Nel condurre una ricerca su un argomento che chiamava anche in causa una delle più illustri figure salentine, quale quella di Scipione Ammirato, “storiografo tra i più avveduti, prosatore eccellente e poeta, attento e sensibile ai fatti politici, versato nella genealogia e nella diplomatica […] variamente impegnato nei molteplici campi della scienza”, ho avuto modo di rintracciare e di acquistare dal mercato dell’antiquariato, un ritratto, seguito da quattro pagine di biografia, del grande storiografo leccese. La stupenda immagine faceva parte di una serie di grandi ritratti incisi in rame cm 30 x 20 ca., alla lastra su foglio di carta forte cm 46 x 36 raffiguranti “Personaggi illustridella Toscana” stampati a Firenze in un periodo che va dal 1763 al 1773 e incisi per lo più da Francesco Allegrini, Raimondo Faucci, Gastone Vasellini, Giuseppe e Cosimo Zocchi, da disegni di G.Zocchi e Traballo.
I ritratti (di pittori, scultori, architetti, poeti, letterati, storici ecc. fiorentini) sono straordinariamente intagliati a bulino, sono di grande effetto decorativo ed ognuno è corredato da 3/4 pagine di testo biografico a sua volta abbellito da almeno una stupenda testata, finale e iniziale e sono incisi in rame.
Non può stupire il ritrovare l’Ammirato in questa galleria di illustri Fiorentini, accanto a ingegni come Giotto, Brunelleschi, Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, Guido Cavalcanti, PietroAretino, Cosimo dei Medici, tanto per fare dei nomi, in quanto egli, com’è noto, pur essendo nato a Lecce il 7 ottobre del 1531 da Iacopo e da Angiola della nobile famiglia Caracciolo di Brindisi, visse anche per più di trent’anni a Firenze e a questa città e alle sue vicende dedicò molte sue innumerevoli opere.
Entrato nelle grazie della famiglia de’ Medici (da cui ebbe l’autorizzazione ad usare la documentazione dell’archivio fiorentino istituito nel 1570), qui completò infatti le sue ricerche di genealogia, aggiungendo alle Famiglie nobili napoletane le Famiglie nobili fiorentine, qui oltre a dedicarsi alla poesia, realizzò opere di notevole importanza come le Istorie Fiorentine e i Discorsi sopra Cornelio Tacito ottenendo anche di svolgere l’incarico di canonico della Cattedrale Fiorentina dopo essersi laureato in teologia e in sacra scienza il 23 gennaio 1595, qui lo colse la morte il 31 gennaio del 1600.
Il ritratto del “canonico fiorentino”, come appare dalle indicazioni che lo accompagnano, è stato inciso nel 1763 da Francesco Allegrini su disegno di GiuseppeZocchi e ad esso segue, come già riferito, il relativo testo biografico, o più precisamente, un “elogio” a firma di un certo G.P. (sono riportate a conclusione solo le iniziali) non identificato.
Da alcune indagini fatte, esso risulterebbe una testimonianza iconografica poco conosciuta, o più giustamente, non sufficientemente valorizzata nell’ambito dei vari studi bio-bibliografici che sono stati portati a compimento su questo Salentino dalla vasta cultura, tenuto in notevole considerazione dai contemporanei per la serietà e la profondità delle sue ricerche. Il ritratto è stato pubblicato solo nel 1959 da Rodolfo de Mattei, uno degli studiosi italiani più noti di S. Ammirato a corredo del saggio Il pensiero politico di Scipione Ammirato IV: Varia fortuna dell’Ammirato. Appendici: Opere e stampe: Codici pubblicato su Studi Salentini (VIII) del dicembre dello stesso anno, con la didascalia “Ritratto di Scipione Ammirato desunto da un quadro dell’epoca”. Nessun’altra nota di rilievo o esauriente spiegazione accompagnava questa fonte già pubblicata in precedenza dal Mattei, il quale aveva appunto dedicato gran parte della sua vita a compiere ricerche “non solo rivolte alla interpretazione delle dottrine (politiche, economiche, militari, storiche), ma anche alla raccolta amorevole ed appassionata di materiale bibliografico raro” sullo scrittore leccese del Cinquecento.
Occorre a questo punto ricordare, anzitutto, che si conoscono altri ritratti utilizzati a corredo di alcune sue opere o di sue biografie inserite in repertori di uomini illustri. Uno dei più interessanti (tra quelli da noi individuati) è pubblicato a piena pagina, inciso su rame, nella prima parte delle Famiglie Nobili Fiorentine, dedicate al Seren.mo Cosimo II Gran Duca di Toscana IV e pubblicate a Firenze appresso Gio. Donato e Bernardino Giunti e Compagni nel 1615. Lo stesso viene poi totalmente riproposto, ancora a piena pagina e inciso su rame, senza alcuna variazione di rilievo in apertura della seconda parte delle Istorie Fiorentine, dedicate al Serenissimo et Potentissimo Principe Ferdinando II Gran Duca di Toscana, stampate a Firenze nel 1641 nella Stamperia Nuova d’Amador Massi e Lorenzo Landi. Ciò che contraddistingue questi due ritratti che raffigurano l’Ammirato (con lo sguardo orientato a sinistra) in una cornice circolare posta al centro di un’edicola arricchita da fregi, è l’iscrizione dotata dello stemma nobiliare (inquartato dal Foscarini con d’argento, alla sbarra di nero caricata di un cane corrente al naturale) dalla quale si rileva l’anno in cui il ritratto stesso venne eseguito, il 1598, quando cioè l’Ammirato “CANON. CUS FLORENT. US ET RER. FLORENTINARUM SCRIPTOR” era “Agens annum LXIIX” ovvero era ancora vivente e aveva l’età di 68 anni.
Per quanto riguarda i repertori troviamo raffigurato L’Ammirato in Elogi d’huomini letterati scritti da LORENZO CRASSO, pubblicati a Venezia per Combi e La Noù nel 1666. Al ritratto inciso segue anche una breve biografia dello storico salentino, seguita da una strofa, elogiante lo storico, dell’Accademia della Crusca per le Storie Fiorentine nonchè da una Elegia ad Scipionem Ammiratum di Bernardino Rota e da un sonetto di quest’ultimo. Viene anche riprodotta un’epigrafe latina relativa all’Ammirato collocata nell’altare maggiore della chiesa di S.Chiara in Lecce nel 1613.
Lo ritroviamo ancora nelle Vite de’ Letterati Salentini scritte da Domenico De Angelis e pubblicate a Firenze nel 1716; nella Vita degli uomini illustri del Regno di Napoli a cura di Nicola Morello Gervasi inciso dal Biondi, seguito dalla biografia sull’Ammirato redatta da Andrea Mazzarella da Cerreto (le vite ornate dei rispettivi ritratti, furono compilate da diversi letterati nazionali dell’epoca e stampate ai primi dell’800); nel II volume delle Istorie Fiorentine (con l’aggiunte di Scipione Ammirato il Giovane) stampate a Firenze nel 1824-1827 per L. Marchini e G.Becherini; risulta, infine, a corredo illustrativo della ristampa dell’Apologia Paradossica di I.A. Ferrari, curata da Alessandro Laporta e tratto da il Poliorama Pittoresco stampato a Napoli nel 1838.
Confrontandoli tutti si nota, che essi hanno un comune punto di riferimento, la stessa e unica “matrice” figurativa, e che si differenziano tra loro quindi solo per alcuni accorgimenti “estetici” o “coreografici” usati dal pittore o dall’incisore, mentre mantengono intatti la fisionomia e i costumi del personaggio immortalato in un’età ormai abbastanza avanzata. Tra questi ultimi citati, molto semplici nell’esecuzione (la solita figura nel riquadro circolare orientata invece verso destra) si distingue quello del De Angelis per l’iscrizione e lo stemma posti alla base (la stessa che risulta in quelli, già ricordati, delle Famiglie Nobili Fiorentine e nelle Istorie Fiorentine) nonchè per la grandezza della figura e il riquadro, molto più lineare e più semplice, al cui centro è collocata la figura stessa. L’analisi di tutte queste fonti era necessaria per capire l’importanza (a nostro avviso) del ritratto di cui si è parlato all’inizio, inciso come già detto nel 1763 da Francesco Allegrini su disegno di Giuseppe Zocchi.
Questa raffigurazione, posta rispetto agli altri, in una cornice di forma quadrata anzichè circolare pur conservando la consueta fisionomia e gli stessi abiti, si distingue però nettamente da quelli già esaminati, oltre che per la grandezza e la qualità dell’incisione che magistralmente e con maestosità mette in risalto la figura dell’Ammirato, soprattutto per l’iscrizione posta alla base della figura stessa che oltre a ricordare alcuni dati biografici, fornisce indicazioni su quella che diverrà la “matrice” iconografica del grande storiografo salentino.
Si legge testualmente:
“SCIPIONE AMMIRATO
CANONICO FIOREN.NO. ANTIQUARIO, E SCRITT.RE
DELL’ISTORIE FIOREN.NE E D’ALTRE OPERE,
nato in Lecce nel MDXXXVIII morto in FIRENZE nel MDC
Al merito singolare dell’Illmo Sig:re Luigi Tempi
Patrizio Fiorentino, e Marchese del Barone
Preso da un quadro in Tela lasciato dal med.mo Scipione
per legato al Clar:mo Sig:re Sen:re Andrea Minerbetti
uno degli Esecutori del suo Testamento;
oggi app(ress)o l’Ill.mo Sig. Andrea Minerbetti Boni.
Dall’iscrizione emerge dunque che il ritratto voluto per “merito singolare” del Patrizio Fiorentino Luigi Tempi fu preso da un quadro lasciato per legato dallo stesso Ammirato ad uno degli esecutori del testamento stesso e cioè Andrea Minerbetti e che poi è rimasto in seguito in eredità ai membri della stessa famiglia. All’epoca infatti in cui veniva eseguita l’incisione, nel 1763, il quadro era ancora presso l’illustrissimo Signore Andrea Minerbetti Boni. È, quindi, da questa tela che è stato ricavato il primo ritratto pubblicato in incisione nella prima parte delle Famiglie Nobili Fiorentine stampate nel 1615, tela che evidentemente era stata eseguita (come risulta dalla già citata iscrizione) quando l’Ammirato aveva 68 anni.
Successivamente, ad esso faranno poi riferimento come si è visto, tutti gli altri scultori e incisori, ad eccezione dell’Allegretti che si servirà appunto (e per nostra fortuna ricordandolo) della fonte originale. Per quanto riguarda l’elogio, infine, abbellito da una stupenda testata che riproduce la veduta di una città (certamente Firenze) e dall’iniziale S incisa in rame che è un piccolo capolavoro, esso è stato ricavato, come viene ricordato alla nota I in margine (!… a noi è servito di guida in questo Elogio) dalla biografia dell’Ammirato che G.M. Mazzuchelli riportò in Gli scrittori d’Italia, cioè notizie istoriche intorno alle vite e agli scritti letterati italiani, vol.I, p. II, stampati a Brescia nel 1753 presso G.B. Bossini. L’elogio è intitolato a “Scipione Ammirato il Vecchio” per distinguerlo da Cristoforo di Francesco del Bianco, che fu erede delle sue sostanze, del nome, e del cognome di Scipione.
In virtù di tale testamento egli mutò il suo nome in quello di Scipione Ammirato il Giovane. Questi seppe essere riconoscente nei riguardi dello storiografo leccese in quanto curò la pubblicazione postuma di molte sue opere alle quali “non mancavano nè l’impostazione nè il rigore filologico tipicamente suoi”. Grazie a lui “la grandezza intellettuale e la sua opera continuarono così anche dopo la sua morte”.
Ad esempio curò la pubblicazione integrale delle Istorie Fiorentine con varie aggiunte e modifiche, contrassegnate con virgolette per distinguerle dal testo paterno, e nel 1637, fece pubblicare a Firenze per Amadore Massi e Lorenzo Landi, i Vescovi di Fiesole, di Volterra e d’Arezzo.
L’elogio, che pubblichiamo integralmente qui di seguito, riporta in sintesi le vicende umane e le fortune dell’Ammirato, mettendone in evidenza le capacità poetiche, politiche, elocutorie, la sua erudizione, il suo modo (all’avanguardia per quei tempi) di ricostruire la storia. Non si può negare (conclude giustamente lo sconosciuto autore) che per tutto questo l’Ammirato “è stato fornito di gran facilità nel distendere, e di molta copia di notizie acquistate nei suoi viaggi, e nell’indebita ricerca delle antiche memorie. Ma se la felicità non è riposta in queste cose, ma bensì nell’interna contentezza, doveremo conchiudere, che poco la gustò l’Ammirato, benchè le doti dell’animo suo, ed altri meriti esterni avessero dovuto essere più fortunato nel mondo, o più spregiudicato intorno al valore di quei beni, ch’esso ci può procurare independentemente dalle disposizioni del nostro cuore, e del nostro temperamento”.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
S. Ammirato, Istorie Fiorentine, Parte Seconda, in Firenze, nella Stamperia Nuova d’Amador Massi e Lorenzo Landi, MDCXLI.
Idem, Istorie Fiorentine, Parte Prima, Tomo primo, con l’aggiunta di Scipione Ammirato il giovane contrassegnate con “, in Firenze per Amador Massi Forlivese, MDCXXXXVII.
Idem, Istorie Fiorentine, parte I e II, con l’aggiunta di Scipione Ammirato il Giovane, contrassegnate in carattere corsivo, Firenze, per L. Marchini e G. Becherin, 1824-1827.
Idem, Delle famiglie nobili fiorentine, Parte Prima, le quali, per levare ogni gara di precedenza, sono state poste in confuso, in Firenze, appr. Gio. Donato e Bernardino Giunti e Compagni, MDCXV.
Idem, Vescovi di Fiesole, di Volterra e d’Arezzo, con l’aggiunte di Scipione Ammirato il giovane e nel fine i cataloghi e le tavole, Firenze, per Amadore Massi e Lorenzo Landi 1637.
U. Congedo, Vita e opere di Scipione Ammirato (Notizie e Ricerche), Vecchi, Trani 1904 (la prefazione è del 1901).
L. Grasso, Elogi d’huomini letterati, Venezia, per Combi e La Noù, 1666 (Museo Civico Correr Venezia).
D. De Angelis, Vite de’ letterati salentini, Firenze 1710.
R. De Mattei, Il pensiero politico di Scipione Ammirato. IV: varia fortuna dell’Ammirato. Appendici. Opere e stampa; Codici, in “Studi Salentini”, VIII, dicembre 1959.
I.A. Ferrari, Apologia Paradossica, Lecce 1707, a cura di A. Laporta, (rist. Lecce 1982).
A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle famiglie nobili notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Bologna 1978 (rist. Lecce 1903).
N.M. Gervasi (a cura di), Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, T. II, 1814.
G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, cioè notizie istoriche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, presso G.B. Bossini 1753, Vol. I, P. II.
Serie di ritratti d’uomini illustri toscani con gli elogi istorici dei medesimi, Firenze, appresso Giuseppe Allegrini 1766, vol. I.
G. Vese, Profilo biografico di Scipione Ammirato, in “Scipione Ammirato fra politica e storia”, Lecce 1985.
ELOGIO DI SCIPIONE AMMIRATO IL VECCHIO1
Scipione Ammirato il Vecchio2 nacqne in Lecce Città della Terra d’Otranto nel Regno di Napoli il dì 27. Settembre 1531. da Jacopo di Francesco Ammirato Famiglia che traeva la sua origine di Firenze, d’onde gli Antenati erano usciti dopo la metà del XIII. secolo per la rotta, che i Guelfi ebbero a Montaperti, e d’Angela di Ramondo nobile Brundusiana discendente dalla Casa Caraccioli.
Doveva Egli applicarsi alla facoltà legale, ma non essendovi guidato dalla natura, la quale lo inclinava piuttosto verso la Poesia, e le belle lettere, in queste fece dei progressi considerabili. Dopo aver fatti alcuni viaggi anche per motivo di sottrarsi dall’invidia nel 1551. si risolse d’indirizzarsi per la via Ecclesiastica. Non era molto comodo di facoltà, e non riceveva dal Padre tutti quelli aiuti, che poteva sperare a motivo della sua renitenza ai voleri di lui. Quindi dovette tentare la sua fortuna con altri mezzi, profittando di ciò, che gli si presentava per aver campo di appagare quello stimolo di distinguersi nel mondo da cui era agitato.
Prima in Roma ebbe speranza di attendere favorevole incontro per le sue mire, e poi in Venezia presso Alessandro Contarini, ma la sorte non gli fu propizia, mentre di là ebbe a partire per mancanza di denaro, e di quì per avere inspirato, non saprei dire se per sua colpa, sensi di gelosa smania3 al suo Benefattore, che perciò niente meno, che torgli la vita minacciava. Ritornato al Padre, che trattenevasi a Bari, e vedendosi mal ricevuto, gli si aperse l’occasione di sperare qualche miglior fortuna nell’inalzamento seguito nel 1555. del Card. Marcello Cervini al Pontificato col nome di MarcelloII.
L’immatura morte di questo Papa rovesciò le speranze di Scipione, il quale perciò ritiratosi in una casa di Campagna di suo Padre per applicare agli studj, ivi si trattenne finchè nell’elezione del Card. Caraffa, che si disse Paolo IV. credette di essere in grado di potersi lusingare di qualche cosa. In fatti presa la congiuntura di andare di nuovo a Roma con la Nipote del Pontefice Briana Caraffa, vedova del Marchese di Polignano, ebbe l’imprudenza di servire a questa Donna, ed insieme alla Zia della medesima, e sorella del Papa Caterina Caraffa, che poco con essa se l’intendeva. Ciò male gli riuscì, come doveva prevedere, onde per fuggire l’odio della seconda, prese il partito di vivere affatto lontano dalla Corte nella tranquillità, e nel riposo. Si ricondusse a quest’effetto a Lecce, e quivi divise il suo tempo fra il servizio della Chiesa, in cui prima dal Vescovo Braccio Martelli aveva ottenuto un Canonicato, e l’applicazione alle lettere, per le quali fondò allora l’Accademia dei Trasformati, prendendovi il nome di Proteo. Ma non era il suo temperamento capace di godere di placido ozio.
Durò quattro soli anni il suo ritiro, e dopo questi a nuove cose volgendosi, nuove disavventure incontrò, passando il viver suo in un continuo giro di disgrazie, di speranze, e di desiderj. Voleva in questo tempo suo Padre accasarlo, poichè non era ancor Sacerdote, ma neppur ciò accadde, perchè forse non era Scipione fatto per questo legame. Di lì a poco fu chiamato a Napoli all’effetto di incaricarlo a scrivere la Storia di quel Regno, la qual cosa poi non fece, perchè specialmente non trovò disposizioni eguali all’impresa, in chi doveva promuovere sì bella opera. Perciò ripassato a Roma, dall’Arcivescovo di Napoli Mario Caraffa fu commissionato di sostenere presso il Pontefice Pio V. le sue ragioni intorno ad alcune differenze, che fra esso, ed il Vicere Duca d’Alcalà erano insorte, e dopo essere felicemente riuscito nel carico addossatogli, non essendo soddisfatto della sua fortuna, si dette a scorrere l’Italia, ed in fine si condusse verso l’anno 1569.
A Firenze, ove stabilì di fermarsi, ponendosi ai servigj della Casa dei Medici. Quindi nel 1570. da Cosimo I. gli fu imposto di compilare la Storia di Firenze, dandogli tanto Esso, che il Card. Ferdinando suo Figliuolo tutti quelli aiuti, che poteva sperare per un lavoro così laborioso, e lungo. Nel 1595. gli fu conferito un Canonicato della Cattedrale, e perchè richiedeva questo la qualità di Dottore, ne prese le insegne in Teologia nella nostra Università il dì 25. Gennaio dell’anno dopo. Un simile stabilimento unito alle altre assistenze, ch’ebbe da varie persone, ed in specie dalla liberalità del celebre Riccardo Riccardi Gentiluomo dotto, e Protettore dei Letterati, ond’ebbe comodo di comporre la maggior parte delle Opere, che di lui abbiamo, potrebbero far credere, ch’Egli si fosse dovuto trovare soddisfatto della sua condizione, particolarmente allorchè la vivacità del suo temperamento doveva aver ceduto al peso degli anni, ma o fosse uno si quei rammarichi ripetuti tante volte da coloro, i quali mai si credono ricompensati a seconda del loro merito, o fosse un sincero sfogo dettato dalla miseria in cui si trovava involto, nelle sue Lettere assai spesso si lamentava di essere poco men che mendico, ed in una di esse chiamò il suo corpo l’Asino caduto nel fango della povertà carico di Scritture4. Giunto all’età di anni 69. compiti, dopo aver fatto testamento5, ed avere istituito erede Cristoforo del Bianco suo aiutante di studio con obbligo di prendere il suo nome, e cognome, sostituendo ad esso lo Spedale di S. Maria Nuova6, e lasciando al G.D. tutti i libri storici da Lui composti, ed anche principiati, passò a miglior vita il dì 30. Gennaio del 16017, e fu sepolto nella Metropolitana.
Molte sono le Opere di vario genere, che l’Ammirato scrisse, e pubblicò, e da queste sole, quando non si sapesse il suo tenore di vita apparirebbe, che rutti i suoi giorni avesse passati quietamente, immerso nello studiare, e nel comporre. In fatti trattò non solo la Poesia, avendo lavorati gli Argomenti all’Orlando Furioso, diverse Rime sparse in varie raccolte, le Poesie spirituali8, un Dialogo del Poeta, intitolato il Dedalione9, e le Annotazioni sopra la seconda parte dei Sonetti di Bernardino Rota in morte di Porzia Capeci sua moglie10; m’anche la Politica nei fuoi applauditi Discorsi sopra Tacito11; l’Eloquenza in molte Orazioni di vario genere; la Storia in quell’Opera, che scrisse appartenente alle cose dei Fiorentini, e ch’è la più compita, e più estesa, ch’abbiamo12, nell’altra sopra le nostre Famiglie Nobili, di cui è in luce solamente la prima parte, in quella dei Vescovi di Fiesole, di Volterra, e di Arezzo, e della Famiglia dei Conti Guidi, ed in quella delle Nobili Famiglie Napoletane13, per non dire di alcune altre piccole cose, che si ritrovano nei suoi Opuscoli14; ed in fine la Varia erudizione, come ci attestano i suoi tre Volumi di Opuscoli in 4.15, di modo che per tutto questo non si può negare essere stato fornito Scipione di gran facilità nel distendere, e di molta copia di notizie acquistate nei suoi viaggi, e nell’indefessa ricerca delle antiche memorie. Ma se la felicità non è riposta in queste cose, ma bensì nell’interna contentezza, doveremo conchiudere, che poco la gustò l’Ammirato, benchè le doti dell’animo suo, ed altri meriti esterni avessero dovuto farlo essere più fortunato nel mondo, o più spregiudicato intorno al valore di quei beni, ch’esso ci può procurare independentemente dalle disposizioni del nostro cuore, e del nostro temperamento16.
G. P.
Da “lu Lampiune”, Quadrimestrale di Cultura Salentina, Anno V, n. 1, Aprile 1989.
Note
1 Dicesi, che l’Ammirato scrivesse di se stesso la Vita, e che si conservi fra i suoi fogli MS. nella Libreria del Regio Spedale di S. Maria Nuova. Comunque sia di ciò, oltre quella, che scrisse Domenico de Angelis, e che fu stampata in Lecce nel 1704. e nel 1705. in 4., abbiamo il Sig. Conte Mazzuchelli, che di Lui parla a lungo nella sua Storia degli Scrittori d’Italia Vol. I. Par. II. pag. .635. e segg., e che a noi è servito di guida in questo Elogio.
2 Così chiamasi comunemente per distinguerlo da Cristoforo di Francesco del Bianco, il quale come si dirà, fu erede delle sostanze, del nome, e del cognome di Scipione. Di detto Cristoforo tratta il Signor Mazzuchelli loc. cir. pag. 645., ed il Novellista Fiorentino nelle Novelle del 1748. col. 371. e segg.
3 La Moglie del Contarini era detta per soprannome la Bella Loredana.
4 Tom. II, dei suoi Opuscoli p. 462.
5 Nel dì 11. Gennaio 1600. ab Incarn. per i rogiti di Ser Alessandro Guido Arrighi.
6 Per questo motivo stimo che nella Libreria del medesimo sieno passati gli Scritti tanto dell’Ammirato, che del Bianchi.
7 Secondo l’usanza nostra era l’anno 1600 ab Incarn.
8 L’Ammirato il Giovane fece stampare in Venezia queste Rime nel 1634. in 4. che l’Autore aveva composte nell’età sua decrepita.
9 Fu impresso in Napoli nel 1560. in 8. e poi inserito, nel T. III. degli Opuscoli.
10 Vennero fuori in Napoli in 4. nel detto anno 1560.
11 Furono impressi più volte dopo la prima ediz. in Fir. per Filippo Giunti del 1591.
12 È noto, che alla prima ediz. della prima Parte di quella Storia và anteposta la seconda del 1647, in cui fece considerabili aggiunte l’Ammirato il Giovane. Oggigiorno non ostante con i nuovi lumi acquistati potrebbesi di molte correzioni, e di molti accrescimenti arricchire quest’opera, se più non piacesse di compilare da capo una Storia Fiorentina secondo il progetto di un Letterato vivente, dappoichè a parlare con sincerità, e negli anni primi, e negli ultimi dei quali scrive l’Ammirato Egli per più cagioni non corrispose al resto del suo lavoro.
13 La prima Parte di quest’Opera uscita in luce in Firenze nel 1580. in foglio è assai rara. La seconda si vedde solamente pubblicata nel 1651.
14 Sono anche da rammentarsi i Discorsi delle Famiglie ‘Paladina di Lecce, e Antoglietta di Taranto stamp. in Firenze nel 1595. e 1597. in 4. e molti Alberi di Famiglie di Principi Italiani nobilmente intagliati in rame, i quali si rinvengono a parte.
15 Vennero pubblicati in Firenze in 4. portando il primo Tomo la data del 1640., il secondo del 1637., perchè l’Ammirato il Giovane ebbe riguardo ad un Tometto di Opuscoli dello stesso Autore stampato nel 1583. in 8. cui allora considerò come il primo, ed il terzo nel 1642. Contengono molte cose di diverso genere, delle quali se ne ha l’Indice presso il detto Signor Co. Mazzuchelli pag. 643. e 644.
16 È stato scritto dall’Autore delle Meditazioni sulla Felicità stamp. Con la data di Londra, che: la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione, che ne fa la nostra fantasia.
Credo di essere abbastanza mite e forse proprio per questo fin dall’infanzia mi ha fatto effetto l’espressione mo ti zzaccu pi cuteddha, locuzione oggi obsoleta e incomprensibile, ma ai miei tempi connessa con uno delle tante minacce con finalità educativa, che in concreto prevedevano l’uso di strumenti con effetti poco gradevoli. In casa mia, però, la mia cuteddha ha goduto di una sorta di immunità, ma solo perché in casa mia, all’epoca mio padre usava la curescia1,, nonostante fosse a portata di mano l’ugghina (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/07/uno-strumento-educativo-per-bestie-e-per-figli-ribelli-2/) e in agguato il rischio che gli cadessero i pantaloni …
Oggi, a distanza di tanti anni, quell’espressione poi sentita rivolta anche ad adulti (anche nella locuzione nnu cuerpu alla cuteddha=un colpo sulla nuca), non mi fa, purtroppo, alcun effetto se non quello, sempre benefico, della curiosità di capire l’etimo di cuteddha.
Sento già qualcuno rimproverarmi di non essere ricorso a quello che nell’immaginario collettivo (molto ristretto …) di chi mi legge è quasi il santone del dialetto salentino, per quante volte l’ho citato. Ebbene, per decenni non ho battuto ciglio di fronte a quanto si legge nel suo Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, ristampato nel 2007.
Dunque la voce corrisponderebbe ad un inusitato (c’è codino, ma indica altro dettaglio anatomico, almeno per chi, essendo tutt’altro che calvo, può esibirlo) italiano codella, diminutivo di coda.
Debbo dire che per decenni non ho battuto ciglio di fronte a queste schede, ma, forse perché il numero di battiti residui è inversamente proporzionale al rincoglionimento, mi avventuro in un lancio, sperando di non aver dimenticato di indossare il paracadute …
Intanto il gemellaggio cuteddha/cùtula porta alla mia forse disastrata mente il detto cce cc’entra lu culu cu lli quattru tèmpure? o la variante sta ‘mbièschi lu culu culli quattru tèmpure?, rivolto in tono di rimprovero a chi ha appena fatto confusione con due argomenti assolutamente inconciliabili, anche per l’antiteticità dei settori cui appartengono: il profano (culo), che tutti hanno non in senso metaforico e il sacro (Quattro tempora), ormai dimenticate e sepolte. Se, infatti, la cùtula è dislocata nella regione lombo-sacrale e corrisponde all’osso sacro (ciò che resta della coda che avevamo …), la cutèddha, invece, si trova nella regione cervicale, ma non è una vertebra e, almeno nell’uso di Nardò, equivale a collottola. Questa voce è da collo attraverso un *collotta, come pallottola è da palla attraverso un *pallotta, a sua volta da palla. Ora, visto che è in ballo la coda, debbo aprire una parentesi sul mondo delle cosiddette bestie, a molte delle quali noi umani, cosiddetti animali superiori, la tagliamo …
Chi ha avuto, come me, l’occasione e il privilegio di osservare mamma gatta (o il compagno, con lei presumibilmente morta) trasportare un cucciolo per metterli al sicuro (non per gettarlo in un cassonetto …), avrà notato, all’inizio con legittima apprensione, la tecnica utilizzata e gli effetti visibili: il cucciolo, in pratica, appare sospeso per la pelle del collo ai denti della madre.
Credo, allora, che cuteddha non sia diminutivo di coda [(dal latino cauda(m)], ma di cute [(dal latino cute(m)] e che questa stessa voce abbia giocato al maestro un brutto scherzo per la seconda volta, a differenza della prima, in cui è plausibile un errore di stampa, per colpa dei suoi informatori (per la prima vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/).
Credo, inoltre, che la conferma finale della confusione tra cuteddha e cùtula sia da ravvisare nel tarantino cureddha dal Rohlfs considerato come variante di cuteddha, ipotizzando, forse, il fenomeno del rotacismo tipico del napoletano (caduta>caruta), dove, però, è coinvolta la dentale d, per cui si dovrebbe supporre che a cureddha si sia giunti attraverso l’altra variante cudeddha. Lascio da parte queste mie acrobazie fonetiche a beneficio reverenziale altrui, per dire che cureddha non sarebbe diminutivo di coda ma del latino còrium (=cuoio, pelle di animale), con evidente affinità semantica con cute, il che renderebbe fallace il rinvio a cùtula di tutte le altre voci registrate al lemma cuteddha. Se è così, cuteddha sarebbe il frutto di una metafora mediata dal mondo di quegli essere ai quali non a tutti riesce facile attribuire, se non sentimenti, almeno emozioni e che non sanno cos’è una metafora semplicemente perché non ne hanno bisogno e, in ogni caso, non la scomoderebbero per indicare con lo stesso concetto un gesto delicatamente protettivo, quale non è quello di un uomo che desiderasse afferrare per la collottola, sollevare di peso e spostare un altro uomo. Pura velleità, tutta e solo umana …
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1 È il nome dialettale della cinghia dei pantaloni ed ha il suo esatto corrispondente nell’italiano correggia e, come quest’ultimo, è connesso con il latino corium (=cuoio), che entrerà in campo più avanti. Dunque, nonostante fosse uno strumento di correzione. non ha nulla a che fare con correggere e si può facilmente prevedere come è destinato a non tornare di moda e come correggere, quale etimo non correrà il rischio di essere scomodato nemmeno dalla paretimologia.
Letterato, folklorista, scrittore di storia locale e poeta, Giuseppe Gigli nacque a Manduria nel 1862 e qui vi morì nel 1921. Tra gli uomini più illustri di Manduria, particolarmente sensibile ai problemi e alla civiltà della sua terra alla quale dedicò innumerevoli studi, Gigli si accostò appunto “all’etnografia come a quella scienza che permette di ampliare la conoscenza storica del popolo di Terra d’Otranto”.
È autore, in particolare, dell’opera “Scrittori Manduriani” (da consultarsi come una delle fonti più ricche e autorevoli di notizie biobibliografiche degli scrittori della città messapica) e soprattutto dell’opera “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto”, edito da Barbera a Firenze nel 1893, per la quale ebbe gli encomi reali e fu lodata dagli studiosi Pitrè e Borghi. Per quest’opera infatti (ristampata dall’editore Filo di Manduria con prefazione di Anna Merendino) divenne il punto di riferimento di viaggiatori stranieri dell’epoca, che oltre alle antiche rovine si interessarono a usi e costumi, come J. Ross (1899), M. Briggs (1913), O. Roux, e soprattutto P. Bourget con il quale ebbe frequenti rapporti.
G.B. Arnò, nella ricostruzione del suo profilo biobibliografico lo ricorda “buono di fervido ingegno e infaticabile nello studio ebbe l’animo di artista; se da giovane fu ribelle ad ogni vincolo, riuscì a trovare la sua via: il lavoro lo prese, lo appassionò lo assorbì tutto. Le numerose sue pubblicazioni, alcune delle quali tanto apprezzate, gli infiniti articoli apparsi sui più svariati periodici e riviste, dalla Scena illustrata a Natura ed Arte, alla Nuova Antologia, alla Rassegna Pugliese, alla Rivista contemporanea, erano tutti scritti che uscivano dalla sua penna veloce, nei ritagli di tempo che la scuola gli lasciava liberi” (pur non avendo i necessari titoli di studio, fu dal ministro della Pubblica Istruzione abilitato ad insegnare Lettere nel regio Liceo Palmieri di Lecce).
Da questa “penna veloce” e da questo amore “per le cose Patrie” uscì anche il testo che riportiamo integralmente qui di seguito, dal titolo “La lavorazione della cartapesta in Lecce”, che Gigli pubblicò sull’Almanacco Italiano del 1909, una vera rarità bibliografica, lanciato all’inizio del 1896 dall’editrice Benporad di Firenze e che costituisce, sin dal suo inizio, una fonte inesauribile di informazione per la storia contemporanea. Le origini della casa editrice R. Bemporad e figlio risalgono infatti al 1840 quando Alessandro Paggi assieme al fratello Felice, aprì a Firenze, in via del Proconsolo, una libreria destinata a diventare luogo di incontro di lettori, scrittori e intellettuali liberali.
Il contributo del Gigli è estremamente importante e merita di essere maggiormente conosciuto specialmente oggi, anzitutto perché non risulta censito dalle bibliografie dei suoi scritti (come quelle di Donato Valli, del Sorrenti, dello stesso Arnò) e in secondo luogo perché è un resoconto di prima mano, un reportage vero e proprio sullo stato e sulla lavorazione della cartapesta a Lecce agli inizi del Novecento, con il suo resoconto e il suo percorso storico, con i suoi cartapestai più illustri, sia quelli deceduti che viventi, e soprattutto con un corredo fotografico d’epoca straordinario sulle opere e sui laboratori del Guacci, del Manzo, del De Lucrezi e di Giuseppe Malecore.
La lavorazione della cartapesta in Lecce
Il viaggiatore che visiti per la prima volta Lecce, la caratteristica città pugliese che Paul Bourget, volle sua “Sensations d’Italie”, appellò col grazioso epiteto “di paradis du rococo”, non può non restare meravigliato nell’osservare i numerosi laboratori di statue in cartapesta, che frequentemente s’incontrano lungo le sue vie tortuose.
Innanzi a questi laboratori, che spesso sono piccole e modeste botteghe, lungo i muri delle stesse vie, talvolta in recondite piazzette, un popolo di statue, quasi sempre di soggetto sacro o biblico, sta ad asciugare tranquillamente ai raggi del caldo sole meridionale, senza dare alcuna molestia ai passanti, i quali, per la lunga consuetudine che ne hanno, non mostrano neppure di accorgersi delle belle Madonne e dei Santi, che in un non lontano giorno dovranno richiamare da cento e cento altari gli sguardi e i devoti pensieri dei fedeli di buona parte del mondo.
Quest’ultima affermazione non è per nulla esagerata, come a prima vista si potrebbe credere; le statue sacre leccesi non sono ricercate soltanto in Italia, e soprattutto nelle province meridionali, né varcano soltanto le Alpi verso la Spagna e la Francia, ma ornano moltissime chiese d’America, da dove gli emigranti di Basilicata, di Puglia e di Calabria stabiliti in New York, in San Paulo, in Buenos Aires ne fanno ogni anno larga e continua richiesta.
Al considerevole sviluppo preso specialmente in questi ultimi trent’anni, si deve se questa della lavorazione della cartapesta, che fu considerata un po’ arbitrariamente come un’arte vera e propria, quantunque a sé, sia andata diventando un’industria caratteristica e anche assai rimuneratrice. Come s’è accennato più sopra, numerosi ne sono i laboratori, ove trovano lavoro e occupazione molti e molti “scultori” e “artisti”, come dicono in Lecce. In verità, e perché non si prenda per uno scherzoso paradosso, si può dire chein Lecce l’arte della cartapesta sia stata socializzata, e che gli scultori leccesi pensino e formino in comune le loro statue.
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La lavorazione della cartapesta leccese non è di data recente. Qualche scrittore locale ha scoperto che nella parrocchiale di Morigino, piccolo villaggio della stessa provincia, ed in alcune chiese di Lecce, esistono dei lavori che attestano la notevole vitalità a cui era pervenuta la plastica cartacea sin dalla prima metà del seicento.
Le vere origini di essa si debbono però rintracciare nel secolo XVIII, per opera principale di un “Mastro Pietro dei Cristi e d’un Mastr’Angelo De Agostinis”, entrambi cartapestai assai modesti, che soprattutto fabbricavano – e il nomignolo del primo lo dice chiaramente – Crocefissi di tutte le dimensioni e qualche statua sacra. Uno sviluppo vero si ebbe verso la metà dello scorso secolo, quando comparve Antonio Maccagnani, che può chiamarsi il caposcuola della seconda e più artistica maniera de’ cartapestai leccesi.
Nato nel 1809, studiò il disegno e la pittura con un tal Tondi, anch’egli leccese e mediocre pittore: poi si dette allo studio della plastica e apprese i primi rudimenti della lavorazione della cartapesta del ricordato De Agostinis.
Altro discepolo del Tondi, e anch’egli buon cartapestaio, fu Pasquale Letizia, compagno di lavoro del Maccagnani; essi produssero moltissimi lavori e lasciarono una vera scuola di modellatura in carta, alla quale appartiene un artista ancor vivo e vegeto, Achille De Lucrezi, che oggi ha un laboratorio de’ più accreditati. Nato da modesti genitori, il De Lucrezi ebbe una curiosa giovinezza. Cominciò ad esercitare il mestiere del barbiere, e, nelle ore d’ozio, si mise a modellare in creta pastori e santi da presepe.
Se è lecito aprire una parentesi, bisogna ricordare che in Lecce fu ed è ancor fiorente l’industria dei “pupi da presepe”, modellati con molta grazia e per lo più dai barbieri più poveri, ché gli altri, quelli che hanno raggranellato un po’ di denaro, hanno un elegante “salon”, con annesso negozio di cappelli, guanti e profumerie.
Il De Lucrezi, dunque, mostrando spiccate tendenze al disegno e alla plastica, andò a studiare con pittori e modellatori che avevano qualche nome in patria, come il Magliola e il Guerra. Poi si recò a Roma, e mentre nell’eterna città continuava i suoi studi, apprese l’arte della scherma e del ballo. Chi scrive lo ricorda ancora suo maestro di ballo nel Convitto Nazionale di Lecce, annesso a quel regio Liceo Ginnasio Palmieri, e non può dimenticarne la bontà e la gentilezza. Ritiratosi in patria, aprì un laboratorio di lavorazione della cartapesta, che ancor oggi dirige con grande amore e somma competenza. I suoi Santi e le sue Madonne hanno una grande dolcezza unita a mistica grazia, e son assai ricercati. Tra i suoi migliori discepoli son da ricordare Andrea De Pascalis e Giuseppe Manzo.
Il De Pascalis, morto giovanissimo alcuni anni or sono, per le qualità dell’ingegno e per le attitudini, si sarebbe spinto molto avanti. Egli dette alla cartapesta un sentimento mondano che gli accrebbe la rinomanza e che lo rende ancora ricordato. A Parigi aveva una rappresentanza e una esposizione delle sue statue in “Rue Du Bac”. Il Manzo lavora sempre con grande successo. Se si potessero elencare i diplomi, le medaglie e i brevetti da lui ottenuti in quasi tutte le esposizioni di questi ultimi venti anni, non basterebbero parecchie colonne “dell’Almanacco Italiano” a contenerne la serie.
Ma Lecce, come s’è detto, è piena di laboratori di cartapesta. Oggi hanno nome e valore Giuseppe Malecore e Raffaele Caretta, e da poco s’è costituita una “Unione Cooperativa Statuaria” che tutt’insieme producono parecchie centinaia di belle statue all’anno. Fra gli ultimi venuti – e di altri molti sono costretto a tacere – è da ricordare Luigi Guacci che studiò scultura all’Accademia di Roma, e che produsse parecchi e eccellenti lavori in bronzo e in marmo. Giovine di molto talento, ritiratosi da parecchi anni nella sua città natia, rivolse l’attenzione a quest’arte tutta paesana e tradizionale, e vi si dedicò con entusiasmo, aprendo un grande laboratorio. Egli può chiamarsi un vero riformatore giacché con le statue di soggetto sacro ne produce molte di soggetto profano le quali ultime non entravano prima di lui nella lavorazione dei cartapestai leccesi. I lavori del Guacci hanno una grande espressione di mistica verità e passano vittoriosi i confini d’Italia.
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Non è senza interesse far conoscere ai lettori il processo di cui è sottoposta la carta prima di diventare materia di statue.
Ogni laboratorio ha la sua larga provvista di carta d’ogni specie, vecchi giornali, carta di rifiuto, ritagli d’ogni forma e colore che per molti giorni la lasciano sott’acqua in grandi e apposite vasche. Quando tutta questa materia è ben macerata è passata in una macchina impastatrice che la riduce quasi una poltiglia malleabile come l’argilla e che rende molto compatta con l’aggiunta di una certa dose di amido, cui si mescolano materie antisettiche per renderla specialmente refrattaria ai tarli.
Comincia da questo punto la vera lavorazione. Su di un dado o base in legno, dal quale si leva una specie di alto cuneo, si arma in stoppia il manichino della statua, che è rivestita con uno strato di cartapesta. Vi si fissano testa, mani e piedi per lo più usciti da apposite forme, talvolta abbozzati separatamente; segue quindi la “vestizione”, che si fa con larghe strisce di carta macerata, che si applicano lungo il corpo in modo da formare “l’andatura” delle pieghe, secondo il concetto del modellatore. Quando il lavoro è ben asciutto con ferri roventi si rimettono a posto le pieghe irrigidite e contorte per effetto dell’asciugamento, e si dà forma concreta alla testa, alle mani e ai piedi. Questa operazione è di maggiore importanza, giacché è quella che dà espressione e forma al soggetto: si può dire che ciò ch’è la stecca per lo scultore, è il ferro rovente per il cartapestaio. Segue “l’ingessatura” altra operazione che completa con uno strato di gesso, sciolto in acqua e colla, questa lavorazione, e che ha lo scopo di renderla adatta al “ricaccio” che consiste in un ultimo lavoro di stecche e di ferri taglienti, coi quali si curano e si perfezionano quei dettagli che il gesso aveva alquanto confusi o alterati.
La “dipintura” delle statue, fatta prima con un sol colore e colla, poi con colori ad olio con i quali il viso, i capelli, le mani, i piedi, le vesti prendono aspetto proprio, finalmente con la doratura della base dei simboli religiosi, è l’ultima fatica che richiede la statua, le cui tinte sono rese vive e morbide da una “inceratura” che vi si pratica. Dopo di che è lasciata per qualche tempo in una “stufa” leggermente riscaldata, e n’è pronta ad essere incassata e spedita.
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L’arte della cartapesta leccese attraversa oggi un lieto periodo di successi, che la rendono anche economicamente fiorente. In Lecce sono centinaia le famiglie operose che v’attingono sicuro benessere. Certo con essa si supplisce, e con notevole differenza e vantaggio di prezzo, alla produzione delle statue in metallo o in legno, che un tempo ornavano comunemente le chiese, e che per lo più uscivano da officine di Venezia e di Siena. L’abbiamo chiamata “arte”, e sia pure.
L’interesse che essa ha è soprattutto questo: che, è nata in Lecce, pare non voglia varcarne i confini, pare voglia restare nel leccese.
Un esimio critico d’arte, l’illustre architetto Camillo Bòito, a proposito dell’Esposizione d’Arte Sacra tenutasi a Torino nel 1908, così scriveva de’ lavori in cartapesta mandati dai laboratori leccesi: “Può dirsi arte industriale, per esempio quella della cartapesta di Lecce, perché le Vergini, i Santi, gli Angeli i Crocifissi di cartapesta partono dalle numerose botteghe della gentile città di Puglia per viaggiare sino al settentrione d’Italia entrando nelle nicchie de’ presbiteri e adagiandosi sugli altari perfino delle nostre Alpi nevose; ed è un’industria dove un certo spirito di bellezza ed una misurata espressione non mancano”. Parole belle e buone, come si vede, e che non inorgogliscono ma incoraggiano a un sempre più alacre e proficuo lavoro gli artisti leccesi. Chi non sia vissuto qualche tempo in quella città non può immaginare di qual vero impeto ed entusiasmo artistico siano animati tanti e tanti modesti per quanto valorosi artisti. Io ne ho nominati, in queste brevi note, otto o dieci, ma essi sono legione, che cresce ogni giorno. Alla vecchia arte tradizionale, i giovani, e tra questi il Guacci, che s’è ricordato più sopra, vanno apportando uno spirito nuovo di grazia e di perfezione. Pare che in Lecce ove tanta gentilezza di costumi e di lingua, quest’arte sia come un prodotto naturale della terra, corrispondente alle tendenze più fini e più sottili de’ suoi abitanti. E pare davvero che un magnifico privilegio crei qui gli artisti e specialmente gli scultori tra i quali ultimi, basta ricordare Antonio Bortone ed Eugenio Maccagnani leccesi noti ed onorati in tutta Italia e fuori.
Giuseppe Gigli
In “spazioapertosalento.it”, 21 dicembre 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici essenziali
D. Valli (a cura di), Giuseppe Gigli e documenti vari di cultura, Milella, Lecce 1982.
G.B. Arnò Manduria e Manduriani, edizione Anastatica, Antonio Marzo Editore, Manduria 1983.
P. Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori Pugliesi e contemporanei,Arti Grafiche Savarese, Bari 1976.
C. Piantoni, Cronaca di una borghesia in ascesa. I primi quarant’anni dell’Almanacco Italiano, in “Charta”, anno VI, n. 26, gennaio-febbraio 1997, pp. 26-29.
G. Gigli, La lavorazione della cartapesta in Lecce, in “Almanacco Italiano”, anno XIV, R. Bemporad e Figlio, Firenze 1909, pp. 540-552.
G. Gigli, Superstizioni, Pregiudizi e Tradizioni in Terra d’Otranto, riedizione dell’opera del 1893, Filo Editore, Manduria 1998, con prefazione di Anna Merendino.
Ora che la carta storica di Brindisi dal titolo Brandici non è più così sconosciuta alla città, ho il piacere di riportare alcune ulteriori considerazioni sull’opera, in gran parte già evidenziate nel libro che le ho dedicato.
Ritengo di aver raggiungo il principale obiettivo di divulgare l’esistenza dell’opera e ora mi auspico che questa possa stimolare gli appassionati di storia della città a fornire il loro contributo, in particolare sugli elementi topografici in essa riportati che necessariamente vanno collegati alla storia della città.
Rivediamo prima l’opera nell’immagine sotto.
Innanzitutto vorrei soffermarmi su un punto che ho affrontato nel mio libro in merito al fatto di aver definito l’opera come “la mappa più antica della città”. Avendo approfondito molto la cartografia esistente in merito a Brindisi, non poteva certo sfuggire nel mio studio il portolano turco di Piri Reis. La vediamo nell’immagine sotto.
Nel mio libro parto dalla considerazione che la prima opera in assoluto a rappresentare il porto di Brindisi, riferito al tempo in cui veniva disegnato, è il portolano turco Kitab-i Bahriye di Piri Reis. Si tratta del portolano manoscritto a cura del cartografo, capitano e ammiraglio Piri Reis al servizio del Gran Sultano ottomano, che contiene al tempo stesso una documentazione scritta e figurata, un documento fondamentale nella storia della cartografia nautica mediterranea, ritenuto il primo vero documento marittimo a descrivere l’insieme delle coste, dei porti e delle isole con tanti dettagli. Queste rappresentazioni ad opera di Piri Reis, non sono opere a stampa e, a mio parere, non possono essere ritenute delle cartografie, topografie o vedute della città, essendo esclusivamente dei portolani manoscritti destinati ai marinai e non rappresentando alcun elemento topografico della città di Brindisi. Infatti il nucleo urbano di Brindisi nel portolano di Piri Reis appare più che altro come una semplice raffigurazione simbolica ed è assente qualunque elemento caratteristico della città. Anche le altre città dello stesso portolano sono rappresentate nello stesso simbolico modo.
L’opera Brandici invece è un documento cartografico a stampa che offre diversi dettagli del porto, della città e dei dintorni, con i relativi toponimi, ricco di elementi rappresentativi sebbene con tutti i meravigliosi ed affascinanti limiti realizzativi della cartografia italiana del XVI secolo. Si tratta dunque di due rappresentazioni molto diverse, per scopo, per veduta d’insieme e per tecnica realizzativa, distanti solo tredici anni una dall’altra.
Basta osservare che intorno al nucleo urbano di Brandici troviamo: le colonne romane, la cattedrale, la Porta Reale e la strada verso la marina, Porta Lecce, la cinta muraria come effettivamente era, il castello Svevo, l’Arsenale, Santa Maria del Casale. Tutto questo è assente nel portolano di Piri Reis che, come detto, ha tutt’altro scopo.
Per queste ragioni, a mio avviso, Brandici può essere considerata la prima vera “mappa” della città di Brindisi, intendendo l’accezione della parola “mappa” non come termine specialistico geografico ma bensì nel suo utilizzo comune, che ho voluto scegliere per il titolo del mio libro perché più immediato e comprensibile e quindi più adatto a destare l’interesse di un’ampia platea. Altri termini, come “documento cartografico”, “cartografia o topografia a stampa”, “veduta a volo d’uccello” etc., sebbene più appropriati per il tipo di opera, non ho ritenuto che fossero adatti per il titolo del libro, visto lo scopo di voler divulgare a tutti l’esistenza di questo prezioso documento della cartografia rara cinquecentesca di Brindisi.
Sebbene il portolano di Piri Reis rimane quindi la prima opera a rappresentare l’area intorno al porto di Brindisi, la tavola di Brandici è la più antica rappresentazione ad oggi conosciuta della città (oltre che del porto), con precisi elementi topografici, la sola in grado di darci una immagine cinquecentesca di Brindisi, una delle poche città italiane che possono vantare un documento cartografico a stampa così antico.
E questo è solo il primo di tre elementi stupefacenti di quest’opera.
Il secondo, è che l’esemplare in questione è unico. Non esistono altre copie al momento conosciute.
Il terzo, che la carta racconta e fa riferimento ad un avvenimento storico ben preciso che Brindisi ha vissuto nell’autunno del 1538.
Tralascio ora i dettagli che riguardano la fantastica storia, descritta nel libro, di come Brandici sia arrivata fino a noi. Coloro ai quali dobbiamo la sua introduzione nella bibliografia italiana, all’interno dell’opera di catalogazione monumentale Cartografia e topografia italiana del XVI secolo, edito da Edizioni Antiquarius nel 2018, sono due tra i più noti studiosi e massimi esperti internazionali di cartografia storica cinquecentesca italiana, Stefano Bifolco e Fabrizio Ronca, mentre oltre i confini nazionali è allo studioso ungherese Tibor Szathmáry che dobbiamo riconoscere il suo vero e proprio ritrovamento nel 1987, e la sua prima pubblicazione nel 1992.
Tralascio anche gli aspetti storici, legati alla battaglia di Prevesa e ai successivi spostamenti dell’armata di Andrea Doria fino all’arrivo nel porto di Brindisi, anche questi ampiamente documentati e raccontati nel libro, così come tralascio gli aspetti legati al contesto storico della piccola raccolta di tavole cui faceva parte, all’editoria veneziana dl XVI secolo, al tipografo Francesco Tommaso di Salò, e alle caratteristiche tecniche delle stesse. Sono tutti punti sviluppati nel libro.
Vorrei soffermarmi invece su quelle che sono state le mie prime considerazioni sugli aspetti topografici riportati sulla carta stessa. Non essendo io uno storico, mi sono limitato ad alcune semplici considerazioni che richiedono ulteriori verifiche da parte degli studiosi.
Ritengo infatti che conoscenze più approfondite siano necessarie per poter affrontare tutti i dettagli topografici riportati dall’opera e sono ben lieto di lasciare agli attuali studiosi locali l’approfondimento su quanto possa scaturire di nuovo sulla storia della nostra città grazie a quest’opera.
E’ questo lo scopo di questo articolo.
Vediamoli in successione, dal basso verso l’alto, i vari elementi della carta, dopo aver visto l’opera a pagina intera.
L’armata di Andrea Doria nel porto esterno – ARMA DE ANDREA DORIA
Sono rappresentate nove galee nella carta.
Non sono riuscito fino ad ora a trovare informazioni sulla effettiva composizione della flotta di Andrea Doria al momento del suo arrivo a Brindisi il 20 novembre 1538. Probabilmente erano molte di più visto che prima della battaglia di Prevesa era transitato a Corfù con 41 galee e 30 navi. Ovviamente quella sulla carta è solo una raffigurazione simbolica della sua armata.
Interessante notare i diversi simboli sulle bandiere a poppa, che spero qualche studioso possa meglio decifrare e spiegare. Quella in posizione più avanzata verso l’imboccatura del porto interno riporta abbastanza chiaramente, a mio avviso, lo stemma imperiale dell’imperatore Carlo V.
Le isole Pedagne – SCOI DE (F)VORA
Ritengo che quegli scogli indicati sommariamente, per la loro posizione, non possano che essere le isole Pedagne.
Tuttavia, qui le isole non vengono citate con il loro nome, che certamente era già in uso nel XVII secolo. A tal proposito, infatti, troviamo riscontro dell’utilizzo del termine “Pedagne” nella mappa di Blaeu (quella ben nota dal titolo errato Tarento) della fine del XVII secolo edita per la prima volta nel 1663 e poi nuovamente nel 1703 a cura di Mortier.
È molto probabile che anche in tutto il XVI secolo si chiamassero quei piccoli isolotti con il nome Pedagne, per quanto ho potuto dedurre dalla descrizione del porto di Brindisi nel portolano di Piri Reis, che intorno al 1518 riferiva: “non c’è porto più famoso di Brindisi. Infatti, davanti alla città c’è un bellissimo e grandissimo porto naturale che può dare asilo a trecento o quattrocento navi…Alla bocca del porto c’è un’isola rocciosa – l’isola di sant’Andre nella quale è stato costruito un piccolo castello fortificato da cannoni. Navi straniere non possono entrarvi: fra l’altro la bocca del porto è chiusa da catene. Ai due capi delle catene vi sono due grosse torri con cime alla sponda che danno a maestrale…Le grandi barche possono passare da questo stretto, essendo esso molto profondo verso la costa di nord ovest, distante mezzo miglio. Sulla riva dello stretto ci sono isolette che si chiamano Pedagne.” (Maria Sirago in “Il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità” cita A. Bausani, L’Italia nel Kitab-i Bahriye di Piri Reis, in Il Veltro, 1979, pp 173-175).
Probabilmente le isole Pedagne, il cui nome si attribuisce alla loro forma oppure al fatto che i fondali che le separano sono molto bassi e quindi possono essere guadati a piedi, erano così chiamate già all’inizio del XVI secolo o forse prima, ma non ho trovato riscontri e riferimenti più precisi. Di fatto nella tavola Brandici vengono citate con l’indicazione SCOI DE (F)VORA.
Su questo toponimo ho nutrito inizialmente diversi dubbi e il mio auspicio è che qualche studioso possa dare un utile contributo a spiegarne il significato in riferimento alle isole Pedagne.
La difficoltà nasce dal fatto che non ho certezza che ci sia la lettera “F” davanti alla parola “VORA”, e per questo la indico tra parentesi. Effettivamente sembra esserci un difetto di stampa nel carattere “F” stampato parzialmente, per cui il corretto toponimo sarebbe quindi SCOI DE FVORA – scogli di fuori- ad indicare propriamente gli isolotti più esterni, quelli che per primi si incontrano entrando nel porto di Brindisi. Questa è certamente la spiegazione più plausibile, forse l’unica realisticamente accettabile.
Non sono riuscito a trovare altre fonti che potessero confermare che nel Cinquecento le Pedagne potessero essere chiamate anche in quel modo, pertanto, se fosse effettivamente così, questa indicazione proveniente dal documento potrebbe essere una informazione particolare.
Inizialmente mi sono azzardato a fare anche un’altra interpretazione del tutto personale e fantasiosa, quasi certamente sbagliata, basata sull’ipotesi che non ci sia una “F” mancante e che sia effettivamente scritto SCOI DE VORA.
Descrivo brevemente questa assurda ipotesi solo per condividere con chi legge quanto ho appreso su un termine particolare che comunque esisteva su altre mappe dell’epoca, “VORA”, ma sono praticamente certo che quella corretta è la precedente.
VORA (buco) è un termine locale pugliese per indicare voragini o inghiottitoi dovuti all’erosione delle acque sui calcari o a sprofondamenti della volta di caverne. Tale toponimo era anche piuttosto diffuso nelle cartografie storiche locali.
A tal proposito vedasi la pubblicazione del 2 dicembre 2023 di Armando Polito sul sito www.fondazioneterradotranto.it dal titolo “Nardò: Vora, un toponimo perduto”. L’autore ci spiega come già nella cartografia degli inizi del XVII secolo, vedasi Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia, di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), si legge presso Nardò il termine VORA alla destra di un simbolo inequivocabile che corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato Vora del Parlatano. Un nome comune diventato un preciso toponimo. Questo termine è ancora presente in altre carte del Salento di poco successive, come quelle di Blaeu o Valck.
Stabilito quindi che, anche nella cartografia di poco successiva alla nostra tavola, esisteva questo termine per indicare una voragine, da qui la mia ipotesi estremamente fantasiosa. Ho collegato il termine “VORA” al fatto che su una delle isole Pedagne, denominata La Chiesa, si trova la Grotta dell’Eremita, con affreschi che rappresentano la Natività e che ora sono in forte degrado. Un tempo vi erano anche un vano dormitorio ed una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. L’insediamento era probabilmente utilizzato da un religioso che aveva deciso di condurre una vita solitaria ed era collegato con il monastero dell’Isola di Sant’Andrea, costruito nel basso medioevo.
Lascio agli appassionati ed esperti studiosi la verifica corretta del termine che indica le Pedagne nell’opera che stiamo osservando, ma resto fermamente convinto che sono indicate con il termine SCOI DE (F)VORA – scogli di fuori – ad indicare il gruppo di isolotti più esterni del nostro porto.
L’isola di Sant’Andrea – CASTEL-D-MAR e SCOIOGRANDO
Molto bella la rappresentazione del Castello di Mare, ovviamente il Castello Alfonsino. In questa rappresentazione lo vediamo in tutto il suo splendore.
Nel 1481 Ferdinando d’Aragona ordinò al figlio Alfonso, duca di Calabria, di costruire sull’isola di Sant’Andrea una fortezza in grado di difendere efficacemente porto e città. All’inizio fu solo una rocca, ma poi fu fatta ampliare con la costruzione di un antemurale con bastioni al torrione preesistente, con mura alte e molto spesse: alle due torri, cilindrica e quadrata, ne fu aggiunta un’altra poligonale così che il castello assunse una forma triangolare. Le torri e l’antemurale sono perfettamente rappresentati nella tavola Brandici.
L’autore indica la restante parte dell’Isola di Sant’Andrea con il nome SCOIOGRANDO, e trovo che anche questo sia un modo molto particolare, se non inedito, per indicare l’isola di Sant’Andrea. Nel 1538 non esisteva ancora il Forte a Mare, la cui costruzione fu avviata nel 1558 a cura di Filippo II d’Austria, figlio di Carlo V. Nella carta Brandici questo trova evidenza dal fatto che l’unica rappresentazione nell’isola di Sant’Andrea è appunto quella del solo Castello Alfonsino. Pertanto, con SCOIOGRANDO si indica tutta la restante parte, quella dove avvenne la successiva edificazione del Forte a Mare ed il cosiddetto Lazzaretto.
Il termine veneziano SCOIO – scoi de (f)vora, scoiogrando – indicato sulla carta, ma anche il toponimo Brandicio, davvero molto vicino alla nostra Brandici, trovano ulteriore conferma in alcuni testi ritrovati quali ad esempio gli ordini impartiti ai difensori del castello a salvaguardia del porto di Brindisi, che ci racconta Francesco Grassetto da Lonigo nel suo Viaggio di Francesco Grassetto la Lonigo lungo le coste dalmate , greco-venete ed italiche nell’anno MDXI e seguenti, Venezia, stabilimento tipografico Fratelli Visentini, 1886, pag. 41-2 nel quale ricorda del 1511: “Nel intrar deli scogli al porto de Brandicio, dal castello del scoglio fune trato uno pasavolante per proa, et rumpete remi et magagnò li provieri, brusò una gomena e fracasò banchi e baville; et questo ferno perché non salutamo con bonbarde avanti intrasemo.”
Santa Maria del Casale – S – MARIA DE CASAL
Sulla meravigliosa chiesa sorta presso Brindisi all’inizio del Trecento e definita come una delle più belle ed originali che nel suo stile abbia l’Italia Meridionale non mi soffermo a dare informazioni.
La tavola indica la chiesa di Santa Maria del Casale con estrema chiarezza nella sua corretta posizione ed evidenzia anche una sorta di fortificazione a proteggerla. Infatti, il luogo dove essa sorgeva era solitario ed ameno e gli arcivescovi di Brindisi vi costruirono la loro dimora estiva. Dal 1310 la chiesa e i locali annessi furono utilizzati come “cancelleria” del processo contro i Templari. Successivamente nel XVI secolo i Frati Minori Osservanti vi fondarono il convento.
Torre Cavallo – TORE DI CAVALI
Non sono tante le cartografie storiche della città di Brindisi che riportano la rappresentazione di Torre Cavallo contestualmente al suo toponimo. Nella maggior parte dei casi l’inquadratura delle carte non arriva infatti fino a Punta Cavallo.
