2 . Dalla Torre di Monte Saracino alla Torre di S. a Cesaria miglia 2. A seguire dettagli, nell’ordine, dalle carte  di Hondius, di Magini, di Janssonius e di Bulifon (XVII secolo).

 

Sedes diabolica: in Lo stato presente di tutti i paesi, e popoli del mondo …, Albrizzi, Venezia, 1761, pp. 326-327 si legge: In qualche di stanza da Castro, alle Rive del Mare si vedono alcune curiose Grotte, in forma di Teatro, di Conchiglia, e d’altre somiglianti figure, alcune delle quali son capaci di due Galere; una fra l’altre, detta volgarmente la sedia del Diavolo, per esser l’ordinario soggiorno delle Nottole.  C’è da chiedersi se ancora sopravvive qualche esemplare discendente di quelle nottole del 1761, a loro volta discendenti da quelle della sedes diabolica 

S.t(o) Antonio Abbate: attendo notizie. 

S.to A(n)drea oggi Andrano. Il toponimo aragonese confermerebbe quanto si legge in Giacomo Arditi, Corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto, Stabilimento tipografico “Scipione Ammirato”, Lecce, 1885, p. 45: Suppongo da vantaggio che avendo il risorto villaggio scelto a protettore s. Andrea, dal nome di questo Apostolo chiamossi Andreano, quasi sacro a s. Andrea e poi Andrano elidendo una vocale. Di seguito un dettaglio tratto dalla mappa di Janssonius (XVII secolo), in cui su kegge Adrano.

S.to Martino: attendo notizie. Un indizio, non di più, potrebbe essere costituito dalla via S. Martino dell’attuale Depressa (frazione di Tricase), la cui dislocazione coincide perfettamente.    

Tempio della Minerva ruine1

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/07/castro-minerva-la-civetta-e-il-non-gufo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/08/01/catro/

 

Su altri dettagli della stessa carta vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

Supersano. Chiara Ferrazzi, una storia di gusto, di sapori e di qualità che continua

SUPERSANO bio

          

Interno dello stabilimento Ferrazzi
Interno dello stabilimento Ferrazzi

di Maria Antonietta Bondanese

Supersano bio”, un logo vivace. I colori del cielo, della terra, dei frutti, del sole, evocati da un marchio in cui sono sottesi passato e presente.

Dolce e salato, creme, passate e patè, confezionati secondo i princìpi dell’odierna agricoltura biologica, fanno bella mostra di sé nei vasetti della recente produzione estiva. Una soddisfazione per Chiara Ferrazzi, nel cui sguardo aperto e vibrante brilla la luce di un’intelligenza operosa. Innovare nella tradizione. Una sfida da portare avanti, partendo, ancora una volta, da Supersano.

Come quando gli antenati, Attilio e Luigi Ferrazzi (nonno ‘Gino’), approdarono in questo lembo di Meridione, provenendo da La Spezia, dove si erano stabiliti dalla natìa Busto Arsizio. I ‘milanesi’, così li appellarono in paese in un misto, penso, di incredulità e ammirazione (‘milanese’ era anche, nel parlar comune della gente, un complemento di luogo riferito ai due, si’ che, ad esempio, ‘andare al…, fermarsi a…, lavorare da…’, ecc., era come dire:’ andare allo stabilimento Ferrazzi, fermarsi allo stabilimento Ferrazzi, lavorare dai Ferrazzi’, ecc.). Incredulità, almeno iniziale, che uomini venuti dal Nord davvero potessero amare questa terra: remoti non erano i tempi del furore, della rabbia del Sud di fronte a un Risorgimento ‘mancato’ e della brutale repressione da parte dello stato ‘piemontese’ neo-unitario.

Sequela dei traini carichi di uva
Sequela dei traini carichi di uva

 

Ammirazione, per quella straordinaria vitalità imprenditrice che rompeva gli schemi del proprietario terriero guardingo e sospettoso del nuovo. In verità, nel territorio in cui i fratelli Ferrazzi impiantarono l’A.G.F., la loro azienda vinicola, si andava scrivendo proprio allora una diversa storia produttiva e l’industria cominciava ad affermarsi in un contesto da sempre rurale.

Tra fine ‘800 e inizi ‘900, infatti, in Terra d’Otranto venivano costruiti centinaia di stabilimenti con i criteri dell’enologia più aggiornata, offrendo un quadro che modifica la visione di un Mezzogiorno tutto arretrato, fuori dai flussi della modernità e restituisce l’immagine di un’economia articolata, lontana da banali semplificazioni. Da un capo all’altro di Terra d’Otranto era un fiorire di innovazioni tecniche accanto ad abilità lavorative antiche, per rendere sempre più competitivi gli impianti enologici. Basti pensare, tra Brindisi e Gallipoli, all’azienda vitivinicola ‘Leone de Castris’ a Salice Salentino o a quella di ‘Adolfo Colosso’ ad Ugento.

Interno dello stabilimento : spazio ‘pesa’
Interno dello stabilimento : spazio ‘pesa’

 

In questo fervore di inizi s’inserisce il decollo dell’Azienda A.G.F. a Supersano, dove Gino Ferrazzi, imprenditore oculato e competente, oltreché perito agrario, esercitò anche la carica di sindaco, negli anni difficili del primo conflitto mondiale, dal 6 agosto 1914 al 13 marzo 1916 e, in seguito, per i primi sei mesi del 1919, in un’ Italia scossa dalla ‘vittoria mutilata’. Un impegno politico, il suo, intriso di ideali liberali e patriottici, da cui l’adesione alla Loggia ‘Liberi e coscienti’ di Lecce, che si batteva per un nuovo ordine di cose. Accanto a Gino, la moglie Anna Montale che, dal 1911 al 1921, risiedette a Supersano, mentre la famiglia cresceva con l’arrivo dei figli Maria, Flavio ed Italo. Intensa continuava la spola tra Supersano e La Spezia, città di transito e commercializzazione del prodotto salentino, dove i Ferrazzi si associarono a Naef e Longhi, per fondare nel 1924 una banca, che ha prosperato fino al 1967.

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Scomparsi Attilio nel 1936 e Gino nel settembre 1940, l’A.G.F. prosegue l’attività nel secondo dopoguerra con la seconda generazione, Franco, Italo e Flavio. Quest’ultimo, giovane ufficiale e agronomo, sposa Giovanna Ercolini nel 1949, dopo essere tornato indenne dalla campagna d’Africa e dalla dura prigionia inglese in India. (Al pensiero di tante traversìe subite da papà Flavio, lo sguardo di Chiara si fa assorto, mentre la sua voce si spezza nel ricordo…).

Dopo le ferite della guerra, la requisizione della casa di La Spezia da parte tedesca e la sua distruzione da parte americana, bisogna tornare a vivere.

I supersanesi, ‘don Pippi Carrozzini’, l’amministratore, e i fattori Michele Nutricato, ‘Ucciu’ Elia, Egidio Visconti, hanno seguito l’azienda durante la crisi bellica, mentre ‘mèsciu Virgiliu’ Stradiotti (figlio di Michele e fratello delle fornaie Vata e Maria) ha curato la tenuta delle macchine; Antonio De Pascali (‘Ntoni guardia) fungeva da guardiano e Mario Vinciguerra da autista dell’azienda; ora tutto è pronto per la nuova stagione della ricostruzione, che l’Italia intera intraprende dalle macerie dei bombardamenti.

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Una lunga, maestosa teoria di cavalli e carretti, con grandi tini di uve fragranti, si snoda dalla contrada di Bosco Belvedere, per il corso Vittorio Emanuele, fino al palmento di casa Ferrazzi. Nel pieno della campagna, una lunghissima fila di traini carichi di botti, sosta rispettando il turno di scarico. E’ la vendemmia 1953, impressa negli ‘storici’ fotogrammi della pellicola super 8, che narra l’evento festoso, la felice fatica di uomini, donne, ragazzi e anziani di Supersano, sorridenti all’occhio inconsueto della sorprendente cinepresa. In primo piano tanti lavoranti in bianche maniche di camicia, coppole e cappelli, biciclette, ‘tine di caricamento’, traìni, camion e una gloriosa ‘giardinetta’. Immagini color del tempo, volti ed espressioni di un’epoca aspra, di sacrifici, ma non avara di coraggio e ardita nelle speranze.

Casa Ferrazzi e palmenti verso la fine degli anni venti
Casa Ferrazzi e palmenti verso la fine degli anni venti

 

Audacia che ritrovo in Chiara Ferrazzi. Una vita spesa nella scuola, imprenditrice ora per amore della terra salentina, passione di cui ha ‘contagiato’ anche Giano, l’affabile ed arguto consorte con i meravigliosi figli, Mattia, Camilla e Francesca. Il binomio ‘La Spezia-Supersano’, visibile ancora nella targa imbrunita all’ingresso dell’A.G.F., rifiorisce dal 2009 nell’azienda ‘Supersano bio’, con la fruttuosa presenza dell’agronomo-artista Antonio Giaccari, autore della rinascenza dell’azienda agricola e creatore del marchio ‘Supersanobio’.

Ho voluto trovare qualcosa –dice Chiara- che mi legasse di più al paese”. Quasi soggiorno obbligato nelle calde estati degli anni ’70, per lei è divenuto oggi un luogo del cuore, della memoria (nel Camposanto ai piedi della Coelimanna, ha voluto trovare ultimo riposo l’amato fratello Fabrizio), ma anche di un rinnovato slancio verso il futuro.

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Ripresa la spola tra La Spezia e Supersano, Chiara impronta il suo management ai criteri dell’agricoltura biologica: “benessere, equità, precauzione, ecologia”: quattro pilastri che garantiscono ‘il rispetto per la salute dell’uomo e dell’ambiente, unito alla volontà di riscoprire e recuperare le tradizioni tecniche agro-alimentari salentine’. Scritto in ariose broschure, lo si può leggere anche nel sito www.supersanobio, dove un apposito link rinvia ad altre aziende di Supersano attive nell’agriturismo e nell’alberghiero.

Fare sistema, entrare in una logica integrata dei vari settori, alimentare una rete di rapporti sul territorio, è necessario di fronte al mercato globale di oggi. Chiara ne ha una visione precisa, come netta è stata la sua scelta per una produzione ecosostenibile, cui non è estranea, credo, anche la sua sensibilità per l’arte e per il bello, di cui si fa entusiasta promotrice.

Un mondo di bianco, di silenzio, di pietra si offriva infatti nell’estate 2013 al visitatore della mostra ‘Sophia’, allestita da Antonio Giaccari, all’interno del patio di casa Ferrazzi. Ideale prosieguo delle precedenti mostre di Giaccari a Poggiardo e Soleto, intitolate ‘Philìa’.

Lavoranti alla vendemmia
Lavoranti alla vendemmia

 

E’ “un percorso infinito di conoscenza che troviamo nelle sue bianche sculture, dall’aspetto umile…”, ha scritto Chiara, indicando la non esauribilità per l’artista, ma anche per ognuno di noi, della ricerca di consapevolezza, di ‘sophìa’. Una tensione al meglio che Chiara esprime nella cura quotidiana per un prodotto di qualità. Proposto in fiere locali e nazionali (‘Agroalimentare’ 2011 a La Spezia; ‘Cibus’ 2012 a Parma), il marchio ‘Supersano bio’ è tra i migliori ambasciatori dell’eccellenza gastronomica e dell’ospitalità della piccola ma accogliente Supersano.

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L’indizio e la prova: nuova luce sulla leggenda petrina di Bevagna

di Nicola Morrone

In uno dei nostri articoli più recenti ci siamo occupati di verificare se la nota leggenda del passaggio di San Pietro Apostolo per le nostre contrade, che la tradizione colloca intorno al 44 d.C., presentasse qualche elemento di verosimiglianza. Abbiamo pubblicato i risultati dell’indagine, conclusa nel 2015, su questo stesso sito.

Nel nostro studio sul narrato leggendario (che è riportato nel manoscritto di P. Domenico Saracino o.p.)[1], abbiamo integrato il quadro storico di riferimento con elementi di ordine archeologico, onomastico e toponomastico, concludendo che la leggenda dello sbarco di San Pietro a Bevagna, e della conversione al cristianesimo di Fellone, signore di Felline, poteva essere verosimile.

Il villaggio rurale di Felline e’ infatti storicamente esistito; Fellone, con ogni probabilità uno schiavo (o forse un liberto) gestiva il fundus di Felline e probabilmente l’industria fittile (figlina) e la fattoria (villa rustica) ad esso collegata, per conto del padrone; l’Apostolo fece con ogni probabilità naufragio nei pressi della rada di Bevagna, che conserva ancora tracce materiali di antichi naufragi. In attesa che l’area in cui sorge il Santuario di Bevagna sia oggetto di scavi archeologici che possano fare luce sul mito di fondazione petrino, offriamo in questa sede al lettore qualche ulteriore spunto di riflessione sul tema.

Anfora brindisina (Giancola)

Felline

La leggenda riportata dal Saracino colloca i fatti nel I sec.d.C. .Non si hanno molte notizie circa la configurazione del territorio di Manduria nell’epoca di riferimento .Le ricerche archeologiche di superficie permettono comunque di ipotizzare, con buon fondamento, l’esistenza di una “costellazione” di villae rustiche (fattorie) sorte intorno all’oppidum di Manduria, in un momento storico particolarmente favorevole, conseguente alla pax augustea. Si segnalano evidenze materiali nelle contrade Santa Maria di Bagnolo, Terragna, Scorcora, ecc.[2]

Tali villae erano inserite all’interno di fundi più o meno vasti, gestiti dai dipendenti dei padroni, tutti di condizione servile, e la gran parte di origine grecanica. I proprietari terrieri risiedevano per lo più a Brindisi, Taranto, o in centri cittadini minori. Talora , all’interno del fundus era collocata una figlina , cioè un’industria fittile (per la produzione di anfore, tegole, ecc) che in provincia si articolava su modelli organizzativi piuttosto semplici.

Oltre che sull’industria figula, l’economia delle villae rustiche del nostro territorio si basava essenzialmente sul pascolo, l’allevamento e la produzione cerealicola, vinicola e olearia[3]. Il villaggio rurale di Felline, sorto alla base della collinetta de Li Castelli, si configurò verosimilmente come un piccolo centro in cui dovette essere attiva una figlina, che al centro diede il nome e che si ricollegava, attraverso antichi tratturi, alla rete commerciale marittima. I principali scali per il traffico delle merci nel territorio di riferimento erano le rade di Punta Presuti (ancor oggi ricca di reperti fittili), Torre Columena e San Pietro in Bevagna. La tradizione ci ha consegnato perfino il nome del conduttore del fundus di Felline: si tratta di Fellone, l’uomo convertito da San Pietro.

Fellone

Nell’economia del discorso finora sviluppato, si può agevolmente inserire appunto la figura di Fellone, conduttore del fundus di Felline, che può essere storicamente esistito. Abbiamo verificato, alla luce delle più recenti ricerche epigrafiche, se il suo nome compare tra quelli documentati nel Salento in età romana. Nei cataloghi, redatti da C.Marangio e aggiornati a tutto il 2008, compaiono in effetti alcuni nomi che potrebbero essere ricondotti al nostro personaggio.

Nello studio pubblicato nel 2015 abbiamo ipotizzato, su base onomastica, che Fellone potesse avere qualche relazione con la gens dei Philonii, documentata a Brindisi in età repubblicana. Nella stessa città è attestata l’esistenza di tal Philonicus Appullei, conduttore di una figlina

In un’epigrafe rinvenuta a Latiano è documentata la presenza di tal Philonius. Potrebbe forse esserci qualche relazione tra il personaggio della leggenda petrina e tal Philogene, conduttore di una figlina di cui resta testimonianza in un bollo anforario rinvenuto ad Oria [4].

Alcune anfore greco-italiche recano pure il nome di tal φιλων, altro schiavo impegnato in una figlina. Il nome in oggetto sembra comunque avere , alla stregua di buona parte di quelli dei servi conduttori di fundi romani del Salento, origini greche, o grecaniche.

I ricchi proprietari romani, dopo la conquista del Salento, si appoggiarono infatti a manodopera servile locale, presente in abbondanza nei territori annessi[5].

Bollo Philonicus
Bollo Philonicus

 

Lo sbarco di San Pietro a Bevagna

La leggenda riportata dal Saracino vuole che San Pietro, proveniente dalla Palestina, sia sbarcato fortunosamente sul lido di Bevagna intorno al 44 d.C., incontrandovi Fellone, guarendolo dalla lebbra e convertendolo al cristianesimo. La tradizione ritiene che nell’area in cui sorge il santuario l’Apostolo abbia celebrato la messa, cristianizzando forse un antico luogo di culto pagano. Il Lopiccoli era certo che la parte più antica del santuario (il cosiddetto sacello) sorgesse su un’ area sepolcrale pagana, poi cristianizzata da San Pietro. Tale congettura non è del tutto priva di fondamento, come dimostrato dall’Errico, il quale, ai primi del ‘900, ebbe modo di osservare i resti di un’epigrafe funeraria inglobata sul fronte occidentale del sacello, recante le lettere D.M.VIX, cioè “Diis Manibus vixit[6].

L’epigrafe è oggi scomparsa. Essa comunque proverebbe la presenza di un sepolcro pagano nella zona in cui sorge attualmente il santuario petrino. Si tratta forse della sepoltura del servo conduttore del vicino fundus di Felline (o di un suo discendente) da ricollegare al passaggio dell’Apostolo?

L’ipotesi è suggestiva, e andrebbe verificata con saggi di scavo, estesi all’area adiacente alla chiesa-torre. A questo proposito, ricordiamo che non sono ancora stati pubblicati i risultati dei saggi effettuati nella stessa area, conclusi nel 2004. In ogni caso, la vicenda esposta non è del tutto isolata: presso Oria, in contrada Gallana, è stata recentemente rinvenuta un’epigrafe sepolcrale romana, inglobata nel muro di una chiesa campestre. L’epigrafe è pertinente alla gens Gerellana , proprietaria del fundus,che avrebbe dato il nome alla contrada e alla chiesa.

Conclusioni

Con queste brevi note terminano, per il momento, le nostre ricerche sulla leggenda petrina di Bevagna, durate un decennio e fondate sulla consultazione di pressochè tutte le fonti bibliografiche relative alla tradizione petrina regionale.

Le nostre congetture, che, come già detto, integrano il quadro storico con elementi di toponomastica, onomastica e archeologia, vanno naturalmente verificate in concreto. Il nostro auspicio è che nelle aree segnalate (Felline, Bevagna) si effettuino al più presto ulteriori saggi di scavo, che possano sostenere, o eventualmente confutare, la ricostruzione proposta.

 

[1] Cfr. D.Saracino o.p.,Brieve descrizione dell’Antica città di Manduria, oggi detta Casalnovo (1741).

[2] CfrR.Scionti-P.Tarentini, Emergenze archeologiche: Manduria-Taranto-Eraclea, (Manduria 1990), pp.286-289.

[3] Cfr. C.Marangio, Problemi storici di “Uria” Calabra in età romana, in “Archivio Storico Pugliese”, 42 (1989) pp. 113-134.

[4] Cfr. C.Santoro, Una nuova stele di Caracalla ed altre epigrafi latine inedite della Regio II Apulia et Calabria”, in “La Zagaglia”, a. XIII, n.49, p.20.

[5] Cfr. G.Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento (Bologna 1962), pp.19-21 e 60-61.

[6] Cfr. F.A.Errico, Cenni storici della città di Oria e del suo insigne vescovado (Napoli 1905), p. 140.

Otranto e dintorni in una carta aragonese del XVI secolo

di Armando Polito

Caccumoli sopr(ana):  oggi Cocumola

Caccumoli sot(tana) dir(uta)

Casale delle Fantanelle: da leggere Fontanelle; ha dato il nome ad un agriturismo sulla strada provinciale 366 Otranto-Alimini. Fontanelle nelle carte di Ianssonius e del Bulifon (XVII secolo):

Casa Massella: oggi Casamassella

Corfiniano: oggi Cerfignano

Fanale della Serpe: oggi Torre del Serpe. Si ritiene che la prima costruzione risalga al periodo romano e fungesse da faro. Fu restaurata in età federiciana. Il toponimo è legato ad una leggenda narrante di un serpente che ogni notte saliva sulla torre per bere l’olio che alimentava la lanterna del faro. Un’altra leggenda, probabilmente più recente, narra che, pochi anni prima della presa di Otranto nel 1480, i Saraceni avevano già tentato di prendere la città ma l’impresa era fallita perché il serpente, bevendo l’olio, aveva provocato lo spegnimento del faro.

Jordiniano: oggi Giurdignano

Porto2 badiscio: il successivo Porto fondo fa pensare ad un nucleo abitato del vicino entroterra.

Porto fondo: oggi Porto Badisco; il toponimo aragonese sembra quasi una nota etimologica, una sorta di traduzione dal greco βαθύς (leggi bathiùs), che significa profondo. Il riferimento sarebbe a prima vista al mare e in tal caso bisogna ipotizzare che la parte finale di Badisco sia il suffisso –ίσκος (leggi –iscos) con valore diminutivo; in tal caso l’allusione sarebbe alla modesta profondità del mare. Tuttavia, proprio il badiscio della carta aragonese apre la possibilità che il nome derivi dal greco βαθύσκιος  (leggi bathiùschios) composto dal ricordato βαθύς e da σκιά (leggi schià) che significa ombra, per cui il riferimento sarebbe alla folta vegetazione, di cui abbiamo un indizio nel in Girolamo Marciano (1571-1628) che, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, opera usscita postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855, dove, a p. 375 si legge: Vadisco è piccola ed amenissima valle vestita di oliveti, dalla quale trascorrono nel mare alcuni ruscelli di acque ov’è il Porticciolo, ricovero di piccoli vascelli. E subito dopo cita un passo del De situ Iapygiae del Galateo: Quarto ab Hydrunto lapide convallis parva, attamen amoenaissima et oleis consita est, quam incolae pomarium nuncupant; per hanc rivulis acqua decurrit. Haec pusillum portum efficit, quem ideo Vadiscum incolae dicunt; parvarum navicularum statio est (A quattro miglia da Otranto c’è una valle piccola ma amenissima e ricca di olivi, che gli abitanti chiamano frutteto; attraverso questa valle l’acqua scorre a ruscelli. Essa forma un piccolo porto un piccolo porto che perciò gli abitanti chiamano Vadisco; è riparo di piccole navicelle).

S.a M(aria) del Soccorso. Attendo notizie.

S.ta Pelagia: oggi Punta Palascìa; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/27/antonio-maria-il-pescatore-etimologo-di-punta-palascia/

S.to Emiliano: oggi Torre di S. Emiliano. La mappa mostra, come già in altri casi, un nucleo abitato in corrispondenza del toponimo e la torre distante sulla costa. È legittimo pensare, quando ciò succede con l’implicazione del nome di un santo che il nucleo abitato ne abbia tratto il nome per motivi devozionali che intuitivamente si perdono nella notte dei tempi e in epoca successiva l’abbia trasmesso alla torre. Se tutto ciò corrisponde al vero la mappa costituirebbe una sorta di ibrido sospeso tra il passato e il presente, Molto più, insomma, di quello che s’intende per carta storica.

S.to Francesco: oggi Convento dei Cappuccini. (vedi nei commenti)

S.to Stephano: l’attuale Torre di S. Stefano presenta un’ubicazione in corrispondenza orizzontale sulla costa per cui quella che si nota in basso probabilmente è frutto di un errore di rappresentazione. 

Torre [di] Coccoruccio. Nelle carte di Hondius,  di Magini e di Ianssonius (XVII secolo) Torre di Cocorizzo.

  

Nella carta di Bulifon (XVII secolo) Torre di Coccorizzo

Nella carta del De Rossi (1714), aggiornamento di quella del Magini, la torre e il toponimo sono assenti. Cocoruccio, Cocorizzo e Coccorizzo potrebbero essere italianizzazione  del salentino cucuruzzu (Cicirizzu è pure il nome di una località nel territorio di Nardò) che indica l’insieme di pietre che dopo il dissodamento del terreno venivano sistemate in un cumulo conico. Se è cosaì il nome della torre potrebbe essere connesso con la sua forma oppure con la sua dislocazione nel punto più alto del promontorio. Di essa, comunque, oggi non v’è traccia.

Torre della Vecchia: oggi Torre di Specchia di guardia)

Torre di S. Cesarea: oggi S. Cesarea terme

Torre Pelagia: vedi Santa Pelagia e il relativo link.

Torrione di Orte: oggi Torre dell’Orte o dell’Orto

Ugiano: oggi Uggiano la Chiesa

E siamo al caso disperato che non a caso ho lasciato per ultimo:

Il nunc S.to Eligio (?), che mi pare di poter leggere nel secondo rigo, grazie al nunc (ora) ci fa intuire che il primo rigo reca la forma antica del toponimo, che, per quanti sforzi abbia fatto, anche con l’ausilio delle carte precedentemente usate per la comparazione degli altri e con gli strumenti messi a disposizione dai migliori programmi di grafica, non sono riuscito a decifrare a causa dellevidente degrado del supporto. Chiudo con la speranza, ormai ricorrente, che ci riesca qualcun altro. (vedi nei commenti)

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/ 

2 Anche se appare scritto Porta.

Oltre lo sguardo. Emilio Nicolì e il suo Salento

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Nuova edizione della Fondazione per celebrare l’arte fotografica di Emilio Nicolì, per il quale ha curato e stampato un volume, “Oltre lo sguardo“, cartonato, a colori, con foto tra le più belle della nostra terra. L’edizione, non commerciale, terza della Collana “Scatti d’Autore, è riservata ai soci della Fondazione e alle biblioteche.

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Così si presenta egli stesso nel volume:

Ho “rischiato” di nascere in spiaggia nel giorno di Ferragosto del 1964, da allora il mare lo porto dentro. Per studio e lavoro ho vissuto a Parma, Chieti, Bologna e Firenze, ma sono sempre tornato “a casa”, a Lizzanello (Lecce), nel Salento, vicino al mio mare. So che è lì e, anche se non lo vedo, so che si trova a pochi chilometri da me per proteggermi e coccolarmi.
Ho studiato Medicina ma mi sono laureato in Biologia con tesi sulla biodiversità.
Ho Lavorato nell’industria del farmaco. Dal 2004 lavoro nel settore automotive e servizi.
Dopo aver praticato ciclismo a livello amatoriale ed aver avuto modo di guardarmi intorno viaggiando a velocità ridotte, mi sono appassionato alla fotografia che mi permette di fare miei momenti e posti che orami fanno parte di me e, da autodidatta, proseguo la mia ricerca verso la foto “perfetta”.

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La presentazione è stata scritta da Pier Paolo Tarsi, che tra l’altro, scrive di lui:

“Vi sono tipologie non pretenziose e mai inflessibili alle quali possiamo giocosamente affidarci per interpretare ciò che incontriamo, blandi e immaginifici tentativi per orientarci nell’esplorazione mai compiuta e definitiva dell’animo e del sentire altrui.

Provando a giocare con uno di questi criteri, potremmo classificare i salentini come appartenenti a due ideali stirpi, diverse per indole e mai intimamente unificate dal passare dei secoli, dai ricami di pensieri, illusioni e sogni: potremmo chiamarle quella degli “adriatici” e quella degli “ionici”, i primi con l’animo teso a levante, i secondi con lo sguardo assorto a ponente.

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Emilio Nicolì, nella sua ricerca senza termine dello scatto perfetto, ci mostra una personalità “adriatica”, tende infatti a cercare la sua meta prevalentemente ad est, spingendosi verso i lidi dove il sole può soltanto sorgere e la terra trapassa nell’azzurro che porta verso Oriente, verso l’origine, la fonte dove dipana il tracciato antico di ciò che è stato ed è venuto dal mare prima di noi.

