Canisciare e cagnisciare, ovvero quando basta una g a fare la differenza

di Armando Polito

Chi non conosce il gioco enigmistico della zeppa? Grazie a lei, per  esempio, è facile passare dall’astronomia alla gastronomia, dal canone al cannone, da amando ad Armando, da matto a Matteo. La superfetazione di regola è caratterizzata da assenza di rapporti etimologici o semantici tra la parola di partenza  e, dopo la sua cura ingrassante, quella di arrivo. Dico di regola, ma non mancano le eccezioni, sia pure solo di rilievo semantico, e lascio al lettore decidere  qual è quella più inquietante tra gli ultimi due degli esempi addotti …

Le due parole del dialetto salentino che campeggiano nel titolo non si sottraggono alla regola  e ci accingiamo a scoprire perché.

Canisciare

I moderni ferri da stiro, con i i loro avveniristici (quando funzionano  e se non esplodono …)  sistemi di controllo della temperatura e del suo adeguamento al colore e al tipo di tessuto da stirare, hanno azzerato quel rischio di ingiallimento (nei casi migliori …) della stoffa (soprattutto quella bianca) chec era sempre in agguato quando il ferro da stiro era un pesante contenitore  in ghisa dalla forma di una barca a fondo piatto. in cui  i pezzi di carbone incandescente avevano la funzione di riscaldarne la base.; sicché allora anche l’olfatto aveva la sua primaria importanza nella stiratura, anche se quando si avvertiva una vaga puzza di bruciato il macello per lo più era già avvenuto …

Faccio notare la maggiore economia della voce dialettale nell’esprimere un concetto che in italiano richiederebbe la circollocuzione lasciare ingiallire il tessuto per distrazione o imperizia a causa del calore eccessivo. Purtroppo lo stesso concetto non è riuscito a trasferire dalla lingua ai fatti il protagonista della vignetta.

* Ti sta costando cara la cura del ferro che il medico ti ha prescritto in combutta con tua moglie …

 

Nè varrà a rivalutarlo l’etimologia che ora vi propone …

Per il Rohlfs canisciare è “da un latino volgare *canidiare, dal greco καπνίζω=faccio fumo”.  La proposta, peraltro formulata in modo non dubitativo, mi pare poco convincente  sul piano fonetico perché non è chiaro come dal primo segmento di καπνίζω (leggi capnizo), cioé  καπνί- (leggi capni-) si sia arrivati a cani– di *canidiare; mi sarei aspettato, per assimilazione (e non per strana sincope) canni-. Nulla da eccepire, invece, sul secondo componente, cioé –izo (leggi –izo) che, attraverso il latino volgare –idiare, ha dato vita all’italiano  -eggiare di maneggiare, corteggiare , etc, etc. Va detto, però che, se questo suffisso è di lontana origine greca, non lo è sempre il primo segmento della parola che lo esibisce. Faccio l’esempio di manisciare=sbrigarsi, darsi da fare; esso suppone un latino volgare *manidiare in cui il primo segmento è manus=mano, che non è certamente parola di origine  greca. Insomma: il latino volgare avrebbe aggiunto (nella stragrande maggioranza dei casi) il suffisso greco a parole non necessariamente di origine greca. Ci sono pure casi in cui la parola greca è passata tal quale in latino: è il caso di caminus (da cui il nostro camino) che è dal greco κάμινος (leggi càminos). Per quanto finqui detto mi pare più plausibile ipotizzareper la nostra voce la seguete trafila: *caminidiare>*caminisciare>canisciare  (per sincope dal precedente), anche perché i rapporti tra κάμινος e κάπνος (leggi capnos)=fumo sono tutt’altro che certi.

 

Cagnisciare
Per questa voce il Rohlfs si limita a dare il significato, che è quello di aborrire, avere a schifo.  Mentre per canisciare  mancava  il corrispondente italiano, qui invece esso è, almeno dal punto di vista formale, cagneggiare, attestato da  Benedetto Varchi (1503-1565) nel suo  L’Ercolano:” … e quei bravoni o bravacci che fanno il giorno su per le piazze, e si mangiano le lastre e vogliono far paura altrui coll’andare e colle bestemmie, facendo il viso dell’arme, si dicono cagneggiarla o fare il crudele“. Tale significato continua  edulcorato nella locuzione italiana guardare in cagnesco, che, tuttavia semanticamente ancora non corrisponde all’esatto significato della voce dialettale, nella quale si manifesta ancor più edulcorato, pur chiarendone l’etimologia di base, che è dalla parola cane assunta ancora una volta dalla presunzione umana a simbolo di ostile negatività. E l’effetto è sempre quello: tenersi lontano da qualcosa che per noi costituisce, se non un pericolo, un motivo di fastidio, non solo fisico ma anche psicologico, com’è capitato al mio gatto …

 

*Fanno schifo e per un gatto come me il colmo è cagnisciarle. Mi stai facendo venire una crisi dì identità.

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa

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QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA

                                            A ROCCO DE VITIS MEDICO E UMANISTA

di Paolo Vincenti

Il 4 maggio 2017, nella Sala Chirico degli Olivetani dell’Università del Salento, è stato presentato il volume “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA” dedicato al Dott. Rocco DE VITIS, medico e umanista, per i vent’anni della sua scomparsa. Ha coordinato il Prof. Mario Spedicato, Presidente della sezione di Lecce della Società di Storia Patria; sono intervenuti i proff. Luigi Montonato, Alessandro Laporta, Eugenio Imbriani; ha concluso la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese.

Un titolo molto suggestivo che coniuga, in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente.

“QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA – A ROCCO DE VITIS MEDICO E UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017).

Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo una bella testimonianza di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall’Eneide), carica di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che emergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione queste figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, come scrive il prof. Spedicato, “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”.

Rocco De Vitis, “don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo “Pietro Colonna” di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico e Ufficiale Sanitario nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ Eneide di Virgilio nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi nel 1988 un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le Bucoliche e le Georgiche, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore.

Rocco de Vitis nel 1941 in veste di tenente medico sul fronte greco-albanese
Rocco de Vitis nel 1941 in veste di tenente medico sul fronte greco-albanese

 

L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, e a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano che aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus. Successivamente pubblicò Soste lungo il cammino, nel 1990, e Naufragio a Milano, nel 1994. Morì nel 1997 ad 86 anni.

Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale”, il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista, ed altri.

Il libro si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humanum mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico. Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere altrimenti essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, in questi anni, se è stata tenuta viva la memoria del De Vitis, ciò si ascrive a merito della dinamica Bondanese, e a maggior gloria del dottore. Lo scritto di Maria, con il titolo “Rocco De Vitis, dottore” era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene anche l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina.

Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra. Questa intensa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in prima persona dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera Soste lungo il cammino. Nel suo scritto Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, le traduzioni di Eneide, Georgiche e Bucoliche, e sono anche riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e anche dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Inoltre vengono da lei ricostruiti i momenti salienti dell’attività sociale e politica del medico nell’immediato secondo dopoguerra, sullo sfondo storico di quell’epoca di ricostruzione e grandi mutamenti. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche e in occasione della inaugurazione della chiesetta eretta per devozione a San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese.

Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” ( una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), nel maggio del 1997. Interessante anche il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate per occuparsi anche della nostra attualità più stringente. Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”.

“Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo, sulla collina supersanese. Elia illustra le varie fasi di lavorazione fino alla perfetta conclusione del tutto. Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del suo territorio, Supersano e il basso Salento.

Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50” di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano” di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano” di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano” di Antonio Romano. In particolare, i contributi di Cortese e Tanisi erano apparsi, in forma sintetica, nella guida del MUBO-Museo del Bosco di Supersano, lo scrigno che contiene la memoria storica dell’antico Bosco di Belvedere, ricordato anche da Cristina Martinelli nel suo scritto “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro Soste lungo il cammino, dedicata al “Lago Sombrino”, un tempo preziosa risorsa del Bosco.

Molto interessante e documentato l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”, una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina frequentato da Rocco De Vitis e dal grande Mario Marti. Parimenti interessante il contributo di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio esemplato dall’amore riversato dal Nostro verso entrambe le discipline. Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria Sezione Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni più disparate che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica, ecc.. Questo, il caso del Nostro, che per tutta la vita ha coltivato, proprio come la sua campagna, l’amore per la letteratura latina e per Virgilio e che con l’opus magnum del “savio gentil che tutto seppe” ha intessuto un lungo dialogo. Sembra quasi di vederlo, De Vitis che, spogliatosi dei panni rustici di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che sviscerano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia, con approccio specialistico. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”; Maria Francesca Giordano con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio. Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”.

La quarta sezione, “Tra storia e Letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione di questa collana editoriale. Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”.

Con l’Indice dei volumi pubblicati si conclude questo libro. Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati al medico umanista De Vitis.

 

Nardò, il Conservatorio di S. Maria della Purità, ovvero quando l’assistenza era amore e non uno squallido affare

di Armando Polito

Probabilmente tutti quelli della mia età appaiono come laudatores temporis acti (chiedo scusa a chi conosce il latino, ma sono costretto a tradurre a beneficio di tutti gli altri, che non credo numerosi …: lodatori del tempo trascorso), dinosauri nostalgici del passato al quale guardano con il telescopio, mentre utilizzano il microscopio per analizzare e poi stigmatizzare da moralisti arretrati tutto ciò che dei tempi correnti non garba loro. Non sono, però, tanto ingenuo da ritenere che la dirittura morale sia stata lo splendido, esclusivo appannaggio delle passate generazioni e che tutto oggi sia manifestazione di luridume interiore. So benissimo pure che oggi vengono alla luce con più facilità certe miserie che prima restavano nascoste, non solo quelle private, personali,  ma anche le pubbliche, istituzionali. E non basta sciacquarsi la bocca con la parola trasparenza, se essa serve solo ad alimentare, con ammiccamento degli stessi mass media, tv in primis, da una parte curiosità di tipo voyeuristico, dall’altra la stessa lotta politica che è al servizio della democrazia solo se obbedisce ai canoni dell’onestà, quella intellettuale compresa, del rispetto reciproco e della verità. Non bisogna fare di ogni erba un fascio (tante sono, per esempio, le associazioni di volontariato al di sopra di ogni sospetto, alle quali dovrebbe andare la nostra gratitudine e che avremmo il dovere di sostenere e difendere, se è necessario anche con rabbioso trasporto d’amore)  ma nemmeno concludere sconsolatamente: tanto è stato sempre così. Faccio presente che la corruzione e la furbizia sono come le malattie infettive, per le quali la profilassi è fondamentale e nei casi più gravi prevede la necessità di evitare qualsiasi contatto diretto, senza adeguata protezione, anche per medici ed infermieri, col soggetto infetto. A mio avviso questa metaforica epidemia, che in passato colpiva soggetti isolati o gruppi sparuti, nel nostro paese è diventata endemia, come attestano le cronache giornaliere, anche se ognuno di noi è innocente fino a condanna definitiva … E poi anche quest’ultima si scontra con l’incertezza che benevola e benefica aleggia sulla durata effettiva della pena inflitta. E così anche laddove va buca con la presunzione d’innocenza, si mette vergognosamente in campo la favoletta del carcere che deve rieducare e redimere. Solo che qualcuno dovrebbe spiegarci come ciò può avvenire con il sovraffollamento che già di per sé rappresenta una violazione della dignità personale. Da qui, per risolvere genialmente il problema, leggi sempre più a tutela di chi delinque e periodici decreti per sfoltire la popolazione carceraria. Io ormai sono troppo vecchio per cambiar rotta ma, se avessi qualche decennio di meno. non so se sarei in grado di non adeguarmi (non mi mancherebbe, credo, l’intelligenza per farlo senza eccessivi rischi …) all’umiliazione continua del merito, della competenza  e dell’onestà, da cui la cultura, quella autentica,  non può mai prescindere, pur negli inevitabili cambiamenti che il trascorrere del tempo, forse fortunatamente, comporta.

Per provare tutto questo, dopo aver lapidariamente ricordato l’inquietante quadro che sta emergendo a margine dell’inverecondo traffico prima e collocamento poi di migliaia di poveri cristi, senza per questo trascurare l’ospizio-lager che ogni tanto assurge al disonore della cronaca, farò un salto cronologico fino a giungere al 1710, cioé all’anno di istituzione a Nardò, da parte del suo vescovo Antonio Sanfelice, del Conservatorio di Santa Maria della Purità.


JESU CHRISTO SACRATUM VIRGINUM SPONSO/IN HONOREM VIRGINIS PURISSIMAE/ANTONIUS SANFELICIUS EPISCOPUS/A FUNDAMENTIS EREXIT/ANNO MDCCXXII2

(Consacrato a Gesù Cristo sposo delle vergini. In onore della purissima Vergine il vescovo Antonio Sanfelice lo eresse dalle fondamenta nell’anno 1722)

Il tempo coinvolge, con quello degli uomini, anche il destino di ciò (dicono …) che lo distingue dagli altri animali: la parola. E così oggi per conservatorio i vocabolari registrano i significati di (cito dal De Mauro) : 1) istituto di istruzione musicale suddiviso in vari insegnamenti (tecniche vocali e strumentali, composizione, direzione d’orchestra e sim.) di durata variabile dai 5 ai 10 anni, un tempo funzionante come collegio 2) collegio femminile tenuto da religiose; educandato 3) ricovero per poveri, anziani, donne o bambini.

Gli ultimi due significati sono registrati come obsoleti e proprio il terzo era quello che agli inizi del XVII secolo aveva il nostro.

Sulla storia della fondazione sua e dell’annessa chiesa rinvio al post di Marcello Gaballo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/il-conservatorio-della-purita-a-nardo-e-il-vescovo-antonio-sanfelice/), del quale questo mio scritto vuol essere una modestissima integrazione. Essa non ci sarebbe stata se, come spesso capita, nel corso di un’altra ricerca, non mi fossi imbattuto proprio in qiella sorta di regolamento per il buon funzionamento del conservatorio, redatto dal vescovo in persona, recante il titolo Viva Giesù  Istruzzioni, e regole per le vergini del Conservatorio di Santa Maria della Purità eretto in Nardò l’anno MDCCX approvate nel sinodo diocesano del MDCCXX, stampato per i tipi di Domenico Viverito a Lecce nel 1720. Chiunque lo desideri può leggerlo integralmente all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ALEKE000268

Nel frontespizio potrebbe suscitare meraviglia prima Giesù e poi istruzzioni; e qualche insegnante allergico (probabilmente per sembrare all’avanguardia o per ignoranza …) al rispetto delle regole grammaticali  (in questo caso in particolare dell’ortografia) potrebbe essere tentato di sfruttare l’occasione per predicare la tolleranza di certe infrazioni o, peggio ancora, l’insegnante non abituato a chiedersi il perché di certi errori (reali o presunti) per dare dell’ignorante al Sanfelice o, addirittura, per mettere sarcasticamente in dubbio l’efficienza educativa (a partire dall’istruzione in senso stretto) del suo istituto. Per quanto riguarda Giesù mi limito a riportare solo due frontespizi (avrei potuto esibirne migliaia) più o meno coevi (ma Giesù è forma attestata fin dal XV secolo), in cui ho evidenziato con una sottolineatura la voce incriminata1.

Pure per istruzzioni potrei esibire migliaia di documenti, ma credo che basti il frontespizio che segue e dire che, come per Giesù siamo di fronte a quella che potrebbe essere definita, in bocca  all’insegnante di cui sopra,  non un’incriminazione ma una calunnia grammaticale2.

Subito dopo il titolo si legge una citazione tratta dalla lettera di S. Girolamo ad Eustochio, avente come tema la custodia delle vergini: Haec omnia, quae digessimus. dura videbuntur ei, qui non amat Christum (Tutto ciò che ho trattato sembrerà crudele a chi non ama Cristo). Un inno alla disciplina e al sacrificio da intonare alla luce della religiosità, concetti che oggi godono di scarso credito o, comunque, di insufficiente applicazione concreta,  nel mondo religioso (in quello istituzionale ed in quello dei credenti) come in quello laico (atei, cosiddetti, compresi); il quale difetto, sia chiaro, non è solo della religione cattolica.
Così mi piace riprodurre dal vivo, delle norme dettate per la vita comunitaria, quelle legate a gesti quotidiani di significato non religioso in senso stretto, ma che dalla sana religiosità traggono ispirazione: Le pp. 204-211 riguardano la figura dell’infermiera.

 

 

La p. 16 è occupata da un’incisione raffigurante la Madonna della Purità. Sarebbe interessante tentare di individuare il modello probabilmente seguito, anche perché mi pare una nota originale, rispetto a rappresentazioni più o meno coeve, lo sfondo costituito da un paesaggio che più terreno non poteva essere.

Lascio ad altri più competenti di me che abbiano tempo e voglia di rispondere a questa domanda ma non posso fare a meno di chiudere con una considerazioni che qualcuno riterrà materialistica. Non potevo,, cioè, non sottolineare la rarità dell’opera, della quale l’Opac registra l’esistenza di un solo esemplare custodito nella biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò, che è, poi, quello digitalizzato, come mostra l’etichetta sul dorso. La destinazione locale quasi sicuramente limitò il numero di copie stampate ma è indubbio che quest’unico esemplare sopravvissuto che si conosca di quello che sarebbe improprio chiamare opuscolo (consta di 252 pagine) è particolarmente prezioso sotto un duplice profilo, quello storico e storiografico propriamente detto e quello bibliografico-antiquario.4

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1 A torto, perché Iesu(m) ha dato nell’immediato Giesù come iam ha dato già, Iove(m) ha dato Giove e iustu(m) ha dato giusto. Poi in –ie– la i è scomparsa, cosa che non è potuta avvenire in ia-, io– e iu-, dove la caduta avrebbe determinato una grave alterazione del suono.

2 La z in italiano è esito per lo più di un originario gruppo latino –ti– seguito da vocale: otiu(m)>ozio. Laddove tale gruppo era preceduto dalla consonante c l’esito all’origine fu –zz-: factione(m)>fazzione; instructionem>istruzzione. E non mancano esempi, per analogia, pure di ozzio.

3 Nella trascrizione che si legge in Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di Marcello Gaballo, Mario Congedo editore, Galatina, 1999, p. 183 risulta omesso SACRATUM ed aggiunto DOMINI.

4) Nell’inventario dei beni del vescovo Salvatore Lettieri redatto dopo la sua morte avvenuta il 6 ottobre 1839 dal notaio Policarpo Castrignanò di Nardò (66/41) in data 30 novembre 1839 a carta 1261v. tra i libri è citato genericamente e senza precisi riferimenti bibliografici (non è l’unico caso) un testo dal titolo Regole per il conservatorio di Nardò, con annessa valutazione di grana dieci. Potrebbe essere una seconda copia del nostro, ma, se tale è, è impossibile dire che fine abbia fatto.

La carzittella (lo stoppino)

di Armando Polito

 

Operazione nostalgia può essere nemmeno tanto pomposamente definito questo post, come, d’altra parte, tanti miei precedenti. Segno ineluttabile del trascorrere del tempo ma anche malinconico ricordo di sentimenti evocati da un oggetto di uso abituale nel passato e che, in questo modo, perde la sua banalità e, in più di un caso, acquista una preziosità che mai ha avuto, non solo di natura economica, ma anche come testimonianza e, dunque, fonte, per conoscere la nostra storia. Solo per questo i musei dovrebbero essere al centro della vita culturale, specialmente per un paese come il nostro, la cui tradizione culturale è oggetto di ammirazione per tutto il mondo. Sembra, invece, che chi ci governa abbia recepito esclusivamente il significato deteriore della locuzione oggetto da museo, comunemente usata per indicare qualcosa di obsoleto ed inutile.  E magari qualcuno considererà pure i collezionisti come psicopatici alla ricerca di cianfrusaglie, una sorta di feticisti delle memoria. Eppure, se non ci fossero loro, la ricostruzione della nostra storia sarebbe più difficoltosa ed incompleta. Non a caso parecchie collezioni sono entrate, entrano ed entreranno a far parte dei musei nazionali realizzando, così,   una sorta di travaso culturale dal privato al pubblico. E, paradossalmente, bisogna essere grati a quegli eredi che, magari per quattro soldi, si disfanno (o disfano, la cui legittimità, ormai, è stata consacrata dall’uso …) di qualcosa che altrimenti sarebbe finito in discarica. Salvo, poi, rimpiangere il vecchio macinino della nonna quando l’interruzione prolungata dell’erogazione dell’energia elettrica rende inutilizzabile non solo la tradizionale caffettiera (ammesso che in casa ce ne sia una) ma anche l’avveniristico gioiello per fare il caffè che, se non è in cialde, andrebbe macinato sul momento  e con quella gradazione ottimale per il cui raggiungimento è stato necessario fare esperimenti per almeno due settimane, dopo le quali, finalmente, salvo che la macchina non faccia, proprio come i pc, quei capricci apparentemente inspiegabili che spesso giustifichiamo negli umani …

Probabilmente se mia zia a suo tempo non avesse fatto piazza pulita di tutti i lumi a petrolio allora in uso non appena la campana (calotta di vetro) per un motivo o per un altro si rompeva, oggi rientrerei nella sottocategoria dei feticisti parziali della memoria, cioè di quei collezionisti che sono costretti ad accontentarsi di oggetti antichi mancanti di qualche pezzo; oppure sfrutterei la reta alla ricerca spasmodica del pezzo, originale,  mancante …

Meglio così, forse, perché oggi dopo la campana non avrei potuto mettere in campo la carzittella., vale a dire quella parte del lume costituita da un tessuto che, imbevendosi del petrolio contenuto nel serbatoio sottostante, consentiva, dopo l’asportazione provvisoria della campana, l’accensione con l’aiuto dell’amico fiammifero . E gli zolfanelli di un tempo, a differenza di quelli di oggi,  non sbagliavano in colpo, perché, forse, contenendo più fosforo, erano più intelligenti …

Sentendo carzittella il pensiero vola subi to alla carza (garza)  e alla ricostruzione della seguente trafila: carza>*carzetta>carzittella, in base alla quale alla nostra voce, diminutivo di diminutivo, dovremmo attribuire la qualifica parentale di nipote di carza. Io credo, invece, tenendo presente che la carzittella ha una struttura tubolare simile a quella di un calzino privo della parte inferiore, che suo padre sia cazzettu (corrispondente all’italiano calzetto, di basso uso rispetto a calzino) secondo la trafila: cazzu (che, però, generalmente al plurale indica i pantaloni; da non confondere con l’omofono in cui la doppia z, non a caso …,ha un suono più duro …)>cazzettu>*carzettu  (dissimilazione forse per incrocio con carza)>*carzettella (diminutivo con cambio di genere)>carzittella.