La torre la ritroviamo certamente nelle tavole di inizio Cinquecento del portolano turco di Piri Reis, e molto più recentemente nella tavola di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810.
Anche la mappa di Brandici, la più antica rappresentazione della nostra città, sembra rappresentare a prima vista la torre di Punta di Cavallo.
Al registro angioino risulta che nel 1275 un tale Pasquale Faccirosso, cittadino di Brindisi, morendo, lasciava con atto testamentario la cifra di 50 once d’oro perché nel luogo detto “Scoglio del Cavallo” fosse costruita una torre con faro “onde i naviganti potessero evitaregli infortuni navigando in quei paraggi”. La zona a sud di Brindisi, infatti, per via di secche e scogli era caratterizzata da frequenti naufragi. Le origini del toponimo “Lucaballus” risalgono infatti alla fine del XIII secolo, come documentato nella cancelleria angioina del 20 giugno 1277.
Al fine di terminare l’opera nel modo più veloce possibile, il re incaricò i brindisini Ruggero Ripa e Nicola Uggento. I lavori di costruzione furono supervisionati dai Templari, ma sfortunatamente la torre crollò subito dopo il suo compimento per venti, mareggiate e forse errori di progettazione. Dopo il crollo venne nuovamente ricostruita e terminata nel 1301 sotto il regno di Carlo II d’Angiò.
La torre crollò nuovamente e nel 1567 fu ricostruita sulla stessa base cilindrica di quella angioina, per volontà del viceré aragonese Perafan de Ribera nel suo grande progetto che prevedeva, oltre alla costruzione di nuove torri, anche la riqualifica di quelle già esistenti.
Oggi la torre non esiste più. Impegnata per vari usi, l’ultimo documento sull’esistenza della torre è datato 1842. Probabilmente già diroccata e fatiscente, fu in seguito completamente demolita. Durante la Prima Guerra Mondiale fu costruita una batteria di artiglieria della Marina Militare, e sul sito, in piena zona industriale, si notano i ruderi. Ancora nel 1966, in base alle foto realizzate da Federico Briamo, si notavano alcuni resti della muratura basamentale della torre, attualmente non più esistenti.
Una prima osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione nella carta di Francesco Tommaso di Salò, della TORE DI CAVALI e sulla possibile identificazione della stessa con la Torre di Punta Cavallo è che le diverse descrizioni e ricostruzioni grafiche ottenute grazie ai documenti angioini (in ultimo la ricostruzione con stampante 3D di Francesco Iurlaro raccontata in un articolo de il7 Magazine del 4 marzo del 2022 di Giovanni Membola) mostrano la torre su base circolare mentre nella tavola di Brandici, diversamente da quelle del porto, anch’esse angioine, sembra avere base quadrata.
Una seconda osservazione scaturisce dalla lettura dell’interessantissimo articolo di Armando Polito “Brindisi e il suo porto in una carta del XVI secolo” pubblicato da fondazioneterradotranto.it il 15 febbraio 2017.
L’autore presenta alcuni dettagli di una copia settecentesca, inedita, di una mappa originale aragonese disegnata alla fine del XV secolo. La copia è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia. L’autore affronta e analizza tutti i numerosissimi toponimi presenti sulla carta.
Se ci soffermiamo sull’area intorno a Brindisi ed in particolare sulla zona a sud del porto osserviamo che sono indicate, con estrema precisione, due torri e non una. Quella più a sud è indicata come Torre del Cavalloccio, presso il luogo oggi denominato Punta di Torre Cavallo. Dalla sua posizione questa è senza dubbio la torre che a Brindisi è sempre stata identificata come Torre Cavallo, cioè quella sul sito oggi noto per le sfiammate della torcia dello stabilimento petrolchimico e dove, come detto, sono anche presenti i resti di una postazione della Prima Guerra Mondiale, che sorgevano sopra quelli della antica torre tante volte nominata a partire dai documenti angioini.
L’articolo di Armando Polito ci evidenzia che la denominazione e l’indicazione della Torre del Cavalloccio non è nuova e la ritroviamo su diverse altre carte successive a scala relativamente grande, come ad esempio quelle del Magini, Jonssonius, Bulifon, Hondius del XVII secolo, ed infine di Domenico De Rossi del 1714 che forse per primo la comincia a chiamare T. del Cavallo, come nota oggi anche se non più esistente da quasi duecento anni.
Ma allora la Torre del Cavallo rappresentata poco più a nord, a est di Fiume Grande, nella carta aragonese custodita nella biblioteca francese che torre è? È evidente che trattasi di una torre distinta per la sua posizione, che risulta assente in tutte le altre carte prima accennate ed utilizzate dall’autore dell’articolo ai fini comparativi.
L’autore dell’articolo ipotizza quindi che, data l’estrema precisione della carta aragonese, questa seconda torre sia esistita e scomparsa nell’arco di pochi decenni, in quanto già mancante nelle carte del XVII secolo.
Tutto questo per dire che, a mio avviso, la posizione di quella che sulla nostra opera è indicata come TORE DI CAVALI potrebbe anche coincidere con quella indicata come Torre del Cavallo della carta aragonese custodita in Francia, che abbiamo detto essere una copia di una carta della fine del XV secolo, quindi molto vicina temporalmente alla rappresentazione di Francesco Tommaso di Salò.
In effetti, essa non sembra così lontana da quelle che ipotizziamo essere le Pedagne ed osservando la linea di costa non sembra essere su una punta così pronunciata come certamente era quella dove sorgeva la Torre del Cavalloccio, ossia Punta di Torre Cavallo.
Anche uno dei noti portolani turchi del Cinquecento (a destra) riporta la Torre Cavallo non sulla Punta Cavallo ma più a nord in una zona lineare della costa e non su un capo, quasi di fronte alle Pedagne. A mio avviso la sua posizione poteva essere nei pressi di Capo Bianco, ma resta tutto molto ipotetico e da verificare.
Questa delle due torri è una affascinante ipotesi che lascio approfondire eventualmente a chi ha tempo e strumenti per fare ulteriori indagini ma, se così fosse, la nostra carta sarebbe, insieme a quella studiata da Armando Polito e forse al portolano turco suddetto, l’unica di mia conoscenza a rappresentare questa torre vissuta così poco tempo dal nome Torre del Cavallo, ben distinta da quella del Cavalloccio che in seguito le “rubò” il nome.
E forse questa ipotesi spiegherebbe anche la sezione quadrata e non circolare come quasi certamente era quella della Torre del Cavalloccio collocata a Punta di Torre Cavallo, denominata in seguito Torre del Cavallo quando la prima era ormai scomparsa.
Ad ogni modo, certo è che quella indicata sull’opera che stiamo studiando non può che essere una di quelle due torri.
Spero di aver spronato qualcuno a dare un riscontro più oggettivo di queste mie avventate teorie, almeno per capire se questa ipotesi è plausibile, o se effettivamente la torre della nostra tavola è quella di Punta Cavallo.
Le torri angioine – LITORE DEL PORTO
Sull’esistenza delle torri angioine all’imboccatura del porto si è scritto molto e si trovano diverse informazioni e citazioni storiche, per cui non mi soffermo troppo.
Le due torri furono realizzate da Carlo II d’Angiò nel 1301 lungo le due sponde del canale.
La torre maggiore era posta sul lato di ponente, mentre quella di minore era sul lato opposto a levante e tra le due torri era collegata una catena di ferro.
La catena, denominata catena angioina, è ben visibile nell’opera che stiamo esaminando, così come è chiaramente indicata nelle antiche piante della città già conosciute, ad esempio quella del 1703 di G.B. Pacichelli o la successiva di Orlandi, o quella del 1663 di J. Blaeu.
Le due torri avevano degli ingranaggi che permettevano di tendere la catena e chiudere l’ingresso nel porto interno; la stessa veniva mollata in acqua quando una nave si apprestava ad accedere o ad uscire. Questo tipo di sistema a catene era utilizzato all’epoca per chiudere gli ingressi anche di altri porti, come quello di Trani.
Un simile metodo di difesa con il passare del tempo divenne anacronistico e le due torri subirono nei secoli successivi riadattamenti. All’inizio dei lavori sul canale del sig. Pigonati, siamo nel 1779, si attesta ancora l’esistenza della maggiore, risistemata ad alloggiare le guardie della finanza, mentre quella di levante è quasi completamente distrutta e ne rimangono pochi avanzi. Il famoso dipinto di Hackert, che ci offre una fantastica e dettagliatissima vista del porto nel 1789, riporta la stessa situazione 10 anni dopo. Attualmente la catena angioina è conservata all’interno del Castello Svevo.
Unica osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione delle torri angioine nell’opera di Francesco Tommaso di Salò, che a mio avviso meriterebbe ulteriori approfondimenti, è il fatto che sul lato di levante sono rappresentate due torri e non una sola, come invece compare nella maggior parte delle altre citate piante storiche o nelle tavole dei portolani turchi di Piri Reis, in assoluto i più antichi a rappresentarle.
A parte la torre destinata a ricevere uno dei due capi della catena, è infatti rappresentata una seconda torre un po più arretrata.
Esistevano quindi, agli inizi del Cinquecento, due torri sulla sponda di levante mentre a ponente ne avevamo una sola, la maggiore, come così chiaramente riportato nell’opera Brandici?
La presenza così evidente di due torri a levante è abbastanza particolare e differente da tante altre piante; tuttavia, bisogna osservare che esistono anche alcune rappresentazioni nelle cartografie che non evidenziano una sola torre in corrispondenza di ciascun lato, ma una serie di costruzioni.
È il caso del portolano pubblicato dal cosmografo Coronelli Specchio di mare nel 1686. Troviamo riportato a lato un particolare dell’immagine del porto presente sul portolano.
Brindisi è circondata dal suo sistema difensivo e dai due seni, con i dettagli della costa indicati nel porto esterno, oggi porto medio, quali l’isola Sant’Andrea e le Pedagne. Sono chiaramente indicati i bassi fondali causati dai depositi di terra in corrispondenza dell’imboccatura che quasi ostruiscono il canale di ingresso al porto interno, e le torri ai lati. Ebbene, si può chiarissimamente notare che anche qui le torri indicate sul lato di levante sono due e non una. Anche sul lato di ponente sembrano esserci altre costruzioni nei pressi della torre.
Un secondo portolano, questa volta quello ben più noto del Roux Recueil des principaiux plans, des ports, et rades de la Mediterranee del 1764 sembra mostrare sul lato di levante una seconda torre affianco al toponimo “Petit tour”.
Analogamente, la bellissima rappresentazione del nostro porto nella tavola del portolano di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810, sicuramente molto ben dettagliata per l’epoca, mostra ancora una torre (Tower) sul lato di levante più arretrata all’interno rispetto al canale, probabilmente ormai ridotta a rudere o addirittura non più esistente, che certamente non poteva quindi essere quella che un tempo reggeva uno degli estremi della catena.
Sembra abbastanza evidente quindi che le due torri angioine ai lati dell’ingresso al porto erano state affiancate nel tempo da altre costruzioni e da un’altra torre sul lato di levante, anche se non è semplice ricostruire come fosse esattamente lo scenario ai lati del canale angioino nel 1538.
Che ci fossero altre edificazioni oltre alle due torri lo sostiene anche Ferrando Ascoli in La storia di Brindisi che a pag. 103, dopo aver descritto le due torri che reggevano la catena, dice “Oltre le torri, e probabilmente intorno a queste, il re Carlo dovè far costruire delle fortilizie di piccola mole; chè; il 6 di novembre del 1284, ordina al giustiziero di terra d’Otranto, Erberto d’Orleans, che da ora in avanti le torri del porto di Brindisi siano custodite da 10 inservienti.”
E ancora troviamo una conferma da una ulteriore mappa molto interessante, perché anch’essa non presente sulle pubblicazioni locali esaminate, ma disponibile in versione digitalizzata tramite il sito www.oldmapsonline.org di Gerard van Keulen dal titolo Porto Brundisi int groodt pubblicata in Olanda nel 1720 e messa a disposizione in forma digitale dalla Leiden University Library.
Si tratta di una mappa suddivisa in 12 riquadri ciascuno rappresentante il piano di un porto di diverse città. Il nono di questi è quello di Brindisi e nella figura ho riportato il dettaglio del canale di ingresso del porto. Si possono vedere chiaramente due torri sul lato di levante e altre fortificazioni a ponente. Anche questa mappa nel suo complesso richiederebbe uno studio approfondito, essendo certamente poco nota se non quasi sconosciuta.
Ulteriore riscontro della presenza di altre torri nei dintorni lo ritroviamo in una mappa del tutto inedita del 1630, anch’essa certamente del tutto sconosciuta alla città di Brindisi e a chi ha finora pubblicato cataloghi e articoli ed organizzato mostre sulla cartografia locale. In quest’opera sembrerebbero esserci addirittura tre torri sul lato di levante del canale, con diverse altre fortificazioni anche sul lato di ponente dell’imboccatura del canale.
Questa mappa l’ho ritrovata quando avevo praticamente concluso questo mio studio, è anch’essa di origine veneziana ed a mio avviso meriterebbe uno studio a sé perché di grande rilievo per la storia cartografica della città e perché mai comparsa nelle pubblicazioni locali. Maggiori dettagli e la sua inedita immagine sono forniti nella postfazione del mio libro.
Probabilmente esistono ulteriori descrizioni storiche specifiche che possono confermare la presenza di altre torri magari con più precisione in riferimento alla data del nostro documento, ma lascio anche questa verifica a chi eventualmente è interessato ad approfondire sulla storia di quella seconda torre a levante nel documento che stiamo descrivendo.
Il titolo in cartiglio – BRANDICI
È molto interessante e forse inedito, almeno nella cartografia, il nome che Francesco Tommaso di Salò attribuisce alla nostra città con il cartiglio dedicato. Non ho trovato alcuna pubblicazione o documento storico cartografico che chiama esattamente con il nome di Brandici la nostra città, anche se ci avviciniamo molto con altri toponimi.
Io credo che questo sia addirittura uno dei motivi per cui non è poi così immediato reperire la carta sui motori di ricerca del web, in quanto sappiamo che l’unico riferimento negli ultimi anni sono le informazioni dei siti delle gallerie che la propongono in vendita, giustamente con il nome indicato nella tavola, che però non è associato a Brindisi in nessun altro documento facilmente accessibile in rete.
È stato piuttosto divertente stilare un elenco di tutti i nomi che hanno identificato la città di Brindisi, partendo dalle sue origini. BRANDICI non l’ho mai trovato nelle fonti storiche esaminate.
Ci viene incontro una interessantissima ricerca di Nazareno Valente, I nomi che hanno identificato la nostra città (Brindisi), pubblicata sul sito Gruppo Archeo di Brindisi. Riassumo i nomi da lui identificati nell’articolo, senza indicare tutti i riferimenti bibliografici agli atlanti e portolani dell’epoca. Questi riferimenti sono ovviamente indicati dall’autore nella sua pubblicazione.
Innanzitutto, come ben noto, da “Bréntion”, che in lingua messapica indicava la testa di un cervo che molto probabilmente ha dato il nome alla nostra città per la particolare forma del porto, abbiamo le derivazioni greca di Brentésion e romana Brunda e quindi Brundisium. Questo toponimo nel medioevo ha subito numerosissime varianti: Brandisium, Brandisi, Blandizia e Branditia, poi Brundizio e Brandizio nel XIII e XIV secolo.
Brandizio è il toponimo utilizzato da Dante nella Divina Commedia che nel Purgatorio fa esclamare a Virgilio, “Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”. Nello stesso periodo si ritrovano anche altri toponimi come: Blandizo, Brandizo, Brundisia, Brandizia, Brandiz e Brandiço, mentre nel XV secolo i toponimi utilizzati furono: Branditio, Brandizi, Brundusio, Brondusio.
Alla fine del secolo XV compaiono Brindese o Brindise e, dal 1519 anche Brindisi. In quello stesso periodo ritroviamo anche Brindesi (la stampa di G.B. Pacichelli riporta questo nome) e Brindici, voce usata nell’History of Venice di P. Bembo.
In tutta questa lunga carrellata di identificativi nei secoli fino alle prime comparse del termine Brindisi, quasi contemporanee alla data della nostra carta, BRANDICI risulta assente. Ci siamo arrivati molto vicini con Brandizi e Brindici, ma possiamo affermare che alla lista suddetta si debba necessariamente aggiungere anche BRANDICI, citato sull’esemplare unico di cui stiamo parlando e forse su pochi altri documenti di origine veneziana che io non sono stato in grado di reperire ma che sicuramente esisteranno.
Abbiamo una incredibile e forse unica conferma dell’utilizzo di questo nome nella cartografia della nostra città anche nell’altra eccezionale mappa già accennata nel paragrafo dedicato alle torri del porto raccontato nella postfazione del mio libro. Risale al 1630 circa ed è quindi la conferma di come BRANDICI fosse certamente il toponimo usato per indicare la città di Brindisi sulle carte veneziane tra il XVI e il XVII secolo.
Maggiori informazioni su questa carta veneziana, come abbiamo detto, sono indicate nella postfazione del mio libro.
Il toponimo stesso BRANDICI per la sua particolarità è certamente un’altra ragione che rende unico e prezioso il documento in questione. La conferma che tale nome fosse effettivamente utilizzato a Venezia tra il XVI e il XVII secolo, grazie al ritrovamento di una seconda mappa con quello stesso nome, anche questa praticamente sconosciuta, è stato motivo di grande soddisfazione.
Cartiglio di sinistra – EL VERO SITO DI BRANDICI IN PVGLIA
Nel cartiglio di sinistra si possiamo leggere:
VER. SITO. DI. BRANDICI. IM PUGLIA. STAMPATO IN VENETIA. PER. FRANCESCO LIBRAR. DALA. SPERANZA. A. M.DXXXVIII.
L’arsenale nel seno di levante – L ARSENAL
Questa è forse la novità più rilevante sugli elementi topografici della carta. A mio avviso, non esistono altre rappresentazioni nella cartografia storica di Brindisi fino ad oggi conosciuta che mostrino questo grande arsenale costruito in epoca angioina ed ampliato nel tempo sul seno di Levante nei pressi della stazione marittima. Ho trovato diverse indicazioni sulla sua esistenza provenienti dai registri angioini e poi riprese da Ferrando Ascoli ne La storia di Brindisi. Nicola Vacca in Brindisi Ignorata ipotizza anche la sua esatta posizione.
Riporto testualmente quanto reperito sul sito della Provincia di Brindisi, nell’articolo pubblicato mercoledì 10 settembre 2008 relativamente al castello a mare angioino (o di S. Maria del Monte), che conferma la posizione di un arsenale nei pressi della stazione marittima, seppur non sia indicata la fonte specifica. Lo stesso testo virgolettato è riportato su brindisiweb.it nella scheda storica a cura di Roberto Piliego relativa al Castello Alfonsino o Aragonese.
“Carlo I d’Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, prima re di Sicilia, poi anche d’Albania e di Gerusalemme, vincitore degli Svevi nel 1266 a Benevento e nel 1268 a Tagliacozzo (sarebbe poi stato sconfitto dagli Aragonesi nel 1284), fece costruire a Brindisi, nel 1268, un castello con sei torri merlate che si affacciava sul seno di levante, in località Belvedere. Fu questo il Castello di S. Maria del Monte (nel quale era incorporato il palazzo reale), detto Castello a mare per distinguerlo da quello di “terra”, lo Svevo di Federico II, che pure si affaccia sul mare. Nel 1410 il castello aveva già bisogno di riparazioni e divenne inutile (fu disarmato e demolito) dopo la costruzione del Castello Alfonsino ad opera degli Aragonesi. Carlo I d’Angiò, che attuò con scarsa fortuna una politica espansionistica in Oriente, costruì ai piedi del Castello un grandioso arsenale, nello stesso luogo dove si trovava l’arsenale romano e dov’è ora la stazione marittima.”
Ferrando Ascoli a pag. 106 del suo libro La storia di Brindisi riferisce “Oltre il castello, dov’è oggigiorno il bagno penale, conosciuto sotto il nome di castello di terra, un altro castello era dalla parte opposta, nelle vicinanze dell’attuale ufficio del porto. Qui, infatti, si sa essere stato l’arsenale costruito dai Romani, e rifatto da Carlo I. Fabbricandovi si scopersero diversi oggetti, varie opere che dimostrano questo. Inoltre, nell’ordinazione di lavori di riparazione in questo castello si nomina la torre che sta nell’arsenale. Quest’altro castello doveva essere assai importante, a giudicare dai lavori che il re, l’8 maggio del 1277, stando a Brindisi, stabiliva vi si dovessero fare dai Brindisini Ruggero De Ripa, e Nicolò di Ugento.”
A questo punto Ferrando Ascoli riporta da pag.106 a pag.109 il dettagliatissimo elenco dei lavori al castello, al palazzo al suo interno, alle torri, e a quella “che sta nell’arsenale, che è della stessa grandezza ed altezza si faranno le stesse costruzioni.”
Sempre Ascoli, a pag. 111 ci dice che “Importantissimo era a questi tempi l’arsenale marittimo, riattazione, e ampliazione dell’arsenale romano, che sorgeva nella località, dove ora termina il tronco ferroviario alla marina.” A seguire ne descrive molto in dettaglio tutti i lavori di ampliamento.
Anche lo storico Nicola Vacca in Brindisi Ignorata a pag. 155-158 e 161-162 ci parla del Castello della collina di Santa Maria del Monte, affermando che “Il castello era costituito da ben 6 torri merlate: …2) una torre dalla parte dell’Arsenale (ch’era, come vedremo, contiguo al palazzo)”.
Già all’inizio del ‘400 il castello doveva essere malridotto e infatti nel 1410 fu ordinato di eseguire riparazioni alla fortezza di mare nonché ai suoi ponti ed alla sua catena. Vacca sostiene che probabilmente fu disarmato e demolito dopo la costruzione del castello dell’isola, poiché “il nuovo castello difendeva più razionalmente del primo il porto e la città dalla parte di mare”.
Ed infatti a pag. 161 Vacca conclude che, “…sul Belvedere stesso era il torrione, non so perché chiamato del sangue, registrato come Belvedere al n.12 delle didascalie della stampa del Blaeu, in cui graficamente viene riportata una torre diruta; non è azzardato congetturare che sia una delle relitte torri del castello angioino”.
Il Vacca a pag. 158 descrive con chiarezza l’arsenale, posizionandolo con molta precisione. “A piè della collinetta di Santa Maria del Monte, dove è oggi la stazione ferroviaria del porto, sorgeva l’arsenale angioino (domus tarsianalus). Invero qui era stato l’arsenale dei tempi di Roma. Nello stesso sito sorse poi quello di Federico II di Svevia. Carlo d’Angiò, per la sua politica di espansione in Oriente, fece sorgere come abbiamo visto un altro castello, e potenziò ed allargò notevolmente il vecchio arsenale svevo”. Di seguito il Vacca riporta che il Moricino scriveva: “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico arsenale, e vi dura anche il nome, opera certo magnifica degli antichi romani… era stato doppo ristorato per l’occasioni continue di navigare in Terra Santa per tutto il tempo di Federico e ultimamente Carlo l’aveva molto ben risarcito e quasi rifatto di nuovo…Era questo arsenale nel sinistro corno delli due che cingono la città sotto l’istesse mura , luogo però diritto alla bocca di esso porto…” Il Vacca ci dice quindi che i documenti angioini confermano quanto scriveva il Moricino, poiché il re Carlo d’Angiò ordinò il rifacimento del vecchio arsenale e lo ingrandì con altri 37 edifici, che furono costruiti nel luogo cosiddetto “Pizzuto”, come indicato nei registri angioini (a. 1272 fol. 210).
Vacca critica quindi Ascoli, il quale aveva sostenuto (pag.115) che “Pare impossibile ora con sì pochi dati, e senza alcun vestigio di questo arsenale, lo stabilire la ubicazione, la forma e l’importanza.” Il Vacca, infatti, sostiene che “E’ ovvio riconoscere il luogo detto “Pizzuto” nell’estremità a forma di angolo quasi acuto (“pizzuto” nel dialetto salentino ha questo preciso significato) che nella cortina muraria della città forma uno sperone e che nella Mappa del 1739 è chiamato “Bastione dell’Espontone”, che credo traduzione in spagnolo della dialettale parola “puntone” (angolo, cantone). Il “torrione dello Spontone” esisteva ancora nel 1864. In quell’angolo, dunque, erano i 37 edifici del tarsianatus costruiti dall’angioino.”
Vacca conclude l’argomento sull’arsenale riferendo che “Nulla si sa circa l’epoca del disarmo e della demolizione dell’arsenale”.
Ed è qui che torniamo alla nostra carta di Brandici, che a mio avviso sul tema arsenale risulta essere una testimonianza importantissima. La carta di Brindisi che stiamo esaminando, che ricordiamo è riferita al 1538, non riporta nulla del castello se non, forse, i torrioni già citati, ma mostra invece in grande evidenza l’arsenale nella posizione descritta da Vacca.
L’arsenale era dunque l’unica struttura di origine angioina ancora esistente almeno fino alla data del 1538. Sono certo che il Vacca avrebbe molto apprezzato questo documento se lo avesse potuto vedere.
Un ulteriore studio sulla presenza e l’evoluzione dell’arsenale ci viene fornita con parecchi dettagli e riferimenti bibliografici anche da Maria Sirago ne il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità in un testo scritto in occasione di una conferenza tenutasi il 31 ottobre 1996 presso la Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi.
Citando i registri angioini (cit. VIII 1272) e Ferrando Ascoli (cit. pag. 111-114) viene evidenziato che nel 1272 Carlo I D’Angiò ordinava che fossero risistemati i più importanti arsenali, tra cui quello di Brindisi. Brindisi in quel tempo divenne infatti il centro della ricostruzione della flotta Regia. Ferrando Ascoli, a pag. 111-114, cita una lettera del 12 aprile 1274, in cui si parla di due officine già costruite per i diversi gruppi di operai addetti all’arsenale e si ordina di costruire 7 piloni e fra un pilone e l’altro sei archi e sulla facciata marina un arco capace di far passare galere e teridi. Poco dopo ordinò di ampliare con altri 17 edifici l’arsenale di Brindisi che, dopo quello di Napoli, era il più importante del regno (Ascoli, pag. 114-115).
Maria Sirago ci dice anche che, nel periodo Aragonese, il re Alfonso decise di potenziare ulteriormente gli arsenali di Brindisi e Taranto, anche perché è a Brindisi che il Grande Ammiraglio, da cui dipendeva tutta la marina del regno, aveva la casa dell’Ammiragliato (C. Massaro, cit. p. 295, e I Schappoli, Napoli aragonese: traffici e attività marinare, Napoli 1972).
Tutto questo a conferma che il nostro arsenale non solo è “sopravvissuto” certamente fino all’epoca Aragonese, ma che invece in quell’epoca veniva ancora potenziato. La sua imponente presenza sulla carta di Brandici lo evidenzia pienamente.
Poiché l’arsenale non è più rappresentato nelle più note mappe del Seicento e poiché lo stesso Moricino scrive “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico Arsenale”, io credo si possa supporre che il disarmo e quindi la demolizione sia avvenuta tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del successivo.
Il Castello Svevo – EL CASTEL
Ovviamente non poteva mancare il Castello Svevo di Federico II nella nostra carta. Voluto da Federico II di Svevia fu fatto poi restaurare da Carlo I che, come ci attestano i registri angioini, provvide ad innalzare le torri e costruire un palazzo reale all’interno.
Il primo vero e proprio ampliamento si deve a Ferdinando I di Napoli che nella seconda metà del XV secolo fece costruire un’ulteriore cinta muraria, più bassa e spessa della precedente munita di torrioni bassi e circolari.
Il disegno nell’opera che stiamo esaminando è molto semplificato, ma visto il periodo della tavola e visto che sono evidenti le costruzioni all’interno delle mura, desumo che voglia rappresentare il castello con l’inclusione dell’antemurale.
Le Colonne Romane, Porta Reale e la Cattedrale – VES COVA
All’interno della cinta muraria appaiono alcuni elementi caratteristici della nostra città, sebbene il loro reciproco posizionamento risulti abbastanza approssimativo.
Innanzitutto, troviamo le due colonne romane, stranamente in una posizione piuttosto arretrata rispetto al porto, quasi ad evidenziare la loro centralità (erano già il simbolo della città). Una delle due colonne risulta chiaramente crollata, essendo rappresentata con il solo basamento più una piccola parte ancora eretta.
Siamo esattamente a 10 anni di distanza dal suo crollo, avvenuto il 20 novembre 1528, senza apparente motivo. L’episodio fu pronosticato come l’arrivo di prossime sciagure.
È molto probabile, ma andrebbe meglio verificato, che quello che stiamo esaminando è in assoluto il primo documento della storia di Brindisi a rappresentare graficamente le due colonne romane, di cui una caduta.
In primo piano, davanti all’imboccatura del porto, possiamo osservare chiaramente la Porta Reale fatta edificare insieme alla cinta muraria intorno al 1474 da Alfonso, figlio del re Ferdinando, perciò chiamata Reale, già scomparsa tra la fine del XVIII e l’inizio del successivo.
In posizione leggermente arretrata rispetto alle colonne troviamo poi la Cattedrale, identificata dal toponimo VES COVA, ad indicare appunto la cattedra del vescovo della città, consacrata da Urbano II nel 1089, completata nel 1143 e poi quasi completamente ricostruita in seguito al terremoto del 1743. La chiesa è infatti anche l’unica nella tavola a presentare annesso un grande campanile.
I pozzi o le fontane
All’interno della cinta muraria sono ben evidenti due elementi caratteristici, purtroppo privi di descrizioni o toponimi. A mio avviso rappresentano dei pozzi o delle fontane.
Da quel che sappiamo (Andrea Della Monica Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi) nel 1538 ancora non esistevano fontane vere e proprie che potessero distribuire acqua corrente all’interno della città, queste erano infatti collocate fuori dalle mura.
Si deve infatti al governatore spagnolo Pietro Aloysio de Torres la costruzione, nel 1618, delle condotte finalizzate a portare l’acqua alle prime fontane all’interno delle mura.
Tuttavia, almeno un pozzo all’interno della città certamente già esisteva dai tempi del periodo imperiale, anche se nel 1885 alcuni esperti in condotte attribuirono la sua costruzione ad epoca medioevale (XIII o XIV secolo). Si tratta del Pozzo di Traiano che, almeno fino al 1700, era ancora il serbatoio idrico a cui attingevano i cittadini di Brindisi. Il Moricino diceva che Traiano, durante la sua attesa in città prima di imbarcarsi da Brindisi per l’impresa contro gli Armeni e Parti, probabilmente fece costruire il pozzo “che fino al giorno d’oggi somministra copiosissime acque ai Brundusini” (cito Brundarte.it, Via Pozzo Traiano a Brindisi, 13 agosto 2021).
Questo pozzo, quasi certamente in funzione fino a che non furono realizzate le prime fontane, potrebbe essere quello indicato nella figura a sinistra. L’alimentazione era collegabile a sorgive ma analisi eseguite nel 1828 e 1928 evidenziarono la loro non potabilità.
Ne troviamo poi un altro sul lato destro, più a occidente, non lontano dalle mura nella zona del castello, ma non riesco a fare alcuna ipotesi in merito.
Entrambi i pozzi sembrano sorgere in delle piazze sulle quali si affaccia anche una chiesa.
La città, le fortificazioni e la chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte
Ho descritto tutti i particolari dell’opera a mio avviso degni di rilievo e chiudo la carrellata con un commento generale sulla visione di insieme della città, sulle fortificazioni e qualche ulteriore dettaglio sulla possibile identificazione di una chiesa.
La cinta muraria è perfettamente definita. Era stata appena potenziata da Carlo V intorno al 1530 con la costruzione dei bastioni di San Giorgio, San Giacomo (fuori dalla mappa), i fortilizi e le cortine di Porta Lecce.
Possiamo certamente affermare che l’opera di Francesco Tommaso di Salò ci presenta davvero una città dalla cinta muraria appena ristrutturata e potenziata, alla sua massima efficienza, tanto che il nuovo sistema difensivo di Brindisi era ritenuto veramente difficile da espugnare ed infatti i turchi rinunciarono ad invaderla nel 1537.
Sul lato di levante vediamo poi i bastioni ormai scomparsi (probabilmente Bastione Arruinado, Bastione dell’Espontone e Bastione dell’Escorciatore, citati nella famosa mappa spagnola di Amat Poulet del 1739).
All’interno della città, oltre alla Cattedrale chiaramente identificata, si possono scorgere altre chiese grazie alla presenza di una croce sul tetto, ma ritengo sia impossibile attribuire un nome se non con ipotesi piuttosto azzardate che preferisco evitare.
Forse l’unica altra chiesa a cui possiamo dare un nome è quella appena al di fuori dalle mura in prossimità della fine del seno di levante e quindi di Porta Lecce, chiaramente visibile nell’angolo alto a sinistra della figura successiva, che a mio avviso è la Chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte, in stile romanico con annesso un monastero. La chiesa fu fondata da Margarito da Brindisi, ammiraglio normanno, come rilevasi da una lettera di Celestino III del 4 febbraio 1195, e fu un monastero di padri premonstratesi ai quali era affidata l’educazione dei bambini poveri della città. Il grande complesso, secondo Ascoli, fu in gran parte demolito intorno al 1777 durante i lavori di colmamento e bonifica delle paludi e poi distrutta del tutto verso la fine del XIX secolo.
Fuori dalle mura infine qualche casetta nelle campagne ed alcune barche locali nel porto interno.
Le mie considerazioni sugli aspetti topografici terminano qui. Per tutte le altre considerazioni ed aspetti inerenti quest’opera rimando al libro appositamente dedicatole.
Sono perfettamente cosciente e quasi sicuro di aver commesso anche errori nelle mie interpretazioni, forse grossolani, che spero possano essere corretti da chi ne ha invece le giuste competenze.
Ma il primo obiettivo, quello di comunicare alla mia città l’esistenza di un documento di enorme rilevanza, del tutto assente in tutte le precedenti pubblicazioni e ricerche locali, è stato pienamente raggiunto. Questo è il mio personale tributo alla città nella quale sono cresciuto.
Ho sentito il dovere di fare il possibile per divulgare, quasi gridare, l’esistenza di questa opera cinquecentesca su Brindisi, al fine di stimolare chi invece ha le competenze e la passione per approfondire molto meglio di quanto abbia potuto fare io, come il rarissimo documento certamente merita.
Accettando qualunque possibile critica, mi auguro vivamente che tutto il mio lavoro sia seguito dall’apporto di studiosi ed appassionati locali, che spero di aver stimolato e che certamente conoscono bene quali fonti, cartografie, documentazioni pastorali, notarili o di qualsivoglia tipo serve interpellare per approfondire gli elementi che provengono da questo documento.
La tavola in questione, se da un lato fornisce tante certezze e trova riscontri storici ben precisi, dall’altro lascia diversi dubbi o meglio curiosità che meriterebbero una risposta o magari l’approfondimento di studiosi preparati.
Ho voluto esplicitare i più evidenti di questi riscontri, lanciando anche qualche azzardata ipotesi, con la certezza che non siano gli unici e con la consapevolezza di non avere gli strumenti e la padronanza adeguati per affrontarli meglio.
Mi auguro che qualcuno voglia esporsi su questi punti che per me restano piuttosto oscuri, aggiungendo le proprie conoscenze e certezze. Il mio è un vero e proprio appello agli storici locali a verificare, rettificare ed integrare quanto da me riportato in queste pagine.
Ed infine il mio è soprattutto un appello alle amministrazioni della Città e della Provincia di Brindisi, affinché vogliano raccogliere e contestualizzare tutte le informazioni possibili per fare tesoro dell’esistenza di questo documento rarissimo fino ad oggi sconosciuto alla stragrande maggioranza dei brindisini e degli appassionati di storia locale.
Molta attenzione ha dedicato nei suoi studi Aldo de Bernart al mondo della scuola e dei maestri di scuola a Ruffano fra Otto e Novecento[1]. È in omaggio alla sua memoria che si offrono queste ricognizioni archivistiche sulla storia della scuola ruffanese.
L’affermazione di un sistema scolastico di base in età moderna è stato inevitabilmente vincolato al ruolo svolto dalle istituzioni ecclesiastiche: così in tutta l’Italia meridionale e non fa certo eccezione Ruffano, sul cui territorio hanno operato due diverse tradizioni monastiche già a partire dall’età greco-bizantina fino al XVI secolo, quando si pose fine al rito greco anche in Ruffano, con una tradizione che qui annoverava, fra gli altri, il monaco copista Giorzio Laurezios, la cui opera è giunta fino a noi[2]. È con l’arrivo degli ordini monastici latini che possiamo parlare di una qualche forma di istruzione istituzionalizzata anche in Ruffano e Torrepaduli. A Torrepaduli è attestata fin dal 1550 la presenza dell’ordine dei Carmelitani con il relativo convento, e del 1621 è l’arrivo a Ruffano dei padri Francescani di cui resta traccia anche nell’importante lascito della biblioteca dei Cappuccini[3].
Come evidenziato da Rosanna Basso, uno degli effetti secondari della soppressione dei monasteri fu di “interrompere quelle attività ispirate alla pietas conventulale”, che nei fatti andavano a “costituirsi come zone di Impegno Pubblico dello Stato laico”[4].
Tra queste incombenze vanno certamente annoverate l’istruzione pubblica e le opere di assistenza per orfani e bisognosi, i “figli dello Stato”, come venivano definiti, che nei disegni dell’intendente Saverio Palmieri avrebbero potuto trovare nel “padre collettivo” una guida sicura, il tutto per la pubblica felicità di cui parla lo stesso Palmieri, il pensiero del quale, insieme a quello del Genovesi, è la sottotraccia delle scelte politiche del tempo[5].
L’interesse regio per l’alfabetizzazione delle masse si concretizzò nel 1778 con la promulgazione del Real Dispaccio, secondo cui all’interno dei conventi appartenenti agli ordini mendicanti si dovevano istituire pubbliche scuole, che avviassero soprattutto la plebe, che non aveva mezzi finanziari, all’alfabetizzazione, ovvero ai primi rudimenti della grammatica e del catechismo.
La nascita della scuola moderna è il frutto illuminato delle scelte politiche settecentesche, in particolare di Maria Teresa d’Austria, nell’area di influenza tedesca, dove nasce il prototipo della scuola come la intendiamo oggi, ossia la “Scuola Normale”. Il termine “normale” era tratto dal latino norma, un’unita di misura alla quale originariamente si riferivano i carpentieri, e derivava probabilmente dall’uso fattone dall’abate Giovanni Ignazio Felbiger (1724-1788), ispiratore della riforma scolastica varata appunto da Maria Teresa nel 1774, che prevedeva tra l’altro l’obbligatorietà della scuola elementare per i bambini dai 6 ai 12 anni e l’istituzione di apposite scuole normali per la preparazione dei maestri. Sulla scia del riformismo teresiano, il 22 agosto del 1784 Ferdinando IV fece pubblicare un reale dispaccio nel quale dichiarò la propria intenzione di stabilire nel Regno le Scuole normali; nello stesso anno i celestini Ludovico Vuoli e Alessandro Gentile furono mandati a spese della Corona a Rovereto per apprendere il nuovo metodo[6].
La storia delle istituzioni scolastiche nel territorio del Comune di Ruffano può essere fatta iniziare il 25 settembre 1725 quando venne rogato il legato Piccinni[7]. Secondo le ultime volontà del Piccinni viene fissata come “universale e particolare erede la cappella sotto il titolo beatissima Vergine della Misericordia situata e posta e da me eretta nella Parrocchiale Chiesa di Ruffano”[8]. Piccinni dispone in primis “che si abbia a pagare in ogni anno in perpetuo ad un maestro di scuola ducati 80”; il maestro però deve celebrare una messa al giorno in suffragio del testatario, il che lascia intendere che il maestro sia un sacerdote, “e che abbia a insegnare alli figlioli di Ruffano e Torre paduli tantum e anche ai forestieri”, ma dietro pagamento degli interessati “Grammatica, umanità ed aritmetica”; la scelta del maestro viene demandata alla discrezione del Vescovo di Ugento, il che anticipa la normativa regnicola, e si precisa che il maestro non all’altezza del compito debba essere rimosso.
Nel quarto capitolo del testamento si dispone inoltre che “un padre dotto e detto padre sia tenuto a leggere filosofia e teologia e morale per i giovani di Ruffano e Torrepaduli”.
I beni dell’Opera Pia Misericordia [d’ora in poi OPM] verranno quindi incamerati dalla Amministrazione comunale degli Ospizi nel 1806 e dal 1862 dalla Congregazione di Carità.
Tralasciando qui tutte le questioni inerenti alle disposizioni circa le messe, oggetto di contrasto tra la Congregazione e il clero ruffanese e tra questo e l’ordinario diocesano, le volontà di natura caritativa verranno esplicitamente richiamate dallo Statuto Organico Speciale dell’Opera Pia Misericordia (15 febbraio 1880)[9]. Nel soppresso Convento dei Carmelitani di Torrepaduli era la scuola nelle more del Legato Piccini fino al 1810, come si riporta nella lettera del 15 ottobre 1854 della Congregazione di Carità[10].
Allo stato delle ricerche possiamo stabilire con certezza l’attivazione a Ruffano della scuola normale, come previsto dal decreto napoleonico del 21 Aprile 1813 n.1705, “relativo alle scuole di Ruffano e Presicce”, che a seguito di rapporto del Ministro dell’Interno (Giuseppe Zurlo) stabilisce all’Art. 1 che “le due scuole di Ruffano e di Presicce nella Provincia di Terra D’Otranto saranno riunite e costituiranno una sola scuola secondaria stabilita nel Comune di Presicce”[11]. Inoltre, “la nominata scuola avrà un corso complementare di grammatica e belle lettere e il numero di istruttori che sarà fissato dal nostro Ministro dell’Interno”[12].
In merito alle politiche dell’istruzione si evidenzia una sostanziale continuità tra le scelte della restaurata monarchia borbonica con il Decennio Francese. Dai dati desunti dagli Stati discussi comunali, Petrilli ricava che nel 1848 nel Regno delle due Sicilie dei 170 Comuni che facevano parte della Terra d’Otranto -terza per numero di Comuni -, Ruffano non è indicata tra i 37 che erano senza scuole[13].
Il 16 febbraio 1843 sono nominate tre maestre a Torrepaduli e come riporta Inguscio, che cita le Conclusioni Decurionali, probabile sede della scuola è Palazzo Pasanisi[14]. Il 6 aprile 1858 la Commissione degli Ospizi invia al vescovo di Ugento (Vincenzo Bruni) una terna di maestri fra i quali, come prevedeva il Real Rescritto del 19 giugno 1821 (ma anche ottemperando alle volontà di Aloisio Piccinni, che è il vero movente di questa disposizione), l’ordinario doveva sceglierne uno di suo gradimento[15]. I tre nomi sono quelli dei sacerdoti Aurelio Pepe di Taurisano, Angelo Antonio Guglielmi e Luigi Vitali di Ugento[16].
È documentabile l’attività di docenza pubblica a Ruffano del sacerdote Alfonso Mellusi che “esercita dal 1856”, come riferisce il consigliere Giuseppe Santaloja nella seduta del Consiglio comunale del 30 giugno 1883[17].
Possiamo inoltre attestare quale sia stato il primo edificio scolastico ruffanese. La commissione amministrativa degli Ospizi di pubblico beneficio di Ruffano rappresentata da don Pietro D’Urso, Sindaco Presidente, Don Antonio Licci e Don Achille Valente da una parte, Don Francesco Antonio Licci dall’altra, su autorizzazione del Governatore della Provincia datata 15 novembre, col numero1709, firmano il 29 novembre 1860 il contratto di locazione dell’immobile di Francesco Antonio Licci sito in “una casa a volta nella contrada Porta dei Diavoli (probabilmente l’attuale Via Liborio Romano) per uso della scuola secondaria istruita in questo Comune”,per ducati 8 di affitto, a decorrere dal 1 dicembre per anni due[18].
Il 28 ottobre 1856, il Ministero e Real Segreteria di Stato dell’Interno Ludovico Bianchini autorizza lo stabilimento a Ruffano di 4 Figlie della Carità per assistere ed “educare le donzelle di quel Comune”, inoltre autorizza l’acquisizione della casa, per residenza di Vito Donato Pisanò, al prezzo di 740 Lire[19]. Ma la casa Pisanò non era al momento disponibile sicché il 20 febbraio 1859 viene stilato dall’ Avv. De Pandis un contratto per una “casa destinata provvisoriamente a queste Figlie della Carità”, con “due stanze a tetto con accesso dalla pubblica strada, rimpetto alla porta massima della Chiesa Madre”. Il locatore è Carmelo Pio[20].
Nel 1860 in data non riportata la Congregazione nella persona del Presidente Pomponio D’Urso ottiene da Antonio Leuzzi l’uso della “Cappella di Santa Lucia”, contigua al nuovo fabbricato destinato alle Figlie della Carità per uso delle stesse suore[21].
L’8 aprile 1866 “è stabilito nel Comune di Ruffano un Asilo Infantile, sostenuto in tutto e per tutto dalla Congregazione di Carità”, come appunto recita l’Art.1 dello Statuto per l’Asilo Infantile Margherita[22]. Sono ammessi 30 alunni equamente ripartiti tra maschi e femmine in base ad un sorteggio degli aventi diritto; dei tre, un maschio e una femmina provenienti da Torrepaduli (art 3-6), ma dietro il pagamento della retta annua di L.1,50 sono ammessi tutti gli altri. Prova ne sia che l’Ispettore scolastico provinciale Paolo Massone, nel suo Sunto dello Stato morale e materiale dell’istruzione popolare … 1867-1868, segnala che in media l’asilo di Ruffano ospitava 70 bambini[23]. Il prefetto Murgia il 5 dicembre 1866 autorizza l’adeguamento di ambienti dell’ex convento dei Cappuccini da destinarsi all’asilo[24].
Prima direttrice dell’Asilo infantile di cui abbiamo notizia è Antonietta Nicoli, bergamasca, che viene congedata dalla Congregazione di Carità nel 1869 in seguito a gravidanza; da questo scaturisce un contezioso con la Congregazione di Carità per quello che oggi definiremmo licenziamento senza giusta causa[25]. Nel periodo della gravidanza la Nicolì venne sostituita da Concetta Margarito come la stessa riferisce in una lettera al Prefetto di Lecce del 24 Giugno 1871 nella quale lamenta “dispiacevolmente di tante fatiche prestate a beneficio dell’Umanità per l’educazione ed istruzione dei poveri figli del popolo”,di non aver mai “ricevuto “compenso di sorte” quale maestra assistente dell’asilo dal 1868 al1869 e precisa che per parecchi mesi ha anche diretto l’asilo stesso “stante la gravidanza e malattia della Direttrice di allora”[26].
In realtà, la prima nominata con lettera del 25 maggio 1866 n.904 del Regio Ispettorato Sopra le scuole primarie e magistrali è Candido Marianna, che rinuncia per motivi di salute. Per non attardare oltre l’apertura del “patriottico Istituto”, sono nominate la Nicoli, Direttrice, con uno stipendio di L. 800, e Carrera Angelina, Maestra assistente a L. 500[27].
In una comunicazione al Ministro dell’Istruzione, il Prefetto di Lecce il 7 gennaio 1866 riferisce con entusiasmo dell’apertura degli asili in provincia: “mercè l’attività e solerzia di questo instancabile Ispettore scolastico Cav. Manfredi spero di poterne inaugurare altri tre nel corrente mese in Gallipoli, cioè, Brindisi e Latiano. E se si rinverranno abili Direttrici se ne potranno aprire altri quattro nel prossimo febbraio nei Comuni di Taranto, Grottaglie, Maglie e Ruffano ove si stanno portando a compimento le pratiche relative”[28]. Nella sua Relazione al Consiglio Provinciale del 1 dicembre 1865, in effetti, il Prefetto Ignazio Murgia aveva dato notizia della imminente apertura in Provincia di alcuni asili tra cui Ruffano[29]. Nel 1867 è già attivo l’“Educatorio femminile” in cui: “Vi si ricevono alunne dai sei ai diciotto anni, pagando l’annua retta di lire 153 oltre il corredo. Direttrice Sacarcan Agostina. Maestra Lantelegne suor Rosa, Assistente Pastore Concetta”[30].
Ritorniamo alla Nicoli. Il contenzioso che scaturì tra la direttrice, difesa dall’avvocato Luigi Villani, e la Congregazione, patrocinata da Giuseppe Foscarini, aveva un retroscena alquanto scabroso che diede scandalo in tutto il paese.
Nella denuncia del 30 agosto 1869 il procuratore legale della direttrice Benedetto Bodini, riferisce di “una deliberazione del Consiglio Provinciale Scolastico del 25 Luglio 1868” che aveva sancito “pel S.r Mellusi come ispettore dell’Asilo Infantile la interdizione di dare lezioni in tutti i comuni del circondario di Gallipoli”; per la Signorina Carrera la sospensione di sei mesi e di tre mesi “per la S.ra Nicoli come colei che aveva la Direzione dell’Asilo e che aveva l’incarico di guardare tutto il personale insegnante perché aveva mostrata la carenza negli abusi avvenuti per sì lungo tempo poco curandosi di riferire alle autorità superiori quando non aveva ottenuto alcuni risultati dalle relazioni fatte all’Ispettore ed al delegato e continuando ad usare col Mellusi espressioni affettuose, fatti che mostrano la sua tolleranza”. In altri punti della pratica, più esplicitamente si riferisce di “Lunghi trattenimenti da solo a solo (del Mellusi) colla Carrera nelle ore notturne”. Insomma, viene fuori un ritratto del Mellusi un po’ diverso da quello conosciuto finora, meno ligio al dovere sacerdotale e più attento ai piaceri di Venere[31].
La nascita di un asilo a Ruffano è significativa della temperie sociale di quegli anni. Il progressivo ingresso della donna nel sistema produttivo industriale tra fine ‘700 e inizi ‘800 determinò la necessità di una assistenza che non fosse esclusivamente legata all’ambito parentale o al mutuo aiuto fra vicini, anche in una piccola realtà agricola come il comune ruffanese.
Nell’Italia liberale si assiste alla “scoperta dell’infanzia”[32]. La presenza delle Figlie della Carità o suore vincenziane non fu duratura; infatti non mancarono insofferenze verso l’affido di istituzioni educativo-caritative alle suore; gli esponenti del Risorgimento salentino, in primis Castromediano, puntavano alla laicizzazione delle istituzioni scolastiche.
Sintomatico fu lo scontro con il Provveditore agli studi della Terra d’Otranto in servizio dall’ottobre 1871, il trapanase ed ex garibaldino Salvatore Calvino (1820-1883), il quale ci consegna un’immagine molto critica delle scuole in Provincia in una delle sue note, in cui si sofferma particolarmente sui maestri privi di titoli: “su 170 scuole diurne maschili, 87 soltanto hanno il maestro patentato, e quelli delle 162 scuole private si possono dire quasi tutti sforniti della patente. Nè gli 87 che hanno il titolo legale, fatta qualche rarissima eccezione, si possono dire veri maestri”[33]. Inoltre scrive: “Gli educandati privati sono tenuti dalle Figlie della Carità. In essi s’insegnano le materie delle classi elementari senza attenersi di fatto ai programmi governativi. La classificazione delle alunne non è regolare, l’istruzione è meschina, la parte educativa è a ritroso della civiltà e delle libere istituzioni. Questi Educandati hanno sede nei Comuni di Galatina, Maglie, Oria e Ruffano e Taranto”[34].
La presenza a Lecce di Calvino coincide con un momento critico nella storia del giovane Regno d’Italia all’indomani della presa di Roma e dell’esplosione della “Questione Romana” che portò ad un esacerbarsi dello scontro tra clericali e anticlericali. Ben diversi sono i toni di Calvino in una lettera privata da Lecce il 1 maggio 1872 al Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti (1815-1888) in cui lamenta gli ostacoli frapposti dalle suore alla laicizzazione degli istituti educativi. Calvino presenta un quadro per niente edificante del livello di alfabetizzazione, delle donne in particolare: “le donne che sanno leggere e scrivere, anche nelle classi agiate, possono contarsi sulle dita; tutte sono prive di qualsiasi educazione”[35].
Gli strali di Calvino sono per le religiose e per il loro operato. Egli parla di una vera e propria “azione malefica delle Figlie della Carità cui alcuni Comuni importanti hanno affidato le loro scuole”, con “un’invasione che fu potentemente aiutata dal prefetto Winspeare, il quale ha fatto un lavoro funesto di regresso che non si riuscirà agevolmente a distruggere”[36]. Lamenta l’azione discriminatrice delle Suore che di fatto favoriscono solo le figlie delle persone agiate e che “nei Consigli Comunali e nelle Congregazione di Carità proteggono le monache perché le proprie figlie nelle dette scuole sono preferite e accarezzate…”, e si scaglia contro “quel demonio di prussiano che è suor Giuseppina Schone la superiora delle Figlie della Carità, appollaiata nel palazzo comunale di Lecce”; quindi riferisce che è stato avviato un repulisti generale e che su indicazione ministeriale si doveva “procedere con prudenza e riguardi ma direttamente e con fermezza verso il giusto fine (ossia laicizzare le scuole). L’opera è avviata, malgrado gli ostacoli che s’incontrano ad ogni piè sospinto; ed il fatto di Taranto ne è una luminosa prova. La Congregazione di Carità di Ruffano, che mantiene quasi interamente scuole comunali e asilo si dispone a seguire l’esempio”[37].
In realtà, nel periodo immediatamente dopo l’Unificazione, l’Italia si trovò ad affrontare il problema della carenza di insegnanti come risultò evidente dall’Inchiesta sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia, proposta nel 1864 da Carlo Matteucci, vicepresidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, da cui emerse che a fronte di un fabbisogno stimato di 50.000 maestri si poteva disporre di soli 16.770. Ciò, come sottolinea Covato, inevitabilmente determinò un approccio pragmatico al processo di scolarizzazione, tra cui la scelta di consentire l’insegnamento anche ai privi di titoli e tollerare la massiccia presenza di ecclesiastici[38].
Il problema venne affrontato dal Prefetto Murgia che il 12 febbraio1866 fissò a Lecce una sessione speciale di esami per i maestri che esercitavano in provincia privi di titoli[39].
Il Sottoprefetto di Gallipoli il 17 aprile 1872 scrive a Ruffano per richiamare la normativa che proibiva la direzione della pubblica istruzione alle congregazioni religiose con l’aggravante che “le superiore appartengono ad estere nazioni”, e ordina di bandire un pubblico concorso per la nomina delle nuove maestre imponendo l’obbligo di mantenere l’incarico per un anno e se “suore” di sottostare ai doveri dei pubblici impiegati. Il Sottoprefetto richiama il caso di una suora che nel corso d’anno è stata trasferita dai superiori e ricorda inoltre l’obbligo di sottoporre le nomine delle maestre all’approvazione del Consiglio Scolastico Provinciale[40]. Nel 1872 le Suore vengono cacciate e si apre così una fase laica dell’istruzione a Ruffano fino al 1881, anno di arrivo delle Figlie di Sant’Anna[41].
La Congregazione di Carità stabilirà la sua sede nell’attuale Via Regina Margherita come riporta l’epigrafe in rilievo sulla facciata: “Congregazione di Carità 1872”. Inoltre, l’Educandato femminile nella Delibera n.1 del 30 ottobre 1873 è indicato con il nome di “Principe Umberto”[42]. La suora vincenziana nell’atto della consegna l’11 novembre 1872 è Giuseppina Gatteschi invece della superiora Emiliana Sacaleoni impossibilitata a presenziare[43].
Semeraro segnala anche un “Carteggio tra Prefettura e Ministro” (1872) circa la minaccia di chiusura delle scuole di Ruffano gestite dalle suore di Carità[44]. Il Prefetto con lettera del 12 ottobre 1872 su richiesta della Congregazione di Carità nomina direttrice dell’asilo infantile Zanoni Giuseppina e maestre dell’educandato femminile Raffi Erminia e Bornati Carolina, queste ultime di Cremona. Raffi parte il 30 gennaio per Lecce, come riferisce il Sindaco di Cremona il 27 Gennaio alla Congregazione di Carità dopo aver precisato che L. 50 di viaggio sono a carico della Congregazione; la Bornati rinuncia all’incarico ma è disposta a riconsiderare l’offerta solo se “lo stipendio venga elevato a Lire 900”[45].
Breve è la permanenza a Ruffano di Erminia Raffi che ha soli 17 anni ed è stata assunta senza l’autorizzazione del tutore, il professor Pollini Eugenio, come comunica il Consiglio Provinciale Scolastico il 28 /07/1873, con Prot. n.1086[46], quando chiede l’immediato licenziamento della maestra[47]. Il 14 luglio 1874 Zanoni redige un inventario dell’educandato e riporta che la direttrice percepisce uno stipendio di L. 850 e la maestra di L. 600 e che le due persone di servizio percepiscono L.150 e risultano “conviventi”, ossia ospiti, 15 persone, per un bilancio complessivo di L. 5712. Le lettere della Zanoni sono inviate da Arluno (Milano)[48].Il 19 marzo 1875 il Consiglio Scolastico Provinciale, tenuto conto che la Congregazione il 15 dicembre 1874 aveva delegato allo stesso le operazioni di nomina della “Maestra assistente”, dà l’incarico ad Angela Guindani di Antonio di Cremona, dichiarando, quali titoli posseduti dalla stessa, “patente normale di grado superiore, altri requisiti voluti dalla legge, ha pure un attestato d’idoneità all’insegnamento negli asili e nei giardini d’infanzia”.
Nel decreto prefettizio di nomina del 19 marzo è precisato che la durata del contratto è di un triennio con stipendio annuo di L. 700 ed il “semplice alloggio gratuito nello stabilimento stesso dov’è l’asilo”[49]. Il 1 aprile 1875 la maestra Angela, scrive alla CdC da Ossolaro (Cremona): “tra poco tempo sarò costì a funzionare e siano certi che cercherò di controcambiare della fiducia che hanno posto in me con assiduità e amore alla scuola alla quale mi hanno affidato. Spero che alla metà di Aprile sarò in codesto paese. Maestra Guindani Angela”. Quindi avanza i suoi desiderata[50]. La donna scrive 15 giorni dopo una nuova lettera in cui precisa il ruolo affidatole di “maestra dell’asilo infantile” e di essersi informata sui costi del viaggio che ammontano a 70 lire, somma che può sostenere solo a metà, “giacché le condizioni economiche attuali della mia famiglia sono critiche […] le altre 35 non so ove trovarle […] se non si fidano della mia persona”, e chiede di inviare la somma per il tramite del Comune[51].
Del 25 aprile 1875 è un’altra lettera della Guindani da Ruffano che avvisa la Congregazione di essere arrivata in paese[52]. Risale molto probabilmente agli anni in cui la Guindani è direttrice la lettera non datata ma presumibilmente del mese di luglio che ella indirizza alla CdC sollecitando la stessa a fissare la data dell’“esperimento finale”, ossia il saggio di fine anno poiché l’asilo incominciava a svuotarsi per l’arrivo dell’estate che spingeva i bambini con le famiglie al mare[53].
Il 30 aprile 1881 non viene rinnovato il contratto della Guindani che passa alle scuole elementari, dove risulta in servizio dal 6 aprile 1883, come da delibera del Consiglio Comunale del 30/06/1883. Inoltre Angiola Guindani, Mellusi, Marzo Marina e Carmelo Arnisi vengono confermati nel ruolo di maestri elementari sulla base dell’art. 3 della Legge 9 luglio 1876, n. 3250 “Sul miglioramento delle condizione dei maestri elementari”[54].
Nel frattempo una importante tappa era stata segnata nella storia scolastica. Con la Legge Coppino del 15 Luglio 1877 venne introdotto l’obbligo scolastico: “I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuta l’età di sei anni […] dovranno essere inviati alla scuola elementare del comune” (art 1). Gli oneri della scuola ricadono sui comuni che percepiscono fondi statali”. Nelle norme transitorie è fissata la quota di un insegnate ogni mille abitanti.
Ad un anno dall’emanazione del provvedimento viene condotta un’indagine ministeriale da cui risulta che il territorio di Ruffano ha una popolazione di 3290 abitanti, il dato sulla frequenza per Ruffano non è riportato, e che operano 3 scuole e 3 insegnanti[55]. Sulla base della norma sul numero delle scuole, si ebbe uno scambio epistolare tra le autorità scolastiche e il Comune di Ruffano a cui fu fatta richiesta “dell’impianto di altre due scuole elementari maschili”. La questione fu portata alla discussione del Consiglio Comunale che nella seduta del 29/12/1878 la rigettò poiché il comune non aveva disatteso la normativa in quanto contava 3290 abitanti compresa Torrepaduli (di 543 abitanti). Disaggregando il dato su Torre, la sola Ruffano ne contava 2747 e il numero dei maestri rispondeva quindi ai dettami della legge[56].
Il 18 aprile 1883 la Deputazione Provinciale di Lecce propone il commissariamento della Congregazione di Carità di Ruffano e nomina il commissario a seguito di un’inchiesta ordinata dalla Prefettura, “stante il ripetersi frequente di irregolarità ed abusi per parte di quella amministrazione, malgrado i richiami”. Pertanto “il governo delle opere pie è affidato ad un delegato straordinario da nominarsi da parte dal prefetto di Lecce con l’incarico di riordinare e rimuovere, nel più breve termine possibile, le irregolarità e gli abusi esistenti”[57]. Nella seduta del Consiglio Comunale del 23 Luglio 1883 si acquisisce una Relazione “contenente le irregolarità” della Congregazione, non vi è alcun riferimento all’asilo ma sull’ospedale è impietosa l’immagine dei degenti poveri che “si fanno uscire pria che si fosse avverata la perfetta guarigione”, e si invoca lo scioglimento della Congregazione. La proposta è approvata con sei voti e favore e con l’astensione di Pomponio D’Urso[58]. Con decreto regio del 30 Luglio 1883, la Congregazione della Carità di Ruffano è sciolta.
Il 20 ottobre 1883, il Regio delegato Straordinario, avvocato Achille Massa, assistito da Giuseppe Santaloja, prende in consegna i locali dell’Ospedale e dell’asilo infantile dalle mani del signor Grasso Marchetti Vincenzo, in qualità di ex Membro della disciolta Congregazione quale delegato di Tommaso Villanova, ex presidente della Congregazione stessa, alla presenza della “Superiora delle Suore di Santa Anna Signora Ariel Girolama in qualità di Direttrice dell’Ospedale e dell’Asilo”. Dall’inventario si presenta l’immagine di una scuola non certo priva di arredi e sussidi didattici[59]. Il 2 Novembre, alla presenza del Sindaco Pomponio d’Urso e con l’assistenza del Segretario Comunale Santaloja Giuseppe, l’avvocato Massa chiede di prendere visione dell’inventario dei beni a norma dell’art. 3 della L. 3 agosto 1862. Il presidente uscente e il nuovo eletto dovevano redigere l’inventario dei beni con “riscontro in contraddittorio quando avvengano cambiamenti di amministrazione”[60]. Nel verbale di visita il presidente è Sebastiano Pasanisi il quale sostiene “che l’inventario suddetto non fu eseguito né in quel momento né durante il tempo in cui il sig. Villanova sostenne la carica di Presidente di questa Congregazione”[61].