La fantasia, si sa, regala infiniti criteri per guardare nuovamente alle cose e agli uomini, nelle sue giocose combinazioni e negli intrecci possibili talvolta illumina aspetti propri del reale altrimenti invisibili, ad esempio qualcosa di più profondo del carattere degli abitanti di questa terra. Allora, di nuovo, immaginiamo questa volta due stirpi ancor più antiche che qui convivono nell’intimità del sentire collettivo, la prima piantata nella terra, la seconda approdata dal mare e come destinata a tornarvi.

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Il salentino in generale non è che un’identità archetipica irrisolta che si riavvolge senza posa tra questi due caratteri, tra un legame con la terra ed uno fatto di speranze e timori con i due mari.

Non è gente di mare questa, sta e vive sulla terra, ma come sorvegliando da una torre che il mare non porti sventure o in attesa che questo si calmi e il vento sia favorevole per andare non si sa dove. L’ulivo ci dice il suo primo modo di essere, il suo radicarsi, il suo progettarsi nei millenni in un matrimonio con un terra a cui sarà fedele. Ma fra i tratturi e le fronde si intravede sempre un orizzonte azzurro che cova una minaccia pronta a scompaginare tutto o promette un’altra esistenza, un’altra occasione.

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Tutto ciò che questa fantasia idealtipica svela ci pare possiamo rinvenirlo come un deposito tacito e implicito nello sguardo di Nicolì, nella sua postura da osservatore e nella posizione che accomuna gli scorci che i suoi scatti regalano. Il suo atteggiamento appare quello dell’uomo fedele alla terra, da qui egli muove e attraversa uliveti per osservare per lo più un mare che richiama, attrae, affaccia e sospinge verso un mistero orientale.

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Ne nasce una dialettica che si risolve sempre in un compromesso: il confine, il limite. Anche quando è rinvenuto in un sentiero di campagna alla periferia del borgo, è questo confine il soggetto prevalente di Nicolì, il risultato ultimo in cui sfociano questi moti interiori e opposti d’attrazione. Nelle istantanee che compongono il mosaico i due elementi, terra e mare, si mischiano e abbracciano, là dove uno primeggia l’altro si insinua quasi sempre, si interseca, talvolta per mezzo di un solo richiamo o di un sottinteso all’orizzonte: il mare seduce ed è cercato, ma la terra non è mai completamente alle spalle, fosse anche soltanto nella forma dell’allusione, del lembo, del faraglione.

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Quel che uno vede dall’obiettivo di Nicolì non è l’approdo che si manifesta a colui che giunge dal mare ma è la varietà infinita – malinconica o trasognata – di un affacciarsi dai confini di questa terra sull’altrove, è un respiro intimo, una parentesi meditativa sulle estremità prima del ritorno alla dimora, al quotidiano legame con la propria gente e con la trama delle proprie faccende. Il suo è lo sguardo di chi sa che al di là di quella distesa contemplata sono inscritte altre storie e possibilità, e tuttavia non salperà; è l’evasione di colui che fa di quel confine il ristoro solitario, la concessione di una fantasia, il breve sogno di chi relega la rottura momentanea e circoscritta del patto con la terra che calpesta alla dolcezza o all’avventura che si consuma nello spazio dell’immaginazione, nella durata di un’ora blu in riva al mare o lungo un tratturo.

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Quando scruta l’orizzonte sulla distesa d’acqua, Nicolì pare invitarci ad una pausa meditativa nella quale continua spesso a persistere sullo sfondo il legame con l’umanità che abita e contagia lo spettacolo naturale che si apre allo sguardo. I segni di questa umanità sono per lo più dettagli, inequivocabili tracce tuttavia di una presenza vivace in momentaneo riposo, o come assopita: un pedalò sulla battigia, un trespolo che si eleva sull’arena, le travi di un ponte sospeso sulla scogliera, una lignea staccionata, un caseggiato addormentato, le luci agrodolci dei lampioni, una panchina solitaria, un muretto a secco consunto a tratti dal tempo, una torre diroccata, una gradinata ricavata nella roccia friabile; particolari questi che si affacciano come a raccontare inoltre di un rapporto possibile – rispettoso e non invasivo – tra la mano dell’uomo e il paesaggio naturale. Gli scenari inneggiano e invitano al silenzio di una riflessione in solitudine, elogiano la lentezza della vita di un abitante di un faro che vigila sul confine oltre le luci del borgo, in disparte, in un luogo placido nel quale godere di un momentaneo commiato dal resto, di una parentesi che non è mai una cessazione di un legame, non è un addio, ma solo una sospensione tra lo scorrere rinnovato della vita che attende nel ritorno…”.

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Sarparea: una disperata nota etimologica, e non solo …

di Armando Polito

immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

Qualche giorno fa sul mio profilo facebook ho trovato il graditissimo messaggio di Antonio Manieri, un mio ex allievo, certamente uno dei migliori, forse il migliore che abbia avuto. Antonio, alla luce del dibattito in corso sul destino della Sarparea, mi chiedeva lumi (come si constaterà alla fine, altro che luce e lumi! …) sull’etimo di questo toponimo.  Sarei un ipocrita se dicessi  di non essermi posto autonomamente fino ad allora la stessa domanda. Il problema è che, non avendo trovato lì per lì risposta plausibile e “distratto” da altri interessi,  ho adottato la tattica tanto cara ai politici: il rinvio della ipotetica soluzione. Sono grato ad Antonio per avermi messo, senza volerlo, all’angolo; infatti, non avendo potuto dare nell’occasione una risposta “fulminante” (quella in cui il fulmine è autentico e non il frutto di un aggeggio laser …) alla sua domanda, gli ho promesso che su questo blog avrei a breve affrontato la questione, che già nella lapidaria risposta al suo messaggio avevo definito come cosa che non può essere liquidata in quattro parole; il che, tradotto nell’autentica sostanza, suona: non saprei nemmeno da dove cominciare …

Oggi, come si vede, ho cominciato, ma, siccome la premessa rischia di diventare troppo lunga e di apparire come un diversivo, passo al sodo.

La testimonianza più antica del toponimo a me nota è contenuta in un atto del 20 luglio 1443 (Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, p. 120), ove si legge:  … usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive1, usque ad turrim Sancti Ysideri , que est fundata et costructa super territorio dicti pheudi … (fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di S. Isidoro, comprendendola, la quale è posta e costruita sul territorio di detto feudo [Ignano, citato precedentemente].   

Il filologo che si interessi di etimologie ha molto in comune con l’archeologo, tant’è che spesso, soprattutto nell’attuale era della superspecializzazione, l’uno non può fare a meno dell’altro, reciprocamente. Non a caso ai vari strati di uno scavo, dal più recente fino a quello basale, corrispondono per una parola le varianti che si sono susseguite nel tempo e la meta è per l’uno lo strato più profondo significativo per la ricostruzione della frequentazione del sito, per l’altro la variante che, presumibilmente, è la forma primigenia.

Nel nostro caso essa sembra risiedere nella variante Salparea con passaggio, rispetto alla forma attuale, –l->-r– assolutamente normale nel dialetto locale (non scomodo il cortello per coltello sentito infinite volte nella mia infanzia (quasi una forma di ipercorrettismo precoce …), ma, per restare nell’ambito del dialetto locale e allo stesso vocabolo, penso a curtieddhu e poi, ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli, curtiare contrapposto all’italiano coltivare e, con esclusivo riferimento all’italiano, a sarpa come variante (usata anche nel dialetto neretino), sia pur di basso uso, per salpa).

Accettando, dunque, Salpalea come forma originaria e iniziando lo scavo linguistico virtuale,  la prima proposta è che la voce derivi dall’aggettivo greco ἁρπαλέα (leggi arpalèa) che ha significati di senso solo passivo (bramata ardentemente), attivo o passivo a  seconda di chi esercita l’azione o di chi la subisce (attraente), solo attivo (rapace, avida, insaziabile). Se dovessimo credere al detto latino nomina omina (i nomi sono presagi), alla luce del dibattito in corso sul progetto di installarvi un resort dovremmo dire che l’etimo proposto calza a meraviglia …

– Calza? – direbbe qualcuno, aggiungendo – E la s iniziale dov’è nella voce greca? -. Se è per questo non c’è nemmeno in ἅλς (leggi als) che significa sale e che corrisponde al latino sal (da cui il nostro sale) che mostra rispetto al greco il recupero del suono della cui perdita è traccia in greco lo spirito aspro (͘῾) presente nella vocale iniziale (). Insomma, come sal è da un originario greco *σἁλς (leggi sals), così ἁρπαλέα potrebbe essere da * σἁρπαλέα (leggi sarpalèa).     Tuttavia l’obiezione mossami mette in dubbio questa mia prima ipotesi perché, immaginando il passaggio dal greco al latino debbo mettere in conto anche il cambiamento di accento perché, essendo –έ- breve in latino avremmo avuto *Sarpalěa (leggi Sarpàlea) da cui, in volgare, Salpàrea. L’ipotesi, tuttavia, non è da mettere definitivamente da parte e non invocando il caso di corrèo) che ha preso il sopravvento sul più corretto còrreo, in quanto dal latino corrěum), ma piuttosto un’originaria variante greca *σαρπαλεία  (leggi sarpalèia), da cui in latino sarpalēa (leggi sarpalèa), da cui la voce volgare, come in cefalea che è dal latino cephalaea(m), a sua volta dal greco κεφαλεία (leggi chefalèia).

Ritenendo, invece, che il Salparea dell’atto sia dovuto ad ipercorrettismo e che la forma originaria corretta fosse e sia proprio Sarparea, escludendo, per assenza di altri esempi, che sia una forma aggettivale deverbale (da salpare), non resta che mettere in campo il latino medioevale sarpa che nel Du Cange è riportato come sinonimo di sarculum, da cui l’italiano sarchiello. Tuttavia poco dopo lo stesso glossario registra il verbo sarpere con la definizione di sarpa purgare (pulire col sarchiello). Appena più avanti è registrato sarpia con la definizione ut sarpa, falx (come sarpa, falce). Che si tratti di sarchiello o di falce, entrambi gli attrezzi sono più utili per la pulizia del terreno (la falce per tagliare l’erba, il sarchiello per eliminarla dalle radici) che per la sua coltivazione. L’allusione potrebbe essere ad un paesaggio in cui lo strato di terra al di sopra di quello roccioso è poco spesso. Insomma Sarparea equivarrebbe non tanto a terra quasi incoltivabile e tutt’al più da ripulire, ma terra in cui per farsi avanti bisogna usare la falce. E la trafila sarebbe sarpa>sarpalis (prima forma aggettivale)>*sarpalea (seconda forma aggettivale derivata dalla prima).

Ragionando induttivamente e partendo dalla constatazione che spesso i toponimi sono in rapporto a qualche caratteristica del luogo (fisica come nell’ipotesi precedente o legata all’abbondanza di specie animale o vegetale) si potrebbe pensare ad una forma aggettivale da serparo (nel significato di covo, non cacciatore di serpi, tradizione della cui pratica nelle nostre zone non ho notizia) nella variante *sarparu d’influsso, forse, gallipolino. Se la constatazione, però, dovesse valere per il nostro caso, entrerebbero in gioco, con meno funambolismo fonetico rispetto a serpe, anche salpa (allusione all’abbondanza, in passato, di questa specie ittica nel vicino tratto di mare?) e, se la forma di partenza dovesse essere Sarparea, anche il latino sarpa, che significa airone (i passaggi migratori in passato, molto probabilmente erano radicalmente diversi rispetto ad oggi).

– Che senso ha – direbbe allora più di uno – osteggiare un progetto quando il nome stesso del sito coinvolto è avvolto (scusate la figura etimologica …) nel mistero? -. Ci sono casi in cui l’ignoranza merita rispetto, ma, per capire meglio questa mia affermazione apparentemente rivoluzionaria ed in contraddizione con tanti miei sfoghi registrati in questo blog, rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/11/nostro-idiota-suicida-abbarbicamento-al-presente/.

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1 1 Forse nemmeno gli imprenditori inglesi artefici del progetto sanno che il loro inclusive è copiato, tal quale, anzi è il latino inclusive … E, per la par condicio, visto che si tratta di un imprenditore nostrano,  che una volta tanto fallisca il detto latino nomina omina, poiché l’inquietante anagramma di Flavio Briatore è Oliveti? Farò bar!

Lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso di Latiano

Le pietre raccontano: lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso

di Latiano, una traccia dell’architettura latianese del XVI secolo

di Marcello Semeraro

 

Premessa

L’identificazione di stemmi anonimi raffigurati su dipinti, monumenti, edifici, chiese e altri manufatti è un’operazione molto utile nel lavoro di ricerca dello storico e dello storico dell’arte. Molto spesso, infatti, è proprio la corretta lettura di un’insegna araldica lo strumento che consente di restituire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) al manufatto su cui essa è riprodotta. Eppure, nonostante queste premesse, le potenzialità dell’araldica come scienza documentaria della storia restano ancora oggi inesplorate o, peggio ancora, mal espresse, soprattutto nel Sud Italia. Il caso della stemma della chiesa del Santissimo Crocifisso di Latiano è esemplificativo di quello che può essere l’enorme contributo offerto dall’araldica alla ricerca storica. L’analisi di questo manufatto sarà oggetto di un mio più corposo contributo che vedrà la luce prossimamente sulle pagine della Rivista del Collegio Araldico. In questa sede mi limito pertanto a presentarne una breve sintesi.

Fig. 1. Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo
Fig. 1. Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo

 

Lo stemma asburgico

Lo stemma è murato sul lato del muro perimetrale della chiesa del SS. Crocifisso prospiciente Via Colonnello Montanaro. Il manufatto, di chiare fattezze cinquecentesche, è delimitato da una cornice rettangolare scavata nella pietra e nobilita l’architettura anonima del lato dell’edificio su cui è collocato. Dai documenti di archivio si ricava che l’attuale chiesa, edificata negli anni 1603-1624, fu costruita sulla preesistente chiesa di San Sebastiano, sede dell’omonima confraternita, della quale tuttavia non sono note le vicende costruttive. La composizione araldica è particolarmente complessa e si caratterizza per la presenza di ben trentaquattro quarti, distribuiti sulla superficie di uno scudo semirotondo dalla foggia tipicamente spagnola (fig. 1). L’esemplare appare in un stato di conservazione non buono e si presenta con vistose carenze osservabili nella parte relativa alle ornamentazioni esterne dello scudo. Circa la sua attribuzione, l’opinione dominante fra gli studiosi locali vuole che l’insegna sia da assegnare all’imperatore Carlo V d’Asburgo (*1500 †1558). Di questo parere è, ad esempio, Salvatore Settembrini, uno dei più noti cultori di storia latianese, che considera la presunta arma carolina una prova importante della continuità storica fra la chiesa di San Sebastiano e quella del SS. Crocifisso. Tuttavia, l’analisi attenta dell’esemplare in questione dimostra tutta l’infondatezza di tale consolidata attribuzione. L’araldista esperto riconosce facilmente che sulla superficie dello scudo inquartato è rappresentata una combinazione di due differenti armi: quelle della Casa d’Asburgo-Spagna uscita da Carlo V (1° e 4° gran quarto) e quelle del Regno di Inghilterra (inquartato di Francia moderna e di Inghilterra), queste ultime rappresentate secondo la modifica apportata da Enrico IV nel 1405 (2° e 3° gran quarto) (fig. 2).

Fig. 2. Stemma del re d’Inghilterra Enrico IV. Armes, noms et qualités de touts les chevaliers du tres noble ordre de la Jartiere, qui ont esté depuis l'institution dudit ordre, faicte, l'an 1350, par Eduard 3, roy d'Engleterre, jusqu'à present 1647; par Charles Soyer, genealogiste et enlumineur du roy” (1601-1700), BNF, ms. fr. 2775, fol. 24r.
Fig. 2. Stemma del re d’Inghilterra Enrico IV. “Armes, noms et qualités de touts les chevaliers du tres noble ordre de la Jartiere, qui ont esté depuis l’institution dudit ordre, faicte, l’an 1350, par Eduard 3, roy d’Engleterre, jusqu’à present 1647; par Charles Soyer, genealogiste et enlumineur du roy” (1601-1700), BNF, ms. fr. 2775, fol. 24r.

 

Al centro dell’inquartato, nella posizione detta sul tutto, è collocato lo scudetto d’Austria, arma d’origine che sottolinea l’appartenenza del titolare dello stemma alla Casa d’Asburgo, mentre nella punta dello scudo è innestata l’insegna di Granada. Non è questa la sede per descrivere dettagliatamente i singoli quarti e le loro modalità aggregative nel corso del tempo, aspetti che verranno trattati in maniera approfondita nel mio saggio di prossima pubblicazione. Qui mi limito ad osservare che nel primo e nell’ultimo gran quarto, la disposizione dei quarti di Castiglia, León, Aragona, Aragona-Sicilia, Ungheria antica, Borgogna antica e moderna presenta vistose irregolarità sia nell’organizzazione delle singole insegne, sia nel rispetto delle proporzioni delle partizioni che le dividono. Mancano, inoltre, alcuni quarti che solitamente trovano posto negli stemmi degli Asburgo di Spagna: Fiandra, Brabante e Tirolo, per la parte asburgico-borgognona, e Gerusalemme, associata a Ungheria antica, per la parte relativa al Regno di Napoli. I restanti gran quarti mostrano invece i gigli di Francia correttamente inquartati con i leoni passanti  inglesi, sebbene questi ultimi non siano rappresentati nella loro abituale posizione, cioè con la testa di fronte, ma di profilo. Lo stemma è completato da una serie di ornamentazioni esterne impiegate come insegne di dignità che alludono, come vedremo, a determinati status del titolare: una corona, mutila della parte relativa al rialzo, un’aquila accollante lo scudo, che si presenta acefala, e, attorno allo stesso scudo, il collare dell’Ordine del Toson d’Oro. Malgrado le irregolarità osservabili nella composizione dello stemma, dovute probabilmente a un errata copia del blasone da parte dello scalpellino, non ci sono dubbi sulla sua attribuzione.

Fra i sovrani asburgici che si succedettero sul trono di Spagna fino a Carlo II (†1700), infatti, solo uno può aver innalzato un’arma come questa: Filippo II (*1527 †1598), figlio e successore di Carlo V, re di Napoli dal 1554, re di Spagna e delle Due Sicilie dal 1556 e sovrano consorte d’Inghilterra dal 1554 al 1558 a seguito del suo matrimonio con la regina Maria I Tudor (†1558), dalla quale non ebbe figli.

Fig. 3. Oxford, cappella del Trinity College, vetrata con stemma Filippo II (periodo 1556-1558).
Fig. 3. Oxford, cappella del Trinity College, vetrata con stemma Filippo II (periodo 1556-1558).

 

Dall’osservazione dei numerosi esemplari araldici realizzati nel quadriennio 1554-1558 e riprodotti su supporti di vario tipo (monete, sigilli, monumenti, opere a stampa, vetrate e altri manufatti), emerge chiaramente che entrambi i sovrani solevano abitualmente rappresentare le rispettive armi sulla superficie di uno scudo partito (figg. 3, 4, 5 e 6).

Fig. 4. Arma reale di Filippo II e Maria Tudor scolpita sulla Mary Tudor Tower del Castello di Windsor
Fig. 4. Arma reale di Filippo II e Maria Tudor scolpita sulla Mary Tudor Tower del Castello di Windsor
Fig. 5. Mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556.
Fig. 5. Mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556.

 

Fig. 6. Fig. Altro mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556
Fig. 6. Fig. Altro mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556

 

La forma inquartata, attestata sull’esemplare latianese, costituisce da questo punto di vista una variante insolita che, tuttavia, nulla toglie alla riconoscibilità del titolare dell’arma. Un’ulteriore prova dell’attribuzione certa del manufatto latianese ci viene offerta dall’analisi delle insegne di dignità che completano la composizione dello stemma. Come si vede nell’illustrazione, l’aquila che accolla lo scudo appare acefala, ma il resto del corpo non lascia dubbi sulla sua natura. Si tratta della cosiddetta aquila di San Giovanni, di colore di nero, nimbata d’oro e munita della caratteristica coda a ventaglio.

Fig. 7. Toledo, Escuela de Artes y Oficios Artísticos, facciata, particolare dello stemma dei Re Cattolici con l’aquila giovannita
Fig. 7. Toledo, Escuela de Artes y Oficios Artísticos, facciata, particolare dello stemma dei Re Cattolici con l’aquila giovannita

 

Fu questo un emblema caro a Ferdinando II d’Aragona e a Isabella di Castiglia (fig. 7), che in seguito fu adottato anche dalla figlia Caterina (regina consorte d’Inghilterra come moglie di Enrico VIII e madre di Maria Tudor) e dallo stesso Filippo II, pronipote per via paterna dei due Re Cattolici (figg. 8 e 9). Quanto alla corona che timbra lo scudo, si osserva che essa è abrasa nella parte superiore, limitandosi ad solo cerchio e a qualche frammento di fiorone: troppo poco, apparentemente, per descriverne l’esatta foggia. Tuttavia, l’osservazione attenta di quel che resta del rialzo permette di affermare che questa corona, simbolo del potere reale, dovette essere simile a quella impiegata da Filippo II nella monetazione napoletana coniata durante il matrimonio con Maria Tudor: una corona aperta o chiusa, formata da un cerchio rialzato da cinque fioroni (tre visibili), alternati a quattro perle (due visibili), sostenute da altrattente punte (figg. 5 e 6).

Fig. 8. Stemma di Filippo II con l’aquila di San Giovanni scolpito sulla facciata della Casa consistorial de Baeza
Fig. 8. Stemma di Filippo II con l’aquila di San Giovanni scolpito sulla facciata della Casa consistorial de Baeza

 

Fig. 9. Scudo di Filippo II sostenuto da due aquile di San Giovanni. “Les Armories et enseignes du souverene et compagnions du tresnoble ordre de la Jarretiere, en nombre de XXV, come ilz sont par ordre au chasteau de Wyndsor, l'an 1572”, BNF, ms. fr. 14653, fol. 3r.
Fig. 9. Scudo di Filippo II sostenuto da due aquile di San Giovanni. “Les Armories et enseignes du souverene et compagnions du tresnoble ordre de la Jarretiere, en nombre de XXV, come ilz sont par ordre au chasteau de Wyndsor, l’an 1572”, BNF, ms. fr. 14653, fol. 3r.

 

Infine, la presenza attorno allo scudo del collare del Toson d’Oro indica chiaramente l’appartenenza del sovrano asburgico al celebre e omonimo Ordine cavalleresco istituito nel 1430 da Filippo il Buono, duca di Borgogna, ed ereditato dalla casa d’Asburgo in conseguenza del matrimonio fra l’imperatore Massimiliano I e Maria di Borgogna, bisavoli paterni del nostro Filippo, al quale in data 22 ottobre 1555 il padre Carlo V trasferì il Gran Magistero dell’Ordine. L’identificazione certa del titolare dell’esemplare litico latianese consente dunque di datarne la collocazione entro una forchetta temporale di soli quattro anni, limitata alla durata del matrimonio fra Filippo II e Maria Tudor (1554-1558). In questo lasso di tempo il feudo di Latiano apparteneva da più di un decennio a Francesco Antonio Francone (1542-1585). Settembrini, attribuendo erroneamente lo stemma a Carlo V, sostiene che tale manufatto era collocato originariamente nella cinquecentesca chiesa di San Sebastiano, ma questa tesi appare poco convincente se si considerano la tipologia di arma rappresentata e la natura dell’edificio che la ospita. Nel Regno di Napoli e nella stessa Terra d’Otranto, infatti, questo tipo di rappresentazione araldica del potere regale trovava quasi sempre posto su edifici o monumenti civili o militari di particolare rilevanza pubblica: porte urbiche, torri, bastioni, castelli, titoli confinari, sedili, luoghi deputati all’amministrazione della giustizia ecc., supporti privilegiati per la mise en scène di un signum attestante l’autorità regia. Numerosi sono gli esempi in tal senso, sui quali non vale pena soffermarsi. Ciò che è insolito, invece, è trovare una composizione come quella in esame su un piccolo edificio religioso, tanto più che nel corso di questa indagine non è emerso nessun tipo di legame diretto fra Filippo II e l’antica chiesa di San Sebastiano tale da giustificare la presenza del suo stemma. Pertanto, benché la tesi del Settembrini non sia da scartare a priori (e in tal caso lo stemma sarebbe un forte elemento datante), è più verosimile ipotizzare per l’esemplare litico in questione una sua originaria collocazione su una costruzione civile o militare, una costruzione evidentemente ancora in piedi negli anni 1554-1558. Se così fosse, la chiesa di San Sebastiano andrebbe fatta risalire alla fine del XVI secolo, come attestano del resto i più recenti studi sulla topografia cinquecentesca di Latiano. È evidente, comunque, che l’attribuzione dell’arma e la cronologia ristretta che essa sottende offrono agli studiosi di storia locale nuove piste di ricerca sulle quali sarebbe utile investigare in futuro. Com’è noto, dopo la morte di Maria Tudor, El Rey Prudente eliminò le armi inglesi dal suo stemma e a partire dal 1580 aggiunse lo scudetto del reame portoghese, collocandolo sul punto d’onore dello scudo (fig. 10). Nel corso del tempo il suo stemma fu soggetto a numerose varianti, la cui descrizione, tuttavia, esula dall’argomento oggetto di questo studio.

Fig. 10. Stemma di Filippo II, dal Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius (1603).
Fig. 10. Stemma di Filippo II, dal Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius (1603).

 

Conclusioni

Arma di dominio attestante l’autorià regia nonché vero e proprio “ritratto sociale” del titolare, l’esemplare araldico oggetto di questa disamina rappresenta una delle più antiche testimonianze dell’architettura latianese del XVI secolo e, come tale, merita di essere apprezzato e valorizzato. È evidente che le condizioni in cui versa oggi il manufatto ne impongono con urgenza un recupero mediante restauro che lo sottragga agli effetti nefasti prodotti dalle ingiurie del tempo e dall’incuria dell’uomo. In una lettera del 24 febbraio 2005 indirizzata alla Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, al Comune di Latiano e al parroco della chiesa di S. Maria delle Neve, Ilario Mosca (all’epoca giovane studente liceale), attribuendo erroneamente l’esemplare a Carlo V, auspicava “il recupero, il restauro, la valorizzazione e la preservazione di un pezzo di storia latianese che al momento passa inosservato ai più”. L’appello del Mosca restò lettera morta. L’auspicio è che questa mia ricerca possa spingere le istituzioni e le associazioni locali (fra cui la Pro Loco, che nel suo sito persevera nell’errata attribuzione dello stemma) a intervenire concretamente in tal senso.

 

BIBLIOGRAFIA

Corpus Nummorum Italicorum, vol. XX, Italia meridionale e continentale: Napoli II, da Filippo II alla chiusura della zecca, ed. Colombo, Roma 1943.

Beni culturali di Latiano: le chiese e il patrimonio sacro (a cura della Biblioteca comunale), Manduria 1993, vol. 3, t. 2.

  1. Borgia, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie, Firenze 2002.
  2. Fraser, The Lives of the Kings & Queens of England, Book Club Associates, Londra 1975.
  3. Menéndez Pidal de Navascués, El Escudo de España, Real Academia Matritense de Heráldica y Genealogía, Madrid, 2004.
  4. Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Bologna 2005.
  5. Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce, in “Il delfino e la mezzaluna”, agosto 2006, anno IV, nn. 4-5.
  6. Settembrini, Il culto del SS.Crocifisso a Latiano: storia e tradizioni, Oria 1996.
  7. Settembrini, La piazza, il centro storico, l’espansione urbanistica di latiano nei secoli XVI-XX, Latiano 2012.
  8. Settembrini, Sindaci, notai e famiglie feudatarie di Latiano, Latiano 2002.
  9. Willement, Regal heraldry. The armorial insignia of the Kings and Queens of England, from coeval authorities, Londra 1821.