A dimostrazione che anche nel dialetto (poteva essere altrimenti?) l’obsolescenza di un oggetto comporta la scomparsa non solo della relativa parola ma di tutto il mondo che vi ruota attorno mi piace ricordare il suo uso eufemistico nella locuzione no mmi rumpire la carzittella, corrispondente all’italiano non mi rompere le scatole; alla lettera, però, il riferimento, più che alle metaforiche scatole, è a qualcosa di annesso, di cui ho detto qualche rigo fa a proposito della doppia z

Giuseppe Palmieri sull’agricoltura e la pastorizia del Tavoliere del Settecento

di Michele Eugenio Di Carlo*

Il salentino Giuseppe Palmieri (Martignano, 5 maggio 1721 – Napoli, 30 gennaio 1793), illustre membro della nobiltà del Regno, è chiamato nel 1787 da Acton a far parte del Supremo Consiglio delle Finanze, dove ha modo di proporre incisivamente le sue idee a supporto di un’agricoltura libera da «ostacoli e intralci alla produzione e alla distribuzione dei beni», mediante leggi riformatrici che «eliminino monopoli e abusi, migliorino l’istruzione dei proprietari stessi»[1].

Saverio Russo spiega chiaramente i passaggi attraverso i quali Palmieri giunge a concludere che l’arretratezza agricola del Tavoliere sia da attribuire al sistema della Regia Dogana, estraendo dai Pensieri economici, pubblicati nel 1789, il seguente passo: «L’agricoltura non può migliorare del suo stato durante il sistema del Tavoliere. Non può eseguire la coltivazione al tempo che conviene […] ma deve aspettare il termine prescritto»[2], e dal testo Della ricchezza nazionale, pubblicato più tardi nel 1792, la seguente locuzione che, ponendo fine a riflessioni ed incertezze, non ammette più ripensamenti:

«… è fuor di ogni dubbio, che la pastorizia Pugliese offendi l’agricoltura; anche se non si vuole rinunciare all’uso della ragione, ed all’aumento della ricchezza nazionale, bisogna sbandire questa barbara pratica intieramente dal Regno[3]».

Le drastiche conclusioni a cui giunge Palmieri sono abbondantemente spiegate nel capo III del testo citato, dedicato al tema della ricchezza derivante dalla pastorizia. Per l’economista la pastorizia transumante del Tavoliere è una «pastorizia barbara», praticata da «popoli rozzi», che ha reso un «delitto il coltivar la terra», che ha «dichiarato la guerra all’agricoltura», che può esistere solo dove vi siano vaste aree desertiche o laddove «non si vogliono né uomini, né agricoltura, e si desidera convertire in un deserto il paese».

E tale è il Tavoliere sul finire del Settecento: un deserto privo di alberi con corsi d’acqua non regolamentati che finiscono per produrre paludi e stagni, cagione di malattie malariche che deprimono una già scarsa popolazione.

Per avvalorare le proprie tesi Palmieri ricorre ad esempi di «nazioni culte» in cui pastorizia e agricoltura non sono in antinomia, l’una contrapposta all’altra. Solo per rimanere nella penisola italica, l’autore cita le lane prodotte a Padova – nettamente superiori per qualità e prezzo a quelle pugliesi, prodotte da pecore che vivono in maniera stanziale in campi coltivati –, a dimostrazione che «dove non si cerca, che l’utile, il privare un terreno delle ricche produzioni dell’agricoltura per ottenere le più scarse della pastorizia, rappresenta una condotta strana, in cui non si ravvisa segno alcuno di ragione».

Se si vuole che la pastorizia diventi nel regno di Napoli un settore economico vitale occorre «distruggere Tavoliere, Doganelle e Stucchi», liberandola da vincoli, divieti, impedimenti: «Sia libero a chiunque il vivere da Tartaro: non s’impedisca, non si vieti; ma non si ajuti, non s’inviti, non si comandi».

Tra l’altro, anche in Puglia, nella provincia di Bari e in Terra d’ Otranto, le pecore vivono all’occorrenza al coperto in ricoveri. A Palmieri sembra inutile continuare a sprecare tempo ed energie per dimostrare una verità così evidente: «la pastorizia barbara non può recare che danno, e minorare la ricchezza di una nazione culta»[4].

Per Di Cicco «il profilo della Dogana e del Tavoliere», che balza fuori dalle pagine della sua meritatamente famosa Memoria[5], è icasticamente conforme al vero. Lo stesso Di Cicco, ne Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, sintetizzerà perfettamente le riflessioni e i quesiti posti da Palmieri:

«Perché difendere la pastorizia del Tavoliere, quando essa, conti alla mano, rende meno di quella esercitata altrove? Perché ritenere aprioristicamente che nel Tavoliere niente altro che il gregge possa trovare mezzi di sussistenza, quando tutto il sistema della Dogana congiura contro ogni tentativo innovatore? Perché, infine, allo scopo di giustificare il favore concesso alla transumanza sul demanio armentizio, chiamare in causa la pretesa necessità di provvedere ai bisogni degli abruzzesi, quando è noto che questi, se fossero liberi di poter scegliere, dirigerebbero i loro animali ad altri pascoli, e scendono nel Tavoliere solo perché costretti dalla legge?»[6].

  • Socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia

 

1 F. DIAZ, Politici e ideologi, in Letteratura italiana, cit., pp. 300-301.

2 G. PALMIERI, Pensieri economici relativi al Regno di Napoli, Napoli, 1789, p. 108; cit. tratta da S. RUSSO, Abruzzesi e pugliesi: la ragion pastorale e la ragione agricola, in «Mélange de l’école française de Rome, Moyen age – Temps modernes», tome 100, 1988, n. 2, p. 932.

3 G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale, Napoli, 1792, p. 107; cit. tratta da S. RUSSO, ibidem.

4 Cfr. G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale, cit., pp. 101-107.

5 G. PALMIERI, Memoria sul Tavoliere di Puglia, in Raccolta di memorie e di ragionamenti sul Tavoliere di Puglia, Napoli 1831, pp. 89-119.

[6] P. DI CICCO, Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, cit., pp. 67-68.

I comizi in piazza di una volta, con correlate razzie e abbuffate di nespole

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di Rocco Boccadamo

Ieri sera, mi sono messo ad assistere, arrivando a trattenermi solamente sino a un certo punto, allo spettacolo, propinato come interessante e, però, più che altro triste e avvilente, del talk show di turno, in onda nel palinsesto di una nota ed estesa rete televisiva privata.

Fra gli argomenti proposti, a spiccare maggiormente, è stata la vicenda, invero affatto nuova e/o originale, della diffusione, anzi pubblicazione, di alcune intercettazioni telefoniche, dal contenuto, se non clamoroso, indubbiamente ad alto effetto in seno alla pubblica opinione, aventi per protagonisti un padre e un figlio, o viceversa.

Con la speciale peculiarità, che uno degli interlocutori s’identifica con il più importante esponente politico e, fino a poco tempo fa, anche governativo, del nostro Paese.

Di fronte al conduttore della trasmissione, un esperto e affermato giornalista (l’autore, diciamo così, dello scoop) e un parimenti conosciuto personaggio politico dello schieramento del dianzi richiamato leader, chiaramente lì mandato come panzer contraddittore e negatore all’estremo delle evidenze, o per lo meno verosimili evidenze, emerse dalla faccenda, che, forse, doveva rimanere segreta.

Tra le parti sono sprizzate scintille e, addirittura, volati insulti a ripetizione, eccessi certamente non cancellati, alla fine, dalla stretta di mano di pura maniera.

Segno e conferma, cotanta scena, della campagna elettorale che, dalle nostre parti, si svolge e sussegue ormai in permanenza.

Esausto, anche perché erano suonate le ventitré, ho pigiato sul tasto stop del telecomando, non senza, tuttavia, in quell’attimo, ricondurre alla memoria, nitide e fresche, le immagini di stagioni elettorali lontane, circoscritte in archi di due/tre mesi, vere, autentiche e animate, con la medesima intensità, dai protagonisti, o candidati come meglio dir si voglia, da una banda e dalla gente, dall’altra.

Sia che fossero elezioni politiche, sia che si trattasse di consultazioni amministrative, l’impostazione e il clima erano quasi identici e, soprattutto, non esistevano, allora, distanze o distacchi fra le popolazioni e il cosiddetto palazzo.

Anche se, di là dalle procedure ufficiali e dalle regole burocratiche, gli eventi si tenevano alla buona, con veicoli di comunicazione consistenti appena in immaginette propagandistiche (santini) degli aspiranti consiglieri o onorevoli e manifesti, con o senza l’effige della persona in lista, che ricoprivano i muri delle case e degli edifici in genere.

E poi, ovviamente, i comizi all’aperto, tenuti dai gareggianti locali o dai potenziali parlamentari.

A comprova della sopra ricordata vicinanza fra la gente e il potere politico, a queste ultime manifestazioni in piazza partecipava l’intera comunità paesana; chi amava assistervi, in piedi o accomodato su una seggiola portata da casa, nelle prime file rispetto al palco dell’oratore, arrivava sul posto anche due ore prima dell’evento, già annunciato per le vie del paese anche per opera del pubblico banditore, che girava in bicicletta, con tanto di suoni di tromba per richiamo.

Pure noi piccoli marittimesi, con riferimento al periodo dal 1948 al 1958, eravamo coinvolti nell’atmosfera delle tornate elettorali e nella relativa “macchina” organizzativa, in ciò agevolati dalla circostanza che coincidevano con la fase finale dell’anno scolastico, le verifiche erano terminate e si attendevano solamente gli scrutini.

Ad esempio, collaboravamo con gli adulti nell’affissione dei manifesti e nella distribuzione dei santini.

Ma, con la furberia propria della fanciullezza e dell’adolescenza, la sera, in concomitanza con i comizi, compivamo spesso un’altra azione.

In sostanza, sicuri di aver spazio libero e di non essere scoperti, anziché trattenerci in piazza dove si raccoglieva la totalità della popolazione, sciamavamo in direzione di giardini e campi in zone periferiche della località. Lì, varcando agevolmente muretti di recinzione o dischiudendo precari portoncini, ci portavamo ai piedi o sui rami di alberi di nespole, piante di cui possedevamo un vero e proprio inventario logistico, cogliendone e mangiando a più non posso i succosi frutti, che giungevano a maturazione giusto in quel tempo.

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Da notare che, per via delle cene frugali appena consumate in famiglia e, quindi, dello stomaco ancora capiente, tali scorpacciate clandestine si protraevano a lungo, all’incirca per tutta la durata dei comizi.

Le nostre missioni per incette di nespole iniziavano, di solito, dal fondo “Monticelli” del mio nonno paterno Cosimo e, dopo, proseguivano in vari altri appezzamenti di parenti o semplici conoscenti, dove sapevamo perfettamente che ci fossero piante della specie.

Ad agevolare la nostra opera, rispetto al manto del buio, timido nella prima sera e via via più fitto, il brillio delle stelle e, quando c’era, il raggio delicato della luna, mentre, qua e là, grilli, lucciole delicate e civette stanziali davano l’impressione di non accorgersi o non curarsi delle nostre invasioni, seguitando, invece, a manifestare le loro abituali voci e lucine color verde azzurro.

Tutto si compiva, alla fine, con il rientro nelle nostre abitazioni, abbinato o confuso con il ritorno dei nostri genitori e parenti che avevano partecipato ai comizi.

Morale, vuoi mettere quelle antiche esperienze di campagne elettorali con le manifestazioni e caratteristiche che hanno luogo adesso?

Pirchisciatu o pirchisciata (lentigginoso o lentigginosa)? Ci penso io!

di Armando Polito

Le lentiggini affliggono (mi vien quasi da ridere, pensando alle vere sofferenze,  nell’usare questo verbo) le persone con capelli rossi o biondi e la stessa frequenza del fenomeno dovrebbe far capire che non si tratta di un difetto. Tuttavia, secondo me, non bisogna neppure esagerare nel senso opposto, cioé farsele dipingere quando se ne è privi, come, d’altra parte, succede con i nei.

Comunque, nel caso che, uomini, donne o altro che voi siate, le lentiggini per voi costituiscono un problema, ci sono qui io a liberarvene per sempre. Dovete solo seguire alla lettera i miei consigli.

Il primo è quello di non trascurare nulla, a partire dal nome e, ti pareva …, dalla sua etimologia. Lentigginoso/a derivano, e questa è la prima grande scoperta, da lentiggine, che è dal latino lentigine(m), a sua volta da lens che significava sempre lenticchia . Dall’accusativo di questo lens (lentem) è derivato il nostro lente (per evidentissima analogia di forma, ma si tratta di un passaggio moderno, visto che in latino quella che noi chiamiamo lente era detta, genericamente, vitrum) e dal suo diminutivo lenticula il nostro lenticchia e dall’aggettivo  lenticularis il nostro lenticolare. Va detto per completezza che in latino esiste pure l’omofono lens, dal cui accusativo, lendine(m) è derivato l’italiano lendine, cioé il nome dell’uovo del pidocchio; ma qui siamo veramente in presenza di qualcosa che è più di un difetto.

Per proseguire sulla nostra strada debbo ricordare che si definisce omeopatia l’ indirizzo terapeutico secondo cui le varie patologie sono curabili somministrando ai malati, in dosi minime, quegli stessi farmaci che, se somministrati a individui sani, provocherebbero in essi sintomi analoghi a quelli da curare (citazione dal vocabolario De Mauro). Tutti, o quasi, sanno che tale teoria fu formulata nella prima metà del XIX secolo dal tedesco Samuel Hanneman e che perdura nei suoi confronti lo scetticismo della medicina ufficiale. Non essendo all’altezza per intervenire nel dibattito, dico solo che per me il primo omeopata della storia fu Mitridate (I secolo a. C.-I secolo d. C.), il mitico re del Ponto che, secondo la testimonianza di Appiano (Storia romana, XVI, 111)1, Cassio Dione (Storia romana, XXXVII.13)2 e Marziale (Epigrammi, V, 76)3,  era diventato immune a vari veleni ingerendone volta per volta piccole dosi (credo che la storia sarebbe cambiata se ne avesse ingerito, magari per sbaglio di un servo,  un cocktail …).

Non mi meraviglierei se già qualcuno, sfruttando i principi omeopatici, abbia prodotto e messo in commercio qualche estratto a base di lenticchia che, regolarmente usato per applicazione topica o per ingerimento, magari dopo un ciclo  di tre confezioni alla modica cifra di cinquanta euro ciascuna, cancellerà le lentiggini, come si vede chiaramente dalla foto relativa al prima e al dopo in cui compare,rispettivamente, la solita bonazza bionda tutta efelidizzata4 e la stessa modella senza più una lentiggine ma con una capigliatura bruna, il che fa pensare ad un’imperdonabile svista dell’agenzia pubblicitaria e che quella di prima fosse posticcia …

Io non mi reputo da meno quanto a fantasia; tuttavia finora non ho raccolto nulla, forse perché nel mio stesso modo di esprimermi c’è qualcosa che mi tradisce e, quindi, nessuno ci casca, come, a suo tempo avvenne per i lampascioni (https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/22/il-lampascione-in-quattro-puntate-4/).

Siccome, però, la speranza è l’ultima a morire, oggi voglio fare un ultimo tentativo, sfruttando anch’io la teoria omeopatica. Però, come prima ho sviscerato lentigginoso/a, lo stesso devo fare ora con pirchisciatu/a.  La voce appare come participio passato di un *pirchisciare e quest’ultimo  presenta il suffisso intensivo -isciare; per chi fosse così perverso da volerne approfondire la conoscenza segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/.

– Certi pesci! – dirà a questo punto qualcuno, ispirato  pure dalle due immagini tratte da Wikipedia. Rispondo prima che l’esclamazione isolata diventi un canto corale,  di messa in dubbio delle mie facoltà mentali più che di protesta …

L’intensivo *pirchisciare suppone un *pirchiare, a sua volta dal latino medioevale  pèrchia, che è dal classico perca=pesce persico.  Perchia è nome salentino di due pesci appartenenti alla famiglia dei Serranidi: lo sciarrano (Serranus Scriba L.) e il sacchetto (Serranus hepatus L.).; quelli, appunto, della foto.

Ora tutto sarà più chiaro e sarà chiaro pure che, prima di prendere le persone a pesci in faccia, è bene lasciarle cominciare a parlare, proseguire e concludere.

Non mi rimane che presentare la mia proposta omeopatica che avevo annunziato e della quale probabilmente i lettori superstiti si erano già scordati. Nell’immagine che segue la confezione nella sua veste definitiva per dieci applicazioni (trattamento completo): è già disponibile al modico prezzo di 150 euro iva esclusa;  per il suo eventuale aumento assumere informazioni presso gli organi competenti).

Chi fosse interessato a partecipare a questa che promette di essere la startup del secolo non abbia paura. Saremo in una botte di ferro (anche se il vasetto è di vetro), come attestano le due etichette: quella anteriore con il suo STOPPIRCHISCIAT , per il quale in caso di difficoltà invocheremo non la lettura del cliente (STOP PIRCHISCIAT) da lui interpretata come Stop alle lentiggini, ma quella autentica, la nostra, neretina con una punta di barese (STO PPIRCHISCIAT), da interpretare come Sono rimasto lentigginoso …; quella posteriore, poi, non ja bisogno di alcun commento.

Ho, però, la sensazione, pur confusa, di aver sbagliato qualcosa, come a suo tempo fu per i lampascioni, alla cui metaforica rottura non voglio dare ulteriormente il mio contributo, per cui finisco qui.

La viabilità di un tempo e la sua coeva terminologia, con l’immancabile sguardo al presente

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di Armando Polito

Era la lontana estate dei miei primi nove o dieci anni quando rimasi folgorato pure io, ma non sulla via di Damasco, anche se di via sempre si trattava.  Un vicino di villeggiatura nel descrivere in dialetto (e in che, sennò, in inglese?) le meraviglie di una strada che aveva percorso col suo biroccio qualche giorno prima, usò una  locuzione che io conoscevo sì, ma con diverso significato: totta smartata. Se si fosse trattato di una pentola, tutto sarebbe stato chiaro (tutta smaltata), ma la stranezza di smaltata riferito ad una strada sarebbe rimasta per me un mistero se, allontanatosi il vicino, mio padre, nei cui occhi avevo colto qualche minuto prima un sorriso tra l’affascinato e il compassionevole, svelò a metà, cioé solo per quanto riguardava la compassione, il mistero: il vicino aveva deformato asfaltata in smaltata. Avrei dovuto attendere qualche decennio per comprendere l’altra metà dell’espressione di mio padre e che, poi, è quella prevalente che mi spinge a ricercare il motivo dell’errore in cui chiunque, anche il più acculturato, può incorrere. Nel nostro caso la deformazione operata dal vicino era indotta da quattro  fattori: a) la relativa novità di asfaltata, la cui connessa tecnologia era di applicazione recente1 e, dunque, poco diffusa, specialmente dalle nostre parti; b) la difficoltà di pronunziare correttamente una parola nuova; c) la parziale omofonia;  d) una certa congruenza semantica che dà vita ad una metafora. Questo miscuglio deve aver partorito, con un’interazione fulminea (oggi diremmo in tempo reale) tra i suoi ingredienti, quello smaltata, i cui involontari esiti poetici erano stati senza dubbio alla base del momentaneo fascino che la parola aveva esercitato su mio padre. E debbo dire che la creatura (non sapremo mai se il vicino ne era stato il padre) crebbe regolarmente, se ebbi occasione di risentirla, anche a qualche anno di distanza, dalla bocca di altri.