La CdC verrà nuovamente commissariata il 20 ottobre 1891, quando il Regio delegato Maggiulli Cav. Luigi (1828-1914), dopo dieci mesi, rimette il suo mandato. Egli incoraggia i nuovi amministratori con considerazioni moralistiche di carattere generale ma che inevitabilmente fanno riferimento alla realtà locale. “Il sentimento morale attutito dall’ozio/odio infingardo e ciarliero che è la cancrena dell’attuale società”, dice Maggiulli[62].
Nel contesto del Basso Salento, Ruffano non poteva certo dirsi un realtà marginale, essendo sede di Mandamento, Giudicatura e Pretura. La struttura amministrativa fino al 1927 era composta su base locale dalla Provincia al cui capo era il Prefetto, i Circondari con a capo il Sottoprefetto (Gallipoli, nel caso di Ruffano), e i Mandamenti che avevano le competenze dell’istruzione. Nei Mandamenti il punto di riferimento era l’Intendente. L’esistenza di tali uffici sul territorio comportava anche la presenza di funzionari, quindi di un ceto impiegatizio non sempre originario di Ruffano ma proveniente da fuori. L’affluenza di burocrati anche dal Nord Italia incide sugli andamenti demografici del paese e sulle sollecitazioni culturali.
Il piccolo centro si trova attraversato da una rete di informazioni che in qualche modo lo connettono ulteriormente al neonato Regno. Lo stesso Pietro Marti (1863-1933), in uno scritto autobiografico pubblicato da Alfredo Calabrese, rievocando i tempi dell’infanzia, ricorda il padre, Pietro, che era stato funzionario (“usciere”) presso la Pretura di Ruffano. Egli, a detta di Pietro, appassionato liberale, iscritto alla mazziniana Giovane Italia e fra i principali collaboratori di Liborio Romano, aveva introdotto fin da piccolissimo il figlio al cospetto di personaggi di spicco del Salento di allora fra i quali il patriota Giuseppe Pisanelli che Pietro conobbe in casa del nobiluomo di Ruffano Antonio Leuzzi, “anche lui educato alla scuola del puro liberalismo”. Ruffano, spiega Pietro, era all’epoca uno dei pochi centri attivi dell’intellettualità salentina e il magnifico Castello Leuzzi, già Brancaccio, il centro ideale di quel movimento socio politico culturale[63]. Agente privilegiato di questo fermento culturale fu il personale scolastico dei maestri/e e dei dirigenti. Semeraro parla di “emigrazione al rovescio […], una penetrazione massiccia di funzionari dell’alfabeto”, a cui aggiunge le “suore francesi” e un “corpo variegato di missionari dell’educazione”, in un quadro legislativo non del tutto chiaro tra corpus borbonico e sabaudo; “vi erano tutte le premesse perché l’avvio fosse faticoso e irto di incomprensioni e di reciproche ostilità”, dice[64].
Come è facile ipotizzare, il posto di maestre o maestre assistenti all’asilo era molto ambito e perciò la CdC, che in passato aveva delegato alle autorità scolastiche provinciali l’individuazione del personale, ricorre alla formula concorsuale. Nel 1885 infatti anche le Figlie di Sant’Anna vennero espulse da Ruffano e si ritornò ad una fase laica.
Il primo concorso di cui ci è pervenuta la documentazione venne deliberato dalla CdC il 10 aprile 1885 e si svolse il 25 giugno di quell’anno. Nel maggio del 1885, viene pubblicata una “inserzione per l’incarico di direttrice dell’asilo di Ruffano con lo stipendio L. 800”[65]. Fra le concorrenti ammesse nel 1885: Chiarillo Cristina, Nassisi Addolorata, Russo Elena. La CdC è composta da: Agostino Marzo Presidente, Giannuzzi Francesco, De Pasca Giacobbe, Solidoro Vito, Barbara Vincenzo e Santaloja Giuseppe Segretario, probiviri i “signori” Mellusi e Carmelo Arnisi[66]. Le prove prevedevano un tema a scelta su una terna proposta e la risoluzione di un problema di computisteria. Il tema è “Dite quale sia l’opera dell’Asilo Infantile”; Addolorata Nassisi nel suo elaborato, mezza facciata che non lascia dubbi sul ruolo che affida all’Asilo, ossia quello di sopperire alle carenze educative delle famiglie, scrive: “Raddrizza l’alberello [il bambino] quando è tenerello […] che è come un consiglio al trascurabile agricoltore [La famiglia]”, ed esplicita nella chiusa finale: “Ecco l’Istituzione più civile, la più santa dell’Asilo Infantile pronto a riparare ai difetti dei genitori”. Successivamente invia una lettera di ringraziamento alla Congregazione “per avermi prescelta ad Assistente dell’asilo Infantile”, in cui dopo i convenevoli scrive: “voglio operare in modo da fare la buona mamma dei fanciulli […] cercando con amore d’infondere nelle loro tenere menti quei primi raggi d’istruzione, ed educazione che poi ben fecondati renderanno l’uomo onesto e buon cittadino”[67].
Russo Elena sceglie il tema “Dite in modo chiaro e non prolissamente quali arredi abbisognano ad un asilo Infantile”. Ella ingenuamente scrive: “Sebbene non abbia frequentato le scuole normali pure cercherò fare scorgere qualche cosa appreso nello studio e [dopo avere fatto un rapidissimo inventario degli arredi] non far mancare il ritratto dei nostri sovrani”[68].
Il concorso fu vinto dalla Nassisi, “avendo presentato maggiori titoli”[69], rispetto agli altri, ma la Russo con lettera bollata del 11/05/1891 fa presente che la Nassisi lascerà il posto per motivi di famiglia e pertanto rivendica l’attribuzione dell’incarico[70]. Ma alla base della scelta della Nassisi c’era anche il motivo dello stipendio mensile che se pur elevato da L. 20 a 30, comunque non era ritenuto dall’interessata congruo, perché inferiore a quello “di una donna del volgo che si è portata a raccogliere le ulive” e iniquo rispetto a quelli percepiti da “altri addetti al servizio di codeste opere pie”, come nella sua del 22 marzo 1885[71].
Intanto l’asilo nel 1886 è oggetto di una ulteriore ispezione. Per l’occasione Mellusi scrive in una Relazione, 8 colonne di foglio protocollo, il 19 settembre 1886, alla CdC, che l’asilo a seguito di una ispezione del Regio Ispettore scolastico evidenziava gravi carenze igieniche e strutturali e che non fu disposta la chiusura dello stesso solo per pura deferenza personale nei suoi riguardi e che era presente il Sindaco di Supersano (Rocco Frascaro); procede a descrivere lo stato di degrado in cui versa la struttura, sottolineandone la fatiscenza. Ricorda quindi l’importanza delle Vincenziane per la nascita degli asili ed in particolare il primo asilo di Ferrante Aporti[72].
Un secondo concorso è del 1895, deliberato il 18 gennaio sotto la presidenza del Cav. Rocco Frascaro. Il bando è destinato a “giovanette” maggiori di 15 anni che presentano i titoli e siano residenti a Ruffano. L’incarico è per due anni per uno stipendio di lire 180. Il concorso venne bandito sulla base delle più che legittime rimostranze della Direttrice Quaini poiché l’assistente in carica Rachele Cantoro, assunta il 25 settembre 1894[73], aveva soli 12 anni: “avrebbe bisogno piuttosto di istruzione”, quando l’asilo aveva 132 bambini[74].
Il concorso si svolge il 14 Marzo 1895[75]. Fra le tante domande, le tre ammesse sono quelle di Elena Russo, Luigia Torsello e Francesca Bianchi[76]. La commissione è così composta: Rocco Frascaro Presidente, Quaini Antonietta Direttrice dell’asilo Infantile, le maestre Marzo Marina[77], Toma Addolorata, Cito Antonietta[78], e il “conte Castriota Giorgio Scandenberg nella qualità di Delegato Scolastico Mandamentale”[79]. La commissione dichiarò vincitrice Elena Russo a cui è assegnato uno stipendio annuo di L. 180.
Il ruolo di maestra offrì anche alle donne salentine la possibilità di un primo ingresso nel mondo del lavoro. Queste donne erano spesso figlie della nascente burocrazia statale; si prenda il caso delle sorelle Quarta, Vittoria e Chiara, figlie di Luigi, Segretario Comunale dal maggio 1883 al 7 dicembre 1885[80]. La moglie di Luigi era Addolarata Arnisi, sorella del maestro poeta ruffanese Carmelo. E le sorelle Quarta sono legate a quella che dovette essere una delle prime scuole elementari di Ruffano, ubicata proprio nel retro della loro abitazione.
Ce ne parla Vincenzo Vetruccio che in un testo sul maestro Carmelo Arnisi scrive: “Sul retro della casa, in fondo al giardino della famiglia Arnisi, attraversato da una stretta corsia, a trenta passi dal cancelletto aperto sul vasto largo dei cappuccini, sorgeva la scuola del maestro Carmelo: un salone corrispondente a due stanze con volte a stella, la porta d’ingresso con una finestra sul muro di levante e una finestra in alto aperta nella parete volta a ponente […] Non è stato reperito alcun documento relativo a un canone corrisposto dal Comune per l’affitto del locale adibito a scuola pubblica. La Legge vigente appariva all’avanguardia in Europa, perché affermava l’obbligo e la gratuità della frequenza della scuola, ma avendone lasciato ai Comuni l’onere della gestione e del mantenimento, poiché essi avevano scarsissime risorse e pochissimi mezzi, la gestione fu purtroppo disattesa”[81].
Nel 1894 la CdC pone fine alla presa in carico della scuola elementare superiore, come nelle more del legato Piccinni, con delibera del 21 settembre 1894, ritenendole superflue rispetto alle esigenze di Ruffano, con considerazioni dalla chiara natura conservatrice: “i giovani insuperbiti dalle lettura e dall’abbicci si sono vergognati di porsi all’arte e mestiere qualsiasi, ed oggi per vivere si tengono attaccati come piattole alla pubblica amministrazione”; inoltre precisa che l’asilo è nato proprio per rispettare lo spirito del testastore Piccinni accomodato con l’assetto legislativo scolastico in vigore[82]. Nel 1896 rientrarono a Ruffano le Figlie della Carità, come ricorda la lapide posta sulla facciata del Convento dei Cappuccini: “Espulse nel 1872 ritornarono desiderate dal popolo nel 1896”[83].
Sempre nel 1896 si avvia il “Restauro all’ex convento dei cappuccini e lavori di ampliamento e modifiche all’Asilo Infantile (1896-1935)”[84].
Una pagina a se meriterebbe la sede di Torrepaduli: sullo stato in cui versava ci basti quanto scrive l’ispettore scolastico di Maglie Renato Moro, padre di Aldo Moro, che riporta una nota del 2 marzo 1921, virgolettata, del provveditore di Lecce con cui si dispone l’immediata chiusura dell’asilo in quanto manca di arredi e del personale idoneo[85]. Il 16 dicembre dello stesso anno, l’ispettore effettua una visita di persona e il 19 riferisce alla Congregazione che: “l’insegnante Sofia Pepe fu Pietro è priva di qualsiasi certificato di studi, e quasi affatto analfabeta […] ed inesperta a dirigere un asilo, sia anche esso ridotto ad una semplicissima e modestissima sala di custodia” e consiglia la chiusura dell’asilo[86]; il 26 gennaio ordina la sostituzione della maestra pena la chiusura della struttura “a salvaguardia della dignità dell’istituto e del rispetto che si deve all’infanzia”[87]. L’asilo, sia nella sede di Ruffano che in quella di Torre, negli anni della Grande Guerra e postbellici ospitò i figli dei “richiamati” anche al di sotto dei tre anni e in orario non scolastico[88].
Tra i molteplici documenti che il fondo d’archivio offre è possibile ricostruire le vicende del processo di secolarizzazione nel comune di Ruffano. Tra le carte, un documento, che segna l’avvio di una “scuola di telaio” nel 1864: si tratta di un contratto stipulato il 31 dicembre 1864 dalla CdC con la casaranese Marina Ucini “Maestra di telaio” per un quinquennio. Marina Ucini è chiamata a condurre questa scuola che è riservata “a tutte le fanciulle della classi operose e medie del Comune di Ruffano Torrepaduli e si precisa che le fanciulle devono aver compiuto nove anni, le lezioni giornaliere sono 3 ore la mattina e 2 il pomeriggio”[89]. Ma ci fermiamo qui, certi di aver abusato della pazienza dei lettori. Tutti gli spunti offerti in questo saggio andrebbero seguiti ed approfonditi per ricostruire le vicende della scuola di Ruffano fra Ottocento e Novecento, ricongiungendo i punti già tracciati dagli studi di Bernart con le nuove rilevanze archivistiche.
Note
[1] A. de Bernart, Nel primo centenario della nascita di Pietro Marti, in «La Zagaglia», Lecce, n. 21, 1964, pp. 63-64; Il maestro di scuola nel Salento borbonico, Matino 1965; Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in «Nuovi Orientamenti», Gallipoli, marzo-aprile 1984, n.85, p. 25; Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca -Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990; Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Carmelo Arnisi, un maestro poeta dell’Ottocento (con E. Inguscio e L. Scorrano), Galatina, Congedo, 2003, pp. 13-20; In margine alla figura di Pietro Marti, in «NuovAlba», aprile 2006, Parabita, 2006, p. 15; Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2012; ed altri.
[2] A. de Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale (Memorabilia 28), plaquette, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, aprile 2011; D. Arnesano, Giorgio Laurezio, copista ed intellettuale del secolo XV, in Circolazione di testi e scambi culturali in Terra d’Otranto tra Tardoantico e Medioevo, a cura di Alessandro Capone, con la collaborazione di Francesco G. Giannachi e Sever J. Voicu, Città del Vaticano, 2015 (Studi e Testi, 489), pp. 59-93. Si veda inoltre G. Lisi, Per la storia del rito greco in Terra d’Otranto. Una lettera inedita dell’arcivescovo di Otranto del 1580, in «Brundisii res», n. 13, 1981, pp. 167 e 174 e R. Durante, Iniziali e immagini a confronto: alcuni esempi tratti da codici salentini, in Lelivre manuscrit grec: écritures, matériaux, histoire. Actes du IXe Colloque internationalde Paléographie grecque, Paris, 10-15 septembre 2018, éd. par M. Cronier, B. Mondrain, Paris, Collége de France, Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, 2020 (Travaux et Mémoires, 24/1), pp. 113-134.
[3] A. de Bernart, Il convento dei Cappuccini di Ruffano, in «Nuovi Orientamenti», a. XIII, n. 75, Gallipoli, Tipolito Pacella 1982, pp. 9-13; Idem, Il fondo residuo della biblioteca dei Cappuccini di Ruffano, in «Contributi», III, n. 3-4, Galatina, Congedo Editore, 1984, pp. 45-50; F.Trane, La biblioteca dei cappuccini di Ruffano. Profilo storico e catalogo, Galatina, Congedo, 1993.
[4] R. Basso, La pietà secolarizzata, Galatina, Congedo editore, 1993, p. 56.
[5] Ivi, p. 62.
[6] Di Alessandro Gentile si segnala la presenza anche nel convento di Lecce e di Monopoli: ASNa, Cappellano Maggiore. Registri di relazioni della Cappellania, vol. 764, c. 28v, citato in L. Terzi, Le scuole normali a Napoli tra Sette e Ottocento. Documenti e ricerche sulla “pubblica educazione” in antico Regime, Napoli, L’Orientale editrice, 2001, pp. 33-34. I servigi resi alla corona borbonica gli valsero anche una pensione che il religioso rivendicò di fronte ai governanti francesi, come riportato in data 20 settembre 1806 quando, secondo il documento, sarebbe stato dimorante “alla Carità, Casa di Ruffano numero 85”: ASNa, Commissione liquidatrice del debito pubblico, Pensioni francesi, b. 827 inc. 6, cit. in Ivi, p. 48.
Veramente vasta la bibliografia nazionale sulla storia della scuola e dell’educazione. Per restare in ambito salentino, fra i contributi più significativi che riguardano il mondo della scuola e alcuni suoi protagonisti/e: O. Colangeli, Istituto Marcelline. Notizie storiche, in «La Zagaglia», n.35, Lecce, 1967, pp.306-322; G. Bino, La maestra nella letteratura: uno specchiodella realtà, in L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, F. Angeli, 1989, pp. 331-362; R. Basso, Le scritture di Oronzina Tanzarella (Ostuni 1887-Roma 1940), in Aa.Vv., Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX), a cura di R. Basso e M. Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.109-126; G. Caramuscio, Virtuosi ed operosi. Modelli educativi e pratiche didattiche nella scuola salentina tra Ottocento e Novecento, in «L’Idomeneo», Università del Salento, Società Storia Patria Sezione Lecce, n.6-2004, Lecce, Grifo Editore, 2004, pp.81-127; Idem, Giulia Lucrezi-Palumbo: soggettività femminile e cultura tra Risorgimento e Guerra fredda (1876-1956), in «L’Idomeneo – Storie di donne», Università del Salento- Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce, n.8, Galatina, Panico, 2005, pp. 117-156; Idem, “Tanto gentile e tanto onesta pare…” L’educazione delle fanciulle secondo uno scrittore scolastico leccese di fine Ottocento, in AA. VV., Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro, a cura di Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo”, III, Galatina, EdiPan, 2008, pp. 241-263; M. G. Calogiuri, “Colla ragione come col cuore”. Autrici meridionali tra modernità e tradizione, Lecce, Milella, 2008, pp.73-111; D. Levante, Maria De Matteis Luceri, insegnante e scrittrice salentina tra Otto e Novecento. Primo approccio, in Humanitas et civitas, Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società Storia Patria sezione Lecce, Galatina, Edipan, 2010, pp. 79-100; P. Manca, «Benedite chi, con infinita pazienza, v’insegnò a tener la penna». La didattica dell’italiano in Maria Attisani Vernaglione (1870-1955), Ivi, pp.101-122; F. De Paola, S. Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, Ivi, pp. 123- 184; F. Capoti, A. D’Antico, “Le cose per imparararle ci sono due modi…”. La sperimentazione del Tempo pieno a Taurisano (1980-83),Ivi, pp. 185-203; G. Caramuscio, Progettazione della cultura e cultura della progettazione. La scuola primaria di Taurisano nell’autonomia, Ivi, pp. 205-238; A. E. Carrisi, Il greco e il latino nell’era dei social network,Ivi, p. 303-310; L. Marrella, Fratelli d’Italia, compagni di scuola. Quaderni scolastici e immaginario infantile tra Risorgimento e fascismo, Manduria, Edizioni Note a margine, 2011; P. Manca, Per una pedagogia della narrazione “Memorie didattiche” del Liceo Statale “F- Capece” di Maglie, in FILOI LOGOI. Studi in memoria di Ottorino Specchia a vent’anni dalla scomparsa (1990-2010), a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Galatina, Edipan, 2011, pp. 189-204; R. Basso, La prima professoressa salentina Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), in Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec. XV-XX), a cura di R. Basso, Copertino, Lupo, 2012, pp. 200-203; Eadem, La sfida della professione, il richiamo del privato Giulia Poso, Ivi, pp. 204-214; Eadem, Vestale della scuola pubblica Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940),Ivi, pp. 242-247; M. G. Calogiuri, Impegno educativo e milizia politica Maria Luigia Quintieri (1881-1973), Ivi, pp. 216-221; M. R. Filieri, Oltre la scuola, la parola pubblica, Ivi, pp. 254-259; G. Caramuscio, Scuola e lavoro attraverso le pagine di Istruzione Tecnica e Professionale (1959-1995), in Umanesimo della terra. Studi in memoria di Donato Moro, a cura di Mario Spedicato, Giuseppe Caramuscio e Vittorio Zacchino, “Quaderni de L’Idomeneo 16”, Galatina, EdiPan, 2013, pp. 151-184; Idem, La memoria della Scuola come scuola della Memoria: Galatina e il suo Liceo, in Quando Ippocrate corteggia la Musa. In memoria di Rocco De Vitis, a cura di Maria A. Bondanese e Francesco De Paola, “Quaderni de L’Idomeneo” 30, Lecce, Edizioni Grifo, 2017, pp. 113-144; V. De Luca, Le suore “Marcelline” di Lecce e l’ospedale militare di riserva nell’Educandato “Vittorio Emanuele II”, in La Grande Guerra in Terra D’Otranto. Un progetto di Public History, a cura di G. Iurlano, L. Ingrosso, L. Marulli, Monteroni di Lecce, Edizioni Esperidi, 2018, pp. 313-324; G. Caramuscio, Immagini della Scienza attraverso le tracce d’Italiano assegnate agli esami (1957-2017), in UT SOL IN MEDIO UNIVERSO… Scritti in onore di Ennio De Simone, a cura di Livio Ruggiero e Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo 35”, Lecce, Edizioni Grifo, 2018, pp. 267-332; Idem, Le carte della (nella) scuola. L’insegnamento dell’Italiano attraverso l’archivio della scuola elementare di Monteroni (1925-1960), in Una passione per le cose e per la storia. Omaggio a Carlo Miglietta per i suoi settant’anni, a cura di Mario Spedicato, Castiglione (LE), Giorgiani, 2020, pp. 85-135. G. Caramuscio-P. Morciano, La voce leccese della Patria: Giulia Lucrezi Palumbo, in L’officina del sentimento Gesti voci segni di donne in Terra d’Otranto dalla Grande Guerra al fascismo, a cura di Giuseppe Caramuscio, “Medit Europa”, Società di Storia Patria per la Puglia sezione Lecce, Castiglione, Giorgiani, 2021, pp. 143-199; P. Morciano, La guerra antiretorica di Oronzina Quercia Tanzarella, Ivi, pp. 83-107.
[7] Nella Santa visita di Mons. De Rossi del 1711, Piccinni è indicato come uno dei quaranta sacerdoti di Ruffano, ha circa 70 anni (A. de Bernart, M. Cazzato, Una chiesa un centro storico, Galatina, Congedo, 1989, p.39), è laureato a Salerno in “Filosophia et medicina” nel 1668 (ASSa, Acta doctoratus, Anno 1668, Volume 22, Fascicolo 12, p. 211).
[8] Testamento di L. Piccinno relativo all’assegnazione in dote di beni stabili alla Cappella di S. Maria della Misericordia, eretta nella chiesa di Ruffano, ASLe, Congregazione di Carità [d’ora in poi CdC] Ruffano, Sez. I, Opere pie, b.1, ff. 1,2,3. Notaio rogatore, Pomponio D’Urso. Apertura del testamento di L. Piccinno di Ruffano (solo copie del 1765; 1875; 1911); Regolarizzazione dello Stato giuridico del legato Piccinno 1912-1913, in ASLe, Sez. II, CdC, b.90, f.717. L’Inventario si trova on line sul sito dell’Archivio di Stato di Lecce: La Congregazione di Carità ed ente comunale di Assistenza di Ruffano, Inventario a cura di Franca Tondo, https://archiviodistatolecce.cultura.gov.it/.
[9] Art 1: L’Opera “trae le sue origini dal testamento mistico che fu del D. Aloysio Piccinni”: Statuto Organico Speciale dell’Opera Pia Misericordia Amministrata dalla Congrega di Carità di Ruffano, Pei tipi di Luigi Carra, Matino, 1897, p.1. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 786, Statuto organico e progetto di revisione.
[10] ASLe, Sez. II, Cdc, b. 93 f. 725, Copia Lettere 1854, n. 175 28r.
[11] Tra gli anni 1799 e 1802 gli abitanti di Ruffano erano circa 2000. ASLe, Scritture delle Università e feudi di Terra d’Otranto Comune di Ruffano,busta 23/77, 63r-80r, cit. in S. Vinci, Dal parlamento al decurionato. L’amministrazione dei comuni del Regno di Napoli nel decennio francese, in «Archivio Storico del Sannio», anno XIII, n.2, luglio-dicembre 2008, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2008, p. 198.
[12] Bullettino delle leggi del Regno di Napoli 1813, Volume 1, p. 234. Inoltre, P. Liberatore, Dellapubblicaeducazione. Trattato del professore Pasquale Liberatore, Napoli, Tipografia G. Palma, 1840, p. 7. L’autore classifica quella di Ruffano come “Scuola secondaria di prima classe”. Sulla Scuola di Presicce, A. Stendardo, Radici. Presicce nella storia, Lecce, Edizioni Grifo, 2022, p. 81. Risale all’agosto del 1806 il provvedimento che stabilisce all’Art. 1: “Tutte le città, terre, ville ed ogni altro luogo abitato di questo regno, saranno obbligate a mantenere un maestro per insegnare i primi rudimenti, e la dottrina cristiana a’ fanciulli: saranno inoltre tenuti a stabilire una maestra per fare apprendere, insieme colle necessarie arti donnesche, il leggere, scrivere e la numerica alle fanciulle”; all’Art. 2 che: “Le somme necessarie pel pagamento di tali individui, dovranno annualmente ascriversi tra pesi detti comunitativi di ogni Università”; all’Art.3 che: “Ne’ luoghi che contengono popolazione minore di 3000 abitanti sarà permesso a’ maestri di serbare il metodo ordinario antico. Ne’ luoghi poi, ove la popolazione sarà maggiore i maestri dovranno insegnare col metodo normale”: riportato in CNR, Collezione delle Leggi, dei Decreti e altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, Volume I, 1806-1820, con introduzione e nota tecnica, Responsabile Paola Avallone, Roma, 2014.
[13] ASNa, Ministero degli affari interni Stati discussi, cit. in V. Petrilli, Leggere, scrivere e far di conto. La scuola primaria nel Mezzogiorno preunitario attraverso gli Stati discussi comunali 1818-1821 e 1848-1852, in L’istruzioneinItalia tra Sette e Ottocento. Dal Regno di Sardegna alla Sicilia borbonica. Istituzioni scolastiche e prospettive educative, a cura di Angelo Bianchi, Vol. I, Brescia, Morcelliana, 2019, pp. 303-304. Tra l’atro, viene riportato che i maestri in Terra d’Otranto erano i meno pagati del Regno: Ivi, p. 314. Ancora un decennio dopo, sotto il Regno di Francesco II (1859-1860), il 35 % dei comuni ha una scuola e solo il 27% una sezione femminile. H. A. Cavallera, Storia della scuola italiana, Le Lettere, Università Firenze, 2013, p. 93. Gli stati discussi erano i bilanci preventivi degli enti locali (Decurioni) nei quali compariva anche la voce “scuola primaria”. M. Lupo, L’istruzione nel Mezzogiorno, in L’istruzionein Italia tra Sette e Ottocento, cit., Volume II, p. 39, e Tavola “Scuole primarie e pubbliche in Terra d’Otranto”, Ivi, p. 62.
[14] E. Inguscio, Risorgimento nella periferia del Mezzogiorno. Ruffano e Torrepaduli dalla Rivoluzione napoletana del 1799 all’Unità d’Italia, Galatina, EdiPan, 2011, p. 93, con Postfazione di Aldo de Bernart.
[15] Art. 4: “I Sindaci e Decurioni debbono formare la terna de’ Maestri, e passarla per mezzo dell’Intendente al Vescovo della rispettiva Diocesi”; Art. 11: “I Parrochi avranno l’immediata vigilanza sulle scuole primarie delle rispettive parrocchie”: Real Rescritto Riguardante alcune modifiche al Regolamento per le scuole primarie del Regno del 21 dicembre 1821.
[16] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 786, Scuola elementare superiore:istituzione, e b.126 f. 788, Proposta di terna a maestro. Il maestro nominato “della scuola secondaria istituita in Ruffano per testamento di D. Aloisio Piccini” è Guglielmi, come pubblicato in Notizie interne estratto da Giornale del regno delle Due Sicilie dal 2 al 10 dicembre, Anno 1859, n. 43, p. 338. Il sacerdote secolare Angelo Antonio Guglielmi tenterà invano di ottenere il riconoscimento dalle autorità scolastiche della sua “Scuola Classica di Ruffano”, richiamando le disposizioni del Legato Piccinni, ma le autorità scolastiche, pur riconoscendone il diritto al godimento dei benefici del legato, tuttavia gli negheranno sempre il riconoscimento della sua scuola. Il 30 luglio del 1862 fa richiesta di “normalizzazione” della sua “Scuola classica”, dichiarando che essa era già operativa con il seguente programma: “Prima Classe Grammatica inferiore Italiana / idem latina / Catechismo della storia d’Italia Geografia d’Italia. Storia Sagra. Seconda Classe Grammatica superiore Italiana / idem latina Seguito del Catechismo della storia d’ Italia. Geografia d’Europa. Aritmetica Elementare”. ASLe, Sez. II, CdC- O.P.M., b. 126, f. 788, fl. 6r, Scuola elementare superiore:istituzione. Si veda inoltre ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 793, Indice di tutte le carte relative al maestro di scuola Guglielmo Angelantonio1876.
[17]Archivio Storico Comunale Ruffano [d’ora in poi ASCr], Deliberazione del Consiglio Comunale Tornata 15 del 30/06/1883. Su Mellusi si veda: A. de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca, cit. Si rinvia inoltre a P. Vincenti, Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento (prima parte), in «Nuova Taurisano», a. XXX, n.2, novembre 2019, pp. 2-3 e Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento (seconda parte), Ivi, a. XXXI, n.1, luglio 2020, pp. 2-3. Nell’anno scolastico 1862-1863 sono attive in Ruffano due scuole pubbliche, una maschile e una femminile, con 140 maschi e 91 femmine. Statistica del Regno d’Italia Istruzione primaria Istruzione elementare pubblica per Comuni, anno scolastico 1862-1863, Modena, Tipografia di Antonio ed Angelo Cappelli, 1865, tavola 189.
[18] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 788, Locale per scuola- Contratto – Carte diverse, fl 5r/v.
[19]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126 f. 789, Educandato laicale femminile istituzione. Il documento fa riferimento alle libere elargizioni del Vescovo Francesco Bruni (Vincenziano come le suore) e del Sindaco Pomponio D’Urso.
[20]ASLe, Sez II, CdC- O.P.M., b.127, f 809. Si tratta molto probabilmente della casa di Aldo de Bernart.
[21] ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 126, f. 787, Uso di una cappella di proprietà Leuzzi da parte delle suore.
Quando nel 1896 le Figlie della Carità saranno riammesse, tale disposizione verrà rinnovata con un nuovo atto del 12 gennaio 1896, registrato il 14 gennaio, tra Congregazione della Carità e il commendatore Pasquale Leuzzi fu Antonio per una cappella “sita nell’abitato di Ruffano via di mezzo contigua al fabbricato di questa congregazione già destinato alle Figlie della Carità […]”: Ibidem.
[22] Lo statuto consta di 50 articoli, la copia qui citata è dell’8 luglio 1918, e si conserva in duplice formato nell’ASCr, una dattiloscritta, non datata, la seconda autografa, la terza di 5 copie, come annotato sul frontespizio; nell’ultimo foglio a calce del testo originale è riportato “Per copia conforme ad uso amministrativo”, firmatari il Presidente Maselli e il Segretario Viva Raffaele. Nel testo si riportano anche i nominativi dei firmatari dell’originale ottocentesco: Pasquale Leuzzi, Presidente, Alfonso Mellusi, Vito Santo, Francescantonio D’Urso, Raffaele Viva, Segretario. ASCr, Asilo infantile Margherita, e E. Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano 1861-199 Profilo Storico, Galatina, Congedo,1999, pp. 144-145. In ASLe si conserva la Notifica pubblica che annuncia l’apertura della struttura: “Istituzione eminentemente filantropica, e tre volte santa e cristiana va ad inaugurarsi”. Nel 1909 l’asilo si dota di un nuovo statuto, secondo un modello ministeriale: ASLe, Sez II, Cdc -O.P.M, b.127, f. 801, Statuto dell’asilo infantile.
[23] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Ottocento e Novecento, Lecce, Milella, 1984, p. 98.
[24] ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b.127, f. 799.
[25] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Istanze diverse, e Ivi, b. 89, f .684.
[26] Ibidem.
[27] Regio Ispettorato sopra le scuole Primarie e Magistrali del 25 maggio 1866, prot. n. 904, “Direttrice asilo Infantile Ruffano”: ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 127, f 798. I colloqui per la selezione sono stati fatti da Mellusi.
[28] Relazione sugli Asili Infantili della Provincia inviata dal Segretario della seconda divisione della Prefettura di Terra d’Otranto al Ministero della Pubblica Istruzione, s.d. (ma 1869). ACS,MPIDirezionegenerale istruzione primaria e popolare (1784-1920), b. 92, cit. in B. Carbè, Gli asili infantili in Terra d’Otranto nella seconda metà dell’Ottocento, in «Quaderni di Intercultura», Anno XI/2019, ISSN 2035-858, X, p. 318.
[29] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di terra d’Otranto, cit., p. 96. Murgia fu Prefetto dal 24 giugno 1863 al l0 ottobre 1867. M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del regno d’ Italia, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, pubblicazioni degli Archivi di Stato, Roma, 1973, p. 499. Il Prefetto Murgia nei Rapporti sullo spirito pubblico 1865 pone particolare attenzione alla scuola e alla laicizzazione della stessa, evidenziando la forte influenza degli ecclesiastici, soprattutto dei gesuiti, e sottolineando come “i costumi della popolazione sono «corrotti» e la prole è spesso abbandonata a se stessa”: ASLe, Prefettura, Gabinetto, vol. 301, fasc. 3648, 1 maggio 1867, cit. in R. Ibba, A. Piras, A. Sanna, D. Sanna, I Murgia da Villamar all’Unità d’Italia, Cagliari, AM&D, 2019, p. 97. O. Colangeli, L’istruzione pubblica in Terra d’Otranto prima e dopo l’Unità d’Italia, in «La Zagaglia», n.33, marzo 1967, pp. 28-39. La mancanza di personale laico formato porterà le autorità scolastiche a tollerare anche la presenza delle religiose, come appunto scrive il Regio Ispettore delle scuole della Terra d’Otranto Manfredi che con lettera del 30 novembre 1865 sollecita l’apertura dell’asilo a Ruffano, una “santa istituzione”, affidandone la direzione a una figlia della Carità. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Proposta di un asilo infantile in Ruffano, 30 novembre 1865, prot. n. 289. L’affidamento alle suore della direzione venne deliberato il 28 dicembre 1867 su proposta de Delegato Straordinario e sindaco Pomponio D’Urso sulla base di considerazioni finanziarie: ASLE, Sez. II, CdC -O.P.M., b.89, f. 684, Produzione di parte nella c.c. fra la Congr. di Carità e Antonietta Nicolì di Ruffano per opposizione a congedo da direttrice dell’Asilo Infantile.
[30] L’Annuario della Istruzione Pubblica del Regno d’Italia 1867-1868, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1868, p. 525.
Come si vede, il marito della Nicoli è un maestro elementare e non possiamo escludere che abbia esercitato anche Ruffano. Nel 1895 Nicoli è direttrice della scuola Normale femminile di Bari e collaboratrice di «La missione della donna», periodico letterario educativo fondato e diretto da Olimpia Saccati.
[32] F. Cambi, S. Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’Italia Liberale, Firenze, La Nuova Italia,1988. Gli autori evidenziano il ruolo “catechistico” che assume la scuola nel processo di integrazione risorgimentale; non a caso il volume reca come immagine di copertina l’opera di Giacchino Toma I figli del popolo (1862) che rappresenta due fanciulli scalzi che giocano a fare i garibaldini salutando militarmente l’effigie del generale.
[33] S. Calvino, Relazione sull’istruzione secondaria e primaria della provincia di Terra d’Otranto per l’anno 1871-72 presentata al Consiglio Provinciale scolastico nella tornata del 16 novembre 1872, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1872, p. 12.
[34]Ivi, p. 20.
[35] Lettera privata qui integralmente trascritta e commentata da V. C. Manacorda, Testimonianze di un provveditore agli studi sull’educazione femminile nel Mezzogiorno, in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 265-269. Su Calvino, che fu «nel 1866, al fianco di Garibaldi, ed ebbe da lui l’ordine di trasmettere il famoso “obbedisco”», si veda F. L. Oddo, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 17, 1974 (on line).
[36] Antonio Winspeare (1822- 1918), duca di Salve, fu prefetto di Lecce dal 1868 al 1870: M.M. Rizzo, Potere e grandi carriere. I Winspeare, secc. XIX-XX, Galatina, Congedo, 2004, pp. 134-167.
[37] V. C. Manacorda, Testimonianze di un provveditore agli studi sull’educazione femminile nel Mezzogiorno, cit.
[38] C. Covato, Un’identità divisa. Diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento, Archivio Guido Izzi, Roma, 1996, p. 42. Si veda anche M. Dei, Colletto bianco, grembiule nero. Gli insegnanti elementari italiani tra l’inizio del secolo e il secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino,1994. Sempre della Covato, Educata ad educare: ruolo materno ed itinerari formativi, in L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, F. Angeli, 1989, pp.180-186.
[39] Il bando è integralmente riportato in A. de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento borbonico, cit., p. 10. Già dal 1861 sono operanti a Lecce scuole preparatorie per allieve maestre, ma bisogna attendere il decreto del Ministero della PI del 23 Luglio 1877 per il pareggiamento. L. Bruno, D. Ragusa, M. R. Tamblè, Inventario dell’Archivio Storico, in L. Bruno, D. Ragusa, C. Stefanelli, M. R. Tamblè, Patrimonio di Carta. Il fondo della Biblioteca e l’Archivio storico del Liceo “Pietro Siciliani” di Lecce, Lecce, Edizioni Del Grifo, 2017, p. 464.
[40] ASLe, Educandato laicale femminile: Istituzione, 1872-1875, b. 126, f. 789, lettera del 17 aprile 1872, prot. n. 422, ff. 12-13 r/v. La lettera, se pure fa richiami a norme generali, si riferisce chiaramente a situazioni concretizzatesi in Ruffano.
[41] Data l’8 ottobre 1881 la scrittura privata tra la Congregazione e la Madre generale Rosa Gattorno, oggi beata, fondatrice dell’Ordine Figlie di Sant’Anna nel 1866. Presidente della CdC all’epoca è Sebastiano Pasanisi. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 806, Spese alle Figlie della Carità delle religiose di Sant’Anna.
[42] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 791, Ammissione alunne 1873-1909.
[43] ASLe, Sez. II, Congregazione di Carità Verbali di consegna dell’Asilo Infantile di Ruffano alla Congregazione di Carità, b. 1, f. 4.
[44] Archivio Centrale dello Stato, Titolo VI, Scuole femminili normali e magistrali, busta 35, cit. in A. Semeraro, Cattedra, trono, cit., p. 246.
[45] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 788, Maestre.
[46] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 790, Sussidio all’educandato laicale femminile.
[47]ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 790, Educandato laicale femminile: istituzione. Il professore /sacerdote Pollini Eugenio è autore, insieme a Luigi Mangili e Senofonte Pessina, di Progetto di riordinamento della scuola magistrale femminile di Cremona, Tipografia Ronzi e Signori, 1869. Sempre il Consiglio Provinciale Scolastico con lettera del 27 gennaio 1874, n. 429 nomina maestra assistente la piacentina Piva Giovannina. Ibidem.
[48] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 789, Educandato laicale femminile: istituzione. È più che plausibile ipotizzare che Zanoni abbia frequentato ad Arluno il Collegio del Sacro Cuore presso cui era attiva una scuola Normale Femminile dove si diplomerà maestra e maturerà la sua vocazione religiosa Santa Francesca Saverio Cabrini (1850-1917): https://www.cabriniroma.it/la-fondatrice/.
[49] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796. Lettera al Consiglio Scolastico Provinciale del 19/03/1875, prot. n. 147.
[50]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Asilo Infantile. Come scrive de Bernart, Angela o Angiola, o Angiolina, come altrove si firma, sarà un’“apprezzata maestra delle classi femminili”: A. de Bernart Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca-Alfonso Mellusi, cit., p. 10.
[51] Ossolaro è oggi frazione del Comune di Paderno Ponchielli https://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/4051518/. A Cremona è nato l’abate Ferrante Aporti che è considerato il padre del primo Asilo Infantile italiano a pagamento.
[52]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Asilo Infantile.
[53] Dello stesso argomento e tenore è quella della direttrice Giuseppina Zanoni del 25 luglio1877 in cui riferisce alla CdC che i frequentanti vanno “decrescendo giorno per giorno a motivo che vari si stabiliscono in campagna”, preoccupata per le sorti del saggio in programma per il 2 agosto e tantissimi sono, nel fondo d’archivio da cui attingiamo, i biglietti di scuse dei notabili locali per non potere presenziare al saggio finale. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Corrispondenza 1866-1877. L’11 agosto 1877 risultano Zanoni direttrice, Guidani assistente e Chiarillo Maria praticante (tirocinante): Ivi, b.127, f. 798, Personale direttrice e maestra (1866-1877). Il 30 gennaio 1878 Chiarillo scrive lamentando “uno stipendio tanto meschino da far vergognare”: Ivi, b. 126, f. 796. Istanze diverse. Ritroviamo il nome della Zanoni nella seduta del Consiglio Comunale di Ruffano del 4 gennaio 1894: “Giuseppina Zanoni è nominata maestra a Torre per gli anni 1894-1895”. La Zanoni è autrice del libro Cose d’ogni giorno all’asilo, Milano, A. Vaillardi, 1920.
[54] Nella stessa seduta, il consigliere Giuseppe Santaloja propone e il Consiglio all’unanimità approva la “Conferma a vita dell’insegnante Mellusi Alfonso nella carica di maestro elementare inferiore”, poiché “con zelo e puntualità […] la sua opera fu sempre rivolta all’incremento e progressivo sviluppo del benessere degli abitanti di questo Comune”. Gli viene confermato lo stipendio annuo di 770 lire. ASCr, Deliberazione del Consiglio Comunale tornata 15 del 30/06/1883 ff. 52r/v-53r. A. de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca, cit., p. 8. Della maestra Guindani non vi è traccia nell’archivio della scuola che pure conserva i registri a partire dal 1899, ma una “Angiola Guindani” è indicata nel 1894 come “Maestra – direttrice coll’insegnamento nella 2a sezione” del Regio Giardino d’infanzia di Beirut. Bollettino del Ministero degli Affari esteri. Parte amministrativa e notiziario 1894, Roma, 1894, p. 16. Per l’anno scolastico 1913-1914 ricopre lo stesso incarico a Susa, Turchia. Annuario del Ministero degli Esteri, Scuole italiane all’estero. Governative e sussidiate Anno scolastico 1913-1914, Tipografia editrice nazionale, Roma, 1914, p. 76. Il 20 maggio 1925 con prot. n. 7776, il Provveditorato agli Studi di Bari chiede informazioni alla Congregazione sul servizio prestato dalla signora Guindani in qualità di maestra e direttrice dell’asilo per pratica di pensionamento. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Corrispondenza 1866-1872. Nella risposta da Ruffano si certifica che la Guindani è stata in servizio dal 20 aprile 1875 al 30 aprile 1881 con stipendio di L.700 e casa ammobiliata. Ibidem.
[55] G. Buonazia, Sull‘obbligo della istruzione elementare nel regnod’Italia: attuazione della legge 15 luglio 1877, Roma, Tipografia eredi Botta,1878, tabella a p. 249.
[56] ASCr, Deliberazione del Consiglio Comunale. Tornata 24 del 29 /12/1878.
[57] Gazzetta Ufficiale del Regno D’Italia 10 settembre1883, n. 212, pp. 3947-3948.
[58] I sei consiglieri redattori della Relazione sono: Giuseppe Santaloja, Licci Agostino, Gianuzzi Francesco, De Santis Carmelo, Giaccari Gennaro, Morello Lucio. ASCr, Tornata 17 del 23-07-1883, ff. 58v-60 r. E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., pp. 118-121. Il Sottoprefetto di Gallipoli il 25 febbraio 1885 con prot. n.1287, scrive alla Congregazione di Carità evidenziando che l’Ospedale era abusivo, non essendo stato riconosciuto con “Decreto sovrano”. ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 2, f. 32. La chiusura definitiva avverrà il 9 aprile 1886, quando la Prefettura approva la Delibera della Congregazione del 14 febbraio dello stesso anno. Ibidem.
[59] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 1, f. 8, Verbale di consegna dell’Ospedale e dell’asilo Infantile di Ruffano.
[60] Secondo l’art. 8 della legge n. 753, Opere pie, del 3 agosto 1862.
[61] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 1, f. 8.
Tommaso Villanova, farmacista, viene eletto Sindaco di Ruffano nel 1882 mentre Pomponio d’Urso è Presidente della Congregazione in sostituzione di Alfonso Mellusi dichiarato decaduto dal Prefetto per incompatibilità. E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 118. Mellusi ricoprì la carica di Tesoriere dal gennaio all’aprile 1883, come risulta dal verbale della seduta del 19 aprile 1893 dove si discute dei rimborsi per il sacerdote al tempo del suo incarico. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 2, f. 46.
Il 15 gennaio Giuseppe Santaloia subentra in qualità di Sindaco facente funzioni al Villanova che si è dimesso. Il 23 dello stesso mese D’Urso si dimette da presidente della citata Congregazione e gli succede con la stessa carica Tommaso Villanova. E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 28.
[62] ASLe, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Asilo infantile 1866-1920 e Ivi, b. 127, f.799, Lavori vari all’edificio dell’Asilo infantile (1866-1891).
[63] A. Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in «lu Lampiune», n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp. 27-34. Si veda anche E. Inguscio, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in «Note di storia e cultura salentina», Società Storia Patria Basso Salento, A. XII, Lecce, Argo Editore, 2000, pp. 193-203. Come osserva Cavallera, la “piemontesizzazione” del Sud Italia fu il frutto di una “politica realistica e forse un po’ cinica” legittimata non solo militarmente ma anche dal fatto che la Torino sabauda aveva assunto in quegli anni “la leadership culturale”: H. A. Cavallera, Storia della scuola italiana, cit., pp. 99-100.
[64] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Ottocento e Novecento, cit., pp.12 e 13. C’è anche la rivendicazione identitaria, per esempio nelle parole di Salvatore De Pace che evidenzia la necessità di avere libri di testo “fatti per le nostre Provincie […] in vece di prendere le mosse da Torino e Firenze”. S. de Pace, Libro per le scuole elementari, Gallipoli, Tipografia Municipale, 1879, cit. in Ivi, pp. 160-166.
[65] Inserzione in La scuola elementare marchigiana, anno II, Montegiorgio, 15/05/1885, n.11.
[66] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Istanze al posto di assistente, verbale del 21/06/1885.
[67] Ivi, temi.
[68] Ibidem.
[69] Ivi, verbale del 21/06/1885.
[70] Ivi, Istanze al posto di assistente, lettera dell’11/05/1891.
[71] Ivi, Istanze diverse.
[72] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., Carte diverse.
[73]ASLe, Sez. II, CdC- O.P-M., b. 2, f. 5. Ivi, Sez. II, Congregazione di Carità, b.2, f. 78.
[74] Ivi, b.2, f. 78, Aprirsi concorso per assistente dell’Asilo infantile.
[75] Ivi, b. 126, f. 796, Istanze al posto di assistente, verbale del 14 /03/1895.
[76] Francesca Bianchi è la sorella di Eteocle Bianchi al quale con delibera del 16 Ottobre 1895 la CdC destina una somma per l’apertura delle “Scuole elementari superiori” ma la Regia prefettura, sentita per parere il 29 novembre, non approva perché tale elargizione sarebbe da considerarsi “una distrazione di fondi destinati alla beneficienza”. ASLe, Sussidio al Sig. Bianchi per scuola elementare del Comune, b. 126, f. 788.Il 10 dicembre la sottoprefettura invia copia della deliberazione del Consiglio scolastico provinciale “che non approva l’impianto della scuola”. Nella seduta del 12 novembre 1898 il Consiglio comunale nomina lo stesso Bianchi Direttore Dittatico (E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., pp. 158 e 169) ma la nomina risulterebbe non confermata dal Consiglio scolastico provinciale di Lecce, contro il quale il 19 dicembre 1898 Bianchi presenta ricorso, che viene respinto. Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, anno XXVI; V. I, n. 16-17 Roma 20-27 aprile 1899, p. 826. Nell’Archivio della scuola si conservano i registri d’epoca del maestro Bianchi, l’ultimo è dell’anno scolastico 1902-1903, quarta e quinta maschile, sita in “Piazza san Francesco”. Il maestro Eteocle muore l’8 /6/1908 a soli 33 anni. ASCr, Registro degli atti di morte 1908, n.35.
[77] Alla maestra Marzo Marina il Consiglio Comunale il 25 Giugno 1889 conferisce l’attestato di lodevole servizio: E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 220.
[78] Cito Antonietta nativa di Sogliano Cavour (27/06/1872) sarà la maestra elementare a Torrepaduli fino al 1 ottobre 1935, anno del “collocamento a riposo” dopo 41 anni di servizio. Archivio Scolastico Ruffano, fascicolo personale “pensionamento”, Lettera del Provveditorato agli studi di Bari n. 5276, 24 Marzo 1935. Nel 1902 è nominata “mastra a vita” con delibera n. 117 del Consiglio comunale. Ivi, nota 107, p. 157. Nel 1936 le verrà conferito il “Diploma di benemerenza. Ministero dell‘educazione nazionale, Bollettino ufficialedell’anno 63, Volume 2, 29 ottobre 1936, anno XV, n. 44, p.1476. Il marito è Giovanni Maselli che nel 1918 ricopre la carica di Presidente della CdC, il figlio è Mario Maselli che si laureerà in Farmacia il 18/07/1929 a Napoli. G. Carruggio, Rassegna annuale della vita e del pensiero salentino, Volume VII per l’anno 1933, Lecce, Editrice “L’Italia Meridionale”, 1933, p. LIX; E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 76.
[79] R. Basso, Donne in provincia. Percorsi di emancipazione attraverso la scuola nel Salento tra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2007, p.74.
[80] L. Quarta, Relazione sullo stato dell’amministrazione del Comune di Ruffano e sull’andamento di essa nel biennio 1882-1883, Lecce, 1884, cit. in A. de Bernart, Un maestro di scuola, cit., nota 1, p. 2. Su Chiara Quarta, insegnate dal 1922 al 1949, Archivio Scolastico Ruffano, fascicolo personale Chiara Quarta.
[81] V. Vetruccio, Discorso letto il 21 Giugno 2012, in occasione della prima “stella” posata nel cortile della Scuola Primaria, in onore del maestro-poeta Carmelo Arnisi, Inedito. Vetruccio riporta un inventario stilato da Carmelo Arnisi degli arredi della scuola da lui diretta e cita altri colleghi venuti prima di lui, quali don Alfonso Mellusi, Ferdinanda Calì e Anna Maria Casaluce. Una foto dell’antica Casa Quarta-Arnisi, oggi proprietà Frisullo, è riportata da A. de Bernart in Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800, cit., p. 16 e riprodotta in un disegno di Pasquale Ricchiuto riportato da E. Inguscio in Carmelo Antonio Arnisi. L’uomo e il poeta, Ivi, p.25.
[82] ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 2, f. 71.
[83] Nel verbale del 5 dicembre 1895 la Congregazione presieduta da Michele Cagnazzo delibera appunto il rientro delle suore per affidare la gestione della farmacia e sottolinea lo zelante operato delle stesse “durante l’epidemia colerica di cui fu funestato il nostro Comune nel 1867”. ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 2, f. 94, Istituzione delle Figlie della Carità.
[84] ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 25, f. 289. Il 6 luglio 1897 in seduta straordinaria presieduta da Luigi Rubino la Congregazione prende atto della rinuncia per motivi famigliari da direttrice dell’asilo di Antonietta Quaini e delibera di affidare l’asilo alle Figlie della Carità. ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 2, f. 98, Affidarsi l’asilo Infantile alle Figlie della Carità. La direttrice Quaini comunica che a seguito della morte della madre rinuncia all’incarico. La madre è Grossi Teresa, vedova di Giuseppe Quaini, di Brembio (Lodi), morta a Ruffano il 25 aprile 1897. Comune di Ruffano, Registro Atti di Morte Parte I, 1897, n. 33. Dalla lettera dell’assistente Russo Elena del 26 marzo 1900 apprendiamo che la Congregazione con sua del 24 marzo n.154 comunica il licenziamento del personale laico dell’asilo Infantile “essendo stato affidato lo stesso Asilo alle distinte Figlie della Carità”. ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 126, f. 796, Istanze diverse.
[85]ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M. b. 126, f. 796, 2 marzo 1921, prot. n.3325.
[86] Ivi, 19/12/1919, prot. n.8092.
[87] Ivi, 26 /01/1920, prot. n. 520.
[88] La Direttrice Concetta De Benedictis nel 1918 ricevette una menzione ministeriale. Benemeriti dell’assistenza scolastica a favore dei figli dei militari, in Bollettino ufficiale del Ministero dell’istruzione pubblica, anno XLV, vol I. n.14, del 4 aprile1918. La Congregazione si fece carico anche di ospitare due orfane del terremoto di Messina con telegramma del 24/11/1909 e il Ministero degli Interni comunicò l’assegnazione delle piccole sorelle Visciano, Angela di 11 anni e Elvira di 10 anni. ASLe, Sez II, b.126, f. 791, Ammissione alunne 1873-1909.
[89] ASLe, Sez II, CdC – O.P-M-, b.126, f. 788, Maestre.
A Veglie, in via Spani, anticamente strada delli Hispani, si trova l’abitazione che un tempo apparteneva alla famiglia Favale-De Dominicis, oggi conosciuta come casa Lillo dal nome della famiglia che l’ha posseduta per ultimo.
In passato questa era l’abitazione del dottore fisico Francesco Favale la cui figlia Anna (Veglie 1702, ivi 1739) aveva sposato a Veglie il 7 luglio 1732 il dottore fisico Domenico De Dominicis di Copertino, appartenente a una nobile famiglia originaria di Valencia stabilitasi poi nel Regno di Napoli.
In occasione del matrimonio viene collocato sopra al portone di ingresso lo stemma araldico della famiglia De Dominicis, tuttora ben conservato, recante impressa la data del matrimonio. (A. D. 1732).
L’arma ufficiale dello stemma De Dominicis è: “di rosso all’alabarda d’argento posata su un monte di tre colli verde, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro con la coda controrivoltata e sormontata da tre stelle d’argento”. (da internet).
Lo stemma riprodotto nell’abitazione di Veglie contiene alcune varianti nel senso che non sono visibili i tre colli e le stelle sono due e non tre; probabilmente la famiglia stabilitasi a Veglie apparteneva ad un ramo cadetto
Da Domenico De Dominicis la casa viene ereditata dal figlio Nicola, poi da Giovanni Battista e infine da Francesco, la cui figlia donna Rosina, (Veglie 1876, ivi 1953) sposa il messo esattoriale Lillo Luigi Salvatore Santo originario di Monopoli. Mentre era in vita Salvatore Lillo era solito mostrare ai suoi amici e conoscenti la divisa e le armi appartenute al padre Filippo che nel 1866 aveva preso parte alla Terza Guerra d’Indipendenza.
Una nuova edizione di Pietro Micheli:
la Regola di Santa Chiara per le suore Cappuccine di Napoli e Lecce (1664)
di Gilberto Spagnolo
Con la pubblicazione, nel 1631, dei Carmina di Filippo Formoso, avvocato di Torre S. Susanna, opera dedicata al Signore del suo paese il principe Giovanni Antonio Albricci Farnese, che precedette di poco il famoso Tancredi di A. Grandi, il tipografo Pietro Micheli, nato a Dole in Borgogna, introduceva ufficialmente la stampa nella città di Lecce, ottenendo per tale servizio “casa franca” nonché particolari privilegi per se stesso e per i suoi familiari1, avviando così nel contempo “(la) stagione aurea della stampa salentina”2, operando tra gli anni 1631 e 1697 e producendo non meno di 234 edizioni3.
Su tale cospicua produzione tipografica, che costituisce certamente un momento cruciale dell’arte tipografica pugliese, l’enorme ed esauriente lavoro di ricerca compiuto da Gianfranco Scrimieri e pubblicato nel 1974 sotto il titolo di Annali di Pietro Micheli, resta il contributo fondamentale (pur essendo passati oltre 40 anni), un’opera indubbiamente di grande pregio in quanto attraverso un lavoro di anni, minuzioso e capillare, sulla catalogazione e reperimento delle varie edizioni micheliane, nonché sui documenti d’archivio, dà un’ampia informazione sulla vita e sulla complessa attività del tipografo di origini francesi, già attivo a Bari prima di trasferirsi definitivamente nel capoluogo salentino4.
Uno studio comunque, come ebbe a precisare lo stesso Scrimieri (e come in effetti è stato) non definitivo e suscettibile di ulteriori scoperte e ritrovamenti bibliografici5.
La ricerca sulla storia della tipografia del Micheli e più ampiamente salentina è stata, infatti, poi ulteriormente arricchita da importanti contributi ed eccellenti studi che hanno consentito infatti di catalogare altre opere sconosciute stampate dal Micheli, “fortunati e casuali ritrovamenti” di nuove edizioni nelle biblioteche pubbliche e soprattutto private di Terra d’Otranto6.
Partendo perciò dall’assunto che il lavoro di ricerca sull’editore attivo nel Seicento in Lecce, figura di primo piano della cultura salentina, è ancora lungi dall’essere completato (compito non certamente facile) e che pertanto va ancora necessariamente continuato, a conferma soprattutto che “iprivati detentori” (come ha evidenziato Elio Pindinelli)7 possono consentire un ulteriore recupero di altre opere stampate dal “Borgognone” (in nome di un collezionismo perciò non fine a se stesso bensì un utile strumento di tutela e promozione culturale), queste brevi note intendono apportare, come già fatto in altre personali e precedenti ricerche8, un ulteriore contributo sulle vicende editoriali della principale bottega tipografica pugliese e sul completamento degli Annali della sua stessa produzione. Riprendendo così un discorso avviato anni or sono, collaborando alla benemerita rivista “lu Lampiune”9 edita dalla casa editrice Del Grifo, presentiamo i risultati pressoché definitivi di quella ricerca scaturiti ora attraverso alcune utili indicazioni acquisite ed emerse grazie a contributi di estremo interesse sul tipografo borgognone Pietro Micheli10.
In quel nostro precedente lavoro veniva infatti segnalata un’edizione assolutamente sconosciuta della bottega tipografica micheliana, scoperta in una biblioteca privata e datata 1664, non localizzata a suo tempo da Gianfranco Scrimieri e quindi descritta per la prima volta.
L’esemplare (mm 120 x 180, pp. 68), pur essendo mutilo del frontespizio e di alcune pagine (iniziava da pag. IX), era attribuibile al Micheli grazie al Colophon riportato nell’ultima pagina dove appunto poteva leggersi: “IN LECCE MDCLXIV. Appresso Pietro Micheli. Con licenza de’ superiori”.
Il contenuto dell’opera si sviluppava attraverso vari capitoli introducendo poi in particolare, alle pagine 23-32 le “Constituzioni / delle monache dell’Ordine di / Santa Chiara / nel Monastero di San Francesco / delle Cappuccine di Napoli / le quali si devono osservare nel / Monastero di Santa Maria di Loreto / della Città di Lecce./
Privo del frontespizio il volumetto infine, al di là di una sterile descrizione di alcuni aspetti tecnici, non consentiva allora di fornire nessun’altra importante e significativa informazione. Il testo lo si è potuto ora finalmente identificare grazie a uno studio di Francesco Quarto sulle “Nuove emergenze tipografiche Leccesi”, pubblicato negli Studi in memoria di Michele Paone (opera collettanea stampata nel 2011) e che illustrava un prodotto micheliano sconosciuto dal titolo “Mundus Traditus”11. L’edizione è in realtà la “Regola di Santa Chiara confermata da Papa Urbano IIII. Con le constituzioni, che si osservano nel Monastero di San Francesco delle Cappuccine di Napoli, e si osserveranno dalle monache del nouo Monastero erigendo delle Cappuccine della città di Lecce, in vigore della Bolla di Nostro Signore Papa Alessandro Settimo, spedita alle 17 di dicembre 1663, in Lecce, Appresso Pietro Micheli, 1664”.
Il Quarto ha potuto individuare l’edizione che ci interessa (assieme ad altre due “rimaste ignote, sopravvissute in un unico esemplare per ciascuna in tre diverse biblioteche”) grazie alla consultazione (come scrive egli stesso) “di cataloghi on line, gli opac di SBN che possono essere consultati in remoto, senza essere costretti a lunghe ed estenuanti trasferte in altre località senza peraltro la garanzia del successo”. Questo perché “la consultazione degli Opac consente quindi di modificare in alto anche le cifre dello Scrimieri sia per quanto riguarda la localizzazione di quelle edizioni date per non ritrovate, sia per quanto riguarda addirittura la scoperta di edizioni sconosciute” (come appunto in questo caso)12.
Questo esemplare della Regola di Santa Chiara confermata da Papa Urbano IIII etc., è stato localizzato in Napoli presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria che ha sede nel Maschio Angioino13.
Dalla consultazione effettuata del testo (resa possibile dalla sua catalogazione elettronica), si è constatato che l’esemplare risulta però anche incompleto come quello posseduto dalla biblioteca privata (che come si è detto è sprovvisto di frontespizio e delle prime otto pagine). La parte mancante all’esemplare napoletano è infatti quello che va dalla pag. 40 alla pag. 68 contenente il Modo che si ha da osservare dalle suore cappuccine, articolato a sua volta nei seguenti punti: Nel vestire delle Novitie, Modo, e forma di far la professione delle Suore Cappuccine, Modo di tener Capitolo, Modo come si eliggono La Madre Abbadessa, Officiali, e Discrete.
In buona sostanza, attraverso i due esemplari entrambi incompleti ma che comunque si completano vicendevolmente in un unico esemplare, si può ora effettuare qui di seguito la descrizione di questo prodotto tipografico micheliano in tutta la sua interezza sia nel frontespizio e sia nel suo intero apparato testuale:
REGOLA DI/ SANTA CHIARA./ CONFERMATA DA PAPA URBANO IIII./ Con le Constituzioni, che si osservano nel Monastero/ Di SAN FRANCESCO delle Capuccine di Napoli, /E si osservaranno dalle Monache del nouo Monastero/ erigendo delle Capuccine della Città di LECCE,/ in vigore della Bolla di Nostro Signore Pa-/pa Alessandro Settimo, spedita alli/17. di Decembre 1663.