Brindisi e il suo porto in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

L’immagine di testa è un dettaglio della carta che ho avuto occasione di presentare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/.

Credo sia ormai evidente che il mio scopo è quello di suscitare curiosità, nella speranza che qualcuno dei pochi pazzi (tali sembrano, di fatto, alla cultura dominante) ancora in giro, tra cui il sottoscritto, contribuisca con il suo raptus a rettificare o a integrare il mio …, che non può che limitarsi all’evoluzione  della toponomastica del circondario del porto quale risulta (non sempre con un percorso rettilineo) da mappe a stampa successive a quella aragonese. L’analisi dei toponimi, leggibilissimi sulla mappa, sarà condotta in ordine alfabetico.

Baccaro

Probabilmente si tratta di un prediale che, con altri probabili che seguiranno, reca traccia di un’aristocrazia terriera in quel periodo padrona di buona parte del territotio brindisino. Un Giulio Cesare Baccaro fu notaio a Brindisi dal 1589 al 1629 e la famiglia in questione è presente ancora oggi nella toponomastica viaria (Via de’ Baccaro)

Casale Cuggio: come prima Baccaro potrebbe essere un prediale. Lla famiglia Cuggio, infatti, risulta citata nell’elenco dei nobili brindisini presente in Cesare D’Eugenio Caracciolo, Ottavio Beltrano e altri, Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci provincie, Beltrano- De Bonis, Napoli, 1671, p. 321 e in Andrea Della Monaca, Memoria historica della città di Brindisi, Micheli, Lecce, 1674, s. p. : Non vi mancano però al presente nella città di Brindisi molte Fameglie nobili, e particolarmente la Fornara, Cuggio …

Casale di Marco: altro probabile prediale, di cui potrebbe essere impressionante indizio l’attuale  via Carlo De Marco (1711-1809), evidenziata di seguito col segnacolo rosso nel dettaglio che ho tratto da Google Maps.

Un Simone De Marco ebbe in dono nel 1275, da Carlo I d’Angiò i feudi di Mauritano e Cognano e i Casali di S. Cassiano, Lequile, Casamassella e Vaste.

Casale di Pasquale granofeo: continua il festival dei probabili prediali, Ipotizzando granofeo deformazione di Granafei. La famiglia, fuggita da Costantinopoli per l’invasione dei Turchi di Maometto II, si trasferì a Brindisi nel 1508. Nel XVII secolo un suo rappresentante, Giovanni. fu tacito protagonista di un episoduo molto triste della storia di Nardò (https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/giovanni-granafei/).   

Castello di Isola oggi Castello alfonsino o Castello aragonese o Castel rosso (costruzione iniziata sull’isola di S. Andrea nel 1445 da Ferdinando I d’ Aragona).

 

Pompeiano dir(uto): potrebbe essere connesso con il lontanissimo (49 a. C.) ricordo dell’assedio di Brindisi da parte di Cesare per bloccare la fuga di Pompeo in Oriente o col tentativo inverso attuato senza successo l’anno successivo da Lucio Scribonio Libone.

S.to Pelino: di una chiesa dedicata a colui che nel VII secolo fu vescovo di Brindisi è nota una chiesa che sorgeva nel cortile dell’attuale palazzo Granafei Nervegna, ma per evidentissimi motivi di dislocazione essa non può essere quella della mappa.

Theodoro dir(uta): molto probabilmente la chiesa sorgeva nel luogo (oggi Fontana Tancredi) in cui secondo la tradizione nel 1210 approdò l’imbarcazione che trasportava le ossa del santo. 

Torre del Cavallaccio (oggi punta di Torre Cavallo2).

Torre del Cavallo. Risulta assente in tutte le carte prima utilizzate ai fini comparativi per gli altri toponimi. Data  l’estrema precisione che la carta aragonese mostra bisognerebbe ipotizzare l’esistenza di una torre scomparsa nell’arco di pochi decenni. 

Torre della Pena oggi Torre Penna

Sul toponimo, che nella prima stesura per distrazione non avevo citato, vedi in calce il commento del sig. Mario Galasso. Alle sue osservazioni aggiungo che peña è dal latino pinna, che significa, fra l’altro, penna e pinnacolo ed è connesso con la variante, sempre latina, pina, che designa il mollusco il cui nome scientifico è pinna nobilis e quello comune cozza penna. Tutto ciò non esclude che il nome della torre sia connesso non tanto col significato traslato di promontorio ma con l’abbondanza della specie appena ricordata nello specchio d’acqua limitrofo . Se è così, il pena  della carta aragonese senza tilde sarebbe una grafia di compromesso della voce originale (penna), compromesso continuato, come si vede in tabella,  nella cartografia successiva dove penna si alterna a pena.

Chiudo con una comunicazione di servizio: questo tipo di indagini non può esulare dall’apporto di studiosi ed appassionati locali (cui dovrebbe essere più agevole la consultazione, per esempio, delle visite pastorali, o il riemergere alla memoria di un atto notarile letto casualmente, etc. etc., senza contare la possibilità di ricognizioni dirette dei siti), ai quali rivolgo in tal senso un accorato appello, anche in riferimento al post con cui è cominciata la serie e il cui link ho riportato in apertura. Dirò di più: in mancanza di adeguati riscontri sarò costretto, al massimo fra due altre puntate, a chiudere la serie che altrimenti non avrebbe senso. Se, invece, i contributi non dovessero mancare, potrei addirittura pensare (seriamente, non solo per sognare …)  di raccoglierli, con citazione del nome dell’autore, in una monografia estesa all’intera Terra d’Otranto, previa richiesta della mappa integrale in alta definizione (altrimenti come completare lo studio stesso?) alla Biblioteca Nazionale di Francia contestualmente al rilascio dell’autorizzazione a sfruttarla per una pubblicazione a stampa. Se c’è qualche sponsor, intanto, dichiari la sua disponibilità …

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

 

 

__________

1 Si tratta di un aggiornamento (evidentemente anche toponomastico) della carta del Magini, come indica chiaramente il titolo/didascalia:

2 Oggi il sito è più noto per le frequenti sfiammate della torcia di emergenza dello stabilimento  petrolchimico  che per la torre sui cui pochissimi resti si può ammirare (!)  una postazione  risalente alla prima guerra mondiale. Sull’origine del toponimo rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/.

Il nostro idiota e suicida abbarbicamento al presente

di Armando Politop1

*Mi chiedo come mai sei arrivato alla tua età senza diventare dirigente o ministro …

 

Il perverso disegno politico di pascere i cittadini nell’ignoranza per farne, senza che se ne rendano conto, sudditi più scodinzolanti di un ingenuo cagnolino è giunto quasi a compimento e i frutti ormai sono tanto evidenti e deleteri che qualche centinaio di persone ancora liberamente pensanti ha rivolto recentemente un accorato appello perché il sistema scolastico smetta di sfornare giovani non in grado ormai di intendere il significato superficiale delle singole parole (figurarsi quello profondo …), da cui la difficoltà, a cascata, di leggere, capire ciò che si legge, esprimersi compiutamente e scrivere correttamente.

Il libertinaggio grammaticale oggi è balordamente supportato anche da alcuni accademici (un caso per tutti: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/05/quale-il-problema-e-che-sei-una-capra-direbbe-vittorio-sgarbi/; il protagonista del caso sicuramente non sarà stato tra i firmatari …) che dovrebbero essere, secondo me, più educatori che propagandisti e diffusori, in nome dell’uso, di certi fenomeni che possono, anzi devono, essere  oggetto di studio da parte dei linguisti, ma non diventare, come sta succedendo, modello di riferimento per i giovani che fisiologicamente sono intolleranti delle regole e esposti alla seduzione del lassismo o permissivismo che dir si voglia.

La convivenza civile è fatta di regole che sono da rispettare da ciascuno di noi, anzitutto per stare ìn pace con la propria coscienza o con i suoi sussulti residui, e poi per non danneggiare il prossimo. In una società in cui le stesse leggi sono formulate in modo disgustosamente ambiguo tanto da consentire anche al più scalcinato degli avvocati di difendere con parecchie probabilità di successo il suo cliente (beninteso: quando è colpevole …) poteva la grammatica avere l’importanza fondamentale che l’ha contraddistinta dagli albori della civiltà occidentale, nesso con cui spesso ci sciacquiamo la bocca senza nemmeno avere idea di cosa essa, in concreto, abbia rappresentato per millenni?

C’è da meravigliarsi, perciò, che gli studi umanistici stiano soccombendo di fronte all’avanzata inarrestabile di un progresso scientifico che, per come è gestito e sponsorizzato, sembra più asservito alla mala economia, alla finanza, alla speculazione e non teso, come dovrebbe, a migliorare la nostra umanità?

È il trionfo del concreto sull’astratto,  del pratico sul teorico, dell’oggetto sul soggetto, del corpo sull’animo, dell’avere  e dell’apparire sull’essere, costi quel che costi, della realtà sul sogno.  Non c’è tempo per riflettere, per dubitare e viviamo una vita frenetica basata sul tutto e subito, su diritti, reali o presunti, da far valere e su doveri da eludere più o meno furbescamente, pronti a trovare le più fantasiose (che prostituzione della fantasia!) giustificazioni e le più improbabili attenuanti per i nostri errori, grandi e piccoli.

In questo quadro solo un demente potrebbe sussultare scoprendo che molti delle ultime generazioni non sanno distinguere un sostantivo da un verbo e, relativamente a quest’ultimo, un futuro da un presente o da un passato remoto.

In fondo per la nostra vita alla giornata l’unico tempo, non solo verbale, degno di esistere è il presente, il passato è inutile anticaglia e il futuro non preoccupa più di tanto nemmeno i diretti interessati, almeno finché vivranno i nonni giustamente condannati, quando possono …,, loro che sono stati i principali responsabili dell’elefantiaco debito pubblico, a pagare il conto per figli e figli dei figli.

Il presente celebra il suo trionfo nel figlio che ammazza il genitore per godersi anzitempo l’eredità, nel sotterratore di rifiuti tossici, nell’imprenditore che inquina, nell’evasore fiscale, nel detentore del potere politico drogato dall’esigenza primaria del consenso (perciò corrotto e/o corruttore), dal bullo che celebra nel branco il rito blasfemo della sua vigliaccheria, da chi, nutrendo infondate velleità letterarie, s’indebita fino al collo per pubblicare il frutto del suo presunto talento pur di vivere un momento di effimera gloria garantito per contratto (tanto per una recensione su questa o quella rivista, tanto per un’uscita televisiva e così via), pur sapendo che non ci sarà una, dico una, copia venduta; e lo stesso è in tanti altri comportamenti in cui il passato non conta e il futuro tanto meno.

Il presente, sganciato dalla memoria da una parte e da una prospettiva progettuale lungimirante dall’altra, è come il figlio per il quale (e non per sua colpa …) i genitori sono poco più che estranei e che sarà condannato alla sterilità (quella dei sentimenti, ben più grave di quella fisiologica); è come l’anticamera dell’ignoranza e della morte dello spirito critico. Proprio quello che la politica ha messo in atto, con un disegno lucidamente criminale (quindi non solo frutto inconsapevole d’incompetenza …) nel mondo della scuola amputando progressivamente gli studi umanistici fino a ridurli (non solo nell’immaginario collettivo, ma, quel che è più grave, nella realtà) ad una pura perdita di tempo, umiliando e scoraggiando gli insegnanti più vocati, bravi ed aggiornati anche sull’uso delle moderne tecnologie, altro nesso con cui sciacquarci la bocca, mentre in alcune scuole manca pure la carta igienica per pulirsi il culo …

E, a proposito di nuove tecnologie, faccio un solo esempio in tema relativamente all’indirizzo più calpestato: il liceo classico. Che senso avrebbe, infatti, sfruttare il cd in dotazione ai vocabolari di italiano, latino e greco per ricerche mirate grazie alle possibilità offerte dal connesso motore di ricerca quando fra poco il ministero preposto sancirà che alcune lettere dei relativi alfabeti potranno essere considerate opzionali e che la traduzione di un qualsiasi brano sarà da considerare valida quand’anche dovessero risultare tradotte, anche in modo non corretto,  solo la prima e l’ultima parola?

Che senso avrebbe scarnificare in classe fino all’inverosimile le cinque frasi di latino assegnate il giorno prima per l’analisi, la  traduzione e il commento (tante, non più di cinque, ne assegnavo io; se non è vero, qualcuno dei miei ex alunni mi sputtani pure pubblicamente …), quando già si formano comitati di genitori che premono per l’eliminazione dei compiti per casa, non per la loro riduzione (ai miei tempi, infatti, oggi ne dubito,  la quantità, mi riferisco sempre alle traduzioni, nella stragrande maggioranza dei casi assumeva le proporzioni oscene di due o tre brani ognuno di almeno dieci righe, oscenità ulteriormente amplificata il giorno dopo dalla mancata correzione … roba demenziale!) e, forse, è già pronto il disegno di legge per soddisfare questa richiesta che potrebbe portare una caterva di voti (il classico cane, continuiamo a tirare in ballo gli altri animali per sentirci superiori …, che si morde la coda) a chi adotterà questo provvedimento liberatorio da tutto, meno che dall’ignoranza e, a lungo andare, dalla stupidità, perché il cervello ha bisogno di una palestra ben diversa da quella riservata ai muscoli …

Mi chiedo spesso come  sarei stato io se fossi vissuto da giovane nel nostro tempo. La risposta è sempre la stessa: quasi sicuramente sarei stato peggiore di tanti giovani di oggi, avrei avuto come unica preoccupazione la bella vita e mi sarei pure drogato o, in un barlume di lucidità, suicidato per schifo di me stesso o, nell’improbabile caso in cui avessi tentato l’impari lotta contro un mondo fallito che ti fa sentire tale anche se non lo sei, per recuperare la dignità e la libertà troppe volte violentate. Se non l’ho fatto e se mi sento, tutto sommato, più giovane di un giovane del nostro tempo, dipenderà dal fatto che i miei genitori, la scuola e larga parte di quella società mi hanno insegnato che il presente è figlio del passato e padre del futuro?

Qualcuno si chiederà quale attinenza abbia quanto ho fin qui detto con la Terra d’Otranto. Qualcun altro, per il quale il passato vale quanto il presente ed il futuro,  gli spieghi quale crocevia di cultura quella, anzi questa, terra è stata e spieghi pure, se riesce a farsi capire, a qualche amministratore locale e a qualche cittadino incivile (questa figura, per chi ha interesse, si chiama etimologica) che il concetto di stupro dell’ambiente (la lottizzazione con la chimera dell’occupazione da un lato e l’abbandono di rifiuti dall’altro possono sembrare a qualcuno futuro; c’è, però, l’inconveniente che lo saranno, sì, ma di merda …) è in contrasto con quelli di buono, bello e giusto ereditati da chi nei millenni ci ha preceduto e che avremmo avuto il dovere quanto meno di tentare di trasmettere, non con parole ormai vomitevoli ma con comportamenti, questa volta concreti,  a coloro che son venuti e verranno dopo di noi.

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, l’antico proverbio e la propaganda augustea

di Nazareno Valente

Degli altri colleghi storici Tucidide faceva di tutta un’erba un fascio considerandoli dei semplici logografi («λογογράφοι»), vale a dire narratori che miravano al diletto degli ascoltatori e non certo alla verità1 con l’unico intento, pertanto, di produrre belle storie da declamare in pubblico, senza preoccuparsi della loro fondatezza. Sebbene non l’affermasse esplicitamente, egli ci metteva nel mucchio persino Erodoto, che pure aveva limitato al massimo i facili abbellimenti dovuti a fantasiosi interventi divini, ma che probabilmente non s’era emancipato dalla consuetudine di leggere le proprie storie nelle pubbliche piazze. E, che così fosse, se ne ha una prova evidente in un passo in cui lo storico di Alicarnasso parla della Scizia.

Ce lo possiamo infatti immaginare a Thurii, sua città d’adozione2, che s’affacciava sulla costa occidentale del golfo di Taranto, mentre cerca di spiegare ai suoi concittadini una particolarità dell’estrema propaggine della Scizia e che, per semplificare, utilizza come esempio l’Attica. Poi, temendo che quest’ultima contrada non sia molto conosciuta a chi l’ascolta, ritiene utile ricorrere ad un altro esempio («δὲ ἄλλως δηλώσω») che ha il pregio di non porre problemi interpretativi ai Turini, ovverosia la terra della Iapigia in cui abitano a stretto contatto di gomito i loro più acerrimi nemici (i Tarantini) ed i loro tradizionali alleati (i Brindisini). O, per dirla con le stesse parole di Erodoto, la penisola che inizia dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος3»).

Un passo stringato che non necessitava di ulteriori specificazioni, perché i Turini conoscevano perfettamente le due città ma al tempo stesso denso di significati, meritevoli di una descrizione a sé stante, se il nostro scopo non fosse circoscritto a decifrare un antico proverbio. In questa sede pare pertanto utile soffermarsi solo sugli aspetti funzionali alla nostra specifica trattazione.

Si può così rilevare che, quantunque entrambe le cittadine abbiano un porto rinomato, la sola Brindisi ne risulta di fatto caratterizzata, quasi che il porto fosse un’entità distinta dalla città. Erodoto specifica poi che si tratta di λιμήν che, in senso tecnico, è il termine portuale corrispondente al portus latino, con cui è definibile «uno specchio d’acqua chiuso naturalmente o artificialmente, accessibile dal mare, dove le navi possano rimanere sicure in caso di traversia4» e quindi con il requisito essenziale di costituire un sicuro ricovero nei momenti più tempestosi o di inattività invernali. Aspetto quest’ultimo di apprezzabile rilievo, considerato che a quel tempo si navigava quasi esclusivamente nelle belle stagioni.

In definitiva un porto d’eccellenza sin dal periodo classico dell’antichità greca e, pur tuttavia, nulla in confronto alla fama che acquisirà successivamente quando, a seguito della conquista romana, nella seconda metà del III secolo a.C. Brindisi diverrà colonia di diritto latino. Una fama che rivivrà negli scritti successivi pure nelle fasi di declino della città, così come avvenne nel De situ Iapygiae del Galateo.

Siamo all’inizio del XVI secolo, negli anni in cui l’impero ottomano, pur rivolgendo le sue attenzioni ad oriente, fa comunque sentire la propria nefasta presenza ad occidente, con rapide e feroci scorrerie che mettono in un stato di continua soggezione le città costiere. In assenza d’un governo forte, per i porti del basso adriatico l’unica difesa possibile è quella di precludere gli accessi alle rade, ed è per questo che il canale di collegamento al porto interno di Brindisi viene più volte ostruito, tanto che gli storici discutendo tra di loro lo qualificano «volgarmente… ciccato5». Eppure il Galateo6 giudica Brindisi città insigne «inclyta urbs» ed il suo porto famosissimo in tutto il mondo («toto terrarum orbe notissimus») tant’è che dà per coniato il proverbio: «tres esse in orbe portus: Iunii, Iulii et Brundusii», all’apparenza facile da tradurre ma dal significato alquanto oscuro (figura n. 1).

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Letteralmente potremmo tradurlo così: “tre sono i porti al mondo: Giunio, Giulio e Brindisi” e non ci sarebbero problemi, qualora ai tre nomi corrispondessero altrettanti porti noti dell’antichità; cosa che, invece, sicuramente non è nel caso di Giunio. Osservato però che Iunius e Iulius sono anche i nomi dei mesi rispettivamente di giugno e di luglio, potremmo adottare quest’altra traduzione: “tre sono i porti al mondo: giugno, luglio e Brindisi”, che mostra l’ulteriore difetto di comparare entità tra loro inconfrontabili.

A tutta prima, quest’ultima soluzione pare la meno soddisfacente, ciò malgrado, i principali cronisti brindisini del XVII secolo la danno per sicura.

Secondo il Moricino, il porto di Brindisi viene comparato ai mesi di giugno e luglio «quasi che a dispetto della natura del mare tale sia quel Porto in ogni stagione, quale suol essere in tutto nelle Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio7».

E, sulla stessa lunghezza d’onda, gli fa eco il Della Monaca: «Quasi ch’à dispetto della naturalezza del mare tal sia quel Porto in ogni staggione, qual essere suole in tutto il tempo il Mare nelle bonaccie di quei mesi Giugno e, Luglio8».

In definitiva, come a dire che nel porto di Brindisi le navi sono sempre al sicuro, al pari di quando solcano il mare nelle bonacce dei mesi di giugno e luglio.

Un’interpretazione già di per sé in contrasto con la mentalità pratica degli antichi romani, poco inclini a fantasticherie così ardite in cui si confrontano i periodi migliori per navigare con i luoghi più idonei ad ospitare i navigli, e che in aggiunta non tiene conto di agosto, vale a dire del mese più favorevole per affrontare il mare. Vanno poi ricordate le consuetudini di quei tempi, che erano strettamente coerenti con le possibilità tecniche dell’epoca.

Come già in parte riportato, tranne rare eccezioni, si prendeva il mare solo nelle belle stagioni mentre in quelle cattive si trovava un buon porto dove ricoverare le navi. Le difese naturali o artificiali del portus erano infatti essenziali per proteggerle da eventuali mareggiate che potevano avere effetti devastanti su imbarcazioni la cui stazza era contenuta. A scanso di equivoci, esse venivano tirate a secco ed a volte protette pure da palizzate e fossati, per cui la bonaccia o la buona stagione non erano condizioni strettamente essenziali per la loro salvaguardia. Al contrario erano proprio le burrasche dei mesi estivi ad essere potenzialmente pericolose in quanto, sopraggiungendo improvvise e inaspettate, potevano comportare effetti disastrosi sulle galee ferme in rade non sufficientemente protette, tant’è che Svetonio9 riferisce come la flotta di Augusto fosse stata distrutta per ben due volte dalla tempesta, e non durante la brutta stagione ma per l’appunto nel bel mezzo dell’estate.

L’ingegnoso collegamento tra mesi dell’anno e porti fornisce perciò una chiave di lettura suggestiva – probabilmente conveniente a stimolare la fantasia e l’adattabilità dei social, dove in effetti impazza sino a trovare ospitalità in un godibile sketch satirico in cui un’analoga esegesi è fornita nientemeno che da Cesare Ottaviano Augusto10 – ma al tempo stesso improbabile. Certo è che essa non trova accoglimento al di fuori del ristretto ambito locale e, di conseguenza, conviene piuttosto considerare l’ipotesi più scontata, vale a dire che Iunius e Iulius siano molto più banalmente dei porti che non si è stati in grado di individuare.

Il Galateo scrisse il De situ Iapygiae in un periodo imprecisato tra il 1508 ed il 1511 ma non era più in vita quando il suo manoscritto fu stampato nel 1558, grazie al marchese di Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio che se ne accollò le spese. In quegli anni non esistevano porti con il nome di Giunio e di Giulio però, ai patiti di antichità romane quest’ultimo toponimo avrebbe potuto dire qualcosa. Del porto Giulio aveva infatti riferito Svetonio nella parte dedicata a Cesare Ottaviano Augusto della sua “Vita dei Cesari”, quando menziona l’inaugurazione presso Baia di un «portum Iulium» creato artificialmente facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno («inmisso in Lucrinum et Avernum lacum mari11»). La struttura portuale rendeva infatti comunicanti tra loro i laghi d’Averno e Lucrino, e quest’ultimo lago con il mare, previo taglio del cordone di sabbia che li separava (figura n. 2).

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Voluto da Vipsanio Agrippa, amico e fedele collaboratore di Augusto, per contrastare le scorrerie sul Tirreno della flotta di Sesto Pompeo, il portus Iulius (o portus Iulii) iniziò ad operare nel 37 a.C. nei pressi del vecchio e rinomato porto di Puteoli, nell’ampia area dei Campi Flegrei, che venne così soppiantato da questo nuovo doppio bacino portuale. Si ipotizza che inizialmente avesse prevalenti funzioni militari, essendo stato preventivato l’allestimento d’un arsenale e di strutture idonee per addestrare gli schiavi liberati per inquadrarli tra i rematori, ma che in seguito divenne però scalo commerciale d’una certa importanza. In ogni caso, ricoprì un ruolo strategico di rilievo, se Agrippa decise di intitolarlo al futuro Augusto che, come conseguenza dell’adozione da parte di Cesare, aveva appunto modificato il proprio nome da Octavius a Iulius, e se altri storici lo citarono diffusamente nei loro scritti. Il porto meritò anche una menzione poetica da parte di Virgilio12 che l’elenca («Iulia… unda») tra le laboriose opere («operumque laborem») compiute dalla mano dell’uomo.

Come il porto di Brindisi, anche quello Giulio visse i suoi anni di gloria in concomitanza con l’impero romano e declinò con esso; solo che non si riprese mai più. Anzi scomparve addirittura dalla faccia della terra, a causa dei fenomeni naturali che investirono la regione flegrea modificandone la struttura morfologica. Dapprima, tra l’VIII ed il X secolo, fenomeni bradisismici fecero sì che il mare sommergesse il Lucrino che poi finì quasi per sparire nel 1538, a seguito dei movimenti tellurici che crearono in quel sito il Monte Nuovo.

Al tempo di Moricino e Della Monaca, il porto Giulio non esisteva pertanto più, e non ne era rimasta traccia, se non nelle fonti letterarie antiche. Solo i ritrovamenti archeologici del secolo scorso lo posero nuovamente in luce.

Non c’è quindi dubbio alcuno che lo “Iulii” del Galateo identifichi il porto Giulio, e non il mese di luglio come ipotizzato dai cronisti brindisini; di conseguenza anche Iunii è di sicuro un porto, e non un mese del nostro calendario. Il problema però in questo caso è che non c’è indizio, né possibile accenno nelle fonti letterarie, che diano modo di individuare una città portuale con un tale nome. Il che appare strano, se esso era così famoso da diventare proverbiale.

L’unica ipotesi formulabile appare a questo punto che il passo sia errato; cosa plausibile, considerate le lamentele espresse a volte «ai lettori» dai curatori delle opere del Galateo per le «grandissime difficoltà» incontrate nella traduzione «per la scorrezione dei testi13».

Partendo pertanto dal presupposto che il Galateo (o qualche copista) ne abbia riportato in maniera imprecisa il nome, occorre cercare la città portuale, a quel tempo rinomata, la cui denominazione abbia maggiore assonanza con Iunii. Essendo le località di tal genere in numero limitato, la ricerca riconduce inequivocabilmente al portus Lunae che, tenendosi alla sinistra dell’allora ampia foce del fiume Magra, si affacciava ad est dell’attuale golfo di La Spezia, e che, in antichità aveva goduto di buona fama meritando pure le attenzioni del grande Ennio14 che invitava a visitarlo, perché ne valeva la pena («Lunai portus, est operae. cognoscite, cives»).

Naturale come quello brindisino, il porto di Luna fu probabilmente motivo di contesa tra gli Etruschi ed i Liguri, prima di giustificare le mire dei romani che, con questo scalo, ritennero di poter controllare le rotte dell’alto Tirreno.

La deduzione nel 177 a.C. d’una colonia di diritto romano (civium romanorum) nella città di Luna fu perciò un passo del tutto conseguente (figura n. 3). Tuttavia, il successivo declino della potenza cartaginese creò una situazione di diffusa tranquillità nella zona, che finì per limitare l’importanza della base militare lunense. Solo in periodo augusteo il porto riacquisì rinomanza, quando fu potenziato e trasformato a scalo commerciale per sfruttare appieno le potenzialità delle vicine cave di marmo il cui candore affascinava Roma e tutte le città italiane. Ed è proprio di questo periodo la descrizione più particolareggiata che le fonti letterarie ci hanno conservato.