Vai a spiegare tutto questo a chi crede di risolvere i problemi di tutti (i suoi non so …) con i giochi di parole e ha fatto del verbo asfaltare il suo grido di battaglia …

Oggi ciascuno vuole asfaltare chi non la pensa come lui (magari anche quello; il buon Benito ai suoi tempi, se non si fosse fatto fotografare in vesti di mietitore, avrebbe usato il verbo mietere e, poveretto, forse fu pure costretto a non usare falciare per la parziale omofonia tra falce e fascio …) e, tutti presi dall’asfaltatura metaforica, coloro che hanno il potere e il dovere di farlo, trascurano quella letterale o, nei casi in cui se ne occupano, bene che vada, complici regole burocratiche che spesso si direbbero scritte da psicopatici, avallano lavori che a distanza di poco tempo, con inconvenienti di ogni genere, rivelano la loro virtualità (mai una parola primitiva, virtù nel nostro caso, fece fine peggiore …), cioé la loro esistenza solo sulla carta …

Certamente questo non succedeva all’epoca delle prime asfaltature e il mantello stradale si manteneva efficiente per parecchi anni. Poi l’industrializzazione  trionfalmente selvaggia , la stupratrice frenesia costruttiva, il progresso tecnologico ciecamente asservito al profitto immediato e ad ogni costo, il tutto supportato in malafede,ormai di regola, da ricattatorie velleità occupazionali tutte da dimostrare, non solo hanno eroso, alterato, distrutto il paesaggio sostituendo alla perfetta grafia della natura inverecondi sgorbi umani ma hanno sottratto pure territorio all’agricoltura (per la nostra regione Ilva, solare e sviluppo turistico alla Briatore docent).

Oltretutto, se pensi a creare il nuovo (autostrade, circonvallazioni, viadotti, bretelle, svincoli, rotatorie, etc. etc.) e non curi il già fatto, quest’ultimo è condannato, in assenza di manutenzione, alla fatiscenza, con tutte le conseguenze che il fenomeno porta con sé, non escluso il rapido deterioramento pure del nuovo patrimonio sovradimensionato rispetto alle risorse disponibili per la sua gestione. E, appunto, oggi, anziché manutenere l’esistente (cosa che di per sé sarebbe una grande opera) si preferisce realizzare il nuovo, possibilmente di grandi dimensioni (il ponte sullo stretto ne è l’esempio più eclatante; peccato che ogni volta che si programma la sua realizzazione misteriosamente tutto si ferma alla fase progettuale, inizio dello sperpero del pubblico denaro in quanto, finché e se ci sarà mai l’inizio dei lavori, quel progetto dovrà essere aggiornato o rifatto, naturalmente con costi aggiuntivi per il contribuente e con beneficio dei soliti noti) perché la potenziale incertezza dei tempi di realizzazione loro connessa diventa fisiologica, a lavori avviati,  a causa (o grazie a? dipende dai punti di vista …) contratti e gare dì appalto fatte con i piedi e con controlli in cui poi si scopre che i controllari coincidevano con i controllandi (e, infatti, siccome corrompere se stessi non è reato, quando mai potremo sperare di vedere in galera  qualcuno di questi autentici geni sì, ma dell’imbroglio e di quella metaforica attività militare che si chiama conflitto di interessi?

C’è da meravigliarsi, perciò, passando dal macroscopico al microscopico, se anche in pieno centro abitato  gli utenti di una via, pedoni inclusi, debbono fare, a Nardò come altrove, lo slalom tra le buche e tentare pure di memorizzare il percorso per non finirvi dentro quando la pioggia renderà pressoché invisibile l’insidia ?

Quelle buche  nel dialetto locale si chiamano sottamanu. La voce trova il suo esatto corrispondente, formale e semantico, nell’italiano sottomano che, come avverbio è sinonimo di a disposizione o di nascosto e nella scherma indica il modo di portare il colpo con la mano che  impugna l’arma ad altezza inferiore rispetto alla spalla, oppure  nella pallacanestro, il passaggio o tiro in corsa eseguito tenendo la palla sulla mano aperta; come sostantivo indica la cartellina che si tiene sulla scrivania come appoggio per il foglio su cui si scrive e come custodia per fogli, buste e simili, oppure la somma di denaro offerta in cambio di favori e agevolazioni, specialmente illecite o, come si dice oggi, penalmente rilevanti. È evidente come il significato dialettale di sottamanu legato alla viabilità sia connesso al di nascosto sinonimo di sottomano; la parola dialettale non include, rispetto a sottomano,  i significati tecnici legati allo sport, che nei nostri tempi la fa da padrone per gli enormi interessi economici che muove, ma, in compenso, è usato pure per indicare il fenomeno di corruttela ricordato dall’ultima definizione della voce italiana. E tra buche più o meno visibili e bustarelle nascoste il cerchio (altro che giglio! Povera Firenze, non potevi sceglierti come simbolo un fiore simbolo di zozzeria? …) magico si chiude … Rimane il dettaglio dell’occultamento, presente anche a livello sessuale in mano morta, coinvolgente la mano, quella stessa, poveretta pure lei!, chiamata a rimediarvi, ahimé con esiti poco duraturi, con mani pulite .mi vien da ridere se non fosse tragico, e, bene che vada con la consueta mancanza di trasparenza, in manutenere (la voce è dal latino  manu tenere=tenere con la mano), senza mettere in campo uno dei tanti esempi di strumenti educativi di un  tempo (discutibilissimi per il mio modo di pensare, ma sfido chiunque a dimostrare che fossero in grado di produrre i danni devastanti garantiti da certi atteggiamenti genitoriali e sociali (anche legislativi e giuridici di oggi) la famigerata manu longa (mano lunga) che dal buio del pozzo sarebbe stata pronta a ghermire il bambino imprudente che si fosse affacciato pericolosamente al suo parapetto.

Se la crisi economica non avesse rallentato il processo di cementificazione e, dunque, anche di asfaltizzazione del territorio, mentre le buche delle strade asfaltate sarebbero comunque rimaste, progressivemente avremmo assistito alla scomparsa prima delle carrareddhe2 (sentieri, viottoli) e poi pure delle cazzatore3 (i due solchi lasciati dalle ruote di un veicolo, traino in primis). Cosa succederà nel lungo termine è difficile pronosticare. C’è solo da augurarsi che l’uscita dal tunnel, da troppo tempo attesa, non crei un nuovo miracolo economico che, non opportunamente pilotato per il bene comune,  a cominciare dall’ambiente, potrebbe provocare l stesse conseguenze della cattiva gestione di tutti quelli che nella storia si sono avvicendati. Se così non fosse avremmo definitivamente la conferma del biblico nihil sub sole novum (niente di nuovo sotto il sole) al quale, in rapporto al tema di oggi, dovremmo affiancare il pubblico (nel senso di relativo ai lavori pubblici) nihil sub solo novum (niente di nuovo sotto il suolo) …

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1 Anche se gli idrocarburi erano conosciuti da molto tempo (vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/07/03/la-puglia-olio-o-petrolio/), come mostra la stessa etimologia di asfalto: dal latino tardo asphaltu(m), a sua volta dal greco ἄσφαλτος (leggi àsfaltos)=asfalto, bitume, pece.

2 Carrareddha è  dimutivo  di un inusitato *(via) carrara=(via) carraia, destinata ai carri. E per le formiche che, pur nel loro piccolo, oltre che incazzarsi, si muovono, c’è, carisciola per indicare la loro fila o anche il piccolo sentiero che si forma dopo il loro passaggio, nonché per traslato la traccia lasciata dallo sversamento di un liquido o dall’effondersi di un profumo.

3 Cazzatora è da cazzare=schiacciare, probabilmente per assimilazione dallo spagnolo calzar, a sua volta dal latino medioevale calceare=stipare e questo dal classico calceus=scarpa.

Libri| Luca e il bancario

Copertina 2016_colore:Coprtina Il geco (boccadamo)

di Marcello Buttazzo

L’amicizia è un giacimento di calie preziose, un tesoro di sole, uno dei beni immateriali di più inesausto sapore, che armonizza il mondo, che salva la vita. Ho conosciuto Rocco Boccadamo nel settembre 2012, a Lucugnano, a Palazzo Comi. Con Vito Antonio Conte e con Giuliana Coppola presentavamo il mio libretto di poesie, “E ancora vieni dal mare”, nella Casa di rose del preclaro poeta. A Rocco, di cui in passato avevo già letto alcune sue lettere sulle rubriche de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e de “Il Corriere del Mezzogiorno”, donai la mia silloge. Su quell’incontro Rocco scrisse amorevolmente sul sito della Fondazione Terra d’Otranto. Prima del trascorso Natale, Rocco s’è recato nel mio paese, Lequile, e mi ha donato il suo ultimo lavoro “Luca e li bancario” (pubblicato da Spagine – Fondo Verri Edizioni). Rocco ha avuto, finora, varie e intense esistenze. Agli albori delle primavere, sboccia la sua vita fanciulla, bambina, di arguto adolescente, di giovinetto diligente e studioso. Una esistenza giocata e bordeggiata a Marittima, nei paesi vicini, con il riverbero del mare negli occhi, confortato dalla Natura e dagli affetti più cari. Dopo il diploma, conseguito in modo brillante, Rocco ha iniziato, quasi subito, per una serie di motivi, l’attività lavorativa di bancario. Che lo ha portato in giro per l’Italia. Un lavoro denso di soddisfazioni, di abnegazione, di alacre operosità. Nel libro “Luca e il bancario”, mi colpisce, tra le tante cose, la descrizione emozionale e vibratile di Rocco nel ricevere il suo primo stipendio. Nella fase adulta, lui ha traversato e traversa il tempo e respira il suo giardino più intricato di sogno e di sperimentazione: quello della scrittura. Da grande Rocco ha deciso che la scrittura dovesse essere la sua ineludibile compagna di viaggio, la panacea universale, la sua musa prediletta e preferita, campo immenso di rossi papaveri e d’esplorazione del vivente. Dal 2004, pubblica sistematicamente i suoi volumetti di storie vivide d’amore e di paesaggi incontaminati. Scrive su Internet, per diversi periodici, con puntualità e parsimonia, con uno stile sobrio e pulito. Da tempo, seguo con interesse i deliziosi bozzetti del nostro prolifico Autore sul periodico Spagine del Fondo Verri. Il Fondo Verri, per noi anime indocili, vagolanti come la luna, è una fucina di arte e di cultura. Forse, questa fase matura della vita di Rocco si può sostanziare come quella più articolata, da certi punti di vista più ricca di placide, serafiche albe nuove e inedite. Lui è padre, è marito accorto, è nonno premuroso di alcuni bellissimi ragazzi e dolcissime fanciulle. È una persona umile e perbene, integrata nel connettivo sociale, è un uomo rispettoso e contegnoso. È un narrastorie leggiadro ed elegante. Semplice e diretto nell’incedere e nel procedere scritturali, ma con una visione allargata e ad ampio spettro, conscio che la sua prosa lineare sia quella più benaccetta e fruibile. Lui mediante la scrittura, tramite la prosa e il racconto, recupera la capacità di paziente rabdomante, che va alla ricerca delle venule più chiare, che scandaglia con passione i vissuti. Avverto tutto ciò anche e preminentemente in “Luca e il bancario”: il nostro narrastorie tramite il medium della scrittura s’abbandona sovente sulle ali del ricordo, della pacificatoria reminiscenza. Rivive gli anni passati, quando la vita era un primordiale virgulto di primavera e di sogno. Rocco sa far rivivere con movenze umanissime e palpabili tutto un universo di uomini e di donne, di gente della sua Marittima, di Castro, della sua terra natia rosso sangue di zolle marroni. La scrittura, si sa, può diventare uno strumento pacifico e non violento per interrogare a fondo il proprio sé e per gettare un ponte conoscitivo e creativo con l’altro da sé. È una medicina benedetta che terapeuticamente ci fa affrontare il tempo gaio e quello triste, il pianto e la gioia, il sole e la tempesta, la caduta repentina, la salita vertiginosa. Rocco narra le storie, descrive di sé, ma soprattutto degli altri. Lui, da anni, conferma la sua dote precipua di narrastorie, legato alla memoria che è carne viva. La sua è narrazione del ricordo, sovente tratteggiata con vivida nostalgia: sa scavare a fondo nei vissuti bambini e giovanili. La sua è narrazione del paesaggio, perché le località cristalline, di adamantina purezza, di Marittima, di Castro, di Acquaviva, campeggiano spesso, con storie umanissime e pulsanti di passione. Racconto di luoghi, perché nelle pagine di “Luca e il bancario” i campi d’ulivo, i boschi di virente colore, compaiono con veste anche lirica. Descrizioni davvero dettagliate e felici del paesaggio e, soprattutto, della gente d’intorno. I protagonisti veri sono contadini, allevatori, lavoratori, calzolai, ciabattini, insomma quel popolo multiforme e silenzioso, che solitamente ha fatto e fa la Storia. La gente che la vulgata comune dipinge come marginale, ma che per Rocco ha una centralità assoluta. “Luca e il bancario” è, altresì, un diario di viaggio, che percorre gli spostamenti dell’Autore bancario per varie città d’Italia. Ho potuto notare, fra le altre cose, la sincera devozione di Rocco, che è sia laica, che religiosa e spirituale. In lui vibra potente l’amore per l’umanità, per la gente umile. Lui sa anche celebrare doverosamente festività come l’Assunzione, sa dare la sua carezza a figure come Sant’Antonio da Padova, alla Madonna, a San Francesco, anima folle stremata d’amore. Quella di Rocco è narrativa degli affetti: Il padre è una figura sempre viva di fulgente luce. L’universo immaginifico e reale del nostro Autore si vivacizza di tanti protagonisti del popolo: il novantenne Orlando intento con il suo coltellino a raccogliere bacche e fichidindia, Vicenzu ‘u cuzzune e il suo asinello dalla lenta andatura. Il contadino compare Vitale. Ed ancora Consiglio, nachiro (capo ciurma nei frantoi oleari in autunno), Teodoro avvezzo a far bagni a pelo d’acqua.  Come non ricordare il cugino Luca sempre pronto alla battuta e al sorriso. Ed ancora l’anziano contadino Luca. La vita è un continuum, si susseguono le varie fasi in un collante di relazioni. È quello che succede anche al nostro Autore che, pur peregrinando per l’Italia, deliberatamente non recide mai i propri legami, rinnovellando sempre di nuova linfa vitale le sue radici. La sua villetta fiorita alla “Pasturizza”, è una sorta di buon ritiro, un posto d’elezione, uno specchio d’anima. L’Acquaviva (insenatura prossima a Castro Marina) è un porto di bellezza adamantina. Marittima brilla in tutto il suo lucore, di aurore frementi d’amore, di sole assetato di visioni, di crepuscoli screziati e aranciati, di notte fruscio di stelle silenziose e assorte. In “Luca e il bancario”, Rocco con dolcezza e con delicatezza ci conduce attraverso questi Frammenti di vita salentina. In essi traspare un amore sviscerato per la sua terra, utero di mare, madre accogliente, culla d’eterno. C’è davvero un filo conduttore che anima “Luca e il bancario” e tutti gli scritti di Rocco Boccadamo: è la soavità amaranto dell’amicizia, che ci lega e ci cattura al lume d’un’idea. Infine, vorrei dire che nelle opere di Rocco c’è un anelito francescano, una manifesta esortazione a vivere una esistenza di piccoli passi quotidiani e ordinari. E la sua cifra poetica più sentita risiede proprio nella tendenza di voler tratteggiare con occhio giustamente benevolo quella umanità silenziosa e umile, che fa la Storia.

 

“Luca e il bancario” di Rocco Boccadamo, Spagine Fondo Verri Edizioni, dicembre 2016

Nardò: la “Montagna spaccata” com’era nel 1778 e com’è oggi

di Armando Polito

Il 12 maggio u. s. il signor Luigi Congedo, commentando su Facebook un mio articolo postato da Marcello Gaballo e che era già uscito il 12/11/2015 su questo blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/), scriveva:

Sono quasi certo che il primo acqurello della serie e’ la montagna spaccata prima che fosse modificata per aprirvi la strada – sulla destra si vede la torre dell’alto lido e piu a destra la serra che precipita infatti dalla strada statale gallipoli taranto fino a lido conciglie – non ho dubbi….

E come non condividere la sua opinione, di fronte alla schiacciante sovrapponibilità dei due profili, come mostrano le due immagini (la prima ripresa dal mio post, la seconda è quella allegata dal sig. Congedo nel suo commento) che di seguito ho accostato per consentire a tutti un agevole controllo comparativo?

Pur complimentandomi con l’autore della scoperta, non posso però fare a meno di un’osservazione di carattere generale più volte replicata. Non gli si può certo rimproverare di aver postato il suo commento su Facebook e non direttamente sul blog della fondazione in calce al mio articolo, perché non avrebbe potuto allegare la foto recente. Tuttavia rivolgo ancora una volta a tutti i lettori la preghiera, se è possibile e qualora il commento sia solo testuale (per gli eventuali allegati a supporto basta fare riferimento ad essi e sarà cura della redazione far sapere come renderli pubblici), di collocarlo in coda al post volta per volta interessato nella sua sede nativa (il blog della fondazione), laddove, oltretutto, chiunque è obbligato ad andare per leggerlo. Comprendo che digitare i pochi dati richiesti può essere fastidioso, mentre in Facebook tutto è automatico, ma un po’ di fastidio val bene il non correre il rischio di perdere qualcosa di estremamente interessante, come in questo caso.   Oltretutto il mio controllo di Facebook è piuttosto saltuario e, ora parlo egoisticamente, se è mancata o mancherà la mia risposta o la mia replica a qualche osservazione, magari  non proprio benevola, ciò è e sarà da imputare soltanto a mancata lettura. Ora vi lascio perché debbo precipitarmi su Facebook per apporre il mio “mi piace”, cosa che qualche minuto fa mi ero scordato di fare …

 

La scappatora (il ritaglio di tempo libero)

di Armando Polito

Il titolo ha messo impietosamente in risalto col nesso tempo libero un fenomeno che oggi come non mai dovrebbe vivere la sua trionfale esplosione. Si dice, infatti, che il lavoro manca; e il tempo di cui parliamo da che cosa dev’essere inteso libero se non dal lavoro? Bisognerebbe, però, secondo me tener distinti i due concetti di lavoro e di occupazione, non necessariamente correlati a tal punto da essere considerati sinonimi. Come si spiega, infatti, che da un anno mi sto dannando l’animo con alcuni lavori di manutenzione della mia abitazione (lavori non di poco conto, dunque finanziariamente rilevanti), nel senso che ben tre imprese invitate a fornirmi un preventivo, dopo avermi assicurato che avrebbero provveduto a breve, non si sono fatte più vive? Eppure nessuno avanza soldi da me e sono il tipo che sono disponibile a saldare il conto a meno di un’ora dalla conclusione dei lavori.

Mi son lasciato prendere ancora una volta la mano dalle mie vicende personali  che, come tutte quelle di questo tipo, possono interessare al più chi ne ha vissute di simili. La mia voglia di essere da un lato concreto e dall’altro di dare un taglio “universalizzante” ai miei scritti (manco fossero poesia …!) mi ha sempre esposto a questo rischio costringendomi, dopo lo straripamento, a rientrare nell’alveo. E l’alveo di oggi è rappresentato dalla parola scappatora. Tuttavia, per non rientrarvi troppo rapidamente e nello stesso tempo per fornirne un esempio d’uso dopo che il suo significato l’ho già chiarito, mi chiedo: è mai possibile che il titolare di ciascuna impresa di cui sopra non abbia trovato una scappatora per recapitarmi il suo preventivo?

Comunque sia, continuando con l’esame della nostra voce, va detto che il suo corrispondente formale italiano è scappatoia, come per mangiatora lo è mangiatoia; ma mentre in quest’ultimo esempio la corrispondenza semantica è perfetta, lo stesso non succede nel nostro caso, avendo assunto scappatoia una valenza quasi furbesca. Ad onor del vero va detto che il costume si evolve, per cui oggi se, per fare un esempio, hai bisogno di un idraulico e questi da te contattato, ti dice itimu ci trou nna scappatora (vediamo se trovo un attimo di tempo) vuol dire semplicemente che la sua prestazione sarà da secondo lavoro e che questo sarà ancora più in nero (cioé senza fattura) di quanto, molto probabilmente, sarebbe stato se fosse stato il primo …E poi, anche se dovesse incappare in qualche guaio tributario, ci sarà sempre il bravo commercialista che, sfruttando a dovere leggi specifiche scritte, come tutte ormai, con i piedi, gli offrirà la scappatoia alla sua scappatora

Ciò che è certo è che scappatora è da scappare, formato da s– privativa e da cappa, per cui alla lettera scappare vuol dire liberarsi della cappa (che sempre un intralcio è), azione preliminare rispetto alla fuga.