IN LECCE. Appresso Pietro Micheli, 1664.
NOTE TIPOGRAFICHE
Vignetta ornamentale raffigurante S. Francesco sul frontespizio i cui caratteri sono in una cornice (simile più o meno a quella di Mundus Traditus)14 creata mediante piccoli punzoni. La misura della pagina (foglio di carta) è di cm 120 x 180; pagine complessive 68. All’ultima pagina è presente il Colophon: IN LECCE, MDCLXIV. Appresso Pietro Micheli. Con licenza de’ superiori. Il libro presenta alla pag. 4 un fregio con un’anfora a due manici e due pregevoli capilettera: la L che introduce la lettera di “Urbano Vescovo Servo delli Servi di Dio” alle suore di Santa Chiara e la lettera R che introduce, a pag. 33, la Bolla del Papa Alessandro Settimo spedita alli 17 di dicembre del 1663 al Vescovo di Lecce, Luigi Pappacoda sull’erezione del Monastero di Santa Maria di Loreto. I capilettera sono gli stessi pubblicati dallo Scrimieri nel suo studio fra le illustrazioni sui caratteri tipografici15. Una parte del testo è in corsivo. Le righe di testo sono circa 39 compresa quella di paginazione e quella del richiamo a piè di pagina. Le righe comprendono circa 49 caratteri comprendendovi anche gli spazi albi tra le parole e i loro tratti impressi sulla carta sono abbastanza distinti.
PROSE
Alle pp. [3-5]: URBANO VESCOVO SERVO DELLI SERVI DI DIO, ALLE DILETTE IN CHRISTO FIGLIVOLE, e tutte l’Abbadesse, e Suore rinchiuse dell’Ordine di Santa Chiara Salute, e Apostolica benedittione.
Alle pp. [6-22]: COMINCIA LA REGOLA DI SANTA CHIARA CONFERMATA DA URBANO QUARTO (sono indicati complessivamente 20 capitoli)
Alle pp. [23-32]: CONSTITUTIONI DELLE MONACHE DELL’ORDINE DI SANTA CHIARA NEL MONASTERO DI SAN FRANCESCO delle Capuccine di Napoli, LE QUALI SI DEVONO OSSERVARE NEL Monastero DI LORETO della Città di Lecce.
Alle pp. [33-39]: ALEXANDER EPISCOPUS SERVUS SERVORUM DEI. Dilecto Filio Vicario Venerabilis Fratris nostri Episcopi Lycien. In Spiritualibus generali; Salutem, et Apostolicam benedictionem.
Alle pp. [41-60]: MODO CHE SI HA DA OSSERVARE DALLE SUORE CAPPUCCINE (Nel Vestire delle Novitie, Modo e forma di far la professione delle Suore Cappuccine, Modo come si eliggono la Madre Abbadessa, Officiali e Discrete, Modo di Tener Capitolo). (Parte mancante all’esemplare della Società di Storia Patria).
Alle pp. [61-62] con carattere corsivo: LE RELIGIOSE DELLA REGOLA DI SANTA CHIARA GODONO TUTTE L’INFRASCRITTE INDULGENZE (parte mancante all’esemplare della Società di Storia Patria).
Alle pp. [63-68]: INDULGENZE CONCEDUTE DA PAOLO QUINTO à tutti iReligiosi, e Religiose (parte mancante all’esemplare della Società di Storia Patria). Sull’ultima pagina è presente il Colophon: IN LECCE, MDCLXIV, Appresso Pietro Micheli. Con licenza de’ Superiori.
I contenuti del libro (da ritenersi certamente “un unico esemplare sopravvissuto” ricostruito, come si è visto, grazie alle due copie mutile) sono indubbiamente una testimonianza di particolare interesse sull’Ordine monastico delle Monache Clarisse Cappuccine di Napoli probabili committenti dell’opera (tra l’altro Micheli prima di giungere nel Salento era stato anche a Napoli)16 e delle “Cappuccinelle” di Lecce, istituzioni religiose notevoli ovvero di quell’apparato ecclesiastico (“Cittadino ma anche di altre località della Provincia di Terra d’Otranto e non solo”) che per il Borgognone rappresentava la committenza maggiore17.
L’Ordine delle monache clarisse Cappuccine, importantissima istituzione religiosa della città, nasce con la fondazione del Protomonastero di Santa Maria in Gerusalemme di Napoli, ad opera della Serva di Dio Maria Lorenza Longo, nobildonna catalana, approvata dal Papa Paolo III con la Bolla “Debitum pastoralisofficii” del 19 febbraio 1535 che si propone, in sintonia con la riforma maschile cappuccina, di rivivere nel XVI sec. l’esperienza evangelica di Chiara. Con la bolla di Papa Paolo III la Longo ottenne il benestare per fondare un nuovo monastero femminile: il 30 aprile 1536 la bolla Alias nos le concedeva di elevare il numero delle monache a 33 in omaggio agli anni di vita terrena di Gesù. Originariamente ospitate in un’ala di Santa Maria del popolo degli incurabili, sottoposte alla Regola del Terz’ordine Francescano ed alla direzione dei padri Teatini, nell’agosto del 1538 Maria Lorenza Longo e le consorelle presero possesso di Santa Maria in Gerusalemme (detto popolarmente delle Trentatrè). Adottarono quindi la Regola di Santa Chiara (approvata da Papa Innocenzo IV nel 1253) e delle Costituzioni modellate su quelle dei Frati Minori Cappuccini, ai quali passò anche la direzione spirituale delle Religiose (bolla cum Monasterium del 10 dicembre 1538 e di cui le monache adottarono il nome).
La fama di santità di vita e dell’austerità delle Trentatrè cappuccine non tardò così a spargersi fuori di Napoli. Iniziarono a sorgere altre fondazioni un po’ ovunque in tutta Italia e non solo (come a Roma, Milano e finanche a Parigi) seguendo lo stesso modello trasmettendosi il corpus legislativo18.
Sul Monastero delle Cappuccinelle di Lecce, cominciato ad edificarsi nel 1636 per testamento del Sac. Giulio Cesare Prato del 6 Aprile 1632 (con esso il Prato lasciava suo erede lo “Spedale dello Spirito Santo di Lecce, con l’obbligo appunto di fondare un Monastero di DD. Monache Cappuccine Urbaniste sotto il titolo della Beatissima Vergine Santa Maria di Loreto”) il De Simone, il Paladini e il Paone forniscono alcune interessanti notizie.
Nel 1636 fu messa la prima pietra del Monastero; nel 1639 fu fabbricata la chiesa, nel 1665 le Monache presero possesso dell’uno e dell’altra. Il monastero fu soppresso sui principi del 1800 e le superstiti suore si rifugiarono nel vicino Convento delle Suore Benedettine di S. Giovanni Evangelista.
La chiesa cadente fu abbattuta e l’altare maggiore dedicato alla Vergine di Loreto, con bellissime statue in legno della Vergine e di Santi, fu trasportato nella Chiesa del Gesù (è il primo altare a sinistra). Sulla porta principale del Monastero infine, in Via Vittorio Prioli si leggeva la seguente iscrizione: “Capuccinellarum Virginum nobile Asceterium, Caesaris Prati V. Cl. munifica pietate excitatum an. a fundatione salutis MDCXLII” (Nobile Monastero delle Vergini Cappuccine, fondato per la munifica pietà di Cesare Prato, uomo chiarissimo, l’anno della Resurrezione 1642)19.
Un’ultima considerazione è da farsi sul fatto che l’operetta qui segnalata ricalca nei contenuti e nell’impostazione tipografica l’opera di Francesco D’Estrada Arcivescovo di Brindisi pubblicata sempre dal Micheli nello stesso anno (e censita dallo Scrimieri) e intitolata: “Constitutioni/ e regole/ per il Governo Spirituale/ e Temporale di Monasterij delle RR. Monache della Città di Brindisi/ e sua Diocesi;/…” della quale sono stati individuati dallo Scrimieri ben tre esemplari20.
Stessa annotazione va fatta per le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S.Anna di Lecce, da noi rintracciate in forma manoscritta e con l’indicazione del tipografo Micheli nella Platea del Conservatorio di S. Anna datata 1748 e conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce21.
In conclusione, la Regola di Santa Chiara può definirsi un prodotto tipografico del Micheli certamente minore, appartenente a quella tipologia di edizioni micheliane stampate in piccole tirature e che essendo di argomento religioso (e quindi con una “circolazione” ridotta) diventare più facilmente irreperibili o perdersi del tutto. È comunque anche un ulteriore testimonianza della “fama” di Pietro Micheli e cioè del fatto che “stampasse per un’ampia committenza oltre quella nota dell’ambiente intellettuale salentino e leccese in particolare”22.
Da Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a c. di A. Laporta, Lecce, Edizioni Grifo 2020.
Note
1 G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Galatina, Editrice Salentina, 1976, p. XIV.
2 A. Laporta, Saggi di Storia del Libro, Lecce, Ed. del Grifo, 1994, p. 7.
3 F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus traditus. Bottega di Pietro Micheli 1686, in “Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone”, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011, p. 210 (“Ma la cifra tiene conto anche di edizioni non ritrovate delle quali non è stata accertata la reperibilità di almeno un esemplare effettivamente sopravvissuto fino ad oggi”, nota 11).
4 G. Scrimieri, Annali, cit., pp. XI-XIV; cfr. anche dello stesso autore Introduzione a Pietro Micheli Tipografo del 1600 (con Bibliografia) in “la Zagaglia”, XVI, 1974, 63-64, pp. 3-22; Id., Per gli Annali di Pietro Micheli. Edizioni salentine del Seicento nella Biblioteca “Caracciolo” di Lecce, Premessa di Donato Valli, Università degli Studi di Lecce, “Quaderni della Biblioteca Centrale” a cura di D. Valli e G. Scrimieri Lecce, Ed. Salentina, 1976; Id., Il ’600 tipografico a Lecce, in “Atti del Congresso Internazionale di Studi sull’età del Viceregno”, Bari, 1977; Id., voce Pietro Micheli in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, http:/www.treccani.it//enciclopedia/Pietro_Micheli_Dizionario_Biografico); A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, Lecce, Milella, 2006, pp. 21-28 (cap. II, Dall’ultimo Micheli alla vendita della tipografia).
5 G. Scrimieri, Introduzione, cit., p. 7.
6 A tal proposito cfr. E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi Orientamenti”, XX, 113-114, marzo-giugno 1989, pp. 11-20; A. Laporta, Saggi di Storia del libro, cit., pp. 7-29 (la stampa in Terra d’Otranto fra Sei e Settecento); A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, cit.; pp. 21-28; E. Panarese (a cura di), Una ricerca nella scuola dell’obbligo (Visita alla Biblioteca Piccinno di Maglie), Erreci Edizioni, 1990; M.T. Tafuri Di Melignano, Materiali tipografici pugliesi. Una miscellanea per la chiesa di Brindisi nella Biblioteca “De Leo”, in “Brundisii Res”, XIII, 1981, pp. 111-119, Id., La Biblioteca vescovile di Nardò, in “Curia Vescovile di Nardò”, Bollettino Ufficiale, XXXIII, 1984, 1, p. 78; M.T. Tafuri Di Melignano – Maria Virno, Edizioni pugliesi dei secoli XVI-XVIII nella Biblioteca Nazionale di Bari, in “Archivio Storico Pugliese” 36 (1983); M.T. Tafuri Di Melignano, Ulteriori contributi alla storia della stampa in Puglia, ivi, 37 (1984), pp. 123-130; M. Paone, Lecce segreta, Galatina, Ed. Salentina, 1992, pp. 31-34, 35-36; Id., Incisori Leccesi del Seicento, Galatina, Congedo ed., 1974, p. 25; A. Laporta, Una introvabile edizione leccese del ’600, in “Sapere Aude” Studi in onore di P. Luigi De Santis, Lecce, Ed. Grifo, 2010, pp. 157-168; F. Quattro, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus Traditus. Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., pp. 207-220; M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, in “Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone”, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Ed. Grifo, 2011, pp. 175-205.
7 E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, cit., pp. 11-12. Alla catalogazione delle opere del Micheli un contributo importante è stato dato anche da E. Dimitri con la segnalazione (Libreria Messapica, catalogo n. 5, Manduria, autunno 1976, p. 3) del rarissimo poemetto di Tommaso D’Aquino (stampato nel 1684) e il libretto (altrettanto raro) dell’arciprete manduriano Castorio Sorano (stampato nel 1669).
8 Cfr. G. Spagnolo, Un poeta salicese del ’600: Epifani Pietrantonio, in “Quaderno di ricerca Costumi e storia del Salento”, Galatina, Panico, marzo 1986, pp. 47-62; Id., Per la storia dell’Editoria Salentina del ’600. “Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento” del tipografo Pietro Micheli, in “Studia Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri”, a cura di Dino Levante, Manduria, Barbieri Selvaggi Editore, 2010, pp. 325-336; Id., Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, in “Il Bardo”, XXI, 1, Luglio 2011, p. 2; Id., Per la storia dell’editoria salentina del’600: l’ultimo Micheli?, in “Il Bardo”, XV, dicembre 2005, 3, p. 7; Id., Un’opera dispersa di Pietro Micheli: il trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (1653), in “IlBardo”, XXV, 2, maggio 2015, p. 6; Id., Edizioni di Pietro Micheli nella “Biblioteca Salita dei Frati di Lugano”, in “Il Bardo”, XXIV, 1, Marzo 2015, p. 5; Id., IDomenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine, del Rosario, estratto da “Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (sec. XV-XVIII)”, a cura di Eugenio Bruno e Mario Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2016, pp. 3-19; Id., M. Cazzato – G. Spagnolo, Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario, in “Rotary Club Lecce, 60 anni di “service”. Omaggio alle Eccellenze Salentine”, Galatina, Congedo Editore, 2013, pp. 103-116; Id., Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario (e un’erede salvese), in “Annu Novu Salve vecchiu”, 20, 2017, pp. 89-102.
In sintesi, nei suddetti contributi vengono segnalate e descritte le seguenti sconosciute edizioni di Pietro Micheli:
Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento (L’esemplare pur essendo privo del frontespizio, ricco di numerosi capilettera – ben 9 – e di diversi fregi – sei in tutto, di cui uno non conosciuto, per la freschezza e la qualità tipografica è da collocarsi negli anni centrali della sua attività).
Costituzioni per il Conservatorio di S. Anna di Lecce fatte da Monsignor D. Michele Pignatelli Vescovo della medesima città. Per il buongoverno delle Gentildonne che ivi vi dimorano. In Lecce appresso Pietro Micheli 1685. Con licenza de’ superiori.
Tractatus De Beneficiis Ecclesiasticis scilicet quid iuris habeant Beneficiarii in suorum Beneficiorum fructibus. Auctore ADM. R. D. Andrea Lanfranchi Clerico Regulari: Ad eminentissimum, e reverendissimum Dominum Cardinalem Franciscum Mariam Brancacium, Lycii, Apud Petrum Michaelem. M. DC. LIII.
SENTENZIA TRIUM CONFIRMATORIA Super exemptionem praestandi Quindecimam seu Undecimam A. R. P. D. PARACCIANO Iudice Commissario Lata ad favorem Ecclesiasticorum Terrae Ruffani. Lycij, Ex Officina Haeredum Petri Michaelis 1696. Superiorum facultate. (è la sentenza in merito alla lunga lite che oppose nel Sacro Regio Consiglio l’Università di Ruffano al suo barone Francesco D’Amore I Principe di Ruffano secondogenito di Giovan Battista e di Elena Barracani, negli anni settanta del Cinquecento su un contenzioso costituito da ben 39 “gravanima”. Nel 1693 gli eredi di Pietro Micheli, come risulta dal repertorio dello Scrimieri, avevano già accolto nelle loro stampe un opuscolo (opera del Sacro Regio Consiglio) per la Terra di Ruffano contro appunto i soprusi del barone locale, cioè i “DECRETA S. R. C/ IN FAVOREM UNlVERSITATIS/ RVFFANI,/ CONTRA BARONEM DICTAE TERRAE/ Extracta in anno 1596/ Lycij, Apud Haeredes Petri Michaelis, 1693./ Superiorum facultate/.”).
Foglio a stampa di cm 24×16 recante da un lato la “Missa/ IN SOLEMNITATE SANCTISSIMI ROSARII/ BEATAE MARIAE VIRGINIS” e dall’altro una xilografia raffigurante la Madonna del Rosario. Lycij, Apud Petrum Michaelem, 1675, Superiorum permissu.
9 Cfr. G. Spagnolo, Una sconosciuta edizione leccese (1664) del tipografo Pietro Micheli, in “lu Lampiune”, X, 3, dicembre 1994, pp. 5-9.
10 F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus Traditus. Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., in particolare pp. 213-214; M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in terra salentina, cit., in particolare pp. 182 e 190.
11 F. Quarto, Nuove emergenze, cit., pp. 213-214.
12Ivi, pp. 212-213. A Francesco Quarto si deve anche la scoperta del libro Historia della città de Leuche allo capo della provintia di Terra d’Otranto alla golfo de capo de Lupo, pubblicato a Padova nel 1588 da Lorenzo Pasquati, testo che ha consentito di “retrodatare” di oltre cento anni l’inizio della storiografia municipale salentina, tradizionalmente attribuita a Luigi Tasselli che fece stampare proprio dagli eredi di Pietro Micheli nel 1693 le “Antichità di Leuca città già posta nel capo salentino” etc. (Ivi, p. 210, nota 10). Il Quarto segnalò la sua scoperta con la pubblicazione Historia della città de Leuche, presentazione di A. Laporta, Tricase, Edizioni dell’Iride, 2008.
13 La società Napoletana di Storia Patria, con sede in Castelnuovo (o anche Maschio Angioino), è tra le società storiche nazionali una delle più importanti sia per l’antichità delle sue origini, sia per la ricchezza del patrimonio librario che custodisce. sia per la vitalità delle sue iniziative scientifico-editoriali. L’Istituzione sorta nel dicembre 1875, riconosciuta Ente Morale con il R. D. 29 Giugno 1882, fu fondata da alcuni illustri studiosi e s’inserisce in quel complesso di iniziative che portarono alla nascita di una rete di Deputazioni (organismi a nomina statale) e di Società (organismi costituiti per iniziativa locale), con l’ideale intento di contribuire con lo studio del passato, a cementare l’unità morale degli Italiani. È una società storica privata che promuove gli studi di storia e storiografia del Mezzogiorno, cura edizioni di fonti e di studi specializzati. Il patrimonio della sua Biblioteca è composto in prevalenza da materiale di interesse meridionalistico: circa 350.000 tra volumi a stampa, periodici e opuscoli, manoscritti, pergamene, stampe e disegni. Conserva uno dei primi libri stampati in Italia (il quarto), il De Civitate Dei di Sant’Agostino realizzato nel giugno del 1467 a Subiaco da due chierici tedeschi: Sweynheym e Pannartz. (http://www.storiapatrianapoli.it/ Società Napoletana di Storia Patria – Approfondimento; http://www.it.m.Wikipedia.org.Wiki, Società Napoletana di Storia Patria). La consultazione dell’opera del Micheli è stata resa possibile grazie al servizio della sua “Biblioteca Digitale” (si ringrazia vivamente la dottoressa Renata De Lorenzo, direttrice della Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, per la sua preziosa collaborazione).
14 Cfr., F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi Mundus Traditus Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., p. 217.
15 Cfr., G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, cit., pp. 347 e 348.
16 Cfr., M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, cit., p. 182. A Napoli Micheli si sposta in un anno “imprecisato” dopo essere stato a Roma “dove verosimilmente aveva conosciuto il suo maestro Lorenzo Valeri” (la Tamblè ricava quest’informazione dalla deposizione che il Micheli, in data 22 Aprile 1640, aveva reso al vicario generale della diocesi di Lecce per rendere la propria testimonianza in favore dell’amico Giovanni Collari, pp. 177 e 182, atto facente parte di un fascicolo del 1640 contenente notizie biografiche sullo stampatore, rinvenuto da Angela Frascadore presso l’Archivio storico della Curia Arcivescovile di Lecce).
17 Cfr., F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi Mundus Traditus Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., p. 212.
18 Http://www.altaterradilavoro.com/Le Trentatrè Monastero Clarisse Cappuccine di Napoli; http://www.grandenapoli.it/Annunziata Buggio, il Monastero delle Trentatrè; http://www.ospedaleincurabili.jimdo.com/ Le Suore dette 33; http://www.clarissecappuccinegenova.it/ L’Ordine delle monache clarisse cappuccine.
19 Cfr., L.G. De Simone, Lecce e i suoi Monumenti, vol. primo La Città, nuova edizione postillata da Nicola Vacca, Lecce, Centro di Studi Salentini 1964, pp. 271, 273 nota 8; G. Paladini, Guida Storica ed Artistica della città di Lecce. Curiosità e Documenti di Toponomastica locale, Lecce, Editrice Salentina, 1952, p. 226; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina, Congedo editore, 1974, pp. 92-93. La denominazione del Monastero “Santa Maria di Loreto” si riferisce certamente all’episodio in cui Maria Lorenza Longo rimasta vedova si recò in pellegrinaggio a Loreto e qui decise di entrare nel Terz’Ordine di San Francesco, assumendo il nome religioso di Lorenza (cfr. http://www.clarissecappuccinegenova.it/ L’Ordine delle monache clarisse cappuccine, cit.).
20 Cfr., G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli, tipografo in Puglia nel 1600, cit., pp. VIIIXL (introduzione) e pp. 152-153 (n. 149 – D’Estrada Francesco). A pag. 70 è presente lo stesso fregio utilizzato da Pietro Micheli nella “Regola di Santa Chiara” a pag. 5.
21 Cfr., G. Spagnolo, Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S.Anna di Lecce, cit., p. 2.
22 Ad ulteriore dimostrazione che il lavoro di ricerca su questo primo editore leccese sia ancora ben lontano dall’essere completato, segnalo un’altra sconosciuta edizione apparsa sul Catalogo n. 125 della Libreria Antiquaria Gutenberg di Milano contrassegnata con il numero 184, e così descritta: “OCHOA Y SAMANIEGO FRANZISCO, Arismetica Guarisma, en la qual se muestra El uso manual de la siete reglas maestras de faber hazer todas las quese reduzen a cuenta, con la variedad que ay hazerse Contratazion Mercantil de compras, y ventas de mercadurias in varios Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa, Remisiones de commisiones de dinero de monedas en ellos, Fundazion de banco, Negoziazion de el., Dividido en quatro partes, Lecce, Pedro Micheli, y Nicolao Francisco Russo, 1644. In 4°, (mm. 200 x 160) ottima pergamena coeva con titoli manoscritti sul dorso, pagg. 12 + 493 + 1. Edizione originale, di insigne rarità, si conosce l’esistenza di un solo esemplare al mondo, presso la Columbia University. Opera di economia fondamentale, che diede origine alle banche pubbliche, spiegandone il loro funzionamento nella gestione del denaro, ogni fase è spiegata in dettaglio, l’opera si riferisce alle banche pubbliche di tutto il mondo. Tale è la rarità di questa opera che risulta sconosciuta a Einaudi e alle bibliografie consultate. Splendido esemplare freschissimo (B406). In 4°, (mm. 220 x 160), very good coeval parchment with hand script titles on the back, pages 12 + 493 + 1. First edition, very rare, it is know only one copy in the world, care of Columbia University. Essential work about economy, it gives origin to modern public banks, explaning their functioning in money management. It’s so rare that result disowned to consulted bibliographies. Perfect and splendid copy (B406). Quotazione Euro 19.000,00”. L’opera al di là della sua rarità e dell’importanza dei suoi contenuti descritti, come si può notare ha anche la particolarità di essere una delle poche edizioni stampate dal Micheli con la collaborazione del genero tranese Nicola Francesco Russo che sposò la figlia Elisabetta nata a Trani, e con cui costituirono una società tipografica che iniziò la sua attività nel 1644 e già presente nel contratto di consegna della dote della figlia stipulato il 13 Novembre 1643 (Cfr. G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli, cit., pp. XXI-XXII, 262, 265-267: “collaboratore e consocio del tipografo per alcuni anni (1644-45) e poche edizioni”).
L’internazionalità emersa dall’esame di un prodotto dell’editoria salentina e leccese in particolare operato qualche tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/30/lecce-resto-del-mondo-1-0-un-rarissimo-libro-stampato-a-lecce-nel-1644/) continua a manifestarsi, anche se in misura enormemente meno diretta e più sfumata, ma con un pizzico in più di salentinità, perché, se allora il protagonista è stato un libro scritto da uno spagnolo e pubblicato da una coppia di editori operanti a Lecce, qui è la volta di un libro scritto da un neritino, pubblicato dagli stessi due editori due anni dopo e dedicato a dedicato ad un vescovo operante in Italia, in particolare nel Salento. ma di nazionalità spagnola..
Non sorprenda quanto appena detto, tenuto conto del dominio di Filippo IV e della fisioogica inflenzam leggi controllo, che qualsiasi potere tende, per sopravvivere, ad esercitare in tutti i settori, amministrativi e non. Ne riproduco il frontespizio un dettaglio dell’interno dall’esemplare digitalizzato custodito, come si nota dal relativo timbro nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò.
Il volume è da considerarsi raro, poiché l’OPAC registra la presenza di soli tre altri esemplari, rispettivamente a Manduria nella Biblioteca comunale “Marco Gatti” e a Lecce nella Biblioteca “Nicola Bernardini” e nella Biblioteca comunale ‘San Francesco”. Purtroppo non son riuscito a decifrare quanto vi si vede scritto a mano, probabilmente una nota di possesso, e a tal proposito debbo far notare a me stesso come qualsiasi nota apposta su un libro può sembrare al momento quasi come uno sfregio rozzo e crudele, ma col passare dei secoli può diventare una preziosa fonte d’informazione.
Fortunatamente altri dati, che sarebbe stato laborioso se non impossibile recuperare, emergono da ciò che si legge dopo il titolo vero e proprio, nel chilometrico, anche questo è fisiologico nella stampa del tempo, sia pur in palese contrasto con la produzione poetica che si pasceva di metafore spesso di problematica interpretazione con i loro riferimenti alla portata solo dei più dotti. Apprendiamo così che l’autore al tempo era suddiacono (cioè appartenente al primo degli ordini maggiori, da cui cominciava l’obbligo del celibato e della recita dell’Ufficio divino), che il libro era indirizzato a sua sorella Suor Antonia di San Francesco Monaca Scalza di Santa Teresa e dedicato a D. Consalvo de Rueda Vescovo di Gallipoli con, a seguire, la sempre consueta processione di titoli.
Il dettaglio che avevo preannunciato è collocato, fatto anche questo più che normale nella parte che precede il testo vero e proprio e che contiene quelle che possono essere delle vere e proprie recensioni, tutte, allora come ora …, estremamente positive. La lunga serie si chiude proprio con quella del vescovo destinatario, che di seguito riproduco e traduco.
Al molto reverendo e amato figlio, il suddiacono Giovanni Donato Maritato, Nostro Signore salvi.
Molto amato figlio, ho letto con gusto particolare il libro che avete composto sul primo capitolo dei cantici divini, la composizione mi è sembrata ammirevole e che sarà diu molta utilità per le persone perfette nella via de Signore e a tutti quelli che pregano. Mi colpisce che tenti di stamparlo e spero che sarà letto con gusto, per la molta varietà di cose che contiene. Nel resto mi rimetto all’opinione di padre Minioti1 vostro confessore e per entrambi chiedo a Nostro Signore la sua santa grazia e felicità. Da Gallipoli 27 maggio 1645. Devotissimo in Cristo Consalvo vescovo di Gallipoli.
Sospetto che il giudizio vago e generico del superiore abbia indotto il neritino a riflettere piuttosto a lungo sull’opportunità di continuare, perché a quasi sette mesi dopo (1 gennaio 1646) risale il messaggio inviato al Minioti, al giudizio del quale il vescovo, giocando quasi a scaricabarile, si era rimesso. Il Minioti non fece attebdere il suo giudizio evidentemente positivo, perché dopo poche settimane (30 gennaio 1646) Giovanni Donato annunziava al vescovo l’uscita del lavoro confermandone la dedica che si legge nel frontespizio. Tutti i messaggi cui fino ad ora ho fatto riferimento sono riportati nelle pagine iniziali del libro.
Se, in fondo, il legame del Maritato con la Spagna può essere ricondotto alla sfera più o meno burocratica della scontata riverenza ad un superiore, meno scontato, anche se non originale (ma scientificamente ineccepibile), appare il metodo seguito, che, come ha rilevato Bruno Pellegrino: Juan de la Cruz riporta le citazioni scritturali prima in latino e poi, tout de suite, le traduce, chiosandole secondo il contesto. Medesima prassi in Giovanni Maritato …2.
Oltre a Le divine corrispondenze il neritino pubblicò tre altre opere, delle quali riporto gli estremi bibliografici:
Sacro gioiegliere dell’anima devota, incastonato d’alcuni Spitituali Opuscoli. Del Reverendo D. Gio. Maritato di Nardò Sacerdote Teologo, Pietro Micheli, Lecce, 1656
Lucido specchio ò vero Celesti inviti dell’anima, alla christiana perfettione. Di Gioan Donato Maritato. Sacerdote, e dott. teologo della congreg. de chierici ritirati dal secolo, Zannetti, Bari, 1665-
Svegliatoio de’ tiepidi al divino amore. Overo Meditationi divotissime dell’appassionato, morto, e redivivo Giesu amor nostro, coll’aggionta d’un breve modo di confessarsi, … Operetta composta per commune utilita da Gio. Donato Maritato dr. teologo, prete della vita commune, e dedicata all’ill.ma sig.ra d. Maria Celestina Caraffa, Heredi del Valeri, Trani, 1667
Si tratta di titoli ancor più rari di quello prima presentato: dei primi due è reperibile, per ciascuno, solo un esemplare custodito presso la Biblioteca “Roberto Caracciolo” di Lecce, del terzo sempre un solo esemplare presso la Biblioteca “Nicola Bernardini” di Lecce.
Anche questi titoli contengono preziose informazioni sull’autore: il Suddiacono della prima pubblicazione del 1646 è alla data del 1656 Sacerdote Teologo, a quella del 1665 Sacerdote, e dott. teologo della congreg. de chierici ritirati dal secolo e quella del 1667 dr. teologo, prete della vita commune. L’abbandono dello stato laicale, inequivocabilmente attestato dal titolo del 1665. Tuttavia, doveva essere avvenuto già nel 1659, quando le monache del monastero delle Carmelitane scalze di Bari incaricarono il neritino della stesura di una biografia della consorella Francesca Teresa, indispensabile per preparare il processo informativo. L’operazione non andò in porto, ma resta la relazione redatta dal nostro nell’ACDF (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (S. O. St. St., B4 fasc. 25) col titolo 1659 et sequent. Circa impressionem Vitae compositae a sacerdote Ioanne Donato Maritato, sororis Franciscae Theresae a Iesu Maria Carmelitana Excalceatae Monasterii Barensis ad instantiam Sororum dicti Monasterii.
Probabilmente la lettura delle ultime tre pubblicazioni citate avrebbe aggiunto altri dati alla biografia del nostro. Purtroppo solo il Sacro gioiegliere è reperibile in rete (digitalizzazione dell’unico esemplare prima ricordato) e, essendo impossibilitato a muovermi, faccio con questo la stessa operazione fatta con Le divinecorrispondenze, lasciando a chi ne ha tempo e voglia ulteriori indagini sul campo. Prima, però, invito ad una riflessione sulla parte iniziale dei tre titoli (Le divine corrispondenze tra l’anima orante e Dio/Sacro gioiegliere dell’anima/Lucido specchio ò vero Celesti inviti dell’anima/Svegliatoio de’ tiepidi al divino amore): a parte la parole-chiave anima, assente solo nell’ultimo, spiccano nel loro immaginifico valore metaforico, quasi in un climax ascendente, gioiegliere, specchio e svegliatoio, anche se specchio ha un famoso precedente nello Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti (sec. XIV) e svegliatoio sara ripreso da Antero Maria da San Bonaventura (al secolo Filippo Micone) in Svegliatoio de’ sfaccendati, e stimolo d’affaccendati per ben’impiegare il tempo, resultanti da prattiche meditationi, fondate in vere ragioni, autorità di Sacre Scritture, sentenzede’ Padri, e familiari similitudini, Franchelli, Genova, 1679.
Campeggia lo stemma della famiglia Marescallo3 , come conferma la dedica.
Ogni tentativo di ricostruire quel tessuto di generazioni che il tempo inevitabilmente logora e molto spesso distrugge è puramente velleitario, se non è suffragato almeno da indizi. Nel nostro caso uno di pura partenza potrebbe essere il cognome Maritati4, a Nardò ancora abbastanza diffuso, nonché l’omonimo palazzo. E non è detto che un’indagine mirata negli archivi notarili non riesca a ricostruire la trama temporale e ad aggiungere a questa nota bibliografica qualcosa in più su Giovanni Donato.5
__________________
1 Giovanni Maria Minioti, teatino di Lecce, autore di Vita del virtuoso, e laudabile giouane Tomaso Perrone gentil’huomo della citta di Lecce, Micheli, Lecce, 1641 (ristampa per i tipi della Stamperia Simoniana, Napoli, 1757). Notizia di un suo manoscritto è in Gioacchino Di Marzo, I manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo, Stabilimento tipografico Virzi, Palermo, 1878, v. III, p. 136 (di seguito la relativa scheda).
2 Bruno Pellegrino, Giovanni Maritato, un mistico sanjuanista del Seicento tra Salenrto e Spagnam in Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e nuovo mondo (secoli XV-XVII), Associazione italiana per lo studio dei santi dei culti dell’agiografia Congresso internazionale (5 : 2003 : Lecce), Congedo, Galatina, 2009, p. 475
3 “MARESCALLI di Lecce. Detti pure Marescalchi e Mariscalchi … I Marescalli ebbero il marchesato di Arnesano ed i feudi di Lequile, Pisanello, Pisignano, Ripacandida, Strudà, Maglie, Surano, Vanze, Castrignano. ARMA: Scaccato d’oro e d’azzurro.” (G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Direzione del Giornale araldico, Pisa, 1886, v. I, p. 79, alla voce Marescalli)
4 È assolutamente irrilevante la differenza tra Maritato e Maritati. Tale alternanza, salvo rarissime eccezioni sempre in agguato e di non facile individuazione, è dovuta alla latinizzazione del cognome (al singolare) alternata (al plurale) ad indicare collettivamente la famiglia. Emblematico, a tal proposito, per restare a Nardò, Tafuro/Tafuri.
5 Da Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo Galatina, 1999:
Chiesa abbazia della B. V. del rosario e dei santi Bartolomeo e Marcello papa nel pittagio S. Paolo in via Angelo Delle Masse, distrutta. Fu edificata nel 1629 tra il cortile di Scipione Però e di Domenico Maritati … (p. 69)
Chiesa dell’Angelo custode nel pittagio S. Paolo, oggi via Angelo Custode, profanata. Fu costruita tutta in muratura nel 1676 o 1677 dal sacerdote Vincenzo Maritati, che trasmise il diritto di patronato ai suoi eredi … (p. 71)
Chiesa di S. Anttonio dei Bellotti nel pittagio S. Paolo, crollata … nella visita del Lettieri (1830) vi celebra Michele Maritati … (p. 99)
Sarà puramente casuale il fatto che i Maritati qui ricordati gravitano tutti nell’antico pittagio S. Paolo, lo stesso in cui è sito il ricordato palazzo?
Ritrovata una carta topografica storica di Brindisi fino ad ora completamente sfuggita in tutte le pubblicazioni locali, nei cataloghi e nelle raccolte che negli ultimi decenni hanno elencato e passato in rassegna meticolosamente tutta la cartografia storica della città di Brindisi e del suo porto.
Un appassionato studioso e collezionista di cartografia storica brindisina, Vito Ruggiero, l’ha scoperta sul web nel catalogo di una galleria specializzata nella vendita di incisioni di antichi maestri e cartografia rara, e successivamente l’ha studiata in modo molto approfondito fino al punto di dedicarle un libro.
L’opera è una silografia della prima metà del XVI secolo, su carta vergata coeva delle dimensioni di 40×30 cm, e fa parte della produzione e diffusione cartografica a stampa veneziana, giunta fino ai nostri giorni in perfetto stato di conservazione.
Il ritrovamento è straordinario per la città di Brindisi, perché la stampa in questione è la rappresentazione della città più antica e rara ad oggi conosciuta, pervenuta fino ai nostri giorni in un unico esemplare.
Un documento prezioso, molto antico e rarissimo, che poche città possono vantare e che, per ironia della sorte, Brindisi ignora di possedere in quanto non risulta citata in alcuna pubblicazione locale.
Lo straordinario documento ci racconta che, nell’anno 1538, l’armata dell’ammiraglio Andrea Doria ancorava nel porto di Brindisi dopo gli eventi della battaglia di Prevesa. Una precisa testimonianza di un evento realmente accaduto ai tempi delle battaglie navali tra la Lega Santa e l’impero ottomano.
Il 28 settembre 1538 una flotta cristiana della Lega Santa (la coalizione militare voluta da papa Paolo III per contrastare l’invadenza navale ottomana nel Mediterraneo, e sottoscritta nel febbraio di quell’anno da Spagna, Repubblica di Genova, Repubblica di Venezia ed i Cavalieri di Malta) era finalmente riuscita a bloccare il Barbarossa nel canale di Corinto presso Prevesa. La battaglia di Prevesa avrebbe probabilmente avuto un esito diverso, risolvendo definitivamente i problemi creati da Khayr al-Din Barbarossa, se Doria, ritiratosi dal combattimento, non avesse lasciato campo libero al corsaro ottomano. Lo sganciamento operato dall’ammiraglio era giustificato dalle difficoltà di manovra, per la mancanza di vento, dei velieri cristiani e in particolare della poderosa nave ammiraglia Galeone di Venezia, contrapposti all’agile e veloce naviglio avversario.
Il titolo nel cartiglio di destra riporta il nome Brandici, come veniva chiamata a quel tempo la città dai veneziani.
Nel cartiglio di sinistra invece si legge: EL. VER. SITO. DI. BRANDICI. IM PUGLIA. STAMPATO IN VENETIA. PER. FRANCESCO. LIBRA[RIA] DALA. SPERANZA. A. M.DXXXVIII.
La tavola è firmata da Francesco Tommaso di Salò nel 1538, un tipografo attivo a Venezia che lavorò quasi sempre con soci non identificati e del quale si hanno poche notizie. Si firmava con l’imprint In Venetia: per Francesco de Tomaso di Salo e compagni, in Frezzaria, al segno della Fede. Il suo nome appare su ristampe delle opere di Matteo Pagano, del quale probabilmente acquisì la tipografia.
L’opera fu ritrovata nel 1987 dallo studioso ungherese Tibor Szathmáry presso il mercato antiquario di Arezzo in una piccola raccolta di silografie del 500, tutte rarissime e mai conosciute prima. La tavola era parte di una piccola raccolta di incisioni silografiche firmate da Matteo Pagano, Giovanni Andrea Vavassore e Francesco Tommaso di Salò.
Subito dopo il ritrovamento però la tavola finì all’estero, e successivamente la raccolta fu dispersa in varie aste. Quella di Brindisi fu parte della famosa collezione privata del noto politico tedesco Fritz Hellwig e solo di recente è riapparsa, prima in un catalogo di una casa d’asta e poi in quello di una galleria specializzata. Attualmente fa di nuovo parte di una collezione privata.
La bibliografia sulla quale Vito Ruggiero ha potuto fare riferimento per i suoi studi è estremamente limitata. In Italia la tavola è descritta nella monumentale opera di catalogazione Cartografia e topografia italiana del XVI secolo, edito da Edizioni Antiquarius nel 2018, a cura di Stefano Bifolco e Fabrizio Ronca, due tra i più noti studiosi e massimi esperti internazionali di cartografia storica cinquecentesca italiana.
L’opera è conosciuta solo attraverso questo esemplare che, per la prima volta, Szathmáry pubblica nel primo numero di Cartographica Hungarica del 1992. Successivamente, nel 1994, Rodney Shirley la cita nell’articolo “Rare Italian Woodcut Maps of the Sixteenth Century” sulla rivista specialistica IMCoS – Journal of the International Map Collectors Society, n°58.
Con i suoi dettagli, la tavola ci rende una immagine sconosciuta di Brindisi nel Cinquecento che Vito Ruggiero ha voluto studiare approfonditamente, avendo anche avuto l’opportunità di visionare personalmente l’esemplare unico.
Lo studio è durato più di un anno ed ha riguardato gli avvenimenti collegati al suo ritrovamento, il contesto storico con particolare riferimento alla battaglia di Prevesa ed alle successive imprese di Andrea Doria, la scarsa bibliografia esistente ed ovviamente gli aspetti topografici locali.
Gli elementi ed i dettagli raccolti sono stati talmente interessanti e numerosi che Vito Ruggiero ha deciso di raccoglierli in un libro autopubblicato in questi giorni, scritto senza scopo di lucro al solo fine di farla conoscere nel migliore dei modi ai brindisini, sperando di stimolare gli storici a studiarla ulteriormente.
L’auspicio dell’autore è che questo storico ed importantissimo documento della città abbia tutta la rilevanza e l’attenzione che merita, da parte degli studiosi di storia locale, delle associazioni culturali e soprattutto delle istituzioni locali.
Con l’augurio che un giorno possa ritornare “a casa” per mettersi in mostra a Brindisi davanti ai suoi abitanti.
Segue la riproduzione fotografica dell’opera ed il link della pubblicazione.
Pietro Marti e i suoi tempi. Atti dell’Incontro di Studi (Casarano di Lecce, 21 aprile 2023), a cura di Fabio D’Astore e Paolo Vincenti.
È stato presentato Martedì 23 aprile, presso l’ex Convitto Palmieri a Lecce, il volume Pietro Marti e i suoi tempi (pp. 222, Giorgiani editore), che raccoglie gli Atti dell’Incontro di Studi svoltosi a Casarano il 21 aprile 2023.
Come ha acutamente sottolineato Mario Spedicato nella Presentazione, il volume, che si incastona al n. 121 della Collana Cultura e Storia, magistralmente diretta dallo stesso Spedicato, rappresenta una prima e significativa tappa di un più ampio progetto che dovrà essere sviluppato tenendo insieme «gli interessi plurimi, le particolari attitudini e la ricca oltre che variegata fertilità letteraria» del Marti (Ruffano di Lecce 1863 – Lecce,1933).
Nei vari contributi, gli studiosi (P. Vincenti, E. Inguscio, L. Marrella, L. Montonato, A. Laporta, A.L. Giannone), con rigore e metodo, hanno rivolto le loro attenzioni alla multiforme e prolifica attività scrittoria (letteraria, giornalistica, critica) dell’intellettuale di Ruffano, senza trascurare al contempo la funzione, attiva e costante, da lui svolta nell’ambito della temperie culturale, civile e politica tra fine ‘800 e primo trentennio del ‘900.
Impreziosiscono il volume due saggi dedicati a due dei numerosi fratelli di Pietro: Luigi, fecondo poeta e scrittore, a firma di Fabio D’Astore, e Raffaele, insigne naturalista, la cui intensa attività didattico-scientifica viene puntualmente analizzata da Ennio De Simone.
Di seguito la Prefazione del libro.
Il 21 aprile del 2023, novant’anni dopo la scomparsa di Pietro Marti (1863-1933), il Comitato di Casarano della Società Dante Alighieri, in collaborazione con la Sezione di Lecce della Società di Storia Patria e con il Liceo Docet di Casarano, ha organizzato un Incontro di Studi intitolato Pietro Marti. Un intellettuale inquieto tra Otto e Novecento. L’evento, più che la pretesa di affrontare nel suo complesso la cospicua produzione letteraria, giornalistica, critica di Marti, aveva l’obiettivo di sottoporre a rigoroso esame critico alcuni aspetti della multiforme e prolifica attività scrittoria dell’intellettuale di Ruffano e la funzione, attiva e costante, da lui svolta nell’ambito della temperie culturale, civile e politica tra fine Ottocento e primo trentennio del Novecento: a partire da una ricognizione degli studi finora dedicati all’intellettuale di Ruffano, necessaria per cercare di emendare le non poche inesattezze contenute in tali studi e, quindi, suggerire nuove prospettive d’indagine.
Nel corso dell’incontro, coordinato da Mario Spedicato, Presidente della Sezione di Lecce della Società di Storia Patria, si sono succedute le relazioni di Paolo Vincenti, Ermanno Inguscio, Alessandro Laporta, Luigi Marrella, Luigi Montonato, Lucio Giannone, Fabio D’Astore e Ennio De Simone; queste ultime due hanno riguardato rispettivamente l’attività letteraria di Luigi Marti e la produzione scientifica di Raffaele Marti, due dei numerosi fratelli di Pietro. A quest’ultimo, autore di saggi d’argomento vario, fondatore e direttore di numerose testate giornalistiche, rinomato conferenziere, impegnato docente e dirigente scolastico, instancabile promotore culturale, sono state rivolte le attenzioni degli studiosi, ai fini di una più attenta e ravvicinata rivisitazione della sua parabola esistenziale e intellettuale. Ora le relazioni di quell’incontro, seguito da un attento e folto pubblico, sono raccolte in questo volume di Atti.
Nel saggio d’apertura, intitolato Pietro Marti: profilo bio-bibliografico, Paolo Vincenti ricostruisce la parabola esistenziale del Marti, avviando nel contempo anche un’accurata ricognizione della sua produzione; operazione faticosa, talvolta per la difficile reperibilità delle fonti, più spesso per le non poche inesattezze e/o approssimazioni dei repertori esistenti.
Ermanno Inguscio, nel suo agile contributo, intitolato Pietro Marti e la scuola. Il maestro-professore, il dirigente scolastico nel Polesine ed in Puglia tra Otto e Novecento, ripercorre le fasi legate all’attività professionale del Marti, a far data dal 1879.
Luigi Marrella, nel suo intervento, intitolato Pietro Marti e gli «Almanacchi» di Gregorio Carruggio, ricostruisce il sodalizio Marti-Carruggio sulla base della collaborazione del primo agli «Almanacchi» compilati dal Carruggio e di quest’ultimo alla rivista «Fede», fondata e diretta dal Marti.
Dal canto suo, Luigi Montonato in Pietro Marti. Giornali e polemiche nel Salento fascista analizza a fondo il complesso e non di rado spigoloso rapporto del Marti con il regime fascista nella prima metà degli anni Trenta, evidenziando il conflitto interiore dell’intellettuale di Ruffano scaturito da una sorta di ‘condivisione formale’ del fascismo.
Il contributo di Alessandro Laporta, Il sodalizio Marti-Bortone: scrittura e scultura, propone un’interessante ricostruzione del duraturo e proficuo rapporto amicale e culturale stabilitosi tra i due concittadini: Antonio Bortone, scultore di fama, e Pietro Marti, rinomato giornalista e scrittore.
Nel denso e acuto contributo «Una chiara comprensione e affettuosa bontà»: Pietro Marti e Vittorio Bodini, Antonio Lucio Giannone ricostruisce con dovizia di documentazione e con la consueta acribia il ‘complicato’ ma affettuoso rapporto tra il nonno (Pietro) e il nipote (Bodini), che del nonno serberà sempre grata memoria, pure con riferimento alla «passione per la propria terra».
Fabio D’Astore, nel saggio Luigi Marti poeta analizza la produzione poetica di uno dei fratelli di Pietro, Luigi, prolifico scrittore in prosa e in versi. Le tre raccolte, pubblicate nel corso di oltre un decennio e oggetto del contributo che appare in questo volume, recano testimonianza del percorso poetico, umano e intellettuale compiuto da Luigi Marti.
Chiude il volume un interessantissimo saggio di Ennio De Simone, intitolato Raffaele Marti (1859-1945): un naturalista outsider salentino, nel quale l’autore esplora l’intensa attività didattico- scientifica di un altro fratello di Pietro, Raffaele, con specifica attenzione alle pubblicazioni riguardanti «gli aspetti naturalistici del Salento».
Nel libro Donne di potere nell’Alto Medioevo. Elena-Teodora-Irene-Marozia[1], ci si occupa di quattro donne di potere, tre delle quali, Elena, Teodora e Irene, sono state fatte sante.
La domanda che si pone nella Premessa è come mai queste donne, protagoniste del volume, dalla dubbia moralità, ree di congiure di palazzo, epurazioni ed assassinii, siano potute essere santificate. Ma gli interrogativi sulle modalità di santificazione vengono facilmente fugati se si dà un’occhiata prospettica alla letteratura di settore, in parte già elencata nel volume stesso[2]. Come poi questi culti siano giunti in Italia e assorbiti anche dai nostri calendari romani, non è difficile immaginare se si tiene conto dei proficui rapporti commerciali fra le due sponde del Mediterraneo e ancor di più del profondo scambio culturale che a cavallo del secolo Mille diventa quasi osmotico, in particolare fra l’Italia meridionale e Bisanzio[3].
Siamo a cavallo fra due mondi caratterizzati da riti e culti diversi che però con la dominazione bizantina si compenetrano fra loro. In particolare, con lo scisma del 1054, le due chiese, invece di dividersi definitivamente, si ritrovano, anche se ciò può sembrare paradossale.
La cultura greca è profondamente radicata nel Meridione d’Italia e in questa sedimentazione sono da ritrovare le origini di molti culti come per esempio quello di Sant’Irene a Lecce, di San Cataldo a Taranto, di San Teodoro a Brindisi.
Mario Spedicato sottolinea il ruolo centrale svolto dal mare nell’alimentare i traffici e gli scambi di varia natura fra i due mondi, quello bizantino orientale e quello latino occidentale. Anche se le varie città di Puglia, Basilicata, Calabria seguono protettorati diversi, questo, scrive Spedicato, “non oscura i segni di una presenza bizantina a lungo predominante […], segni che, per restare solo alle superstiti tracce artistiche, richiamano con pochissime eccezioni quasi sempre il culto dei santi di origine orientale, come a Lecce che si affida alla protezione della santa di Tessalonica [Irene]”[4].
A proposito della beatificazione di Elena, madre di Costantino, Teodora, moglie di Giustiniano e Irene, Imperatrice di Costantinopoli, ci si è chiesto come si possa essere giunti alla santificazione di donne e uomini di potere che certo modello di una specchiata moralità non erano. Eppure, nonostante alcuni regnanti abbiano fatto dell’intrigo, della corruzione politica e finanche del delitto la propria cifra, essi sono saliti agli onori degli altari e la chiesa occidentale ha accettato ed incluso nei propri calendari religiosi certe beatificazioni. È sicuramente una forte contraddizione, un alternarsi di intransigenza e compromessi. Del resto, «ogni processo di acculturazione necessita in realtà di questa mescolanza di rigorismo e di lassismo.
Nella sua ultima opera, il filosofo Jacques Maritain si servì del concetto di “inginocchiarsi di fronte al secolo” per designare il comportamento ambiguo della Chiesa di fronte ai valori non cristiani, che rispetta fino a capitolare di fronte a loro»[5].
Se non vogliamo in questa sede riprendere una simile riflessione, ci basti d’altro canto aver instillato nel lettore, su un argomento così spinoso, la curiosità per approfondirlo.
Note
[1] Paolo Vincenti, Donne di potere dell’Alto Medioevo. Elena-Teodora-Irene-Marozia, Lecce, Capone, 2024.
[2] In aggiunta alla bibliografia indicata nel libro: Agiografia altomedievale, a cura di S. Boesch Gajano, Bologna, 1976; R. Grégoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano, 1987; C. Leonardi, I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica al medioevo, in Passaggio dal mondo antico al medioevo. Da Teodosio a San Gregorio Magno. Atti dei Convegni Lincei, 45, Roma, 1980, pp. 435-476; Idem, Il problema storiografico dell’agiografia, in Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità. Atti del Convegno di Studi (Catania 20-22 maggio 1986), a cura di S. Pricoco, Soveria Mannelli, Rubettino, 1988, pp. 13-23; S. Boesch Gajano, Le metamorfosi del racconto, in Lo spazio letterario di Roma antica, III, La ricezione del testo, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, Roma, 1990, pp. 217-243; Eadem, Tra bilanci e prospettive, in «Cassiodorus», n. 2, 1996, pp. 231-242; Eadem, L’agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, XLV Settimana di Studio del CISAM (3-9 aprile 1997), Spoleto, 1998, pp. 797-843; G. Philippart, Le manuscrit hagiographique latin comme gisement documentaire. Un parcours dans les “Analecta Bollandiana”, in Manuscrit hagiographiques et travail des hagiographes, a cura di M. Heizelmann, Sigmaringen, 1992, pp. 17-48; Idem, Martirologi e leggendari, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo Latino, II, La circolazione del testo, a cura di Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò, Roma, 1994, pp. 605-648; Idem, Hagiographes et hagiographie, hagiologues et hagiologie: des mots et des concepts, in «Hagioghraphica», n. 1, 1994, pp. 1-16; Idem, Pour une histoire générale, problématique et sérielle de la littérature et de l’édition hagiographiques latines de l’antiquité et du moyen âge, in «Cassiodorus», n. 2, 1996, pp. 197-213.
[3] Sull’importazione di santi e culti orientali in Occidente: Oriente cristiani e santità. Figure e storie di santi tra Bisanzio e l’Occidente (Biblioteca Nazionale Marciana, 2 luglio-14 novembre 1998), a cura di S. Gentile, Roma, 1998; Pasquale Corsi, Ai confini dell’impero. Bisanzio e la Puglia dal VI all’XI secolo (Terzo Millennio. Collana di Fonti e Studi storici, 2), Bari, 2003; G. Luongo, Itinerari di santi italo-greci, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno medievale, a cura di G. Vitolo, Napoli, 1999, pp. 129-163; G. Vitolo, Santità, culti e strutture socio-politiche, Ivi, pp. 23-38; Idem, Il mezzogiorno come area di frontiera, Ivi, pp. 11-20. J. Durand, Reliquie e reliquiari depredati in Oriente e a Bisanzio al tempo delle Crociate, in Le Crociate. L’Oriente e l’Occidente da Urbano II a San Luigi. 1096-1270, Catalogo della Mostra, a cura di M. Rey-Delqué, Milano 1997, pp. 378-389; A. Benvenuti, Le leggende d’Oltremare: reliquie, traslazioni, culti e devozioni della Terrasanta. Il processo di sacralizzazione dell’Occidente medievale, in Il cammino di Gerusalemme, Atti del II Convegno Internazionale di studio (Bari- Brindisi- Trani, 18-22 maggio 1999), a cura di M. S. Calò Mariani, Bari, 2002, pp.529-546; I Santi venuti dal mare, Atti del V Convegno Internazionale di studio (Bari-Brindisi, 14-18 dicembre 2005), a cura di M. S. Calò Mariani, Bari, 2009; S. Di Sciascio, Reliquie e reliquiari in Puglia fra IX e XV secolo, Galatina, 2009; Maria Stella Calò Mariani, Tesori sacri venuti dal mare, in «Archivio Storico Pugliese», n. LXXIII, Società Storia Patria Puglia, Bari, 2020, pp. 7-80; Dubravka Preradovic´, Donato Di Zara, Teodosio di Oria e le traslazioni delle reliquie nelle città bizantine dell’Adriatico nel IX secolo, in Bisanzio sulle due sponde del Canale d’Otranto, a cura di Marina Falla Castelfranchi, Manuela De Giorgi, CISAM, Spoleto, Byzantina Lupiensia 3, 2021, pp. 87-111.
[4] Mario Spedicato, Una santa di frontiera. Il protettorato di S. Irene a Lecce tra Medioevo ed Età Moderna, in «Itinerari di ricerca storica», Università del Salento, Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età contemporanea, n. XX-XXI, Primo Tomo, 2006-2007, p. 257. Si veda: A Ovest di Bisanzio. Il Salento Medioevale (Atti del Seminario Internazionale di Studio, Martano, 29-30 aprile 1988), a cura di Benedetto Vetere, Galatina, Congedo, 1990.
[5] Michel Rouche, L’Alto Medioevo occidentale, in Philippe Ariès e Georges Duby, La vita privata dall’Impero romano all’anno Mille, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 416.
Sabato 4 maggio alle 19:00, presso la libreria Mondadori Point in piazza Venturi (Lago Rosso) a Copertino, si terrà un incontro sulla storia delle confraternite a Copertino, a cura di Davide Elia, Giovanni Greco e Fabrizio Suppressa.
Dalla loro genesi all’importanza socio-religiosa raggiunta nei secoli, le Confraternite si sono caratterizzate soprattutto per i loro scopi caritatevoli finalizzati alla salvaguardia della dignità umana.
Tra il XVI e il XX secolo a Copertino se ne costituirono in tutto dieci. Nessuna di queste, però, è riuscita a sopravvivere.
A tal proposito si può parlare di un vero e proprio “caso Copertino”, costituito dal fatto che – a differenza di gran parte dei comuni circostanti – questi sodalizi sono tutti scomparsi nell’ultimo secolo.
Perché si estinsero? Quali erano le loro prerogative e tradizioni? Chi furono i protagonisti? Cosa è rimasto della loro presenza? Quanto incisero sul piano economico?
Tutto questo verrà raccontato, in modo snello e accattivante, attraverso un’intensa ricerca condotta su numerosi atti notarili e nelle principali sedi archivistiche.
Il racconto dovrà per forza di cose intrecciarsi anche con i luoghi che ospitarono queste congreghe e che spiccano tuttora nel panorama artistico cittadino.
L’incontro rappresenterà pertanto un momento per condividere tracce di storia e di arte della città di Copertino.
Chi qualcosa che ha a che fare con la sfera/del calcio di leggere crede o spera,/lasci perdere, abbandoni la lettura/e cerchi altrove su magia e fattura/o tra tanta scelta succulenta e varia,/l’attenzione volga all’arte culinaria.
Dopo questo aulico inizio presento il protagonista assoluto di questa storia. Sarà l’unico, o quasi, del quale le sembianze sono a portata di occhio e, volendolo, pure a portata di mano, anche se bisognerebbe affrontare un viaggio all’estero e, probabilmente anche lì, difficoltà burocratiche di non poco conto. Ne basta e avanza, tuttavia, la conoscenza solo virtuale, com’è successo a me per puro caso. Nel compilare un catalogo di tutte le pubblicazioni reperibili di un editore del passato arcinoto ai bibliofili salentini, mi sono imbattuto nell’opera che mi accingo a presentare, cominciando dal frontespizio.
A differenza delle copertine di oggi, che con immagini di facile, direi rozza, presa ed espedienti grafici tentano spesso di vendere il nulla, lasciando alla controcopertina la funzione di divulgare mirabolanti dati sulla vita ed eventuali altre opere dell’autore, i frontespizi dei secoli passati, grazie alla loro spesso chilometrica estensione, contenevano una serie di informazioni che, insieme con quelle presenti nelle dediche, avvisi al lettore e imprimatur, rappresentano una fonte preziosa per qualsiasi approfondimento di carattere storico e non solo. Per questo motivo mi soffermerò sui dettaglio principali.
ARISMETICA GUARISMA1
È la prima avvisaglia che il libro in questione è in spagnolo e potrebbe essere tradotto con Operazioni aritmetiche. Arismetica è voce del latino medioevale (a sua volta dal greco ἀριθμητική, leggi arithmetichè), madre di aritmetica e guarisma è dal latino medioevale algorithmus (a sua volta dall’arabo al-Khuwārizmī =originario della Corasmia, appellativo del matematico arabo del IX secolo Muḥammad ibn Mūsao), da cui algoritmo. Il carattere, se non scientifico almeno tecnico, del libro si definisce meglio con quel che segue.
En la qual se muestra el uso manual de las siete reglas maestras de saber hazer todas las que se reduzen a cuenta, con la variedad que ay de hazerse Contractation Mercantil de compras, y ventas de mercaturias en varios Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa, Remisiones de dinero por via de Cambios, Ajustamiento de ellos. Estilo de hazerse Pesos, y medidas, valor de monedas en ellos, Fundazion de Banco, Negoziazion de el.
DIVIDIDO EN QUATRO PARTES POR FRANZISCO OCHOA de Samaniego de la Zuidad de Vitoria, Caveza de la Provinzia de Alaba.
(nella quale si mostra l’uso manuale delle sette regole maestre di saper fare tutto ciò che si riduce a conto, con la varietà con cui si può fare contrattazione mercantile di compravendita e vendita di merci in vari regni e provincie di Europa, Asia, Africa, rimesse di denaro attraverso il cambio, loro regolazione. Modo di variare pesi e misure, valore delle misure in essi, fondazione di banca, sua negoziazione. Diviso in quattro parti, di Francisco Ochoa di Samaniego della città di Vitoria, capitale della provincia di Alava.
Nulla da allora è cambiato nelle toponomastica (a parte Alaba, oggi Alava), ma di Francisco Ochoa nulla son in più rispetto a quanto riportato nel frontespizio son riuscito a sapere.
Questa sorta di anonima e primitiva marca editoriale appare come frutto di un sincretismo politico-religioso, con la commistione tra potere temporale (l’aquila degli Asburgo, la casa di Filippo IV all’epoca re di Spagna e di Napoli e potere spirituale (il cristogramma, logo dei Gesuiti, nello scudo). Una o l’altra delle due componenti ricorrono separatamente prima e dopo, come mostra la serie di frontespizi che seguono.
Tra di loro, però, spicca l’ultimo, in cui sembra campeggiare solo lo stemma dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinal d’Aragonam dedicatario della pubblicazione in onore dell’Augusto Monarca Filippo IV il Grande, che era deceduto nel settembre dell’anno precedente e celebrate da Monsignor Luigi Pappacoda vescovo di Lecce. C’è, però, un trucco con cui l’editore sembra salvare, come in Arismetica, capra e cavoli (il morto, ormai …) perché lo stesso frontespizio ci informa che il detto cardinale era pure Vicere (sic!) di Napoli e Capitano generale di questo Regno.
Passo all’ultimo dettaglio.
EN LECHE, MDCXXXXIIIII Por Pedro Micheli, y Nicolao Fran çisco Russo Con Licencia de los Superiores
(In Lecce, 1644 di Pietro Micheli e Nicola Francesco Russo Con licenza dei Superiori)
Le tenebre che avvolgevano il titolo del post cominciano a diradarsi: dopo quel Resto del mondo che all’epoca poteva essere ben rappresentato dal potere degli Asburgo, affiora il nome di Lecce e quello di Pietro Micheli.
Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, entrato giovanissimo in Italia, lavorando prima a Roma come tipografo apprendista presso Lorenzo Valeri, con il quale nel 1619 si trasferì a Trani, dove lavorò come allievo e socio. Sciolta la società, a Bari nel 1629 pubblicò Nuova, et facil prattica di abaco, per trovare ogn’uno il conto suo, di quello che guadagnerà à ragion di mesi, giorni, et anni, secondo che più accade in uso di Giulio Della Gatta (sul frontespizio lo stemma della città di Bari sormontato da San Nicola di Myra e a carta A12r ancora un’immagine del santo, a riprova dell’originarietà, l’originalità è altro, delle scelte che ho messo in risalto nei frontespizi prima presi in considerazione).