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Strabone15 ci informa infatti che la città di Luna non è grande mentre il porto è parecchio grande e assai bello, comprendendo più rade, tutte profonde («ὁ δὲ λιμὴν μέγιστός τε καὶ κάλλιστος, ἐν αὑτῷ περιέχων πλείους λιμένας ἀγχιβαθεῖς πάντας»), circondate da alte montagne dove ci sono cave di marmo bianco («μέταλλα δὲ λίθου λευκοῦ») utilizzato per gli edifici più insigni costruiti a Roma e nelle altre città.

Durante la stesura del De situ Iapygiae, il porto di Luna era però da secoli scomparso: il graduale interrimento, causato dai frammenti depositati dal Magra, l’avevano infatti reso paludoso e malarico, sino a costringere i suoi abitanti ad abbandonarlo per spostarsi nell’entroterra. Così non c’è da stupirsi troppo se, tra una copia e l’altra del passo implicato, la del tutto sconosciuta Lunae possa essere stata sostituita da Iunii, magari proprio perché termine ritenuto più in armonia con Iulii, anch’esso non più riconosciuto come scalo portuale.

Comunque siano andate le cose, la stesura originale del proverbio doveva essere la seguente: «tres esse in orbe portus: Lunae, Iulii et Brundusii» stabilendo in definitiva che i porti di Luna, di Giulio e di Brindisi erano gli unici al mondo degni d’essere considerati tali.

Questo almeno nella forma; nella sostanza il messaggio che si voleva veicolare era però forse ben altro.

La citazione del prezioso marmo bianco lunense riportata da Strabone fa infatti venire alla mente il noto passo in cui Svetonio16 riferisce che Augusto si vantava senza sottintesi di lasciare di marmo la città di Roma che aveva ricevuto di mattoni («marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset»), facendoci così comprendere che la riorganizzazione del porto di Luna, e la conseguente notevole attività commerciale che vi era confluita, rientrava a pieno titolo nelle politiche economiche di ampio respiro che il princeps andava attuando. Lo stesso può dirsi a maggior ragione per il porto Giulio, creato praticamente dal nulla e che, come già riportato, Agrippa gli aveva persino intitolato perché ne rimanesse perenne memoria. Queste due imponenti iniziative rientravano pertanto, a dirla come il già citato verso di Virgilio, tra le «operumque laborem», vale a dire tra le opere esemplari che Augusto aveva compiuto per creare consenso. Il che fa sorgere il fondato sospetto che il proverbio facesse parte della minuziosa propaganda avviata da Mecenate, una specie di ministro della cultura e dell’informazione del governo augusteo, e che sia stato pertanto coniato ad arte per valorizzare i progetti portuali avviati in quel periodo.

In questa ottica anche la presenza nell’adagio del porto di Brindisi assume un significato diverso e ben più caratterizzante della sua del tutto ovvia notorietà.

Occorre infatti ricordare che il portus Brundusii rappresentava soprattutto una mirabile dimostrazione di opera compiuta dalla natura, come emerge ad esempio nei passi di Strabone17, quando lo qualifica porto spontaneo di grande pregio («εὐλίμενον»), oppure di Lucano18, quando lo descrive dotato di tutte quelle caratteristiche genuine che lo rendono approdo talmente sicuro che le imbarcazioni possono essere assicurate anche con una semplice tremula fune («ut tremulo starent contentae fune carinae»).

Nel proverbio il porto brindisino pare quindi piuttosto utilizzato come modello con cui confrontare i porti realizzati per mano dell’uomo.

A questo punto sembra evidente che, se nella forma il testo del proverbio stabiliva una semplice elencazione di porti importanti, nella sostanza intendeva far percepire che le attività promosse da Augusto sugli approdi portuali erano equiparabili alle migliori opere create dalla natura. In pratica, gli interventi compiuti per fare di Luna lo scalo commerciale che consentiva di sostituire nelle città al mattone il marmo e quelli eseguiti per realizzare dal nulla un bacino artificiale di sicuro ricovero, come avvenuto con il porto Giulio, erano paragonati all’approdo brindisino, ritenuto per l’appunto il portus per eccellenza.

Nella realtà, quindi, un riconoscimento di gran lunga superiore al banale accostamento alle «Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio» celebrato con convinta immaginazione dai cronisti brindisini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Tucidide (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 21, 1.

2 Erodoto era nato ad Alicarnasso ma, avendo partecipato alla fondazione della colonia panellenica di Thurii, ne acquisì la cittadinanza.

3 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

4 G. Uggeri, La terminologia portuale e la documentazione dell’itinerarium Antonini, in Studi Italiani di Filologia Classica, N.S. XL, 1-2, pp. 225-254, Felice Le Monnier, Firenze, 1968, p. 241.

5 G. Antonini, La Lucania, Forni Editore, Sala Bolognese, 1984, ristampa dell’edizione Tomberli, 1794, p. 188.

6 Galateo, De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae, 1558, p. 63.

7 G.M. moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi, manoscritto ms_D12, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 14v.

8 A. della monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, p. 30.

9 Svetonio (I secolo a.C.), Vita dei Cesari – Augusto, II 16, 1.

10 Tindilo: satira brindisina, Cesare Augusto imperatore, Brindisi, 2016.

11 Svetonio, cit., II 16, 2.

12 Virgilio (I secolo a.C.), Georgiche, II 154-163.

13 La Iapigia e varii opuscoli di Antonio de Ferrariis detto il Galateo, (collana diretta da Salvatore Grande), Tipografia Garibaldi, Lecce 1867, vol. I, p. I.

14 Ennio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Annali I, in persio (I secolo d.C.), Satire VI 9.

15 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, V 2, 5.

16 Svetonio, cit., II 28,5.

17 Strabone, cit., VI 3, 6.

18 Lucano (I secolo d.C.), Farsaglia, II 608-621.

Taranto, Falanto, la Pizia, e i pidocchi

di Armando Polito

Nella prima immagine la Mappa di Soleto (V secolo a. C.?1), in cui con l’ellisse tratteggiata in rosso ho evidenziato il nome della città: ΤΑΡΑΣ ( leggi Taras); nella seconda Falanto in una moneta tarantina del III secolo a. C; nella terza una moneta di Crotone, della fine del V secolo a. C., con al centro il tripode sul quale assisa la Pizia a Delfi pronunciava le profezie, mentre a sinistra Apollo armato di arco scaglia una freccia contro Pitone a destra; nell’ultima un pediculus humanus capitis (pidocchio umano del capo). La serie delle quattro immagini vuole essere la sintesi di quanto segue.

C’era una volta (a quantificarlo temporalmente bisogna risalire almeno all’VIII secolo a. C.) a Delfi una sacerdotessa di nome Pizia che nel santuario di Apollo svolgeva le funzioni di portavoce del Dio. Non era certo all’altezza delle moderne indovine che sono in grado di captare certi segnali, per esempio quelli che proverrebbero da tutte le carte, meno quelle igieniche, notoriamente  connesse con quella funzione fisiologica al cui espletamento le invio ogni volta che le vedo comparire in tv, insieme con chi dovrebbe intervenire per impedire il proliferare, da una parte, della furbizia, e dall’altra, della stupidità; alla captazione dei segnali segue la fase della loro interpretazione da ammannire allo speranzoso quanto stupido cliente. La Pizia, poveretta, fungeva solo da megafono per la voce del dio; spettava poi all’interprete diradare la nebbia che avvolgeva le profezie, espresse in versi di così difficile comprensione immediata che i poeti ermetici al confronto fanno tenerezza, e passibili di tante diverse interpretazioni che, in questo caso al contrario, le profezie impallidirebbero di vergogna di fronte ad un testo scritto dal legislatore dei nostri tempi.

Pare, comunque, che, tanto più una realtà è misteriosa, tanto più essa attrae; infatti il santuario di Delfi godeva di prestigio assoluto e da ogni parte del mondo allora conosciuto, proprio come oggi con gli studi (?) degli indovini, vi ricorreva il capo di stato come il semplice cittadino, il ricco e il povero (quest’ultimo l’ho citato perché anche lui in teoria aveva ed ha bisogno del conforto della religione, ma non sono sicuro  che potesse fruire dei suoi servigi, allora come ora, gratuitamente …).

C’era sempre in quel tempo a Sparta un uomo di nome Falanto costretto a pagare (allora era quasi la regola; potrebbe essere un’idea per i nostri giorni …) gli errori (o presunti tali …) del padre. Quest’ultimo, infatti, non aveva partecipato alla spedizione messenica e, perciò, venne dichiarato ilota (in parole povere schiavo) e suo figlio, Falanto appunto, subì il destino di tutti quelli nati da simili padri, cioè perse i pieni diritti di cittadinanza ed assunse la qualifica di partenio, che alla lettera significa figlio di vergine, una locuzione che di lì ad otto secoli avrebbe definito quello che io considero, uomo, il più grande rivoluzionario della storia della nostra specie, ma che allora per il povero Falanto e per quelli come lui era una sorta di eufemismo per figlio illegittimo, anzi politicamente non corretto ….

I parteni, però, non si rassegnarono a quella condanna e organizzarono un complotto contro l’assemblea del popolo, per così dire, normale. Purtroppo il tentativo fallì, furono messi sotto custodia ed il loro capo, Falanto, appunto, fu inviato a Delfi per consultare l’oracolo sulla fondazione di una nuova colonia, che, all’epoca era il modo meno cruento di liberarsi di chi dava fastidio e, per l’interessato, l’unico modo per avere la speranza di una vita dignitosa o, comunque, migliore. Insomma, dal momento che tra i parteni c’erano certamente persone molto intelligenti, essi anticipavano, ancora una volta, ma, come vedremo, in senso inverso, i nostri due fenomeni dell’emigrazione prima e della fuga dei cervelli dopo.

Falanto, dunque, è a Delfi e il responso della Pizia è, più o meno. il seguente: – Fonderai la nuova colonia quando vedrai la pioggia cadere dal cielo sereno -. Una volta tanto sembra che la Pizia sia stata chiara, tanto chiara che a Falanto non pare il caso di scomodare l’interprete, giacché è evidente che le sue parole somigliano alla figura retorica dell’ἀδὐνατον (=cosa impossibile), della quale hanno fatto man bassa i poeti d’amore di ogni epoca mettendo in campo improbabili (oggi non più tanto …) fenomeni in espressioni come l’acqua del mare si sarà prosciugata prima che scemi il mio amore per te, oppure vedrai gli asini volare prima che io mi allontani da te; oggi, invece, il politico direbbe rinuncerei prima al potere che a te e il cittadino, standardizzato da uno stato complice capace solo di vuoti proclami e non di fatti concreti (come, per esempio, l’eliminazione di fatture e scontrini teorici (perché emessi saltuariamente) con quella parallela   della moneta cartacea e l’introduzione di quella elettronica), rinuncerò a te solo contestualmente (notare il linguaggio, con tutto il rispetto, da commercialista) all’abbandono del mio status di evasore fiscale.

Falanto, insomma, che non è stupido, pensa che la Pizia lo abbia preso per il culo. Non può, d’altra parte, rinunziare al suo ruolo di capo e parte alla volta dell’Italia con gli altri parteni ed approda un po’ lontano, ma non tanto (vivo a Nardò), dalle nostre parti. Passa il tempo ma ogni volta che ingaggia uno scontro con le popolazioni locali le busca sonoramente. Sente vacillare il suo prestigio di capo e ben presto entra in profonda depressione. Fortunatamente ha una moglie di nome Etra (in greco significa, guarda caso, cielo sereno) che non lo abbandona a se stesso, pare per amore. Il povero Falanto, però, nelle condizioni in cui si trova, oppure per incomprensioni pregresse che avevano logorato il loro rapporto spingendolo a pensare che il nome della moglie fosse per lui una presa per il culo ben precedente a quella della profezia della Pizia, comincia a trascurarsi anche fisicamente, non si lava né taglia barba, baffi e capelli, non mangia più, si sta lasciando lentamente morire. Nei capelli i pidocchi hanno fissato, loro sì, una popolosissima colonia. Etra ogni tanto guarda sconsolata il làgunos (bottiglia) gigante di shampoo che aveva regalato al suo uomo quando questi sembrava più un atletico eroe che una larva imbozzolata. La sua composizione sarebbe stata poi scopiazzata dal produttore dello shampoo che a distanza di quasi due millenni sarebbe stato il preferito da Federica Pellegrini e che, magari, avrebbe pure contribuito a farle vincere qualche medaglia, visto che siamo in tema, pure olimpica. Una donna innamorata le escogita tutte pur di salvare e stimolare il suo uomo. Dopo aver invano tentato più volte di fargli trangugiare almeno un càntaros (tazza) di vino in sostituzione di quello che ormai è diventato per lui l’unico alimento quotidiano, cioè un chiùlix (bicchiere) di acqua attinta dall’idria (ampio vaso a tre manici usato per conservare l’acqua, ma anche per votare nelle assemblee; un segno premonitore della nostra condizione di quest’ultimo periodo? …), lo convince a posare il capo sulle sue tornite (quest’aggettivo consolatoriamente compenserà i problemi salariali di milioni di metalmeccanici …) ginocchia. Nessuna intenzione erotica, almeno in prima battuta. Infatti comincia a spulciare la testa di Falanto e, nel contempo, pensando forse che lui non si lascerà nemmeno sfiorare dal richiamo erotico delle sue tornite ginocchia, si abbandona ad un pianto dirotto: per ogni pidocchio catturato mezzo litro di lacrime. Dicono che il pianto è liberatorio, ma in questo caso lo fu prima per Falanto che per Etra, che avrà pure avuto delle ginocchia tornite ma soprattutto un apparato lacrimale di assoluto rispetto. L’eroe, infatti, comprende in un attimo che il cielo sereno e la pioggia cui alludeva l’oracolo erano, rispettivamente, il nome della moglie e le sue lacrime. Non sappiamo se per precauzione lasciò che la moglie finisse di spulciarlo e, quel che importava, continuasse a piangere. Sappiamo solo che Falanto, magari con ancora parecchi pidocchi tra i capelli, quella notte stessa conquistò Taranto.

E, concludendo senza malizia,

al fine di ristabilir giustizia,

dico che talora la sporcizia

tramutare puotesi in delizia,

conforme al responso della Pizia.

Si può ben dire, così, che Taranto deve moltissimo ai pidocchi e, se avessi sparato questo titolo, avrei dovuto sorbirmi gli strali di parecchi, non necessariamente tarantini. Sono consapevole di restare esposto, comunque ad attacchi di ogni tipo, ad accuse come la mistificazione storica e l’invenzione di favolette. Prima, però, di scatenare l’attacco, leggete quel che segue …

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3, 2, riporta copsì la testimonianza di Antioco di Siracusa (V secolo a. C.):

Περὶ δὲ τῆς κτίσεως Ἀντίοχος λέγων φησὶν ὅτι τοῦ Μεσσηνιακοῦ πολέμου γενηθέντος οἱ μὴ μετασχόντες Λακεδαιμονίων τῆς στρατείας ἐκρίθησαν δοῦλοι καὶ ὠνομάσθησαν Εἵλωτες, ὅσοις δὲ κατὰ τὴν στρατείαν παῖδες ἐγένοντο, Παρθενίας ἐκάλουν καὶ ἀτίμους ἔκριναν. Οἱ δ᾽ οὐκ ἀνασχόμενοι (πολλοὶ δ᾽ ἦσαν) ἐπεβούλευσαν τοῖς τοῦ δήμου. Αἰσθόμενοι δ᾽ ὑπέπεμψάν τινας, οἳ προσποιήσει φιλίας ἔμελλον ἐξαγγέλλειν τὸν τρόπον τῆς ἐπιβουλῆς. Τούτων δ᾽ ἦν καὶ Φάλανθος, ὅσπερ ἐδόκει προστάτης ὑπάρχειν αὐτῶν, οὐκ ἠρέσκετο δ᾽ ἁπλῶς τοῖς περὶ τῆς βουλῆς ὀνομασθεῖσι. Συνέκειτο μὲν δὴ τοῖς Ὑακινθίοις ἐν τῷ Ἀμυκλαίῳ συντελουμένου τοῦ ἀγῶνος, ἡνίκ᾽ ἂν τὴν κυνῆν περίθηται ὁ Φάλανθος, ποιεῖσθαι τὴν ἐπίθεσιν· γνώριμοι δ᾽ ἦσαν ἀπὸ τῆς κόμης οἱ τοῦ δήμου. Ἐξαγγειλάντων δὲ λάθρᾳ τὰ συγκείμενα τῶν περὶ Φάλανθον καὶ τοῦ ἀγῶνος ἐνεστῶτος, προελθὼν ὁ κῆρυξ εἶπε μὴ περιθέσθαι κυνῆν Φάλανθον. Οἱ δ᾽ αἰσθόμενοι ὡς μεμηνύκασι τὴν ἐπιβουλὴν οἱ μὲν διεδίδρασκον οἱ δὲ ἱκέτευον. Κελεύσαντες δ᾽ αὐτοὺς θαρρεῖν φυλακῇ παρέδοσαν, τὸν δὲ Φάλανθον ἔπεμψαν εἰς θεοῦ περὶ ἀποικίας·  ὁ δ᾽ ἔχρησε· Σατύριόν τοι δῶκα Τάραντά τε πίονα δῆμον οἰκῆσαι, καὶ πῆμα Ἰαπύγεσσι γενέσθαι.  Ἧκον οὖν σὺν Φαλάνθῳ οἱ Παρθενίαι, καὶ ἐδέξαντο αὐτοὺς οἵ τε βάρβαροι καὶ οἱ Κρῆτες οἱ προκατασχόντες τὸν τόπον. Τούτους δ᾽ εἶναί φασι τοὺς μετὰ Μίνω πλεύσαντας εἰς Σικελίαν, καὶ μετὰ τὴν ἐκείνου τελευτὴν τὴν ἐν Καμικοῖς παρὰ Κωκάλῳ συμβᾶσαν ἀπάραντας ἐκ Σικελίας κατὰ δὲ τὸν ἀνάπλουν δεῦρο παρωσθέντας, ὧν τινὰς ὕστερον πεζῇ περιελθόντας τὸν Ἀδρίαν μέχρι Μακεδονίας Βοττιαίους προσαγορευθῆναι. Ἰάπυγας δὲ λεχθῆναι πάντας φασὶ μέχρι τῆς Δαυνίας ἀπὸ  Ἰάπυγος, ὃν ἐκ Κρήσσης γυναικὸς Δαιδάλῳ γενέσθαι φασὶ καὶ ἡγήσασθαι τῶν Κρητῶν.Τάραντα δ᾽ ὠνόμασαν ἀπὸ ἥρωός τινος τὴν πόλιν.

(Parlando della fondazione [di Taranto] Antioco dice che, finita la guerra messenica, quelli degli Spartani che non avevano partecipato alla spedizione vennero dichiarati schiavi e furono chiamati  Iloti. Ai figli nati da loro durante la spedizione fu dato il nome di Parteni e li dichiararono privi dei diritti civili. Essi, però, erano numerosi,  non sopportandolo, complottarono contro i rappresentanti del popolo.  Questi essendosene accorti mandarono come spie alcuni che con la finzione di amicizia intendevano  carpire notizie sulle modalità del complotto. Tra questi c’era anche Falanto che sembrava essere il loro capo ma non era gradito del tutti a tutti quelli nominati circa la congiura. Si escogitò che mentre si celebravano i giochi per la festa di Giacinto nel tempio di Amicle non appena Falanto si fosse messo in testa il cappello si sarebbe scatenato l’assalto:  quelli del popolo infatti erano riconoscibili dalla capigliatura. Essendo stato quest’ordine rivelato di nascosto dai compagni di Falanto, mentre si celebravano i giochi, un araldo fattosi avanti disse che Falanto non doveva mettersi in testa il cappello.  Accortisi che la congiura era stata scoperta, alcuni fuggivano,  altri  chiedevano pietà. Avendo ordinato di farsi coraggio li misero sotto custodia e mandarono Falanto al tempio del Dio per consultarlo sulla colonia. Il dio profetizzò:  – Ti dono Satyrion e di abitare il ricco paese di Taranto  e di diventare la rovina per gli Iapigi -. I Parteni dunque andarono con Falanto e li accolsero i barbari ed i Cretesi che avevano occupato prima il luogo. Dicono che costoro erano quelli che avevano navigato con Minosse verso la Sicilia e che dopo la sua morte a Camico presso Cocalo se n’erano andati dalla Sicilia e nel viaggio di ritorno erano stati sbattuti qui: alcuni di loro poi dopo aver fatto a piedi avevano fatto il giro dell’Adriatico fino in Macedonia erano stati chiamati Bottiei. Dicono che tutti quelli fino alla Daunia sono chiamati Iapigi da Iapige che Dedalo aveva avuto da una donna cretese e che aveva guidato i Cretesi. Chiamarono la città Yatanto dal nome di un eroe.  

Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 10, 6-8: Τάραντα δὲ ἀπῴκισαν μὲν Λακεδαιμόνιοι, οἰκιστὴς δὲ ἐγένετο Σπαρτιάτης Φάλανθος. Στελλομένῳ δὲ ἐς ἀποικίαν τῷ Φαλάνθῳ λόγιον ἦλθεν ἐκ Δελφῶν· ὑετοῦ αὐτὸν αἰσθόμενον ὑπὸ αἴθρᾳ, τηνικαῦτα καὶ χώραν κτήσεσθαι καὶ πόλιν. Τὸ μὲν δὴ παραυτίκα οὔτε ἰδίᾳ τὸ μάντευμα ἐπισκεψάμενος οὔτε πρὸς τῶν ἐξηγητῶν τινα ἀνακοινώσας κατέσχε ταῖς ναυσὶν ἐς Ἰταλίαν· ὡς δέ οἱ νικῶντι τοὺς βαρβάρους οὐκ ἐγίνετο οὔτε τινὰ ἑλεῖν τῶν πόλεων οὔτε ἐπικρατῆσαι χώρας, ἐς ἀνάμνησιν ἀφικνεῖτο τοῦ χρησμοῦ, καὶ ἀδύνατα ἐνόμιζέν οἱ τὸν θεὸν χρῆσαι· μὴ γὰρ ἄν ποτε ἐν καθαρῷ καὶ αἰθρίῳ τῷ ἀέρι ὑσθῆναι. Καὶ αὐτὸν ἡ γυνὴ ἀθύμως ἔχοντα —ἠκολουθήκει γὰρ οἴκοθεν—τά τε ἄλλα ἐφιλοφρονεῖτο καὶ ἐς τὰ γόνατα ἐσθεμένη τὰ αὑτῆς τοῦ ἀνδρὸς τὴν κεφαλὴν ἐξέλεγε τοὺς φθεῖρας· καί πως ὑπὸ εὐνοίας δακρῦσαι παρίσταται τῇ γυναικὶ ὁρώσῃ τοῦ ἀνδρὸς ἐς οὐδὲν προχωροῦντα τὰ πράγματα. Προέχει δὲ ἀφειδέστερον τῶν δακρύων καὶ—ἔβρεχε γὰρ τοῦ Φαλάνθου τὴν κεφαλήν—συνίησί τε τῆς μαντείας—ὄνομα γὰρ δὴ ἦν Αἴθρα τῇ γυναικί—καὶ οὕτω τῇ ἐπιούσῃ νυκτὶ Τάραντα τῶν βαρβάρων εἷλε μεγίστην καὶ εὐδαιμονεστάτην τῶν ἐπὶ θαλάσσῃ πόλεων. Τάραντα δὲ τὸν ἥρω Ποσειδῶνός φασι καὶ ἐπιχωρίας νύμφης παῖδα εἶναι, ἀπὸ δὲ τοῦ ἥρωος τεθῆναι τὰ ὀνόματα τῇ πόλει τε καὶ τῷ ποταμῷ· καλεῖται γὰρ δὴ Τάρας κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ πόλει καὶ ὁ ποταμός (Gli Spartani fondarono Taranto, l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava a fondare una colonia giunse da Delfi il responso che avrebbe conquistato un territorio e una città quando avesse visto cadere la pioggia dal cielo sereno. Egli, non avendo preso in considerazione il responso né avendone reso partecipe qualcuno degli interpreti, approdò in Italia; poiché non gli capitava di vincere i barbari né di conquistare città alcuna né d’impossessarsi di un territorio, si ricordò del responso e credette che il dio avesse profetizzato l’impossibil e che non poteva piovere col cielo puro e limpido. La moglie, infatti l’aveva seguito dalla patria, confortava lui avvilito e tra l’altro dopo aver fatto appoggiare la testa del marito sulle sue ginocchia, cercava i pidocchi. In qualche modo per amore accadde alla donna di piangere vedendo che lo stato del marito non migliorava per nulla. Prosegue senza risparmio di lacrime – e infatti ne bagnava la testa di Falanto – e Falanto  comprende la profezia – sua moglie, infatti si chiamava Etra – e così sopraggiunta la notte prese Taranto, la più grande e prospera delle città dei barbari in riva al mare. Dicono che l’eroe Taras sia figlio di Poseidone e di una ninfa del luogo, che dall’eroe venne il nome alla città e al fiume: infatti anche il fiume si chiama come la città).

Ora che l’asticella della mia credibilità si è innalzata, siccome mi piace non prendere troppo sul serio qualcosa o qualcuno (a partire dalle mie cose e da me stesso) azzardo l’ipotesi che lo scorpione del quale ho detto ampiamente in  un precedente post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/) non sia altro, fatta la tara dei gigli, che la trasformazione iconografica nobilitata di uno dei pidocchi di Falanto. E per non attirarmi gli strali degli animalisti, ma soprattutto perché la sua Notte è passata da tempo, lascio in pace la simpatica tarantola …

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1 Il punto interrogativo è dovuto al fatto che permangono dubbi sull’autenticità del graffito, anche se il supporto (un frammento di ceramica a vernice nera) è in linea con la cronologia indicata.

Lecce: il porto di S. Cataldo era così al tempo di Adriano?

di Armando Polito

Odio la premessa perché il più delle volte foriera di prolissità, ma questa volta è doveroso farla, soprattutto per ringraziare Fernando La Greca, ricercatore di Storia Romana presso l’Università di Salerno, che, con generosità insolita per il mondo accademico (quello italiano, lo straniero non so …) mi ha fatto conoscere l’immagine di testa, che è un dettaglio della copia settecentesca, inedita, di una mappa originale aragonese disegnata alla fine del XV secolo; tale copia, insieme con un’altra di altra mappa aragonese, è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia ed è stata oggetto di studio approfondito, per il distretto geografico che rientrava nell’interesse degli autori, da parte dello stesso Fernando La Greca e di Vladimiro Valerio in Paesaggio antico e medioevale nelle mappe aragonesi di Giovanni Pontano: le terre del Principato Citra, Edizioni del Centro di promozione culturale per il Cilento, Acciaroli, 2008.

Le mie competenze specifiche non mi consentono di avventurarmi in ricostruzioni storico-archeologiche che riescano a diradare la nebbia condensata nel punto interrogativo che chiude il titolo. Per questo mi limiterò alla semplice descrizione del dettaglio e dei toponimi che lo accompagnano, senza per questo rinunciare al vizio di qualche riflessione, per quanto essa possa valere.

Guardando verso il mare, l’imboccatura del porto vero e proprio  (Porto S.to Cataldo) mostra sulla punta della riva sinistra una struttura fortificata piuttosto complessa, una sorta di castello; sul versante opposto una torre. A non molta distanza dal presunto castello e dalla torre si vedono, rispettivamente, case sparse e un vero e proprio nucleo abitato (per via della costruzione che, con una croce in cima, dunque una chiesa, si eleva sulle altre). L’insenatura del porto continua con una specie di canalone che porta ad un bacino perfettamente circolare; l’uno e l’altro hanno i bordi troppo netti per essere strutture naturali.