La cosa curiosa, ma le parole sono piene di esiti curiosi, è che quando l’idraulico di prima, sempre lui, poveretto! …),  annunzia alla cliente con sua grande gioia sta scappu! (sto venendo!) non è, a cauda della traduzione, ineccepibile, che ne ho dato,  la conclusione tanto precoce da precedere pure l’inizio …, di un’avventura diventata, a torto o a ragione, un topos coinvolgente anche il postino e il ragazzo delle consegne), ma solo l’annunzio di una fuga, si spera immediata, dal lavoro in cui era impegnato in quel momento e la contemporanea corsa sfrenata verso un rubinetto capriccioso bisognoso del suo intervento; anche perché chi lo ha chiamato, e questo dettaglio gli fa enormemente comodo ,  non capisce un tubo …

Poi sappiamo come va a finire: dal fatidico sta scappu! trascorrono più giorni senza che si veda nessuno e più mesi nel caso in cui sia stato detto itimu ci trou nna scappatora

NNARGIARE (marinare la scuola): due ipotesi etimologiche

di Armando Polito

Come tutte le cose proibite l’azione espressa da nnargiare ai miei tempi aveva una valenza tutta particolare: da un lato la paura per le conseguenze, a scuola e in famiglia, che ne potevano derivare, dall’altro il piacere di sottrarsi a quella gran rottura di scatole che era pur sempre la scuola, per cui il girovagare, da soli o in compagnia, risultava più gratificante che partecipare a una lezione, volevo dire ascoltare una lezione; e credo che proprio per questo la lezione fosse (e probabilmente è rimasta …) una gran rottura dei nominati contenitori. E il maschilismo pure linguistico allora (e oggi?) imperante sanciva la menzogna  che almeno le ragazze ne fossero immuni …

A me il nemmeno tanto sottile piacere della nnargiatura  è stato negato perché quella carabiniera di mia madre mi ha accompagnato in classe (non lasciandomi al portone …) fino al primo liceo e anche mio padre riusciva a mantenere periodici contatti con i miei insegnanti nonostante le oggettive difficoltà: essendo ferroviere doveva sacrificare per incontrarsi con loro  un poco del tempo destinato al riposo dopo il turno di notte.

Con quel servizio di controllo così efficiente ho dovuto aspettare il primo liceo per realizzare la possibilità teorica di nnargiare, ma, ormai, l’imprinting (fa senso, vero?, leggere a così poca distanza l’uno dall’altro un vocabolo così antico ed uno così moderno) ricevuto mi aveva immunizzato da qualsiasi peccaminosa tentazione. E così le mie uniche  nnargiature furono quelle, per così dire, istituzionali, cioè propiziate dagli scioperi studenteschi che allora cominciavano a verificarsi: di fronte ad una classe con un solo alunno, io appunto, il preside non poteva far altro che convocare un genitore per prelevarlo.

E oggi? Preferisco tacere (dico solo che si è passati da un eccesso all’altro, ma le lezioni probabilmente son rimaste una gran rottura di scatole, con la differenza che la rottura di allora qualche risultato lo ha dato, quella di oggi …) o, meglio,  continuare a parlare del passato, perché a questa fase temporale è, inevitabilmente, legata ogni etimologia.
Ecco cosa ne pensa il maestro di tutti coloro che abbiano intenzione di occuparsi di questo: il Rohlfs.

 

La voce nnargiare risulta raccolta sul campo (l=Lecce; posso, però, assicurare che essa è in uso anche a Nardò), oltre che attestata letterariamente: L6= Fernando Manno, Dizionario del dialetto salentino leccese (manoscritto  stilato dal 1929 al 1932); (L)21=Francesco d’Elia, Vita ed opere di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black. Poesie edite ed inedite, Lecce, 1926. Per nnargiatura, invece, la sola attestazione letteraria (L6).

Per il Rohlfs,inoltre, l’etimo di nnargiare (e, si deduce, del derivato nnargiatura sarebbe gergale, cioé in uso esclusivo  in un determinato ambiente (in questo caso quello studentesco). In questo caso, però, trattandosi di una voce dialettale, la ricerca etimologica si complica rispetto agli altri linguaggi definiti settoriali; tant’è che egli non avanza nessunna proposta etimologica, come se per ogni voce gergale (o per la maggior parte di esse) non esistesse etimo; anche se è più complicato individuarlo (infatti etimo incerto è nei dizionari una costante una costante per la maggior parte delle voci gergali)  proprio per il ristretto numero, almeno all’inizio, di utenti e per lo stesso utilizzo riservato  a pochi, quasi da setta segreta.

Probabilmente scoraggiato da quanto letto nel Rohlfs, Antonio Garrisi nel suo Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino (Le), 1990 tratta il lemma nel modo che segue:

“nnargiare tr. e intr.; pres. nnàrgiu, ecc.; impf. nnargiàa, ecc.; p. rem. nnargiài, ecc.; pp. nnargiatu. Marinare disertando i propri còmpiti: me ene biri cu nnàrgiu la fatìa mi viene voglia di marinare il lavoro. DE D.  L’angelieddi nnargiànu la lezione / e lle pinne ca aìanu se sçiucànu.”. Nulla di più se non la riproduzione  del testo del De Dominicis.

Si ricollega al Rohlfs pure Giuseppe Presicce autore del pregevole Il dialetto Salentino come si parla a Scorrano consultabile solo in rete (http://www.dialettosalentino.it/i.html), dove il lemma si presenta così trattato.

Non vorrei che quanto sto per dire fosse interpretato come il velleitario tentativo di proseguire (tanto meno portare a termine) il cammino partendo dal punto in cui gli altri si sono fermati, proponendo, addirittura (ma non esiste il senso della misura?) già nel titolo due ipotetiche soluzioni.

Prima ipotesi

Connessione con il greco ἀνέργεια (leggi anèrgheia)=inattività, a sua volta connesso con l’aggettivo ἄνεργος/ἄνεργον (leggi ànergos/ànergon)=inattivo, composto da -ἀ con valore privativo+ –ν– eufonico +ἕργον (leggi ergon)=lavoro.

Seconda ipotesi

Connessione con il verbo greco ἀνέργω (leggi anergo) o ἀνείργω (leggi anèirgo)=far indietreggiare, respingere, distogliere, che è composto da ἀνά (leggi anà)=sopra+εἴργω=chiudere fuori, tenere lontano.

In entrambe le ipotesi l’aferesi di – (leggi a-) spiegherebbe l’nn- di nnargiare, raddoppiamento che sarebbe di compenso e non di natura espressiva.

Il concetto base di allontanamento si conserva pure nel prima ricordato sciopero, che è deverbale da scioperare, a sua volta da ex=lontano da+operare=occuparsi di qualcosa. E mi piace ricordare che ai miei compagni scioperanti, cui il preside aveva obiettato che lo sciopero era riservato ai soli lavoratori, suggerii di ribattere la volta successiva che la loro attività di studenti era assimilabile al lavoro evocato da opera e che di quella, intesa nel senso più nobile, non potevano essere considerate protagoniste solo la componente direttiva, l’amministrativa  e la docente. A modo mio mi sdebitavo una volta per tutte del piacere che il loro sacrificio mi aveva procurato (anche se non immediato, perché allora il telefono, almeno in casa mia, il bidello non era Pietro Mennea e mia madre non sarebbe venuta a prendermi a meno di mezz’ora dal fattaccio.

A pensarci bene chissà che carrierona avrei fatto come sindacalista ! E pure voi non sareste incorsi nella disgrazia di leggermi …

La battaglia navale del Canale d’Otranto (14-15 maggio 1917)

Giovedì 11 maggio 2017. Ore 18.00.

Sala Convegni Hotel Palazzo Virgilio, Brindisi.

XI Convegno Nazionale di Studi e Ricerca Storica

La Puglia, il Salento, Brindisi e la Grande Guerra

VII sessione. La battaglia navale del Canale d’Otranto (14-15 maggio 1917)

 

Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o simboliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche dei workshop creativi dell’arte del vivere insieme, dei terreni in cui vengono gettati e germogliano (consapevolmente o meno) i semi di forme future di umanità.

Zygmunt Bauman

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Organizzazione:  Rotary Club Brindisi (ospitante); Società di Storia Patria per la Puglia (Sezione di Brindisi); Società Storica di Terra d’Otranto;  AssoArma Brindisi

 

Lo sbarramento del Canale d’Otranto fu al centro, nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1917,  della più grande battaglia navale avvenuta in Adriatico nel corso nella Grande Guerra.  Fu essa originata dal tentativo austroungarico  di forzare il blocco che impediva alla Imperial Regia Marina di uscire dall’Adriatico per accedere al Mediterraneo.

La marina dell’Intesa cercò quasi subito di chiudere l’Adriatico creando, fin dal 1915, uno sbarramento di pescherecci armati, drifters,  dotati di reti d’acciaio a strascico, per pattugliare la strettoia del canale di Otranto; lo scopo era quello d’ impedire ai sottomarini austroungarici di uscire nel Mediterraneo a caccia di bersagli. Questa barriera, di una cinquantina di imbarcazioni, era appoggiata dalla ricognizione aerea e da flottiglie di cacciatorpediniere pronte a intervenire al minimo allarme. Si trattava di un deterrente piuttosto efficace che, in pratica, paralizzò l’attività della marina austroungarica, tanto che essa tentò numerose volte di intaccarlo con incursioni a sorpresa, effettuate di notte a più riprese: 5 volte nel 1915, 9 nel 1916 e 10 nel 1917. L’operazione principale fu condotta nella notte del 14-15 maggio 1917; essa assunse il carattere di scontro navale vero e proprio e prese il nome di “battaglia del canale di Otranto”.

Al termine della battaglia navale di sicuro più importante dell’Adriatico le unità dell’Intesa colpite gravemente furono il Borea, l’Aquila, il Dartmouth, il Bristol con un bilancio di 7 morti sull’Aquila, 8 morti e 7 feriti sul Dartmouth, 11 morti e 12 feriti sul Borea mentre gli austriaci contarono 14 morti e 33 feriti sul Novara, 1 morto e 18 feriti sull’Hegoland, 3 feriti sul Saida. L’azione della squadra austroungarica ottenne un evidente successo, almeno a breve termine. Nello scenario generale, viceversa, questa bruciante sconfitta ebbe per conseguenza un fortissimo aumento dell’impegno navale degli alleati nel basso Adriatico, con lo schieramento permanente di una flotta di ben 35 cacciatorpediniere, tra cui anche unità australiane e statunitensi, 52 pescherecci e più di cento navi da guerra di vario genere, finché, nel corso del 1918, il canale venne sbarrato con una struttura permanente che chiuse la questione. In definitiva, anche questo scontro navale conferma che per quanto brillanti potessero apparire le iniziative degli imperi centrali, alla fine emergeva  la decisiva supremazia materiale dell’Intesa, che era in grado, all’occorrenza di schierare imponenti forze per fronteggiare le necessità contingenti della guerra. Cosa che, un poco alla volta, Germania ed Austria – Ungheria non potevano più fare. Il Materialschlacht imponeva le sue ferree regole anche tra le due sponde del mare Adriatico.

Nel giugno del 1918 l’Austria-Ungheria pianificò una grande offensiva sul Piave per fiaccare definitivamente le truppe italiane. Allo stesso tempo la flotta imperiale, al comando del neo-ammiraglio von Horty de Nagy-Banya, decise di supportare indirettamente tale offensiva con una grande azione navale: il forzamento del canale di Otranto. Horty, convinto del successo dell’operazione, aveva fatto approntare alcuni apparecchi cinematografici per immortalare l’affondamento delle navi italiane. Le unità austroungariche furono tuttavia avvistate dai MAS 15 e  21; il comandante Luigi Rizzo, individuata la “Santo Stefano”,  la silurò affondandola. Il MAS 21, del Guardiamarina Aonzo, lanciò sulla Teghetoff entrambi i suoi siluri, che colpirono ma non esplosero. L’azione ebbe il risultato tattico di fare rientrare il gruppo navale, senza procedere con la missione di forzamento del blocco,

Articolazione dei lavori:

Coordina e introduce i lavori

Antonio Mario Caputo, Società di Storia Patria per la Puglia

 

Indirizzi di saluto

Salvatore Munafò, Presidente Rotary Club, Brindisi

Giuseppe Genghi, Presidente AssoArma, Brindisi

 

Interventi

Amm. (Ris.) Stephan  Jules Buchet, Esperto di storia della marineria

Gli sbarramenti del Canale d’Otranto durante il primo conflitto mondiale

F. CLAUDIO RIZZA, Capo Sezione Archivi – Ufficio Storico della Marina Militare – Roma.

L’azione navale del 15 maggio 1917 – Lo svolgimento dei fatti

Giuseppe Maddalena Capiferro, Società di Storia Patria per la Puglia

Umberto Maddalena, Brindisi e la difesa del Canale d’Otranto

 

Conclusioni

Domenico Urgesi, Società Storica di Terra d’Otranto

La Terra d’Otranto in una carta nautica del 1521

di Armando Polito

Sfruttando la segnalazione fattami qualche tempo fa dal lettore Fabio (ne approfitto per osservare che non guasterebbe far conoscere pure il cognome …) nel suo commento ad un mio recente post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/26/taranto-comera-circa-500-anni/) aggiungo un altro tassello alla serie delle carte nautiche in precedenza passate in rassegna1. A dire il vero di questa me ne ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/16/la-terra-dotranto-in-un-portolano-del-1521-il-progetto-sarparea-e-lino-banfi/)  ma, essendomene reso conto (in poco più di due anni, ad una certa età, il rincoglionimento galoppa …) quando già questo post era pronto, ho deciso di proporlo così com’è lasciando al lettore di contaminare le due versioni con le poche, reciproche integrazioni che esse mostrano.

ananso: Egnazia. Nel dettaglio che segue, tratto dalla carta  Puglia piana, Terra di Barri, Terra di Otranto, Calabria et Basilicata del Mercatore (1589) si legge Anazzo.

 

Ecco l’evoluzione del toponimo dalla forma più antica all’attuale: Gnatia2  [Orazio (I secolo a, C.), Sermones, I, 5, 97]; Ἐγνατία (leggi Egnatìa) [Strabone (I secolo a. C-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3]; Gnatia [Pomponio Mela (I secolo), Corographia, II, 66]; Gnatia [Plinio (I secolo), Naturalis historia (I secolo), II, 102 e 107];Ἐγνατία (leggi Egnatìa) [Tolomeo (II secolo), Geographia, III, 13]; Gnatiae [Imperatoris Antonini Augusti itinerarium (III secolo), 115]; Gnatiae [Tabula Peutingerriana, (prima redazione IV secolo), VI, 5]; Ignatia [Anonimo Ravennate (VII secolo), Cosmographia, VI, 1]; Augnatium [Guidone (inizi XII secolo), Geographica, 27-29].

L’Anazzo di Mercatore appare come la traduzione dell’Augnatium di Guidone,mentre la forma attuale riprende l’*Egnatia ipotizzata per Orazio, E in in Francesco Maria Pratilli, Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi, Giovanni di Simone, Napoli, 1745, p. 146 si legge: Nel luogo ddove fu la distrutta città di Egnazia v’ha di presente sulla marina una torre, che chiamano di Agnazzo.

brindi: Brindisi

castro: Castro

cavo lovo: da notare, anzitutto, cavo per capo (se non fosse che l’autore della carta, Jacopo Russo, era messinese, l’avremmo definito un retaggio del dialetto veneziano) e lovo per l’ovo. Nel dettaglio che segue, tratto dalla carta del Mercatore citata per ananso. si legge  C(apo) del ovo.


Nel dettaglio che segue, tratto da Provincia di Terra d’Otranto già delineata dal Magini e nuovamente ampliata in ogni sua parte secondo lo stato presente data in luce da Domenico De Rossi (1714) il toponimo è T(orre) del Capo dell’ovo. Oggi il toponimo è Torre dell’Ovo.

cavo Santa Maria: Capo di S.Maria di Leuca. Per cavo vale quanto detto per il toponimo precedente.

flumi tara: fiume Tara. Come nel cavo per capo  dei due precedenti toponimi poteva essere ravvisato, stranamente, un venezianismo,  qui flumi, con la sua terminazione in –i, tradisce l’origine siciliana del cartografo.

galipolli: Gallipoli

gaucito: Guaceto

Huxento: Ugento

otranto: Otranto

petrolla: ?

roca: Roca

lalechi: Lecce

Taranto: Taranto

vilanova: Villanova

 

N. B. Su Petrolla vedi la segnalazione del sig.Emilio Distratis nel suo commento leggibile, con la mia risposta, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/12/la-terra-dotranto-un-portolano-del-xiv-secolo/

 

______

1 http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/07/la-terra-dotranto-in-un-portolano-del-xvi-secolo/

http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/17/a-pesca-in-rotta-verso-punta-palascia-con-a-bordo-una-vecchia-carta-nautica-ma-la-rete-e-di-ultima-generazione/

2 Ritengo, però, che sia trascrizione della successiva voce greca: Ἐγνατία>Egnatia e con aferesi per esigenze metriche, Gnatia.

 

Il nostro dialetto. STUTARE (SPEGNERE)

di Armando Polito

* Pensa piuttosto a chiamare i pompieri!

 

Chi ha un’idea distorta del dialetto, considerato pregiudizievolmente inferiore alla lingua nazionale, probabilmente avrà un sussulto sentendomi affermare che stutare è, linguisticamente parlando,  un nobile decaduto, vittima del tempo e dell’uso. Lo confermano, infatti, i dizionari, in cui non è qualificato come voce regionale, volgare o gergale ma obsoleta (addirittura nel vocabolario Treccani on line, in cui il lemma è puntualmente registrato, manca pure quest’ultima qualifica).

Sulla “nobiltà” di stutare, voce non esclusivamente “meridionale” credo sia sufficientemente eloquente quanto segue:

Iacopone da Todi (XIII secolo), Laude, LXX, 86): … cà ‘l tuo plagner me  stuta

Brunetto Latini (XIII secolo), La rettorica, I, 2 E 10:  … a stutare molte battaglie …

Guittone d’Arezzo (XIII secolo), Trattato d’amore, CCXLVIII, 12: … che per nulla copia si  stuta  fiore

Cino da Pistoia (XIII-XIV secolo), Rime, LXXXVIII, 22 (edizione dell’Itituto editoriale italiano, Milano, 1862): … e la cui vita a più a più si stuta

Giovanni Boccaccio (XIV secolo), Amorosa visione, VI, 10-12: … tra me dicendo: Deh, perché il foco/di Lachesis per Antropos si stuta/ in uomo sì eccellente e dura poco?” e Filocolo, II: … anzi che più s’accenda il fuoco, providamente pensate di stutarlo …

In altri autori toscani della letteratura delle origini, che qui per brevità non riporto, ricorre la variante astutare. La voce ebbe scarsa fortuna, tant’è che non son riuscito a trovare nessuna attestazione per i secoli successivi e lo stesso Vocabolario della Crusca registra il lemma solo nelle sue prime quattro edizioni (1612, 1623, 1691, 1729-1738) con due (Cino da Pistoia e Boccaccio)degli esempi datati che prima ho riportato.

La locuzione nel dialetto salentino, vista nei suoi significati diacronici,  è stutare lu fuecu (spegnere il fuoco del camino o di un incendio), stutare la candela (spegnere la candela), stutare lu lume (spegnere il lume a petrolio); poi, con la diffusione dell’energia elettrica, stuta la luce (premi l’interruttore per spegnere la luce della lampadina), stuta lu furnu (spegni il forno).

A questo punto chi è abituato a leggermi si sarà meravigliato perché sto tardando a dare l’etimo di stutare, ma  alla fine sarà chiaro quanto questa premessa fosse imprenscindibile. Mi pare, però, opportuno e doveroso cominciare dal maestro riconosciuto: il Rohlfs. Ecco come il lemma è trattato nel suo Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976:

Non mi lascia perplesso *extutare (voce latina ricostruita), ma quel guardare il fuoco coprendolo. Infatti questa definizione che oso definire sibillina, sembra tirare in campo contemporaneamente come secondo componente di extutare i verbi tueri (o tuere), che significa guardare) e tutari  che significa proteggere.

Prima di entrare nel merito dell’appunto è necessario dire qualcosa in più su questi due verbi.