Dopo una parentesi di nove mesi in cui stampò in società col bresciano Giacomo Gaidone, iniziò nel 1631 la sua attività che, con monopolio assoluto, continuò fino al 1688.
L’Arismetica, stampata nel 1644, appartiene alla sparuta serie (non più di cinque le certe) di pubblicazioni realizzate con Francesco Russo, il suo socio tranese col quale sua figlia Elisabetta si era sposata nel 1643.
Se una parte preponderante delle pubblicazioni del Micheli riguarda la sfera religiosa, l’Arismetica sembra un ritorno nostalgico, mai più ritentato, ai tempi della Nuova, et facil prattica di abaco. Non è dato sapere le circostanze che convinsero lui e il Russo a lanciarsi nell’avventura.
Nulla si sa pure dell’Ochoa, ma doveva essere una figura non di secondo piano, se per raccomandarlo si scomodarono figure di primo piano della burocrazia napoletana del tempo, secondo quanto testimoniato, come da consuetudine, nelle pagine iniziali. Riporto i singoli dettagli, ognuno volta per volta seguito da una breve scheda relativa al personaggio corredata, laddove è stato possibile, di una sua immagine.
Exzelentisimo Señor
Franzisco Ochoa dize a V. E. que a compuesto un libro de arismetica contratazion de Mercaderes de remisiones de denero por via de cambio, ajustamento de ellos con todos los Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa; Suplica a V. E. mande remitille surrevision a quien fuere servido, paraque visto se le de el Reggio asenso para imprimillo, que en ello rezevira gratia, ut Deus etc.
Magnificus Alphonsus de Cardenas recognoscat, et in scriptis relationem faciat. Neapoli die 10 Novembris 1642. Casanate Regens.
(Eccellentissimo Signore
(Francesco Ochoa dice a V. E. che ha composto un libro di aritmetica contrattazione di mercanti di rimesse di denaro per mezzo di cambi, loro aggiustamento con tutti i regni e provincie d’Europa, Asia, Africa; supplica V. S. che provveda a rimettere la revisione a chi è stato incaricati, perché, una volta visto, gli si dia il regio assenso a stamparlo, che in quello riceverà gratitudine, affinché Dio, etc.
Il magnifico Alfonso de Cardenas ne prenda per iscritto faccia relazione. Napoli 19 novembre 1642. Casanate Reggente)
Il messaggio, dunque, è inviato dal reggente Casanate ad Alfonso de Cardenas.
MATTIA CASANATE Padre meno noto e benemerito di Girolamo, alla cui munificenza si deve la nascita della biblioteca romana che da lui prese il nome. Dopo essersi stabilito a Napoli nel 1619, Matteo fece carriera nell’amministrazione (presidente della Regia Camera della Sommaria, membro del Collaterale, reggente di cancelleria).
La risposta giunse dopo appena due giorni (oggi, invece, nell’era della digitalizzazione …):
Por mandado de V. E. he visto el libro que refiere el suplicante que he tenido en mi casa muchos dias, y leido todo, y allo segun mis pocas noticias de las materias que contiene, que el facarlo a luz sera de gran util no solo conti ma , pero a todo jenero de Mercaderes, y tratantes, y no tiene materia contra la juridizion Reggia. Napoles 12 de Noviembre 1642. Alfonso de Cardenas.
(Su mandato di V. E. ho visto il libro cui si riferisce il supplicante, che ho tenuto in casa mia molti giorni e letto tutto e lì secondo le mie poche nozioni sulle materie che contiene il portarlo alla luce sarà di grande utilità non solo ad ogni sorta di conti ma ad ogni genere di commercianti e concessionari e non contiene materia contro la giurisdizione regia. Napoli 12 novembre 1642. Alfonso de Cardenas)
Seguono, infine, le autorizzazioni alla stampa.
Visa retroscripta relatione imprimatur. Tapia Reg. Brancia Reg. Zufia Reg. Sanfelicius Reg. Azcon Reg. Capycius latro Pro Reg. Barilius
IMPRIMATUR
M. Pijssimus Maceratensis Vic. Gen. Lyciensis.
(Vista la retroscritta relazione, si stampi. Reggente Tapia Reggente Brancia Reggente Zufia Reggente Sanfelice Reggente Azcon Capecelatro per il Reggente.
SI STAMPI
Piissimo di Macerata Vicario Generale di Lecce)
Anche su questi firmatari qualche notizia e immagine, cominciando dalla sfilza di Reggenti del primo decrerto.
CARLO TAPIA (1565-1644), giurista, spagnolo d’origine, napoletano di nascita, autore di parecchie pubblicazioni, reggente del Supremo Consiglio d’Italia, contribuì alla stesura ed all”attuazione di diversi progetti di riforma dell’amministrazione e della giustizia nel Regno di Napoli. L’immagine che segue è tratta da Caroli Tapiae iureconsulti origine Hispani, ortu Neapolitani commentarius …, Salvio, Napoli, 1676. L’immagine è una stampa custodita nella Biblioteca Nazionale Spagnola a Madrid.
FERDINANDO BRANCIA Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, dal 1632 duca di Belvedere, Reggente soprannumerario Decano del Collaterale dal 1636 (nell’immagine il suo cenotafio nel Duomo di Napoli).
DIEGO BERNARDO DE ZUFIA Dal 1640 Reggente subentrato al Casanate e presidente del Sacro Regio Consiglio.
GIOVAN FRANCESCO SANFELICE Conte di Bagnoli, Principe di Monteverde, Reggente della Gran Corte della Vicaria, autore di Praxis iudiciaria, Napoli, Mollo, 1647 e di Decisiones supremorum tribunalium Regni Neapolitani, Anisson, Lione, 1675. A seguire il suo ritratto in una stampa custodita nell’Österreichische Nationalbibliothek a Vienna.
FERDINANDO AZCO (o Ascon) Marchese di Torello, reggente di cancelleria in Sardegna e luogotenente della Regia Camera della Sommaria.
ETTORE CAPECELATRO (1580-1654) Giurista, autore di numerose pubblicazioni. Dopo le rivolte della metà del secolo XVII fu inviato in Puglia per ristabilire l’ordine nella dogana di Foggia. Nella scheda a cura di Aurelio Musi nel Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, v. XVIII, 1975 si legge: la condotta del C. nella pratica di questo ufficio non dovette essere irreprensibile, se si deve attribuire un qualche valore alle violente satire che circolavano sul suo conto tra la popolazione pugliese, piene di insinuazioni sui sistemi e sulle fonti di accumulazione della sua fortuna”. L’autore della scheda, purtroppo, non riporta la fonte di tale gustosa notizia e di essa non v’è la minima traccia nei testi citati in bibliografia. Un vero peccato per uno come me non poter trovare la conferma, se la notizia è fondata (troppo, forse, sarebbe pretendere di rinvenire pure la testimonianza scritta di almeno una di queste composizioni che suppongo di paternità popolare) che non sia passata inosservata, magari da qualcuno un po’ più colto la possibilità di giocare col nome, dando applicazione pratica al detto latino, anch’esso un gioco di parole, nomina omina (i nomi sono presagi). Accanto a Capecelatro, infatti, non è raro trovare la grafia Capece Latro (in latino CapiciusLatro, come si legge nell’ovale dell’immagine precedente) e se Latro è la seconda parte del nome del casato, latro in latino può essere verbo e più precisamente prima persona singolare del presente indicativo di latrare (da cui, tal quale, la voce italiana), ma anche sostantivo e più precisamente nominativo singolare in un vasto ventaglio di significati tra i quali sarà agevole a chiunque individuare quello o quelli più in linea con la stigmatizzata circostanza: soldato mercenario, guardia del corpo, bandito, predone, brigante, ladro, assassino, (detto di animali) predatore, (poetico) cacciatore, pedina nel gioco degli scaccchi. Delle due immagini del Capecelatro di seguito riprodotte la prima è stata reperita su ebay, dov’è descritta come acquaforte di Domenico Gargiulo (1609-1675), come si legge in basso a sinistra; la seconda, invece, è una stampa custodita nell’Österreichische Nationalbibliothek a Vienna.
GIOVANNI ANGELO BARILIO Compare con la qualifica di segretario, spesso insieme con uno o più dei reggenti qui firmatari,in molti atti consimili di quel periodo.
MARCELLO PIISSIMO DI MACERATA Vicario Generale di Lecce. Lo scioglimento di M. è provato dalla scrittura estesa che si legge in un’altra pubblicazione del Micheli (De Deo trino et uno di Gregprio Scherio)
uscita nel 1644, cioè nello stesso anno di Arismetica. Circa due anni, dunque intercorrono tra l’imprimatur e la stampa. Se si pensa agli intralci burocratici e a certi imprevisti operativi di oggi …
Alcuni dei personaggi ricordati compaiono insieme nel decreto principale e in quello integrativo di concessione di privilegi alla città di Napoli dopo i moti del 1646-1647 da parte del vicerè Rodrigo Ponce de León duca di Arcos (), che era il vicerè (li riproduco dall’edizione Caffaro, Napoli, 1647.
L’esame autoptico appena terminato lascia senza risposta ogni domanda relativa al suo autore, a come e per quali vie e da chi il Micheli venne contattato, l’entità della tiratura, che in ragione dell’argomento trattato dovette essere abbastanza limitata rispetto a quella di un testo di carattere religiosoi e finanche letterario, il che spiega la sua quasi unicità più che rarità, visto che al momento reperibili risultano solo due esemplari, uno custodito presso la biblioteca dell’Universidad Complutense di Madrid e l’altro presso la Biblioteca del Banco de España.
Una cosa, però, è emersa incontrovertibilmente: Lecce, grazie ad una formazione con centravanti-capitano francese riuscì a battere in un solo incontro (!), rispettivamente in casa e fuori, l’editoria napoletana e quella spagnola.
“Io fra Lorenzo da Santa Maria di Novole, predicatore Capuccino e guardiano”*
di Gilberto Spagnolo
Il mio interesse per la Storia di Novoli, anni fa mi portò a svolgere una lunga ma entusiasmante ricerca sul Frate cappuccino “Fratre Laurentio è Sancta Maria de Nove” personaggio novolese per alcuni ritenuto leggendario e assolutamente inesistente ma citato dal letterato galatonese Pietrantonio de Magistris nel concludere la sua introduzione “Lectori” messa innanzi alla vita di Antonio de Ferraris detto il Galateo che pubblicò nel 1624 a fronte della edizione del De Situ Japigiae fatta a Napoli ex Typographia Dominici Maccarani da Antonio Scorrano, arciprete di Galatone.
Le mie ricerche portarono invece a risultati concreti e significativi tanto che ne nacque e fu dato alle stampe il libro dal titolo Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove pubblicato con le Edizioni del Grifo nel 1992 e con un’esaustiva introduzione di Mario Cazzato.
Con questo libro veniva definitivamente confermato per via assolutamente documentaria la “sua esistenza controversa” di un uomo di fede com’era giusto che fosse ma anche, e per questo più interessante, uomo di scienza, cartografo autore di una carta di Terra d’Otranto “che a meno di un fortuito ritrovamento dobbiamo tenerla come dispersa o rifusa nel mare magnum dell’enorme produzione cartografica del tempo e seriore” (dall’introduzione).
Più dettagliatamente, un documento rintracciato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana dimostra infatti in maniera inequivocabile che quel cappuccino “…Fratre Laurentio è Sancta Maria de Nove”, ricordato dal De Magistris, è veramente esistito, era effettivamente un cartografo autore di una carta geografica di Terra d’Otranto forse andata perduta.
Nel Codice Barberiniano Latino contrassegnato con il numero 3074 vi è un elenco scritto di proprio pugno da Luca Holste (questa è la forma originaria del cognome, latinizzato poi in Holstinius o Holstenius) noto geografo amburghese custode della Biblioteca Barberini, la più grande biblioteca privata di Roma che possedeva tra l’altro un ricco fondo di manoscritti, ma anche “uno dei bibliofili più appassionati che siano mai vissuti” (sono parole dell’Almagià) possessore di una cospicua biblioteca privata in Sant’Onofrio sul Gianicolo.
Si tratta (in sintesi) di un elenco dettagliato di opere relative al Regno di Napoli, un elenco di fonti di riferimento per la sua attività geografica. Nel documento, per la Terra d’Otranto, si ha menzione de “La Cartha della Provincia de Terra d’Otranto fatta da fra Lorenzo di S. Maria Nova Capuccino. In fol. 1617”.
Assieme alla carta di frate Lorenzo, per quanto ci riguarda, è elencato il De Situ Japigiae e il De Situ urbis Gallipolis del Galateo, l’Antichità di Leccie di Peregrino Scardino stampata a Bari nel 1607, il De Antiquitate et varia Tarentinorum Fortuna di Giovanni Giovene stampata nel 1589 a Napoli, opere corografiche di un certo rilievo, all’epoca, per quanto attiene la descrizione di fatti o fenomeni di Terra d’Otranto.
Che questa carta, menzionata dall’Holstenio in questo documento fosse la Descriptione a cui fa riferimento il De Magistris non possono esserci dubbi. Eravamo più che sicuri che il Galatonese non mentiva e soprattutto che con la parola “edita” intendeva dire come la Descriptione fosse stata realmente impressa (e d’altra parte l’indicazione “in fol.” (in folio) data dall’Holstenio è oltremodo significativa poiché è un termine che veniva riportato sui testi (nel 1500 e nel 1600) per indicare appunto la stampa tipografica di volumi di forma grande quale il foglio piegato. Ma ora lo siamo ancora di più!
Prove ulteriori della sua esistenza e del suo operato, oltre alla citata particola documentaria dell’Holstenio, sono infatti emerse recentemente grazie al monumentale e prezioso lavoro di Rosa Anna Savoia, già direttrice dell’Archivio di Stato di Brindisi, terziaria francescana e studiosa della storia cappuccina della Provincia religiosa di Puglia, intitolato Il Catalogo De’ Soggetti più illustri tra’ Capuccini della Provincia D’Otranto. Santità di Vita e fatti straordinari (secoli XVI-XVII), pubblicato con le Edizioni Grifo nel 2017. Con questo lavoro Rosa Anna Savoia ha portato a termine la trascrizione integrale dei manoscritti, conservati nell’Archivio di Stato di Milano, riguardanti i frati “più illustri” della Provincia francescano – cappuccina d’Otranto, vissuti tra il XVI e il XVII secolo e che possono essere considerati “i fondatori della Provincia, a motivo della loro vita virtuosa e della testimonianza che hanno dato”.
“È nella Provincia d’Otranto (scrive Rosa Anna Savoia), lì dove è iniziata la storia cappuccina in Puglia, che, tra la fine del XVI secolo e i primi decenni del XVII, quindi nel periodo della sua massima espansione, si sono mossi i 132 frati catalogati dagli annalisti dell’Ordine nei manoscritti oggetto del presente lavoro. Le testimonianze sulla loro vita ci indicano figure di frati la cui attività era interamente orientata a venire incontro alle necessità materiali e spirituali del popolo salentino”.
Le testimonianze raccolte si estendono per un arco di tempo di 121 anni, dal 1534 al 1655 e questo perché fin dai primi anni della vita dell’Ordine cappuccino, “i superiori generali ordinarono che in ogni Provincia fosse nominato un frate annalista con il compito di raccogliere le memorie e le gesta di frati esemplari della Provincia stessa e di inviare ogni cosa agli annalisti milanesi. Nel corso degli anni nel convento milanese della Concezione confluirono da tutte le Province dell’Ordine moltissimi documenti, soprattutto biografie di frati esemplari… È per questa ragione, quindi, che i manoscritti, oggetto del presente lavoro, si conservano attualmente nell’Archivio di Stato di Milano (Fondo: Religione, busta 6502 (già 19) tomi I-III)”.
I tomi sono rispettivamente intitolati: Catalogo dei soggetti più illustri tra i Cappuccini della Provincia d’Otranto (Tomo I); Raccolta per le croniche cappuccine della Provincia d’Otranto (Tomo II); Raccolta per le croniche cappuccine della Provincia d’Otranto (Tomo III). “Fra Lorenzo da Santa Maria di Novole predicatore, cappuccino e guardiano” compare più volte nel I Tomo che è il risultato di tre manoscritti rilegati insieme e rinumerati.
Nel I manoscritto vi è infatti la sua testimonianza a proposito del Padre Pacifico da Sant’Eufemia (casale presso Tricase), predicatore cappuccino il cui compilatore è Antonio da Ruffano, datata “Die 23 octobris et coram eisdem”.
Nel secondo manoscritto, indicato come “la Raccolta delle cose più memorabili e dei fatti più illustri operati da’ nostri frati cappuccini di questa nostra Provincia d’Otranto”, scritta da Francesco da Pulsano, vi sono invece riportate le testimonianze rese personalmente per il Padre fra Lodovico da Giovinazzo, Predicatore Cappuccino (quest’ultime particolarmente importanti perché viene indicata di Frate Lorenzo l’età “..di 40 anni in circa di Religione”), per il padre Fra Thomaso Da Caravigna (Carovigno) Sacerdote Cappuccino e per Fra Donato da Lecce laico Cappuccino.
Nel Tomo III infine che riporta anche (oltre alla Raccolta per le croniche cappuccine della Provincia d’Otranto) due parti intitolate “Castighi di Dio contra Trasgressori della Regola” e “Castighi di Dio contro agli ingrati contro alla Vocatione” sono annotate invece le sue testimonianze rese a proposito di “un giovane di Carmiano” e di un tal “Marco Aurelio Madaro da Campie”, datate 1609.
Probabilmente, un’intensa attività di predicazione lo portò a percorrere le strade di numerosi paesi della Terra d’Otranto fino a delinearli con precisione nella sua carta geografica eseguita nel 1617, carta posseduta dall’Holstenio e che servì al geografo amburghese anche per restaurare le pitture geografiche della Galleria Vaticana.
APPENDICE
A completamento del presente lavoro si riportano qui di seguito le testimonianze rese da Frate Lorenzo in merito alla vita vissuta di frati esemplari e innanzi citati.
Padre Pacifico da San’Eufemia
Il padre fra Lorenzo da Santa Maria di Novole, predicatore capuccino e guardiano, riferisce ch’era sì grande la divotione delle genti verso il padre fra Pacifico che le donne a gara toccavano i loro veli su li panni del padre, e l’huomini li faccioletti, per servarseli poi per divotione.
Io fra Lorenzo da Santa Maria di Novole ho deposto come di sopra.
Die 23 octobris 1611 et coram eisdem.
Padre Lodovico da Giovinazzo
“Dammi del pane e dell’acqua el resto portalo via, altrimente non vorrò nulla, e tanto faceva la madre. Questo modo di vivere tenne alcuni giorni con pensiero anco sempre di tornar rivestirsi de nostri, com’ei fece. Confermano il padre fra Pietro da Lecce el padre fra Lorenzo da Novole, sacerdoti capuccini, il sudetto capo per udito quanto al suo star dentro la torre”.
Segno di croce della detta Sancia di propria mano.
Io fra Lorenzo da Novole ho deposto ut supra.
* * *
Il padre fra Lorenzo da Novole, predicatore capuccino, di 40 anni in circa di Religione, riferisce Haver [I f. 289a] udito da più frati degni di fede, e veduto anche in parte, qualmente il padre fra Lodovico sudetto fu huomo dotato di molte virtù e fra l’altre hebbe un gran zelo dell’osservanza e per questa s’opponeva a tutti gli abusi della Provincia e nel suo governo di provincialato, il quale fece più anni rigorosamente, gli correggeva e, non potendolo soffrire, gli trasgressori gli fecero di molte insidie per ucciderlo poiché, apostatando loro da noi pigliandone mezzi di secolari, lo fecero appostare in un luogo per dargli morte. Onde, nel passar egli dall’appostato luogo, in udir che l’appostanti dimandavan di lui, il suo compagno sopraggiungendo, egli “sono io – disse il provinciale – eccomi, che volete?” et, in udir quella cattiva gente tali parole, rimase confusa senza saper risolversi né poter essi adoprar armi né parole, ond’egli, senz’esser tocco né offeso, da loro passò franco e libero con l’aiuto d’Iddio, con la fiducia del quale caminava sempre sicurissimo.
Io Fra Lorenzo da Novole ho deposto ut supra.
* * *
Il padre fra Lorenzo da Novole sudetto riferisce dell’istesso qualmente ei faceva i suoi governi di provincialati e guardianati con molt’osservanza, onde haveva ridotto questa Provincia a un viver assai osservante e, perciò, tutti i rilassati si temean di lui et, apostatandone di molti, gl’ordivan poi insidie per danneggiarlo nella persona, come l’occorse più volte, però non piacque mai a Iddio fusse tocco da lor neanco un pelo. L’istesso dell’istesso riferisce qualmente nelle fatighe, disagi del suo provincialato ritenne sempre la sua antica astinenza, cominciata sin dal novitiato, onde faceva tutte le quaresime del Padre San Francesco e dopo il primo pasto nell’arrivo, che faceva ne luoghi, prohibiva affatto le fusse portata qualche cosa di particolare alla mensa, benché minima, e così osservò sempre i suoi governi osservanti.
DEL PADRE FRA THOMASO DA CARAVIGNA, SACERDOTE CAPUCCINO
[I f. 325b] Il padre fra Lorenzo da Novole, predicatore guardiano, el padre fra Francesco d’Ostuni, sacerdote, e fra Vito da Martina capuccini riferiscono del padre fra Thomaso da Caravigna, sacerdote capuccino, qualmente fu dotato di molte virtù. S’esercitò grandemente nella via di spirito e costumava da dir molte sue orationi tra il giorno et una, fra l’altre, ne faccia che s’inginocchiava più di 200 volte il giorno. S’esercitò anco grandemente nell’oratione tanto che di rado dopo il matutino usciva da chiesa, trattenendovisi per orare. Fu assai povero in tutto quel che adoprò; frate anco patiente, di rado s’accostava [I f. 326a] al fuoco nelle più freddi staggioni dell’anno, fu frate di molto buon esempio con i frati e secolari, fu assai divoto della Madonna Santissima, di coscienza anco assai timorata si faceva scrupolo sin di cose minime, e fu d’animo assai semplice, tranquillo e pacifico.
Segno di croce di detto fra Vito di mano propria.
Io fra Francesco d’Ostuni ho diposto ut supra.
Io fra Lorenzo di Novole ho diposto ut supra.
DI FRA DONATO DA LECCE, LAICO CAPUCCINO
[I f. 328b] Il padre fra Lorenzo da Novole, predicatore e guardiano, riferisce di fra Donato da Lecce de Calicci qualmente quand’ei morì nel luogo di Ruggie l’anno 1534, essendo esso riferente fanciullo, udiva dalle genti, le quali concorsero in gran numero dalla città di Lecce e da casali del contorno a venerarlo come santo, che il suo corpo, mentre insepolto in chiesa, gittava un odor suavissimo, oltre l’odore del suo gran buon esempio, che lasciò a quelle genti, del quale raggionavano a bocca piena.
Io fra Lorenzo da Novole capuccino ho diposto ut supra.
* * *
CASTIGHI DI DIO CONTRA TRASGRESSORI DELLA REGOLA
Il padre fra Lorenzo di Novole, predicatore e guardiano capuccino, riferisce qualmente conobbe un frate di questa Provincia, il qual non si restava mai di mormorar di mancamenti de frati e d’altri, onde è da credere che tutto il tempo di sua vita fusse vissuto in disgrazia di Dio, non vedendosi in lui riforma veruna di questo difetto, benchè fusse sacerdote e continuasse di celebrar ogni mattina. Dopo, molti anni infine di Religione, essendo sempre in questo modo vissuto, fu travolto dal castigo di Dio, poiché, oltre essersi ammalato di febre, gli venne un mal nella lingua e per tutta la bocca, per la quale perdè affatto la favella e morì senza mostrar segni di vera contrizione. Io fra Lorenzo di Novole capuccino ò deposto ut supra.
* * *
Fra Lorenzo da Novole, predicatore e guardiano, riferisce qualmente un giovane di Carmiano si vestì de’ nostri e, dopo alcuni mesi, fu svolto da’ suoi, se ne tornò in casa, ove li diedero subito moglie et la prima sera delle nozze li fu tirata un’archibusciata avanti sua madre e spirò subito.
* * *
L’istesso riferisce anco qualmente Marco Aurelio Madaro da Campie fu ricevuto et andò a vestirsi de nostri, ma si pentì subito e, tornato in sua casa, finì poi malamente la sua vita, essendo stato ucciso e il suo corpo non si trovò mai più.
Io fra Lorenzo da Novole capuccino ho deposto ut supra.
* * *
L’Ordine francescano fu fondato nei primi anni del XIII secolo da San Francesco d’Assisi, la cui Regola fu approvata da Onorio III nel 1223.
* * *
Se consideriamo come punto di riferimento che l’Ordine del M. R. padre fra Sebastiano da Putignano di “Raccogliere e annotare gli esempii e fatti illustri de’ frati di questa nostra Provincia” fu fatto a Francesco da Pulsano l’8 giugno 1627, la testimonianza non datata di Frate Lorenzo su fra Lodovico da Giovinazzo in cui si dichiara che “il padre fra Lorenzo da Novole predicatore capuccino è di 40 anni in circa di Religione” può indicativamente farci risalire alla sua data di nascita che si attesterebbe intorno al 1587. Va aggiunto infine che a Novoli esistevano due Ospizi: “uno dei Padri Alcantarini e l’altro dei Padri Riformati”. Uno era ubicato (quello degli Alcantarini) al civico 53 dell’attuale via Pendino (l’edificio, che possedeva sulla facciata lo stemma con la tipica rappresentazione dell’Ordine Francescano, è stato recentemente abbattuto). L’altro quello degli ex-Riformati era invece “in Via Castello” (attuale Via Umberto I).
* In “Nova LiberArs”, numero 0, Argomenti Ed., Novoli 2019, pp. 30-33.
Riferimenti bibliografici essenziali
R. Almagià, Monumenta Italiae Cartographica. Riproduzione di carte generali e regionali d’Italia dal sec. XIV al sec. XVII raccolte e illustrate, Firenze 1929.
Id., L’opera geografica di Luca Holstenio, Città del Vaticano, Studi e Testi 102, 1942. Ho potuto individuare il documento dell’Holstenio nel Codice Barberiniano Latino contrassegnato con il numero 3074 consultando in Roma, presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele, questa monografia assai rara dell’Almagià. Essa infatti è il risultato dell’analisi dei materiali della sua attività in campo geografico in buona parte inediti e che si conservano nel suddetto Fondo Barberiano della Biblioteca Apostolica Vaticana. L’Almagià non essendo a conoscenza dell’identificazione di S. Maria de Nove con Novoli, tradusse all’epoca S. Maria Nova riportata dall’Holstenio letteralmente con il corrispondente S. Maria Nuova. Scrive infatti l’Almagià: “Per la Terra d’Otranto si ha menzione di una carta di un Fra Lorenzo da Santa Maria Nuova, cappuccino, stampata in folio nel 1617; l’Holstenio stesso la ricorda (Cod. Barb. Lat. 3074, fol. 138v e seg.) in un elenco di opere relative al Regno di Napoli, ma a me non è stato possibile di rintracciarla. La carta del Parisio e le opere del Barrio e del Marafioti sono spesso ricordate dall’Holstenio”.
P. De Magistris, Galatei vita a Petro Antonio De Magistris descripta, Napoli 1624.
G. Gabrieli, Bollettino Bibliografico, in “Japigia”, a. VIII, aprile 1930.
R.A. Savoia (a cura di), Il Catalogo De ‘Soggetti più illustri tra’ Capuccini della Provincia d’Otranto. Santità di vita e fatti straordinari (secoli XVI – XVII), Collana di Studi “Studia PACS – S.Lorenzo da Brindisi – Parola – Arte – Cultura – Storia”, Ed. Grifo, Lecce 2017. Il volume è stato pubblicato “in felice coincidenza con le celebrazioni laurenziane, per il 4° centenario della morte di San Lorenzo da Brindisi, patrono della Provincia cappuccina d’Otranto”.
G. Spagnolo, NOVOLI. Origini, nome, cartografia e toponomastica, tipografia A. Rizzo 1987.
Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Edizioni Del Grifo, Lecce 1990.
Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di Mario Cazzato, Edizioni del Grifo, Lecce 1992. Nel testo viene pubblicato integralmente l’elenco di opere relative al Regno di Napoli redatto dall’Holstenio (conservato presso la Biblioteca Vaticana, Codice Barberiniano Latino 3074, ff. 138v-139v) come fonti di riferimento per la sua attività geografica e in cui è menzionata la Carta di terra d’Otranto di Frate Lorenzo. Per avere comunque un’idea della straordinaria biblioteca del cardinale Francesco Barberini (1597-1679) (tanto da ritenere che l’Holstenio avesse avuto veramente tra le mani la carta di Frate Lorenzo) si può consultare l’Index Bibliothecae qua magnificentissimas suae Familiae ad Quirinalem aedes magnificentiores redditit, Rome: Typis Barberinis, Excudebat Michael Hercules 1681. L’opera due volumi in folio (646 e 596 pagine) elenca oltre 31.000 volumi. Un terzo volume, annunciato al frontespizio, inoltre non fu mai pubblicato (avrebbe dovuto contenere “Indice” dei manoscritti). Alla stesura di questo catalogo parteciparono Leone Allacci e appunto Luca Holstenius. Della Biblioteca Barberini, l’Holstenio fu nominato custode nel 1636 e fino alla sua morte non smise mai la sua opera indefessa di ricercatore di manoscritti e libri. Copiò (scrive infatti l’Almagià) egli stesso o fece copiare da scrittori da lui stipendiati, da amici e conoscenti, codici greci e latini, cercò di procurarsene per acquisto, in dono o in prestito; fece anche larghi acquisti di libri a stampa d’ogni genere, arricchendo così la Biblioteca Barberiniana, quella Vaticana ma anche la sua “cospicua” biblioteca privata in Sant’Onofrio sul Gianicolo (alla sua morte vi erano 3500 opere di grande interesse; soprattutto per la parte geografica – in quantità maggiore rispetto alle altre – aveva raccolto opere molto preziose, atlanti, e appunto carte geografiche rarissime).
Id., Novoli tra ‘700 e ‘800: gli “Ospizi” degli Alcantarini e dei Riformati e un Ospedale, in “Lu Puzzu te la Matonna”, secolo IX, 21 luglio 2002.
A sostegno della testi dell’esistenza del Limes bizantino altrimenti detto Limitonedei Greci, una serie di storici e ricercatori salentini della prima metà del Novecento indagano sulle località e sui toponimi a ridosso del tracciato di quella che era ritenuta la muraglia.
Così, ad esempio, il Racioppi e l’ Antonucci riferiscono sui toponimi Camarda e Camardella (due masserie nel territorio di Mesagne immediatamente a sud del cosiddetto Paretone o Limitone), di inequivocabile derivazione bizantina (καμάρδα = tenda, accampamento). Allo stesso modo, sia l’Antonucci che il De Giorgi notano l’esistenza in agro di Latiano, a nord di quello che era stato identificato come il Limitone, di un toponimo ritenuto di derivazione longobarda: Morgingappa (da Morgincap o Morgengabe) designante una masseria. Ancora, a nord di Mesagne, verso S. Vito, un esplicito riferimento ad un insediamento longobardo con il toponimo Campi dei Longobardi.[1]
Anche il nome della masseria Guardiola nelle campagne di Francavilla Fontana è messo in relazione con con utilizzi militari dei siti e delle strutture un tempo là presenti[2], mentre il già citato toponimo Camarda oltre che in territorio di Mesagne è presente anche in agro di Sava, proprio a ridosso di quel tratto di muraglia ancora presente e identificata come un residuo del cosiddetto Limitone.[3]
Analogamente, la contrada Farai in San Pancrazio Salentino è stata vista come di probabile derivazione da un termine longobardo, Fara, indicante un insediamento di tipo militare.[4] A sostegno di questa ipotesi, anche il fatto che in Italia sono numerosi i toponimi che riportano alla presenza documentata di insediamenti longobardi e che inglobano il termine Fara.
Tornando al termine Morgincap ed ai toponimi da questo probabilmente derivati, oltre che in agro di Latiano è presente anche in agro di Francavilla Fontana (in questo caso con “Maraciccappa”, che dà nome ad una masseria ed una località individuata sempre in zona di confine tra Longobardi e Bizantini). Ne ho parlato dettagliatamente nell’articolo intitolato “Morgincap o “mar’a a ci ccappa”? Toponimi di confini, strade contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare” pubblicato nel luglio 2020 sul sito web di Fondazione Terra d’Otranto, e a quello rimando per approfondimenti (qui il link: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/04/confini-strade-contrade-e-masserie-tra-interpretazioni-storiche-e-tradizione-popolare/ ). Basti qui ricordare che, secondo il De Giorgi e l’Antonucci, che “Morgingappa” in agro di Latiano, riportato e “tradotto” (o meglio, storpiato secondo i due studiosi) anche con “Mar’a ci ccappa”, “Mali a ci ccappa”, “Malch’incappa”, deriverebbe dal longobardo mongergabe che sta a significare “dote”, “dono del mattino”: il riferimento è ad una tradizione, ovvero il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze.[5] Della stessa opinione sono il Teofilato[6], il Rohlfs[7] e il Pichierri[8] riferendosi alla omonima località in agro di Francavilla Fontana.
A distanza di pochi giorni dalla pubblicazione del mio sopracitato articolo su Fondazione Terra d’Otranto, mi ritrovai a parlare con un caro amico di Fragagnano[9] che mi segnalò l’esistenza, anche in agro fragagnanese, del toponimo Marancicappa, fornendomi anche copia di una mappa. Tale termine sta ad indicare una strada, più conosciuta oggi come “strada vecchia per Sava”, nei pressi della contrada denominata Pozzopalo. L’amico Gianni mi riferì anche che la strada era un tempo denominata anche, dai fragagnanesi, Marcincap, avvicinandosi così il toponimo ancor più sorprendentemente all’etimo longobardo.
La Marancicappa fragagnanese si trova anch’essa in prossimità del presunto tracciato del Paretone (o Limitone) cosiddetto Bizantino (a poca distanza da Agliano), e attraversa le località Pozzopalo e Acquacandida. Si trova dunque a ridosso di quel confine che, partendo da Borraco, risaliva attraversando il feudo di Maruggio e il monte Maciulo[10] per poi raggiungere la zona della cappella della SS. Trinità (agro di Torricella) e giungere sul monte Magalastro,[11] Proseguendo, il confine andava da Magalastro verso il casale di Pasano[12], poi verso Agliano per proseguire verso il “castello Vecchio” di S. Marzano. Questo percorso corrispose anche (di sicuro e in epoca successiva) al confine tra Foresta Oritana e Principato di Taranto, come rilevato attraverso documentazione storica nel lavoro del Carducci.[13] E’ proprio nel mezzo del tratto che va da Agliano verso la zona de il “castello Vecchio” di San Marzano, che si trovano le contrade fragagnanesi attraversate dalla strada “Marancicappa”.
Note
[1]Giovanni Antonucci, Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933, pp. 79-80
[2]Gaetano Pichierri, Altre notizie sul “Limitone dei Greci” nell’agro di Sava, in: “Omaggio a Sava”, a cura di Vincenza Musardo Talò, Edizioni Del Grifo, Lecce, 1994, pag. 66
[3]Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pp. 152-153
[5]Giovanni Antonucci, Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933, pp. 79-80
[6]Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22)
[7]Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322. Scrive qui il Rohlfs nel definire il vocabolo Maru-c’incappa : “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgengaba ‘dote’?)”.
[8]Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, cit., pag. 152
[9]Ringrazio l’amico Gianni Bosco per la segnalazione e le informazioni fornitemi
Non sorprenda la barra (slash per chi sa parla meglio di me), che serve a separare due decasillabi (nella mia presunzione perfetti). Il titolo in versi è l’ultimo espediente per attirare l’attenzione e già mi sto tormentando (!) ad immaginare cosa sarò costretto ad escogitare la prossima volta. Probabilmente mi impegnerò a versare ad ogni comprovato lettore la somma di sessanta (l’inflazione non va trascurata …) euro o, a scelta, il pagamento delle ultime bollette del gas e della luce (sono le più pericolose e bisogna evitare che qualcuno per farla finita si attacchi, rispettivamente, alla canna o alla presa, il che obbliga a tenerle in considerazione entrambe. Oltretutto, se dovessi essere denunziato, il mio avvocato avrebbe la possibilità di dimostrare che non sono un corruttore ma un benefattore e sicuramente troverebbe qualche giudice disposto ad accettare la sua tesi …
Bando alle divagazioni! Siccome siamo animali abitudinari, nello studiare un qualsiasi fenomeno bisogna tener conto dell’esperienza pregressa e delle regole, per quanto, come tutte, non definitive, che ne sono state tratte. Anche se a dar vita ad un toponimo possono essere i motivi più disparatI (da un caratteristica fisica del sito ad una specie vegetale che vi è o vi è stata particolarmente diffusa), per quelli riguardanti le masserie l’etimo è da ricercare anzitutto tra il nome di uno dei proprietari succedutisi nel tempo (non è detto, poi, che quello del primo sia privilegiato) o in qualche dettaglio di natura economica. Può succedere, poi, che entrambe le ipotesi siano plausibili, in assenza di prove incontrovertibili a favore dell’una o dell’altra. Scianne, a tal proposito, costituisce un esempio emblematico.
PRIMA IPOTESI
In Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 1999 una nota (n. 67 a p. 390) del curatore si legge: “… probabilmente prese il nome da una famiglia Scianno, di cui si ha notizia in un atto notarile del 1572 del notaio Tollemeto (c. 24v), in cui si legge: in loco dicto lo Verneo, iuxta bona Georgii Sciannu“. Sul piano strettamente teorico e metodologico, per quanto detto in premessa, l’ipotesi i appare inizialmente plausibile, ma poi non molto attendibile per ragioni storiche legate al patriarcato, per cui mi riesce difficile immaginare una trasmissione di proprietà, soprattutto di natura ereditaria, coniugata al femminile.
SECONDA IPOTESI
Scianne, potrebbe (anche qui il condizionale è d’obbligo ad accompagnare l’aleatorietà espressa dal verbo in sé) essere plurale di scianna (varianti: ciuvanna, giuanna, sciuanna, sciuvanna), designante il recipiente di lamiera usato un tempo nei trappeti per travasare l’olio (l’immagine è tratta da Gerard Rohlfs, Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, v. I, p, 155).
La voce è deformazione di Gianna (variante di Giovanna), nome di donna utilizzato scherzosamente per dar vita a damigiana, che è notorio essere dal francese dame-jeanne (alla lettera signoraGiovanna). Nonostante la damigiana faccia pensare al vino (non era è non è consigliabile conservarvi l’olio perché, essendo quest’ultimo, oggi come allora, di maggior valore economico, in caso di rottura del contenitore il danno sarebbe maggiore) l’allusione del toponimo alla olivicoltura (e non alla viticoltura) appare confermata da scianni (questa volta deformazione di Giovanni), che nel Tarantino (Manduria) scianni è il recipiente, sempre di latta, usato, sempre nei trappeti, sempre per l’olio, non per travasarlo ma per trasportarlo. Il cambio di genere del suo etimo rispetto a quello di scianna è inequivocabilmente legato alle sue maggiori dimensioni, conformemente a quanto succede, per esempio, nel caso di limba (bacile) rispetto a limbu (grande catino). Sul piano strettamente fonetico, poi, il passaggio gia->scia– è da manuale nel dialetto salentino basta citare sciardinu (giardino), sciamu (italiano letterario giamo) e, per restare nell’ambito delle masserie neritine, Sciogli, plurale del nome della famiglia Giulio, a conferma filologica della notizia storica data al riguardo, ancora una volta, da Marcello Gaballo in Un palazzo, un monastero: i baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, congedo, Galatina, 2018, p. 70.
Ricordo poi, a proposito del trasformismo di Giovanni, che appare in buona compagnia in giampàulu (brocca di creta a bocca larga per versare il vino, che il Rohlfs registra pure per Nardò, voce che ignoravo, mentre attendo lumi da chi è in grado di dirmi qualcosa in più sull’identità dei Gianna, Giovanni e Giampaolo coinvolti nella faccenda; e a tal proposito del vezzo tutto francese di dare, non a caso viste le forme rotonde, un nome di donna ad un contenitore del tipo in questione, in dizionari dei secoli scorsi jacqueline e christine designano due bottiglie in grès grandi e panciute.
Sepultus est in monasterium Sanctae Mariae Angelorum terrae Seclì
di Antonio Epifani
L’edificazione della chiesa e del convento di Santa Maria degli Angeli, oggi Sant’Antonio di Padova, in Seclì comportò una serie di trasformazioni sociali e culturali che ebbero una risonanza enorme nel piccolo centro di Terra d’Otranto. Dal ritorno dalla battaglia di Lepanto, Guido D’Amato e la moglie Giulia Mugia Spinelli vollero dedicare alla Vergine come voto per lo scampato pericolo di morte, un luogo di culto lontano dal paese che poi sarà amministrato dalla comunità minoritica in seguito alla realizzazione del convento sempre su iniziativa dei coniugi D’Amato sul finire del 1500.
In questa sede quello che risulta importante notare e che è sconosciuto ai più è un fatto importante suffragato dai pochi ma preziosi documenti che si conservano nell’archivio parrocchiale di Seclì.
La cara e tanto frequentata chiesa di S. Antonio, che accoglie da secoli i fedeli e i devoti del Santo di Padova ospita le tombe dei personaggi che hanno fatto la storia del piccolo centro urbano di Seclì.
Dall’analisi dei documenti emerge che nel 1687 die undicesimo nono m. Decembris l’illustrissima donna D. Antonia de Acugna duchessa della terra di Seclì dopo aver ricevuto il Santo Viatico dai frati minori osservanti nel die trigesimo di questo mese fu sepolta nel convento di S. Maria degli Angeli. Antonia D’Acugna era la terza moglie del duca Antonio D’Amato e vedova di Cristoforo De Los Olivos grande consigliere militare. Il figlio Giuseppe De Los Olivos De Acugna morto all’età di sedici anni riposa nella Chiesa Matrice di Seclì.
In un altro documento del 1688 si legge che il die vigesimo m. Novembris l’illustrissimo Antonius de Amato et Acugna Dux huius Terrae Seclì, salì la sua Anima a Dio in piena comunione dopo aver ricevuto il Santo Viatico dal frate Vincenzo monaco Sancti Petri de Alcantara. Lo stesso duca fratello della Serva di Dio Suor Chiara fu sepolto in monasterio S. M. Angelorum.
La chiesa dunque fu il luogo di sepoltura privilegiato dalla famiglia feudataria e questo emerge anche dalle sepolture non solo dei membri della famiglia D’Amato, ma anche dai feudatari Severino che oltre ad essere sepolti nel luogo suddetto, dotarono la chiesa e la statua di S. Antonio di pregevoli manifatture in argento fra le quali il Reliquiario del Santo dono del duca D. Antonio Maria Severino intorno al 1750, della corona in argento e del giglio sempre in argento trafugato nella seconda metà del 1900 e realizzato ex novo per devozione della comunità di Seclì lo scorso anno e benedetto alla presenza di sua Santità Papa Francesco in Vaticano il 17 maggio 2023.
Anche la duchessa Severino molto probabilmente Camilla Filomarino sepolta anch’essa nella chiesa di S. Antonio nell’anno Domini 1732, donò a Sant’Antonio una collana in oro ancora oggi conservata dalla locale Parrocchia. Lo stretto legame tra la chiesa del convento e i feudatari di Seclì è un legame non soltanto spirituale ma anche affettivo.
Nel 1705 nel giorno settimo del mese di giugno muore il duca Francesco Severino che sarà sepolto, dopo aver ricevuto l’estrema unzione e il Ss. Sacramento dall’Arciprete don Gaetano Tarallo, nel monastero di Santa Maria degli Angeli extra moenia.
L’analisi di altri fogli del libro dei morti oltre alla citata Duchessa Camilla Filomarino ci riporta anche la morte e la sepoltura del coniuge il duca Giulio Maria Severino che muore nel die vigesimo primo mensis Ianuarii 1752 e dopo aver ricevuto il Sacro Viatico nel die vigesimo secundo dello stesso mese fu sepolto in Conventus Sanctae Mariae Angelorum Fratibus Minores Observantes extra moenia. A Giulio Maria succedette Antonio Maria Severino alla cui morte avvenuta nel 1795 passò nelle mani del figlio Francesco Maria Severino nato dalla moglie Nicoletta Samuelli. Francesco Maria nel 1796 vendette il feudo di Seclì a don Liborio Rossi, ricco mercante d’olio gallipolino e proveniente da una ricca famiglia napoletana che in seguito all’accumulo di ricchezze acquisì una serie di feudi tra i quali Caprarica di Lecce, Neviano e la stessa Seclì. Con Nicola Rossi che sposò Oronza Carlino nacque Angiola Rossi andata in sposa nel 1853 a Giacomo Papaleo da Bagnolo. Anche questa famiglia ebbe una particolare dedizione per la chiesa del convento, tant’è che Angiola fece modellare la statua di Sant’Oronzo da Lecce, opera in cartapesta della seconda metà del 1800 che alla base porta il nome della committente. Sempre dall’analisi dell’archivio parrocchiale emerge la sepoltura nella chiesa di S. Antonio del barone Giacomo Papaleo morto nel 1883. Una lapide posta a destra del presbiterio di fianco alla porta che ci conduce nella piccola sacrestia della chiesa ci ricorda inoltre la sepoltura del barone Achille Papaleo. L’iscrizione riporta la seguente dicitura: “ Papaleo Achille nato a Gallipoli il 15 maggio 1861, qui riposa dal 16 ottobre 1879”.
Purtroppo i lavori effettuati nel 1960 hanno cancellato ogni traccia di queste antiche sepolture.
A testimonianza rimangono le fonti d’archivio, alcune immagini d’epoca che ci permettono di notare la posizione delle botole che permettevano l’accesso nell’area sepolcrale sottostante lo stesso edificio sacro, ma anche un basamento in pietra leccese con piedi leonini databile alla prima metà del 1600 che faceva parte del cenotafio della famiglia D’Amato collocato nella zona presbiteriale a ridosso del pulpito così come due lastre marmoree conservate nella cantoria che molto probabilmente segnalavano le antiche e vetuste sepolture.
La chiesa di Sant’Antonio, già Santa Maria degli Angeli è parte integrante della storia di Seclì.
Una chiesa tanto amata dal popolo secliota per la presenza del suo Santo per il quale nutre una devozione profonda ma soprattutto una chiesa ricca di testimonianze che deve trasmettere il profumo della particolare storia locale con un’attenzione rivolta anche al fatto che la suddetta chiesa è stata frequentata da personalità del calibro di Suor Chiara D’Amato e del Beato Francesco da Seclì uomo dotto, grande studioso e uno dei più celebri e grandi scrittori salentini del 1600 autore del Viaggio a Gerusalemme e non a caso dell’Opuscolo in Lode di Sant’Antonio di Padova.
Bibliografia
1 Archivio Parrocchiale di Seclì, Liber Defuncti 1600, 1700, 1800
2 ANTONIO EPIFANI,“Omnia Vincit Amor” Il Palazzo Ducale di Seclì nel contesto delle residenze nobiliari. Tesi di laurea triennale in storia dell’Architettura. Relatori Chiar.mo VINCENZO CAZZATO e Chiar.mo FRANCESCO DEL SOLE.
3 MARCELLO GABALLO Genealogia dei D’Amato duchi di Seclì la residenza di Francesco D’Amato nel monastero neretino di S. Chiara, in VITTORIO ZACCHINO, Seclì almanacco di storia arte e società, 2003-2004.
4 ROBERTO SPAVENTA Successioni feudali a Seclì dal XIII al XIX secolo, in Fondazione Terra d’Otranto, il delfino e la mezzaluna, luglio 2012.
Niente di nuovo sotto il sole, anche quello della letteratura, ma alcuni dettagli, analizzati alla luce della necessaria storicizzazione degli eventi, andrebbero comunque approfonditi. In riferimento alla parola- chiave del titolo va subito detto che oggi, paradossalmente, una stroncatura può decretare il successo editoriale, dunque di mercato inteso nel significato più rozzo di profitto, di un’opera, come una campagna pubblicitaria furbesca, in cui non solo la recensione gioca un ruolo importante, può in un immaginario collettivo sempre più incolto e passivo, decretarne il trionfo, per quanto effimero.
Siamo un popolo che legge poco o niente ma scrive tanto, troppo, da un decennio a questa parte. E, cavalcando un diffuso ed epidemico narcisismo che si manifesta in velleità artistiche ad esibizione di un talento inesistente, capace solo di dimostrare, senza saperlo …, che c’è sempre uno più imbecille di te, sta proliferando l’editoria fai da te con presunte case editriici che fanno concorrenza ai funghi, quelli velenosi, non solo perché ne spuntano di nuove dalla mattina alla sera, ma perché, perseguendo unicamente il profitto, sono solo imprenditrici dell’invadente sopravvalutazione di se stessi e della dilagante perdita del senso del limite.
Anche le case editrici tradizionali hanno da tempo abbandonato la finalità di promozione culturale e, a differenza di quelle appena considerate (che pubblicherebbero qualsiasi testo, anche se l’autore pretendesse che esso fosse stampato utilizzando l’estratto della sua merda), danno credito e spazio solo a titoli che, almeno teoricamente, possano avere un riscontro di vendite, ligi al risultato di indagini tese a captare il gusto presente e a prefigurarsi quello futuro, per non correre il rischio di essere bruciati sul tempo dalla concorrenza.
Torno alla recensione. Volutamente tralascio quelle orali che di regola accompagnano le immancabili presentazioni e che non di rado tradisco l’avvenuta lettura del solo titolo e notti insonni sprecate per studiare locuzioni che, per dare un’idea della profondità di un libro non letto, sprofondano nella nullità (fosse ambiguità, già sarebbe meglio ..) del significato. Da queste non differiscono quelle scritte, tra le quali colloco anche le prefazioni. Se in una sola qualcuno di voi ha mai letto qualche osservazione negativa, me la segnali. Certo che sono un grande ingenuo a credere che uno sia disposto a pubblicare un suo lavoro con una prefazione, a firma, magari, dello scemo del paese, che lo gettasse a terra e non lo elevasse al cielo. Sarò pure un ingenuo, ma capace di apprezzare, per contrasto, ciò che in passato (oggi bisognerebbe parlare di consorterie).
L’esempio che fra poco mostrerò, vecchio di 352 anni, appartiene ad un periodo in cui la letteratura encomiastica aveva uno spazio privilegiato e sfruttava tutte le risorse retoriche per celebrare i detentori del potere. Per questo era regola leggervi già nel frontespizio l’elenco dei titoli dell’autore dedicante e del dedicatario. Da quest’ultimo, naturalmente, ci si attendeva riconoscenza, se non nell’immediato o, almeno, in un futuro non troppo lontano. Anche se nessuno, a quanto ne so, ha indagato a fondo sui rapporti tra autori, editori e politici di quel tempo, ho il sospetto, per non dire la certezza, che proprio questo o quel detentore del potere fosse una sorta di sponsor ante litteram, neppure tanto ante, se si pensa a Virgilio e all’entourage di Augusto. La libertà dell’artista, quello vero …, però, è tale da consentirgli quanto meno di allentare le pastoie del momento e di dare vita, destinata a durare nel tempo, a quei valori che tempo non hanno.
Perfino io so, dopo Virgilio, chi è Dante, ma fino a pochissimi anni fa di Giuseppe Fapane di Copertino ignoravo nome e, di conseguenza, esistenza. Poi una fortuita, fortunosa ma fortunata circostanza me lo ha fatto scoprire e sentire il bisogno di approfondire la conoscenza di un poeta che, secondo la mia modesta opinione, meriterebbe nei manuali di letteratura un posto nella foltissima schiera dei marinisti subito a ridosso dell’inventore e maestro di questa corrente. E se su questo blog tempo fa ne ho parlato genericamente1 e di recente mi sono occupato del suo nome e ho messo in risalto l’enigmista2, oggi è la volta del recensore. Gli lascio la parola dopo aver riprodotto il frontespizio del libro recensito e, da pagina non numerata, il dettaglio che qui interessa, con la solita trascrizione del testo, espediente per aggiungervi la traduzione e le note di commento.
Illustrissimo, et excellentis. domino Bartholomaeo de Capua, Altavillae Madno Comiti, cui Ioseph Campanile Historias Familiarum dicat.
Iosephi Domenichi
Historias Ioseph texit: priscique Triumphos
temporis; et nostrae stemmata Parthenopes.
Haec nulli poterat scriptor monumenta dicare
quam tibi, qui Heroum vincere facta soles.
Tu Calami, et gladii superasti nomine famam;
tu Calamo, et gladio tempora clarificas.
Hinc Campanilis, pennam dat iure, columba:
ut tua gesta sones: ut sua scripta canas.
All’illustrissimo ed eccellentissimo signore Bartolomeo da Capua gran conte d’Altavilla, al quale Giuseppe Campanile dedica le storie della famiglie
di Giuseppe Domenichi
Giuseppe tesse le storie: e i trionfi del tempo antico e gli stemmi della nostra Partenope. Uno scrittore non avrebbe potuto dedicare queste testimonianze a nessun (altro) che a te, che sei solito superare le gesta degli eroi. Tu con la gloria della penna e della spada hai oltrepassato la fama, tu con la penna e con la spada rendi illustri i tempi. Per questo la colomba del Campanile dà giustamente la penna, affinché tu faccia risuonare le tue gesta, affinché tu renda celebri i suoi scritti.a
a Qui il Fapane raggiunge probabilmente l’acme nell’uso della metafora, strumento espressivo privilegiato della poesia del XVII secolo e lo fa da maestro in un pirotecnico gioco di parole, che coinvolge diversi piani, da quello puramente linguistico e, direi, filologico, a quello storico, con i relativi addentellati che partono dalla botanica per giungere alla musica e alla letteratura, per concludersi con l’esplosione finale di un’ironia arguta, ma tutt’altro che irrispettosa o dissacrante. Le parole-chiave di questa sorta di recensione (di fronte alla quale quelle di oggi dovrebbero arrossire di vergogna, non solo per i connotati formali …), coinvolgente in un solo magistrale colpo dedicante e dedicatario, sono:
1) calami del quinto verso e calamo del sesto, rispettivamente genitivo e ablativo di calamus, trascrizione latina del greco κάλαμος (leggi càlamos), che dal significato originario di canna è passato a quelli traslatoi di flauto (basta fare una serie di buchi su una canna), zampogna (le canne, insieme con l’otre, ne costituiscono i componenti), penna da scrivere (canna tagliata trasversalmente), canna da pesca (si raccomanda di montare il filo, su questo l’amo e di collocarvi l’esca …), canna da misura. Nei versi in questione la voce ha il significato di penna da scrivere.
2) Campanilis del penultimo verso. Qui bisogna partire dall’italiano campanile, forma aggettivale derivata dal latino latino tardo campana, a sua volta abbreviazione della locuzione vasa campana=vasi campani. Dunque, qui campanilis (genitivo di un nominativo neutro campanile plausibilmente inventato, perché in latino non è attestato ma la formazione è corretta) vale come nome comune ma anche come latinizzazione del cognome dell’autore del libro. Tra l’altro, anche se nella produzione barocca gli autori, se avessero potuto farlo, avrebbero scritto in maiuscolo pure le virgole, la voce in questione, proprio a servizio del detto valore ambiguo, è stata, volutamente, collocata all’inizio.
3 columba, sempre nel penultimo verso, può essere alla lettera la colomba del campanile ma, per traslato, pò simboleggiare il volo poetico del letterato Campanile.
4 pennam, accusativo di penna che in latino significa solo piuma, ala e non è mai attestato nel senso di penna da scrivere, come in italiano, dove, addirittura può sostituire scrittore (una buona penna).Tuttavia qui per una sorta di proprietà transitiva o, se si preferisce, di ragionamento sillogistico applicato alla poesia, per quanto detto nelle due note precedenti, in particolare nelle ultime due, la penna intesa come piuma della colomba del campanile, una volta che tale colomba si identifica col Campanile, diventa il noto strumento per scrivere.
Quale recensore di oggi, ammesso che per assurdo fosse capace di mettere insieme non distici elegiaci (tanto, chi li capirebbe?…) ma due endecasillabi in un italiano corretto condito dalla raffinata ironia del Fapane? Me lo chiedo, anche se non sono tanto ingenuo da ritenere apprezzabile il numero di coloro che sarebbero in grado, non dico di capirli, ma, almeno, di leggerli correttamente …
L’insediamento domenicano di Novoli, collocato in origine in aperta campagna nel feudo di Nubilo1, è senz’altro uno dei meno conosciuti. Il Cappelluti ci informa che la sua fondazione risale al 15512 per opera del feudatario locale, il barone Filippo I Mattei3, coltissimo personaggio noto alla letteratura dell’epoca per essere stato, tra l’altro, un committente dalle spiccate ambizioni artistiche. Sembra che il titolo del nuovo insediamento sia stato quello di S. Onofrio che progressivamente lasciò il posto a quello di S. Maria delle Grazie con il quale è comunemente indicato4.
Il titolo di S. Onofrio però, potrebbe significare molto di più: è quasi impossibile che a un santo medievale, tra l’altro assai raro come iconografia e devozione, sia stato dedicato un nuovo insediamento domenicano in pieno Cinquecento (S. Onofrio è un santo eremita, forse egiziano come Sant’Antonio: viene rappresentato con una lunga barba e con una folta e maestosa capigliatura che confondendosi avvolgevano tutto il suo corpo, quasi rivestendolo5 – di lui abbiamo degli affreschi che lo rappresentano solo nella cripta del Crocifisso di Ruffano)6.
L’ipotesi è che questo sia sorto su un antico luogo di culto dedicato a S. Onofrio, né più né meno come a Copertino i domenicani sorsero sul sito della cappella dell’Idria e quelli di Muro sul luogo dell’insediamento italo-greco dedicato a S.Zaccaria7: se tutto questo fosse vero saremmo di fronte ad una precisa strategia domenicana di occupare luoghi di devozionalità obsoleta e comunque ormai in contrasto con la nuova sensibilità religiosa del tempo.
Per ritornare al committente di Novoli, ricordiamo che il Mattei dopo appena dieci anni, nel 1561, era stato il committente a Lecce della Chiesa Nuova, uno dei primi edifici rinascimentali della città esemplificato addirittura sulla napoletana chiesa del Pontano8 come ha dimostrato M. Cazzato, nella quale non fu estraneo l’intervento di G. Giacomo dell’Acaya9 (affianco del quale – come ricorda Iacopo Antonio Ferrari nell’Apologia Paradossica della città di Lecce – lo stesso Filippo I aveva combattuto contro i Francesi nel 1528)10 che dimostra la capacità culturale ed economica dei Mattei di coinvolgere nelle loro iniziative le personalità più prestigiose del tempo. Lo stesso accadde per Novoli11.
I recenti restauri ai quali è stata sottoposta la chiesa ex domenicana ha fatto emergere per il portale, l’anno di esecuzione, il 1576 e conferma le ipotesi dell’attribuzione dell’opera a Gabriele Riccardi, l’architetto di Santa Croce, allora ancora attivissimo12. Il restauro ha fatto emergere anche un portale secondario che ha la stessa fattura e cronologia di quello principale. Le fonti attestano che il nuovo convento, sostenuto ancora dalle sostanze dei Mattei, fu censito come vicariato nel 1573 e priorato nel 1600, anche se nel Seicento conosce una sensibile crisi tanto che fu soppresso con la riforma innocenziana del 1652 ma riaperto nel 1654 con decreto del 26 febbraio13.
In un Apprezzo del 1707 è scritto: «nel feudo di Novoli, o del Convento, vi sta un convento della religione di S.Domenico. Chiesa magnifica, chiostro, dormitorio, campanile e tutte l’occorrenze necessarie ad un convento di proporzionata famiglia. Vi stanno poi giardini, territori per uso del medesimo; al presente sta abitato da un sacerdote e da un laico e dissero che detto convento fosse stato edificato dalla casa de Matteis padrone del feudo»14.
Nel frattempo i Mattei avevano imboccato la strada del declino e l’anno prima avevano venduto il feudo: sembra proprio che il declino della famiglia coincida con quello del convento la cui età d’oro, specialmente dal punto di vista artistico, come abbiamo visto e come vedremo, coincide con il Cinquecento15.
Dalla visita pastorale del Vescovo Sersale del 1746 ricaviamo che la chiesa aveva, oltre all’altare maggiore, sei altari, tre per lato sull’unica navata, collocati sotto altrettanti arconi, ossia della Madonna del Rosario, di Santa Maria della Neve, della Madonna di Costantinopoli, di S. Onofrio, di S. Domenico e, ultimo, della Circoncisione di Cristo16.
Nella visita di Sozy Carafa, del 1783 gli altari erano: il maggiore, della Vergine del Rosario, di Santa Maria della Neve, della Vergine di Costantinopoli, di S. Onofrio, di S. Domenico e della Circoncisione di Cristo17.
La presenza ancora alla fine del ‘700 dell’altare dedicato a S. Onofrio conferma l’ipotesi che è stata fatta e cioè che questo sia la “memoria” di un omonimo edificio di culto demolito per la costruzione del convento. Conosciamo abbastanza bene la storia di quest’edificio che abbandonato come l’annesso convento nella seconda metà dell’‘800, fu ristrutturato in seguito alla sua nuova funzione di parrocchia, fatto che avvenne nel 192218.
C’è da osservare che la chiesa e il dismesso convento divennero, in quegli anni, il centro di una frazione che oggi amministrativamente appartiene parte a Novoli e parte a Lecce e che significativamente viene chiamato “Villa Convento”19 ma il toponimo “convento” lo ritroviamo già a partire dal Seicento come segno indelebile della presenza domenicana nel luogo. Gran parte dell’arredo della chiesa è andato perduto o nascosto sotto strati e strati di calce. Sotto la calce, per esempio, appare in un ambiente conventuale un bellissimo affresco con “Cristo di pietà” cinquecentesco20.
Alla stessa epoca appartiene un altro affresco, ancora in corso di restauro, mutilo della parte inferiore: raffigura la Vergine affiancata da due Santi e, in basso, una figura femminile, sicuramente quella della committente, forse la moglie di Filippo Mattei. A destra di questo si vedono chiaramente alcune navi in tenuta di combattimento con la bandiera della mezzaluna. Quasi sicuramente, come è accaduto a Ugento, l’affresco della Vergine è stato modificato in Vergine del Rosario21 con l’apposizione di quelle navida guerra che sicuramente vogliono rappresentare la Battaglia di Lepanto. Altre osservazioni e precisazioni si potranno fare quando sarà concluso definitivamente l’intervento di restauro. Per adesso sono soltanto questi gli affreschi che si sono salvati dalla distruzione e dall’abbandono, e questo sembra avere quasi del miracoloso.