Accanto al bacino si legge (vera e propria didascalia) antico porto di Lycca deto la Rotunda nunc palus e poco più sopra S.o Nicola dela Paluda, a conferma, ove ce ne fosse bisogno, insieme con il precedente nunc palus (ora palude) e il S.to Marco della Padula che si legge un po’ più sopra (qui non visibile), della natura della zona. Sorprende il fatto che anche accanto a questo toponimo, come nel precedente, si vede un nucleo abitato poco compatibile con una zona che si presume malarica.

La voce antico che accompagna porto  farebbe pensare ad un dettaglio iconografico da carta storica1 ed evocherebbe colui che ne avrebbe ordinato la costruzione, cioè l’imperatore Adriano, secondo l’unica fonte, risalente al II secolo, a nostra disposizione, la Ἑλλάδος περιήγησις (VI, 19, 9) di Pausania, al quale lascio la parola:  Όπόσοι περὶ Ἰταλίας καὶ πόλεων ἐπολυπραγμόνησαν τῶν ἐν αὐτῇ, Λουπίας φασὶ κειμένην Βρεντεσίου τε μεταξὺ καὶ Ὑδροῦντος μεταβεβληκέναι τὸ ὄνομα, Σύβαριν οὖσαν τὸ ἀρχαῖον· ὁ δὲ ὅρμος ταῖς ναυσὶ χειροποίητος καὶ Ἀδριανοῦ βασιλέως ἐστὶν ἔργον  (Tutti coloro che hanno avuto interesse ad investigare sull’Italia e sulle città che in essa vi sono dicono che Lecce sita tra Brindisi ed Otranto ha cambiato il nome, poiché anticamente si chiamava Sibari; il porto è artificiale ed opera dell’imperatore Adriano).

A questo punto una nota di carattere filologico è indispensabile. Il porto della mia traduzione corrisponde all’originale ὅρμος. Per quanto riguarda la sua traduzione i comuni vocabolari recano questi significati: collanaportoradaricoverorifugio. Il greco con il significato di porto ha anche λιμήν (leggi limèn). Quest’ultimo è connesso con λίμνη (leggi limne)=acqua stagnante, palude, laguna, mentre  ὅρμος  probabilmente si ricollega ad εἴρω (leggi èiro)=incatenare, disporre in serie. Direi che da un punto di vista etimologico ὅρμος sembrerebbe “nativamente” più adatto di λιμήν ad indicare una struttura artificiale. Il caso e le sue suggestive coincidenze sono perennemente in agguato, soprattutto quando si cerca di conoscere un frammento del nostro  passato avendo a disposizione poche fonti inequivocabili, nel nostro caso addirittura una sola.

Risulta infatti controversa l’identificazione con S. Cataldo, come in passato3 avvenne, del luogo in cui nel 44 a. C. sbarcò in Salento Ottaviano proveniente da Apollonia, evento ricordato da un frammento  della vita che di lui scrisse Nicola Damasceno nella sua storia universale (all’epoca dello sbarco di Ottaviano aveva 20 anni): … διαβαλῶν τὸν Ίόνιον πόντον ἴσχει τῆς Καλαβρίας τὴν ἔγγιστα ἄκραν, ἔνθα  οὐδέν πω σαφὲς  διήγγελτο τοῖς ἐνοικοῦσι τοῦ ἐν  Ῥώμῃ νεωτερισμοῦ. Ἐκβάς οὖν ταύτῃ πεζὸς ὥδευεν ἐπὶ Λουπίας (… [Ottaviano] dopo aver attraversato il mare Ionio raggiunge il promontorio più vicino della Calabria, dove nulla di attendibile delle novità avutesi a Roma era stato annunziato agli abitanti. Sbarcato dunque lì, proseguì a piedi il viaggio verso Lecce …).

Il promontorio più vicino della Calabria, partendo da Apollonia e seguendo la rotta più breve, era e rimane san Cataldo e non Brindisi, porto certamente più degno di un futuro imperatore. È pur vero che bisognava fare i conti con i venti e con le correnti, ma perché il buon Nicola ha usato promontorio più vicino della Calabria e non Brindisi?; tanto più che poco dopo aggiunge chiaramente: Καὶ μετὰ ταῦτα ἀπῆρεν εἰς Βρεντέσιον … (E dopo ciò partì per Brindisi …).

Che l’approdo non avvenne a Brindisi lo dice chiaramente Appiano di Alessandria (II secolo), Ῥωμαικά, III, 2, 4: Ὀκτάουιος … διέπλει τὸν Ίόνιον, οὐκ εἰς Βρεντέσιον … ἀλλ’ἐς ἐτέραν οὐ μακρὰν ἀπὸ τοῦ Βρεντεσίου πόλιν, ἐκτὸς οὖσαν ὁδοῦ, ᾗ ὅνομα Λουπίαι (Ottaviano attraversò lo Ionio non alla volta di Brindisi ma di un’altra città non distante da Brindisi, che però era fuori dalla rotta diritta, chiamata Lecce).

A questo punto, pensando a Pausania, bisognerebbe supporre che al tempo di Ottaviano esistesse già a S. Cataldo un porto naturale (non mancano, però, a breve distanza altre insenature che avrebbero consentito un facile approdo) e che l’intervento di Adriano sia consistito nel suo ammodernamento? Appare, comunque, strano che l’autore greco non ricordi il legame del porto  con un personaggio così importante e questo avvalorerebbe l’ipotesi dell’insenatura alternativa.

Ma, per chiudere, tornando al suo ὅρμος, sarà un caso o suggestione se la rappresentazione aragonese evoca l’immagine di una collana?

Le carte del XVII secolo (di seguito i dettagli da Janssonius, Bulifon, Hondius e Magini) non mostrano alcun collegamento con il mare.

 

Esso, invece, nella carta del De Rossi (1714) appare come elemento di una triade in cui la forma sinuosa di ogni canalone inequivocabilmente attesta la sua formazione naturale e nella sua molteplicità l’impaludamento della zona e quest’ultimo potrebbe essere stata la causa della scomparsa di quello che per il suo andamento rettilineo appariva come artificiale.

Solo le risultanze di indagini archeologiche estese anche all’immediato entroterra, forse, sarebbero in grado di sciogliere questa domanda e quella che costituisce il titolo dello stesso post. Ma l’antropizzazione della zona2 e le ristrettezze di investimenti già insufficienti a proteggere i resti a mare rendono tutto questo dolorosamente chimerico.

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

 

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1 Se è così, se la carta è fedele all’originale e il dettaglio in oggetto non è un aggiornamento, esso non avrebbe nulla a che fare, per evidenti motivi cronologici (antico risulterebbe decisamente sovradimensionato), con i reali o presunti interventi edilizi di Maria d’Enghien, cui si fa cenno in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/ .

2  Basta dare un rapido sguardo alla seconda delle foto che corredano il bel post di Alessandro Romano in http://www.salentoacolory.it/molo-adriano-san-cataldo/.

3 A cominciare da Thomas Blackwell in Memoirs of the Court of Augustus, London, t. I, 1753.

Taranto in una tavola del 1545

di Armando Polito

Probabilmente è la più antica veduta a stampa di Taranto. La tavola è a corredo di In descriptionem  Graeciae Sophiani praefatio, opera  di Nicola Gerbelio uscita per i tipi di Oporino a Basilea nel 1545 (la data si ricava dal colophon che di seguito riproduco dopo il frontespizio).

 

Nicola Gerbelio (Nicolaus Gerbelius il nome latinizzato), umanista tedesco, fece parte di un circuito di famosi uomini di cultura, fra cui Martin Lutero, del quale fu amico, il collaboratore di Lutero  Filipe Melâncton, nonché  Erasmo da Rotterdam, con cui fu in corrispondenza. Fu curatore di parecchie edizioni  di autori antichi latini e greci. Fa eccezione quella da cui è tratta la tavola di Taranto, perché quella che il Gerbelio chiama prefazione è in realtà un’analisi, quasi un commento di Totius Graecia descriptio, una mappa disegnata  da Nicola Sofiano, umanista, grammatico e cartografo greco poco più giovane di lui, e pubblicata più volte a partire dal 1540 (di seguito nell’edizione del 1552 da http://www.europeana.eu/portal/it/record/9200365/BibliographicResource_2000081566928.html?q=totius+graeciae+descriptio).

23bis

 

È tempo, però, di tornare alla nostra mappa di Taranto, giusto per dire che in documenti del genere è chimerico pensare ad una rappresentazione fedele dei luoghi così come all’epoca apparivano, per cui, ai miei occhi la tavola appare un ibrido immaginario tra una città magno-greca ed una cinquecentesca.

Per chi volesse affermare il contrario, faccio seguire, al fine di agevolare l’eventuale analisi comparativa, le due mappe della città inserite tra le pagine 160 e 181 del secondo volume de Il regno di Napoli in prospettiva, opera postuma di Giovanni Battista Pacichelli (1634-1695), Perrino, Napoli, 1703. Non credo che in poco più di un secolo (in passato lo stravolgimento dei luoghi, fatta eccezione per qualche invasione vandalica, non aveva il ritmo forsennato assunto oggi) i cambiamenti siano stati così imponenti. Ad ogni buon conto: ogni pertinente riflessione sarà ben accetta.


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1 Sulla presunta Rudie tarantina vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/08/la-toponomastica-della-provincia-di-taranto-in-una-carta-del-1589/

2 In Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, III, 1, 64 è registrata Βαῦστα (leggi Bàusta) che il Cluverio (1580-1622) lesse Βαοῦτα  (leggi Baùta), da cui *Bavota (forse proprio per suggestione del Bavota che compare nella nostra carta), ripreso dal Rohlfs per il quale Parabita potrebbe derivare da πέρα Βάβοτα (leggi pera Bàbota)=oltre Bavota. Tale identificazione, però contrasta con le coordinate geografiche che Tolomeo dà per Βαῦστα, che oggi si tende ad identificare con Vaste.

Annali di vita salentina: gli sposi di Monteruga

monteruga 

di Rocco Boccadamo

Fino agli anni quaranta/cinquanta dello scorso secolo, la mappa della Penisola Salentina evidenziava nitidamente, sia sotto lo stretto profilo fisico e/o naturale, sia secondo il sentire e la conoscenza della gente, un particolare tratto di territorio, incuneato, quasi a lambirne i confini ufficiali, fra le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tale fazzoletto di Puglia era denominato – lo è ancora, per le connotazioni e gli sviluppi residuali – comprensorio dell’Arneo, un vasto agro sostanzialmente incolto, se non selvaggio, ricoperto pressoché interamente di una bassa e fitta macchia, latifondo posto in capo, dal punto di vista della titolarità, a uno sparuto numero di famiglie abbienti, principalmente ai Tamborino di Maglie.

A detta plaga, nelle condizioni d’abbandono in cui versava, si attribuiva, in giro, soprattutto cattiva fama, correlata al suo utilizzo, sovente, come nascondiglio o rifugio, quasi impenetrabili, da parte di figure (sarebbe, forse, più giusta l’accezione figuri) irrispettose delle leggi e delle ordinarie regole di civile comportamento e buona condotta.

Conseguente eco di ciò, in una sorta di tamtam surreale, la definizione di “briganti”, accennata a bassa voce, se si vuole approssimativa e, però, indicativa, veniva a correre, di tanto in tanto, con conseguenti singulti di timore e preoccupazione, sulla bocca e nella mente delle persone, diciamo così, corrette o perbene.

Altro riflesso, ad esempio, i trasportatori che, per mezzo di traini, dalle alte ruote a raggi, lunghe stanghe anteriori e sospinti da quadrupedi, recavano merci, prodotti e beni vari da Lecce a Taranto (allora gli autocarri erano rarissimi), nell’intento di evitare o ridurre i rischi di brutti incontri con i personaggi di cui sopra, evitavano di percorrere il tratto stradale Nardò – Avetrana, in corrispondenza della boscaglia più folta, durante le ore notturne. Per lo meno, se costretti a coprirlo al buio, non procedevano da soli, bensì in carovana.

monteruga1

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Nel periodo fascista, il Governo decise di porre in atto, un po’ in tutto il Paese, una serie di operazioni di bonifica agraria; per il territorio su descritto, affidò il compito alla S.E.B.I. Società Elettrica per Bonifiche e Irrigazione.

Quest’ultima, rilevò una parte dell’Arneo dagli storici proprietari privati e aprì un pubblico bando rivolto specialmente all’indirizzo di contadini e braccianti del Basso Salento, proponendo ai medesimi di spostarsi dai paesi d’origine, dai miseri poderi singolarmente posseduti, dalle precarie giornate lavorative sotto padrone (quando c’erano), verso, precisamente, le terre da bonificarsi, poste, alla fine, appena un po’ più a Nord, nell’Alto Salento.

All’inizio, gli aderenti avrebbero contribuito direttamente, dietro regolare retribuzione, con l’ausilio di attrezzature e mezzi meccanici procurati dalla S.E.B.I., alle opere di sbancamento per la trasformazione della macchia in superfici coltivabili, dopo di che, a ciascuno, sarebbe stato assegnato un appezzamento (due o tre ettari, secondo la composizione del nucleo famigliare), dove coltivare specialmente tabacco, salvo piccole aree da impiegarsi per differenti varie colture destinate alle occorrenze domestiche.

Nel frattempo, con oneri parimenti a suo carico, la S.E.B.I. metteva a dimora molte migliaia di ulivi e vaste estensioni di viti, patrimoni che, poi, sarebbero passati in gestione, non ai coloni, bensì ai massari, cioè i responsabili delle preesistenti masserie acquisite dai privati e, in certo qual modo, fiduciari della società neo proprietaria.

In parallelo alla trasformazione dei terreni, si realizzavano stalle, silos, un frantoio, serbatoi per l’acqua potabile, uno stabilimento vinicolo e una grande manifattura, su tre piani, per la lavorazione del tabacco.

Veniva in tal modo a sorgere o nascere l’insediamento o borgo o piccolo paese di Monteruga, richiamato nel titolo di queste note.

Dopo essere stata dotata, oltre che delle strutture operative prima menzionate, anche di una trentina di abitazioni per i coloni arrivati da fuori e provvisoriamente sistematisi nelle vecchie masserie (senza contare quella, con qualche confort aggiuntivo, a uso del fattore e della scuola), Monteruga arrivava a rappresentare una realtà funzionale, residenziale e di vita laboriosa, umile e insieme civile. Vi risiedevano, fisse, circa duecentocinquanta/trecento persone, entità che poteva lievitare nei momenti di concentrazione dei raccolti e/o delle varie attività lavorative.

Le case erano composte di due stanze, con servizio igienico e giardinetto sul retro, erano servite da impianto elettrico e si rivelavano, con certezza, maggiormente vivibili rispetto all’alloggio, sotto forma di angusto monolocale, a disposizione di ogni singolo colono nelle masserie.

Nella fase finale del cantiere di edificazione, nel borgo sarebbe sorta anche una chiesetta, dedicata a S. Antonio Abate, che c’è ancora e, anzi, rappresenta la struttura conservatasi meglio.

monteruga2

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Volendo tracciare una carta geografica più ristretta e determinata, se l’Arneo si poneva, nell’insieme, alla stregua di fulcro, ideale e virtuale abbraccio, fra tre provincie, si può osservare come anche Monteruga detenesse, e annoveri pure oggi, una polivalenza di riferimento.

Sul piano della viabilità stradale, essa si affaccia, difatti, sul rettilineo provinciale che da S. Pancrazio Salentino (Brindisi) corre in direzione di Torre Lapillo di Porto Cesareo (Lecce), esattamente all’altezza del Km.7, punto mediano dell’arteria.

Dal lato meramente amministrativo, il suo territorio ricade, invece, nel feudo del Comune di Veglie (Lecce), anche se tale centro abitato si trova più distante, cioè a quattordici chilometri.

Tuttavia, per estrema precisione, va annotato che una piccola porzione dell’agro dove insiste il borgo di Monteruga, di là da un certo portone o arco del perimetro edificato, riguarda il territorio di Torre Lapillo, frazione di Porto Cesareo, quest’ultima località, da alcuni decenni Comune autonomo, prima, a sua volta, frazione di Nardò (Lecce).

A comprova del richiamato spicchio di territorio con differente competenza o appartenenza, è sufficiente rilevare che, a brevissima distanza, poche centinaia di metri, da Monteruga, è situato il grande circuito o anello o pista per prove e collaudi di autovetture, di pertinenza della casa automobilista tedesca Volkswagen, noto come Pista di Nardò.

Infine, sul piano religioso, Monteruga faceva capo alla parrocchia, incardinata nell’arcidiocesi di Brindisi – Ostuni, di Guagnano (Lecce), località distante, all’incirca, dieci chilometri.

Non suonino fini a se stessi e rasentanti la pignoleria, gli elementi di dettaglio anzi elencati, giacché, unicamente alla luce di determinati particolari, è dato di conferire ancoraggio e spiegazione logica a talune vicende, soprattutto a un episodio, vissute, in decenni ormai trascorsi ma non lontanissimi, dalla comunità già stanziale di Monteruga e di cui si farà rievocazione più avanti.

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Nata all’insegna, con i buoni auspici e sotto l’effetto di un poderoso e, perché no, benemerito stimolo impresso dalle autorità governative, nella pur delicata parentesi di transizione dello Stato dal regime monarchico a quello repubblicano, in altre parole fra la fase conclusiva dell’ultima guerra e il primo lustro immediatamente successivo, la realtà di Monteruga avrebbe dovuto recare tutti i presupposti per una lunga, interessante e proficua vita.

Si poteva, addirittura, intravvedere un suo positivo influsso sulle comunità tradizionali limitrofe, specie quelle di dimensioni limitate, che incedevano, indubbiamente, su binari di sviluppo sociale a scartamento ridotto, con traversine di povertà, indigenza e arretratezza più evidenti e accentuate.

Invece, non è dato di sapere come, forse per un’imperscrutabile e misteriosa nemesi storica, forse semplicemente sulla scia dei corsi e ricorsi delle cose, nonostante l’apparente ordinata gestione e amministrazione complessiva, la giovinezza del sito, intesa come buona salute, andò avanti a malapena per un quarto di secolo, un trentennio a voler abbondare.

Epilogo, fra il 1970 e il 1980, in concomitanza con l’abbandono, da parte della mano pubblica, del complesso, già fatto oggetto d’ingenti investimenti, e il ritorno del bene in testa a privati, purtroppo senza, almeno sinora, nessuna ipotesi o prospettiva concreta di rilancio di Monteruga e di una diversa destinazione d’uso, l’insediamento finì con lo svuotarsi del tutto.

E, da un pezzo, sopravvivono esclusivamente le tracce dei suoi edifici, manufatti, abitazioni, esercizi lavorativi, pochi gli immobili ancora integri, in prevalenza, invece, cadenti e/o diroccati e saccheggiati da mani incivili quando non vandaliche.

Per la precisione, un’idea di accettabile resistenza e mantenimento si riscontra unicamente nelle strutture del grande magazzino per la lavorazione del tabacco e della chiesetta.

Risultato, in sintesi d’immagine, un paese fantasma.

Si ricava la sensazione che nessuno abbia il desiderio o la volontà, non dico d’interessarsi, ma neppure di accostarsi a ciò che in quella plaga c’è stato e di cui, comunque, rimangono chiari segni e testimonianze materiali e tangibili ancora fresche.

Insomma, solo silenzio assoluto, in ogni senso, e abbandono.

Anche attraverso i moderni mezzi di comunicazione e d’informazione, stampa e web, sono rarissime le occasioni in cui si parla di Monteruga.

Del resto, con la privatizzazione, è venuta a mancare la vicinanza delle amministrazioni locali contermini, in particolare del comune di Veglie competente per feudo; infine, partiti i fedeli, è cessata anche la presenza da parte della Chiesa.

Pochi e occasionali riferimenti si riscontrano in internet sotto la voce “Monteruga”, ove si eccettuino alcuni recenti saggi e/o articoli e due libri, uno a firma di Michele Mainardi e l’altro pubblicato da Adriana Diso.

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Si esaurisce qui la trattazione espositiva intorno a Monteruga, dalla nascita, alla sua purtroppo breve esistenza attiva e alla fine.

E, però, intende andare avanti l’applicazione analitica dello scrivente, da osservatore e narrastorie, con l’attenzione e la suggestione interiore spostate e orientate verso una serie di figure fisiche, esattamente due nuclei famigliari fra loto molto vicini, marittimesi d’origine, perciò compaesani, che, a suo tempo, hanno a lungo vissuto a Monteruga, ivi attraversando, da protagonisti di primo piano o testimoni prossimi e coinvolti, un’intensa serie di avvenimenti ed eventi.

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Nella natia Marittima, lo scrivente, classe 1941, iniziò piccolissimo, appena dopo l’ascolto degli iniziali accenni/riferimenti a tata (papà), mamma, nonni, a sentir parlare, talvolta, di trappiti (frantoi oleari), parmenti (stabilimenti vinicoli), tabacco (coltivazione delle relative piante a foglie verdi) e fieu (accezione, la più strana di tutte e, per ciò, a lungo rimasta per lui misteriosa e senza significato).

Si trattava di voci o echi, con associate immagini di gruppi di compaesani, anche cospicui, che lasciavano il luogo d’origine, in pratica emigravano, spostandosi temporaneamente in aree distanti (Brindisino, Tarantino, Basilicata). A ciò indotti, dal bisogno di accedere a opportunità lavorative meno precarie, con i cui proventi far fronte alle ordinarie necessità famigliari e, possibilmente, mettere da parte qualche risparmio che sarebbe stato poi utilizzato per preparare il corredo (dota) per le figlie femmine e costruire una nuova casa (frabbicu) a beneficio dei discendenti maschi che dovevano sposarsi.

Già avanti rispetto a detta, precocissima esperienza del narratore, nell’ambito della minuscola comunità marittimese, esistevano due determinati nuclei o focolari, che, di qui in poi, concorrono indicativamente ad animare le presenti note.

Il primo, dal cognome del capo famiglia A., nella sua massima composizione, sarebbe giunto ad annoverare otto membri viventi (più due nati morti o deceduti subito): Costantino e Ttetta (Maria Concetta) i genitori, Adele, Floriana, Clementina (detta Tina), Elvira, Settimia e Maria (quest’ultima, venuta alla luce proprio a Monteruga), le figlie, ben sei.

Due particolari sui nomi di battesimo, nello stretto rispetto delle usanze e tradizioni dei tempi passati: Floriana, a voler perpetuare l’appellativo del nonno paterno, Settimia, invece, a rimarcare che era, esattamente, la settima creatura venuta al mondo fra quelle mura domestiche.

Il secondo nucleo, dal cognome del capo famiglia P., comprendeva, da parte sua, i genitori Cosimo e Isabella e cinque figli: Attilio, Rita, Luigi (Gino), Emilio e Maria.

La famiglia A., volle porsi sull’esempio di due/tre altri gruppi di concittadini che già avevano preso l’iniziativa di lasciare Marittima e andare a vivere in masseria (fra S. Pancrazio Salentino, Veglie e Torre Lapillo).

Cosicché, attirata dalla prospettiva di attività lavorative sicure e continue (quanto all’uomo, nelle operazioni di bonifica e, una volta, le medesime, esauritesi, nelle coltivazioni agricole dirette, in primis il tabacco; circa le donne, in numero progressivamente crescente man mano che le figliole si facevano più grandi, dall’opportunità, non meno importante e redditizia, dell’impiego per tre/quattro mesi all’anno nella manifattura tabacco), fu la prima a partire, si era ancora in guerra, nel 1943, sistemandosi inizialmente nella masseria “Ciurli” e, in seguito, nelle nuove e più confortevoli abitazioni del borgo vero e proprio di Monteruga.

Analogo passo, a distanza di qualche anno, dopo un’esperienza di “prova” maturata dal giovane Gino, chiamato a lavorare da una compaesana, già loro vicina di casa, che dimorava da qualche tempo in una masseria, compì pure la famiglia P.

Nonostante l’impegno per l’adattamento nella nuova realtà, le prove della fatica e anche alcuni tristi eventi che sopravvennero colpendoli direttamente o indirettamente, non ebbero mai a pentirsi della scelta, i due gruppi di marittimesi, anzi erano contenti, si sentivano più liberi e aperti, in confronto ai ristretti limiti delle relazioni sociali e interpersonali nel paesello natio.

Per gli adulti c’erano le partite a carte sotto i portici coperti o nell’osteria – bottega di mescita del vino (puteca); riguardo specialmente ai giovani, in masseria, e ancor meglio a Monteruga, era loro dato agio di avvertire più ampi orizzonti, di crescere e di arricchirsi dentro, attraverso i contatti con i colleghi/amici emigrati, originari di altre diverse piccole località del Basso Salento (Diso, Vitigliano, Botrugno, S. Cassiano, Scorrano, Galatina).

Oltre al lavoro, anche duro, vi erano spazi per frequentazioni, svaghi, amicizie, sorrisi, affetti e amori; saltuariamente, balli in famiglia sulle note del grammofono, oppure, allargati, all’aperto, seguendo i ritmi dal vivo di complessi musicali o orchestrine che qualcuno dei residenti, con conoscenze nel settore, riusciva a portare a Monteruga.

In un’occasione, nel borgo, arrivò e si esibì addirittura il rinomato Gran complesso bandistico “Maestro Carlo Vitali” di Bari.

Fin qui, un quadretto in linee generali, ma limitato a taluni, ancorché tangibili, aspetti.

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Nei giorni scorsi, ho voluto incontrare quattro degli attori protagonisti dell’epopea, a voler dire esperienza concreta e reale, di Monteruga, viventi, attivi e lucidi: Floriana ed Elvira A., insieme con i rispettivi mariti, Gino ed Emilio P. (innamoramento, fidanzamento e, in un caso, anche celebrazione del matrimonio, avvenuti proprio nel minuscolo borgo).

A proposito delle coppie come sopra formatesi, Emilio ha tenuto a rilevare che, pur essendo più giovane, è stato lui, per primo, a mettersi con Elvira e, solamente dopo, il fratello Gino, ad allacciare rapporti con Floriana.

All’atto delle nozze, la sequenza temporale si è però rovesciata; per la precisione, gli sposi più anziani, per pronunciare solennemente il “Sì”, hanno fatto ritorno nella natia Marittima, mentre Elvira ed Emilio (guarda la combinazione, due nomi con le medesime iniziali) hanno voluto, a ogni costo, coronare il loro sogno a Monteruga, il 1° maggio 1960, in quella semplice chiesetta, facendo convenire lì, dal luogo d’origine, una vasta schiera di altri famigliari e parenti.

V’è una bella fotografia, ovviamente in bianco e nero, che immortala l’evento, con un piccolo mondo antico, trasferitosi, per festeggiarlo, nel piccolo mondo nuovo di Monteruga.

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A benedire le nozze, una figura assai benvoluta dalla comunità monterughese, don Giovanni Buccolieri, per tutti Papa Nino, originario di S. Pancrazio Salentino, a lungo preposto spirituale a Guagnano, prima da vice parroco e poi da parroco, e in mezzo alla gente del piccolo borgo agricolo da poco inaugurato.

Papa Nino si distingueva per la sua vicinanza e le premure all’indirizzo dei poveri e disadattati; si ricorda che, in un’occasione, arrivò a prelevare “furtivamente” un paio di scarpe (forse appartenenti a una persona abbiente) che erano nella bottega del padre calzolaio per una riparazione, per passarlo a un miserabile sofferente che era perennemente a piedi nudi.

Emilio, poco tempo dopo l’emigrazione da Marittima a Monteruga, si era arruolato in Marina, spesso si trovava di stanza a Taranto e faceva su e giù, per vedersi con la fidanzata, a cavallo di una Vespa (esiste un’altra istantanea, invero non comune in quell’epoca, con i due innamorati in sella allo scooter, a Monteruga, e, sullo sfondo, sorridente, Maria, la sorella di Emilio).