Tueri è un verbo deponente (ha cioè forma passiva ma significato attivo) e il suo paradigma è tueor/tueris/tuitus sum/tueri. La sua variante tuere, invece, presenta forma e, naturalmente, pure significato, attivi e il suo paradigma è tueo/tues/tuere. Il lettore anche digiuno di latino noterà che nel paradigma di quest’ultimo manca al terzo posto quello che nel primo verbo è tuitus sum (cioè il perfetto, corrispondente al nostro passato prossimo o remoto). Ora è intuitivo che non esiste forma passiva di un verbo senza la sua forma attiva, perché è lo stesso concetto di passivo che nasce da quello attivo. E che tuere (forma e significati attivi) sia più antico di tueri (forma passiva ma significato attivo) lo mostra il fatto che tueri compare con significato passivo in due autori cronologicamente molto distanti tra loro: Vitruvio (I secolo a. C.) e Papiniano (II-III secolo d. C.). in altre parole nei verbi deponenti è legittimo supporre che all’origine avessero un significato passivo e che col passare del tempo abbiano assunto quello attivo, salvo, come abbiamo visto, in qualche autore.

Tutto ciò fa ritenere che tuere prima di essere soppiantato dal figlio tueri avesse anche lui se non la terza voce paradigmatica (perfetto), almeno la quarta prevista per i verbi di forma attiva  (detta supino) e che questa dovesse essere *tuitum, come si deduce dal tuitus che compare nel perfetto di tueri. Parente strettissimo di *tuitus è l’aggettivo tutus/tuta/tutum (che significa sicuro) come mostra tutus sum, cioè la variante di perfetto di tueri presente in Livio(I secolo a. C.-I secolo d. C.); il femminile tuta ha dato vita all’analoga  voce italiana, così come tutela, mentre da tutor è il nostro tutore.

E da tutus è nato prima tuto/tutas/tutare, che vuol dire proteggere, difendere e poi tutor/tutaris/tutatus sum/tutari  che significa vegliare su, proteggere e, in senso riflessivo, difendersi da, allontanare. Da notare, di passaggio, che anche tutare come tuere appare difettivo di perfetto e supino ma che quest’ultimo, analogamente a quanto rilevato in tueri  sarebbe stato tutatum, come mostra il tutatus sum di tutari.

Alla fine di questo lungo ragionamento mi pare di poter concludere che non è il caso di dannarsi l’anima per elucubrazioni fonetiche e tantomeno semantiche e che si può bypassare la diplomazia la del Rohfs che nella sua definizione unisce i due concetti, etimologicamente parlando, paralleli, come ho dimostrato, di guardare (tueri) e di coprire (tutare) sinonimo di proteggere, dicendo che che extutare è composto dalla preposizione ex (con regolarissimo esito in s– nel nostro stutare) con valore privativo e tutare, sicché lo stutare non è altro che privare il fuoco della vigilanza indispensabile perché esso non si spenga e, se si pensa alla sacralità del fuoco e alle Vestali, la definizione sembra affondare le radici in un atto blasfemo …

Se la definizione del Rohlfs non appariva troppo chiara, decisamente strano appare ciò che si legge nel Dizionario De Mauro al lemma stutare a proposito della sua etimologia: extutare, compostodi  ex- con valore intensivo, e tutari “estinguere”.

Come è conciliabile in tutari il significato attribuitogli di estinguere con quello di proteggere, cosa che ha costretto, fra l’altro, a dare alla preposizione ex un valore intensivo e non privativo? Quest’ultimo dettaglio è secondario perché in teoria ex col suo esito s– può avere valore privativo come in sbarbare, sbucciare, squagliareetc., etc., oppure intensivo, come in sbattere, spossare, strombazzare, etc. etc.  Ciò che appare strano è il significato di estinguere attribuito a tutari; il che ricorda tanto l’antica, sarcastica  locuzione neretina ti ògghiu tantu bbene ca ti cciu (ti voglio tanto bene che ti uccido), che oggi potrebbe essere tranquillamente messa in relazione, privata del suo significato sarcastico ma altrettanto drammatica, con l’eutanasia o messa in campo da qualche avvocato a corto di argomenti oltre che non aggiornato sull’evoluzione dei costumi, a difesa del cliente reo di aver ucciso il partner colpevole di averlo lasciato.

Il De Mauro evidentemente ha seguito l’opinione di alcuni filologi (REW 9018) che mettono in relazione con tutari il francese tuer, che significa uccidere, e l’italiano antico attutare (da cui l’attuale attutire) attraverso la filiera concettuale (sembra un climax ascendente) proteggere da >attutire il pericolo>eliminare il pericolo>eliminare l’autore del pericolo>uccidere. A parte la rocambolesca filiera che ho dovuto mettere in campo c’è da chiedersi, sul piano fonetico, che fine abbia fatto la seconda t di tutari, che apparirebbe aspirata solo nel catalano atuhir.

Comunque stiano le cose, mezzanotte è passata da un pezzo e, almeno per me,  è ttiempu cu stutu lu compiuter e cu vvo mmi corcu (tempo di spegnere il computer e di andarmi a coricare) …

Salento: la sua estrema parte sud-orientale in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

Il lettore avrà subito notato che rispetto alle precedenti puntate (per ognuna troverà in calce il relativo link) nel titolo non compare più aragonese e che XVI, con riferimento alla datazione, ha sostituito XV. Questi due correlati cambiamenti apportati pure a ciascun post precedente, sono dovuti a dati incontrovertibili emersi man mano che procedeva l’esame dei singoli dettagli. Dopo questa esplorazione preliminare ulteriori approfondimenti consentiranno sicuramente di determinare un range ristretto a pochi decenni del secolo appena indicato. 

Alessano: oggi Alessano.

Aquarica del Capo: oggi Acquarica del Capo.

Arilliano: oggi Arigliano, frazione di Galliano del Capo.

Barbarano: oggi Barbarano del Capo.

Campo Saracino: il riferimento è sicuramente ad uno stanziamento di Saraceni nella zona. Lo stesso toponimo ricorre in un’altre sezione della stessa carta nelle vicinanze di Agropoli (vedi Fernando La Greca e Vladimiri Valerio, Paesaggio antico e medioevale nella mappe aragonesi di Giovanni Pontano, Le Terre  del Principato Citra, Edizioni del Centro di promozione culturale per il Cilento, Acciaroli, Salerno (SA), 2008, pp. 106-107 e Pietro Ebner, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, Edizioni di storia e letteratura v. I, Roma,  1982, p. 459.

Caprarica: oggi Caprarica del Capo.

Casale delle imbriachelle: nella carte del XVII secolo compare solo la torre. A seguire dettagli dallo Janssonius e dal Bulifon.

Nell’Atlante Rizzi-Zannoni diventa Torre del Marchiello.

Casall[uccio?] dei (?) Barde (?): attendo notizie.

Castriniano del Capo: oggi Castrignano del Capo.

Corsano grande: oggi Corsano. Il grande rimane nella Torre di specchia grande ed essa sarebbe quella rappresentata sulla carta?. Tuttavia in Raffaele Mastriani, Tipografia Plautina, Napoli, 1838, p. 185, si legge:  Esposizione della legge del 19 giugno 1826 sulle dogane del Regno delle sue SicilieTorre Corsano ossia Monte lungo (vedi Montelongo).

[?] di Pali: oggi Torre Pali.

Drutiano (?): oggi Tutino? Attendo notizie.

Galliano: oggi Gagliano del Capo.

Juliano: oggi Giuliano, frazione di Castrignano del Capo.

la molinella: attendo notizie.

leuca […]: nonostante la lacuna credo che la dicitura faccia parte dei tre elementi toponomastici con cui è indicato il territorio di Leuca (gli altri due sono Terra di S. Maria de fine mundi e Porto.

Leverano: non è l’attuale Leverano (la dislocazione di quest’ultima è ben diversa). Non so che rapporto ci sia con la Leverano che compare nel distretto governativo di Alessano in Bollettino delle leggi del Regno di Napoli Anno 1807, tomo I, Fonderia reale, Napoli, 1813, p.68 (https://books.google.it/books?id=jaVDAAAAcAAJ&pg=PA68&dq=specchia+leverano&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiV9KKJy9bSAhUEVRQKHe99DVE4ChDoAQgdMAE#v=onepage&q&f=false).

Lissiano: vedi Tigiano.

Masanto: Torre de Morciano o di Mafanto nelle carte del XVII secolo (di seguito dettaglio da Hondius).  

Misciano: oggi Miggiano.

Monte longo: oggi Montelongo è il nome della falesia su cui sorgeva l’omonima torre oggi non più esistente. Vedi Corsano grande.

Monte Sardo: oggi Montesardo, frazione di Alessano.

Morciano: oggi Morciano di Leuca.

Navallie: oggi Novaglie. Nella carta è rappresentata la Torre di porto Novaglie.

Ortitiano: attendo notizie.

Panico: attendo notizie.

Patu: oggi Patù.

Pedaccio: attendo notizie.

Porto: oggi Porto turistico marina di Leuca; vedi leuca […].

Presice: oggi Presicce.

Prom(ontorio) Iapygio: oggi Capo di S. Maria di Leuca.

Roggiano: oggi Ruggiano, frazione di Salve.

ruine di Bereto: sono i resti, ancora oggi visibili, della messapica Vereto.

S[…..]: ?

Salignano: oggi Salignano, frazione di Castrignano del Capo

Salve: oggi Salve

Specchia del Corno: oggi Specchia del Corno, in territorio di Ugento.

Specchia di preite: oggi Specchia.

S.ta Euphemia: oggi è un rione di Tricase, con l’omonima chiesa dedicata, qppunto, a S. Eufemia di Calcedonia.

S.ta Maria di Bereto: oggi Chiesa della Madonna di Vereto.

S.ta Tecla: attendo notizie.

S.to Dana: oggi S. Dana, frazione di Gagliano del Capo

S.to Floro (?): attendo notizie.

S.to Januario: nella mappa a destra sulla costa è rappresentata una torre. Potrebbe essere quella, non più esistente, di Montelungo (vedi Montelongo), della quale si sa che venne edificata (su una preesistente?) nel 1584.

Taurisano pic(cola) dir(uta): oggi Taurisano; tuttavia sorprende nella carta l’assenza di Taurisano grande, in contrapposizione a Taurisano piccola.

Terra di S.ta Maria de fine mundi: vedi leuca […]. De fine mundi sembra ancora più pretenzioso del più noto de finibus terrae. Quanto a Terra Girolamo Morciano in Antichità di Leuca …, opera citata nelle puntate precedenti, a p. 259, riferendosi al periodo immediatamente successivo alla liberazione di Otranto dopo l’occupazione turca del 1480, così scrive: E Ferdinando Rè, che non cedeva in nulla alla divotione grande, che professava suo Padre Alfonso à questa Beata Vergine non solo somministrò ognui favore all’opra di nuovo ristoro della Chiesa di Santa Maria de finibus Terrae, come havevan fatto dopò i Mori, i Normanni, ma stabilì di più, ed accrebbe queklli poderi, ò Terre, che havevano dato i Normanni, ed i Conti di Alessano ad honor di Santa Maria di Leuca, e del suo Sacro Tempio in servitio de’ Vescovi, che lo servono. Onde fra gli altri motivi, per questo di vedono quasi tutti i poderi, ò territori di Castrignano, ed anche quelli di Pato obligati per la decima di certi frutti al Tempio di S. Maria di Leuca.  

Tigiano: oggi Tiggiano. Nel suo territorio sorge la Torre Nasparo o Naspre (rappresentata sulla carta) che in passato, fra le altre denominazioni, ebbe pure quella di Figiano, Lizzano, Lissiano. Quest’ultima potrebbe riferirsi al lissiano che compare poco più a nord nella carta e che potrebbe essere propiro il casale che dette il vecchio nome alla torre.

Torre antica: attendo notizie.
Torre piana: Torre di Plane nelle carte del XVII secolo (di seguito dettaglio di quella del Bulifon).

 

e Torre di Palane nella carta Rizzi-Zannone.

 

Torrione vecchio: Torre Vecchia nella carta Rizzi-Zannone.

Tri casso: oggi Tricase.

Villa di S.ta Maria: oggi S.ta Maria di Leuca del Belvedere o Leuca piccola?:attendo notizie.

Termina qui la rassegna degli spezzoni della carta a mia disposizione. Ringrazio  per i loro contributi tutti i lettori, anche perché non mi attendevo un simile riscontro, con commenti puntuali ad ogni puntata. Debbo, però, notare che nel mese e mezzo quasi intercorrente tra la pubblicazione della penultima e quella di oggi nessuno si è più fatto vivo, nemmeno per rimproverarmi per il ritardo nell’adempimento di quanto annunziato, secondo la più raffinata tecnica pubblicitaria televisiva …

Lascerò trascorrere qualche mese, ma non oltre la fine dell’estate, nella speranza che per i toponimi rimasti non identificati e per qualche precisazione o correzione sugli altri compaiano ulteriori commenti, per i casi più difficili o controversi  possibilmente con la citazione delle fonti, per fare la differenza rispetto ad una rozza raccolta di dati, qual è quella fin qui svolta. Solo così si potrà pensare ad un lavoro, sia pure di taglio quasi esclusivamente toponomastico,  più degno della preziosità di questa rappresentazione della Terra d’Otranto, previa richiesta alla Biblioteca Nazionale di Francia di una copia digitale in alta definizione e dell’autorizzazione alla pubblicazione. Ribadisco nel congedarmi, spero provvisoriamente, dall’argomento, il mio grazie più profondo al professor Fernando La Greca, senza la generosità del quale questa avventura non avrebbe avuto mai inizio.

 

Per gli altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/  

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

Rudie e le sue epigrafi funerarie

di Armando Polito

L’inizio, penserà qualcuno, non è dei più incoraggianti, a causa del funerarie sbattuto nel titolo senza un brandello di eufemistico velo. Faccia, se crede, il gesto apotropaico più efficace secondo l’opinione corrente  e se, dopo il tocco e ritocco (per citare l’immenso Totò …) delle scatole ritiene che la loro rottura rimanga un rischio troppo elevato, si dedichi ad altre letture.

Per tutti gli altri (dovessero essere, come temo, non più di due …) è d’obbligo una premessa. Sarò breve; e non vorrei che questa locuzione famigerata, portando a termine la strage iniziata brillantemente con funerarie,  mi privasse pure dei due lettori superstiti che per eccesso avevo ipotizzato in un accesso di presunzione …).

Il presente scritto non ha la pretesa di formulare alcuna ipotesi di natura scientifica (come, d’altra parte, fa capire l’esordio degno di un politico di razza; non dico, con riferimento all’una ed all’altra, chi e quale)  né tantomeno di fornire uno spaccato, sia pur limitato ad alcuni aspetti, di una comunità del passato, né una valenza statistica, che sarebbe improponibile a causa della disomogeneità cronologica dei dati a disposizione e della parziale o assente contestualizzazione di molti di loro. Questi ultimi sono offerti dalle epigrafi funerarie (comprese quelle incerte in questa loro qualifica perché mutile proprio nello spazio in cui molto probabilmente erano indicati gli anni di vita) rinvenute a Rudie o, almeno, così registrate nei repertori specializzati, anche come perdute. A tal proposito credo che nell’anno 2017 sarebbe ora di ovviare una volta per tutte all’attuale frammentazione, compilare un unico repertorio  (suddiviso in quante sezioni si ritenga opportuno) anche e soprattutto in formato digitale, con foto di ciascuna epigrafe qualora non sia andata perduta o prima che lo diventi …, e rendere obbligatoria a livello internazionale la registrazione di ogni futuro ritrovamento solo in quest’ultimo ed unico catalogo, la cui versione digitale consentirebbe un aggiornamento continuo e poco costoso per il carrozzone europeo, perché dovrebbe essere l’Europa a farsi carico di tutto in maniera sistematicamente definitiva e non con iniziative frammentarie come finora è stato,  prima che la stessa cosa venga in mente a qualche istituzione, pubblica o privata, americana, giapponese o cinese …

E non si mettano in mezzo, idiotamente in questo caso, i concetti di sovranità nazionale, libertà della ricerca e della pubblicazione, se il fine ultimo è non il profitto ma la diffusione della cultura e, in questo caso la fruizione gratuita, ribadisco gratuita, di un repertorio o catalogo digitale,  alias, per usare il linguaggio corrente, banca di dati.1

Il numero non imponente delle epigrafi rudine2 mi ha consentito di presentarle in singole schede, per le quali mi sono avvalso dell’utilizzo incrociato di EDCS3 , di EDH4 e di EDR5. Io ho aggiunto di mio la traduzione e le note di commento.

Per chi non volesse sorbirsi la loro lettura sequenziale, ma partecipare più direttamente all’afflato umano che una semplice iscrizione sepolcrale può trasmettere anche con pochissime parole, segnalo la testimonianza della vita più breve (n. 18) e, per contrasto, di quella più longeva maschile (n. 21) e femminile (n. 24), nonché del pericolo incombente sulle spalle di qualche traduttore di ultima generazione (e ancor più di quelli che fra poco usciranno dal liceo classico senza aver tradotto una riga di latino …), vittima inconsapevole di un dissacrante (visto l’ambiente funerario …) equivoco  … (n. 7). E non mancano i casi unici di ricorrenza onomastica (nn. 8, 11, 16, 19, 25, 26 e 32) e di nobilitazione poetica (n. 6).

Particolarmente interessante è poi, a mio avviso, la prevalenza di soprannomi (cognomina) di origine greca (in teoria denoterebbero raffinatezza culturale), anche se il fenomeno è ricorrente nel mondo servile in tutta la romanità; e, a proposito di mondo servile,  la prevalente presenza di un solo elemento onomastico denota la prevalente passata appartenenza a questa classe sociale dei defunti delle epigrafi rudine. Non mancano, d’altra parte, testimonianze relative a pezzi grossi (1, 28, 29 e 33). Ma, per saperne di più (non è un nobile ricatto …), le schede, in ogni caso, andrebbero lette una ad una …

prova

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1 In tal senso Italia Epigrafica Digitale, IV (Febbraio 2017), Regio II. Apulia et Calabria, integralmente consultabile in http://ojs.uniroma1.it/index.php/ied/issue/view/IED%204, costituisce una lodevole iniziativa che, pur non risolvendo il problema di un catalogo unico, tenta una raccolta organica dei dati sparsi in vari repertori aggiungendo informazioni sullo stato dell’epigrsafe (integra, mutila, frammentata, frammento, perduta), sulla sua datazione in base alle risultanze paleografiche, sul nome del luogo di ritrovamento e di attuale conservazione, sulla datazione approssimata in base alle risultanze paleografiche Invito caldamente il lettore a leggere a tal proposito  l’introduzione di Silvio Panciera e soprattutto le sue riflessioni illuminate e lungimiranti sul diritto d’autore.

2 Le rimanenti, prevalentemente onorarie, sono la minoranza: EDR104907, EDR104908 (di essa, catalogata nel CIL IX col n. 23) mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/01/lepigrafe-di-rudie-ovvero-cil-ix-23-un-maquillage-ben-riuscito-pero/), EDR 104911 (di essa, catalogata nel CIL IX col n. 21, mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/), Ne restano pochissime altre, il cui stato di frammentarietà impedisce di deciderne la funzione. Tra queste ultime io collocherei prudenzialmente anche l’ultima rinvenuta nel corso degli ultimi scavi dell’anfiteatro e pubblicata in Rudiae e il suo teatro, a cura di Francesco D’Andria, Comune di Lecce, 2016. Nell’opuscolo appena indicato a p. 45 è scritto che una prima lettura dell’epigrafe (Aster Filippini) permette di leggere il nome di Otacilia Secundilla, cioé lo stesso personaggio  di EDR104911. A p. 18, poi, quasi la consacrante conferma della lettura: “… la lastra si marmo che attribuisce ad Otacilia Secundilla, una ricca signora …”. Sarebbe stato meglio usare un “probabilmente” o “forse” in più e meglio ancora pubblicare nell’opuscolo l’epigrafe ricostruita con i suoi pochi frammenti e con le ipotetiche integrazioni lasciando al lettore appena appena smaliziato la possibilità di farsi un’opinione circa la sua quanto meno discutibile compatibilità, o, in un certo senso, gemellaggio, con EDR104911. Il metodo deduttivo dal quale, comunque, in alcune fasi non si può prescindere, nasconde delle insidie e stimola suggestioni che con la scienza hanno poco da spartire. Non vorrei che con questa nostra epigrafe (magari esibita con la presunta gemella) succedesse ciò che è successo con  un’epigrafe attica (IG I3 67) probabilmente della prima metà del V secolo a. C. giuntaci in condizioni pietose, che da L. Braccesi è stata ipoteticamente, sottolineo ipoteticamente, collegata col rinnovo del trattato di “antica amicizia” tra Messapi e Ateniesi di cui parla Tucidide (VII, 33, 3-4), con l’introduzione del nome di Artas a riempire una delle numerose lacune. L’ipotesi del Braccesi, ripresa da S. Cataldi, non è stata accolta dagli studiosi successivi, tant’è che essa (ex IG I2 53) è stata registrata nella nuova collocazione con cui l’ho citata nella forma di seguito riprodotta, in cui il nome di Artas non va ad integrare alcuna lacuna.