Per quanto attiene poi all’immagine in xilografia che qui si pubblica, c’è da specificare che essa appartiene ad un foglio volante stampato a Lecce da Pietro Micheli nel 1675: l’iconografia è nota, a sinistra S. Domenico, a destra S. Pietro Martire, in alto la Vergine col bambino e due angeli che offrono corone del Rosario. È un’immagine rarissima, forse l’unica incisione del genere del Seicento leccese di cui, per adesso, se non possiamo indicare l’autore rileviamo però la qualità e, soprattutto, il grande interesse storico22.
In Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (secc. XV-XVIII), a cura di Eugenio Bruno e Mario Spedicato, Edizioni Grifo Lecce 2016.
* Le foto sono di Piero Caricato. Un sentito ringraziamento va al parroco di Villa Convento Massimiliano Mazzotta, a mia figlia Serena Spagnolo per il suo contributo di carattere tecnico e, soprattutto, all’amico Mario Cazzato per avermi consentito, con la sua collaborazione, di realizzare questa ricerca.
Note
1 Sulla successione feudale di Sancta Maria de Novis e del feudo di Nubilo si vedano gli studi di O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Novoli 1986; Id., I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), Bibliotheca Minima, Novoli 1989; G. Spagnolo, Novoli origini, nome, cartografia e toponomastica, Tip. A. Rizzo, Novoli 1987; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Ed. del Grifo, Lecce 1990. In una memoria legale redatta da B. Tizzani e N. Turfani è riportato: «In Provincia di Lecce esiste la terra di Santa Maria di Novi, volgarmente detta Novoli, ed il Feudo disabbitato (sic) Nubilo, Noole, Novoli, S.Onofrio, o del Convento. La Terra di Santa Maria nel 1520 fu devoluta al Fisco per la morte di Giovanna Maramonte Baronessa di Campi senza legittimi eredi, fu venduta a Paolo de Matteis, e Vittorio de Priolo Suocero, e Genero. In seguito il solo Paolo de Matteis con istrumento per Notar Pomponio Stomeo di Lecce comperò nel 1523 da Aurelia de Acaia moglie di Gio: Maria Guarino separatamente il Feudo di Nubilo, o Noole. Questi due distinti Feudi furono nella famiglia de Matteis fino al 1706, in cui si morì Alessandro de Matteis ultimo possessore senza legittimi eredi in grado. Nel 1707 la Regia Camera per concorso de’ creditori vendè questi due feudi a Felice Carignani, e ne fu liberato il prezzo a’ creditori del de Matteis, come si rileva dall’istanza fiscale». B. Tizzani – N. Turfani, Per l’università di Santa Maria di Novoli e suoi Naturali contro l’utile possessore di quella, Napoli 1805, p. I. (commissario Presidente D. Vincenzo Sanseverino. Attuario D. Nicola Guerra). Il toponimo Nubilo è la più antica denominazione di tutto l’intero territorio dell’ex feudo del Convento, che poi, come già detto, si chiamò Novule. In seguito ne ha indicato solo una contrada e precisamente quella che ad occidente della provinciale per Lecce, vi è tra la frazione Convento e la via vicinale dell’Abbadia.
2 Per tutti cfr., ora, C. Longo, I Domenicani nel Salento meridionale secoli XIV-XIX, Ed. Salentina, Galatina 2005, pp. 123-124.
3 Scrive G. Marciano nella sua Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto (Stamperia dell’Iride, Napoli 1855): «Era sì bene il Casale Nobile non molto di là lontano, oggi feudo disabitato così detto dalla vaghezza del sito e nobiltà del luogo di molti giardini adorno, abbondante di frutti, olii e vini; dove dopo fu edificato il monastero de’ PP. Predicatori dell’Ordine di S. Domenico, e dotato di alcune entrate da Filippo Mattei bisavolo dell’illustrissimo Alessandro Mattei Conte di Palmerigi e signor di questi luoghi…», p. 472. Filippo I intorno al 1527 era già succeduto al padre Paolo e nel 1529 si unì con Paola Bozzi figlia di Antonio Bozzicorso, barone di Arnesano (cfr., O. Mazzotta, I Mattei signori di Novoli 1520-1706, cit., pp. 16-17, studio da cui emerge un giudizio negativo alquanto discutibile sulla loro storia e sul loro ruolo e oggi, alla luce di nuove ricerche e documenti, ampiamente superato).
4 Lo stemma dei Mattei campeggia sulla facciata della cinquecentesca chiesetta annessa al convento dedicata a S.Onofrio e che divenne la tomba di famiglia (cfr., G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, C.E.T.I. Editore, Teramo 1965, p. 48). La tomba era all’interno della chiesa (indicata nei verbali delle S. Visite comunemente come Chiesa della Madonna delle Grazie) e dinanzi ad essa vi era il cimitero (Archivio Curia Arcivescovile Lecce (in seguito Acal), Visite Pastorali (in seguito Vvpp), vol. 141, c. 95, visita pastorale di Mons. Scipione Sersale a. 1746). Il monastero, affidato ai Padri Domenicani, aveva un chiostro, un dormitorio con sedici celle, giardino, cucina per il refettorio con sedili in legno infissi nel muro, torre campanaria con due campane («La chiesa è ad una navata di conveniente grandezza ed è coperta a volta, ha un pavimento di pietre quadrate nel quale vi sono sei sepolture, una delle quali viene utilizzata per seppellire i frati del convento. Ci sono due finestre, una circolare sita sopra la porta della chiesa, l’altra vicino all’altare maggiore. Davanti alla porta della chiesa vi è il cimitero circondato da ogni parte da pareti…Vicino a questa chiesa dalla parte laterale, a nord è situato il convento di detti frati, che ha una porta maggiore che si affaccia sulla via pubblica. Nel piano inferiore c’è un chiostro intatto, che consta di quattro corridoi, di 70 piedi di lunghezza e di 10 di larghezza ciascuno, ed al centro di esso ci sono molti alberi da frutto. C’è un Refettorio di conveniente grandezza con mensa dalle panche fisse. C’è inoltre un ospizio, che è un luogo utilizzato per dare la carne ai malati. C’è il magazzino, la dispensa, il capitolo, la cucina, una stanza antistante la cucina, una stanza sita dietro la cucina nella quale si conservano i vasi e gli strumenti della cucina, e in essa vi sono due forni, cioè uno più grande e uno più piccolo. Nel piano superiore del convento, al quale si sale per una scala di pietra, ci sono due dormitori, uno dei quali è a volta, l’altro è coperto da canne, e in uno di questi ci sono otto celle per i frati, cosicché sono sedici, accanto c’è un luogo in un angolo nel quale ci sono i luoghi per uso comune e non mancano due corridoi scoperti», Acal, Vvpp, vol. 15, CC. 362-364, visita Pastorale di Mons. Luigi Pappacoda a. 1654). Davanti alla chiesa si estendeva il sagrato che godeva dell’immunità ecclesiastica (Acal, Vvpp, vol. 16, cc. 447-452, visita Pastorale di Mons. Luigi Pappacoda a. 1655).
5 Cfr., G. Cavaccio, Illustrium anachoretarum elogia sive religiosi viri musaeum, typis Iacobi Dragondelli, Romae 1661, pp. 138-143 con una splendida immagine del Santo incisa da Francesco Valesio. Sul culto di S. Antonio Abate che a Novoli ancora oggi ha una rilevanza notevole, cfr., G. Spagnolo, Il fuoco sacro. Tradizione e culto di S.Antonio Abate a Novoli e nel Salento, Tip. Corsano, Alezio 1998 (I edizione); Tip. Publigrafic, Trepuzzi 2004 (II edizione) e Fondazione Focara 2018 (III edizione).
6 Cfr., A. de Bernart – M. Cazzato – E. Inguscio, La cripta del Crocifisso di Ruffano. Storia e geografia sconosciute, Congedo, Galatina 1998.
7 Per questi aspetti cfr., M. Cazzato, I Domenicani a Copertino: profili storici e urbanistici, in In nomine Domini Canis. I Domenicani nel Salento e a Copertino tra espansione e declino (secc. XV-XIX), a cura di E. Bruno e M. Spedicato, Maffei Editore, Trepuzzi 2014, pp. 161-171.
8 Cfr., M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, in “Camminiamo insieme”, XII, gennaio 1998, pp. 16-17. Come attestò per primo l’Infantino (1634) la piccola chiesa dell’Assunta (la chiesa nuova) fu eretta sul principale asse viario della città accanto ad una sua proprietà e poco discosto dal vescovato, esemplata, in quanto alle dimensioni e all’organizzazione strutturale della facciata, alla napoletana cappella appunto del grande umanista Giovanni Pontano (cfr., l’illustrazione in R. Sarno, Vita Joannis Joviani Pantani, Neapoli Fratres Simonii, MDCCLXI, p. 94; G.C. Infantino, Lecce Sacra, in Lecce, appresso Pietro Micheli, MDCXXXIIII, p. 25: «Dell’Assuntione della Vergine volgarmente detta la chiesa nuova». Secondo l’Infantino inoltre anticamente era sotto il titolo di S.Andrea.
9 Cfr., M. Cazzato, Giangiacomo dell’Acaya e un disegno del castello di Lecce, in Il castello Carlo V. Tracce, memorie, protagonisti, Congedo ed., Galatina 2014, pp. 52-54.
10 I.A. Ferrari, Apologia Paradossica della città di Lecce, Mazzei, Lecce 1707, Rist. anast. a cura di A. Laporta, Capone ed., Lecce 1997, pp. 54, 55, 343, 479-480 («chiesa di santa Maria dell’Assuntione nel portaggio di Rugge»); P. De Matteis, Filippo I Mattei e le battaglie in terra d’Otranto ai tempi di Lautrec, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVII, 18 luglio 2010, pp. 18-21. Filippo I ebbe anche un figlio illegittimo, tal Francesco e che “con la forza dei suoi danari” brigò affinché lo stesso divenisse vescovo di Lecce contemporaneamente al fiorentino mons. Braccio Martelli, 1552-1560 (cfr., P. Nestola, I grifoni della fede. Vescovi inquisitori in Terra d’Otranto tra ‘500 e ‘600, Congedo ed., Galatina 2008, pp. 203-204.
11 Relativamente a questi aspetti e sulle virtù mecenatiche e liberali di questa famiglia (la cui punta di diamante fu Alessandro II ricordato dal Marciano), i loro rapporti intellettuali che furono certamente non casuali ma inseriti in un “sistema locale ben determinato nel quale centro e periferia erano legati da rapporti e uno scambio continuo di esperienze e fermenti culturali” si rimanda ai seguenti contributi: M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei signori di Novoli, cit., pp. 16-17; M. Cazzato, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “gallaria”: per una storia del collezionismo aristocratico in terra d’Otranto, in Atlante del Barocco in Italia. Il sistema delle residenze nobiliari. Italia meridionale. Meridionale, Roma 2010, pp. 182-194; Id., Per la Biblioteca dei Mattei. Girolamo Marciano, l’iconografia del Ripa e la “Taranta Apula”, ivi, cit., XIX, 18 luglio 2010, p. 27; Id., Una Sant’Irene per Alessandro Mattei (1604), ivi, cit., XIX, 18 luglio 2012, p. 15; Id., I maestri di scuole del ‘500 salentino, ivi, cit., XX, 18 luglio 2013, p. 12; Id., La fontana dei Mattei. Profili di committenza aristocratica, ivi, cit., XII, 18 luglio 2005, pp. 6-7. G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca, frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di Mario Cazzato, Ed. del Grifo, Lecce 1992; Id., Fra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del conte Alessandro Mattei, Signore di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., X, 20 luglio 2003, pp. 33-36; Id., Girolamo Marciano e i Discorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese. Contributo per una biblioteca perduta, ivi, cit., XVII; 18 luglio 2010, pp. 22-26; Id., Il principe Perfetto. Giovanni Antonio Albricci Terzo (testimonianze dall’Ignatiados poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), in Quaderno di ricerca. Costumi e storia del Salento, Grafiche Panico, Salice Salentino ottobre 1989, pp. 21-54; Id., Francesco Guerrieri e Prospero Rendella giureconsulto e storiografo monopolitano, in “Annuario Studi e Ricerche”, I, Il Parametro Editore, 1993, pp. 115-134; Id., Bernardino Reatino il Santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoriale di Lecce degli anni 1623-1624), in “Lu Lampiune”, IV, 2, agosto 1990, pp. 107-111; Id., Memorie antiche di Novoli (note su un manoscritto ottocentesco della Descrizione di S. Maria de Nove di Girolamo Marciano), ivi, cit., XII, 17 luglio 2005, pp. 11-13; Id., Pregando Iddio per l’anima mia… Il testamento di Filippo II Mattei Barone di S.Maria de Nove, ivi, cit., XIX, 15 luglio 2012, pp. 16-19; Id., Francesco Guerrieri “sive verierius” sacerdote della Compagnia di Gesù (gli epigrammi greci e latini), ivi, cit., XX, 18 luglio 2013, pp. 13-15; O. Mazzotta, Ex Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “Camminiamo insieme”, cit., VI, 3, marzo 1992, p. 5; L. Ingrosso, La Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “Lu Lampiune”, cit., XIII, 2, 1997, pp. 71-77; M. Cazzato, Gli ultimi Mattei e il feudo di Trepuzzi, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., XXII, 19 luglio 2015, p. 10.
12 Allo stesso architetto scultore Gabriele Riccardi ma più probabilmente alla sua scuola, va riferita anche l’ ottagonale chiesa novolese del Salvatore (poi di S. Oronzo) voluta da Filippo II Mattei (figlio di Filippo I e padre di Alessandro II l’umanista e mecenate) negli anni settanta appunto del XVI secolo su ispirazione del gesuita Bernardino Realino (su una parete vi è inciso il monogramma dei Gesuiti) e secondo un linguaggio architettonico che nella volta «ad ombrello» ricorda specularmente la soluzione adottata nell’abside della citata chiesa di Santa Croce. In questa chiesa inoltre nel 1704, su incarico di Alessandro III Mattei, venne realizzato lo spumeggiante altare maggiore che ancora oggi possiamo ammirare nell’esuberante ricchezza ornamentale tipica del gusto decorativo dell’epoca (durante alcuni lavori di restauro e conservazione dell’altare sono state trovate incise, nella parte superiore destra le due lettere G.C. ovvero le iniziali di Giuseppe Cino).
Ma ancora prima di quel 1704, precisamente il 1700, Giuseppe Cino era ritornato a Novoli e sempre per Alessandro III ultimo dei Mattei, per ristrutturare quel braccio del palazzo baronale che fronteggiava, come fronteggia l’ingresso nel quale fu collocata la fontana con la sua epigrafe (M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; M. Cazzato – V. Peluso, Melpignano indagine su un centro minore, Congedo ed., Galatina 1986, p. 184). Il portale della chiesa di Villa Convento per impostazione tipografica e per schema decorativo è simile a quello della chiesa Matrice di S. Giorgio di Melpignano, della chiesa Matrice di Manduria (1532), della chiesa dell’Annunziata in Mesagne (1552), della cappella di S.Marco dei Veneziani in Lecce (1543) della cappella di S.Chiara in Galatina (1579), delle Parrocchiali di Parabita, di Surbo (1586) e di Corigliano (1573); F. De Pascalis, Altare con sorpresa, la firma di Cino, in “Quotidiano”, 25 novembre 2003.
13 Cfr., C. Longo, I domenicani nel Salento meridionale secolo XIV-XIX, cit., p. 123; G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, cit., p. 48; O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit., p. 158; Id., La pazienza tentata. La soppressione innocenziana dei piccoli conventi di Terra d’Otranto a metà Seicento, Ed. Panico, Galatina 2003, pp. 46, 53, 57; A. Caputo, Sviluppo e dispersione di un patrimonio ecclesiastico. I domenicani nel Salento e a Copertino tra espansione e declino (secc. XV-XIX), cit., pp. 85-86. Tra il giugno e l’agosto del 1686, l’Università della terra di Santa Maria di Nove in “pubblica conclusione” e tutto il capitolo “in sacristia parochialis” decisero all’unanimità di mettere a disposizione la chiesa di San Antonio Abate, “per l’utile tanto spirituale quanto temporale che risulta al pubblico”, per il trasferimento nella stessa, del monastero dei Padri Domenicani di Santa Maria delle Grazie. Questa iniziativa fallì a seguito dell’opposizione dello stesso Ordine Domenicano (cfr., G. Spagnolo, Onomastica novolese: la supplica dell’università e del clero di Santa Maria di Nove nel 1686, in “Le fasciddre te la focara”, 42, 17 gennaio 2004, pp. 9-11. I relativi documenti sono conservati presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Lecce negli Instrumenta miscellanea dei secoli XVII-XVIII).
14 D. Gallerano, Apprezzo del feudo di Santa Maria de Nove e del feudo di Nubilo o Convento fatto il 24 marzo 1707 da Donato Gallarano, copia dattiloscritta c/o Mario Cazzato (l’originale che si conservava presso l’Archivio di Stato di Napoli è andato perduto).
15 Con la morte di Alessandro III nel 1706, si estingueva a Novoli la stirpe dei Mattei che per circa duecento anni avevano esercitato la loro signoria sul paese: «Nel giorno 7 del mese di Marzo 1706 l’Ill(ustrissi)mo Don Alessandro Mattei conte di questa terra e del Marchesato di Trepuzzi marito di Donn’Angela Invitti di Napoli, nella sua età di anni quarantaquattro nella sede del suo palazzo patrizio, rese l’anima a Dio e il di lui corpo nello stesso giorno fa sepolto nella tomba dei suoi avi nell’interno del Convento e della Chiesa dei Frati Domenicani di questa terra reggendo l’amministrazione di detto Convento frate Ferdinando da Campi; confessò (le proprie pene) nel quinto giorno, restò privo del S.S.Viatico per smarrimento di coscienza, fu tuttavia consacrato della unzione del sacro olio del settimo giorno in cui fu sopra sostituito (nel marchesato) per mezzo del Rev(erendissi)mo Don Filippo Antonio Romano», (Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice S.Andrea di Novoli, Registro dei morti aa. 1680-1709. Sulla fontana del palazzo ducale aveva fatto incidere la seguente epigrafe: «Deo Xenio / Non Magnitudini Aut / Dominationi / Sed / Solatio Et Ocio / Alexander Mattei / Aedes Suas / Xysto Et Fonte Excoluit / A. Mdcc»; (Trad.: «Al Dio dell’ospitalità. Alessandro Mattei, non per desiderio di grandezza o di potere, ma per conforto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nel 1700», cfr., M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; un’epigrafe “che nonostante l’epoca rigurgita ancora di echi classico-umanistici”). I Carignani tennero poi Novoli per novantadue anni e furono dunque gli ultimi signori del luogo sino alla soppressione della feudalità applicata nel Salento nel mese di agosto del 1806 (O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit.; Id., Novoli (1806-1931), Novoli, Bibliotheca Minima, 1990; G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, cit.; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, cit.; O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520 -1706), cit.
16 Acal, Vvpp, vol. 141, c. 95. Visita Pastorale di Mons. Scipione Sersale a. 1746, cit.
17 Cfr., F. De Luca, La diocesi leccese nel Settecento attraverso le visite Pastorali. Regesti, Congedo, Galatina 1988, pp. 129-130.
18 Alla soppressione del 1809, quando vi risiedevano solo un padre e un converso, fu ceduto al Vescovo di Lecce Mons. Gennaro Trama che lo diede in enfiteusi a privati che lo trasformarono parte in fattoria e parte in villa. Finalmente il 22 settembre 1922 erigeva la parrocchia di Maria SS. Del Buon Consiglio e nominava parroco Don Giuseppe De Luca. La Baronessa Luisa della Ratta provvide alla congrua, offrendo il podere denominato Pizzo, e Vincenzo De Pandis donò l’antica chiesa di S. Onofrio di cui era proprietario (cfr., C. Longo, I Domenicani nel Salento meridionale secoli XIV-XIX, cit. p. 125; O. Mazzotta, Novoli (1806-1931), cit., p. 17; Id., I conventi della soppressione nel decennio francese (1806-1815), Ed. Tipografica, Bari 1996; Id., Il naufragio dei chiostri. Conventi di Terra d’Otranto tra Restaurazione Borbonica e soppressione sabauda, Besa editrice, Nardò 1999; In un inedito manoscritto sulla storia del feudo di Nubilo, D. Giuseppe De Luca, si legge, prese possesso di primo parroco di Villa Convento il 13 luglio 1924. Il manoscritto datato Convento 10 giugno 1925 a firma dello stesso parroco Giuseppe De Luca ha titolo Breve cenno storico intorno alla Contrada Feudo o Convento nel territorio di Lecce presso Novoli ed è certamente una copia con alcune varianti di quello con il titolo Breve Storia di Villa Convento già pubblicato a cura di L. Carlino in “Lu Lampiune”, XIII, 1, 1997, pp. 119-125. Sulla figura e sull’opera del primo parroco di Villa Convento cfr., D. Levante, Intitolata a don Giuseppe De Luca la Piazza di Villa Convento, in “L’ora del Salento”, X, 9, 11 marzo 2000, p. 10; M. Rossi, Don Giuseppe De Luca sacerdote dalla fede incrollabile, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., VI, 24 dicembre 1999, pp. 10-13; P. Salamac, Cenni storici di Villa Convento, in “Studi Linguistici Salentini”, vol. 33, Edizioni Grifo, Lecce 2012, pp. 27-64.
19 In questa questione che coinvolse “l’Università di Santa Maria di Novoli e l’Università di Lecce” negli anni 1747-1752 si veda la memoria legale Per l’Università di Santa Maria di Novoli e Suoi naturali contro l’utile possessore di quella, cit., pp. 17-18.
20 Cfr., C. Longo, I Domenicani nel Salento meridionale secoli XIV-XIX, cit. p. 124: «Vi rimane un affresco forse cinquecentesco raffigurante il Christus patiens».
21 Cfr., L. Antonazzo, Guida di Ugento, Galatina 2005, pp. 107-112 e, ovviamente, l’intervento dello stesso autore in questa sede. Dai restauri fino ad oggi compiuti da Daniela Guida sull’affresco (Anna Calabrese quelli sul portale) non è emersa alcuna firma che ne identifichi l’autore e né tantomeno l’anno della sua esecuzione. Pur tuttavia, incerte datazioni quasi coeve alla Battaglia di Lepanto (1571) e non documentate si rilevano in alcune fonti. Il Levante ad esempio nel suo intervento sull’intitolazione della nuova piazza di Villa Convento a Don Giuseppe De Luca, riporta anche un interessante e anonimo articolo pubblicato su “L’Ordine” del 17 ottobre 1942, che descrive l’inaugurazione fatta dal vescovo Mons. Alberto Costa il 13 settembre 1942 della ricostruita chiesa dedicata alla Vergine del Buon Consiglio. L’anonimo articolista nella sua cronaca, menzionando l’altare dedicato alla Vergine SS. del Rosario lo descrive “il primo a sinistra dell’ingresso, con i pregevoli affreschi del 1576 assai ben conservati, intorno a cui da Mons. Nicola Caputo fu fatto ricostruire un piccolo vano a volta, ove si continuò a celebrare la S. Messa nelle domeniche per i villeggianti ed i coloni che abitano nei dintorni” (D. Levante, Intitolata a don Giuseppe De Luca la piazza di Villa Convento, cit., p. 10). Anche il Salamac (citando le Visite Pastorali del Vescovo Scipione Sersale dell’ottobre 1746 e Sozy Carafa dell’ottobre 1754) riporta una datazione dell’affresco scrivendo invece testualmente che “raffigura la battaglia di Lepanto, è anonimo il suo creatore, ma l’esecuzione, come risulta in basso all’opera è dell’anno 1578” (P. Salamac, Cenni storici di Villa Convento, in “Studi Linguistici Salentini”, cit., p. 52). Va detto comunque che l’affresco, come si può notare, ha subito una mutilazione nella parte inferiore per far posto nel 1930 alla realizzazione dell’attuale altare ed è possibile perciò che in tale circostanza queste indicazioni (autore ed anno), se esistenti, possano essere andate perdute. La datazione dell’affresco al 1578 riportata dal Salamac è comunque confermata (evidentemente perché all’epoca ancora perfettamente visibile) da un contributo con la sua descrizione di Romeo Franchini, studioso e sindaco di Novoli dal titolo Novoli fine ‘500 pubblicato nel “Bollettino Santuario S. Antonio Abate ottobre-novembre 1958”. Così scrive infatti il Franchini intitolandolo La visione di S. Pio V; “L’affresco, pregevole opera d’arte… contiene anche una vivace rappresentazione della famosa battaglia: l’artista lo datò 1578 ma non lo sottoscrisse per cui è rimasto ignoto”.
22 L’immagine in Xilografia appartiene ad una collezione privata. È un foglio a stampa di cm 24xl6 recante da un lato la “Missa/In Solemnitate Sanctissimi Rosarii/Beatae Mariae Virginis”, con Introitus, Oratio, Lectio Libri Sapientiae, Graduale, Offertorium, Secreta, Communio, Postcommunio, Lycij, Apud Petrum Michaelem, 1675 Superiorum permissu, e dall’altro lato la xilografia sopra descritta. Questo foglio, esemplare fino ad oggi probabilmente unico nel suo genere per tipologia e contenuto, compilato e firmato in chiari caratteri a stampa della tipografia di Pietro Micheli, va inserito certamente in quell’aspetto della sua produzione tipografica (non ancora sufficientemente indagato come ha rilevato E. Pindinelli) caratterizzato da “alcuni fogli a stampa…realizzati a cura e spese di vari uffici periferici nella chiara funzione di duplicazione e di capillare diffusione di ordini e di disposizioni che investivano vasti e vari settori della vita civile, e pertanto, ancora più interessanti per quanti voglia leggere attraverso essi con freschezza documentaria uno spaccato di vita salentina nel cuore del XVII secolo” (come per esempio Bandi e Indulti Reali). Materiale a stampa prodotto dal Micheli “che per le finalità e caratteristiche proprie si discosta dalla vera e propria produzione editoriale ma pur importante per una più dettagliata definizione dell’attività tipografica, della committenza e soprattutto di penetrazione e di uso della ormai quasi consolidata prassi della duplicazione a mezzo stampa” (E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi Orientamenti”, XX, 113-114, marzo-giugno 1989, pp. 11-20. Sulla lunga attività e produzione tipografica di Pietro Micheli e dei suoi eredi si vedano i contributi di G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Editrice Salentina, Galatina 1976; E. Panarese (a cura di), Una ricerca nella scuola dell’obbligo (Visita alla Biblioteca Piccinno di Maglie, Erreci Edizioni, 1990; A. Laporta, Saggi di Storia del libro, Edizioni Grifo, Lecce 1994; A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal cinquecento alla metà dell’ottocento, Milella, Lecce 2006; M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Edizioni Grifo, Lecce 2011, pp. 175-205; F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus traditus. Bottega di Pietro Micheli 1686, ivi, pp. 207-220; G. Spagnolo, Una sconosciuta edizione leccese (1664) del tipografo Pietro Micheli, in “Lu Lampiune”, X, 3, dicembre 1994, p. 5-10; Id., Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S.Anna di Lecce, in “Il Bardo”, XV, 3, dicembre 2005, p. 7; Id., Per la storia dell’Editoria Salentina del ‘600. «Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento» del tipografo Pietro Micheli, in Studia Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri, a cura di Dino Levante, Barbieri Selvaggi Editori, Manduria 2010, pp. 325-336; M. Cazzato – G. Spagnolo, Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario, in Rotary Club Lecce 60 anni di “service” Omaggio alle Eccellenze Salentine, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 103-116; G. Spagnolo, Edizioni di Pietro Micheli nella “Biblioteca Salita dei Frati” di Lugano, in “Il Bardo”, XXIV, I, Marzo 2015, p. 5. Id., Un’opera dispersa di Pietro Micheli: il trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (1653), in “Il Bardo”, XXV, 2, maggio 2015, p. 6.
Del castello di Copertino si conosce quasi tutto. Fu abitato da esponenti della dinastia sveva, seguiti da quella angioina e dalla stirpe dei Brienne. Tra le sue mura dimorò saltuariamente la contessa Maria d’Enghien e sua figlia Caterina Orsini del Balzo, andata in sposa al cavaliere francese Tristano di Clermont.
La tradizione vuole che tra queste mura abbia visto la luce la loro figlia Isabella che impalmata da re Ferrante d’Aragona divenne a sua volta regina di Napoli.
Agli inizi del XVI secolo, quando i titolari del maniero divennero i Granai-Castriota fu il marchese Alfonso, figlio del conte Bernardo e di Maria Zardari, uomo dai miti e gentili costumi abbelliti dalle lettere come lo ricorda il Galateo nella sua epistola “Ad Pyrrum Castriotam”; giureconsulto di cappa corta, marchese di Atripalda, duca di Ferrandina e conte di Copertino, che nel decennio compreso tra il 1530-40, affidò al noto architetto militare Evangelista Menga, l’incarico di progettare la trasformazione della struttura 400esca in una fortezza che dimostrasse la sua potenza sul piano economico, giuridico e militare, ma soprattutto capace di respingere qualsiasi assalto armato.
Difatti, fu costruita secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Ovvero, un profondo fossato scavato nella roccia, una spessa muraglia, quattro imponenti bastioni lanceolati e novanta feritoie distribuite su tre ordini di costruzione (fig. 1 e 2).
Essendo una struttura difensiva Don Alfonso si premurò di dotarla di un’adeguata guarnigione e un discreto apparato di armi da fuoco: cannoni, colubrine, schioppi e armi bianche di vario genere. Ma in che misura quegli armamenti avrebbero consentito di respingere il nemico è difficile stabilirlo. E soprattutto di quante unità era composta la guarnigione che presidiava il castello? Un’idea in tal senso la si potrebbe ricavare da un atto notarile del 21 febbraio 1553 allorquando il castellano nonché governatore di Copertino, Hernando de Bolea, originario di Saragozza consegnò al suo vice, Stefano de Ayala nativo di Toledo, una quantità di beni alimentari tra cui diversi tomoli di grano, orzo, fave, 700 barili di vino, 10 di aceto, 10 di sarde salate contenenti ciascuno 25.900 unità, 600 forme di formaggio e 100 staia di olio destinati a sfamare la guarnigione e la servitù presente nel castello, per un arco temporale presumibilmente lungo. Essendo le cronache del tutto avare di avvenimenti riconducibili ad attività militari abbiamo ragione di ritenere che da quelle feritoie non fu mai sparato un solo colpo di arma da fuoco e per lungo tempo i soldati dovettero restare pressoché inattivi, fino ad una verosimile riduzione numerica. (fig. 3)
Ipotesi non del tutto peregrina se il 17 aprile dello stesso anno avvenne la cessione di armature di cavalleria leggera a favore di militari dislocati nel castello di Lecce. Per ordine di Ferdinando Loffredo, vicerè delle province di Otranto e Bari, Hernando de Bolea incaricò Tommaso Caputo e Mauro Greco a trasportare 25 spalle (spallacci) e piedi (scarpe d’arme) con le corchette (uncini), 25 calotte, 25 brazzali e spallarde (avambracci e cubitiere), 25 morioni (elmetto di origine spagnola) e diademi; 13 elmi di ferro e mezze calotte alla burgognone.
Più tardi, il 16 maggio è ancora Stefano de Ayala che provvede al trasferimento di importanti pezzi di artiglieria. Il regio commissario di Terra d’Otranto, Ascanio de Maya, infatti, prese in consegna una quantità di armi spedite da Copertino che fece trasportare nel castello di Brindisi dove si registravano intermittenti rivolte popolari a cui gli Aragonesi rispondevano anche con armi da fuoco. Si trattava di due cannoni, gli unici di cui era dotato il castello che sarebbero stati spostati lungo la spessa muraglia a seconda dei dispacci che avrebbero annunciato imminenti pericoli. Uno dei due cannoni era adatto al lancio di palle di pietra ed era contrassegnato con l’aquila bicipite, l’arma dei Castriota, mentre l’altro, idoneo allo sparo di palle di ferro, era marchiato con il leone di S. Marco. Unitamente ai due cannoni fu trasportata anche una quantità di palle in ferro e di pietra e una colubrina (fig. 4).
Ecco il testo: Uno cannone petrero et le arme castriote, due casce ferrate e due rote ferrate. Un altro cannone di bronzo serpentino et le arme di S. Marco et casce e rote ferrate. Una mezza colubrina di ferro et una cascia ferrata e più palle di ferro, grocchi, cintruni, sarandri. Palle 64 di ferro curate del cannone serpentino e palle 105 di petra del cannone petrero. (Fig. 5).
Intanto, scomparsi anche gli ultimi eredi di Don Alfonso la Contea tornò sotto la giurisdizione del Viceregno. A nulla valsero gli forzi del sindaco Virgilio Della Porta di lasciarla nell’amministrazione del Regio Demanio perché nel frattempo il genovese Uberto Squarciafico l’aveva acquistata per 29.700 ducati.
Un passaggio di consegne del 1556 tra il castellano uscente Stefano de Ayala e il suo successore Pedro Lopez de Marca inviato da Ludovico de Bariento, consente di conoscere tanto la consistenza delle riserve alimentari quanto i dispositivi destinati alla difesa del maniero.
In primis viene descritta un’asta con lo stendardo sul quale erano riportate le insegne di Carlo V (l’aquila imperiale con un Crocifisso in mezzo alle due teste); una campana collocata sopra lo campanile di detto castello che serve a fare la guardia di notte” (si tratta della campana situata nell’edicola al vertice del portale d’ingresso).
Tutta l’artiglieria in bronzo che consisteva in un falconetto di nove palmi (due metri e mezzo); altro falconetto di tre palmi e mezzo con le insegne di S. Marco; un carro di otto palmi e mezzo con cassa dotata di ruote di ferro nuove; un carro rinforzato di dieci palmi e mezzo; un curtaldo (piccolo cannone trainato da cavalli) di sette palmi; 27 smerigli (piccoli pezzi di artiglieria) di varie grandezze su alcuni dei quali è incisa la figura di S. Barbara, un altro smeriglio rinforzato di poco meno di cinque palmi, uno scudo e una croce. Dell’artiglieria in ferro facevano parte: 5 bombarde, 26 mascoli grandi e altri 26 più piccoli, 26 archibugi (fig. 6), 24 fiaschette (piccoli recipienti per conservare polvere da sparo), 46 tenaglie, altri 98 archibugi, 53 chilogrammi di polvere da sparo, 2000 chilogrammi di salnitro contenuto in cinque casse, 23 cantàre di zolfo e 70 palle di ferro.
Tra le armi bianche si contavano alabarde, lance e punte di lance. E ancora: zappe, picconi, numerosi attrezzi in ferro, corde, funi, 2800 fascine, 29 carrette di legna e 362 canestri. Non appaia inverosimile, dunque, la notizia riportata dall’anonimo cronista del ‘700 contenuta nelle “Memorie dell’antichità di Copertino” secondo cui “Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artigliaria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro.
Nell’aprile del 1557 a Hernando de Bolea subentrò un altro spagnolo, il governatore Bartolomeo Diez al quale, il 23 maggio seguente, su disposizione di Carlo V, fu ordinato di consegnare ai marinai Giorgio de Candia e Marco de Michele una quantità indefinita di munizioni per essere trasportate, via mare nel porto di Pescara a disposizione della guarnigione di soldati presenti nella fortezza pentagonale progettata dall’architetto militare Gian Tommaso Scala e terminata di costruire proprio il 1557.
Ma, se il castello cominciò a perdere la funzione difensiva le sue mura continuarono ad offrire un tetto a coloro che a vario titolo erano stati destinati alla sua difesa tra cui Giovanni de Sisegna, alfiere di armatura pesante della compagnia del duca di Urbino; il suo collega Gaspare della Porta, soldato di armatura pesante; il lombardo Alessandro de Valbona che aveva servito Hernando de Bolea; Pietro de Valandia, spagnolo di Ordegna e Stefano de Ayala che nel frattempo aveva sposato Laura Roccia di Gallipoli.
Quando nel maggio del 1603 la genovese Nicoletta Grillo – vedova di Cosimo Pinelli iunior, II duca di Acerenza, III marchese di Galatina e V conte di Copertino – stabilì di procedere all’inventario dei beni presenti nel castello di Copertino, armi e armature si erano notevolmente ridotte. L’incarico fu affidato a notar Pietro Torricchio che il 2 giugno inventariò 16 pietti forti da combattere (fig. 7), dispensati ad altrettanti soldati a cavallo incaricati di sorvegliare le campagne del feudo e 50 pistole con altrettanti foderi.
Dissolto il pericolo turco e nella certezza che il castello non sarebbe mai stato al centro di assalti gli Squarciafico scelsero di renderlo più accogliente facendo edificare nuovi ambienti e una cappella intitolata a S. Marco al cui interno collocare i loro sarcofagi. Nel 1602, essendo già scomparsi Livia e suo figlio Cosimo Pinelli, il maniero e le possessioni feudali passarono a Galeazzo Pinelli che, data la tenera età, furono amministrati dalla madre, la genovese Nicoletta Grillo. L’anno dopo costei – che nel frattempo con la figlia Clementina aveva eletto a residenza stabile la lussuosa dimora di Giugliano in provincia di Napoli – stabilì di procedere all’inventario dei beni del palazzo marchesale di Galatone (dimora preferita dai suoi predecessori) e quelli presenti nel castello di Copertino.
Il documento ci restituisce la presenza di arredi e attrezzi di uso comune presenti negli ambienti destinati alla preparazione dei cibi e delle sale destinate al riposo notturno il cui mobilio risentiva delle influenze stilistiche spagnole e veneziane che non si modificarono mai del tutto e rapidamente. I costi, la scarsezza della materia prima, l’assenza di maestranze locali specializzate ne rendevano difficile l’aggiornamento e gli arredi erano rimasti pressoché quelli del secolo precedente. Non sappiamo se la trabacca principale fu la stessa sulla quale Alfonso Castriota ci dormì con la prima moglie Cassandra Marchese, sposata il 1499. Ma non possiamo escludere che dovette preferire queste mura lontane dagli occhi indiscreti della corte partenopea per incontrarsi con la gran dama napoletana, Giulia de Gaeta. Di certo l’imponente dimora rinascimentale la dovette includere tra le tappe del viaggio di nozze con la seconda moglie, Camilla Gonzaga il cui rito nuziale fu celebrato il 1518 nel castello di Casalmaggiore.
La camera da letto situata al piano nobile (fig. 8) era arredata con elementi in cuoio turchino e oro con fregi rossi. Alle finestre e ai vani di porta vi erano in tutto sette tende lavorate in oro e argento. Il proviero (padiglione del letto con cortina e zanzariera) era di seta verde di Calabria con cappitella (copertura), tornaletto (larga striscia di tessuto decorato posto intorno al letto). Tre teli di cuoio di colore rosso con frange in oro; tre materassi ripieni di lana finissima, mentre altri sette erano destinati alla servitù. Vi erano due coperte di lana bianca fine, una di lana rossa, cinque coperte di lana paesana bianca, un capizzale di lana (stretto guanciale che va da un lato all’altro del letto), cinque cuscini di dimensioni diverse foderati di taffetà verde ed altri due di tipo ordinario. Il mobilio era costituito da una trabacca a mezze colonne di noce, alle cui estremità vi erano pomi e barre indorate. Altre due trabacche di noce, semplici e a mezze colonne erano dislocate in altra stanza, insieme a due lettère (letti costituiti da tavole poggiate su tristelli); un torciero di legno per la sala; una torcia; tre appendiabiti in ferro; undici sedie imperiali di noce; quattro sedie veneziane vecchie di legno; tre sedie di velluto verde; due sedie di velluto giallo; cinque tavolini di noce usati; due banchi di noce lunghi con ferri indorati; due sgabelli di noce lavorati; un tavolo di noce lungo un metro e mezzo sorretto da piedi con catene; una seditoia di legno con il suo vaso da notte; un tavolino di legno con tre piedi.
Notevole la quantità di attrezzi e utensili presenti nei locali a piano terra adibiti a lavanderia e cucine. Nell’elenco vengono riportati un porta coltelli di legno; due grandi cofanaturi di creta per fare la colata e una pressa di legno per strizzare salvietti e musali; due alari di cucina grandi; uno scaldacrusca; un grande stipo per contenere alimenti; tre appendiabiti; due canestri per contenere sprovieri. Al centro dell’ampia cucina c’era un grande tavolo da lavoro in legno poggiato su due tristelli in ferro. Il camino era dotato da un paio di capifuoco con pomi in ottone, due palette, un grosso ciocco, un paio di molle, due treppiedi di misure diverse, una zagaglia. E ancora: un grande calderotto in rame; una grattugia; un recipiente in rame per contenere vino; cinque fiaschi in rame; due grandi bracieri di diversa misura di cui uno con base di legno. La preparazione e la somministrazione del cibo non avveniva in stoviglie di creta bensì in contenitori di rame. Quindi vi erano tre vecchie teglie, trenta piatti tra grandi e piccoli; due contenitori di liquidi destinati alla servitù; due scalda vivande di ottone; due saliere in peltro; tre coperchi per pignatte; due coperchi per teglie; una cucuma di rame grande per scaldare acqua; altra cumumella in latta bianca; un secchio di rame con rispettiva catena e una carrucola per attingere acqua dal pozzo; una grande cassa di legno destinata al contenimento di orzo.
Nei decenni successivi l’imponente fortezza veniva lentamente svuotata. Non sapremo mai se si trattò di saccheggi o dispersioni agevolate da guardiani distratti. Ai “distaccati” Pinelli seguì la dinastia dei Pignatelli che si legò ai marchesi Di Sangro e ai Ravaschiero. Infine fu la volta dei principi Granito di Belmonte a cui vanno ascritti i tentativi di “rianimare” il castello tra cui il conte Angelo Granito che vi dimorò con i figli e la moglie Adelaide Serra di Corsano. Costoro affittarono diversi ambienti a contadini e artigiani del luogo i cui ricavi non furono mai abbastanza per consentire il ritorno del castello agli sfarzi di un tempo (fig. 9 e 10). Da qui ebbe inizio il lento declino del maniero che si arrestò solo nel 1885 quando fu dichiarato Monumento nazionale, seguito con l’acquisizione al demanio dello Stato il 1956.
Fonti essenziali
ARCHIVIO DI STATO LECCE, notar Bernardino Bove, coll. 29A, atto del 16 giugno 1553, cc 191v-192r; 175r-176v; atto del 17 aprile 1553, 152r ; atto del 21 febbraio 1553 cc 67r-69r.
S. CALASSO, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966.
A. LAPORTA, Copertino, Suppl. in “Rassegna Salentina”, a, III, n, 1 1978.
AA. VV. Fonti per il Barocco Leccese, a c. di C. Piccolo Giannuzzi, Congedo , Galatina 1995.
AA. VV. I castelli della difesa Otranto – Copertino, a cura di M. Milella, Martano Editrice, Lecce 2003.
M. CAZZATO, Evangelista Menga e l’architettura del Cinquecento copertinese, Besa, Nardò, 2002.
Dimostrerò ora come in Giusepp il talento poetico fosse in grado di andare oltre le metafore, ingrediente caratteriizante tutta la produzione barocca, coniugando abilmente la finalità encomiastica (caratteristica anch’essa tutt’altro che secondaria della cultura di quell’epoca) col divertissement. Nella fattispecie il gioco enigmistico è l’anagramma numerico.
Chi legge avrà senz’altro incontrato almeno una volta la forma più corrente, quella alfabetica, che, com’è noto, consiste nell’utilizzare i fonemi di una parola di partenza per dare vita, disponendoli in diverso ordine, ad un’altra parola di senso compiuto. uno degli esempi più banali sarebbe il caso di Roma/amor, ma, volendosi complicare la vita, non ci si deve lasciar sfuggire pure ramo, mora, orma, Omar e (tronco come amor) arom, senza far torto, a questo punto, a marò; e poi, per chi è masochista, perché non pensare di inserire le quattro parole in un componimento in rima, senza trascurare, magari, la polisemanticità di mora (donna bruna/frutto del rovo/ritardo)? Oggi, se vuoi fare qualcosa del genere, c’è il pc che ti fornisce tutti gli anagrammi della parola (o delle parole, in tal caso si parla di frase anagrammata) che gli hai digitato.
Spetta poi a te tra tutte le parole proposte quelle che più si adattano al contesto che vuoi creare. Troppo complicato? Se per qualcuno è così, fra poco ci sarà l’ IA (acronimo di Intelligenza Artificiale o di Idiozia Acquisita?) alla quale non sfuggirà certamente la possibilità di tener conto degli acronimi, sovente impronunciabili, che si saranno aggiunti alla miriade di quelli esistewnti, noti e pure registrati. E così, per tornare al nostro esempio, potranno essere utilizzati MRAO (Mirabile Raccolta Rifiuti Ospedalieri), RMAO (Retribuzione Misurata A Orario), lasciando alla fantasia del lettore il compito di anticipare lo scioglimento di MRAO, MROA, MAOR, OMRA e ORAM. Mentre i solenni soloni della UE, dopo aver meticolosamente valutando i rischi connessi con l’IA hanno disposto gli adeguati provvedimenti (a tutti “raccomandazioni” senza sanzioni, all’Italia imposizioni e processi per infrazione), l’IA sarebbe già ora in grado pure di mettere in rima gli impronunciabili acronimi di cui sopra, destinati, come gli altri, a competere con i grugniti, con ogni possibile rispetto per i porci, che saranno l’unico linguaggio comprensibile per un’umanità sempre più, irreversibilmente , decerebrata.
C’è da giurare che nessuno sarà in grado di anagrammare una parola di quattro fonemi (magari l’impotenza si limitasse a questo!), figurarsi se dovesse cimentarsi, magari in una sfida con se stesso, in un anagramma numerico , del quale il copertinese ci fornisce tre esempi (i primi due sono in Castaliae stillulae). Esso consistente nel costruire due frasi con parole dalle lettere diverse assegnando ad ognuna di esse un valore numerico (nel nostro caso ogni lettera assume quello corrispondente al suo posto nell’alfabeto), in modo tale che la somma dei valori delle prima frase coincida con quello della seconda.
Come se non bastasse, entrambi gli anagrammi del Fapane sono seguiti da una dedica in distici elegiaci che funge da commento esplicativo dell’anagramma. Mi auguro che la mia traduzione e le relative note riesca a far comprendere anche al lettore digiuno di latino la difficoltà di dar vita ad un gioco enigmistico più complicato del solito con esiti così felici.
Il primo è dedicato a Cesare Miraballo, principe di Castellaneta e marchese di Bracigliano. A seguire la trascrizione del testo:
Prima di passare alla traduzione faccio notare (tramite le due sottolineature aggiunte,che nessuno, nemmeno il Fapane, è perfetto. Pure lui è stato costretto da ragioni metriche a far seguire al Caesar (forma corretta) iniziale il successivo Cesar (formalmente scorretto, anche se ricalcante la pronuncia ecclesiastica). In fatti la conservazione del dittongo ae, lungo per natura, sarebbe stato inconciliabile con la struttura del verso.
Don Cesare Miraballo principe di Catellaneta
O fulmine che si abbatte sulle arni dei Gallia
Se desideri conoscere l’Augusto dei tempi antichi, già redivivo c’è ai nostri giorni. Colonna di virtù, a nessuno secondo per sensibilità, amore della religione, onore della nobiltà. chi è tuttavia costui? Il nome mostra prodigi in guerra, è colui al quale la fama è minore del nome, questo è maggiore. Cesare splendente in entrambi i campi, nella spada e nella penna, sia che risuonarono le trombe, sia le lire. Ma numerando le lettere avrai un presagio più grande, Bagliori ai nomi, nomi ai bagliori. Sia che cosa? O fulmine che si abbatte sulle armi dei Gallia. Ciò è di Giove, da qui Cesare, tu sarai più grande di Cesare.
a Allude alla strage di Francesi che al comando del duca di Guisa nel 1654 aveva tentato di conquistare Torre Annunziata difesa pure da Cesare Miroballo.
Passo al secondo anagramma, dedicato a Geronimo De Choris, che fu vescovo di Nardò dal 1656 al 1669.
Anche qui, prima di tradurre traduziome, faccio notare come il Fapane, sempre per motivi metrici, è stato costretto a sopprimere la preposizione de che precede Choris. Infatti essa, sillaba lunga, sarebbe stata inconciliabile con la struttura del verso. Inoltre, per quanto riguarda la parte numerica, il 135 suppone un errore di stampa (o frutto di una piccola distrazione dell’autore) nella corrispondente sezione grafica (D. Hieronimus), nella quale D. (abbreviazione epigrafica di Dominus) va emendato in Dn (altra abbreviazione epigrafica di Dominus, al pari di DNS e di DNUS . Così il totale della sezione è 135 e non 123, quale risulterebbe senza l’emendamento.
All’Illustrissimo Signore Don Geronimo De Choris senese già vescovo di Nardò anagramma numerico
Don Geronimo De Choris
Egli (è) il vescovo di Nardò
Bisognava trovare un pastore che pascesse benevolmente con la dolcezza dell’amore il gregge di Nardò, Alessandroavaluta: alla fine assegna a te l’onore, poiché tu sei autorevole con la devozione, devoto con l’autorevolezza. Ma quale motivo d’indugio c’era? Il volere divino mostrava il nome e se conti bene i presagi tuttavia sono noti. Geronimo De Choris Egli è vescovo di Nardò. Non basta solo che il responso l’abbia dichirato piuttosto chiaramente, ma sotto il nome si nasconde una volontà divina più grande e Geronimo è vicino alla porpora della quale è assai degno di essere decorato. Allora è questo il destino di Nardò; e se una forza raddoppiata potentemente si dedica all’opera, che rimane da succedere?
a Papa Alessandro VII.
Il terzo anagramma numerico è in Giuseppe Battista, Delle giornate accademiche, Combi & La Noù, Venezia, 16733, p. 305.
Prima di pasare alla traduzione, faccio notare che i due totali qui non coincidono. Si tratta di un errore di stampa in quanto Iosephus ha comecorrispondente numerico 102 e non 202.
b Persnaggio della mitologia greca, in grado di ammaliare col suono della sua lira gli animali e tutta la natura-
Lavorando un po’ di fantasia e mettendomi nei panni del Fapane, mi sono chiesto quale anagramma numerico avrebbe creato in onore di Copertino. Per evidentidenti ragioni cronologiche non avrebbe poturto sfruttare il riferimento prima al santo dei voli e poi alla città californiana (vedi ) . Improvvisamente, però, mi son sentito afferrare la mano e guidare le dita sulla tastiera del pc a digitare quanto segue:
Al lettore che dovesse accusarmi di aver aggiunto ai due espedienti dei quali ho detto all’inizio della prima pare, un terzo, quello della dissacrazione, voglio solo dire, com ampia possibilità di replica, per quanto mi riguarda sempre graditissima, che l’ironia e il sarcasmo, anche dissacranti, nascondono più amore e rispetto di quelli esibiti da tante ipocrite santificazioni.
Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”
di Santo Venerdì Patella
Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.
Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.
In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.
Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.
Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.
Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?
Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.
Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.
Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.
Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:
La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;
La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;
Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;
Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;
Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;
La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.
I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.
Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.
Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.
Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.
Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.
Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.
Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.
Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).
Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.
Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].
A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.
Fig. 11
Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.
Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].
Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.
Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].
In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.
La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.
Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?
La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.
Bibliografia essenziale
E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.
S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.
L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.
A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.
Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.
Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.
Dichiaro senza vergogna di aver voluto ricorrere fin dall’inizio a due espediente che, soprattutto il primo, io stesso, s ho stigmatizzato ripetutamente su questo blog e non solo: il titoli “sparato” e la diluizione in più puntate, per attrarre il lettore impegnato pure nell’attesa speranzosa del prosieguo se l’inizio non lo avesse entusiasmato, stimolandone la curiosità, che può essere animata dai più disparati interessi, tutti astrattamente connessi al teoricamente nobile fine della conoscenza oscillante, però, da quella dell’ultimo amorazzo del vip di turno, a quella di un’opera letterario degno di questo nome.
Perciò, se avessi scelto un titolo diverso, avrei perso l’occasione di tentare di dare il giusto rilievo ad un salentino il cui nome stranamente non è citato nei manuali di letteratura italiana nella schiera, pur folta, dei poeti marinisti, nella cui ammucchiata il letterato di Copertino avrebbe meritato, secondo me, di occupare un posto appena appena a ridosso del caposcuola Giambattista Marino.
Anzi, se la qualità fosse direttamente proporzionale alla quantità, Giuseppe Domenichi Fapane non avrebbe rivali con i suoi epigrammi di Castaliae stillulae1, opera in sei volumi, pubblicati il primo nel 1654, l’ultimo nel 1671, per un totale di ben 1770 pagine, senza calcolare le mon poche non numerate.
Si tratta di un’opera rara (e da questo potrebbe esser dipeso il disinteresse degli studiosi) e gli esemplari per ciascun volume si contano sulle dita di una sola mano. Addirittura del sesto libro, dal quale ho tratto il gioco enigmistico che presenterò a breve, esisterebbe una sola copia custodita nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò , la cui esistenza, insieme con quella del secondo, pure l’OPAC mostra di ignorare. Quegli stessi appunti a suo tempo presi, che qualche anno fa mi consentirono di riesumare la memoria di questo figlio del Salento2, mi danno oggi la possibilità di chiarire il significato di enigmatico e di enigmista dominanti nel titolo.
Dell’enigmista tratterò nella seconda parte e dico preliminarmente che enigmatico è usato impropriamente per esigenze del titolo sparato, anche se in realtà rientra nella figura retorica dell’ipallage, per cui il mistero non riguarda la personalità del nostro ma solo il suo nome e cognome.
Ma, se ho già scritto Giuseppe Domenichi Fapane, non è evidente che il cognome del copertinese consta di due elementi? Nei manoscritti di una stessa opera, è cosa arcinota, le varianti e la collazione, cioè il confronto, serve per la scelta della forma più attendibile, che teoricamente dovrebbe essere quella del manoscritto più antico, ma non sempre la teoria trova corrispondenza nella pratica. Lo stesso mi accingo a fare con l’autore di Castaliae stillulae, sfruttando, proprio il titolo completo che si legge nel frontespizio (riprodotto nel secondo link di nota 2) e che di seguto trascrivo:
Castaliae stillulae quingentae quae sextum rivulum Permessi conficiunt hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Fapane à Cupetino (Cinquecento gocce di poesia che formano il sesto affluente del Parnasso [fiume sul monte Elicona sacro alle Muse], ciòè degli epigrammi di Giuseppe Domenichi Fapane da Copertino). Questa prova schiacciante (quasi un autografo, più avanti ne vedremo un altro) del doppio cognome, trova conferma nella lettera indirizzata da Antonio Muscettola ad Angelico Aprosio, custodita nella Biblioteca dell’Università di Genova (Ms. E.IV.14, Muscettola Antonio), che di seguito riproduco, mettendo in rilievo con la sottolineatura il dettaglio e trasctivendone la parte che ci interessa.
… Appena giunto in Napoli, mi sono accinto a servir Vostra Paternità e perché so quanto le siano care le lettere degli amici, ho dolcemente violentato il nostro Battista, il Crasso, a risponderle, come vedrà dall’incluse. In quanto alle notizie per l’Atene Italica, speriamo mandargliene a dovizia. Per Giuseppe Domenichi, tutte l’opere sue sono stampate in octavo. La parte prime in Lecce appresso Pietro Michiele l’anno 1654 da lui dedicata alla Maestà d’Apollo. La seconda in Napoli presso Luca Antonio de Fusco, 1658 all’illustrissimo don Giovanni Vargas. La terza in Padova per Paulo Frambotto ad Alomso Vargas Principe di Carpino, Duca di Cagnano. Con questo la riverisco ..
La citazione del 1658, data di pubblicazione del terzo libro, ci consente di collocare cronologicamente la lettera tra dopo il 1659 (data in cui uscì il terzo libro). Importante, ai fini di questa indagine, è il fatto che i precedenti citati Battista e Crasso sono cognomi (con i rispettivi nomi di Giuseppe e Lorenzo) e sarebbe strano che Domenichi non fosse la prima parte di un cognome.
A questo si aggiunga che in tutti i componimenti del nostro non facenti parte di Castaliae stillulae e pubblicati sparsamente in altre raccolte di vari autori coevi (una sorta di antologia è nel primo link segnalato in nota 2, ma i successivi non pochi rinvenimenti mi hanno convinto dell’opportunità di un aggiornamento, che fornirò a breve) compare sempre Giuseppe Domenichi e l’assenza di Fapane dà la certezza che Domenichi era il cognome, anche se è poco probabile che, a questo punto un po’ di ironia non guasta (come, spero, quella che evoca l’ambientazione della vignetta della prossima seconda e ultima puntata, alla cui lettura nessuno vorrà rinunciare …), che Fapane fosse il soprannome legato all’attività di fornaio esercitata non da lui ma da qualche antenato.
E ppure, nonostante questo, le varianti, sia pure di epoca posteriore, non mancano.
In Nicola Toppi. Biblioteca Napoletana, 1678 a p. 172 si legge Giuseppe Domenico Fapano (sic!), più avanti (p. 245) Domenichi Giuseppe, che infine nell’indice generale (s. p.) diventa Fapane Giuseppe Domenichi.
In Domenico De Angrelis, Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710: nella parte finale, pagina non numerata, dell’elenco dei letterati che l’autore si riprometteva di trattare nella prima parte di Istoria de’ scrittori salentini, opera che mai vide la luce, si legge Giuseppe Domenico Fapane.
In Giovanni Bernardino Tafuri, Serie cronologica degli scrittori nati nel Regno di Napoli in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, tomo XVI, Venezia, Zane, 1738, p. 206: Giuseppe Domenichi Fapane.
In Camillo Minieri Riccio, Notizia delle accademie istitute nelle provincie napolitane, in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 294: Giuseppe Domenichi Fapane.
In Napoli nobilissima, volume XIV, fascicolo II, s. n. Napoli, 1905, p. 27: Giuseppe Domenichi Fapane.
In Michele Maulender, Storia delle accademie d’Italia, Cappelli, Bologna, 1930, p. 10: Giuseppe Domenichi Fapane.
In Luisa Cosi e Mario Spedicato, Vescovi e città nell’epoca barocca, Congedo, Galatina, 1995, p. 122: Giuseppe Domenico Fapane.
In Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto a cura di a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999: Giuseppe Domenichi Fapane.
In Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza e F. Rizzo, Congedo, Galatina, 2003, p, 12: Giuseppe Domenico Fapane.
In Le antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 91: Giuseppe Domenico Fapane.
Dalla collazione, lasciando da parte il Toppi che con le sue tre varianti, soluzione diplomaticamente irresponsabile, mostra, facendo onore non al cognome del copertinese ma al suo, di aver toppato, risulta che merita attenzione il Domenico del De Angelis. Egli mostra di intenderlo come traduzione del Domenichi del titolo del libro del copertinese. Anche se la forma latina di Domenico è Dominicus (il cui genitivo è Dominici) sono attestate fin dal secolo XIV le varianti Dominichus (con genitivo Dominichi) e Domenichus (con genitivo Domenichi). Da questo probabilmente è nato il Domenico del letterato leccese contro il Domenichi che abbiamo visto ricorrere puntualmente nella cronologia a lui precedente.
C’è da aggiungere, dettaglio non secondario, che sicuramente la maggior parte della vita, come tanti letterati del suo tempo, il Fapane la trascorse lontano da Copertino e che i rapporti stretti con l’ambiente napoletano, del quale il Muscettola della lettera è uno dei rappresentanti, come tutti napoletani sono gli altri letterati (Giuseppe Campanile, Baldassarre Pisani, Tommaso di S. Agostino e Pietro Casaburi Urries, per loro vedi il primo link di nota 2), tutti suoi contemporanei, che lo ricordano come Giuseppe Domenichi Fapane.
E, a dare poca credibilità al Giuseppe Domenico Fapane del salentino De Angelis c’è il Giuseppe Domenichi di un altro letterato salentino, Giuseppe Battista di Grottaglie (pure per lui vedi il link appena segnalato), contemporaneo del copertinese e posteriore, dunque, al De Angelis. Appare credibile che essi abbiano concordemente propalato un dato fasullo? Fuori gioco, per quanto prima detto, resta il Toppi che, pur essendo nato a Chieti, trascorse la parte più significativa della sua vita a Napoli, dove morì.
Se il Domenichi del frontespizio di Castaliae stillulae (al pari di Iberi fulminis scintilla breuia poemata. D. Iosephi Domenichi Phapanis a Cupertino. Poetae, et academici furibundi, Micheli, Lecce, 1654) continua a lasciare qualche dubbio, la pistola ancora fumante il valore di cognome di Domenichi la offre il frontespizio della terza ed ultima opera pubblicata autonomamente (le altre due sono quelle che avevo appena citato), quasi una seconda (non nel senso di alternativa) firma, dopo la prima di Cataliae stillulae.
Si tratta di Musarum lessus in obitu. Iosephi Baptistae. À Iosepho Domenichi, Cavallo, Napoli, 1675 (Il pianto delle Muse in morte di Giuseppe Battista. Da Giuseppe Domenichi). Se Domenichi fosse stato nome, avremmo letto, À Iosepho Domenico(o, al limite, Domenicho) e, oltretutto, l’assenza di Fapane conferma la natura di cognome di Domenichi.
La demolizione dell’enigmatico del titolo è stata completata. Mi auguro che la mia fatica serva almeno ad apportare la dovuta correzione almeno ai due cataloghi considerati un punto di riferimento3. Appuntamento a breve con l’enigmista.
1 Traduzione: Gocce di poesia. Castalia è una fonte che prende il nome da quello della ninfa che in essa si gettò per sfuggire alla libidine di Apollo. Secondo una variante del mito fu Apollo a trasformarla in fonte conferendo alle sue acque il potere d’infondere ispirazione poetica a chi avesse bevuto le sue acque.
Sino a non molto tempo fa l’unico pittore conosciuto del tardo manierismo napoletano a Muro era, secondo quanto si evince dall’Antonaci, il neretino Donato Antonio D’Orlando con le tele della Madonna con bambino tra il Battista e San Francesco (firmata e datata 1596), il San Giovanni Battista (senza firma) ed il Perdono di Assisi (datata 1608, senza firma) conservate nella chiesa di Maria S.ma Annunziata matrice della città[1].
Da buon murese e per motivi di passione e studio, essendo al termine degli studi universitari in beni culturali, ammiro di frequente queste tele e spesso mi son domandato come mai una delle tre tele, il Perdono di Assisi fosse, a mio parere, diversamente bella dalle altre due.