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In tema di fidanzati e mogli, i quattro amici intervistati mi hanno anche riferito del terzo figlio P., Attilio, il maggiore, il quale, nei primi anni cinquanta, da poco giunto a Monteruga e pur avendo una zita (fidanzata) al paese natio, s’invaghì di un’altra Maria, appartenente a una famiglia terza, quella di un massaro del borgo: quest’ultimo non era per niente favorevole al rapporto della figlia con un “comune” colono, sicché la coppia si determinò a compiere la classica fuitina, sposandosi rapidamente e restando a vivere, come a distanza di tempo avrebbero fatto anche Gino e Floriana, nella natia Marittima.

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Ecco, ora, le note non liete, per non dire tristi e dolorose, accennate prima.

Nel 1946, a ventuno anni, dopo una repentina e fulminante malattia, nel giro di otto giorni, venne a mancare, a Marittima, dove si era temporaneamente recata insieme con una sorella, Adele, la più grande delle sei A.

Nel 1954, cessò di vivere, a Monteruga, anche il genitore Costantino A., pure lui ancora relativamente giovane, le cui spoglie furono sepolte nel cimitero di Porto Cesareo, in Comune di Nardò, e tale destinazione finale, per la circostanza che il punto di Monteruga su cui sorgeva l’abitazione della famiglia A. ricadeva in quello spicchio di area rientrante, precisamente, nei confini comunali neretini.

Peraltro, in seguito, a distanza di una dozzina d’anni, i resti di Costantino A. furono trasferiti da Porto Cesareo al camposanto di Marittima, a cura della vedova Ttetta e con l’ausilio, io ero completamente all’oscuro di tal episodio, di mio padre Silvio, già a lungo impiegato all’anagrafe e Ufficiale dello Stato Civile e dunque, diciamo così, esperto in siffatto genere di pratiche.

Infine, pressappoco nella metà degli anni cinquanta, a Monteruga, rimase vittima di un incidente sul lavoro il giovane marittimese, lì emigrato, Pippi, che faceva il trattorista.

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Formavano un insieme di belle ragazze le sei (a un certo punto, purtroppo, rimaste in cinque) sorelle A., come si può vedere da un’altra fotografia.

Certamente, non restavano inosservate; mi è stato detto, da Elvira, che, quando, in mancanza ancora della chiesa a Monteruga, si recevano insieme a piedi, per ascoltare la Messa, a S. Pancrazio salentino (quattordici chilometri, fra andata e ritorno), sovente qualche abitante del paese, al loro passaggio, commentava: “Vardàti, ce belle piccinne ne manda Monteruga” (osservate che belle ragazze arrivano da Monteruga).

Oltre ai lavori in campagna e nella manifattura tabacco, le giovani A. si occupavano di altre attività, erano divenute esperte di cucito e ricamo (Clementina detta Tina, sartoria, Elvira e Floriana, nell’ordine, tombolo e telaio, con esatti attrezzi di legno, a tutt’oggi conservati, costruiti da un abile falegname di S. Pancrazio Salentino).

Avevano un discreto numero di clienti, non solamente a Monteruga, ma, pure, nelle località contermini.

Non a caso, la loro abitazione era denominata la casa delle mescie (maestre).

In punto, per mostrare il significato del termine dialettale fieu richiamato prima, a lungo rimasto misterioso per l’infante Rocco.

Fieu  sta per feudo, da intendersi nell’accezione di contrada o comprensorio o grande estensione di terreni. I marittimesi di sessanta/settanta anni fa, specie le donne, partivano dal paese per il fieu, nell’Alto Salento, per la campagna di raccolta, a mano, delle olive, che si protraeva lungo un arco stagionale di due/tre mesi.

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Nell’intento di completare appieno il mio giro d’orizzonte propedeutico alla stesura delle presenti note, in aggiunta ai vari dati raccolti qua e là e alle confidenze dirette dei citati quattro amici e compaesani già vissuti a Monteruga, ho avvertito la necessità di compiere personalmente una visita materiale all’interno del borgo.

E’ stato, invero, un giro veloce, sotto un cielo grigio e, tuttavia, sufficiente a farmi avvertire e assimilare una piccola catena di suggestioni che esclusivamente il contatto materiale poteva lasciare scaturire ed emergere.

Non mi soffermo sulla descrizione delle strutture edificate che mi si sono parate innanzi agli occhi in fedele aderenza con quanto già trovato descritto, unico particolare di novità un grande disegno a colori vivaci, moderno, tipico dell’oggi, sulla parete interna di una delle abitazioni utilizzate dai coloni.

Con lo sguardo, invece, ho raggiunto, soffermandomi, una collinetta che si erge a breve distanza del borgo, il “monte” la definizione datale dei residenti, su cui, stando al racconto di Floriana ed Elvira, durante le parentesi di svago, erano solite radunarsi compagnie di ragazze e giovani, al fine di cogliere fiori di campo e…sognare.

Dalle medesime fonti, ho anche sentito che, dalla sommità, durante le giornate terse, si scorgeva non soltanto la vicina distesa dello Ionio, ma anche, in direzione sud, il campanile del Duomo di Lecce.

Mi piace e, nello stesso tempo, mi pare doveroso, terminare questo cammino di scrittura dando sparute righe di spazio alla quiete, pace assoluta, aleggiante e imperante nel cuore, che, per sé, non cesserà mai di battere, della minuscola Monteruga, sensazione notevolmente dominante in confronto a tutti i restanti elementi posti d’intorno e a contorno, vuoi che siano semplicemente opera della natura, vuoi che rappresentino frutti dell’attività umana che una volta vi pulsava.

E il silenzio, nei suoi contenuti più profondi, a parer mio, può significare anche storia che travalica il tempo.

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Taranto e il suo stemma

di Armando Polito

L’immagine, tratta da https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=44380,  è quella dell’attuale stemma (d’azzurro, al delfino nuotante e cavalcato da un Dio marino nudo sostenente nel braccio sinistro un panneggio svolazzante e con la destra scagliante il tridente, al capo cucito di rosso centrato, caricato della conchiglia d’oro, posta fra la leggenda “Taras”) adottato con decreto del 20 dicembre 1935.

E prima?

Anche gli stemmi cittadini, come tutti i simboli umani, hanno seguito una linea evolutiva fino a giungere in epoca relativamente recente alla loro ufficializzazione, atto che di per sé non esclude futuri cambiamenti, totali o parziali.

Qui opererò un tentativo di viaggio a ritroso nel tempo, tra le mille insidie che la natura stessa delle fonti utilizzate spesso nasconde.

Comincerò con la Guida di Taranto di Andrea Martini uscita per i tipi di Salvatore Mazzolino a Taranto nel 1910.

Il frontespizio reca uno stemma che non può che essere quello della città. Lo ingrandisco per consentirne una lettura più agevole.

Rispetto all’immagine precedente, mentre il delfino ha conservato la stessa posizione, il dio marino ne ha assunta una frontale, è seduto sull’animale, non in groppa, e al braccio sinistro non mostra il panneggio svolazzante ma uno scudo su cui è raffigurato uno scorpione.

Ecco ora come lo stemma si presenta in Gustavo Strafforello, La Patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torimo, 1899, p. 289.

 

Il personaggio principale è a cavalcioni del delfino e presenta il busto quasi in posizione frontale.

Appena leggibile, purtroppo, per via della pessima qualità dell’incisione della relativa tavola a corredo di Giovanni Battista Pacichelli (1634-1695), Il regno di Napoli in prospettiva, Perruinio, Napoli, 1703, volume II:

Dopo questi documenti di natura sostanzialmente grafica, passo ad un altro di carattere testuale, cioè alle Deliciae Tarentinae, opera di Tommaso Niccolò d’Aquino (1665-1721) pubblicata postuma da Cataldantonio Atenisio Carducci (sua è la traduzione in ottava rima  dell’originale latino in esametri) per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 (di seguito il frontespizio).

Da quest’opera riproduco il brano originale che ci riguarda (libro I, vv. 392-395 e libro IV, vv. 336-340 . Ho preferito porre a fronte la mia traduzione letterale e non quella poetica del Carducci, essendo già da accogliere con beneficio d’inventario, dettaglio per dettaglio,  tutto ciò che riguarda un tema trattato da un poeta e correndo più pericoli di stravolgimenti interpretativi la traduzione poetica rispetto a quella letterale.


Subito innalzarono un tempio al dio del mare: egli ha ai piedi un delfino ed ergendosi nuovo arbitro dell’alto mare col crudele tridente con il quale ne scuote il profondo, guarda dall’alto i figli di Forco e i mostri squamosi. 

Ma molte statue ornavano la fonte degli Dei. In cima adagiato un giovane occupa la parte più alta della struttura portando uno scudo in cui un grande scorpione scolpito risplende e tende le voraci chele, già da tempo simbolo illustre della stirpe di Falanto.

Passo ora all’Istoria Tarentina di Ambrogio Merodio (1590 circa-1684). L’opera è rimasta manoscritta fino al 1998, quando fu pubblicata da Cosimo Damiano Fonseca per i tipi di Mandese a Taranto. Io tuttavia, non essendo riuscito a reperire la pubblicazione, riporto il brano che ci interessa (carta 21r) dalla copia manoscritta del 1732 custodita presso la Biblioteca Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/16).


La grafia è chiarissima ma, ad ogni buon conto trascrivo il pezzo:

Si vede anco nelle monete Tarantine impresso lo scorpione, ed alcuni anno detto, che fusse impresa di Pirro, ed altri delli Cartaginesi in tempo d’Annibale, ma à me pare che in quello volessero i Tarantini esprimere il modo, con il quale squadravano il loro esercito, mentre li dua corna sinistri  formavano le due teste dello scorpione, e poi alla retroguardia allungando le squadre formavano la coda, acciò si potesse rivolgere all’uno, ed all’altro corno secondo richiedeva il bisogno.  

Sullo scorpione come stemma di Pirro o di Annibale l’indicazione delle fonti, come si legge, è estremamente vaga; inconsistente mi appare pure il riferimento alle monete, perché, a quanto ne so, nessuna moneta tarantina mostra al retto o al verso uno scorpione e tutte, dico tutte, possono iconograficamente entrare in uno di questi gruppi (le singole immagini sono tratte da http://www.wildwinds.com/coins/).

Seconda  metà del IV secolo a. C.;  nel dritto uomo a cavallo brandisce con la destra una lancia reggendone due altre e lo scudo. Nel verso Taras a cavallo di un delfino regge con la sinistra il tridente e con la destra un càntaros; sotto un delfino.

Prima metà del III secolo a. C.; nel dritto: giovane a cavallo posa una corona sulla testa dell’animale; in basso un giovane nudo rimuove una pietra dallo zoccolo del cavallo. Nel verso: Taras a cavallo del delfino tende con la destra una coppa e regge col braccio sinistro uno scudo, che non mostra alcun ornamento.

Prima metà del III secolo a. C.; nel dritto: cavaliere nudo a cavallo. Nel rovescio Taras a cavallo del delfino regge con la destra una Nike e con la sinistra una cornucopia. A destra un fulmine.

 

Prima metà del III secolo s. C; nel dritto un guerriero nudo con una lancia ed un grande scudo, mentre la destra posa sul fianco del cavallo. Nel verso: Taras seduto sul delfino regge con la destra il tridente e col braccio sinistro regge uno scudo senza ornamenti.

Non vorrei che il Merodio avesse preso … un granchio per uno scorpione. Il granchio, infatti è presente in numerose monete. Di seguito uno dei numerosi esemplari di Agrigento del V secolo a. C. ed uno, potrebbe essere stato proprio quest’ultimo a trarlo in inganno, di Terina del IV-III secolo a. C.

 

 

I due passi prima riportati da Delle delizie etc .. sembrano essere la trascrizione poetica di alcuni dettagli iconografici del frontespizio del De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna, opera di Giovanni Giovene uscita per i tipi di Orazio Salviano a Napoli nel 1589.

Ingrandisco ed analizzo i dettagli che ci interessano, costituiti dalle tre immagini in basso e riporto le fonti cui esse si ispirano. Qualche testo è particolarmente lungo perché mi è sembrato opportuno non estrapolare lo strettamente necessario ogni volta che il contesto offriva anche qualche altra notizia interessante o, quanto meno, curiosa.

Un uomo nudo in posizione laterale in groppa ad un delfino brandisce con la mano sinistra il tridente e regge col braccio destro uno scudo, il cui ornamento, data la posizione, non è visibile. In basso si legge TARAS N(EPTUNI) F(ILIUS)=Taras figlio di Nettuno. Fonti:

Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 13, 10): βασιλεὺς Ἰαπύγων Ὦπις ἥκων τοῖς Πευκετίοις σύμμαχος. Οὗτος μὲν δὴ εἴκασται τεθνεῶτι ἐν τῇ μάχῃ, οἱ δὲ αὐτῷ κειμένῳ ἐφεστηκότες ὁ ἥρως Τάρας ἐστὶ καὶ Φάλανθος ὁ ἐκ Λακεδαίμονος, καὶ οὐ πόρρω τοῦ Φαλάνθου δελφίς· πρὶν γὰρ δὴ ἐς Ἰταλίαν ἀφικέσθαι, καὶ ναυαγίᾳ τε ἐν τῷ πελάγει τῷ Κρισαίῳ τὸν Φάλανθον χρήσασθαι καὶ ὑπὸ δελφῖνος ἐκκομισθῆναί φασιν ἐς τὴν γῆν (Il re degli Iapigi Opis che era venuto come alleato con gli Iapigi. Questi è raffigurato morto in battaglia, su di lui che giace si ergono l’eroe Taras e Falanto da Sparta e non lontano da Falanto un delfino: dicono infatti che Falanto prima che giungesse in Italia sarebbe incorso in un naufragio nel mare di Criseo e che sarebbe stato portato a terra da un delfino).

Servio (IV-V secolo d. C.), Commentarii in Vergilii Aeneidos, III, 531: HERCULEI SI EST VERA FAMA TARENTI … Partheniatae, accepto duce Falanto, octavo ab Hercule, profecti sunt delatique sunt ad breve oppidum Calabriae, quod Taras, Neptuni filius, fabricaverat. Id auxerunt et prisco nomine appellaverunt Tarentum. Bene ergo nunc Herculei Tarenti, quia Taras condiderat, auxerat Phalantus (DELL’ERCULEA TARANTO SE È VERA FAMA … I parteniati, accolto come comandante Falanto, ottavo discendente da Ercole, partirono e arrivarono ad una piccola città della Calabria che aveva eretto Taras, figlio di Nettuno. La ingrandirono e la chiamarono con antico nome Taranto).

Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d. C.), Etymologiae, 1, 62: Taras Neptuni filius fuit, a quo Tarentum civitas et condita et appellata fuit (Taras fu un figlio di Nettuno, dal quale la città di Taranto fu fondata e prese il nome).

Un uomo barbuto, disteso per terra si appoggia col braccio sinistro su un’anfora la cui acqua defluendo alimenta due ruscelli. In alto si legge TARAS FL(UMEN)=Il fiume Taras. Fonti:

Diodoro Siculo (I secolo a. C.), Bibliotheca historica, VIII, fr. 21: Οἱ δὲ ἐπευνακταὶ θεωροὺς πέμψαντες εἰς Δελφοὺς ἐπηρώτων, εἰ δίδωσιν αὐτοῖς τὴν Σικυωνίαν. Ἡ δ’ ἔφηʹ

καλόν τοι τὸ μεταξὺ Κορίνθου καὶ Σικυῶνος·

ἀλλ’ οὐκ οἰκήσεις οὐδ’ εἰ παγχάλκεος εἴης.

Σατύριον φράζου σὺ Τάραντός τ’ ἀγλαὸν ὕδωρ

καὶ λιμένα σκαιὸν καὶ ὅπου τράγος ἁλμυρὸν οἶδμα

ἀμφαγαπᾷ τέγγων ἄκρον πολιοῖο γενείου·

ἔνθα Τάραντα ποιοῦ ἐπὶ Σατυρίου βεβαῶτα.

Ἀκούσαντες δὲ ἠγνόουν· ἡ δὲ φανερώτερον ἔφη,

Σατύριόν τοι ἔδωκα Τάραντά τε πίονα δῆμον

οἰκῆσαι καὶ πήματ’ Ἰαπύγεσσι γενέσθαι.

(Gli epeunatti[i] dopo aver mandato ambasciatori a Delfi chiedevano se (il dio) avrebbe concesso loro la terra di Sicione. Essa (la Pizia) rispose: – Bella è la terra tra Corinto e Sicione, ma non l’abiteresti neppure se fossi tutto coperto di bronzo. Tu cerca Satyrion e l’acqua lucente del Taras e il porto che sta a sinistra dove il capro beve avidamente l’acqua salata bagnando la punta della grigia barba; lì costruisci Taranto salda sopra Satyrion -. Pur avendo sentito, non capivano; essa allora parlò più chiaramente: – Ti dono Satyrion e di abitare il ricco paese di Taranto e di diventare sventura per gli Iapigi -).

Dionigi di Alicarnasso (I secolo a. C.), Ῥωμαική ἀρχαιολογία, XIX, 1, 3: Στάσεως δὲ γενομένης ἡττηθέντες οἱ παρθενίαι ἀναχωροῦσιν ἑκόντες ἐκ τῆς πόλεως καὶ πέμψαντες εἰς Δελφοὺς χρησμὸν ἔλαβον πλεῖν εἰς Ἰταλίαν, ἐξευρόντας δὲ χωρίον τῆς Ἰαπυγίας Σατύριον καὶ ποταμὸν Τάραντα, ἔνθ᾽ ἂν ἴδωσι τράγον τῇ θαλάττῃ τέγγοντα τὸ γένειον, ἐκεῖ τοὺς βίους ἱδρύσασθαι. Πλεύσαντες δὲ τόν τε ποταμὸν ἐξεῦρον καὶ κατά τινος ἐρινεοῦ πλησίον τῆς θαλάττης πεφυκότος ἄμπελον ἐθεάσαντο κατακεχυμένην, ἐξ ἧς τῶν ἐπιτράγων τις καθειμένος ἥπτετο τῆς θαλάττης. Τοῦτον ὑπολαβόντες εἶναι τὸν τράγον, ὃν προεῖπεν αὐτοῖς ὁ θεὸς ὄψεσθαι τέγγοντα τὸ γένειον τῇ θαλάττῃ, αὐτοῦ μένοντες ἐπολέμουν Ἰάπυγας, καὶ ἱδρύονται τὴν ἐπώνυμον τοῦ ποταμοῦ Τάραντος πόλιν.

(Avvenuta una sedizione [a Sparta], i Parteni sconfitti si ritirano uscendo dalla città e, avendo inviato loro rappresentanti) a Delfi, ebbero il responso di navigare verso l’Italia e, dopo aver trovato la località della Iapigia Satyrion e il fiume Taras, di stabilire la loro sede laddove avessero visto un capro che bagnava la barba nel mare. Dopo aver navigato trovarono il fiume e videro una vite abbarbicata ad un fico selvatico cresciuto vicino al mare, dalla quale uno dei viticci piegato toccava il mare. Avendo capito che era questo il capro che il dio aveva detto loro che avrebberp visto mentre bagnava la barba nel mare, fermatisi lì, mossero guerra agli Iapigi e fondarono la città il cui nome deriva da quello del fiume Taras).

Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 10, 6-8: Τάραντα δὲ ἀπῴκισαν μὲν Λακεδαιμόνιοι, οἰκιστὴς δὲ ἐγένετο Σπαρτιάτης Φάλανθος. Στελλομένῳ δὲ ἐς ἀποικίαν τῷ Φαλάνθῳ λόγιον ἦλθεν ἐκ Δελφῶν· ὑετοῦ αὐτὸν αἰσθόμενον ὑπὸ αἴθρᾳ, τηνικαῦτα καὶ χώραν κτήσεσθαι καὶ πόλιν. Τὸ μὲν δὴ παραυτίκα οὔτε ἰδίᾳ τὸ μάντευμα ἐπισκεψάμενος οὔτε πρὸς τῶν ἐξηγητῶν τινα ἀνακοινώσας κατέσχε ταῖς ναυσὶν ἐς Ἰταλίαν· ὡς δέ οἱ νικῶντι τοὺς βαρβάρους οὐκ ἐγίνετο οὔτε τινὰ ἑλεῖν τῶν πόλεων οὔτε ἐπικρατῆσαι χώρας, ἐς ἀνάμνησιν ἀφικνεῖτο τοῦ χρησμοῦ, καὶ ἀδύνατα ἐνόμιζέν οἱ τὸν θεὸν χρῆσαι· μὴ γὰρ ἄν ποτε ἐν καθαρῷ καὶ αἰθρίῳ τῷ ἀέρι ὑσθῆναι. Καὶ αὐτὸν ἡ γυνὴ ἀθύμως ἔχοντα —ἠκολουθήκει γὰρ οἴκοθεν—τά τε ἄλλα ἐφιλοφρονεῖτο καὶ ἐς τὰ γόνατα ἐσθεμένη τὰ αὑτῆς τοῦ ἀνδρὸς τὴν κεφαλὴν ἐξέλεγε τοὺς φθεῖρας· καί πως ὑπὸ εὐνοίας δακρῦσαι παρίσταται τῇ γυναικὶ ὁρώσῃ τοῦ ἀνδρὸς ἐς οὐδὲν προχωροῦντα τὰ πράγματα. Προέχει δὲ ἀφειδέστερον τῶν δακρύων καὶ—ἔβρεχε γὰρ τοῦ Φαλάνθου τὴν κεφαλήν—συνίησί τε τῆς μαντείας—ὄνομα γὰρ δὴ ἦν Αἴθρα τῇ γυναικί—καὶ οὕτω τῇ ἐπιούσῃ νυκτὶ Τάραντα τῶν βαρβάρων εἷλε μεγίστην καὶ εὐδαιμονεστάτην τῶν ἐπὶ θαλάσσῃ πόλεων. Τάραντα δὲ τὸν ἥρω Ποσειδῶνός φασι καὶ ἐπιχωρίας νύμφης παῖδα εἶναι, ἀπὸ δὲ τοῦ ἥρωος τεθῆναι τὰ ὀνόματα τῇ πόλει τε καὶ τῷ ποταμῷ· καλεῖται γὰρ δὴ Τάρας κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ πόλει καὶ ὁ ποταμός.

(Gli Spartani fondarono Taranto, l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava a fondare una colonia giunse da Delfi il responso che avrebbe conquistato un territorio e una città quando avesse visto cadere la pioggia dal cielo sereno. Egli, non avendo preso in considerazione subito il responso né avendone reso partecipe qualcuno degli interpreti, approdò in Italia; poiché non gli capitava di vincere i barbari né di conquistare città alcuna né d’impossessarsi di un territorio, si ricordò del responso e credette che il dio avesse profetizzato l’impossibile perché non poteva piovere col cielo puro e limpido. La moglie, infatti l’aveva seguito dalla patria, confortava lui avvilito e tra l’altro dopo aver fatto appoggiare la testa del marito sulle sue ginocchia, cercava i pidocchi. In qualche modo per amore accadde alla donna di piangere vedendo che lo stato del marito non migliorava per nulla. Prosegue senza risparmio di lacrime – e infatti ne bagnava la testa di Falanto – e Falanto  comprende la profezia – sua moglie, infatti si chiamava Etra[ii] – e così sopraggiunta la notte prese Taranto, la più grande e prospera delle città dei barbari in riva al mare. Dicono che l’eroe Taras sia figlio di Poseidone e di una ninfa del luogo, che dall’eroe venne il nome alla città e al fiume: infatti anche il fiume si chiama come la città).

 

Si potrebbe dire scudo nello scudo: nell’araldico risulta inserito quello dello lo scorpione presente nell’immagine tratta dalla Guida del Martini e per il quale il Merodio aveva ricordato opinioni che mettevano in campo ora Pirro, ora Annibale. Da notare che lo scorpione reca sul dorso tre gigli, Non credo sia avventato cogliere il riferimento agli Angioini ed in particolare a Filippo I, che fu principe di Taranto e despota d’Epiro. Questa seconda carica potrebbe spiegare la messa in campo di Pirro, mentre quella di Annibale potrebbe essere la deformazione della testimonianza data da Tito Livio (Ab Urbe Condita, XXIXI, 7, 6):  Progressus ad murum scorpione icto qui proximus eum forte steterat, territus inde tam periculoso casu receptui canere cum iussisset, castra procul ab ictu teli communit ([Annibale] accostatosi al muro [di Locri],essendo stato morso da uno scorpione uno che gli si trovava vicino, atterrito da un incidente tanto pericoloso, dopo aver ordinato di suonare la ritirata fortificò il campo fuori dalla portata di una lancia). Lo scorpione gigliato potrebbe essere, perciò, il risultato finale di una superfetazione di deformazione di memorie storiche.

Il 24 febbraio 1927, con decreto firmato da Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, lo scorpione fu adottato ufficialmente come simbolo della provincia di Taranto (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/d/d4/Provincia_di_Taranto-Stemma.png.

 

lo stemma della città dovette giocoforza assumere altre fattezze. E quali potevano essere se non quelle del giovane sul delfino immortalato (ora con il tridente e il càntaros, ora con lo scudo e il càntaros, ora con la cornucopia e la Nike, ora con lo scudo e il tridente, ora a cavalcioni sul cetaceo, ora seduto), come abbiamo visto, sulle antiche monete?

Conclusione: dopo lo “scippo”, anche se da parte della sua stessa provincia, di quello che sembra essere il suo più antico simbolo, la città ricorse ad una memoria ancora più antica, utilizzando con qualche variante (il pannello svolazzante e la conchiglia d’oro) le fonti numismatiche. Ma, prima dell’ufficializzazione, l’operazione risulta già realizzata nello stemma presente nella guida del Martini.  Un’ultima osservazione: lo scorpione appare nello stemma di Roccaforzata (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/8/86/Roccaforzata-Stemma.png) , che è un comune in provincia di Taranto.

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[i] Così erano chiamati a Sparta gli ex schiavi che avevano acquisito alcuni diritti di cittadinanza.

[ii] Traduco così l’originale Αἴθρα che come nome comune in greco significa cielo sereno.

 

Per troppa luce, un romanzo di Livio Romano. Una lezione di stile

Per-troppa-luce Copertina

di Annalisa Presicce

Par di cadere straordinariamente in mezzo alle parole. L’occhio tenta linee a ogni pagina che stende ma pronto lo scrittore traccia curve e dossi in cui inciampare arrotondandosi e pietruzze su cui inchiodarci i nudi alluci e ancora acque impetuose da cui strabordare sgomenti. Fuori da ogni mappa e lontani da uno stile che possa dirsi certo (e che dunque è certissimo), la nostra lingua sembra condursi a fatica nella lettura, s’aggronda e corruga a ogni passo in cui dirompenti sferzano a valanga le dentali e guizza e s’ammanta liquida nei periodi risciacquati da ogni virgola o ancora si lascia danzare dalla coreografia di una punteggiatura chirurgica e ritmata a dovere. A cesellare ogni blocco una grande prova di scrittura: Livio Romano [Nardò, 1968] s’impone con un lessico articolato e meticcio in cui s’intrecciano il dialetto e intercalari sonori a prodigiose perle italiane, padrone assolute che s’ergono costose e necessarie.

Per troppa luce è innanzitutto un’opera talentuosa, prima ancora d’essere un apprezzabilissimo romanzo in cui una sanguigna storia d’amore si srotola lungo i paesaggi di un Salento sradicato quanto nostalgico, selvatico quanto geometrico, innervato d’abusi e scirocchi atavici quanto d’incoscienza e rarefatta narcosi, fiero come una voce singola, curvo come un amante deluso. Romano ce lo restituisce con descrizioni puntuali e odorose, sudaticce e vaporose, amorevoli quanto malinconiche e fedeli da temerne l’affresco. Neripoli, città offerta allo sfondo, è ovunque e in nessun luogo, iperbole di uno spazio genetico e grottesco, tragico quanto meravigliosamente comico e frizzante.