Ricordando a chi non ha dimestichezza con queste cose che le lettere non incluse in parentesi quadre (58) sono le sole superstiti e che le rimanenti  (181) sono integrazioni, anche il più ingenuo dei lettori può rendersi conto dell’attendibilità di qualsiasi testo ricostruito partendo da una base così lacunosa.  Basterebbe un minimo di fantasia o il condizionamento dovuto alla necessità di provare in qualche modo la bontà di una mia ipotesi perché pure io ci intrufoli qualsiasi cosa.

Mi pare che nemmeno una delle testimonianze addotte autorizzi a far pensare, scientificamente parlando,  ad un’amicizia, in senso restrittivo, militare (in una parola, alleanza) o in senso lato (comunione di sentimenti) tra Pericle ed Artas, esibiti più volte come sicuri (cioè come tali qualificati dalle fonti) amici nelle presentazioni, anche scolastiche, fatte da Fernando Sammarco della sua saga dedicata al messapo. Sarebbe un secondo delitto se a qualcuno venisse in mente l’idea, campanilistica o promozionale …, di fare altrettanto con Otacilla Secundilla, visto che con Artas è bastata un’epigrafe che sembra reduce da uno scontro frontale e che della nostra, invece, avremmo, oltre a qualcosa di simile, anche un’attestazione indiscutibile, pur emersa da un’epigrafe andata perduta.

3 Acronimo di Epigraphik-Datenbank  Clauss/Slaby  (http://db.edcs.eu/epigr/epi.php?s_sprache=it).

4 Acronimo di Epigraphische Datenbank Heidelberg (http://edh-www.adw.uni-heidelberg.de/home).

5 Acronimo di Epigraphic Database Roma (http://www.edr-edr.it/edr_programmi/res_complex_comune.php?lang=it&ver=simp).

 

Lecce, piazza S. Oronzo e un’altra incisione ottocentesca

di Armando Polito

Quando mi si chiede quale, secondo me, è ciò che contraddistingue un genio (da quello artistico in genere allo scientifico) dai mortali comuni, la risposta a bruciapelo, senza bisogno di cercarlo, nell’uovo, è lapidaria: l’originalità. In tempi in cui la globalizzazione ha massificato, omogeneizzato ed omologato l’umanità ed in cui l’imperativo dominante è quello del tutto e subito e il fine principale, se non unico, il profitto ad ogni costo, la purezza dell’originalità tende ad essere contaminata più che mai dalla scarsa onestà intellettuale e, nei casi peggiori, dalla sua totale assenza. Non mancano le operazioni di piccolo cabotaggio, quali appaiono ai miei occhi tante tesi di laurea o di dottorato di ricerca frutto di frenetici copia-incolla o, nei casi meno appariscenti, di elementari parafrasi, squallido mezzuccio per non sobbarcarsi alla fatica del virgolettato … Questo deleterio fenomeno, tuttavia, non è nuovo e ho avuto in questo blog più di un’occasione per stigmatizzarlo. Emblematico, a tal proposito, per il campo squisitamente letterario, l’esempio che ho portato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/. Tutti i nodi, tuttavia, prima o poi vengono al pettine e oggi più facilmente e rapidamente grazie proprio allo stesso strumento che ne ha reso possibile il confezionamento: il pc. Il post di oggi, anche se riguarda il campo figurativo, ne è la dimostrazione e costituisce  l’integrazione, probabilmente provvisoria, di uno precedente sullo stesso tema (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/04/lecce-plagiata/).

A beneficio dei lettori più pigri riproduco le due immagini mostrate nel link appena segnalato. La prima fu    pubblicata da Audot padre in L’Italia, la Sicilia, le Isole Eolie, l’Isola d’Elba, la Sardegna, Malta, l’isola di Calipso, ecc., Pomba, Torino, 1835, tomo II.

La seconda è tratta dalla rivista settimanale  L’omnibus Pittoresco, Napoli, anno I, n. 50 del 23 febbraio 1839, pag. 415 (http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AMIL0132098_184488&teca=MagTeca+-+ICCU).

Passo all’immagine di oggi. Nel  1843 usciva per i tipi dell’editore Parente a Napoli Collezione di novanta vedute della città e Regno di Napoli. Tra le novanta vedute quattro sono dedicate ad altrettante città della Terra d’Otranto (Brindisi, Lecce, Otranto e Taranto). Riproduco la tavola LXXXIX dal testo appena citato. integralmente consultabile in https://books.google.it/books?id=TpnLGRkuxpsC&printsec=frontcover&dq=colleziuone+di+novanta+vedute+della+citt%C3%A0+e+regno+di+napoli&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjG8aPr4rzTAhXhAsAKHe6yC7UQ6AEIJTAA#v=onepage&q=colleziuone%20di%20novanta%20vedute%20della%20citt%C3%A0%20e%20regno%20di%20napoli&f=false.

Per Aubert e Segoni rinvio al precedente post. Alessandro Moschetti, secondo quanto si legge in Giovanna Sapori e Sonia Amadio, Il mercato delle stampe a Roma, XVI-XIX secolo,  Libro Co. Italia, 2008, p. 334, morì nel 1845, aveva la bottega a Roma  in via Bocca  di Leone, 63 e fu incisore di architetture. Gran parte delle incisioni della Collezione di novanta …, op. cit. reca il suo nome. Aggiungo che sua è anche l’incisione della Carta corografica dello Stato Pontificio indicante le dogane, i posti armati dalla truppa di finanza, le strade doganali, la fascia bimiliare di divieto …, su disegno di G. Spinetti,  stampata a Roma (non compare il nome dell’editore) nel 1838 ed attualmente custodita nella Biblioteca Casanatense a Roma.

Lascio al lettore lo stesso gioco enigmistico dello Scopri le differenze a suo tempo ricordato e mi pongo, estendendola a Moschetti, la stessa domanda: possono tre artisti della loro fama, per giunta pressoché contemporanei, differenziarsi sostanzialmente nel trattamento delle nuvole?

E chiudo questo post con le stesse parole del precedente: E la caccia continua …

Taranto, com’era circa 500 anni fa

di Armando Polito

Chi trova un amico, recita il proverbio, trova un tesoro; io qualche giorno fa ho trovato una mappa che è un tesoro, anche se non è una mappa del tesoro. Il lettore che non abbia deciso di abbandonarmi comprenderà alla fine  le motivazioni dell’uso di questo gioco di parole che lì per lì può sembrare insulso, uno di quelli, tanto per intenderci, sfruttati a mo’ di slogan da un politico che in questo campo può fare a gara con chiunque e il cui nome è già una gare …nzia o, fate voi, una ga … renzi … a.

L’ho trovata, la mappa, sul sito della Biblioteca Universitaria Estense di Modena, da cui l’ho riprodotta (http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/geo/i-mo-beu-c.g.a.6.a.pdf). Lì compare come datata al XV-XVI secolo ma, sulla scorta del commento che farò alla didascalia n. 3, credo senz’ombra di dubbio che la datazione debba essere collocata non prima del XVI.

Consiglio al lettore che volesse analizzarla di persona e controllare le osservazioni che farò di scaricarla dal link appena indicato; per gli altri più pigri di natura oppure solo nell’acquisizione delle competenze elementari per poter sfruttare gli strumenti, quelli informatici nel nostro caso, che la tecnologia ci mette quasi giornalmente a disposizione, volta per volta, prima di trascrivere e commentare il testo delle didascalie (nell’immagine di testa le ho numerate; purtroppo alcune di loro sono monche a causa della rifilatura dei margine superiore, inferiore e sinistro del supporto) ne proporrò, ingrandito, il dettaglio relativo, in qualche caso ruotandolo pure  opportunamente per renderne più agevole la lettura.

Anticipatamente esprimo la solita gratitudine a chi vorrà correggere col suo commento i tutt’altro che improbabili errori e proporre una o più  integrazioni. La mappa dovrebbe essere stata studiata da Giuseppe Carlo  Speziale in Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Giuseppe Laterza & figli, Bari, 1930 e successivamente da Franco Porsia e Mario Scionti in Taranto, Laterza,  Roma, 1989.  Sarò grato a chiunque, avendo la possibilità di leggerlo, vorrà renderci partecipi di quanto vi troverà, fosse solo con esclusivo riferimento alla lettura delle didascalie1.

1

MARE PICOLO (oggi Mar Piccolo)

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2

Larghezaa del mare piccolo miglia quatro b in am[piezac (?)]/nel qual puonod stare sicurissime infinite  galeree []/perchef gira 13 miglia, nel qual mare Ha[nnibale g]/condusse le barche sopra li carri, passando [per la (?)]/citah come etiami  fece el gran Capitano, g[onzalo (?)]/obsediando l il Figliolo  di re Fedrigo m

a larghezza

b quattro

c ho preferito la probabile lettura integrativa ampieza e non ampiezza per coerenza col precedente largheza.

d possono

e galee

f perché

g nel 212 a. C. Annibale, facendo leva sul malcontento dei Tarantini per la dominazione romana, entrò in città ed annientò il presidio romano, secoNdo quanto estesamente riportato da Polibio (II secolo a. C.) nel libro VIII delle sue Storie.

h città

i anche

l assediando

m  Fedrigo è Federico I (re di Napoli dal 1452 al 1504), il suo Figliolo Ferdinando duca di Calabria e il gran Capitano Gonzalo Fernández de Córdoba. La didascalia fa cenno all’occupazione del Regno di Napoli nel 1501 da parte delle truppe alleate di Luigi XII re di Francia e di Ferdinando il cattolico re di Spagna. In quell’occasione Ferdinando si trovava a Taranto, che fu assediata dalle forze spagnole al comando di Gonzalo Fernandez. Questa didascalia è importante per la datazione della carta, che non può essere anteriore al 1501; anzi il fece ci suggerisce che da quell’evento era passato almeno più di un decennio.

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3

Questo fosso fu tagliato dal duca di Calabria alaa venuta de’ Turchi ad O[tranto]/et fece la citab in Isola turando el mare per la fossa (?) quale […]/per l’intrata di una galea col paramento disteso et ha 19 pa[lmi]/di alteza di aqua et hà la currente del ? et rifi[]/per strumento a molti molini ? li duy ponti di legno/sono ne le mani del Castillanoc di modo che nullo homod puoe entrare et uscire de la terra, senza volunta f de’ pr[edetti (?)]

a alla

b città

c castellano

d nessun uomo

e può

f volontà

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4

Porto delaa/cita b optimoc   

a della

b città

c ottimo

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5

Ponte di legno fondato sopra pilastri/per el quale passa uno (?) aquitrino (?)

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6

Ponte antiquo, ma/chiamato Torre a mare/[… di]stante da Taranto 24 miglia

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7

Intrata bona

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8

Capo Rondinelloa

a oggi Punta Rondinella

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9

S. Nicola

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10

Sotto questa isolaa puonob star galere c/ma puonob essere offese da lartigliaria d/delae cittadella perche f  la sumitag de lae/torre soverchiah capo rotondoi

a S. Nicola (vedi didascalia precedente)

b possono

c galee

d dall’artiglieria

e della

f perché

g sommità

h sovrasta, supera

i oggi Capo S. Vito

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11

Capo rotondoa

a oggi Capo S. Vito (vedi didascalia precedente)

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12

da questa parte ea tutab spiagiac  bassa

citadellad

fonte

citadellac

questa parte de la citae ea tutab scopulosaf

a è

b tutta

c spiaggia

d cittadella

e città

f ricca di scogli

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13

S. Antonio

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14

 a è

b tutta

c spiaggia

d cittadella

e città

f ricca di scogli

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15

Si vede anchoraa questa fossa antiquab dec Tarento d vechioe

a ancora

b antica

c di

d Taranto

e vecchia

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16

Porto bellissimo

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17

Distantiaa deb  unoc miglio e mezod

a distanza

b di

c un

d mezzo

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18

Ponente

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19

distantiaa fino alab terra di quatroc miglia/e questo mare ed Porto per havere bonof/? per vasellig grossi ma galere/ puonoh star per el Temporalei

a distanza

b alla

c quattro

d è

e aver

f buono

g vascelli

h possono

i tempesta

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20

ramontana

__________________________

21

Levante

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22

 


locoa  per fare la fortezab 

a luogo

b fortezza

La didascalia qui ha una valenza premonitoria perché, con  quella che oggi con termine tecnico si direbbe destinazione d’uso, precorre la costruzione del Forte de Laclos voluta da Napoleone Bonaparte verso la fine del XVIII secolo. Vedi sull’argomento anche il recente post https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/19/taranto-pierre-ambroise-francois-choderlos-de-laclos-damnatio-memoriae-riuscita-solo-meta/.

 

 

 

Da Marittima: zolle di storie e di ricordi, nel solco della tradizione

processione-di-san-vitale

di Rocco Boccadamo

Nella piccola località che mi ha dato i natali, non sono, invero, molte le ricorrenze che riescono a preservarsi di là dal tempo, senza sostanziali scalfitture, e cui, insomma, di generazione  in generazione, si continua immancabilmente ad annettere un substrato di valore e d’importanza, soprattutto sul piano ideale e morale, cercando, altresì, a ogni singola cadenza, di inquadrarle in una cornice di adeguata visibilità e solennità.

Al primo posto, fra esse, si colloca la festa del Patrono, S. Vitale martire, che si svolge annualmente, per secolare tradizione, il 28 aprile.

E ciò, giacché non v’è marittimese che, a prescindere dalla cifra della sua personale fede religiosa e relativa concreta pratica, non si senta legato al Protettore, milanese d’origine, milite cavaliere nelle schiere dell’imperatore romano Nerone, a un certo punto della sua vita convertitosi al cristianesimo e, quindi, per quest’ultima scelta da lui considerata irrinunciabile, costretto ad affrontare e subire il martirio.

Vitale ebbe per sposa Valeria, che lo rese padre di due figli, Gervasio e Protasio: e, però, qui mette conto di rimarcare non tanto la composizione del focolare domestico del Santo, quanto la circostanza particolare che tutte e tre le persone care al capo famiglia fecero la sua medesima, gloriosa fine.

Sullo specifico tema, mi piace rammentare un episodio, diciamo così, moderno, marginale ma in certo qual modo indicativo, capitatomi, anzi, in fondo, da me promosso, un paio d’anni fa, in occasione di una breve puntata nel capoluogo lombardo per rivedere i figli e i nipotini ivi residenti.

Era di pomeriggio e a un certo punto, dopo un giro insieme nel vicino Museo della Scienza e della Tecnica, mi trovavo con Andrea in zona S. Ambrogio e, lì, il piccolo, teneva a indicarmi l’Istituto presso il quale sarebbe andato a frequentare le Scuole elementari.

Sennonché, parallelamente, a me, ebbe ad accendersi una lucina nella mente, dopo di che afferrai per mano Andrea, chiedendogli di starmi sul passo sino all’interno della contermine, omonima Basilica e, precisamente, sin dopo l’altare.

Il nipotino mi veniva dietro in silenzio, dando però a vedere di essere un po’ stupito di tale itinerario.

Arrivati a destinazione, indirizzai il suo sguardo e la sua attenzione su due figure di scheletri, rivestiti di paramenti sacri, che giacevano in un’urna di vetro illuminata e in bella vista sotto l’altare, sussurrandogli che quei resti appartenevano ai Santi fratelli Gervasio e Protasio, figli di S. Vitale, protettore di Marittima, paesello dei nonni paterni e luogo di una parte delle sue vacanze estive al mare.

Andrea strabuzzò gli occhi, incantato, e proferì un sostenuto: ”Ma, come, nonno…! Che mi stai dicendo? Si tratta proprio dei resti veri di due Santi?”.

Naturalmente, fu intensa la scena del racconto del piccolo ai genitori, alla nonna e, il giorno seguente, ai cuginetti.

In  seno a passate narrazioni e rievocazioni, mi è già occorso di intrattenermi intorno alle celebrazioni in onore di S. Vitale e, fra l’altro, di porre in risalto che, dal punto di vista stagionale e specialmente del clima, l’evento, per consuetudine radicata, segnava, nel sentir comune dei marittimesi, una sorta di spartiacque fra l’inverno compreso il marzo capriccioso da un lato e la bella stagione dall’altro.

A suffragio di ciò, il 28 aprile coincideva anche, nella maggior parte delle mura domestiche del paesello, con l’introduzione del riposino pomeridiano, evento, per la verità, affatto gradito da noi ragazzi.

Che l’estate fosse non lontana, era confermato da un’ulteriore, puntuale circostanza.

Il Comitato festa ingaggiava, ogni anno, due Complessi Bandistici, che diffondevano le loro sinfonie, sia seguendo la processione lungo le vie del paese con il simulacro del Patrono, sia esibendosi schierati sull’apposita “cassa armonica”, autentica selva di luminarie, allestita nella piazza.

marittima2

Orbene gruppi di “bandisti”, specialmente se provenienti dall’entroterra e da località montane e, perciò, normalmente più fredde, subito dopo mezzogiorno e in attesa di riprendere le loro prestazioni, si recavano a piedi da Marittima all’insenatura “Acquaviva”, transitando giusto davanti all’abitazione dei miei genitori, per fare o prendere il primo bagno.

Così andavano, di solito, le cose sul piano meteorologico; nondimeno, ogni tanto, accadeva qualche eccezione.

Guarda caso, in questo periodo del 2017, alla vigilia o quasi di S. Vitale, in queste plaghe salentine, il clima è, se non precisamente freddo, fresco assai, il mattino e la sera le temperature segnano 7-8 gradi. Di conseguenza, ci si meraviglia, dimostrando tuttavia di aver memoria corta.

Mi spiego. Correva il 1961, io avevo appena compiuto vent’anni, dall’estate precedente ero fidanzato con A. e da pochi mesi avevo preso a lavorare a Taranto, dove anche A. risiedeva con la sua famiglia.

Per quella festa di S. Vitale, così come ci fu il mio ritorno a Marittima, i miei genitori invitarono e si proposero di ospitare anche A.

Successe, purtroppo, che, la sera del 28, nonostante il calore emanato dalle sfarzose luminarie, in giro, sulla strada centrale del paese, percorso d’elezione delle passeggiate, su e giù, dei ragazzi e delle ragazze, ma anche degli adulti, e, parimenti, nella piazza dove campeggiava la cassa armonica su cui si esibivano a turno le bande musicali, spirava un’arietta se non proprio fredda, fresca e non da poco.

Rammento che A., la quale, qualche tempo prima, aveva avuto problemi di salute, per prudenza indossava un cappottino sopra il vestito e, tuttavia, sia lei, sia mia madre, all’epoca quarantaquattrenne, sua compagna di passeggiata nell’ambito della festa, a un certo momento avvertirono il bisogno di non trattenersi oltre all’aperto e pensarono di chiedere ospitalità alla famiglia di E. F. che abitava esattamente in piazza, tra la cassa armonica e la Chiesa Madre.

I padroni di quella casa si dimostrarono lietissimi di accogliere le due donne, tra loro e la mia famiglia, a parte i legami di compaesani, esistevano anche quelli di compari e comari, poiché un figlio di E.F, A. detto U., era stato, nel 1948 o 1949, mio padrino di Cresima.

E qui, pure su tale punto ho già avuto modo di riferire, quando si diventa compari, si rimane tali per sempre.

Non venga da sorridere, il mio padrino (o nunnu) U.F. regalò a me  figlioccio (o sciuscettu) una banconota da 500 lire italiane, accompagnando la consegna del dono con la frase: “Ecco, con questi soldi, potrai comprarti un paio di pantaloncini”.

Per chiudere la parentesi, devo ricordare che, tra padrino e figlioccio, a contare non è davvero l’entità del regalo intercorso, bensì l’intensità del sentimento che viene a instaurarsi fra le due figure.

Per dire, compare U., una quarantina d’anni dopo, già sposato e padre di due figlie arrivate alla maggiore età, in un’occasione, incontrandomi insieme con la primogenita, oltre che salutarmi e farmi salutare dalla figlia, ebbe a raccomandare a quest’ultima: “Senti, quando, un giorno, io non ci sarò più, ricordati che, per qualsiasi cosa, potrai fare affidamento su questa persona, ti rivolgerai a lui”.

Anche ora, U. se n’è andato da un bel pezzo, la sua figliola in discorso mi dà sempre segno di considerazione, rispetto e amicizia, un particolare, a mio avviso, bello e positivo.

Il capo famiglia E.F., esile e di statura medio bassa, si distingueva, pure in vecchiaia, per il suo incedere di buona lena, dava quasi l’impressione di muovere lesti i propri passi, magari a piedi scalzi, con piacere; io, sin da piccolo, me lo godevo quando transitava davanti a casa mia per portarsi dal paese a un suo fondo agricolo situato luogo la litoranea fra l’Acquaviva e la Marina dell’Aia.