Anche il De Giorgi ne aveva intuito la diversa bellezza e scrive, nei Bozzetti di Viaggio: “Due altri quadri sono collocati… (nella chiesa dell’Annunziata)…, uno S. Gio. Battista, l’altro Gesù Cristo che benedice S. Francesco (il Perdono). Sotto quest’ultimo si scorgono, alla base del dipinto, le effigie votive dei donatori. Sono del 1608 e di buon pennello, specialmente l’ultimo dei summentovati”.
Dopo questo breve preludio arrivo immediatamente all’oggetto del contendere.
Propenderei ad attribuire la tela del “Perdono di Assisi” [fig. 1] non più al D’Orlando bensì al Catalano, anche alla luce delle molteplici prove di seguito fornite.
Anzitutto faccio una sintetica descrizione dell’opera: la scena è pensata geometricamente; l’ipotetica metà verticale, che bipartisce in due la composizione del Perdono, a prima vista sembrerebbe passare tra le figure di Maria e Cristo con la mano destra alzata (vertice dell’altrettanto ipotetica piramide che inscrive le due figure), e per la croce greca al centro dell’altare damascato, su cui esse sono assise in trono.
In realtà la linea, che bipartisce la composizione, passa attraverso il centro della figura della Vergine ed il mazzo di fiori posto davanti al San Francesco, che in ginocchio contempla a bocca aperta, quasi inebetito, le divinità sovrastanti.
Ai lati sono presenti due scenette con paesaggi riguardanti la storia del Perdono: nella parte superiore schiere d’angeli (alcuni musicanti) completano l’opera bilanciandola ed impreziosendola; in quella inferiore i tre busti dei committenti.
Ora addentriamoci nell’analisi delle prove.
-Dato di non poco conto, è la presenza a Muro sempre nella chiesa matrice, della tela della Madonna con bambino tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola, attribuita tempo fa da Mario Cazzato al gallipolino Catalano[2] ritenuta dall’Antonaci di autore ignoto (opera su cit.).
Grazie a M. Cazzato sfatata è quindi la presenza del solo D’Orlando come unico pittore conosciuto ed attivo tra il 500 e 600 a Muro (oltre la tela della Madonna del Carmine attribuita allo Strafella, ritrovata poco tempo fa dopo il furto del 1987).
Perciò, ad arricchire la schiera degli artisti che hanno onorato Muro con le loro opere, v’è già il Catalano artista locale tra i più interessanti se non il più importante del suo periodo storico.
La Madonna con bambino è la prova del contatto dei committenti muresi col Catalano. Altro dato interessante è che la tela, anche se non datata, non è stata compiuta prima della canonizzazione di San Carlo Borromeo, anno 1610, pertanto realizzata dopo il Perdono di Assisi, datato 1608 che diviene la prima opera murese conosciuta del gallipolino.
-Anche se simile è l’impostazione originale nel trattare il Perdono, in confronto con le altre due tele del D’Orlando, non si ritrova però quello stile leggermente “arcaizzante” del modo di presentare i personaggi del neretino.
La linea delle figure del Perdono si presenta meno rigida, più fluente e sinuosa, bellissima ed elegante nei tratti dei visi e dei panneggi, specie nella maniera di dipingere le varie figure angeliche e le nubi.
Tipiche del Catalano le capigliature bionde ed ondulate delle creature celesti leggermente stempiate (quasi una “firma” dell’artista), disposte in cerchio sovra le nuvole, anche se nel gruppo di destra si potrebbe ipotizzare l’intervento della bottega.
-Altra “firma” si ritrova nelle scene con paesaggi poste ai lati dell’opera, specie nella città che è sita in alto a destra, usuale paesaggio fantastico dell’artista.
Quasi costante è la presenza dell’edificio a pianta centrale con cupola e relativa lanterna e la chiesa con facciata a capanna di gusto romanico, strutture simili a quelle dipinte nella tela dell’Annunciazione nella chiesa del Rosario, a Gallipoli.
Pongo all’attenzione dei lettori due curiosità:
1) questi paesaggi sono tanto interessanti che un altro grande pittore presente a Muro, il settecentesco Serafino Elmo, nella sua gigantesca tela del David che danza davanti al trasporto dell’Arca (posta nel coro della chiesa matrice) riprende quasi fedelmente l’architettura che il Catalano dipinse sulla tela della Santa Caterina d’Alessandria (conservata nell’oratorio di S. Giuseppe, a Gallipoli) specie nella struttura difensiva della torre; tutto questo quasi 130 anni dopo!
2) non manca a Muro anche la copia di un’altra tela del Catalano, la Salita al Calvario, il cui originale e conservato a Scorrano: anche se riprende in massima parte lo schema compositivo della tela scorranese, viene però realizzata col gusto di un’icona bizantina, opera curiosa e affascinante d’un artista “Bizantino-Naif”, esempio ultimo in città del gusto stilistico orientale del meridione; già il Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese menziona queste pitture in tal modo: “…sono da rimarcarsi alcune pitture di antichissima data condotte alla maniera greca del mezzo tempo”.
-Altra caratteristica del nostro artista è di riutilizzare in più opere i cartoni o disegni preparatori; questo lo si noti nelle figure del San Domenico e del committente nella tela di Madonna con bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino [fig. 6], ex chiesa dei domenicani: identiche le teste effigiate di profilo del nostro San Francesco e del San Domenico matinese, come identica la postura dei committenti maschili, specie nelle mani giunte, tanto simili da sembrar fratelli (per il nostro Perdono, l’opera matinese attribuita giustamente al Catalano, rappresenta quasi una pietra di paragone che avvalora le attribuzioni di entrambe.
Anche uno degli angeli posti a destra della Madonna nella tela murese è identico ad uno degli angeli posto a destra sopra l’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione della chiesa matrice di Specchia, come simili sono alcuni degli angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli.
Si noti che equivalenti sono i posti, ed in parte le posture, che queste figure hanno nelle rispettive opere.
Ora è fuor di dubbio che questa tela appartenga al Catalano; possiamo anche escludere che essa appartenga al D’Orlando che imita lo stile del gallipolino, perché semmai così fosse, in questa opera esso si sarebbe in realtà annullato come produttore d’opere originali, divenendone solo un “emulo-falsario” e verrebbe meno pure la loro ipotizzata rivalità, fatto questo che dichiarerebbe la “vittoria”, in termini artistici, del Catalano sul D’Orlando.
Pertanto possiamo ora esser certi della veridicità di quanto scritto, ed affermare che il Perdono di Assisi sia anche tra le migliori opere realizzate dal Giandomenico Catalano.
A Muro la partita tra i due grandi pittori, alla luce dei fatti sin ora scoperti, ebbe com’esito un salomonico risultato di parità: CATALANO – D’ORLANDO: 2 a 2.
(pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 1, ottobre 2003, p. 2)
Note
[1] cfr. A. Antonaci, Muro Leccese Storia e Arte, Galatina 1994, p. 364.
[2] cfr. E. Pendinelli – M. Cazzato, Il Pittore Catalano, Alezio 2000, p. 41.
La sapienza antica aveva sentenziato Faber est suae quisque fortunae (Ognuno è l’artefice della propria sorte), ma, pur condividendo il concetto in essa compreso della responsabilità personale, mi sembra ingiusto attribuire quest’ultima sempre e comunque, magari anche alla memoria, ad ogni essere umano, sia nella buona che nella cattiva sorte, poiché fattori vari, casuali e imprevedibili possono intervenire anche post mortem in un senso o nell’altro. Questo vale anche per i beati e i santi, compreso il figlio di Copertino. Se, per esempio, il missionario frate francescano Pedro Font nel 1776 non avesse accompagnato, per giunta anche nel ruolo di cartografo, Juan Bautista de Anza nella sua spedizione e non avesse chiamato un fiume da loro incontrato arroio de san José de Cupertino (di seguito la targa del 1968 che ricorda l’evento), oggi la città californiana avrebbe un altro nome e un santo non sarebbe restato coinvolto, a sua insaputa, nel fenomeno, spesso tutt’altro che santo o, quanto meno incruento, dell’esplorazione, prima tappa della colonizzazione e, poiché l’appetito vien mangiando e il cattivo esempio ispira sempre emulazione, del colonialismo, fenomeno antichissimo, che oggi si manifesta con modalità sempre più sofisticate e subdole, di cui sono interpreti privilegiate multinazionali che all’agricoltura sottraggono non solo braccia ma terreni su cui installare impianti di produzione di energia alternativa a quella di origine fossile, in primis la fotovoltaica, in cui il silicio la fa da padrona (e Cupertino è nel territorio della Silicon Valley, anche se oggi è la Cina a dettar legge), con l’ipocrita quanto criminale intento di cavalcare i timori per la salute dell’ambiente ai fini di un sempre maggiore profitto, con la connivenza, ancor più criminale, di governi (come il nostro con gli ultimi provvedimenti in materia del decreto semplificazioni) preoccupati solo, da decenni a questa parte, di mantenere, se non consolidare, il potere sciacquandosi la bocca con la parola democrazia e cercando il consenso con generiche promesse e comodi ammiccamenti.
This arroyo honoring San Joseph, patron saint of flight and students, was first discovered and traversed by Spanish explorers in 1769. On March 25-26, 1776 Colonel Juan Bautista de Anza made it his encampment n. 99 as mapped by his cartographer Padre Pedro, before continuing on to the San Francisco Bay Area where he initiated steps to found a colony, a mission and a presidio.
California reistered historical landmark nu. 800
Plaque placed by the state department of parks and recreation in cooperation with the Cupertino historical society inc. may 29 1968
(Questo fiume in onore di San Giuseppe, santo patrono del volo e degli studenti, fu scoperto e attraversato per la prima volta da esploratori spagnoli nel 1769. Il 25 e 26 marzo 1776 il colonnello Juan Bautista de Anza ne fece il suo accampamento n. 99, come mappato dal suo cartografo Padre Pedro , prima di proseguire verso l’area della Baia di San Francisco dove iniziò i passi per fondare una colonia, una missione e un presidio. Targa posta dal dipartimento di stato dei parchi e delle attività ricreative in cooperazione con la Cupertino historical society incorporation 29 maggio 1968)
Se al santo nessuna responsabilità va in questo caso ascritta, al beato, invece, va riconosciuto il merito di una notorietà che, prima ancora di approdare nella modalità che abbiamo visto in America, si era già manifestata, comunque ben oltre i nostri confini, come mostra, oltre a quanto segnalato col link iniziale, il frontespizio, di Diarium seu tractatus asceticus, quo novitii actiones suas diurnas rectificare docentur1 di Benedetto Sigl, uscito per i tipi di Enrico Ignazio Nicomede Hautt a Lucerna nel 1761 (segue il frontespizio).
Le pp. 358-366 sono dedicate al nostro (di seguito la 358).
PICCOLO RITO DEL BEATO GIUSEPPE DA COPERTINO
AL MATTINO
O Signore, aprirai le mie labbra versetto 17° del Miserere
e la mia bocca rcconterà la tua lode.
Dio, in mio aiuto etc. Gloria al Padre ertc.
Inno
O Giuseppe, ornamento,
luce e decoro dell’Ordine!
Tu già dal fiore dell’età
ciò che separa da Dio
lo espellesti competamente
dal tuo grande cuore .
Il candore della tua vita
era noto solo a Dio.
Tu scegliesti Maria,
perché allora ti difendesse,
mentre cerca di inghiottirti
lo spirito infernale.
Antifona
Chi ha perso la sua vita per me, la troverà.
Prega per noi, Beato Giuseppe,
affinché siamo resi degni etc.
_______________
1 Diario o trattato ascetico dal quale i novizi sono edotti a correggere le loro azioni quotidiane.
Con la morte di Alessandro III nel 1706, si estingueva a Novoli la stirpe dei Mattei che per circa duecento anni avevano esercitato la loro signoria nel paese. Subito il regio fisco dispose per l’apprezzo dei feudi della contea che nello stesso anno passò a Cornelia Brayda, vedova di Francesco Antonio Paladini e cugina per parte di madre dei Mattei.
Cornelia, nonostante le cospicue ricchezze ereditate dal padre, marchese di Rapolla e dal marito, non si ritenne capace di affrontare le dissestate condizioni economiche dei due suoi nuovi possessi, sicché restituì terre e titoli alla real Corte che, nel 1713, vendette i territori in questione a Felice Carignani.
Quest’ultimo nell’anno successivo ottenne per la contea di Novoli l’elevazione a ducato. I Carignani tennero Novoli per 92 anni e furono dunque gli ultimi signori del luogo sino alla soppressione della feudalità applicata nel Salento nel mese di agosto del 1806. A noi Novolesi, la dinastia dei Carignani (a differenza di quella dei Mattei, feudatari dal 1520 al 1706) ci è nota soprattutto “solo per l’avidità” di inflessibili feudatari, i quali col tempo avevano accresciuto a dismisura il loro arbitrio e la loro rapacità, lasciando in quei tempi il popolo nella miseria e nell’ignoranza. Basti ricordare al riguardo la dura controversia che vide protagonisti Giuseppe Oronzo Turfani di Lecce, possessore di alcuni poderi nel feudo di Nubilo (Villa Convento) e i fratelli D. Paolo e D. Luigi Mazzotta, Novolesi, possessori nel feudo di detta terra, i quali l’11 gennaio del 1805 contestarono al duca Giuseppe, presso la Camera della Sommaria, una quarantina di esazioni indebite fra decime, tributi e vessazioni ovvero “quei supposti diritti nati unicamente dall’anarchia feudale si sono su quellaignorante popolazione fino agli ultimi tempi accresciuti ed appesantiti dalla prepotenza baronale col timore e colle vessazioni”, contestazioni (di cui esiste un’importante memoria legale) che dettero torto al Duca che fu diffidato di esercitare il suo strapotere.
Gli approfonditi studi di Mario Cazzato e Salvatore Errico sul palazzo baronale di Monteroni nonché i contributi di Giovanni Greco sul collezionismo artistico del ‘700 salentino, ci inducono ora a riconsiderare certamente il loro ruolo e a rivalutarlo in relazione ai numerosi aspetti inediti su tale famiglia e sulle loro umane vicende personali che evidentemente rimangono ancora nascoste (e quindi tutte da chiarire) tra le pagine ingiallite degli atti notarili. Ora sappiamo infatti (grazie agli importanti documenti rintracciati da M. Cazzato e S. Errico) che quando nel 1780 i Lopez acquistarono il leccese palazzo Giaconia-Carignani (per 6000 ducati) attaccato alla chiesa leccese di S. Maria degli Angeli, dai fratelli Giovanni (duca di Novoli) e Giovanni Battista Carignani, trattennero tra l’altro anche una straordinaria quadreria che i duchi di Novoli avevano costituito nei decenni precedenti e che dimostrano una spiccata inclinazione di questa famiglia ducale al collezionismo. La consistenza di tale dotazione pittorica (che risulta da un contratto d’affitto del 1744) era di ben 368 quadri “tra grandi, piccoli e tondini”, con opere della scuola del Lanfranco, con opere di Luca Giordano, della scuola del Vaccaro, del Bianco di Casalnuovo, del Ribera, che dimostrano anche che i Carignani erano una famiglia di committenti avveduti e non casuali. Altri episodi orientano in questa direzione, come l’invio da Napoli a Lecce nel 1696 della splendida tela con S. Gregorio Taumaturgo di Paolo De Matteis per l’altare maggiore della cappella del Seminario leccese, acquistato proprio da Giovanni Carignani, fratello di Felice e primo possessore della famiglia del feudo di Novoli, o l’acquisto nel l740 (da parte di Antonio Carignani) dal marchese di Ugento Domenico D’Amore di ben dieci tele in cambio dell’estinzione di un consistente debito ammontante ad alcune centinaia di ducati, valutate da Serafino Elmo “esperto et abile in materie di pitture” in 865 ducati. Che la famiglia Carignani (originaria di Taranto e le cui più antiche memorie risalgono al 1309) debba essere collocata dunque in ben altro “splendore” e “prestigio” sono inoltre diverse testimonianze letterarie che dimostrano appunto quanto tale famiglia (evidentemente per la loro vitalità ed impegno culturale, per il loro sentimento artistico) fosse tenuta in grande considerazione da letterati, storici, artisti (e non per le prepotenze feudali instaurate dai propri componenti). Le riporto sinteticamente qui di seguito riservandoci in altra occasione un necessario ed opportuno approfondimento.
Nel 1726, il letterato napoletano Saverio Pansuti “colto anzi maraviglioso ingegno” consacrava all’illustrissima signora D. Marina Della Torre, Marchesa di Novoli, Baronessa di Carignani, la tragedia “La Sofonisba” presso i Torchi di Domenico Antonio e Niccolò Parrino. La Signora Duchessa D. Marina, moglie di Francesco Carignani, come risulta dalla lettera dedicatoria in questo libro (ed in quello di cui parleremo successivamente) si era degnata di accettare “e sotto la sua protezione tenere” ben quattro tragedie di tale autore, tra cui “Il Bruto” e la “Virginia”. Nel decantare le lodi umane e nobili della baronessa (la cui famiglia era imparentata a quella nobilissima degli Spinola), l’autore scrive tra l’altro: “…..ben da voi questo nobilcomponimento doveva sì bel lume ricevere, che tanti Eroi, quanti Progenitori vantate, stelle di maggior grandezza del chiaro cielo della Liguria, che ben due volte il trono di quel Venerabile Senato occuparono. Congiunto il vostro chiaro sangue a quel della nobilissima famiglia Spinola, di cui fu germoglio l’inclita vostra madre: Famiglia le di cui chiare gesta la Liguria, l’Italia, e il Mondo tutto illustrarono, e che i bastoni di supremo comando, e le porpore quasi, che indivisibili propietadi in lei per natura contengonsi; accoppiandosi altresì alla Vostra la nobiltà del Signor marchese di Novoli, vostro degnissimo sposo, nobile dell’illustre città di Taranto, il quale per antico retaggio de’ suoi non mai fin’ora interrotti Progenitori, annovera tredici Baroni prima di lui nel possesso del suo nobilfeudo, da cui questa chiara ed antica famiglia à presso il cognome; prerogativa in vero, che pochi Baroni posson vantarsene, ricolmo poi d ‘onori dal nostro clementissimo Cesare, che al riflesso dè suoi meriti, à bene esercitata fin qui verso di lui; però non già resa stanca la sua Reale munificenza. Ma quindi a queste sin’ora addotte riflessioni un’altra di non minor peso a ciò fare mi spinge, ed ella si è il recarmi a memoria il gran numero dè benefici, i quali dalla vostra Illustrissima Casa tutto dì mi prevengono, uniti all’amore, che io godo di vivere all’ombra della vostra onorata protezzione….Nulla però di meno mi do a credere, che non vi apporti dispiacenza, che per un certo sfogo di gratitudine almen colle parole un qualche saggio io ne palesi e diffonda”.
Nel 1737, il sacerdote D. Giacomo Simidei, dottore di filosofia e di sacra Teologia, Patrizio di Brando, Diocesi di Mariana nella Corsica dedicava all’illustrissimo signore Fra Felice Carignani dei Duchi di Novoli, cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano la sua importante e corposa (pagg. 575 più indici) opera “Compendio della Storia degli Eresiarchi…” (con una descrizione del Regno di Corsica stampata a Napoli per il Parrino). Importanti sono i riferimenti nella lettera dedicatoria (datata Napoli 20 aprile 1737 a firma dello stampatore) alla Duchessa D. Marina della Torre, madre di Felice “Dama di alto e chiaro intendimento oltre il suo sesso fornita” e moglie di Francesco Carignani Duca di Novoli e marchese di Carignano; nonché le annotazioni storico-nobiliari sulla stessa famiglia Carignani che “può andar fastosa e superba per aver dato al mondo un albero che frutti apporta al nostro regno di gran decoro” e su quello dei della Torre unita alla (per ben due volte sul ducale trono del Senato di Genova) famiglia degli Spinola. Scrive infatti lo stampatore Nicola Parrino “E non temo in questo dire, che io dico cosa non vera: imperiocchè in sapere con che gara Voi cogli altri fratelli D. Giulio e D. Giovanni (Giovanni è d’ingegno pronto e di spirito vivace e brioso) vi siete insieme con esso loro inoltrato nelle notizie e delle lettere amene, e di più Scienze nel celebre seminario di Siena, che a coltivare e ammaestrare in sé non raccoglie, da varie Parti, anche Oltramontane, se non se chi scorge d’intelligenza vasta, acuta e penetrante; ed un vedere ora, come né studi sottili e profondi della Matematica (unica a farci daddovero sapere) spiega voli ammirandi la velocissima Vostra Mente fatto io Indovinatore verace, già miro nell’aria, del vostro volto dipinte le prodezze e le gagliardie dello Spirito Vostro nell’affrontare, combattere ed annientare il più fiero nimico di Nostra Santa Fede. E queste generose operazioni, tanto piùrare e meravigliose saranno quanto più proveranno dalla difficultà delle Imprese, alle quali sempre si sono posti i valorosi Cavalieri della Sacra Militare Religione di Malta, da che incominciarono a mettere freno alla insolente Potenza Ottomana, la quale, ora di niuno altro più che di loro tema e paventa”.
Nel 1741, per i torchi leccesi di Domenico Viverito, Nicola Caputi stampava il suo Opusculum hoc Historico-Mechonicum intitolato De Tarantulae Anatome et Morsu dedicandolo all’Excellentisimo viro/ D. Josepho/ CARIGNANO / E Sanctae Mariae de Novis Ducibus Tripudii/Dominis, decimae quartae Aetatis Carignani / Feudi Baronibus/ Nobilissimo Tarenti Patrizio./ Morum Probitate, Pritatis ornamento/Scientiae Solertia clarisima…. Nicola Caputi, discepolo del famoso Nicola Cirillo, nacque in Campi intorno al 1695. Si laureò in Napoli in medicina ed esercitò la professione in Lecce con grande successo. Nel 1747 faceva parte anche (oltre, che della R. Accademia Napoletana) dell’Accademia degli Spioni e in Lecce tenne scuola di fisica, matematica, medicina e scienze naturali. Morì a Lecce nel 1761. Al Carignani, il Caputi, in questo testo dedica anche un sonetto del seguente tenore “….quella virtù, che tanto ormai prevale, e in te soggiorna, e ti fa gire onusto di tanto onor che il Secolo vetusto correggi, e al nostro dai vanto immortale… quella sarà, se tu proteggi e guidi queste scipite, e mal vergate carte….”.
Nel 1750 il noto scrittore Gio:Bemardino Tafuri da Nardò pubblicava in Napoli per il Mosca, il tomo III Parte I della sua famosa opera Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli dedicandola a Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Fra. D. Felice di Carignano dell’Ordine Gerosolimitano. Nella lettera dedicatoria è presente oltre che un’importante ricostruzione dinastica della famiglia e dei suoi più illustri componenti, un vero e proprio “ritratto” del protettore (dall’eroico talento ed esemplare perfetto di cavaliere) a cui l’opera è dedicata (già ricordato, come si è scritto, in un’altra precedentemente nominata) con particolari inediti sulla sua vita (sappiamo ad esempio che Felice oltre ad aver dato “gloriosamente il nome nel Sagro Ordine Girosolimitano” aveva tenuto con insigne valore il governo di una galera in qualità di capitano) e di cui “disdicendomil’impareggiabile vostra modestia, ch’io più m’inoltri nel meritato vostro elogio, contentatevi almeno che rammentando a voi steso la generosa vostra grandezza di cuore, vi supplichi a ricevere benignamente questo libro, che pongo sotto gliinvidiabili auspici del Vostro Patrocinio, con quel vero profondissimo ossequio col quale mi do l’onore di dirmi diV. Eccellenza”.
In questo percorso di mecenatismo letterario ricordiamo infine il raro e prezioso documento cartografico che risalirebbe alla prima metà del 1700 (appartenente ad una collezione privata) di cui abbiamo già dato notizia in altro studio) ovvero la Provincia / di Terra d’Otranto / delineata dal Magini /ampliata dal Rossi / e d’ora a miglior perfezione ridotta / secondo lo Stato Presente / dedicata / al Merito dell’Ill.mo Sig.re Fra D. Felice / Carignani de’ Duchi di Novoli Cavaliere dell’ / Ordine Gerosolimitano. La carta che nel cartiglio reca al centro lo stemma nobiliare dei Carignani, è probabilmente un unicum (Novoli è presente con il toponimo Novuli), misura mm 440×540 e sembra facesse parte anche di un atlante o di qualche testo poiché sul margine superiore destro vi è riportato la dicitura pag.585 con a fianco il n° 18 riferito forse alla numerazione delle tavole.
Felice Carignani era nato a Napoli da Giulio Cesare e Francesca Alfarano Capece. Quando i feudi di Novoli e del Convento, dopo i Mattei, furono messi in vendita, fu proprio Felice Carignani a dare l’incarico al suo agente Nicola Latronico di acquistarli. La stipula venne rogata dal notaio Giuseppe Raguccio di Napoli l’11 febbraio 1713. Felice morì a Napoli il 3 marzo 1716.
Pubblicato in “Lu puzzu te la Matonna”, Anno VI, 18 luglio 1999, pp. 19-21.
Riferimenti bibliografici essenziali
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S. Pansuti, La Sofonisba. Tragedia, in Napoli MDCCXXVI, presso Domenico-Antonio e Niccolò Parrino.
Gio: Bernardino Tafuri, Istoria degli Scrittori nati nel Regno di Napoli, Tomo III, Parte I, in Napoli, Per lo Mosca, 1750.
G. Simidei, Compendio della Storia degli Eresiarchi, MDCCXXXVII per il Parrino in Napoli.
N. Caputi, De Tarantolae Anatome et Morsu, Domenico V. Viverito, Lecce 1741.
La vita è molto strana. È toccato proprio a me, laico fino a tal punto da considerare tutte le religioni come favolette consolatorie e illusioni nemmeno tanto pie, viste le guerre che ancora oggi scatenano, di imbattermi casualmente nel personaggio genericamente evocato dal titolo ma che ora specifico appartenere alla sfera ecclesiastica. Nello sfruttare per ricerche di altro tipo le immense risorse della rete ho acquisito un dato che ho ritenuto meritevole di essere partecipato ad altri. Forse qualcuno ha colto in quel dimenticato del titolo una nota di rimprovero. Non è così, ho solo voluto approfittare di una fortuita quanto fortunata circostanza per colmare una lacuna che nella ricostruzione del passato è sovente legata alla maggiore o minore importanza, reale o presunta, attribuita ad un personaggio, concetto che ribadirò nella domanda finale.
Se, infatti, sono ben note le figure di altri figli di Seclì del XVII secolo, quali Padre Francesco e Suor Chiara1, di Padre Marcellino nulla sapremmo se non fosse possibile leggere la sua biografia in un libro del 17322, che è, credo, l’unica fonte per chi abbia voglia e tempo di saperne di più. Anzi, alla riproduzione del frontespizio faccio seguire quella delle poche pagine coinvolte (184-186).
Abbastanza scontato è il repertorio di dettagli che ne esaltano le virtù e, purtroppo, l’unica data riportata è quella della morte avvenuta il 26 ottobre 1702 all’età di 65 anni, dato che consente di collocarne la nascita al 1637. ll titolo Venerabile Servo diDio che si legge all’inizio fa pensare ad un processo canonico di beatificazione già avviato. Se è legittimo pensare che alla data del libro non si fosse concluso, sarebbe interessante conoscerne l’esito. A costo di essere accusato di maliziose allusioni chiudo lasciando al lettore l’adesione, la contestazione o l’indifferenza che suscita la domanda: se Padre Marcellino avesse pubblicato qualcosa, avrebbe avuto la notorietà di Padre Francesco e, se fosse disceso da nobili lombi, la sua biografia avrebbe avuto l’estensione di quella di Suor Chiara, scritta in ben quattro tomi (di seguito il frontespizio del primo) da Francesco Maria Severino (de’ Duchi di Seclì, Conte di Tamarano, come si legge nella dedica)?
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1 Il primo (1585-1672), teologo, fu autore molto prolifico:
Paragone spirituale, Giacomo Gaidone, Bari 1634
Viaggio di Gierusalemme nel quale si have minuta, e distinta notitia delli Santi Luoghi, Pietro Micheli, Lecce, 1639
Discorso, e conchiusione, che la religione futura de’ catenati profetizzata dal padre frat’Ugone da Dina, e la congregatione futura de’ Cruciferi di Giesu Cristo, profetizzata da Santo Francesco da Paola, Pietro Micheli, Lecce, 1670
Regola e vita, che denno osseruare li fratelli della congregatione de’ catenati nouellamente eretta nella diuotissima citta di Gallipoli, Pietro Micheli, Lecce, 1670
Paradiso terrestre del molto reuerendo padre fra Francesco da Secli. Trattato breue, non men dottrinale, che curioso, nel quale si proua con autorita, che detto luogo durera sino al giorno del Giudicio, e che hoggi e nell’istesso essere, mel quale in principio fu piantato dal mistico agricoltore, Dio, Pietro Micheli, Lecce, 1671
Suor Chiara (1618-1693), al secolo Isabella D’Amato, era figlia del duca Francesco e della marchesa Caterina D’Acugno, feudatari di Seclì e Temerano.
2 Arcangelo da Montesarchio, Cronistoria della riformata provincia di S. Angiolo in Puglia, Mosca, Napoli, 1732.
Girolamo Marciano e i Discorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese. Contributo su una biblioteca perduta
di Gilberto Spagnolo
A Enzo Maria Ramondini.
Alla sua memoria.
Nel 1992, nel corso di una ricerca sulla storia del Seminario Vescovile di Lecce e della sua Biblioteca, la “Innocenziana”, lo studioso Oronzo Mazzotta fortuitamente si imbattè (ironia della sorte), in ben 23 cinquecentine, di cui 13 tomi stampati a Parigi da Dionigi Duval nel 1586 (che contengono “l’Opera Omnia” di S. Agostino curata dai teologi di Lovanio) e altri 10 tomi stampati a Venezia dai Fratelli Sessa nel 1596, che contengono i “Commentaria” al Vecchio e al Nuovo Testamento di Alfonso Tostati filosofo, teologo e vescovo di Avila.
Tutti i volumi, come annotato sui frontespizi, provenivano dalla “biblioteca di Alessandro Mattei”.
Improvvisamente, di fronte a una traccia così tangibile, quella biblioteca tanto decantata dal Marciano, scomparsa misteriosamente, dispersa nel nulla, tanto da far pensare a una pura e semplice invenzione del filosofo di Leverano (ospite dello stesso conte) si materializzava, assieme al suo “eruditissimo, saggio e prudentissimo principe” nelle mani di chi aveva avuto “molti interrogativi e poche certezze” al riguardo. Questo corposo numero di libri proveniente “dalla biblioteca di Alessandro Mattei” è stato, dopo il Mazzotta, censito nel 1997 da Lorella Ingrosso e nel 2004, ha avuto un “posto di rilievo” nell’accurato lavoro archivistico condotto con perizia e con lodevole impegno da Maria Elisabetta Buccoliero e Francesca Marzano, studio che valorizza il patrimonio antico (incunaboli e cinquecentine) della Chiesa di Lecce.
La “vicenda” della Biblioteca Mattei, del suo “Museo di libri” di cui ci dà informazione il Marciano che trascorse l’ultimo periodo della sua vita in un “rapporto privilegiato” con il giovane Alessandro, si arricchisce di una nuova e significativa testimonianza, di una “traccia letteraria” (se così possiamo definirla) che oltre a dare un ulteriore riscontro – seppure indiretto – sulla sua esistenza, fornisce soprattutto un certo valore sulla “ricerca delle fonti” del Marciano stesso che qui a Novoli (vi dimorò dal 1615 al 1620) ultimò la sua Descrizione di Terra d’Otranto discorrendone con Alessandro e usando i suoi libri (vi era, infatti, venuto perché “attratto dalla fama del suo sapere e dalla sua ricca biblioteca”).
Scrive Natalia Aspesi, in una recensione su un interessante libro di Alexandra Lapierre che “i colpi di fulmine che fanno innamorare gli studiosi avvengono nella solitudine degli archivi sfogliando vecchie carte consumate, col cuore che batte per una scoperta, una rivelazione, una traccia, una domanda senza risposta, un segreto che si svela”.
Qualcosa di simile mi è personalmente accaduto qualche anno fa quando ho potuto consultare un libro antico bellissimo (appartenente a un privato che lo ha poi immesso sul mercato dell’antiquariato librario) di grande rarità e con un ricco e pregevole apparato figurativo. Il libro in questione è l’opera cinquecentesca (1569) del gentiluomo francese Guillaime Du Choul intitolato DISCORSO / DELLA RELI/GIONE ANTICA / DE ROMANI, / Insieme un’altro (sic) Discorso della Castrame(n)tatione, et / disciplina militare, Bagni, essercitj an-/tichi di detti Romani, / Composti in Franzese (sic) dal S. Guglielmo Choul, Gentil huomo / Lionese, a Bagly delle Montagne del Delfinato, / et tradotti in Toscano da M Gabriel Simeoni Fiorentino. / Illustrati di Medaglie & Figure, tirate de i marmi antichi, / quali si trovano à Roma, & nella Francia / IN LIONE, / APPRESSO GUGLIELMO ROVILLIO. / M.D.LXIX.
Da ricerche effettuate, l’opera di DU CHOUL, era appartenuta, come dimostrano le iniziali R.T. incise in oro con il titolo sul dorso verde di una rilegatura ottocentesca, a Raffaele Tarantini (1850-1912), sindaco di Novoli dal 1884 al 1889. Il Tarantini, come abbiamo ricordato in altra occasione, ebbe cura di trascrivere integralmente e fedelmente nel 1876 il testo stampato dall’arciprete Oronzo De Matteis sulla parte riguardante la descrizione di Novoli del Marciano estratta dal manoscritto fatto nel 1783 dal sacerdote cartografo Giuseppe Pacelli di Manduria, facendolo precedere da un frontespizio vergato con il titolo Memorie Antiche di Novoli. Il libro è di notevole importanza per diverse ragioni. Il Du Choul è innanzitutto espressamente citato (anche se non in maniera perfettamente corretta) dal Marciano stesso nel I Libro (“Del Sito e delle Province d’Italia”) Cap. V della sua “Descrizione” e precisamente nel “Della Venuta di Messapo in Italia, dal quale ebbe la provincia il nome di Messapia, del suo Padre Nettuno, e delle Antiche Lettere Messapie ritrovate nel Paese”. Non solo! II Marciano lo utilizza (come si può constatare nelle illustrazioni riportate) ampiamente trascrivendone pari pari il testo a proposito della descrizione delle “monete tarantine” e sulla “venuta di Messapo figlio di Nettuno e dal quale questa nostra Provincia ebbe il nome di Messapia”.
Ma ancora più significativo (se non clamoroso) è il suo utilizzo (come si può verificare), che ne fa nella descrizione di S. Maria de Nove a proposito “di un antico costume de’ Romani” che soleva celebrarsi “il secondo di Pasqua … in un’antica chiesa che ivi è di S. Niccolò”.
Del libro di Guillaime Du Choul vanno ancora messi in evidenza altri due aspetti. Nel Discorso De Bagni et Essercitii Antichi De Greci et De Romani la splendida tavola xilografata a piena pagina che illustra il “LABRUM” (“Bagno in volta degli Antichi Romani”), nel suo “linguaggio architettonico” della volta «ad ombrello», essa richiama incredibilmente l’ottagona chiesa novolese del Salvatore (poi di S. Oronzo) voluta da Filippo Mattei II (padre di Alessandro) negli anni Settanta del XVI secolo, su ispirazione del Gesuita Bernardino Realino e che ricorda, come tutti sanno, la soluzione adottata nell’abside della chiesa leccese di S. Croce realizzata dall’architetto-scultore Gabriele Riccardi per la congregazione dei Celestini, nonché artefice della chiesa del convento dei Domenicani nel feudo di Nubilo.
Ma c’è di più! Sempre nello stesso Discorso, a pag. 135, nella descrizione dei “ginnasij” e de “la Palestra” s’incontra sottolineata a penna la parola stampata a margine XYSTO che il Du Choul così spiega: Per mez(z)o questi alberi, si facevano hypetri spasseggiamenti, chiamati da Greci παραδρομεδες, al modo nostro scoperti, sotto al sole: dove il verno (quando il tempo era chiaro, bello, il Cielo sereno) gl’Athleti chiamati Xystichi; à causa del Xysto, che era coperto, scendevano per passeggiare, correre, essercitarsi. Dopo il xysto era lo stadio luogo della corsa, che era fatto in modo che ogniuno poteva vedere correre gl’Athleti: i quali erano (come scrive Giulio Polluce) tuttiquelli, che s’essercitavano nel gynnasio della palestra” (pag. 135). Il termine lo si ritrova, come è stato accertato, nell’epigrafe classico-umanistica di cui è provvista la “fontana” che nel 1700 l’ultimo dei Mattei (Alessandro III) fece erigere “al Dio dell’Ospitalità” sulla “terrazza” del Palazzo Baronale dal Cino, uno dei più importanti artefici del barocco salentino (il Cino poi nel 1704, sempre su incarico di Alessandro Mattei III, realizzerà l’altare nella chiesa del Salvatore con ai lati lo stemma dei Mattei).
Sulla “peculiarità” di questo termine “colto”, correttamente volto in «terrazza» o meglio ancora “con portico coperto”, in tempi non sospetti, ci eravamo già soffermati nel 1998 con l’amico e studioso Mario Cazzato.
Esaminando l’epigrafe, infatti, (in cui sembra condensarsi “la profonda tradizione umanistica della nobile famiglia Mattei”) si era individuato in questo termine classico un “esplicito riferimento, non solo terminologico, all’architettura classica e umanistica”. L’epigrafe di Alessandro III Mattei non era dunque “semplicemente la richiesta di onesti giorni tranquilli; esprimeva invece un concetto più complesso: la sua dimora che non aveva voluto imponente e che invece aveva ornato con la fontana e col portico, offriva agli aristocratici ospiti perché, confortati dall’«ozio onesto», insieme potessero ricreare una perduta e vagheggiata dimensione umanistica”.
In conclusione. Girolamo Marciano ebbe tra le mani, anzi lesse i Discorsi del Du Choul servendosene ampiamente per la sua Descrizione (sono comunque tantissime le citazioni bibliografiche di altri testi, oltre al Du Choul che certamente il Marciano, se li possedeva, non poteva portarsi appresso nelle sue “peregrinazioni” per fare le sue ricerche e i suoi studi).
“Perché” un esemplare di questo libro di straordinaria bellezza e importanza per quei tempi si trovasse a Novoli, come fosse pervenuto nelle mani di Raffaele Tarantini (che tra l’altro ebbe “interesse” per le patrie memorie – la trascrizione della “Descrizione” del Marciano su S.Maria de Nove, come a suo tempo abbiamo riportato, ne è indubbia testimonianza) – sono domande per le quali lascio la risposta ai singoli lettori.
Questo contributo sulla biblioteca perduta dei Mattei si è proposto, soprattutto per dimostrare, come abbiamo sempre sostenuto e creduto, la veridicità della testimonianza del Marciano, gli indubbi meriti di Alessandro II Mattei (la cui fama, particolare inedito, era nota anche a Pietro Pollidori, tanto che lo ricorda come coautore, assieme al Marciano, della Descrizione) nel campo culturale e artistico, le virtù mecenatiche e liberali di questa famiglia, i loro rapporti intellettuali che furono certamente non casuali, ma inseriti in “un sistema locale” ben determinato nel quale “centro e periferia” erano legati da rapporti e da uno scambio continuo di “esperienze e fermenti culturali”.
D’altra parte, come scrive Umberto Eco, “quello che l’infelice non sa è che la biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno nel momento fatale potrai trovare quello che altri hanno letto prima di te”.
* In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XVII, Novoli 18 luglio 2010.
Riferimenti bibliografici essenziali
N. Aspesi, William l’Avventuriero, recensione a Vita Straordinaria di William Petty, avventuriero, erudito e conquistatore, in “La Repubblica – Cultura”, 10 dicembre 2004.
M.E. Buccoliero – F. Marzano, Incunaboli e Cinquecentine della Biblioteca Innocenziana di Lecce, Lecce 2004.
M. Cazzato, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “gallaria”: per una storia del collezionismo aristocratico in Terra d’Otranto, in M. Fagiolo (a cura di), Atlante tematico del Barocco in Italia. Il sistema delle residenze nobiliari. Italia Meridionale, Roma 2010.
M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei, Signori di Novoli, in “Camminiamo Insieme”, a. XII, n. 1 gennaio 1998.
G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in “Contributi”, a. IV, n. 4 Maglie 1985.
F. De Pascalis, Altare con sorpresa, la firma di Cino, in “Quotidiano”, 25 novembre 2003 (durante i lavori di restauro e conservazione dell’altare situato all’interno della chiesetta di sant’Oronzo sono state trovate incise, nella parte superiore destra, le due lettere G. C. ovvero, con molta probabilità, le iniziali di Giuseppe Cino).
U. Eco, Le avventure di un Bibliofilo, “Lectio inaugurale” della XX edizione della Fiera del Libro di Torino, in “La Repubblica – Cultura”, 10 maggio 2007.
L. Ingrosso, Proposte per un recupero del Patrimonio librario della Biblioteca Innocenziana di Lecce. Un fondo da salvare: la biblioteca di Alessandro MatteiSignore di Novoli, in “Lu Lampiune”, a. XIII, n. 2, 1997.
O. Mazzotta, Ex Bibliotheca Alexandri Mathej, in “Camminiamo Insieme”, a. VI, n. 3, marzo 1992. Nel suo breve intervento, il Mazzotta, pur di non ritrattare completamente le sue convinzioni, oltre a dare la notizia del “ritrovamento”, “supponeva” quanto segue (riporto testualmente): “Tutti i volumi, come annotato sui frontespizi, provengono dalla biblioteca di Alessandro Mattei. Sappiamo che Paolo Bonaventura, figlio di Alessandro II, entrò nell’Ordine dei Predicatori e prese il nome di Alessandro. Paolo Bonaventura lasciò il convento, ma i libri vi rimasero, e dopo la soppressione degli Ordini religiosi nel periodo napoleonico, dallo Studio generale dei Domenicani di Terra d’Otranto arrivarono alla biblioteca Innocenziana. Rimane da appurare se i volumi furono da Frà Alessandro (Paolo Bonaventura) comprati oppure ereditati dal padre. La critica testuale mi porta a ritenere che molto probabilmente ilibri appartenevano alla biblioteca paterna. Ma mi riservo di tornare più diffusamente sull’argomento in altra occasione”. E in effetti il Mazzotta ci tornò sull’argomento, ma per richiamare Lorella Ingrosso che aveva attribuito impropriamente i libri trovati nell’Innocenziana ad “Alessandro Mattei II, Signore di Novoli, conte di Palmariggi, umanista e Mecenate” (si vedano “Le Fasciddre te la Focara”, a. 43, gennaio 2005). A sostegno di ciò ribadiva di aver dimostrato (sic) nel 1994 “che i libri appartenevano a Paolo Bonaventura Mattei undicesimo figlio di Alessandro II che aveva preso l’abito domenicano col nome di Alessandro” (ivi). Su tale sua “dimostrazione”, personalmente, nel suo libro Il Seminario di Lecce (a parte la pubblicazione dell’elenco dei libri) rilevo solo questa sua dichiarazione: “I Commentari del Tostato insieme all’edizione parigina delle opere di Sant’Agostino, appartenevano alla biblioteca di Alessandro Mattei barone di Novoli. Questa biblioteca tanto decantata dal Marciano all’inizio del Seicento, pare che fosse scomparsa misteriosamente prima ancora dei Mattei tanto assoluto è stato il silenzio delle fonti di ogni genere ad oggi”. Nient’altro! Vero è che Paolo Bonaventura Mattei dopo essere diventato frate lasciò il saio e si sposò con la leccese Barbara Paladini dalla quale ebbe un figlio e poi rimase vedovo. Il 13 novembre 1661 avvenne la “consegna di doti e stipula di contratto matrimoniale con d. Paolo Bonaventura Mattei conte di Palmariggi in castro Terrae Sanctae Mariae de Novis”. Nell’inedito documento che abbiamo rintracciato presso la Biblioteca Provinciale di Lecce vi è anche la firma autografa del Bonaventura. Da un confronto fatto con l’ex-libris della biblioteca Innocenziana, le due scritture (particolare non trascurabile) risultano calligraficamente completamente diverse.
O. Mazzotta, Il Seminario di Lecce (1694-1908), Lecce 1994.
O. Mazzotta, I MatteiSignori di Novoli, Novoli 1989.
D. Novembre, Terra d’Otranto nella Descrizione di Geronimo Marciano (Primo Seicento), introduzione alla ristampa fotomeccanica della Descrizione, Origini e Successi della Provincia d’Otranto del Filosofo e Medico Girolamo Marciano di Leverano con aggiunte del Filosofo e Medico Domenico Tommaso Albanese di Oria, Galatina 1996.
P. Pollidori, Expositio / veteris Tabellae / Aereae, /Qua / M. SALVIUS / VALERIUS / Vir Splendidus / EMPORII / NAUNANI / PATRONUS COOPTATUR / AUTORE / PETRO POLLIDORO / VENEZIA, ZANE, 1732. Scrive testualmente Pietro Pollidori: “Non ignobile vetustatis monimentum Jampridem ab aliis de scriptum, Viri carissimi Hieronymus Martianus Liberanensis, & Alexander Matthaejus Palmarici Comes libro 3. descriptionis Sallentinae Provinciae Cap. 15 vulgarunt”.
G. Spagnolo, Tra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del Conte Alessandro Mattei,Signore di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. X, 20 luglio 2003.
Id., Memorie antiche di Novoli (note su un manoscritto ottocentesco della Descrizione di S. Maria de Nove di Girolamo Marciano), in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XII, 17 luglio 2005. Raffaele Tarantini di Pietro nacque a Novoli il 16 di agosto del 1850 e vi morì nell’anno 1912. Sposò Teresa Colaci Sansò figlia di Leonardo Colaci Sansò e Nicoletta dei Baroni D’Amelio di Melendugno il giorno 7 giugno del 1884. Lo sposalizio fu benedetto con una messa speciale ed annesse benedizioni da monsignor Luigi Zola, Vescovo di lecce, quando il Tarantini era già sindaco di Novoli. La famiglia Tarantini, una delle “più rinomate famiglie novolesi” si è estinta alcuni anni fa con la morte di Maria Teresa Tarantini, ultima discendente “donna a dir poco straordinaria per intelligenza e cultura” (cfr. M. De Marco, In ricordo di Maria Teresa Tarantini, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XXVII, 17 gennaio 2003, p. 16).
Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di Mario Cazzato, Lecce 1992.
Id., Il Principe Perfetto Giovanni Antonio Albricci terzo (testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), estratto da Quaderno di Ricerca, Salice Salentino, ottobre 1989.
Id., Storia di Novoli. Note ed Approfondimenti, Lecce 1990.
Id., Dalle rime del Mannarino un sonetto ad Alessandro Mattei, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XVI, Novoli 17 gennaio 1992.
* * *
Il libro in perfette condizioni del Du Choul è in 4° mm. 165×235 h, antiporta con inciso lo stemma di Choul + pp. 296 + 8 di indice con 46 xilografie di medaglie e marmi; antiporta ancora con lo stemma di Choul + [6] + pp. 145 + 6 nn + 43 xilografie nel testo anche a piena pagina + figura del campo dei Romani fuori testo più volte ripiegata.
Vi sono belle marche tipografiche al frontespizio, testatine e capilettera incisi.
La sua legatura è, come già detto, ottocentesca, con titolo e iniziali di Raffaele Tarantini in oro sul dorso verde e piatti marmorizzati rossi.
Note manoscritte di antichi possessori sul primo frontespizio tra cui è leggibile “Soc. Iesu” (vi sono bruniture sparse dovute al tipo di carta).
A tal proposito un’ultima annotazione.
I Gesuiti con Bernardino Realino, proclamato poi santo, ebbero una grande amicizia con la famiglia Mattei.
La famiglia Tarantini ebbe, invece, intensi rapporti con i Carignani che, con Felice, nel 1712 si aggiudicarono i feudi di Novoli e del Convento messi in vendita dalla R. Camera della Summaria dopo la morte di Alessandro III ultimo dei Mattei.
La ricerca storica sul territorio ovvero la costruzione dell’identità dei luoghi
di Mario Cazzato
(introduzione al volume)
In questa ponderosa opera di oltre 600 pagine Gilberto Spagnolo riunisce parte dei suoi scritti che datano a partire dai primi anni ottanta del secolo scorso e che in nuce risalivano, come metodologia d’indagine e orizzonti d’interesse almeno al decennio precedente quando intorno alla figura, più volte richiamata in queste pagine, di Enzo Maria Ramondini, la “memoria storica” di Novoli, nasce e si coordina in un gruppo di giovani ricercatori novolesi interessati alla storia della piccola patria, dove emerse, come si vedrà, il più promettente di loro, che seppe riunire l’interesse erudito per le faccende locali con la necessità di recuperare la documentazione archivistica che già dalle prime battute dimostrava che per questa via poteva riscriversi anzi scriversi, la storia della comunità di appartenenza fino a raggiungere risultati inaspettati.
E tutto questo si accompagnava e si accompagna ancora alla passione bibliografica dell’autore, acquisendo nel corso di decenni vere e proprie rarità bibliografiche che sono utilizzate non per uno sterile e solipsistico piacere collezionistico, ma come volontà di farne parte ad una comunità sempre più ampia e attenta, spesso inconsapevole di possedere tale patrimonio bibliografico i cui percorsi geografici costituiscono vere e proprie avventure per tale genia di accumulatori di cui G. Spagnolo ne è fieramente parte: una specie di piccola comunità che ha come obiettivo la ricostruzione di un patrimonio dilapidato nel corso dei secoli.
L’opera è divisa in cinque parti e la prima non poteva che essere dedicata alle fonti e ai documenti, dove emerge la figura e i significati dell’opera di G. Marciano che qui a Novoli, come dimostra l’autore, stese la sua Descrizione servendosi della cospicua biblioteca dei signori locali, i Mattei, che della loro residenza avevano fatto una vera e propria piccola corte rinascimentale celebre tra i letterati salentini dell’epoca e ai raccoglitori di “antiquità”, come Vittorio de Prioli.
La seconda parte è dedicata ai “luoghi” e contiene le prime prove dell’autore come quella sui menhir del 1988, sui trappeti sotterranei, sulle cappelle rurali, sul teatro comunale ma soprattutto sul magistrale saggio sui Discorsi di Guillaime Du Choul (1496 ca. – 1560) il più eminente antiquario lionese della sua generazione, pubblicato postumo nel 1569, opera che faceva parte della dispersa biblioteca dei Mattei, opera rarissima miracolosamente recuperata.
La terza parte è dedicata agli “uomini insigni” che hanno reso notevole la storia di Novoli, e sono, tra i tanti, spesso emersi dall’oscurità, i rappresentanti della famiglia Mazzotta (Benedetto, Nicola, Pietro) o Guerrieri. E di Ferruccio Guerrieri G. Spagnolo ripropone qui un raro scritto sul tarantolismo salentino. E non a caso, poco prima l’autore aveva biografato il violinista Pasquale Andrioli che all’autore rammenta un altro e precedente violinista, Francesco Mazzotta, musico delle tarantate ricordato dal De Simone e quindi dal De Martino affascinati dalla credenza popolare per la quale la “vera pianta della taranta” è a Novoli.
La sezione termina con due interventi su Oronzo Parlangeli, l’illustre studioso novolese del quale si ripropone un significativo scritto sul mosaico di Otranto. Con I cinque talenti di Oronzo Parlangeli si chiude la sezione, un breve scritto, questo, che l’autore dedica ai suoi alunni. Infatti non possiamo tralasciare che G. Spagnolo è stato per decenni, per professione, un educatore e come tale e in quanto tale ha sempre misurato i suoi contributi che hanno quasi sempre un colloquiale tono didascalico senza mai rinunciare al rigore delle affermazioni, sempre controllatissime e quasi sempre costruite su materiali inediti o sconosciuti.
La penultima sezione, la quarta, è dedicata alla santità e alle sue manifestazioni esterne. E qui emerge il costante interesse dell’autore, per un elemento che connota l’identità storica della comunità novolese che ogni anno si ritrova intorno alla famosa fòcara per testimoniare la sua secolare devozione a Sant’Antonio Abate. E di questo santo taumaturgo sul quale l’autore ha scritto un volume fortunatissimo (Il fuoco sacro. Tradizione e culto a Novoli e nel Salento) ricorda i delicati componimenti poetici di E.G. Caputo, Novolese di fatto, raccolti in un rarissimo volumetto – il bibliofilo spunta sempre da ogni angolo – stampato nel 1953 appunto col titolo di La Focara.
Occasioni è il titolo della quinta e ultima sezione, dove l’autore raccoglie interventi su amici che non ci sono più, come S. Arnesano, Gioele Manca e lo stesso Ramondini. Qui ripropone il recente (2023) intervento sul volume collettaneo Lecce svelata e che riguarda il protettore di Lecce e della Provincia, S. Oronzo: una lunga e documentata storia dell’arte tipografica leccese, argomento sul quale l’autore è una delle massime autorità anche per il suo essere, come abbiamo detto, e non poteva essere altrimenti, accanito bibliofilo, argomento al quale ha sacrificato tempo e sostanze.
Nella stessa sezione è inoltre riportato un articolo di G. Gigli del 1909 sulla cartapesta leccese, nel periodo, cioè, della sua massima fioritura. Chiude la sezione un intervento sul quadrato magico sator, dove traccia le coordinate storico-geografiche del fenomeno in area salentina e, ultimo, il lungo accenno del famoso scienziato francese Nicolas Lemery sulla “tarantula di Puglia”: entrambi non potevano essere scritti se l’autore non avesse scoperto, nelle sue pazienti ricerche bibliografiche, quel materiale che all’improvviso fa balenare la seducente possibilità di approfondire in maniera innovativa l’argomento.
L’attività studiosa dell’autore non si ferma qui. Nel 1987 scrisse un nutrito volume sulle origini di Novoli; nel 1990 un altro sulla storia complessiva della stessa comunità. Nel 1992 pubblica la vicenda bio-bibliografica del cappuccino e apprezzatto geografo Lorenzo di “S. Maria de Nove”. E relativamente al metodo non può notarsi che quando parla di collezionismo e di collezioni si colloca in un campo d’indagine innovativo che ben poco spazio ritrovano nelle consuete storie municipali costruite secondo l’ottica ottocentesca nelle quali l’interesse per gli aspetti minuti della piccola patria mette in ombra i rapporti con la storia generale.
Questo e molto altro contiene questo complesso volume che deve essere letto tenendo presente i tempi di composizione dei singoli interventi che hanno costruito, nei decenni, una solida impalcatura di conoscenze storiche che non ha eguali in Provincia. Ma, come scrisse diversi anni fa Mario Manieri Elia per Melpignano, il fine non ultimo e più avvincente di un’opera come questa, è quello di porre all’attenzione di tutti proprio Novoli; centro, il quale, in conseguenza dell’arricchimento di conoscenza e di sensibilizzazione che ad esso si lega dopo tale lavoro non è più quello di prima. Un luogo fisico come Novoli, non è portatore di significati oggettivi dati una volta per sempre; è percepito per quello che di esso sappiamo e memorizziamo, consapevoli che la ricchezza di messaggi storici e di identità – è questa una delle funzioni degli scritti di G. Spagnolo – rende plausibile la lotta per la sua sopravvivenza fisica ma anche la lotta perché la memoria di chi ha animato per secoli lo spazio degli uomini non venga mai meno. È l’auspicio di questa fatica dell’amico G. Spagnolo che, siamo sicuri è già impegnato a continuare quest’operazione culturale di grande valore civico.
Gilberto Spagnolo è nato a Novoli (Le) il 3/6/1954. Si è laureato presso l’Università di Lecce nel 1977, conseguendo una laurea in Pedagogia a indirizzo psicologico. Ha svolto l’incarico di operatore culturale nei Centri Regionali di Servizi Educativi e Culturali (CRSEC) del Distretto Scolastico di Campi Salentina; dal 1991 al 1994 ha insegnato nelle scuole italiane all’estero (in America Latina, nel “Collegio Raimondi” di Lima – Perù e in Spagna nella scuola italiana “M. Montessori” di Barcellona); è stato dirigente dell’Istituto Comprensivo di Novoli dal 1995 al 2019. Da oltre 40 anni, si dedica alla ricerca e alla storia patria e ha pubblicato numerosi saggi e monografie, con particolare riferimento a Novoli (dove risiede), alle sue tradizioni e alla Terra d’Otranto.
Fra le sue pubblicazioni si citano in particolare: Novoli. Origini, nome, cartografia, toponomastica (1987); Storia di Novoli. Note e approfondimenti (1990); Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove (1992); Il principe perfetto: Giovanni Antonio Albricci Terzo. Testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino; Il fuoco sacro. Il culto di Sant’Antonio Abate a Novoli e nel Salento (1a ed. 1998, 2a ed. 2004, 3a 2018); Il pane del miracolo. Il culto della Vergine del Pane di Novoli nel panegirico del passionista A. Librandi; Memorie del passato. Il diario di Salvatore Cezzi e la Focara di Novoli (1872-1874) “Superba come ogni anno” (2023); I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario (2016); Bernardino Realino e i Mattei Signori di Novoli (2017).
Se c’è un campo di formazione delle parole in cui regna l’anarchia ed è tutt’altro che agevole individuare la paternità, è quello degli etnonimi. Le differenze spesso sono sottilmente legate a vicende storiche intrecciantisi con evoluzioni fonetiche e suggestioni semantiche, il che, innocente all’inizio, finisce per assumere una valenza dispregiativa, se non razzista.
Per esempio: italiota, usato per stigmatizzare certe caratteristiche negative riguardanti non pochi italiani, prima fra tutte l’insofferenza per le regole. La voce è da ᾿Ιταλιώτης (leggi italiotes), con cui i Greci indicavano più di due millenni e mezzo fa il connazionale delle colonie dell’italia meridionale; Σικελιώτης (leggi sicheliotes) per il colono di Sicilia), da cui siceliota o siciliota o sichelota.
Ho sentito più di un ignorante, anzi idiota (per lui sì, il suffisso –iota assume valore dispregiativo …) usare italiota con gratuita allusione dispregiativa ai meridionali. Debbo, tuttavia, dire che anche il campanilismo locale con lo stesso intento ha sfruttato, forse inconsapevolmente, un altro suffisso greco (-ιάτης, leggi –iates): Nardiati per gli abitanti di Nardò, Sichiliati per quelli di Seclì.
Queste due forme (che sembrano, lasciando da parte il suffisso greco, participi passati di verbi fantasiosamente pittoreschi ed icastici da usare quasi come un marchio a fuoco; per Seclì, inoltre, la costruzione è avvenuta sulla forma dialettale Sichilì) hanno avuto pure l’onore della citazione in Miscellanea Giovanni Mercati Studi e testi 126, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1946, p. 520.
Tornando a Seclì: non so chi abbia inventato seclioto, che è l’unica forma registrata da un vocabolario per l’italiano indubbiamente affidabile tra quelli fruibili in rete perché della stessa matrice di quelli per il latino e il greco che, per l’uso continuo che ne faccio, ho avuto modo di apprezzare (https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SECLIOTO100).
Seclioto utilizza chiaramente il suffisso greco e questo ci può pure stare poiché strettissimi sono i rapporti di Seclì con la cultura greca, in particolare bizantina. L’inventore di questa forma, però, ha rovinato tutto il suo dotto procedere italianizzando il suffisso greco mediante la sostituzione di a finale con o in funzione distintiva rispetto a un femminile secliota, come se italiota fosse femminile di un inesistente italioto e non bastasse nel riconoscimento del genere il semplice articolo: il secliota/la secliota. Unica eccezione alla regola, ma sconsiglio di usarla come giustificazione …, è l’italiano antico idioto per idiota, che, non a caso, è dal latino idiota(m), a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes).
Disperata impresa sarebbe quella di individuare la data di nascita di seclioto, anche se questa difficilmente servirebbe ad individuarne l’autore. Con il pur formidabile aiuto dei motori di ricerca non son riuscito ad andare più indietro del 10-8-1998, come mostro nel dettaglio tratto dalla Gazzetta ufficiale Serie generale n. 185 di quella data.
Oltretutto rimane un dubbio: se non si fosse trattato di una società ma di un ristorante avremmo letto ristorante Il secliota o Il seclioto?
A questo punto qualcuno potrebbe ironicamente dirmi: – Dottor sottile, quale sarebbe la sua proposta? Non sa che la lingua la fanno i parlanti? -.
Rispondo prima all’ultima domanda, perché ciò che dirò è funzionale rispetto alla risposta che darò alla prima.
È incontrovertibile che la lingua la fanno i parlanti (tutti), ma sarebbe ora che anche gli scriventi (non tutti, me, forse, compreso) avessero voce in capitolo, con la funzione di filtrare e depurare la lingua parlata dalle eccessive libertà che essa da sempre ha il diritto di prendersi. E per questo non è necessario essere un novello Dante o Petrarca o Boccaccio, basta aver coltivato lo spirito critico, quello che motiva le sue sentenze …, ed avere un minimo di buongusto e di buonsenso.
Passo alla seconda risposta. Ho già dimostrato come il creatore di seclioto abbia perso l’occasione di coniugare il ricordo della storia col rispetto della grammatica e, in riferimento a italiota (e non italioto), dell’analogia. E proprio da questa muoverò per quelle che a me sembrano le più sensate e corrette alternative.
Diamo un rapido sguardo ad alcuni altri toponimi che presentano forma tronca: Nardò, Castrì, Patù
Per Nardò l’etnonimo è neritino o neretino, dal nome latino della città (Neretum) attestato da Ovidio (Metamorfosi, XV, 5O) e dallo stesso etnonimo (Neretini) attestatato da Plinio (Naturalis historia, III, 105). La forma attuale, però, non deriva dal latino ma dal bizantino Νερετόν (leggi Neretòn) attestato da due pergamene un tempo custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò, oggi perdute ma che Francesco Trinchera fece in tempo a trascrivere ed a pubblicare nel suo SyllabusGraecarummembranarum, Cattaneo, Napoli, 1865. Da notare che il prima citato Nardiati si rifà al nome moderno e non al latino Neretum (che pure si mostra nella forma volgare Nerito o Neritono o Neritone prima dell’affermazione di Nardò), il che rivela una formazione relativamente recente.
Castrì ha come etnonimo castrisano, distinto da castrense, etnonimo di Castro.
Patù ha come etnonimo patuense o veretino (il primo utilizza un suffisso latino, il secondo è da Veretum, città che sorgeva nel suo territorio).