Il pretesto al quadro è dato dalla singolare volontà di tre personaggi vanesi e smaliziati concentrati attorno a un progetto monumentale di costruzione di un grande parco tematico di ispirazione messapica e finanziato da soldi pubblici. Arrangiau, portoghese e volutamente grossolano, è l’architetto incaricato di imbastire i lavori una volta ripulita la zona d’azione da una masseria abitata da immigrati al servizio dei caporali di turno. Macchinazioni, sotterfugi, escamotage illegali e la totale assenza di “inghippi” morali sono gli ingredienti base su cui fanno perno le loro tabelle di marcia. Coinvolti nella comune battaglia contro l’affare conosciamo Antonio, ispettore del lavoro a tratti goffo e sonnolento, Simona, avvocato, sensuale e turbinosa e tra le cui grazie divampa la passione, viva e feconda finanche nell’abbandono. A condire le gesta dei protagonisti, personaggi minori ma deliziosamente caratterizzati e definiti le cui vite s’affacciano guarnite e catarifrangenti; lo scrittore li immette rocciosi e tondi con una maestria di scalpello scrupolosa e inappuntabile, li muove meticoloso senza arraffare nel generico ma specializzandone posture, cadenze, portamenti e movenze. Vivi e compiuti rappresentano spesso la tangente sollazzante lungo cui i due si lasciano slittare, cadendo lascivi e goderecci. Ironia, erotismo, spregiudicatezza e un vivo occhio obliquo alla poesia che pur s’annida si alternano in un gioco equilibrato e cadenzato di eventi e passaggi temporali ben piazzati e che non disdegnano lo sguardo chino all’interiore, trambusto sonoro di volontà e lassismi catenanti, ardori coriacei e dissimulate mortificazioni.

E la luce? La luce è ovunque anche lì dove cade: è quella lignea del vortice di carne e innamoramento di un uomo e una donna, è quella misurata della coscienza quando lucida s’impone e opera indefessa, quella manchevole e tardiva di chi osa non osando ragione, quella negativa di un’idea che dirompe e acceca se a questa non s’avversa l’uomo, quella onirica, africana, caliginosa di una terra che si pensa abituata al ritmo pigro delle stagioni a sud, quella che gronda sotto la verga dell’istinto e brucia ingenua e malaccorta, infine la luce persa di chi ha inchiodato, per timore di non reggere il peso delle altezze, il collo alla terra.

L’invito è quello d’essere accorti discernitori tra luci autentiche e supposte tali da cui ci è dato lasciarsi fagocitare e quest’arte, è noto, richiede altrettanta luce. E che non sia troppa lì dove l’imperativo urge essere quello del “quanto basta”.

 

 

[Livio Romano, Per troppa luce, Fernandel 2016]

 

Dello stesso autore:

Mistandivò (Einaudi, 2001)

Porto di mare (Sironi, 2002)

Niente da ridere (Marsilio, 2007)

Da dove vengono le storie (Lindau, 2000)

Dove non suonano più i fucili (Big sur, 2005)

Il mare perché corre (Fernandel, 2011)

Diario elementare (Fernandel, 2012)

 

Montesardo e i suoi due famosi Geronimo/Girolamo

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.lameta.net/blogsalento/?attachment_id=275

Può sembrare uno stupido campanilismo, con la globalizzazione in atto, soprattutto se detto da me che, pur legato alla mia terra, mi dichiaro e mi sento cittadino (se lo dimostro non sta a me giudicarlo) del mondo, non poter negare che ogni terra rimane nella memoria più o meno collettiva, non fosse altro che per aver dato i natali ad un personaggio illustre.

Montesardo, lo dico anche per i salentini, pochi o molti, che probabilmente lo ignorano, è una frazione di poco più di mille abitanti, del comune di Alessano, in provincia di Lecce. Sul toponimo mi soffermo brevemente, prima di passare al cuore dell’argomento di oggi.

A chi non verrebbe in mente in prima battuta di ipotizzare che Montesardo nasca dalla fusione di un sostantivo (monte) e di un aggettivo (sardo)? A quel punto, però, ci si chiederebbe: passi il monte, ma la Sardegna che ci sta a fare con il Salento? Prima di avventurarsi in una navigazione tempestosa, quella stessa che avrebbe dovuto portare gli isolani a mettere piede da noi, ipotizzando, magari un naufragio a causa di un carico di loro pietre da noi commissionato, col tempo recuperate e poi utilizzate per l’edificazione del primo nucleo abitativo, col rischio che la nostra fantasia contribuisca alla circolazione delle tante bufale che vagano nel web, magari sotto forme di leggende più o meno inventate sul momento, è proprio alla ricerca delle fonti che dovremmo subito dedicarci.

Scopriremmo, così, che la più antica testimonianza del toponimo risale al XVI secolo. Antonio de Ferrariis detto il Galateo così scrive nel De situ Iapygiae scritto tra il 1510 e il 1511 e pubblicato postumo per i tipi di Perna a Basilea nel 1553, scrive:

A Vastis nulla occurrunt antiquitatis vestigia usque ad Montem Arduum oppidum, ab acra Iapygia VII millibus passuum remotum, ubi et urbs antiqua fuit; eius pars in colle, pars in plano sita, mediocris magnitudinis: huius et nomen abolitum est. In eminentiore huius urbis parte in edito colle pulchrum est oppidulum. Memini me a veteribus audisse Graecis hanc urbem τραχεῐον ὅρος, quod Latine asperum, seu arduum montem exprimit: erat enim urbs in lapidoso, et aspero monte sita. Hic pars est Apennini,qui ad Acram Iapygiam terminatur. Quin etiam a peritis navigantibus me audisse memini usque ad XL, aut L milia passuum in mare protendi iuga Apennini, cum hinc atque illuc illius metiatur mare

(Non si presenta nessun resto antico da Vaste fino alla città  Monte Arduo, distante sette miglia dal promontorio iapigio, dove ci fu pure un’antica città; una sua parte sita su un colle, l’altra in pianura, di mediocre grandezza. Il suo nome è scomparso. Nella parte più alta di questa città su un colle elevato c’è un un grazioso piccolo villaggio. Ricordo di aver sentito da vecchi che per I Greci  questa città era τραχεῐον ὅρος, che in latino significa ripido monte: infatti la città era sita su un monte pietroso e scosceso.Qui c’è la parte dell’Appennino che termina presso l’estremità della Iapigia. Anzi ricordo do aver sentito pure da esperti naviganti che la catena dell’Appennino si protende in mare fino o quaranta o cinquanta miglia, considerando il suo mare dall’una e dall’altra parte).

Luigi Tasselli in Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693: … ho inteso da persone molto erudite che Monte Sardo era Città antichissima, e si chiamava da tutti con nome scorretto Ananduso, o in lingua messapia Vetuso: e che quando arrivarono i Mori nella Salentina, i Primari di Montesardo, mandarono tutto l’oro, che havevano in Vereto,  Città in quei tempi fortissima, acciò ivi meglio si custodisse: perloche i Veretini, così l’oro proprio, come di Montesardo, scavando una fossa, lo sotterrarono.  Ma spianata da’ Mori Vereto, e rovinata tutta la Puglia da questi Barbari, havevano sempre in proverbio le genti, e dire: L’Oro di Amanduso , o Vetuso, dentro Vereto sta chiuso.

La testimonianza del Galateo è quella tenuta più in conto ai fini dell’etimo del toponimo. In buona sostanza: Montesardo sarebbe il risultato della deformazione di un originario Mons arduus, a sua volta traduzione in latino del greco τραχεῐον ὅρος. Il carattere deformante del processo si sostanzierebbe nella conservazione della s finale di mons dopo la sua traduzione in monte.

In rete, tuttavia, non mancano proposte alternative che, partendo dal Galateo e dal Tasselli,  mettono in campo il capo messapico Artas. A tal proposito segnalo al lettore interessato: http://montesardo.ilcannocchiale.it/

http://www.salogentis.it/2011/11/27/appunti-sullorigine-e-la-storia-di-montesardo-monte-aspro-o-monte-di-artos/

Certo è che tutto è dubbio quando già le uniche due  fonti di partenza mettono in campo a suffragio del loro ricordo fonti orali (memini me a veteribus audisse il Galateo e, parallelamente, ho inteso da persone molto erudite il Tasselli) e, dando per scontato in tal tipo di trasmissione la probabilità più alta di deformazioni , magari nel tempo sedimentate l’una sull’altra, qualsiasi ipotesi è teoricamente plausibile .

Chiusa la parte toponomastica, va detto che tutta la Terra d’Otranto in passato (oggi non saprei …) è stata la culla vivace di personalità di livello spesso non solo nazionale e già per Alessano ho avuto occasione di ricordare Cesare Rao (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/10/13/cesare-rao-di-alessano-e-il-suo-bestseller/?). Oggi lo farò per due figli della sua frazione, l’uno pressoché contemporaneo del Rao (XVI secolo), l’altro fiorito nella prima metà del secolo successivo, il primo filosofo e docente nell’Università di Padova, poi di Salerno e infine di Napoli, il secondo musicista.

Il taglio di questo post è esclusivamente bibliografico, perciò mi limiterò a presentare i frontespizi delle loro opere più significative che sono riuscito a reperire. Comincio dal filosofo.

Di seguito il colophon da cui si ricava la data di edizione.

Passo ora al musicista, Girolamo Melcarne, tanto legato alla sua terra da assumere il nome di Girolamo Montesardo.

Alcune sue composizioni furono inserite alle p. 15-17 dell’opera, postuma, di un altro musicista pugliese (era nato a Bari) Pomponio Nenna (1556-1608). Di seguito quest’ultimo frontespizio.

Noi, stranieri due volte – L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra

emigrati

di Gianni Ferraris

Il neo dottor Simone de Luca si è da poco laureato in Scienze della Comunicazione con un’interessante tesi in Storia Contemporanea: Noi, stranieri due volte – L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra.

Una migrazione, come dice nell’introduzione, che “[…]risulta quella meno trattata nella ricerca storiografica sull’emigrazione italiana. Andreina De Clementi attribuisce questa minore attenzione al fatto che la grande ondata migratoria del secondo dopoguerra, durata fino agli anni ’70 del secolo scorso, risulti schiacciata fra la prima grande migrazione della prima metà del ‘900 e l’inizio dei fenomeni di immigrazione che si sono presto manifestati come epocali[…]”

D’altra parte, come si evidenzia sempre nell’introduzione, l’attenzione verso il tema emigrazione è andato scemando dagli anni ’70 a gli anni ’90 del 900. Il dibattito è tornato prepotentemente attuale dai primi anni ’90 con l’arrivo di immigrati prima albanesi e via via fino ai giorni nostri, accendendo luci forti su temi quali “accoglienza, xenofobia e integrazione”. Salento come terra di emigranti prima, di immigrazione poi. Ed oggi ancora una volta terra dalla quale debbono andarsene moltissimi giovani in cerca di lavoro e di una vita, oggi come allora, dignitosa.

Ne abbiamo parlato con il dottor de Luca.

 

Partiamo dal titolo, perché stranieri due volte?

In realtà il titolo è una citazione dell’attore e drammaturgo salentino Mario Perrotta, che nel suo spettacolo Italiani Cincali ha messo in scena la realtà dell’emigrazione. All’inzio del monologo racconta che, da bambino, viaggiava spesso da Lecce a Bergamo per andare a trovare il padre che lavorava lì, e di come, durante il viaggio, chiacchierava con le famiglie di emigranti che viaggiavano su quella tratta. Erano diretti in Belgio, in Svizzera o in Germania, e il bimbo Perrotta ascoltava i loro racconti.

Molti di essi, dice Perrotta, si definivano stranieri due volte, ossia sentivano di non appartenere più alla comunità d’origine, ma non si sentivano neppure totalmente integrati negli usi e costumi dei paesi che li ospitavano come lavoratori.

Anche io, negli anni successivi alla maturità scientifica, frequentando un corso di specializzazione a Como, ho avuto modo di viaggiare spesso in treno sulla linea Lecce – Milano, ascoltando talvolta le esperienze di emigrati salentini che viaggiavano con me, nelle quali spesso si riscontravano esperienze di disagio sociale e sacrificio.

Ho fatto mia l’espressione stranieri due volte come titolo della tesi per sottolineare l’aspetto del disagio sociale che si è spesso accompagnato al fenomeno storico dell’emigrazione.

 

Nella tesi parli di emigrazioni volontarie dettate da due motivi, vuoi spiegare?

L’emigrazione, si legge nei libri, lo spostamento permanente di un individuo o di un gruppo di persone dal proprio luogo di origine ad un altro luogo. Tutti i migranti volontari, ossia coloro che scelgono liberamente di recarsi in un altro paese, sono indotti a questa decisione da fattori di spinta (push factors) e fattori di attrazione (pull factors).

Le migrazioni volontarie devono essere distinte tra quelle dettate dalla necessità di fuggire da condizioni di estrema povertà e quelle nelle quali la scelta dipende dal desiderio di migliorare le condizioni di vita normali. Appartengono al primo caso le popolazioni rurali dei paesi poveri che si ammassano nelle baraccopoli delle grandi città o i migranti provenienti dall’Africa che sbarcano sulle coste siciliane. Al secondo caso appartengono, per esempio, le migrazioni di ricercatori e professionisti verso le più prestigiose università del mondo e nelle varie sedi di imprese multinazionali e organizzazioni internazionali.

 

L’italia, come scrivi, ha subito due grandi ondate migratorie, la prima fra il 1870 e il 1920, la seconda fra il 1946 e il 1973, lo Stato ha reagito nello stesso modo nei due periodi?

No, lo Stato ha assunto due ruoli differenti se confrontiamo le due ondate migratorie. Durante la prima è stato un osservatore neutrale, nel secondo dopoguerra si è fatto promotore dell’emigrazione stessa, coordinando i flussi migratori attraverso gli accordi bilaterali in primis con il Belgio, successivamente anche con Svizzera e Germania.

 

Focalizziamo il secondo periodo, ad un certo punto parli di “baratto” fra Stati nazionali

Si può parlare di baratto in quanto in base agli accordi bilaterali veniva stabilito, è emblematico il caso del Belgio, di inviare in Italia un determinato quantitativo di carbone per ogni scaglione di lavoratori reclutati. Come è noto, gli accordi bilaterali furono stipulati sia per far fronte alla carenza di lavoro ma soprattutto per l’approvvigionamento di materie prime necessarie alla ricostruzione post-bellica.

 

Salentini residenti all’estero, dai tuoi dati risulta che nel 1951 erano 2.106, nel 1961 19.578, nel 1971 26.928 – una popolazione importante ed in costante aumento, perché si emigrava dal Salento?

La ragione è la stessa per cui si emigra oggi: la mancanza di lavoro, uno dei fattori principali che dà dignità all’essere umano in quanto lo rende in grado non solo di vivere ma di progettare il proprio futuro, cosa purtroppo oggi molto difficile. Tornando all’ambito storiografico, possiamo dire che in quel periodo si emigrava dal Salento a causa di un’economia già precaria ancora incentrata sull’agricoltura e sul piccolo artigianato che la guerra aveva ulteriormente messo a dura prova.

 

A partire grosso modo dal 1972 in avanti i rimpatri hanno eguagliato gli espatri, fino a sopravanzarli

Si, nella seconda metà degli anni ’70 il fenomeno dell’emigrazione, seppure ancora presente, si ridimensiona notevolmente. Sono molti coloro che decidono di ritornare in patria perché hanno raggiunto uno status economico migliore che gli permetterà, in molti casi, di poter portare a termine il progetto che li aveva indotti a partire, spesso la costruzione di una casa o l’apertura di una piccola attività.

 

Citi la dura vita dei migranti salentini ed italiani in Belgio, Germania e Svizzera soprattutto, ce ne vuoi parlare?

Parlando di questo argomento è molto facile cadere nel luogo comune e non è mia intenzione farlo.

Dalle testimonianze che ho avuto modo di leggere e ascoltare durante il lavoro di tesi possiamo dire con certezza che sicuramente l’emigrante, almeno all’inizio, non ha avuto vita facile. Ricordiamo che spesso i lavoratori che si recavano all’estero in quel periodo erano semianalfabeti, non conoscevano che gli usi e il dialetto del proprio paese natale. Si trovano improvvisamente catapultati in una realtà completamente diversa per costumi, lingua, economia. Molto spesso sono oggetto di diffidenza e di atteggiamenti xenofobi. Spesso le condizioni di lavoro, almeno nei primi anni, li espongono ad alti rischi, pensiamo alla tragedia di Marcinelle nel 1956.

 

Parliamo dei ritorni, evidentemente questi hanno avuto un impatto sociale ed economico importante sul Salento

Il momento del ritorno è un punto focale della mia ricerca, la condizione di straniero due volte è una condizione mentale legata molto spesso a questo momento. Mi spiego meglio: L’emigrante che dal Salento si sposta in un altro paese vive, al momento dell’arrivo, una prima condizione di estraniamento dovuta all’impatto con la nuova realtà. Se e quando deciderà di ritornare questo estraniamento si verificherà, in molti casi, in senso contrario. La comunità nella quale ritorna è cambiata rispetto al momento della partenza, non è più quella idealizzata durante la permanenza all’estero. Sebbene gli studi scientifici su questo aspetto dell’emigrazione siano davvero esigui o comunque non di carattere ufficiale, in base alle testimonianze di coloro che sono stati costretti a emigrare, si può pensare che in molti casi, il reinserimento potesse rivelarsi addirittura traumatico. Da un punto di vista economico, anche se si tratta di un ambito estraneo alla ricerca storiografica, e anche in questo caso spesso di fonti non ufficiali, si potrebbe dedurre che molto spesso le rimesse degli emigranti siano state usate per la costruzione o ristrutturazione di immobili, acquisto di beni mobili, lo studio dei figli. Ovviamente le interviste che ho avuto modo di consultare costituiscono solo un campione di indagine e una generalizzazione risulterebbe poco scientifica.

 

Oggi il Salento, ma l’Italia intera, è meta di immigrazione di massa da paesi in guerra, ma vede anche una emigrazione di giovani in cerca di lavoro. E’ possibile fare dei paralleli fra la situazione attuale e quella di cui parli nella tua tesi?

Ovviamente, le cose sono molto cambiate da allora ma fare un parallelo viene spontaneo. Le condizioni che spingono i migranti di oggi sulle nostre coste sono senza dubbio differenti da quelle che spingevano i nostri connazionali ad emigrare sessant’anni fa. Pertanto, per non cadere nella banalizzazione è opportuno distinguere, storicamente, i due fenomeni. Se da un lato, almeno dal punto di vista sociale, è facile paragonare i migranti di oggi ai nostri connazionali che emigravano nel dopoguerra, dall’altro è chiaro come le motivazioni che spingono i migranti ad affrontare il mare sui barconi sono più complesse.

É vero, ancora oggi seppure in modalità diverse si emigra dal Salento, ma i giovani che partono oggi molto spesso lo fanno con una laurea o un master in tasca a differenza dei loro nonni, sperando in una realizzazione migliore piuttosto che accettare lavori dequalificanti nel proprio paese.

É anche vero che, come testimoniano documentari e inchieste giornalistiche, c’è un ritorno delle partenze “all’avventura” ma non si può parlare di dati ufficiali senza consultare i dati statistici e non è mia intenzione addentrarmi in un campo che non mi appartiene.

Concludendo, posso dire che la ricerca che ho condotto, oltre a studiare il fenomeno dell’emigrazione da un punto di vista propriamente storiografico, ha voluto mettere in luce la condizione di emigrante come condizione mentale di perenne sospensione tra due mondi, una sorta di limbo in cui l’emigrante, suo malgrado, si è spesso perduto.

La pazienza? È agli sgoccioli

di Armando Polito

La menzogna, senza ritegno e ricorrente, contraddistingue le dichiarazioni di coloro che si sono impossessati del nostro destino, senza che la volontà popolare attribuisse loro quello che un tempo era considerato un onore ed un impegno da far tremare anche le persone più adatte ad interpretare quel ruolo, sinonimo di  consapevole e responsabile disponibilità al sacrificio e al servizio. La serie degli esempi eclatanti sarebbe pressoché infinita, perciò mi limiterò a ricordarne solo qualcuno. Un presidente del consiglio con aria da bullo e con un vocabolario degno di un promotore di vendite per anziani con annesso viaggio in pullman e pranzo a prezzi (solo del viaggio e del pranzo …) stracciati, promette che sparirà, politicamente parlando,  se il popolo avrà espresso parere negativo su una riforma da lui ritenuta d’importanza vitale; dopo la batosta, è sparito momentaneamente sì, ma solo per studiare come tornare al più presto in sella. Un ministro dell’economia, lui riconfermato non dico da chi …, ci rompe i timpani (ma, purtroppo anche altro …) mattina, pomeriggio e sera con la favoletta della granitica solidità del sistema bancario italiano e con l’assicurazione che i nostri conti sono a posto, mentre ogni banca mostra l’aspetto e il comportamento di uno zombie e l’Europa (avrà pure i suoi difetti, ma non sarà certo per caso che vi occupiamo, in tutto, compresa la famigerata litania della crescita, meno che per corruzione, l’ultimo posto …) gli tira le orecchie come la maestra all’alunno asinello che mostra di avere seri problemi con l’aritmetica. L’ISTAT dà i numeri, ma solo in senso metaforico … etc. etc.

Metti tutto questo in un quadro complessivo di delinquenza premiata, di onestà e merito umiliati, di corruzione eretta a sistema, d’ignoranza prorompente da tempo e, dunque, ormai sedimentata, di creatività (?) incompetente spacciata per genialità, d’incertezza della pena (anzi della sicurezza d’impunità) e non sarà necessario consultare il mago Otelma (magari invitandolo su una rete RAI con un compenso adeguato alla sua rilevanza sociale)  per sapere quale futuro attende noi e, quel ch’è più grave, i nostri figli e i nipoti, anche se la schiera di quest’ultimi si va riducendo progressivamente per i noti motivi di ordine demografico, da ricondurre anche loro, alla temperie culturale del nostro tempo, che si nutre sostanzialmente, anzi, quasi esclusivamente, di economia.

Più di cento anni fa, precisamente nel 1909,  il neretino Francesco Castrignanò scriveva una poesia, dal titolo Pacenzia, inserita con altre nel volumetto Cose nosce, ristampato, poi, nel 1968 dall’editore Leone di Nardò. Qui ne propongo la lettura con traduzione a fronte in italiano e qualche nota esplicativa in calce per gli amici non salentini, ma anche per qualche conterraneo più o meno giovane che quasi per ineluttabilità storica è condannato, come tutte le generazioni, ma oggi con un processo molto più accelerato, a fare i conti con situazioni per lui inconcepibili o con vocaboli obsoleti.

Per la serie le disgrazie non vengono mai da sole ho avuto poi l’infelice idea di far seguire sul tema un mio componimento con pari numero di strofe ed alternanza di rime e, per l’altra serie me la canto e me la suono, di corredare anche questo di qualche nota. L’idea sarà stata infelice, ma non intendo condannare nessuno all’infelicità, per cui: lettore avvisato mezzo salvato …

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a Corrisponde all’italiano cuneato (in riferimento alla sua forma).

b Voce infantile presente già in greco e in latino.

c https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/31/borbottare-meglio-strulicare/

d La variante ciuveddhi, non usata a Nardò, mostra ancor più chiaramente la derivazione dalla locuzione latina qui velles (=chiunque tu voglia). Alla lettera ceddhi significherebbe, dunque, qualcuno ma è sempre usato in frasi di significato negativo (non c’è ceddhi), anche quando, come nella nostra poesia,  il non che accompagna il verbo è sottinteso. L’omofono ceddhi è plurale di ceddhu =uccello) ed è, invece, dal latino tardo aucella, variante del classico avicella, diminutivo di avis.

e Corrisponde all’italiano gleba, che è dal latino gleba(m).

f Alla lettera fatico. Fatiàre e fatìa nel dialetto neretino sono sinonimi, rispettivamente, di lavorare e lavoro. È come se il salentino (quello di una volta …) desse per scontato che il lavoro è impegno fino allo sfinimento (qualcuno, invece, non esiterebbe a parlare di vittimismo …) e in tal senso si può dire che il lavorare stanca di Cesare Pavese è come la scoperta dell’acqua calda.

g Corrisponde, con differenziazione semantica, all’italiano cocci.

h Da in+il francese antico mucier (oggi mucher); trafila *inmucier>*immucier>*imbuccier>‘mbucciare.

i Corrisponde all’italiano letterario giamo.

 


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a Alla lettera: foglie.

b Probabilmente dal napoletano guagnì=piagnucolare, di origine onomatopeica.

c http://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/15/dallo-ntartieni-alla-playstation/

d Da ex (con valore estrattivo) e copulare; alla lettera togliere dall’accoppiamento, quindi scegliere.

e Da in+panna. Quando ci si addormenta è come se si scendesse la panna sugli occhi.

 

 

La terra d’Otranto nella prima carta moderna a stampa dell’Italia.

di Armando Polito

Con il moderna del titolo ho esagerato, ma solo di dieci anni per difetto. Mentre, infatti, il genovese Cristoforo Colombo scopriva l’America nel 1492, il fiorentino Francesco Berlinghieri aveva già nel 1482 pubblicato un’edizione in terza rima della Geografia di Claudio Tolomeo corredata da 31 tavole, del cui autore s’ignora il nome: 27 tolemaiche, cioè storiche, e 4 moderne. Queste ultime, in particolare,  facevano tesoro del patrimonio d’informazioni presenti nelle carte nautiche1 (promontori, porti, secche e simili). Nell’immagine di testa è riprodotta la tavola moderna  dedicata all’Italia (le altre alla Francia, alla Spagna ed alla Palestina), dalla quale ho tratto il dettaglio della Terra d’Otranto (per una sua più agevole lettura, e vale anche per l’immagine di testa, basta cliccarci sopra col tasto sinistro) che ora analizzeremo sotto l’aspetto toponomastico non senza avvertire prima il lettore che queste tavole, come ben sanno gli addetti ai lavori non solo abbondano di storpiature di trascrizione ma anche di marchiani errori di posizione di fronte ai quali la mappa di Soleto (VI secolo a.C.),  se è autentica, appare graffita quasi con l’aiuto di un rilevatore satellitare.

Non in questo cerco giustificazione delle mancate o dubbie identificazioni2 e sarò grato a chiunque vorrà colmare queste lacune.

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1 Per un raffronto :

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/17/a-pesca-in-rotta-verso-punta-palascia-con-a-bordo-una-vecchia-carta-nautica-ma-la-rete-e-di-ultima-generazione/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/07/la-terra-dotranto-in-un-portolano-del-xvi-secolo/

2 Nei portolano segnalato al terzo link della nota precedente tra vilanova e guacito si legge petrola; lo stesso,  tra Gagiti e Iannaro, in  quello segnalato al primo link. Questo Portola probabilmente ne è deformazione e perciò sarebbe da identificare con Petrolla, nome del primo nucleo di Villanova.

Per Asiam la posizione coincide quella dell’attuale Torre di S. Sabina, frazione del comune di Carovigno, ma la deformazione del nome della santa, da cui derivò quello della torre (in un inventario del  1396, pubblicato da Nicola Bodini in Per gl’ilustrissimi signori Dentice contro il comune di Carovigno ed il demanio dello Stato, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1885 si legge: Item locum et portum Sanctae Sabinae in quo est turris una discoperta=parimenti  il luogo e il porto di S. Sabina nel quale c’è una torre scoperchiata) sarebbe stata devastante; lo stesso vale per Mendelim (Mendelin nella carta di Pietro Coppo), probabile errore di trascrizione, ripetuto nel tempo,  del Manduris che si legge nella Tabula Peutingeriana (XII-XIII secolo). Per quanto riguarda Nerto, infine, esso appare forma italianizzata del Nertus che si legge nella carta d’Italia del veneziano Pietro Coppo (1470-1556) a corredo del suo De toto orbe rimasto manoscritto, nonché sincopata del volgare Nerito che è dal nome latino più antico di Nardò, Neretum  (la storia di questo toponimo, comunque, sarà estesamente illustrata e documentata, insieme con quella  dello stemma della città, in una monografia che dovrebbe essere pubblicata a breve).