Ritornando ad A. e alla mia, allora giovane, mamma, stettero bene insieme, per qualche ora, all’interno dell’abitazione di E.F., avendo agio, dal 1° piano, di osservare i compaesani numerosi nella piazza sottostante per la festa, come pure di ascoltare le arie eseguite dalle Bande musicali che si alternavano sulla cassa armonica.

Dal punto di vista dello svolgimento materiale, adesso, ovviamente, la festa di S. Vitale è profondamente cambiata, in linea, del resto, con i radicali mutamenti verificatisi, nei decenni, su scala generale.

Nondimeno, la ricorrenza mantiene il suo tradizionale valore e significato e seguita a essere sentita anche nell’animo dei marittimesi del terzo millennio.

 

Libri| Onironauti, di Davide Caputo

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Due anni dopo “Maturando”, libro d’esordio nel 2015, Davide Caputo, 20enne studente salentino all’Università di Parma, pubblica il suo nuovo libro, “Onironauti”. Sul finire del 2015 usciva “Maturando”, un breve libro composto da tre racconti e una dozzina di poesie incentrati sul tema del crescere e dell’approcciarsi alla vita. Quasi due anni dopo il suo esordio letterario, Davide Caputo, che nel frattempo si è trasferito dal Salento a Parma per studiare beni artistici e dello spettacolo, pubblica “Onironauti”.
Il libro, ancora composto da una sezione in prosa e una in versi, affronta il tema dei sogni e dei diversi modi in cui ognuno di noi può cercare di inseguirli.
Sia Maturando che Onironauti sono corredati da una prefazione scritta dal poeta-pittore sannicolese Franco Ventura.
Davide Caputo: nasce a Gallipoli (LE) il 18 ottobre 1996. Si diploma al liceo classico Q.Ennio di Gallipoli nel 2015. Nello stesso anno, a dicembre, pubblica il suo primo libro, “Maturando”. È finalista, a Roma, della XXVII edizione del premio G.G.Belli e della XVI edizione del premio nazionale letterario Nobildonna Maria Santoro, entrambi organizzati dal Centro Culturale G.G. Belli di Roma. Nel 2016 si trasferisce a Parma per proseguire gli studi universitari. A febbraio del 2017 è uno dei venti finalisti della XXX edizione del premio “San Valentino… innamorati a Camogli” a Camogli (GE). A marzo del 2017 pubblica “Onironauti”, il suo secondo libro.

Taranto e Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos: una damnatio memoriae riuscita solo a metà

di Armando Polito

Sul fenomeno tutto umano cui la locuzione latina del titolo dà il nome ho avuto molteplici occasioni di esprimere la mia opinione e questa volta non segnalerò nemmeno un post al riguardo perché essa emergerà, mi auguro senza equivoci, dalla lettura di questo.

Oltre alla locuzione latina nel titolo spicca anche un onomastico chiaramente francese e non è difficile capire che è lui al centro della storia, di una storia risalente a poco più di due secoli fa. Ogni evento storico ha, come in un film, un protagonista, dei comprimari, un’ambientazione, chiedo scusa, volevo dire una location …

Siamo a Taranto nel 1803 e muore nel convento di S. Francesco d’Assisi per dissenteria e malaria  il generale d’artiglieria Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, al quale Napoleone in persona aveva affidato la conduzione della fortezza fatta erigere sull’isola di S. Paolo alla fine del XVIII secoloe  che ancora oggi reca il suo nome. Al suo interno viera stato sepolto avendo rifiutato i conforti religiosi. Molto probabilmente il generale quand’era in vita non avrebbe potuto immaginare posto migliore per i suoi resti, come un pilota automobilistico forse sognerebbe non tanto di morire in gara, cioé sul campo di battaglia, quanto di essere sepolto sigillato nell’abitacolo del bolide compagno più o meno affidabile di tante avventure …

Pierre-Ambroise-François Choderlos in un disegno attribuito a Maurice Quentin de La Tour (1704-1788), custodito nel Museo Nazionale dei castelli di Versailles e di Trianon
Pierre-Ambroise-François Choderlos in un disegno attribuito a Maurice Quentin de La Tour (1704-1788), custodito nel Museo Nazionale dei castelli di Versailles e di Trianon

 

Comunque stiano le cose attinenti alla sfera della morte, ammesso per assurdo che qualche forma di coscienza sopravviva, la immaginata soddisfazione del generale durò poco, perché alla caduta di Napoleone nel 1815 i tarantini per odio contro i francesi distrussero la sua tomba e non è difficile immaginare che i suoi resti, mai più ritrovati, siano stati gettati in mare.

Non sono riuscito a reperire rappresentazioni della fortezza risalenti a quell’epoca, ma posso fornire una documentazione del prima e del dopo.

Le immagini che seguono  riguardano un dettaglio di una mappa di Taranto conservata nella Biblioteca Universitaria Estense a Modena e datata al XV-XVI secolo. Io credo, invece, sulla scorta di osservazioni interne che farò quando a breve la presenterò integralmente su questo blog, che non possa essere anteriore al XVI secolo. Attraverso un progressivo ingrandimento giungo alla lettura della didascalia che mostra l’antica vocazione del sito per quanto riguarda quella che oggi si chiama destinazione d’uso.

Nell’immagine successiva (tratta da http://www.bebmuseo.it/app/webroot/wp/wp-content/uploads/2015/05/isole_cheradi.jpg) la vista aerea dello stato attuale del sito.

 

La storia rigurgita di episodi in cui l’odio, più o meno comprensibile, si manifesta con la distruzione dei simboli di un potere (una statua, uno stemma, un intero fabbricato, etc.) o con la profanazione e successiva distruzione dei resti del nemico di turno. Tutto ciò per me è comprensibile ma non giustificabile, perché la progressiva ignoranza del passato, avanzante grazie pure alla distruzione delle sue memorie e all’affievolimento fino all’estinzione della loro valenza monitoria, non può che propiziare il ripetersi proprio di quegli eventi che si è pensato di rimuovere per sempre dalla coscienza mediante la semplice cancellazione di oggetti. E così cadiamo sempre nell’eterna contraddizione tra il dire e il fare, tra il concreto e l’astratto, facendo prevalere l’uno o l’altro seguendo l’impulso emotivo del momento.

Qualche volta, tuttavia, la damnatio memoriae (anche quella, come nel nostro caso, spicciola, in un certo senso popolare, cioé non programmata dalle istituzioni) si ritorce contro coloro che l’hanno attuata. Nel nostro caso non dipende da una riabilitazione politica del personaggio, ma dal suo spessore. Pierre-Ambroise-François, infatti, non fu solo un militare, fu un artista, appartenne, cioé, a quella privilegiata categoria in grado di mettere tutti d’accordo con i suoi più validi rappresentanti.  Il suo romanzo epistolare Les liaisons dangereuses (Le relazioni pericolose), uscito ad Amsterdam (manca il nome dell’editore) in due volumi, il primo (diviso in quattro parti) nel 1782, il secondo nel 1787, è considerato, e da tempo, come uno dei classici della letteratura non solo francese ma mondiale.

La arta 2 del manoscritto autografo, custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (dipartimento manoscritti francesi,n. 12845), con l'incipit del romanzo
La carta 2 del manoscritto autografo, custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (dipartimento manoscritti francesi, n. 12845), con l’incipit del romanzo

 

I frontespizi del primo e del secondo volume della prima edizione
I frontespizi del primo e del secondo volume della prima edizione

 

Al lettore non sarà sfuggita la presenza nei frontespizi dei puntini di sospensione (direi di vigliaccheria, e dopo spiegherò perché) che accompagnano il nome dell’autore C[hoderlos] de L[aclos] e risparmiano M. (abbreviazione di Monsieur=Signor), innocuo per la sua scontata genericità e la preposizione de, il cui valore compromettente è relativo, direi nullo …

Il fatto è che, al tempo in cui uscì, il romanzo venne considerato altamente immorale e fautore di corruzione e nello stesso tempo, per così dire, diffamatorio, anche se in realtà esso  offriva uno spaccato della classe nobiliare del XVIII secolo, insomma, costituiva più una denunzia che, a seconda dei punti di vista,  un’istigazione al peccato o una calunniosa offesa. L’ipocrisia della morale (quella formale …) di ogni tempo ispirò il poco coraggioso (specialmente per un generale …) espediente dei puntini, mentre nell’avvertimento iniziale l’editore (totalmente anonimo, lui …) si affanna più volte a sottolineare il carattere, a parer suo, fittizio delle lettere …

Bisognerà  attendere il 1869 per incontrare un’edizione senza le mutande messe al nome dell’autore, anche se potrebbe sussistere una finalità mimetizzante in Delaclos per De Laclos.

Il tempo è il migliore giustiziere e, come s’è detto, l’opera è da tempo considerata un classico.

Si definisce classico, si sa, qualsiasi prodotto che riesca a valicare i confini del suo tempo, in esso riconoscibilissimi, e sia destinato ad una perenne attualità; insomma una sorta di prodigio, come può essere tutto ciò che è del suo tempo e insieme di ogni tempo. E il romanzo del nostro non si sottrae a questa regola, tant’è che, al di là di un numero spaventoso di edizioni, è stato oggetto di numerosissimi adattamenti teatrali e di altrettanto numerose  trasposizioni cinematografiche, a partire da quella del 1959 che ebbe come regista Roger Vadim e come interpreti principali  Gerard Philipe, Jeanne Moreau ed Annette Stroyberg;  i miei coetanei alle prese con le prime tempeste ormonali la ricorderanno certamente, ma solo attraverso la locandina, essendo il film stravietato …

 

Nel chiudere ritengo opportuno correggere il damnatio memoriae riuscita solo a metà del titolo con damnatio memoriae totalmente fallita. Il gesto dei profanatori è già stato dimenticato, forse, dalla storia, è qualcosa di morto, il nome del dannato, al contrario,è estremamente vivo e come tutto ciò che riguarda lo spirito, destinato a durare più di un oggetto, sia esso un sepolcro (quello del generale nel nostro caso) o, come mostrano le immagini di chiusura tratte da http://www.geheugenvannederland.nl/en, un poster sul tema, il primo del 1887, il secondo del 1990

Fuori Tempo Massimo: quattro libri d’arte

Fuori Tempo Massimo: quattro libri d’arte sul sociale e sulla società

dell’artista salentina Paola Scialpi

 

Fondo Verri di Lecce, via Santa Maria del Paradiso 8

dal 21 al 25 aprile 2017

Inaugurazione 21 aprile 2017 ore 19,30

MARE-Pagina-14-def

“Mare: una storia da riscrivere”,” Ombre “,” Donne”;” Fuori tempo massimo” sono i quattro libri d’arte creati dall’artista Paola Scialpi. Un’ interessante e stimolante avventura, carica di impegno per il sociale, per l’artista salentina che si è voluta cimentare in una creazione  del tutto nuova per il suo percorso artistico. I libri racchiudono in una ventina di pagine immagini dipinte e racconti, totalmente inediti e scritti a mano, che narrano il contenuto di storie talvolta ai margini talvolta alla deriva. Il primo dedicato ai migranti, è stato accolto con sincera condivisione spirituale e vicinanza umana da Papa Francesco a cui l’artista ha fatto dono di una copia. Il libro  che parla di migranti, contiene oltre alle immagini un racconto molto toccante.

OMBRE-Pagina-20-def

Il secondo “Ombre” esprime con immagini e racconti la vita dei senza tetto e della vecchiaia in solitudine.

DONNE-Pagina-15-def

Il terzo “Donne” si riferisce a molte situazioni, tutte al femminile, e contiene oltre ad un racconto scritto dall’artista anche piccoli componimenti di poetesse contemporanee.

FUORI-TEMPO-MASSIMO-Pagina-12-def

Il quarto ” Fuori tempo massimo “rappresenta invece gli eventi atmosferici e geologici che l’uomo deve affrontare sempre più frequentemente. I libri sono opere uniche nate dalla sensibilità di un’artista che ha da sempre utilizzato la sua arte per denunciare o comunque per inviare messaggi di critica e di riflessione sulla nostra contemporaneità sempre più complessa e sempre più sfuggente.

 

I libri saranno esposti al Fondo Verri di Lecce via Santa Maria del Paradiso dal 21 al 25 aprile 2017. Inaugurazione 21 aprile 2017 ore 19,30.

L’età normanna in Puglia. L’età di Tancredi

normanni

21 aprile 2017. Sala convegni dell’Hotel Palazzo Virgilio

VI Incontro di studi su L’età normanna in Puglia. L’età di Tancredi 

I sessione

 “Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni”.

 (William Shakespeare, Amleto)

 

Il 1189, morendo Guglielmo il Buono senza figli, incurante del giuramento prestato e dei diritti di successione di Costanza d’Altavilla, una parte della nobiltà siciliana elesse il conte Tancredi di Lecce nuovo re. Questi poté imporre il suo dominio solo al prezzo di numerose campagne militari a danno di nemici interni es esterni. Dopo che una prima spedizione di conquista di Enrico VI era naufragata il 1191 alle porte di Napoli, che era stata fortificata, il papato sfruttò il momento favorevole imponendo a Tancredi, in cambio del proprio riconoscimento, il concordato di Gravina (1192) che annullava la posizione privilegiata del re di Sicilia negli affari di carattere politico-ecclesiastico. Enrico VI, da poco incoronato imperatore, aveva rivendicato, a giustificazione della campagna militare contro Tancredi, per la prima volta un antiquum ius imperii come fondamento giuridico della sua spedizione di conquista contro il regno normanno; ancor più importante del diritto di successione della moglie Costanza, il sovrano lo considerava la motivazione decisiva del suo intervento. Durante il suo regno dovette contrastare le rivendicazioni anche  del re inglese Riccardo Cuor di Leone che, come cognato di Guglielmo II, accampava diritti sul Regno di Sicilia. Tancredi tacitò il sovrano inglese con forti somme di denaro e. cercò di rafforzare la propria posizione facendo sposare in Brindisi il figlio Ruggero con Irene, figlia dell’imperatore di Costantinopoli Isacco Angelo. La diplomazia bizantina, favorì il matrimonio con il chiaro scopo di evitare  l’integrazione del regno di Sicilia nell’impero tedesco.

Scrive con efficace ma non sempre precisa sintesi Riccardo di San Germano che il 1191 “Re Tancredi, passando dalla Sicilia nella Puglia, tenuta una solenne adunanza a Termoli, si reca nell’Abruzzo, assedia il conte Rinaldo e lo costringe a passare di nuovo sotto il suo potere; e di qui, recandosi a Brindisi, dà in sposa la figlia di Isacco, imperatore di Costantinopoli, cioè Urania, al figlio Ruggero, suo secondogenito. E celebrate solennemente le nozze a Brindisi e qui coronato re suo figlio, il soprannominato re se ne tornò in Sicilia trionfante e glorioso “.

Il riferimento è a Ruggero, nato il 1175, figlio primogenito di Tancredi d’Altavilla (1139-1194); nominato duca di Puglia il 1189, per essere designato a successore del padre, salito al trono in quell’anno. Nell’agosto 1192 nella Cattedrale di Brindisi sposò Irene Angelo (1180-1208), figlia dell’imperatore bizantino Isacco II Angelo: in occasione delle nozze il padre fece restaurare il fonte grande sull’Appia, sui rialti del seno di ponente del porto di Brindisi, ancor oggi denominata Fontana Tancredi. Il giovane Ruggero prese in mano le redini del regno, al fianco del padre ma il 24 dicembre 1193, all’età di 18 anni, morì. Al suo posto Tancredi avrebbe designato re di Sicilia il figlio minore, Guglielmo, di soli 9 anni. Lo stesso Tancredi morì poco dopo, il 20 febbraio 1194, affidando la reggenza alla moglie Sibilla. Condizioni estremamente favorevoli determinarono perciò il successo del secondo tentativo di conquista intrapreso da Enrico VI il 1194:; senza incontrare particolari resistenze, l’imperatore alla fine di novembre fece il suo ingresso a Palermo e il giorno di Natale fu incoronato re di Sicilia.  Irene Angelo, vedova di Ruggero, fu da lui designata come moglie del fratello Filippo di Svevia.

 

Indirizzi di saluto
CORRADO NICOLA DE BERNART Presidente Rotary Club Brindisi Appia Antica
ANGELA CARLUCCIO Sindaco di Brindisi
Coordina e introduce i lavori
CRISTIAN GUZZO Società di Storia Patria per la Puglia. Sezione di Brindisi
Interventi
PAUL ARTHUR, MARISA TINELLI Università del Salento Le fortificazioni normanne di Lecce
GIUSEPPE MARZANO Società di Storia Patria per la Puglia Un inedito riferimento per il tracciato dell’Appia Traiana a sud di Brindisi
DARIO STOMATI Rotary Club Brindisi Appia Antica Il fonte grande o di Tancredi
Nel corso dell’incontro sarà presentato il volume L’età normanna in Puglia. Mito e ragione, Atti del III convegno di studi normanni, Brindisi. Hotel Palazzo Virgilio, 23 aprile 2015-

Organizzazione:

Rotary Club Brindisi Appia Antica,

Società di Storia Patria per la Puglia. Sezione di Brindisi

Patrocinio

Comune di Brindisi

normanni convegno

Pasquetta e Pascareddha

di Armando Polito

* Traduzione dal gattese in dialetto neretino e da questo in italiano:

– Armeno osce pensa cu mmangi, cu bbivi e ccu ti stai cittu! –

– Almeno oggi pensa a mangiare, a bere e a startene zitto!

 

Si pensa sempre al cibo, tanto che, ormai, più che un rito comunitario, come l’antico simposio, sembra esser diventato un’ossessione con atteggiamenti contrasti e altalenanti, quando si è più o meno “normali” e neppure ancora obesi, tra atteggiamenti, pur non non patologici, anoressici e bulimici.

Una volta, inoltre, un pranzo o una cena sancivano l’inizio di un rapporto, meglio a lume di candela, nonostante quest’ultima fosse a doppio taglio, perché da un lato poteva rendere difficilmente visibile  nella donna (e in chi, sennò? …) qualche piccolo difetto che il trucco di allora non era in grado di compensare in modo soddisfacente, dall’altro perché i barbaglii di quella flebile luce creavano il seducente effetto del vedo-non vedo, considerato in questi nostri strani tempi quasi una perversione sessuale …

Oggi la colazione, il pranzo e la cena si sono inoltre arricchite dell’appendice di lavoro. Non avrei nulla da dire se molte di loro non fossero state e continuassero ad essere, come le cronache giudiziarie mostrano,  l’occasione per affaristi  intrallazzatori, corruttori, corrotti, millantatori compagni e camerati (per essere sintetico e non far torto a nessun partito …) di merende, insomma per  il cancro di questi paese , l’occasione per procurarsi lavoro per sé e per i loro compari sottraendolo alle persone oneste.

E tra i blog impazzano quelli che si occupano di gastronomia, mentre dalla mattina alla sera spuntano sullo schermo televisivo come funghi, , è il caso di dire, serie interamente dedicate all’argomento . Insomma, le feste pasquali sono finite, ma la festa (siamo in Italia …) continua. Auguriamoci solo che qualcuno di quei signori (il non virfolettato serve, paradossalmnte, ad accrescere il sarcasmo) prima nominati non ce faccia; perché potrebbe essere quella definitiva.

Chi si aspettava dal titolo qualche favoletta buonista e melensa sulla festa di oggi e melensa o, magari, una statistica provvisoria del tipo di panino di maggior successo consumato da qualche poveraccio o del ristorante che hanno fatto il pieno, sarà rimasto deluso. Se continua a leggermi perderà il suo tempo, perché ho intenzione di continuare sulla stessa cifra. Però, prima che decida di chiudere questa finestra e di aprire la porta del frigorifero …, gli chiedo se ha mai riflettuto sulla differenza tra le due parole Pasquetta e Pascareddha. Ammesso (in qualche caso per assurdo …) che voglia ancora dedicarmi un attimo della sua attenzione, mi dirà, risentito come colui che si sente calunniato, che Pascareddha è il corrispondente salentino dell’italiano Pasquetta e che sono diminutivi Pasquetta di Pasqua e Pascareddha di Pasca.  Già lo vedo involarsi verso il frigorifero prima ancora che io dica: – Già, ma se la corrispondenza fosse stata formalmente (sul significato non si discute) perfetta, Pasca avrebbe dovuto generare Paschetta -.

Mentre il grande filologo è tutto preso dall’imbarazzo della scelta per realizzare il suo spuntino, con i pochi rimasti a seguirmi proverò a soddisfare ben altro appetito.

Se, dunque, Pascaredha non è il perfetto corrispondente di Pasquetta, come starebbe la cosa? Il fatto è che la nostra voce dialettale ha seguito una diversa tecnica di formazione E questa è un’altra prova della creatività del dialetto. Pascareddha, infatti, è sì diminutivo, ma non direttamente, di Pasca, bensì di un intermediario aggettivale, *Pascale, secondo la trafila Pasca>*pascale>+pascaleddha>Pascareddha.