Bastano questi tre esempi per dare ragione dell’anarchia di cui ho detto all’inizio. Tra tutti e tre il toponimi Castrì è il più sorprendente, perché avrebbe potuto benissimo avere come etnonimo, valendo anche qui i legami con la cultura bizantina, castriota, non adottato, forse, per evitare confusione con l’omonima famiglia di origini albanesi.
Sempre in nome dell’analogia e in parallelo con Patù l’etnonimo di Seclì alternativo a secliota potrebbe essere sicliense, dal latino moderno ecclesiastico Sicliensis, usato nelle visite pastorali (nelle stesse il topoimo è Siclium).
Morale, valida sempre, per il passato, per il presente e per il futuro, della favola: se per un intervento chirurgico molto impegnativo ci si affida (mi riferisco a chi può permetterselo …) all’esperienza di un luminare, nella creazione di un qualsiasi neologismo, particolarmente nell’intricato campo campo in cui oggi mi sono avventurato, chi ha l’incarico ufficiale di provvedere deve (tanto più che le eventuali spese saranno a carico della collettività) affidarsi a chi ha competenza per farlo.
Seclioto non è stato partorito certo oggi ma, a differenza di un intervento chirurgico con esito nefasto, si può sempre rimediare, tanto più che l’avvicendamento del colore politico ha portato finora, soprattutto nella toponomastica viaria, a cambiamenti radicali che mi sembrano una comoda damnatio memoriae, cioè la trionfale e tronfia vendetta di un’ideologia, qualunque essa sia, su un’altra, qualunque essa sia.
In questi dieci anni di assenza del maestro Aldo de Bernart, una serie di manifestazioni e poi scritti e celebrazioni hanno contribuito a serbarne vivo il ricordo. Immediatamente dopo la morte, nel numero di marzo 2013 della rivista «Presenza Taurisanese», il direttore Gigi Montonato dalle pagine del Brogliaccio Salentino dedica a de Bernart un breve ricordo, scrivendo di lui: “un autentico signore, nel senso più tradizionale ed ampio del termine”[1].
Non poteva mancare un omaggio della rivista «NuovAlba» con la quale de Bernart ha avuto un lunghissimo e proficuo rapporto di collaborazione. Nel numero del marzo 2013 della rivista parabitana, un bell’editoriale, a firma di Serena Laterza, ricorda Il nobiluomo dal cuore grande[2], e un articolo di Ortensio Seclì, Non è più con noi, traccia anche un excursus bibliografico con tutti gli scritti di de Bernart apparsi su «NuovAlba», dal primo numero del 2001 fino all’ultimo del dicembre 2012[3]. Su un numero di aprile 2013 della rivista a diffusione locale «Piazza Salento», compare un ricordo di de Bernart a firma di Aldo D’antico, il quale scrive: “Se ne è andato un altro. Un altro di quelli che non solo hanno dedicato la propria vita alla produzione culturale, ma hanno avuto ruoli definitivi nello sviluppo delle conoscenze storiche di questa terra. Aldo de Bernart, scomparso lo scorso marzo a 88 anni, ha attraversato tutto lo scorso secolo con uno spettro ampio di impegno, approfondimento, produzione…”[4].
Sulla rivista «Il Galatino» di Galatina, del 26 aprile 2013, è riportato uno scritto di Paolo Vincenti dal titolo Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato[5]. Sabato 18 maggio 2013, nell’Aula Magna del Liceo Classico “Francesca Capece” di Maglie, viene presentato il numero XXIII della miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, «Note di Storia e Cultura Salentina». Nel libro, dedicato alla memoria del socio de Bernart, è presente il saggio di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina[6], già pubblicato da Vincenti col titolo La figura e le opere di Aldo de Bernart (con Bibliografia) in Di Parabita e di Parabitani del 2008[7].
A Ruffano, la sua città adottiva, non si poteva mancare di ricordare il maestro. Infatti, in occasione dei festeggiamenti civili e religiosi in onore del patrono Sant’Antonio da Padova, sabato 8 giugno, nella Chiesa Parrocchiale “B. M.Vergine”, su impulso del parroco Don Nino Santoro, si tiene un convegno su “La Chiesa Natività di B.M.V. – a 300 anni dalla sua riedificazione”, con una “Memoria del prof. Aldo de Bernart”, a cura di Alessandro Laporta e Giovanni Giangreco. Inoltre, martedi 11 giugno 2013, organizzata dalla Biblioteca Comunale di Ruffano e con il patrocinio del Comune, si tiene una serata dedicata a “Pietro Marti. La figura di un intellettuale poliedrico”, per celebrare un personaggio di spicco del passato ruffanese, ovvero lo storico, giornalista e operatore culturale Pietro Marti, in occasione del 150° della nascita e dell’80° della morte.
Dopo gli interventi dell’allora Sindaco Carlo Russo e di Orlando D’urso, Alessandro Laporta ed Ermanno Inguscio, Paolo Vincenti legge un intervento di Aldo de Bernart tratto da una delle sue ultime plaquette: Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, perché del Marti de Bernart era stato il primo biografo. E il ricordo di de Bernart fa da leit motiv fra i vari interventi della serata[8]. Sul numero 63 della rivista gallipolina «Anxa News» (maggio-giugno 2013) è riportato un bellissimo scritto di Alessandro Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart[9].
Ancora, nel numero del luglio 2013 della rivista «NuovAlba», un altro scritto di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria. Vincenti, che apre il pezzo con una citazione dal libro Cuore di Edmondo De Amicis (“Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo”), scrive: “Ancora qualcuno, degli amici più giovani o a lui più lontani, mi chiede incredulo: -ma è vero, il professore de Bernart è scomparso?-. È passato qualche mese dalla dipartita di Aldo de Bernart ma il vuoto che ha lasciato in chi, come me, lo ha conosciuto, frequentato, amato, è incolmabile…Gli amici e tutti i collaboratori si sono stretti attorno alla sua famiglia, la figlia Ida ed il figlio Mario, e la comunità salentina di studi umanistici è rimasta orfana di così alto nobile esempio.
Noblesse oblige, mi veniva da dire spesso, pensando al caro Aldo, ma nel suo caso questa non era una formula vuota o di circostanza, bensì manifesto di vita di chi aveva fatto dell’eleganza e dell’aristocrazia dei modi il proprio tratto distintivo”[10].
Nell’ambito dell’annuale rassegna “Identità Salentina” organizzata dall’associazione Italia Nostra sezione Sud Salento, che si tiene dal 27 settembre al 6 ottobre 2013 a Parabita, in Piazzetta degli Uffici, nel corso della serata inaugurale viene ricordato Aldo de Bernart con interventi di Alessandro Laporta, Mario Cazzato e Gigi Montonato, presenti i figli dello scomparso. Della serata dà notizia il periodico «Presenza Taurisanese» nel numero di novembre 2013. Ancora, su «Presenza Taurisanese» del marzo 2014 compare un toccante articolo di Vittorio Zacchino (“Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa), il quale scrive: “Fino quasi all’ultimo, Aldo ci ha riservato le sue nitide ed accattivanti plaquettes, i suoi profili di uomini illustri, nobili, patrioti, artisti, letterati, Pirro Castriota, Francesco Valentini, Raffaele Viva, Saverio Lillo, Antonio Bortone, Pietro Marti… Al povero Aldo, al di là della mestizia rievocativa, il grazie infinito per averci insegnato ad alleggerire la narrazione storica, a renderla accessibile ad ogni fascia di lettori, con l’ausilio di qualche verso, di un aneddoto, di un sorriso”[11].
Il 2 giugno 2014, è da segnalare una serata a Palazzo Ferrari di Parabita, “Ricordando Aldo de Bernart”, organizzata dal centro di cultura Il Laboratorio-Archivio Storico Parabitano, con Aldo D’Antico e gli interventi di Alessandro Laporta, Paolo Vincenti e dell’allora Sindaco Alfredo Cacciapaglia.
Nel 2015 l’operazione più importante ed il più compiuto omaggio al maestro de Bernart prende corpo editoriale grazie all’impegno della famiglia e della Società Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce: un corposo volume, più di 550 pagine, intitolato Luoghi della cultura e cultura deiluoghi, uno dei titoli più belli dell’intera collana “I quaderni de L’Idomeneo” nella quale è ospitato. I curatori sono Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio[12]. In copertina uno scorcio della terra di Ruffano in una elaborazione grafica di Donato Minonni. Dopo la Prefazione di Mario Spedicato, nella prima parte del libro, L’uomo e l’intellettuale, si fa un focus sulla figura e sulle opere di de Bernart, con un profilo bio-bibliografico del maestro, curato da Paolo Vincenti, e poi vari contributi che lumeggiano la sua multiforme attività culturale che spaziava dal campo dell’arte a quello della critica letteraria, da quello più prettamente storiografico a quello musicale, fino all’aspetto religioso del culto dei santi e dell’arte sacra.
La storia moderna è l’oggetto privilegiato dell’indagine di de Bernart, dal Cinquecento fino all’Ottocento, con rari sconfinamenti nel Novecento, sempre con riconosciuta competenza e un’acribia che ne facevano un erudito nel senso più pieno del termine. Dunque, le testimonianze di affetto per l’amico, il collega, lo studioso, il concittadino, nelle parole di Gigi Montonato, Gigino Bardoscia, Mario Cazzato, Giulio Cazzella, Gianpaolo Cionini, Stefano Ciurlia, Gino De Vitis, Enzo Fasano, Mario Marti, Maria Rosaria Palumbo, Gemma Preite, Mario Stefanò, Vincenzo Vetruccio. Un numero elevatissimo di testimonianze perviene in occasione del libro. “Nella cittadina natia di Pietro Marti e Antonio Bortone, che il direttore ha scelto quale sua residenza elettiva”, scrive Mario Spedicato nella Prefazione, “per buona parte della sua vicenda esistenziale, egli ha saputo riunire un gruppo di appassionati con i quali è rimasto in contatto fino agli ultimi giorni di vita, mostrandosi sempre disponibile all’ascolto, interessato a quel mondo esterno che non poteva più frequentare direttamente e prodigo di consigli a chi gliene faceva richiesta”[13].
Nella seconda sezione, L’eredità della ricerca, compaiono contributi che seguono da vicino l’area degli interessi del commemorato, con saggi di Maria Antonietta Bondanese, Ermanno Inguscio, Andrè Jacob, Alessandro Laporta, Antonio Romano, Ortensio Seclì, Vincenzo Vetruccio, Vittorio Zacchino. La sezione terza, Arte, storia, cultura del Mezzogiorno, è incentrata invece sulla storia del territorio, secondo la linea della prestigiosa associazione culturale che patrocina la pubblicazione, quindi con una maggiore curvatura scientifica nei saggi di P. Giovan Battista Mancarella, Pietro De Leo, Angelo D’Ambrosio, Maria Antonia Nocco, Maria Antonietta Epifani, Roberto Orlando, Sergio Fracasso, Arcangelo Salinaro, Stefano Zammit, Giacomo Filippo Cerfeda, Alberto Tanturri, Giancarlo Vallone, Antonio Brigante, Francesca Cannella, Carlo Crudo, Oronzina Greco[14]. Il libro viene presentato a Ruffano, presso il Teatro di via Paisiello (Istituto Comprensivo Statale), sabato 20 giugno 2015, davanti a un pubblico numeroso ed interessato. Dopo i saluti del Sindaco Carlo Russo e della Dirigente Scolastica Madrilena Papalato, gli interventi di Vincenzo Vetruccio, Alessandro Laporta, Gigi Montonato, Hervé A. Cavallera.
Le Conclusioni sono di Mario Spedicato. La presentazione si ripete a Parabita, presso il Teatro Comunale “Carducci”, il 29 febbraio 2016. Coordinati da Flora Della Rocca, dell’Associazione “Progetto Parabita”, che organizza l’incontro, dopo i saluti del Sindaco Alfredo Cacciapaglia e dell’Assessore Sonia Cataldo, intervengono Alessandro Laporta, Vittorio Zacchino, Aldo D’Antico e Ortensio Seclì. Mario Spedicato conclude i lavori.
E veniamo al 2020 e al volume Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta. Nel contributo pubblicato all’interno di questo libro, Alessandro Laporta si occupa di un’opera poco nota di de Bernart, per quanto censita nella più volte citata Bibliografia degli scritti del maestro. Si tratta di L’epopea otrantina del 1480, una importante pagina di storia locale, che de Bernart pubblicò nei “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, nel 1968[15]. Questa “chicca” si rivela una ghiotta occasione per Laporta di rispolverare uno scritto “minore”, cioè poco conosciuto dell’illustre parente, ma anche di dare allo stesso la migliore destinazione possibile, ovvero quella di un libro dedicato a Mons. Quintino Gianfreda che dell’epopea d Otranto degli ottocento beati martiri ha fatto l’oggetto privilegiato dei suoi studi[16]. Sempre nel 2020 si tiene la prima edizione del premio letterario intitolato a de Bernart, organizzato dall’Associazione Culturale “Diciottesimomeridiano” di Ruffano, con il patrocinio del Comune di Ruffano e del Comune di Parabita e con una Commissione esaminatrice di tutto rispetto, composta da Carlo Alberto Augeri, Alessandro Laporta e Daniele Sannipoli. Le premiazioni, per i settori narrativa, poesia e saggistica, avvengono il 28 dicembre 2020, in teleconferenza a causa della pandemia da covid[17]. Il nome di de Bernart continua a circolare fra gli addetti ai lavori e resta vivo nella mente e nel cuore di chi lo ha frequentato; le iniziative messe in campo in quest’anno 2023, in occasione del decennale della scomparsa, sono a confermarlo. “Nessuno muore per sempre”, e rinverdire il ricordo allevia l’assenza.
[1] G. Montonato, Aldo de Bernart. Scomparso a 88 anni. Un signore della cultura, storico e poeta raffinato, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n. 254, marzo 2013, p. 5.
[2] S. Laterza, Il nobiluomo dal cuore grande Omaggio all’amico-maestro, in «Nuovalba», Parabita, a. XIII, n.1, marzo 2013, p.1.
[3]O. Seclì, Non è più con noi, Ivi, p. 2.
[4] A. D’Antico, Ricordo di Aldo de Bernart, in «Piazza Salento», Alezio, 4-7 aprile 2013, p. 4.
[5] P. Vincenti, Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato, in «Il Galatino», Galatina, 26 aprile 2013, p. 3.
[6] Idem, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina, in «Note di Storia e Cultura Salentina. Miscellanea di studi “Mons Grazio Gianfreda”», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, Lecce, Edizioni Grifo, 2013, pp. 9-14.
[7] Idem, La figura e le opere di Aldo de Bernart- per il suo 82esimo compleanno, in Idem, Di Parabita e di Parabitani, Parabita, Il Laboratorio Editore, 2008, p. 124-138.
[8] A. de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, agosto 2012.
[9] A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart, in «Anxa News», Gallipoli, n.63, maggio-giugno 2013, pp. 6-9.
[10] P. Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria, in «NuovAlba», Parabita, a. XIII, n.2, luglio 2013, pp. 11-12.
[11] V. Zacchino, “Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n.262, marzo 2014, p.10.
[12] Aa. Vv., Luoghi della cultura e cultura deiluoghi. In memoria di Aldo de Bernart, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, “I quaderni de L’Idomeneo”, Lecce, Grifo, 2015.
[13] M. Spedicato, Prefazione, in Luoghi della cultura, cit., pp. 7-8.
[14] Una puntuale recensione del libro a cura di M. A. Bondanese, in «Il Nostro Giornale», Supersano, n. 83, dicembre 2015, pp. 14.15.
[15] A. de Bernart, L’epopea otrantina del 1480, in “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, n.1, Taurisano, 1968.
[16] A. Laporta, Aldo de Bernart. L’epopea otrantina in una plaquette di 50 anni fa, in Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta, Lecce, Edizioni Grifo, 2020, pp. 85-91.
[17] M. Zezza, Nel segno di Aldo de Bernart. Un Premio per ricordare il valore della cultura, in «Il Nostro Giornale» Supersano, luglio 2021, pp. 62-63.
Pubblicato in Tra Scuola, Ricerca e Memoria. Aldo de Bernart dieci anni dopo (2013-2023), a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti, Società Storia Patria puglia-Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2023
Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggia il 20 febbraio, la città di Nardò celebra un altro santo dell’Armenia, Biagio, vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia. Per sua intercessione si rinnova, come ogni anno, l’antichissimo rito della benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa (nei pressi della Posta centrale).
Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono a San Biagio, medico in vita, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola, tanto che tra i diversi miracoli a lui attribuiti si menziona a simbolo quello del salvataggio di un bambino col rischio di soffocamento a causa di una lisca di pesce.
Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, questi ultimi lo vollero designare quale loro protettore. Il corpo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste.
Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie; lo elessero protettore e ne conservarono parte dei resti (torace) nella basilica sul monte San Biagio (a Carosino, provincia di Taranto, è custodito un pezzo della lingua, chiuso in un’ampolla incastonata in una croce d’oro; a Ostuni si conserva un osso usualmente posto sulla gola di ogni fedele in pellegrinaggio al santuario; nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venerano i resti del braccio esposti entro un reliquiario a forma di arto benedicente). Particolarmente sentito il culto in Avetrana.
In provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il santo.
Il motivo dell’antica venerazione nella chiesa di Santa Teresa a Nardò potrebbe ricollegarsi non tanto alla protezione per le comuni malattie delle prime vie aeree, quanto alla grave malattia infettiva della difterite, di cui sono accertate epidemie nella prima metà del XVII secolo in città e che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, deceduti per asfissia a causa del morbo.
Non è da escludere che il particolare culto cittadino sia strettamente collegato con la locale famiglia dei baroni Sambiasi, anticamente Sancto Blasio, i cui discendenti fecero realizzare in suo onore ben due chiese.
La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi sull’attuale Via De Pandi, che la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, oggi non restano che i muri laterali e parte della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse valida dal punto di vista artistico.
L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata, per distinguerla dalla precedente, fu edificata nel pittagio San Salvatore.
Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte ritrae Biagio come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.
A Nardò si contano due raffigurazioni scultoree del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di San Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di Santa Teresa e veniva portata in processione la mattina del 2 febbraio.
A grandezza naturale, quest’ultima è eccellente cartapesta policroma. Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia come nel primo, indossa i paramenti vescovili orientali con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion (lunga sciarpa ornata di croci). La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.
Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini nell’anno 1886, dal validissimo Antonio Maccagnani (1807-1892) o dal più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913). La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare l’opera tra le più qualificate dei migliori cartapestai leccesi.
Il rito della benedizione della gola viene esercitato nella chiesa neritina il 3 febbraio, sin dalle prime ore e fino a tarda serata (con interuzione dalle 12 alle 15), e i festeggiamenti in onore del santo sono preceduti da un triduo, che si tiene nella medesima chiesa di Santa Teresa, per interessamento e cura della confraternita del SS.mo Sacramento.
Quante volte in tv abbiamo sentito dire Non faccio il nome … , in ossequio al detto Si dice il peccato, non il peccatore! Si tratta di pura vigliaccheria, anche perché, se hai prove inconfutabili, nessuno avrà interesse a querelarti; se non le hai, fai una figura migliore non nominando neppure il peccato. Lo stesso vale quando, soprattutto i politici, fanno a gara a sparare all’impazzata dati figli di nessuna fonte che non sia quella del loro truffaldino intento di ottenere consenso. Con questo mio post, allora, mostro di essere coraggioso oppure incosciente ?
Né l’una né l’altra cosa, anche perché ho scritto bombardiere, non bombarolo. Quest’ultimo vocabolo negli anni ’70 ha etichettato colui che compiva attentati con esplosivi, ma dalle nostre parti designava da tempi notevolmente anteriori colui che esercitava la pesca di frodo utilizzando lo stesso strumento di distruzione e morte, anche se in quantità ridotta1.
Antonio, dunque, non era un bombarolo, anche se il toponimo che lo accompagna nel titolo si riferisce, come ben sanno non solo i Salentini, ad una località di mare ove in passato sorgeva un castello2, fabbrica che per la sua natuta militare era particolarmente esposta a rischi di assalto. Non mi risulta nemmeno che si sia reso protagonista di atti vandalici ai danni di qualche icona o statua del santo. Eppure, il nostro con l’esplosivo aveva dimestichezza per motivi professionali e ne ho le prove.
Esibisco, per non far perdere ulteriore tempo a chi finora mi ha seguito per sana (almeno, mi auguro …) curiosità non la pistola, ma la bombarda fumante (fonte: una relazione manoscritta di ben 334 fogli, parecchi dei quali, per mia fortuna bianchi …, contenente un quadro completo della fiscalità del regno di Napoli per l’anno 1571, custodita nella Biblioteca Nazionale di Spagna e per me oggetto da pochi giorni di famelica attenzione, nel senso che, se non avessi famiglia, per lei salterei volentieri qualche pranzo e qualche cena.
c 74v (dettaglio)
in la terra di san cataldo ala marina de leccie
Al Castellano per sua provisione ducati 120
al vice Castellano ducati 36
a tre compagni, a ducati tre lo mese per ciascuno ducati 108
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ducati 264
Al mastro antonio oliviero bombardiero deputato per lo illustrissimo signor vicere inla torre di san catalde con provisione di scuti quatro lo mese ducati 124
Le immagini di chiusura sono tratte da Luigi Colliado3, Pratica manuale di arteglieria, Dusinelli, Venezia, 1586. La prima mostra la tecnica di sollevamento per rendere operativa la bombarda su una torre, la seconda la traiettoria parabolica del suo colpo.
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1 A confermare la protervia umana nel perseverare a soddisfare il primitivo istinto di violenza, che nelle cosiddette bestie si è mantenuto entro i limiti naturali della sopravvivenza e della difesa, basterebbe considerare tutti i figli di quella radice onomatopeica che ha generato un’ampia serie lessicale che annovera, per restare al tema di oggi, bomba, bombo, bombice, bombola, bombolone e l’insospettabile salentino ‘mbile (per quest’ultimo e i suoi rapporti con le voci italiane appena citate vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/ ehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/17/dialetti-salentini-mbile-approfondimento-etimologico/). Una riflessione diacronica sulle voci con specializzazione bellica ci mostrano obsoleta la sola bombarda, mentre bombardiere si avvia rapidamente ad esserlo con l’avvento dei droni, mentre bombardamento è più che mai vivo e vegeto nonostante le postazioni missilistiche abbiano da molto tempo preso il posto delle bombarde (non si finisce mai di peggiorare …). Confortiamoci pensando che le graziose bombolette spruzzanti di tutto (dalle vernici ai deodoranti e agli anestetici), grazie all’adozione di propellenti ecologici, ci terranno compagnia e che bomboloni e bombette continueranno a deliziarci il palato.
Oggi, 31 gennaio 2024, Parabita piange la scomparsa del maestro Aldo D’Antico, illustre studioso di questa terra, dove era anche nato.
Figlio di braccianti agricoli, Aldo D’Antico nasce a Parabita nel gennaio 1947 e, dopo aver conseguito il diploma magistrale, svolge il ruolo di insegnante elementare in diversi comuni salentini.
Già componente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, è fondatore del Centro di Cultura “Tommaso Fiore” e della casa editrice “Il Laboratorio”.
Curioso e accanito ricercatore di notizie sulla sua amata cittadina e delle sue dinamiche storiche e culturali, è stato punto di riferimento per intere generazioni di ragazzi, che si sono formati nella sua biblioteca privata sita all’interno di Palazzo Ferrari, contenente più di 25.000 libri e l’Archivio Storico Parabitano.
La calce, sotto forma di pasta untuosa, che veniva utilizzata per la produzione del latte di calce, proveniva da una lunga stagionatura attraverso la quale acquistava maggiore consistenza e corposità.
Il latte di calce più o meno denso a seconda della percentuale di acqua, lungamente agitato e filtrato, , veniva usato nella scialbaltura, nella imbiancatura o nella tinteggiatura.
Queste lavorazioni venivano praticate da due categorie di lavoratori del settore: gli imbianchini e i pittori edili.
La scialbatura e l’imbiancatura venivano praticate dagli imbianchini che applicavano il latte di calce o su superfici rustiche delle murature (scialbatura) o sulle superfici intonacate (imbiancatura), utilizzando pennelli rotondi costituiti più frequentemente da fibra vegetale e, abbastanza raramente da crine animale. Per raggiungere altezze elevate anche di alcuni metri, senza l’uso di scale, il manico del pennello veniva legato ad una canna o ad una pertica con un sistema particolare, atto a consentire piccole rotazioni intorno al fulcro, in modo che il pennello si disponesse sempre in posizione ortogonale rispetto alla superficie del muro, durante i movimenti alternativi, verso l’alto o verso il basso, che venivano impressi dall’imbianchino. L’operazione veniva ripetuta più volte (due o tre mani) ed il risultato finale era una imbiancatura, che aveva più funzione igienica che decorativa, caratterizzata da evidenti striature dovute alla stesura non uniforme del latte di calce.
I pittori edili eseguivano lavori più raffinati di tinteggiatura con l’uso di pennelli a mano (spatole) e quindi con interventi sulle superfici più diretti, che permettevano di raggiungere una maggiore cura dei particolari ed una perfetta uniformità nella distribuzione superficiale della soluzione di calce, il più delle volte colorata.
La coloritura del latte di calce veniva ottenuta con l’aggiunta di pigmenti in polvere (terre minerali) disponibili nelle tinte base che, opportunamente mescolate, producevano tutte le gradazioni di colore richieste.
L’intonaco (tunica), come si evince dalla terminologia dialettale, era un rivestimento della muratura che veniva praticato non solo per motivi estetici ma anche per preservare la muratura dal degrado derivante dall’esposizione diretta agli agenti atmosferici.
Di solito, la malta impiegata nell’intonaco era confezionata con maggior cura sia nella scelta dell’inerte (tufina) che incideva anche sulla colorazione che della calce che si preferiva stagionata.
Generalmente veniva eseguito in due tempi: In un primo tempo si procedeva alla esecuzione dei primi due strati: rinzaffo o arricciatura a secondo dei casi. Il secondo strato, la stuccatura, veniva eseguita dopo un certo periodo di stagionatura. La malta dello stucco era una malta grassa (più ricca di calce) lavorata con cura per evitare la formazione di grumi e setacciata adoperando un setaccio metallico attraverso i cui fori veniva fatta passare, tamponandola con un piccolo frattazzo di legno.
Nel caso in cui la superficie della muratura da rivestire era particolarmente deformata, si realizzava un primo strato di rinzaffo grosso che, se aveva una spessore di oltre un centimetro, veniva ringrossato scagliando sulla malta fresca manciate di detriti minuti di tufo (pipirielli) che vi venivano annegati forzandoli con la cazzuola. La spianatura in piombo ed in piano veniva ottenuta con l’uso di regole di legno che, spesso, a contatto con l’umidità della malta si deformavano e non garantivano la planarità richiesta.
Poiché ancora non era in uso il frattazzo di acciaio, la posa in opera della malta e la sua lisciatura avveniva con l’uso della cazzuola che non consentiva di avere delle superfici perfettamente spianate poiché la pressione che si esercitava con quell’attrezzo non era uniforme. Ma questo rientrava nella normale tollerabilità. Nei casi in cui veniva richiesto, si realizzava l’intonaco “piombato” che si otteneva dividendo la superficie interessata in zone della larghezza di circa due metri distinte da guide verticali verificate in piombo ed in piano, che garantivano la perfetta planarità dell’intera superficie.
Prima dell’applicazione dell’ultimo strato (tonachino) la superficie dell’intonaco fresco veniva uniformata, asportando anche eventuali “bave” di malta lasciate dall’uso della cazzuola, con l’uso di un “fratazzo” di legno
Particolare cura veniva posta nella lisciatura che, quando era praticata con la necessaria energia rendeva lucida la superficie trattata e per questo, si usava anche l’aspersione di albume.
Le superfici esterne colorate si ottenevano aggiungendo, alla malta bianca dello stucco, una soluzione di terra colorata e acqua, nelle proporzioni necessarie per ottenere la tonalità richiesta. I colori più ricorrenti erano il rosso, il giallo ed anche l’azzurro.
Per ottenere particolari effetti decorativi si ricorreva all’intonaco a graffito che consisteva sostanzialmente nella sovrapposizione a fresco di strati di intonaco a colori diversi che venivano rimossi (sgraffiati) secondo le linee del disegno riportato con lo spolvero, facendo riemergere gli strati sottostanti fino a formare un decoro.
Si ottenevano così effetti decorativi di gran pregio che esigevano abilità e competenze artistiche di rilievo con l’uso di attrezzi appositamente studiati (ferri) e abilità manuali molto rare.
Anche se, da alcuni anni, ‘Nunziata non è più fra noi, rimane nitido il ricordo della sua figura.
A beneficio dei non indigeni, nel titolo delle presenti note è riportato, in corsivo, il nome proprio di persona, abbreviativo diminutivo di quello ufficiale e completo di battesimo, a sua volta ispirato dalla devozione verso la Madonna protettrice del luogo, circostanza, quest’ultima, che lo fa trovare assai diffuso anche adesso.
Ad ogni modo, la figura femminile che, nella specifica fattispecie, lo porta e cui s’intende riferirsi, è a tutti nota esclusivamente con detto appellativo.
Per parte mia, ho preso a conoscere Nunziata circa sessantacinque anni fa, quando a un suo fratello, Benedetto, di mestiere elettricista e perciò detto mesciu Tettu, capitava di giocare qualche partita di pallone, da aggregato o da avversario, unitamente alla squadra di noi ragazzi marittimesi.
La donna, alta e, al contrario del germano, di taglia solida e formosa, è da sempre contrassegnata da una carnagione scura, il suo volto aperto e simpatico sembra quasi abbrustolito dai raggi del sole, e ciò, forse, per via delle lunghe stagioni trascorse lavorando all’aria aperta.
A proposito di attività, Nunziata, per decenni, si è interessata della vendita di frutta e verdura, con la sua baracca piantata e dischiusa, dalla primavera all’inizio autunno, nella piazza della Marina, di fronte alla rotonda. Un personaggio familiare, quindi, non solo per i compaesani ma, pure, agli occhi dei turisti e villeggianti abituali e/o di passaggio.
Poi, con il progredire dell’età, a un certo punto, la nostra amica si è determinata a lasciare il suo commercio a un figlio e alla nuora e lei s’è ritirata, stanzialmente, a Castro alta, nel cuore del borgo, ossia a dire nella bella piazza Vittoria, delimitata, su un lato, dalla magnifica ex cattedrale.
Così, divenendo un punto d’indicazione inconfondibile, sempre presente, lì, la Nunziata, la scorgi subito, in tutte le stagioni, vuoi sotto il solleone, vuoi in pieno inverno, quando, peraltro, in quell’angolo protetto dai venti, non si soffre minimamente il freddo e, anzi, specie se le giornate sono serene, si gode da Dio a sostare seduti su una panchina o semplicemente sul bordo del marciapiede.
Di conseguenza, non v’è personaggio del cinema o dello spettacolo o della cultura, che, arrivando a Castro, non si sia imbattuto, magari per un solo momento, nella residente in questione, la quale, per la verità e per innata dote d’empatia, non lesina ad alcuno, potrebbe essere anche il Presidente della Repubblica, immediati sentimenti e segni d’accoglienza, cordialità e gentilezza.
In qualche caso, rispondendo a domande e rilasciando interviste su Castro, sull’aspetto e sull’anima della cittadina in tempi lontani e quali affiorano oggi. Insomma, per qualsiasi informazione o notizia, Nunziata è all’altezza e soddisfa.
Da quando ha cessato il lavoro attivo, il soggetto di che trattasi trae i mezzi per sostenersi unicamente dalla pensione, che, a quanto sembra, si aggirerebbe intorno ai quattrocento euro il mese.
Con un’entrata così esigua, lei vive in un locale scantinato, sì, una vera e propria cantina nel sottosuolo di piazza Vittoria adattata a uso abitazione, appena un vano vero e propri. In più, per accedervi, dalla superficie della piazza, bisogna percorrere quattro o cinque scalini, esercizio che, per una persona ultraottantenne e dal fisico anche appesantito, non deve essere agevole e da compiersi disinvoltamente.
Tant’è che, negli ultimi tempi, nell’arco di pochi mesi, all’atto di portarsi dentro casa, la donna è rimasta vittima di cadute ben tre volte, fortunatamente senza esiti molto pesanti, e però con contusioni, ammaccamenti e indolenzimenti, esiti che, in una persona anziana, non soltanto non si superano rapidamente sotto l’aspetto fisico, ma lasciano anche il segno nello spirito.
Per effetto dell’ultima disavventura, ieri, nel transitare accanto a casa sua, l’ho notata, insolitamente, un po’ abbattuta, lei ha risposto, è vero, al mio saluto con il classico “Ciao, professore!” (chiedo scusa, siffatto titolo, ovviamente non mi compete, sennonché, attribuirmelo, è oramai divenuto una sua mera abitudine fissa), ma l’ho sentita preoccupata per aver dovuto, addirittura, compiere una puntatina in ospedale.
Al che, d’istinto il mio sguardo s’è abbassato in direzione degli scalini di cui dicevo prima, che, effettivamente, danno l’idea di un potenziale costante pericolo per l’amica, purtroppo abitante in quello scantinato.
“D’altronde – ha accennato con dignitoso ritegno Nunziata – se pensassi di spostarmi in una minuscola abitazione a piano terra in una stradina qui intorno, vicina al mio mondo che non vorrei lasciare, sarebbero quantomeno trecentocinquanta euro d’affitto il mese; ma, se, a me, il Signore (alias l’Inps) dà una pensione intorno a quattrocento euro, come faccio?”.
Evidentemente viene da sé, la risposta: hai ragione, Nunziata, per ora non ti resta che stare con gli occhi spalancati e la mente sveglia quando fai su e già, per entrare e uscire da casa.
Questo, il quadretto casualmente colto dal comune osservatore di strada, con, al centro della scena, Nunziata, una figura, semplice e umile, che, però, non passa inosservata nella Perla del Salento.
Chissà che, alla situazione, non si riesca a imprimere un tocco di colore.
Giorni fa su La Gazzetta del Mezzogiorno, una mia riflessione sul Tito Schipa e l’affidamento ai Negramaro.
Il 2023 si è chiuso con la notizia dell’affidamento per un anno, da parte dell’Amministrazione della Provincia di Lecce, dell’ex Liceo Musicale Tito Schipa, ai Negramaro. Un tema delicato quello degli spazi legati alle politiche culturali, in un territorio che, a partire dagli anni Novanta del Novecento ad oggi ha liberato notevolissime energie creative, in particolare in ambito musicale.
Il compito dato, al gruppo guidato da Giuliano Sangiorgi, è quello di comporre a Lecce, una canzone per dare visibilità al territorio salentino ferito nella sua più intima identità culturale e produttiva e nella sua bellezza dal flagello della Xylella.
Nobile intento, ma ahimè – lo sappiamo tutti – una canzone non basta a salvare gli ulivi e, la visibilità, figlia dell’idea di un marketing territoriale spesso vampiresco, non è certo utile oggi al Salento che al contrario, a mio avviso, avrebbe bisogno di sottrazione, di decantare l’eccesso di visibilità a cui è esposto per ridare senso alle sue necessità di rigenerazione. Diventare incubatore di se stesso questo serve al Salento per prospettarsi, nel futuro, orfano del suo paesaggio.
Il Tito Schipa, che nel novembre 2023 ha compiuto i novant’anni della sua esistenza, è un’istituzione cittadina, da tempo al centro di problematiche legate alle sua valorizzazione. Il liceo, voluto e finanziato dal celebre tenore a cui è intitolato, fu inaugurato nel 1933, divenne sede del Conservatorio e poi dal 1980, dell’Orchestra Sinfonica della Provincia di Lecce. Dopo un breve insediamento della società di Trasporti Sud-Est fu dichiarato inagibile per l’alto livello di deterioramento dell’intera struttura. Nell’ultimo frangente della sua vecchia storia per un brevissimo periodo – per volontà della amministrazione provinciale guidata da Giovanni Pellegrino – fu sede della Casa delle Donne. Nel 2009 il finanziamento di un milione e mezzo di euro con fondi FAS dalla Regione Puglia in sinergia con la Provincia di Lecce per il recupero della struttura con la volontà di farne uno spazio aperto alle contaminazioni culturali.
Oggi, a recupero ultimato, c’è da scegliere, ma spesso si sceglie di non scegliere rifugiandosi nel glamour, nell’ultima tendenza, magari per comunicare con i “giovani” si sceglie la band più in vista ed è fatta, tutti contenti e pacificati, meglio lo spettacolo che la politica. Ma scegliere – specie se a dover scegliere è un’amministrazione pubblica per destinare un bene pubblico – significa ascoltare i desiderata della comunità che si amministra. La fila delle possibili consultazioni non è lunghissima, gli eredi Schipa-Carluccio da sempre attenti al destino di quello spazio, gli orchestrali leccesi che ad ora non hanno sede stabile per le loro prove, il Conservatorio Musicale, le altre Istituzioni culturali cittadine, i musicisti, gli operatori culturali, volendo i cittadini.
C’è poi un’urgenza e una priorità formativa (questa sì riguarda i giovani), riguarda la vicinanza del Tito Schipa con il Palmieri, liceo classico con indirizzo musicale.
Nei mesi scorsi, su queste pagine, fu riportata la necessità del liceo di reperire aule utili ad ospitare gli studenti, la soluzione fu trovata dislocando ben nove classi negli spazi della Biblioteca Bernardini in Piazzetta Carducci, la domanda sorge spontanea: non potrebbe essere il Tito Schipa la sede naturale delle necessità del Palmieri? Certo lo spazio non è tanto ma significherebbe ridare, a quel luogo, la sua vocazione originaria.
C’è da riflettere insomma e la “bega” dell’ascolto andrebbe fino in fondo perseguita per decidere il destino di un bene della comunità.
Un anno passa presto, la speranza è che, in questo tempo di attività, l’intelligenza di Sangiorgi e dei Negramaro sappia essere motore di un aggregato capace di lasciare una traccia significativa nella storia del Tito Schipa. La loro residenza sia, oltre che un atto creativo, l’avvio di un percorso di individuazione e di formazione di un nucleo di gestione dello spazio che necessariamente dovrà garantire un alta capacità di competenza ma soprattutto di attenzione e di apertura. La complessità del movimento della musica nel Salento merita uno spazio di ascolto e di messa in opera dove poter garantire il confronto delle esperienze e dove la formazione diviene pratica e consapevolezza di stile, di quella identità che la Xylella ha minato ma non totalmente azzerato.
(per gentile concessione dell’Autore. Pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 5 gennaio 2024)
Dapprima i fiumi e poi il mare costituirono in epoca preistorica ed arcaica le vie quasi obbligate utilizzate dai commerci, perché rendevano più agile e veloce il trasporto e lo scambio delle merci. Nel mondo occidentale non c’era infatti nessuna città che avesse assunto il ruolo di guida e che di conseguenza potesse farsi garante dell’edificazione e, soprattutto, della gestione delle strade che avrebbero reso più proficua l’alternativa delle vie terrestri. Sicché, sino a quando i Romani, basandosi sulle notevoli conoscenze ingegneristiche acquisite dagli Etruschi, non costruirono un efficace sistema viario di media e di lunga percorrenza, erano fruibili solo tragitti di difficile percorrenza per qualsiasi mezzo di trasporto. E questo favoriva le vie marittime, anche quale usuale itinerario per le comunicazioni, sebbene la navigazione utilizzasse mezzi (le navi) particolarmente vulnerabili in condizioni di tempo estremo, sia per la limitata stazza, sia per la propulsione, imperniata com’era in modo prevalente sulle vele e quindi nella sostanza condizionata dalle bizzarrie del vento.
Proprio a causa di tali restrizioni si andava per mare con estrema cautela, ben sapendo che era fonte di vita ma anche limite alla vita stessa e che inoltre la morte in mare negava uno dei pochi — se non l’unico — diritto allora acquisito, e in aggiunta particolarmente sentito, vale a dire una degna sepoltura. Per questo c’era tutta una serie di regole auree cui attenersi per non andare incontro alle peggiori sorprese. Le principali imponevano che non si prendesse il mare nelle cattive stagioni — di conseguenza d’inverno e in parte dell’autunno le navi rimanevano in terra a secco — e, a prescindere dalle stagioni, se le condizioni del tempo e del vento non erano propizie; che si affrontasse il mare aperto solo quando era strettamente necessario e che si navigasse per lo più tenendosi vicino alle coste — la cosiddetta navigazione di cabotaggio — in modo d’avere la possibilità, se il tempo subiva un cambio repentino, di guadagnare subito la terraferma cercando riparo in una ansa di un fiume o in una insenatura protetta da qualche altura rocciosa dai venti.
Erano questi ancoraggi di fortuna che, nella prospettiva migliore, offrivano solo attrezzature costituite da semplici pali di ferro o di legno a cui le imbarcazioni si ormeggiavano con funi. E la cui funzione primaria di asilo lo si ritrova nei termini portuali usati sia dai Greci, che hanno tutti in senso figurato il significato di rifugio, sia in parte dai Romani che continuarono a chiamare refugia le strutture di tale tipo.
Con l’andare del tempo i punti di ormeggio meglio posizionati lungo i percorsi seguiti dai mercanti furono sempre più attrezzati e strutturati per essere in grado, non solo di dare protezione ai naviganti e ospitalità alle navi, ma anche di offrire i servizi più essenziali di manutenzione e di approvvigionamento idrico ed alimentare, oltre allo spazio necessario per commerciare i prodotti trasportati.
Nacquero così i porti che rappresentavano la fortuna delle città che li gestivano, essendo un bene prezioso e in aggiunta alquanto raro, almeno sino all’inizio dell’era cristiana.
Solo una struttura capace di dare tutte le prestazioni elencate meritava d’essere chiamata dai Greci limén, e dai Romani portus, mentre la postazione che forniva solo i servizi essenziali e le più usuali possibilità di ormeggio veniva chiamata rispettivamente hormos e statio.
Sin dal periodo preromano, lo scalo di Brindisi riuscì ad ottenere questa specie di bandiera blu, visto che gli autori lo nominano sempre chiamandolo, in base alla lingua usata, limén o portus. Nel periodo romano poi si distinse ancor più, tanto da ottenere la qualifica di eulìmenon, letteralmente buon porto, concessa ai soli approdi di riconosciuto prestigio.
Per cogliere però quali fossero in antichità le reali configurazioni del porto brindisino e della città, occorre servirsi di un passo della narrativa antica a cui non è mai stato dato eccessivo peso perché, le poche volte che viene citato, è tradotto in modo talmente generico e convenzionale da non rendere per nulla il reale pensiero del suo autore.
Stando alle traduzioni, un ignoto geografo del II secolo a.C., ricordato come lo Pseudo-Scimno, fa in apparenza un’affermazione del tutto scontata visto che, riferendosi ad un’epoca arcaica, ribadisce qualcosa di già noto a tutti, cioè a dire che «il porto di Brindisi è dei Messapi» («Βρεντέσιoν ἐπίνειóν τε τῶν Μεσσαπίων»1). Asserzione quindi per niente originale, se si pensa che i Brindisini erano per certi versi i Messapi per antonomasia.
Le cose però cambiano radicalmente se, in luogo delle traduzioni, si ricorre al testo originale greco. Appare infatti subito evidente che lo Pseudo-Scimno non utilizza il solito termine generico di limén per caratterizzare l’approdo brindisino, ma quello meno usuale di epìneion.
Per quanto anche il significato principale di questo vocabolo sia porto, il ricorso ad un simile termine era fatto quando si volevano specificare meglio le caratteristiche dell’approdo. In particolare, gli autori antichi lo usavano nei casi in cui si era di fronte a sistemi portuali del tutto caratteristici, vale a dire quando il porto, pur facendo parte integrante della città, ne era al tempo stesso un elemento aggiuntivo del tutto separato. E ciò avveniva quando la città che lo gestiva non era stata edificata insieme sulla costa, ma distante qualche chilometro nell’entroterra. Ed appunto per precisare questa diversa collocazione tra città e suo porto che quest’ultimo veniva definito un epìneion.
In definitiva, diversamente da quanto generalmente si dà per certo, sono propenso a credere che in origine l’abitato di Brindisi era collocato in una zona completamente distinta da quella in cui si trovava il porto e che in definitiva, nel periodo arcaico preromano, la città era posta in posizione arretrata rispetto alla costa, probabilmente nell’attuale zona periferica situata a nord ovest, dalle parti, tanto per intenderci, della Commenda di una volta e del Paradiso.
Solo successivamente l’abitato fu spostato e congiunto al porto, e questo trasferimento avvenne quando i Romani, impossessatisi della città, fondarono nella seconda metà del III secolo a.C. la relativa colonia latina. In tale frangente, oltre a riedificarla secondo propri criteri costruttivi, la ribattezzarono con il nuovo nome di Brundisium, o meglio di Brundusium, riutilizzando di fatto il precedente nome indigeno di Brunda.
Occorre precisare che il porre l’abitato lontano dal suo porto era in tempi arcaici molto più usuale di quello che si possa credere. Basta pensare ad Atene, il cui porto, Il Pireo, era collocato ben distante dal centro cittadino, per comprendere che l’accorgimento era adottato con frequenza.
C’erano motivi di cautela che inducevano a farlo. Un porto era infatti una fortuna e, al tempo stesso, potenziale fonte di guai. Lo si può intuire dallo stesso termine usato dai Romani, portus, che si riconduceva al termine porta, vale a dire la porta delle mura cittadine — ricordiamo che l’uscio di casa era chiamato ianua — e quindi al tipico concetto latino di confine tra ciò che è noto e ciò che è ignoto o anche tra ciò che è favorevoli e ciò che è avverso. In definitiva, al pari del mare, un porto aveva in sé un duplice valore antitetico: apriva ai commerci ed ai guadagni ma nel contempo era un luogo vulnerabile da cui, come una qualsiasi porta cittadina, potevano agevolmente penetrare i malintenzionati, con tutte le brutte conseguenze del caso.
Tucidide, il celebre storico greco, giustificava tale accortezza per la presenza in tempi arcaici di una diffusa pirateria che depredava qualsiasi cittadina collocata sulla costa, riferendo in aggiunta che, sebbene non fosse una tattica più seguita ai suoi tempi (siamo nel V secolo a.C.), le città di più antica fondazione continuavano ad essere situate ancora nell’interno2. E, come già esposto, Atene ne era l’esempio più famoso.
Una inevitabile conseguenza nell’adozione di una simile strategia precauzionale è che l’epìneion era una struttura portuale che si poneva principalmente a difesa della città e, quindi, era una postazione fortificata, munita di solide mura, disponibile eventualmente ad ospitare una clientela selezionata.
Altra inevitabile conseguenza è che, a differenza di quanto ipotizzato da alcuni3, l’approdo brindisino non aveva un ruolo emporico, vale a dire di zona aperta ai commerci. Sebbene questi non fossero certo preclusi, erano però riservati come appena detto ad una clientela scelta in base a consolidate consuetudini o a formali alleanze, oppure limitati alla raccolta ed allo smercio delle mercanzie prodotte nelle zone limitrofe, ed in funzione in ogni caso secondaria rispetto a quella propria di epìneion.
Con ogni probabilità il mondo ionico frequentava l’approdo brindisino e di certo vi approdavano i navigli Ateniesi, facendo parte Atene della ristretta cerchia di comunità con cui Brindisi intratteneva rapporti più che amichevoli sin dai tempi precoloniali, come le fonti letterarie indicano in maniera più che manifesta. Mentre era di sicuro interdetto alle comunità achee e spartane, o doriche in genere, con le quali sussisteva uno stato di belligeranza quasi costante.
In tal senso appare significativo un passo in cui Polibio4 chiarisce in maniera perentoria che, prima della deduzione della colonia latina di Brundisium, il traffico proveniente dalla Sicilia e dalla Grecia era in grandissima parte convogliato a Taranto ed era nei porti dei Tarantini, che i naviganti facevano «i loro scambi e traffici». Oltre a questa esplicita considerazione, lo storico lascia in aggiunta intendere che a questi commerci il porto di Brindisi era del tutto estraneo.
Il che induce ad escludere che in periodo preromano l’approdo brindisino possa essere stato un emporion, nel senso che si dà a questo termine di luogo adibito e destinato principalmente al libero svolgimento di attività mercantili. D’altra parte il fatto stesso che fosse un epìneion fa di per sé cadere una simile ipotesi. Sicché la struttura portuale era munita di una solida cinta muraria che la metteva in condizione di rendere vani eventuali incursioni nemiche.
A differenza di quanto comunemente si riferisce, le mura di periodo messapico non dovevano cingere la sola collinetta collocata a nord della città, di fronte al seno di Ponente del porto interno, ma anche l’area meridionale del centro e la collinetta di Levante. Come infatti già emerso da rilievi archeologici5 anche la zona meridionale risultava in periodo arcaico già abitata. A questo si aggiungono aspetti strategici e di contesto che fanno propendere per una configurazione della struttura muraria ben diversa da quella presunta dalla cronachistica locale6.
Le due collinette erano infatti separate da una depressione (l’attuale corso Garibaldi) che in antichità dava origine ad una terza insenatura abbastanza stretta — alla quale non a caso si dà il nome convenzionale di canale della Mena — che però tagliava per lungo tratto l’approdo brindisino da est ad ovest. Sicché sarebbe stato alquanto imprevidente proteggere la sola zona a nord, lasciando nel contempo parzialmente indifeso il canale della Mena e del tutto senza protezione l’intero seno di levante. Cosa questa alquanto improbabile, se si considera inoltre che la collinetta meridionale si sarebbe trovata in posizione ben più elevata rispetto alla parte meridionale delle mura e quindi in condizione di creare grossi danni se fosse caduta in mano di eventuali assalitori. Un qualsiasi nemico avrebbe infatti potuto approdare indisturbato nel ramo di levante ed avere la possibilità sia di aggirare le mura, arrivando ad aggredire il centro abitato, sia di dare l’assalto al porto con il vantaggio di poterlo investire da una zona sovrastante che rendeva di fatto inutile la stessa protezione delle mura. In conclusione la cinta muraria doveva necessariamente proteggere anche gli approdi della parte meridionale del porto interno, e non solo quelli del ramo di ponente, se si voleva rendere imprendibile l’epìneion.
Alla giusta obiezione che l’estensione delle mura sarebbe stata talmente imponente da creare non pochi problemi per difenderle adeguatamente in ogni settore, si può rispondere ricordando che Brindisi nel periodo arcaico era una città in grado di primeggiare, non solo nel contesto regionale che gli era proprio — si pensi che Floro la dichiara «capitale della regione»7 — ma anche in quello extraregionale — tanto è vero che Trogo la qualifica la città più prestigiosa dell’Apulia («urbs Apulis»8) — e quindi capace di mettere in campo un numero di effettivi non certo banale. Oltre ad aggiungere che i settori delle mura da presidiare in maniera assidua erano quelli che davano sul mare, essendo i soli da dove potevano giungere pericoli improvvisi.
I dati archeologici ed il contesto inducono pertanto a credere con una qual certa sicurezza che il circuito murario salvaguardasse tutte e tre le insenature. Tuttavia non forniscono nessuna indicazione sul percorso seguito dalle mura a sud della città, se non quella del tutto scontata che dovesse contenere al proprio interno la collinetta meridionale il cui apice era situato dove l’attuale via Taranto si affaccia sul porto.
La ricostruzione è pertanto del tutto ipotetica e si basa sull’usuale considerazione che, in alcuni settori (settentrionale, orientale ed in parte sud-orientale), la cinta muraria non dovesse discostarsi più di tanto dal tracciato delle mura romane e di quelle aragonesi. Mentre per gran parte del settore meridionale e, soprattutto, di quello occidentale, il suo percorso dovesse risultare con ogni probabilità in posizione molto più arretrata rispetto a quello delle mura edificate dai Romani e dagli Aragonesi.
In base a queste considerazioni, il circuito delle mura doveva percorrere via Camassa in direzione nord-est quindi, piegando verso sud-est, seguire un tragitto arretrato rispetto a viale Regina Margherita, sino a rasentare il pendio della collinetta dove si trovano le Colonne, per poi arrivare dove ora si trovano i giardinetti di piazza Vittorio Emanuele II. Avrebbe quindi costeggiato entrambe le sponde dell’insenatura della Mena proseguendo successivamente verso sud, sino a raggiungere e superare i pendii di via Taranto e di Porta Lecce. Tra via Gallipoli e via Giovanni XXIII avrebbe cambiato percorso indirizzandosi verso nord, ricongiungendosi così con il settore settentrionale; qui giunto, dopo aver svoltato verso est, seguiva con ogni probabilità via dei Mille e via Sant’Aloy.
Difeso da queste mura viveva l’avamposto della Brunda messapica con il compito di gestire le strutture portuali ed i commerci che si svolgevano con i popoli corregionali ed alleati, garantendo al tempo stesso il centro abitato da sgradite sorprese.
Come già sottolineato, Brunda, che i Greci chiamavano Brentesion, fu congiunta al suo porto quando i Romani, conquistatala nel 267 a.C., decisero circa un ventennio dopo di dedurvi una colonia di diritto latino.
E, come ricordato da Cicerone, fu il 5 agosto 244 a.C. che la Brindisi si collocò per la prima volta sul basso promontorio prospiciente il mare.
Note
1 Pseudo-Scimno (II secolo a.C.), Descrizione della terra, v. 364.
2 Tucidide (V secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 7, 1.
3 Si veda in tal senso g. carito, Brindisi. La storia del mare, Independently published 2022, p. 13.
4 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Le Storie, X, fr. 1.
5 G. Cera, Brindisi in età messapica e romana. Topografia della Città, L’Erma di Bretschneider, Roma 2022, p. 212.
6 G. Carito, Le mura di Brindisi: sintesi storica, in Brundisii res , vol. 13 (1981), pp. 33-41.
7 Floro, Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo, I 15, 1.
8 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo (I secolo a.C – I secolo d.C.), XII 2, 5/11.
Una fotografia [1] molto bella ed interessante ripresa ante estate 1908 è conservata a Roma nelle raccolte fotografiche dell’Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione dipendente dal Ministero della Cultura e documenta la presenza a Montesardo di una antica torre colombaia che era ubicata a qualche decina di metri a sud del margine del centro storico del paese, così come si deduce osservando con attenzione la posizione della torre campanaria della chiesa matrice visibile al centro dell’immagine (fig.1).
Osservando l’ingradimento della fotografia (fig.2) si nota che:
– la torre era stata costruita con 46 filari di conci;
– presumendo l’altezza del concio in cm 25 si può calcolare la misura dell’altezza della torre in m.11,5;
– rapportando graficamente la larghezza della torre con l’altezza, il diametro della base della colombaia risulta essere m.10,25 circa;
– il 31° filare sembra avere una altezza più bassa degli altri stimabile in circa 15 cm, sporge circa 15-20 cm rispetto alla superficie esterna della torre e secondo l’arch. Vincenzo Peluso tale sporgenza ha la funzione di bloccare l’arrampicata dei topi che potevano divorare uova e pulcini delle colombaie;
– probabilmente la presenza della fascia di intonaco che ricopre la superficie compresa tra 6° e 10° filare potrebbe essere un altro accorgimento per impedire o ostacolare la risalita dei topi le cui unghie trovano facile appiglio sulla superficie granulosa della muratura non intonacata;
– il 41° filare è caratterizzato da beccatelli modanati sporgenti circa 15 centimetri su cui poggiano altri quattro filari con la stessa sporgenza dei beccatelli;
– il 42° filare è decorato da archetti scolpiti in stile aragonese che inducono a ipotizzare la costruzione della torre colombaia tra la fine del XV ed i primi anni del XVI secolo;
– il 46° ed ultimo filare è una cornice modanata sporgente circa 20 centimetri.
Io [2] non avevo mai visto questa immagine e quindi ne ho parlato subito (novembre 2023) agli amici Paolo Torsello, Raimondo Massaro, Antonio Piscopello e, qualche giorno dopo, anche a Vincenzo Peluso; soltanto Raimondo conosceva questa foto perché l’aveva già vista pubblicata (ritagliata e più sfocata) su internet [3] ma nessuno di loro aveva mai visto questa torre colombaia e neppure conosceva la sua ubicazione.
Vincenzo Peluso (architetto di Martignano che da oltre trent’anni sta studiando, raccogliendo e producendo documentazione archivistica, grafica e fotografica sulle numerose torri colombaie esistenti nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto) mi ha informato che nel 1985 aveva fotografato a Montesardo un’altra torre colombaia che poco tempo dopo venne demolita per costruire le attuali abitazioni in via Trieste ai numeri civici 124-128; in quella occasione un testimone oculare gli riferì che nel 1980 circa un’altra torre colombaia era stata demolita per costruire l’attuale fabbricato già falegnameria con soprastante abitazione in via Daniele Manin ai numeri civici 7 e 9; inoltre, l’architetto Peluso mi ha informato che queste due torri sono esattamente cartografate come fabbricati graffati alla particella catastale 610 (la prima, n.9 in fig.3) e alla particella 609 (la seconda, n.10 in fig.3) sul foglio 26 della mappa d’impianto catastale del Comune di Alessano.
Paolo Torsello ha raccolto le seguenti informazioni interpellando tre abitanti di Montesardo: il sig. Franco Calignano (1953) abitante in via Nazionale ha riferito di ricordare la colombaia fotografata nel 1908 nei pressi della colonna con la statua di Sant’Antonio; il sig. Mario Cazzato (1956) abitante in via Daniele Manin ha riferito di ricordare benissimo sia la colombaia che si trovava di fronte casa sua dove ora c’è la ex falegnameria e sia l’altra torre distante circa 100 metri più a sud-ovest in via Trieste e le descrive così: “Quelle colombaie erano strutture molto belle, particolari e caratteristiche, all’interno avevano in cerchio spazi pieni e spazi vuoti in cui i piccioni potevano nidificare, a volte le ho anche scalate”; il sig. Pippi Biasco (1955) abitante in via Daniele Manin ricorda che la torre che era nel suo terreno fu demolita nel 1980 dopo aver ottenuto il permesso di costruzione per la sua casa-falegnameria e la descrive così “La torre era alta circa 12 metri, aveva un piccolo ingresso dal quale si entrava abbassando la testa, era semichiusa in cima, i piccioni si allevavano sia per la carne, sia per le uova e sia per il letame che producevano. L’altra torre colombaia si trovava a cento metri dalla mia. Non ricordo la torre fotografata nel 1908”.
A questo punto, ho ritenuto utile provare a individuare con la massima precisione l’ubicazione topografica di questi tre antichi monumenti perduti di Montesardo; esaminando e confrontando la mappa d’impianto catastale[4] del 1937 (fig. 3) e la fotografia aerea[5] del 1943 (fig. 4) ho potuto rapidamente riconoscere le tre torri colombaie: la torre fotografata nel 1908 ricade nella particella catastale 539 (n.1 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1416, via Trieste n.2, adiacente al recinto della scuola), la torre demolita nel 1980 in via Daniele Manin ricade nella particella 609 (n.9 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1076, via Manin n.7) e la torre fotografata dall’arch. Vincenzo Peluso nel 1985 in via Trieste nella particella 610 (n.10 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1138, via Trieste n.128).
Probabilmente gli ingegneri che intorno all’anno 1939 progettarono e costruirono il torrino[6] dell’Acquedotto Pugliese (n. 8 nelle figure 2 e 3) nei pressi della chiesa in via Leuca si ispirarono a quella bellissima torre colombaia che distava meno di cento metri.
Seguendo l’invito di Antonio Piscopello (bibliotecario di Alessano) di cercare notizie sulle torri presso l’Archivio di Stato di Lecce, ho consultato i registri catastali del Comune di Alessano nei quali risulta che nel 1937 la signora Maria Saveria Motolese (nata a Grottaglie nel 1889, vedova di Bartolomeo Serafini Sauli) era la proprietaria del terreno ove sorgeva la torre fotografata nel 1908 e che la signora Anna Romasi (nata a Alessano nel 1881) era la proprietaria dei terreni ove sorgevano le altre due torri.
Chi avesse la curiosità di osservare da vicino e di toccare un’altra antica torre colombaia ancora ben conservata può percorrere la strada rurale Vigna La Corte che inizia dalla strada provinciale per Specchia a meno di due chilometri a nord di Alessano[7]; chi non ha la possibilità di andare sul posto può visionare varie immagini di questa torre cercando le parole “Lu Palummaru” su Google Maps o visualizzando il link https://maps.app.goo.gl/NZ16eqGciB2hPzdy5.
michelebonfrate@gmail.com
Note
[1] Fotografia n.E002279 nell’Archivio Gabinetto Fotografico Nazionale presso l’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della Cultura).
[2] Nell’estate del 1998 su proposta di Vincenzo Santoro (allora consigliere comunale delegato alla cultura) fui incaricato (insieme al fotografo Raffaele Puce) dal Comune di Alessano di produrre ed allestire una mostra fotografica sui beni culturali del territorio intitolata “Alessano-Montesardo: Appunti” che fu esposta nel frantoio ipogeo di Villa Potenza di Alessano dall’8 al 30 agosto 1998 nell’ambito delle manifestazioni culturali dell’Estate Alessanese; in quella occasione nessuno mi parlò dell’esistenza di torri colombaie e neanche trovai menzione di esse nella bibliografia che avevo consultato per lo studio e l’esplorazione del territorio comunale svolti per individuare le cose da fotografare.
Presso la biblioteca comunale di Alessano (inventario n.2819, collocazione GEN SAL AV 292, https://www.bibliando.it/SebinaOpac/resource/alessanomontesardo-appunti/PUG02177570) è conservata ed è consultabile una copia della mia relazione dattiloscritta avente lo stesso titolo della mostra che consegnai in originale al Comune e ad alcuni amici interessati tra i quali Paolo Torsello che pensò bene di farne un’altra copia che portò al bibliotecario Antonio Piscopello che la acquisì al patrimonio bibliografico comunale.
[4] I disegni cartacei originali della mappe catastali d’impianto dei comuni della provincia sono conservati presso l’Ufficio del Territorio dell’Agenzia delle Entrate di Lecce e documentano la situazione catastale ufficiale alla data di attivazione del vigente Catasto Terreni; il 1° gennaio 1937 è la data in cui ci fu la “Attivazione del nuovo catasto per i Comuni dell’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Alessano” stabilita dal decreto del Ministro per le finanze 17 ottobre 1936 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n.275 del 27 novembre 1936, pagina 3416..
[5] Il negativo originale di questa fotografia aerea del 24 maggio 1943 è conservato presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze.
[7] Partendo da Alessano da via Giudecca si imbocca la strada provinciale n.242 per Specchia, si percorrono km 1,4 circa, si svolta a destra in via Vigna La Corte (non asfaltata) e dopo circa 100 metri si svolta di nuovo a destra e la torre colombaia appare alla distanza di circa 70 metri. Nella mappa catastale di Alessano la torre si trova nella particella 137 del foglio 7; le coordinate geografiche 39.902527, 18.321077.
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