Cosimo Morieri: ferro e legno… che passione

morieri
ph Antonio Carriero (vietata la riproduzione)

   

di Maria Antonietta Bondanese

Osserva, valuta, progetta. Con gesti sapienti realizza quindi piccoli e grandi manufatti.

Bambino di ieri, costruisce trottole (curupizzi), raganelle, rocchetti (yo-yo) evocando l’allegria e la spensieratezza dei passatempi di una volta, quando i giochi si facevano per strada, in gruppo, ‘armati’ di noccioli di frutta, sassi, tappi di bottiglia e tanta fantasia. Tutte le abilità venivano coinvolte allora nel gioco, si sviluppavano autonomia, riflessione, confronto.

Cosimo Morieri sorride mentre mi mostra il lancio della trottola, spiegandomi le regole di un’attività ludica semplice e festosa, ma ormai dimenticata.

La sua bravura nell’intagliare e levigare il legno traspare dalla ricchezza e varietà dei tanti capolavori in miniatura che esegue con precisione di dettagli e sagace fattura: macchinine, mortai, pipe, portacandele, cannoncini, “Pinocchi” dall’aria trasognata e orologi sentenziosi sul “tempo che passa”. Mai identici uno all’altro, pur nella ripetizione del soggetto, questi esemplari sono ‘unici’ perché prodotti non in serie ma uno per uno, in legno d’ulivo, con scrupolosa cura.

Nelle sue creazioni, Cosimo Morieri trasferisce le competenze, l’intelligente manualità e la passione del suo vecchio mestiere di idraulico e manutentore di macchinari, di una vita lavorativa da artigiano.

Ultimo di quattro figli maschi, Cosimo nasce il quattro gennaio 1955 da Alfredo Morieri e Leonilde Del Genio, e ‘respira’ con i fratelli più grandi Attilio, Michele e Luigi, l’aria degli anni Cinquanta, con le difficoltà, le attese e le speranze che anche a Supersano si vivevano, dopo l’incubo del secondo conflitto mondiale e i moti contadini di occupazione delle terre.

ph Antonio Carriero (vietata la riproduzione)
ph Antonio Carriero (vietata la riproduzione)

 

Nella convinzione che lo sviluppo economico e sociale nel Sud del dopoguerra passasse attraverso la riforma agraria, anche i braccianti salentini si erano infatti mobilitati, occupando le aree non coltivate nel comprensorio dell’Arneo. «Sulle terre incolte d’Arneo/ noi porteremo la vita ed il lavoro/ darem le terre a tutti coloro / a cui l’agrario per anni negò», cantavano i contadini tra il dicembre 1950 e il gennaio 1951. Accusato di favoreggiamento, subiva alcuni giorni di arresto anche Cesare Reho, segretario della Camera del Lavoro di Supersano, poi tra i primi a promuovere l’occupazione del latifondo nel nostro Comune, in contrada “Schillanti”. A mediare il contrasto con i proprietari De Marco, interverrà il dottore Rocco De Vitis che si adoperò per il frazionamento in piccole quote della zona “Schillanti”, assegnate con sorteggio a circa mille famiglie di Supersano. Di lì a poco, però, la Legge 634/1957 di “Rifinanziamento della Cassa per il Mezzogiorno” contribuì a spostare gli aiuti statali dall’agricoltura all’industria, con il conseguente esodo migratorio dalle campagne verso il Nord d’Italia e l’ Europa, da una parte e ,dall’altra, con lo sforzo di una emergente classe di imprenditori meridionali ad esplorare nuove strade per il riscatto e la trasformazione dell’economia locale.

A Supersano prosperavano piccole e grandi imprese, fabbriche del legno e officine del ferro dove con molta perizia si realizzavano oggetti il cui fascino balza vivo nei ricordi di Cosimo Morieri, nelle cui opere in ferro battuto si riflette quella maestria e quella cultura della manualità. Lavorando con pinze e martello, seghetto e tronchesi, Cosimo ottiene da tondini di ferro di diverso spessore forme di estrema eleganza ed espressività per “quadri” di dimensioni variabili, dai più piccoli a quelli grandi fino a 2.34 x 1.40 m. «Il ferro l’ho sempre maneggiato a freddo», dice indicandomi la morsa che va utilizzata con energia, a forza di braccia, per materializzare figurazioni di sogno. Delicate farfalle, fanciulle seducenti, idre fantastiche e mitici eroi che non destano stupore in questo lembo di Finisterrae, ponte aggettato verso la classicità greca, luogo di transito di civiltà, centro di diffusione dell’arte testimoniata dagli affreschi delle tante cripte basiliane come la Coelimanna di Supersano e del pensiero, attestato dal paziente lavoro degli amanuensi di Casole, capace di trapassare gli spessi muri del monastero e del tempo per giungere fino a noi.

Figlio di una terra dove le pietre, le tradizioni religiose, la musica della taranta evocano una magia permanente, Cosimo Morieri ne traduce, a proprio modo, la seduzione per intero.

L’incanto del passato, della storia torna nello straordinario “velocipede” che Gina De Donatis, da quarant’anni felice consorte di Cosimo, mi mostra sorridente. Cosimo ne ha realizzati due esemplari, uno in legno e l’altro in ferro, da lui stesso verniciato d’azzurro.

Di poche parole, ma cordiale e sincero, Cosimo ci addita forse, con l’antico prototipo dell’odierna bicicletta, la via per ricominciare a “pedalare”, a guardare avanti con fiducia al futuro.

 

 

I due Antonio nella pescheria, cicorie e finocchi dal sapore di neve

boccadamo 

di Rocco Boccadamo

Anche stamani, veloce puntata, sempre piacevole e gradita, nei miei conclamati luoghi dell’anima, Castro e Marittima, con immancabile passaggio, e conseguente fugace sguardo innamorato, al cospetto dell’insenatura “Acquaviva”, minuscolo sito naturale di struggente bellezza.

Come accade di solito, la prima sosta della “Golf” è sull’uscio della pescheria per antonomasia della Perla del Salento, già “Adriatica” o “Cooperativa Adriatica”, da qualche tempo, invece, portante la denominazione di “Mediterranea” e gestita da (O)Ronzino.

Oggi, dopo circa una settimana di serio condizionamento, se non d’integrale fermo, arrecato alla locale gente di mare dalle eccezionali precipitazioni nevose, per di più, a tratti, accompagnate da forti soffi di tramontana, sì da assumere le caratteristiche di autentiche bufere, il bancone di vendita dell’esercizio si presenta ben rifornito, segno che gli amici castrioti che vivono di pesca hanno avuto agio di riprendere la loro attività.

Presenti numerosi avventori, a catturare il mio sguardo, in particolare, una cassetta di sontuose orate, un’altra di freschi calamari di grossa dimensione, apprezzabili quantitativi di triglie, merluzzi e ricciole e, poi, cefali, salpe, ombrine, pesci serra e boghe in abbondanza.

A parte il vasto assortimento ittico, durante la mia sosta da Ronzino, sfociata nell’acquisto di due calamari, un merluzzo e una salpa, sono stato colpito da un estemporaneo, simpatico duetto fra due amici pescatori, entrambi portanti il nome del Santo di Padova: Antonio ‘u (figlio di) Nunzio, un gioviale gigante con i baffi, capo barca del natante consortile qui chiamato “chianci” e Antonio, figlio di Adriano e per nonno un altro Antonio, un ragazzone/omone prossimo ai trent’anni, facente parte (forse, è l’elemento più giovane) dell’equipaggio dell’anzidetta “chianci”.

I due omonimi, oltre a lavorare a bordo del barcone, sono anche proprietari di battelli personali che, quando il mezzo grande è a terra o non esce, utilizzano per svolgere attività di pesca, diciamo così, individuale.

Nella circostanza, si trovano nell’esercizio commerciale esattamente in veste di operatori in proprio e si accingono a conferire il frutto del loro lavoro, riposto in semplici sacchetti di plastica.

Il turno, spetta per primo ad Antonio il giovane, il quale depone sul piatto della bilancia, in ordine, un certo quantitativo di ombrine e pesci serra, a seguire un po’ di scorfani ancora vivi e, alla fine e con tanta cura e accortezza, un prezioso esemplare (mezzo chilogrammo di peso) di cicala.

Trascorrono alcuni minuti per la consegna del suo pescato, non dimostra di aver fretta Antonio marinaio semplice, tanto è che, a un certo punto, l’altro, il comandante, sbotta, celiando sorridente: “Ma insomma, non finisci mai, tu, quanta roba hai preso?”.

E il povero, a schermirsi, confidando e lamentando che il ricavato di oggi sarà a mala pena sufficiente a compensare la spesa per la riparazione di un guasto occorsogli al salpa rete.

Il secondo Antonio, a sua volta, depone sulla bilancia un’ombrina e un pesce serra di medie dimensioni.

Con questa scena, termina la mia visita alla pescheria, passo, quindi, a bere un caffè alla “Chianca” e rimonto in macchina.

Appena un centinaio di metri più avanti, sfioro due altri castrioti, i quali, approfittando subito del sole piacevole e al fine di recuperare i giorni trascorsi inevitabilmente tra le mura domestiche, hanno appena intrapreso, come spesso fanno, una passeggiata lungo la litoranea. Scambio di saluti al volo, auguri per il nuovo anno e via.

Di lì a poco, sono all’altezza della mia cara insenatura “Acquaviva”, arresto d’istinto il motore e catturo, intensamente sino a lasciarmelo penetrare dentro, l’azzurro splendente della piccola distesa, incuneata fra i suoi due costoni fino a ieri chiazzati di manto candido.

Guadagno casa mia, compiendo anche una leggera scivolata, per fortuna senza danni, su un tratto di cortile ancora ghiacciato, per cambiarmi le scarpe e attrezzarmi con un paio di guanti che adopero per i lavori agricoli.

L’obiettivo è di cercare di recuperare, da minuscolo coltivatore diretto per la prima volta chiamato ad affrontare i postumi di una nevicata addosso alle coltivazioni orticole in un vicino giardino e alla Marina ‘u tinente, qualche pianta di cicoria e un po’ di finocchi.

Per buona sorte, le piante in discorso non sono state bruciate dal gelo e si presentano ancora in vita, seppure parzialmente ammaccate e con le foglie spiegazzate.

Ad ogni modo, mi va bene; mentre maneggio, ai fini della raccolta, un comune coltello da cucina, provo una sensazione strana e inedita nel contatto con quegli ortaggi frammisti alla terra, già rossa e ora umidiccia e abbrunitasi, e ai residui nevosi.

Tuttavia, a prevalere sono certamente sentimenti di contentezza e di appagamento per le immagini e i frutti concreti del mio odierno breve ritorno ai luoghi natii e/o delle vacanze durante le belle stagioni.

Idealmente e interiormente ben sostenuto, subito dopo mezzogiorno, riprendo la “Golf”, arrivando a varcare la soglia dell’abitazione cittadina puntualmente per il pranzo.

Il freddo passa, le parole restano

di Armando Polito


* Senza questo freddo e se non avessimo il pelo lungo, ci tratterebbe così?

 

Qualche giorno ancora e la nevicata che ha insolitamente imbiancato il Salento sarà relegata nell’album dei ricordi, dopo aver vissuto qualche ora di gloria su Facebook e simili, grazie a riprese, anche con i droni, impensabili fino a qualche anno fa, il che ha consentito a noi del profondo sud di enfatizzare un evento eccezionale per la nostra latitudine e a coloro che vivono al nord di ironizzare in modo non sempre garbato, a riprova che anche l’imbecillità non dipende dai paralleli.

Le espressioni in dialetto neritino che ora riporterò forse hanno avuto in questi giorni una frequenza d’uso superiore ad altre alludenti al mangiare, al dormire ed all’andare al bagno …

Comincio da quelle che hanno un corrispondente più o meno letterale in italiano e per le quali, dunque, non c’è bisogno di nessuna nota supplementare.

sta mmi scela: sto raggelando (alla lettera [il freddo] mi sta gelando)

sta ‘ntrìzzulu=sto intirizzendo

sta ‘ntrizzulèsciu=sto intirizzendo oltremodo (forma intensiva della precedene)

aggiu ‘ggiuncatu1 pi llu friddu: mi si sono irrigidite le membra per il freddo

Ho lasciato a bella posta per ultima l’espressione che segue,non solo perché si riferisce alla fase più critica successiva ad una nevicata (o ad un abbassamento notevole e repentino della temperatura) ma anche per l’assoluta poeticità, frutto di un’antica partecipazione affettiva agli eventi, che il dialetto mostra più spesso di quanto non faccia la lingua nazionale.

l’acqua è ‘ncitrata=l’acqua ha formato uno strato superficiale di ghiaccio: da in+citrare e quest’ultimo da citru. Le varianti, sempre salentine, chitru e chjitru denotano la derivazione dal greco κλεἵθρον (leggi clèitron)=sbarra, barriera. Κλεἵθρον, a sua volta,  è parente di κλείϛ (leggi clèis), genitivo  κλειδός (leggi cleidòs)=paletto, chiave;  tutti derivati da κλείω (leggi clèio)=chiudere. Per completare il quadretto filologico aggiungo che paralleli al greco κλείϛ sono i latini clavis (da cui l’italiano chiave e derivati) e clavum (da cui il toscano chiovo e l’italiano chiodo); per completare quello poetico ricordo che ‘ncitrare si dice pure dell’olio e, questa volta  indipendentemente dalla temperatura, del miele e protagonista qui non è il ghiaccio ma lo zucchero.

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1 Dal centro-meridionale cioncare, a sua volta da cionco=mozzo, sciancato

Nardò e il ponte perduto

di Armando Polito

 

L’immagine è un dettaglio della mappa di Nardò pubblicata da Jean Bleau nel 1663 in Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum (Rappresentazione delle città nonché delle cose degne di ammirazione dei regni  di Napoli e di Sicilia).

Questo post ruota tutto attorno al dettaglio n. 4 che nella didascalia presente nella stessa mappa è così descritto: Altra Porta falsa. Della prima mi ero occupato non molto tempo fa in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/12/30/nardo-un-passaggio-antiallagamento-del-xvii-secolo-zona-parapuerti/. Il dettaglio del n. 4 più che di una porta falsa (che, in estrema sintesi è un varco più piccolo di una porta normale aperto nelle mura per far defluire l’acqua piovana) ha l’aspetto di un vero e proprio ponte, molto simile a quello di cui mi sono occupato nel post il cui link ho appena segnalato (insomma, chi vuole capirci qualcosa, è obbligato a leggerlo se non l’ha fatto a suo tempo, a rileggerlo per capire meglio …). Ci sono, però due differenze fondamentali: quello era al di fuori delle mura, questo è dentro; quello presentava le estremità in declivio, come si addice ad un ponte, questo le presenta mozze e, in più, quella di destra appare saldata ad una fabbrica di pianta quadrata, che dà l’idea di un posto di guardia più che di abitazione civile. A pochissima distanza sorge R, la cui descrizione nella didascalia recita: S. Lucia Cappella. La piccola chiesa esiste ancora oggi, trasformata, però, dal trascorrere del tempo. La descrizione che ne dà, sulla scorta delle visite pastorali,  Emilio Mazzarella (in Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 1999, p. 136) sembra coincidere perfettamente con la rappresentazione che ne dà il Blaeu: In epoca antichissima, quasi alla periferia della città, nel luogo detto volgarmente Paraporti, oggi via S. Lucia, fu edificata la chiesa a Lei dedicata. Sita tra la diruta abitazione degli eredi di Carlo Dell’Abate e tre pubbliche vie, aveva copertura a tettoia, due porte, la più grande verso occidente, la più piccola verso settentrione, sulla parete della porta maggiore il campanile con una campana del peso di tre libre … La chiesa, divenuta pericolante e quasi cadente, dal rettore Francesco Presta fu abbattuta  e con l’incoraggiamento ed il contributo di Antonio Sanfelice e offerte di fedeli fu ricostruita nel 1725. A tale epoca risale l’aspetto attuale della chiesetta. In nota altre informazioni: … nella visita del Granafei1, c. 196v., risultava ubicata ad locum quem paraporti vocant, nel vicinio S. Maria de Candelora, seu S. Lucia.

Tornando al nostro ponte misterioso bisogna dire che Nardò con tale struttura ebbe molta dimestichezza (vedi a a tal proposito https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/02/nardo-e-venezia-un-gemellaggio-a-modo-mio/), ma la sua presenza all’interno della città, notoriamente dalla falda freatica molto superficiale ma non tanto da creare da sola un fiume, pone interrogativi circa la sua funzione. Che servisse a proteggere dall’allagamento quella parte della città, convogliando  le acque (grazie, comunque. alle opportune pendenze) a defluire  verso il varco più vicino, cioé Porta Castello?.

Agli amici ingegneri ed architetti la risposta.

In attesa del loro competente, graditissimo riscontro, chiudo con la consueta immagine (tratta ed adattata da GoogleMaps) dello stato attuale dei luoghi. Ho evidenziato con l’ellisse il punto dove presumibilmente era ubicato  lo strano ponte.

Ciò che bisogna sapere sulle uova

gallin

di Massimo Vaglio

E’ nato prima l’uovo o la gallina? Secondo la scienza, l’uovo. Le prime uova di uccello risalgono a duecento milioni di anni fa, mentre le uova fossili più antiche ritrovate appartenevano a rettili, deposte ben trecentocinquanta milioni di anni fa dai captorinomorfi, il gruppo di rettili più primitivo.

Storicamente l’uovo è sempre stato l’emblema di vita nuova, la metafora della rinascita dei corpi e della natura. I più antichi allevatori di polli molto probabilmente furono gli Egiziani che come testimoniano lo storico greco Diodoro Siculo nella narrazione di un suo viaggio in Egitto e Varrone, nella sua opera “Rerum rusticarum libri”, avevano inventato anche un sistema di incubazione artificiale delle uova. I Cartaginesi, mangiavano uova di struzzo, i Greci uova di gallina, e il medico greco Galeno affermava che non dovessero mai mancare nella dieta di una persona anziana. I Romani, le inserivano nei dolci, nei contorni di salse e lo consideravano un eccellente alimento per la colazione. Anche i Messapi, molto probabilmente avevano queste abitudini, data l’estrema diffusione delle uova nei corredi funerari, metafora sia alimentare sia dell’inizio di un percorso del defunto nell’Oltretomba.

Per il leggendario Bertoldo, contadino rozzo di modi, ma di mente acuta, tanto da divenire consigliere del re, ma anche per il sommo Dante, l’uovo con il sale è il miglior alimento al mondo.

Le uova più consumate sono quelle di gallina, dal gusto gradevole, dal basso costo, versatili nella preparazione, molto importanti per via delle loro proprietà nutrizionali. Il colore del guscio dell’uovo è influenzato solamente da fattori genetici e non ha alcuna rilevanza sulle proprietà nutritive o su quelle sensoriali. Di norma le uova a guscio bianco derivano da razze di ceppo europeo, quelle a guscio colorato derivano da razze di ceppo asiatico o da ibridi da esso derivate quali quelle classiche rossicce, monopoliste nei nostri allevamenti intensivi e che rispondono al nome di Isa o Warren B .

La gallina di razza Livornese, che è una gallina ad altissima produttività che ben si adatta all’allevamento intensivo, produce delle uova bianche mentre quelle della gallina Padovana sono rosate o marroncino. Vi sono delle razze, come la Araucana, che addirittura producono uova dai riflessi verdi o azzurrini.

In alcuni paesi, come gli Stati Uniti come in molti altri paesi europei, i consumatori preferiscono acquistare uova dal guscio bianco, mentre in Italia le uova in commercio sono quasi sempre colorate. Prima che la globalizzazione omologasse tutto, anche nel Salento la produzione di uova era localmente assicurata dalla gallina Leccese, una razza autoctona di grande rusticità e produttività. Gli allevamenti erano generalmente costituiti da nuclei di alcune decine di unità distribuiti fra le migliaia di masserie e strutture rurali sparse in tutto il territorio.

La distribuzione delle uova era assicurata dai cosiddetti: “ccatta e vindi”, piccoli commercianti che con mezzi spesso di fortuna perlustravano in lungo e in largo le campagne ritirando la produzione in cambio di un corrispettivo in denaro, ma ancora più spesso in cambio di prodotti generalmente non agricoli: sapone, varechina, lame da barba, piccola utensileria domestica…

Alcune curiose costruzioni rurali, ormai divenute piuttosto rare testimoniano di come a supporto di questa produzione, vi fossero degli originali quanto particolari ricoveri, i cosiddetti “puddhrari”, minuscole costruzioni trulliformi che sorgevano generalmente a ridosso delle aie, onde le galline potessero per alcuni mesi trarre autonomamente sostentamento razzolando e ruspando tra le montagnole di pula. Inoltre su quasi tutte le terrazze cittadine venivano allevati dei piccoli nuclei di galline per il fabbisogno familiare.

Comunque questo allevamento, raggiunse nel Salento, punte d’eccellenza negli anni Trenta del secolo scorso quando ad opera di alcuni tecnici, e in particolare del Dott. Raffaello Garzia venne iniziato, presso l’allevamento di Torrepinta, un lavoro di selezione e miglioramento della locale razza di polli. Questi, presentati ad un’importante rassegna del settore presso il Littoriale di Bologna furono oggetto di grande considerazione, in quanto i dati riflettenti il loro peso medio e la deposizione delle uova, confrontati con quelli altre razze di importazione: Rhode Island Red, Plimouth Rod Barrata ed altre, dimostrarono la grande validità della razza nostrana. Inoltre per la promozione di questa razza furono in seguito impiantati presso le scuole agrarie i cosiddetti pollai provinciali, ma l’introduzione di nuove razze ibride a piumaggio bianco, atte all’allevamento in batteria fecero presto decadere questa pregevole iniziativa, tanto che la razza è stata per molto tempo ritenuta estinta. Solo ultimamente sono stati fortuitamente recuperati alcuni relitti zoonomici ritenuti compatibili con la razza locale ed è stato iniziato un promettente lavoro di recupero.

Dal punto di vista nutrizionale occorre rilevare come esse essendo prive di carboidrati e di fibre, non possono essere considerate un alimento completo. Ciò le rende però particolarmente digeribili, per cui adatte per l’alimentazione di piccoli e anziani. Le uova sono ricche di ferro in una forma che viene assorbita con difficoltà, per cui per facilitarne l’assorbimento, dovrebbero essere consumate nello stesso pasto insieme a cibi ricchi di vitamina C.

I tuorli sono ricchi di lecitina, una sostanza biologicamente preziosa di cui ha bisogno ogni cellula del corpo. Midollo osseo, cervello, fegato, cuore sono ricchissimi di lecitina. Anche se è un grasso, non viene vista come fonte di energia, ma è responsabile di compiti vitali nelle membrane cellulari, soprattutto nel tessuto nervoso.

Tra i luoghi comuni che caratterizzano le uova, vi son quelli che lo ritengono un alimento troppo ricco in colesterolo. In realtà, circa l’ottanta per cento del colesterolo presente nel nostro sangue viene prodotto fisiologicamente dall’organismo e solo il venti per cento dipende dalla nostra alimentazione. Di conseguenza, modificando il nostro modo di mangiare, possiamo variare solo questa minima percentuale, regola che ovviamente va presa con le pinze in caso di persone che soffrono di ipercolesterolemia o di calcoli alla colecisti, che devono comunque stare particolarmente attente. Diciamo comunque che due-tre uova a settimana possono essere tranquillamente mangiate.

L’alto contenuto di proteine fa si che l’uovo possegga un elevato indice di sazietà, la ricchezza di carotenoidi, luteina e zeaxantina lo rende importante nella prevenzione della malattie oculari legate all’invecchiamento, in particolare riducendo l’insorgenza della degenerazione maculare.

Le uova sono fonte di colina, necessaria per la sintesi dell’acetilcolina, il neurotrasmettitore fondamentale nelle aree cerebrali, utile per prevenire i difetti cognitivi. La colina ha anche un’azione epatoprotettrice, quindi coloro che soffrono di patologie croniche a carico del fegato possono consumare uova moderatamente, purché non siano fritte o sotto forma di salse.

Molto importante è, ai fini di una facile digestione, il metodo di cottura, tenendo presente che è necessaria un’ora per digerire un uovo alla coque, un’ora e mezzo per l’uovo crudo, due ore e mezzo circa per l’uovo sodo e tre ore per quello fritto. Sempre nell’ottica di voler rimuovere falsi luoghi comuni possiamo affermare che un guscio vellutato è indice di uovo fresco, mentre uno lucido e levigato è indice di un uovo conservato a lungo.

La colorazione giallo-arancio del tuorlo è dovuta alla presenza di pigmenti, le xantofille, chimicamente simili al carotene, precursore della vitamina A, ma che non possono essere trasformate in questa vitamina. L’intensità cromatica del tuorlo dipende dal mangime somministrato alle galline ovaiole: per ottenere tuorli color arancio intenso, ad esse viene distribuito mais oppure mangimi ricchi di lipidi o integrati con additivi pigmentati ad esempio con paprica.

“Tutto ciò che abbonda e vile”, così ebbe a rilevare già nel XII secolo, Isidoro di Siviglia, rivolgendosi al fagiolo, per spiegare che era la rarità e non l’abbondanza a determinare è la qualità percepita di un prodotto. In parole povere, se le uova di gallina fossero rare come quelle di storione, molto probabilmente le parti e le relative quotazioni si invertirebbero. Ciononostante, trovandosi d’avanti un paio di uova fumanti provenienti da galline che ruspano felici in una campagna incontaminata è difficile che non ci si senta un po’ tutti dei privilegiati.

Ventagli d’autore per santi patroni

ventaglio devozione san Pantaleone con sante marine

Il Vento Devoto

Ventagli d’Autore per Santi Patroni di Antonio Chiarello

Storia, immagini, collezioni di un oggetto devozionale

 

Dopo varie tappe nel basso Salento, la mostra itinerante “Il Vento Devoto” fa tappa a Novoli in occasione dei festeggiamenti per S. Antonio Abate e la relativa Fòcara.

Progetto artistico /editoriale ideato da Antonio Chiarello, è la rivisitazione in chiave artistica delle popolari “intalore”, ventagli che si vendono presso i santuari del Salento (e non solo) raffiguranti l’effigie dei Santi Patroni del luogo.

Per questa tappa l’autore ha preparato una speciale edizione in tiratura limitata del ventaglio con l’immagine della statua novolese da un lato, e dall’altro una sua personale rappresentazione della Fòcara.

La mostra, allestita nella chiesetta ottagonale di S. Oronzo in piazza Mercato, comprende la collezione dei ventagli storici, le rivisitazioni finora fatte dall’autore, una sezione fotografica sul suo utilizzo folklorico nel tempo, il tutto in una particolare installazione di luminarie e nastrini colorati (“zagareddhe”).

Accompagna la mostra il relativo volumetto che raccoglie gli scritti di Giuseppe Palumbo, presentato dal Prof. Eugenio Imbriani, demo-antropologo, e un’intervista all’ultimo costruttore di ventole Antonio Latino di Galatina.

Si inaugura martedì 10 alle ore 18, con i saluti di Gian Maria Greco, Presidente Fondazione Fòcara e del Sindaco di Novoli; a seguire interventi di Don Luigi Lezzi, parroco di Novoli, e presentazione di Eugenio Imbriani dell’Università del Salento.

chiarello

Luogo : Chiesetta Sant’Oronzo -piazza Mercato NOVOLI

Date :   dal 10 al 18 gennaio 2017

Orari : dalle 17 alle 20,30

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