È la stessa trafila di fesca>*fescale>*fiscale>*fiscaleddha>fiscareddha (per i non salentini segnalo la nota 2 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/29/la-furficicchia-e-leuropa/).

E con fesca e fiscareddha mi accorgo di essere inciampato  anch’io in un sasso di quel campo alimentare che all’inizio avevo stigmatizzato senza pietà. Però, ho un’attenuante: impazzisco per i formaggi, odio la ricotta. Comunque sia, è un bene che a quest’ora il tizio del frigorifero sarà preda di una provvidenziale (per me) pennichella …

Pasqua in una miniatura del XV secolo

di Armando Polito

L’1mmagine riproduce  il foglio 1r di un codice del XV secolo contenente il testo del Vespro miniato da Cristoforo Maiorana e custodito nella biblioteca dell’Università di Valencia (http://weblioteca.uv.es/cgi/view7.pl?sesion=2017041208341014319&source=uv_ms_0391&div=5). Il Maiorana miniò  fra l’altro un codice realizzato per Anfrea Matteo III Acquaviva, conservato nella Biblioteca Nazionale di Francia (Latin 2082); purtroppo, non ho alcun dato per affermare che anche quello cui faccio riferimento oggi abbia avuto lo stesso destinatario. Lo posso solo ritenere probabile è questo è un buon pretesto per accampare un ipotetico legame, sia pure indiretto, con la Terra d’Otranto, in cui quella famiglia ebbe un ruolo di primissimo piano.

Il lettore più acculturato mi perdonerà ora la parte che segue, destinata soprattutto ai più giovani, parecchi dei quali, non per colpa loro, ignorano anche il significato attuale di miiniatura, che designa la riproduzione in scala ridotta di un qualsiasi oggetto (per un edificio o un paesaggio il suo sinonimo è modellino o  plastico). E il derivato miniaturizzazione trova nei nostri tempi l’esempio più appariscente (anche se, a ben pensarci, per vedere i dettagli bisognerebbe ricorrere al microscopio …) nei circuiti integrati che, tra l’altro, hanno trasformato quegli armadi che un tempo erano i pc in oggetti che stanno in un taschino.

Ma miniatura all’origine, quando i pc non erano neppure roba da fantascienza, indicavano l’arte e la tecnica di ornare, decorare, illustrare oggetti, in primis l’antenato del libro, cioé il codice.Miniatura deriva da miniato, participio passato di miniare, secondo una tecnica di formazione molto usata  che sfrutta il participio passato di un verbo, come per colto>colltura e coltura, fatto> fattura, chiuso>chiusura, etc. etc.

Miniare, a sua volta, deriva da minio, il colore che fin dall’antichità e poi nel medioevo era il più usato in questo tipo di decorazione. Insomma, il concetto dominante oggi di riduzione dimensionale non ha nulla a che fare con termini come minore o mignon,

È intuitivo che la miniatura accresceva enormemente il valore del codice, non solo perché richiedeva l’intervento di veri e propri artisti (e quindi la lievitazione dei costi) ma anche perché l’importanza dell’immagine, oggi fondamentale, anche allora non era trascurabile. Essa era, perciò, riservata a quella che oggi diremmo edizione di lusso. L’avvento della stampa a partire dalla metà del XV secolo decretò inesorabilmente la fine della miniatura, anche se le prime edizioni ricalcavano la stessa struttura dei codici (compresa la numerazione di quelle che poi sarebbero state le pagine con un numero progressivo preceduto da f(oglio) e seguito da r(etto) per la prima facciata, da v(erso) per la seconda. E, laddove la fedeltà all’originale si spingeva al massimo, le nuove miniature venivano realizzate partendo da un’incisione su lastra di rame.

Ancora oggi, in tempi in cui le acrobazie grafiche (magari realizzate con un software …) ci bombardano,  i nostri occhi restano ammaliati dall’apparente semplicità delle antiche miniature e qualcuno proverà le stesse emozioni  che suscita una pittura naïf.

Quanto fin qui detto non vuole condizionare nessuno, è solo il mio omaggio personale e laico ad un evento religioso (e ad sua espressione artistica) che invita, comunque, a riflettere anche chi, come me, di ogni religione ha un concetto , per restare terminologicamente in tema, poco ortodosso …

E dopo l’immagine di testa, il cui testo recita in alto (sono le parole iniziali dell’antifona che nel Vespro precede il salmo 109) In die resurrectionis domi/ni nostri iesu christi: adventus dii (Nel giorno della resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo: l’avvento del dio) e in basso Angelus autem domini descendit de celo et accedens revolvit lapidem: et  sedebat super …(Poi l’angelo del Signore scese dal cielo e avvicinandosi fece scivolare la pietra; e sedeva su di essa …), chiudo  con un’operazione che ha il sapore dell’ossimoro, la figura retorica che più efficacemente rappresenta la contraddittorietà della nostra natura, cioè  l’ingrandimento della miniatura.

Ah, quasi quasi me ne dimenticavo: comunque sia, buona Pasqua!

Dal Salento: fra i ricordi e il presente, i segni di uno speciale dopo “Coena”

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di Rocco Boccadamo

Secondo il calendario liturgico della Chiesa Cattolica, fra i riti della settimana che precede la Pasqua, come pure nel radicato sentire dei credenti e/o praticanti, spicca e si rinnova puntualmente la rievocazione del “Giovedì Santo”.

Le relative cerimonie religiose, com’è noto, culminano con la celebrazione della Messa denominata “in coena Domini” e, in particolare, con la Lavanda, per opera dell’officiante (dal Sommo Pontefice, sino al più umile parroco di montagna), dei piedi di dodici persone, di qualsiasi età o sesso o censo, che vogliono simboleggiare le figure dei Discepoli, riuniti a tavola accanto al Maestro, per l’ultimo pasto insieme prima del suo sacrificio sul Calvario.

Dopo di che, la pisside, contenente i segni sacramentali del corpo di Cristo, rimane esposta sino al giorno successivo, per l’adorazione da parte dei fedeli.

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A proposito del precipuo rito di detta ostensione, una volta si parlava di “sepolcro”, mentre, adesso, vige la definizione, semplicemente, di luogo di presentazione solenne del simbolo di Cristo, sempre vivente.

Con l’ormai cospicuo passare delle stagioni, nella mente del ragazzo di ieri, è venuta ad allestirsi una vera e propria galleria, vie più ricca, d’immagini del “sepolcro” o “luogo”, come meglio piaccia appellarlo, incominciando dai tempi dell’infanzia e dell’incipiente giovinezza nel paesello natio e giungendo all’attuale dimora nella Capitale del barocco.

E, così, per citare sul tema, dopo Marittima, a seguire in scansione temporale, Taranto, Messina, Squinzano, Napoli, Imperia, Catania, Monza, Roma, Milano e Lecce.

Eccettuato il riferimento alla località d’origine, dove era, ed è, aperta in via permanente al culto solo la Chiesa matrice, in tutte le altre città, in concomitanza con la sera del Giovedì Santo, è venuto a presentarsi il costume della visita a più chiese, in numero sempre dispari, e, di riflesso, l’occasione di scoprire e ammirare una considerevole serie di siti o luoghi o angoli del genere in discorso.

Da quelli assolutamente semplici per fattura, esponenti soprattutto vasi con tenere piante di lino o di grano, a quelli sontuosi ed eleganti, insomma di realizzazione in certo qual modo artistica.

Avevo addosso venti primavere, quando a Taranto, ho intrapreso i miei giri per le visite ai “sepolcri” e, però, seguito a compierli anche adesso, che mi trovo a quota settantasei, con le gambe e le ginocchia ovviamente un tantino arrugginite, ma, tuttavia, sembra, idonee a permettermi ancora la scarpinata, ispirata a devozione, di alcuni chilometri.

Anche ieri, dopo aver assistito ai riti nella Parrocchia del quartiere dove abito, mi sono messo in cammino, per circa un’ora e mezza, nella sera incalzante.

Di buona lena, ho raggiunto altri quattro luoghi sacri della città, che mi astengo dal citare nominativamente, giacché, nella circostanza, rappresentano grani, identici, del medesimo rosario di fede personale.

A ogni tappa, come dicevo all’inizio, l’approccio con un’immagine, anzi cornice, differente dal punto di vista dell’estetica e dei segni o simboli.

Nella prima sosta, mi si è parata innanzi agli occhi la scena di una piccola barca di legno, in parte ricoperta da mucchi di reti da pesca e recante in bella mostra, adagiati fra poppa e prua, una coppia di remi.

Una semplice idea di mare, insomma, un habitat a me specialmente familiare e caro, in cui ho pensato di individuare tre altrettanto semplici significati.

L’imbarcazione, alla stregua di simbolo, oggi purtroppo dall’impatto sovente tragico, e comunque anello di fratellanza, con il mondo che fra le onde lavora e, inoltre, s’avventura in viaggi, affrontandone i rischi e i pericoli, alla ricerca di una vita migliore.

Le reti, segno di speranza in risultati e traguardi positivi, i remi, infine, come arnesi e presupposti di buona volontà e d’impegno.

Nel secondo luogo, accanto al semplice tabernacolo, ho scorto alcune pagnotte, una serie di rametti d’ulivo e una giara con la scritta “offerte per i poveri”: non v’è dubbio, formule, pure queste, tutte di estrema concretezza ed essenzialità, anche alla luce delle caratteristiche tradizionali e naturali di questa terra, messaggi veramente espressivi e indicativi.

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Nella successiva chiesa, ho riscontrato la presenza di alcune focacce di grano, bianche, al naturale.

Nell’ultimo luogo visitato, invece, mi ha colpito un semicerchio di lanterne accese e, però, dalle fiammelle tenui, forse a voler suggerire sobrietà e umiltà, sentimenti che, anche in seno alle comunità avanzate e in parallelo alle più moderne tecnologie, v’è da pensare che non guastino.

Di fronte alle lanterne, la raffigurazione di un pozzo con abbinato flusso d’acqua incessante.

Nel percorrere il tratto di strada per il rientro a casa, quasi senza avvedermi del traffico circostante e della presenza, in pizzerie o ristoranti o pub, di persone intente a mangiare la cena o uno spuntino similmente a un giorno qualunque, ho rivisitato la sequenza del mio cammino, sentendomi, dentro, pieno e appagato, per aver vissuto, a modo mio e come sempre, l’esperienza dei riti conclusivi del Giovedì Santo, con lo speciale dopo “Coena” per finale.

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Pasqua di cento anni fa

di Armando Polito

L’immagine (tratta da  http://www.europeana.eu/portal/it/record/9200198/BibliographicResource_3000052891029_source.html?q=pasqua) è costituita da quattro vignette tragicamente satiriche di Amos Scorzon, veneziano di nascita ma attivo a Roma come uno dei più famosi caricaturisti dell’inizio del secolo XX.  Dico tragicamente satiriche perché l’ironia, anzi il sarcasmo, cerca di stemperare la drammaticità del momento (è in atto la prima guerra mondiale).

Così, i simboli tipici della Pasqua trovano nelle prime tre vignette la loro amara trasfigurazione in strumenti di morte: nell’olivo le foglie hanno la forma di altrettante spade, la colomba è diventata un aereo che ha appena sganciato una bomba, le uova hanno assunto l’aspetto di tre proiettili di cannone. La quarta, forse la meno amara di tutte, è improntata al patriottismo perché la nota gastronomica, il salame, è impersonata da un soldato austriaco.

Certo, dopo cento anni esatti non c’è in atto una guerra mondiale propriamente detta e la distanza geografica da innumerevoli focolai bellici, pur essendo oggi irrisoria o quasi, è la comoda dimensione in cui annega l’indifferenza di un’umanità che dimostra di non aver appreso nulla dalla storia, tenacemente ed egoisticamente abbarbicata al suo presente, senza lungimiranza e, a lungo andare, senza un futuro degno di essere vissuto.

Rimane solo il lampo di luce dell’arte nelle sue molteplici manifestazioni, tra le quali la vignetta satirica è quella che più lapidariamente riesce catarticamente, apparentemente dissacrando, a  consacrare, anzi a risacrare.

Non c’è nemmeno un aggancio con la Terra d’Otranto, ma l’universalità del problema e l’occasione del centenario della festività mi hanno indotto a rendere partecipi i lettori di un documento trovato in rete per puro caso, questa volta, come, d’altra parte, non di rado succede.

Su quella bici di Rocco…

bici

SU QUELLA BICI DI ROCCO BOCCADAMO E …DI COME ABBIAMO PEDALATO QUANDO POI FINALMENTE È ARRIVATA

di Vanni Greco

Mi domando spesso se le attese deluse (come per “la bici desiderata e non avuta” di Rocco Boccadamo) (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/08/92481/) di noi ragazzi e adolescenti di qualche tempo fa, che hanno dovuto fare i conti con padri poco disposti ad assecondare richieste di beni non strettamente necessari, e madri impegnate a rimodulare con affetto e con successo la frustrazione del figlio e l’intransigenza del marito, siano state utili allo sviluppo della personalità e della capacità di coltivare speranze e progetti per la vita adulta che avessero più probabilità di essere realizzati. Se la necessità di dover spesso rinunciare e quasi sempre accettare il rinvio del bene giudicato superfluo, abbia favorito una distanza dalle pulsioni dell’istinto e maggiore equilibrio e stabilità nei confronti dell’alternarsi di vittorie e sconfitte che, senza eccezioni, segnano la vita di ogni essere umano.
O se, invece, la limitata soddisfazione di tutti i bisogni che esprimeva quell’età abbia rappresentato un limite allo sviluppo della capacità di sognare e di realizzare, con la spinta creativa che li accompagnava, un progetto di vita radicalmente migliore per sé e per gli altri.
Oppure ancora, se quelle rinunce abbiano garantito un accumulo tale di energia che, una volta approdati all’autonomia personale e professionale, si sarebbe liberata in capacità di cambiamento della propria parte di mondo e con esiti decisamente positivi ed oggettivamente apprezzabili.

A distanza di alcuni decenni, il tentativo di fare un bilancio della propria vita credo non aiuti molto nella ricerca di risposte a queste domande, perché non è mai agevole prender le misure reali di ciò che è stato, dei successi e delle sconfitte e ricondurli a meriti ed errori propri, dei propri genitori o di chi ha avuto un ruolo importante nella nostra vita. E senza nemmeno scomodare il “caso”, benigno o meno, che pure entra in misura determinante negli eventi umani.
Si tratta di domande che mi sembra mantengano tutta la propria legittimità anche di questi tempi che pare abbiano abbandonato del tutto il modello nel quale molti della mia generazione e delle precedenti sono cresciuti, e dal quale ne hanno preso talmente le distanze da risultare, forse, agli antipodi. L’impressione, infatti, è che oggi il genitore debba e voglia assecondare qualunque richiesta dei figli. Mi domando se ciò accada per reazione alla propria esperienza adolescenziale, se per saggia consapevolezza sugli effetti dell’uno o dell’altro modello oppure ancora se dipenda dal bisogno degli odierni genitori di evitare qualunque ostacolo alla continua ricerca della propria felicità individuale; una ricerca che l’attenzione e l’impegno verso i figli rischia di compromettere e che risulti, quindi, più facile facendosi sostituire da beni materiali in abbondanza che possano opportunamente distrarre e tenere occupati i figli.
Un ribaltamento, ammesso che corrisponda alla realtà, che rischia di indurre quelli come noi, che pure portano ancora qualche cicatrice del passato, a riversare giudizi talvolta pesanti sulle nuove generazioni di genitori e figli; e che, nel migliore dei casi, alimenta l’inquietudine per il loro futuro che appare senza sbocchi e senza speranza.
Giudizi e paure che ritornano, di generazione in generazione. E, ogni volta, l’ultima generazione di giudici ed osservatori sembra convincersi o teme d’essere la penultima nel computo totale.
È, dunque, davvero a rischio, ogni volta per colpa delle nuove generazioni, il regolare processo di sviluppo e di benessere che continua da alcuni millenni o, secondo altre letture, la storia delle nostre tutto sommato giovani democrazie?

Comincio a dubitare che i giudici più severi in realtà siano gli stessi che, nel pieno delle loro forze, sopravvalutavano o nemmeno s’interrogavano sul valore del proprio contributo al miglioramento del mondo, preferendo puntare il dito sui loro contemporanei, responsabili di tutti i mali.
Mentre, gli osservatori realmente più angosciati forse confondono il destino dell’intero mondo con la crescente, ma non ancora ben riconosciuta paura di chi si avvicina alla propria uscita individuale dal mondo; proiettando così sulle nuove generazioni un destino che è solo personale.

E se, invece, finché c’è ancora tempo, provassimo a fare e, soprattutto, a fare meglio di quanto non abbiamo fatto finora?

O, in alternativa, lasciare responsabilmente il campo a chi, magari sorprendendoci, potrebbe fare meglio, anche molto meglio di noi.

Una statua del cartapestaio leccese Giuseppe Manzo in provincia di Catania

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

di Antonio A. M. Zappalà

Pasqua 1922 – Pasqua 2017! Cosa lega le due ricorrenze? Apparentemente nulla o meglio soltanto la coincidenza dello stesso giorno, il 16 aprile. Ma per la comunità di Biancavilla, in provincia di Catania, questa data segna un felice anniversario da ricordare.

Sono trascorsi infatti 95 anni da quando è presente la statua della Madonna Annunziata protagonista insieme al Cristo Risorto e all’Arcangelo Gabriele della sacra rappresentazione de ‘a Paci che avviene ogni anno la Domenica di Pasqua a Biancavilla. È mezzogiorno quando, in un tripudio di un popolo in festa in piazza Collegiata prima e in piazza Annunziata poi, dinanzi la chiesa Madre “Santa Maria dell’Elemosina” avviene l’incontro tra il Cristo Risorto e la Vergine Maria, nell’esultanza dell’Angelo. Questa è ‘a Paci.

Antonio Alessandro Marino Zappalà - 'a Paci (1)

Anche se il termine può sembrare strano, sebbene tra la Madonna e il Cristo certamente non ci sia stato alcun litigio da preludere uno scambio di pace, probabilmente è stato tramandato sino ai nostri giorni per trasmettere il vero significato della Pasqua, ovvero, un augurio di pace e con la cancellazione di tutti i rancori e le inimicizie.

Protagonisti della sacra rappresentazione biancavillese, sono tre statue: quella del Cristo Risorto portata a spalla dai confrati dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento che indossano la cappa bianca e la mozzetta di colore rosso; quella della Vergine Maria portata a spalla dai componenti dell’Arciconfraternita dell’Annunziata, caratterizzati dalla mozzetta di colore celeste e quella dell’Angelo portata anch’essa a spalla da cittadini non appartenenti a nessuna confraternita.

A distanza di 95 anni la redazione di Video Star, emittente televisiva locale, è riuscita a risalire a colui che ha realizzato la statua della Madonna Annunziata sino ad oggi sconosciuto alla comunità. La redazione è entrata in possesso di documenti storici che hanno permesso di ricostruire l’iter che portò l’artista Giuseppe Manzo a realizzare il simulacro che oggi si vede in processione.

Era il marzo del 1922, quando l’allora rettore della chiesa Annunziata, il canonico Antonino Distefano, commissionò la nuova statua poichè gli antichi simulacri risultavano ormai non idonei alla sacra rappresentazione pasquale a causa dell’usura del tempo.

Antonio Alessandro Marino Zappalà - 'a Paci (2)

La statua della Madonna fu realizzata dalla ditta “Arturo Troso” di Lecce fondata nel 1902, che la spedì per mezzo ferrovia, il 22 marzo del 1922. Nella lettera di accompagnamento scritta dal Arturo Troso si legge: ”Son sicuro quindi che il lavoro sarà di piena soddisfazione sua, dell’illustrissimo signor Sindaco e di tutta l’intera popolazione, essendo stato eseguito con diligente cura e scrupolosità”. Inoltre, in allegato, accludeva la fattura con la descrizione della statua: alta 1 metro e 80 centimetri, lavorata in cartapesta con occhi di cristallo di Germania e decorazioni, una raggiera, per una spesa totale di 845 lire compreso l’imballaggio.

Nella bottega di Arturo Troso lavorava su commissione l’artista Giuseppe Manzo, di fama internazionale con una carriera densa di lavori e riconoscimenti. E fu proprio lui a realizzare fattivamente la statua della Madonna Annunziata.

Nel 1943, dopo la morte di Giuseppe Manzo, la sua bottega continuò ad operare per merito del figlio e del nipote fino al dicembre 1959, anno in cui, la storica fucina della cartapesta in via Paladini, chiuse per sempre i battenti.

Oggi sia la bottega del maestro Manzo che quella della ditta Troso non esistono più e quest’arte semplice e paziente della cartapesta a Lecce resta solo un ricordo. Nel corso degli anni ad essere interessato di restauro è stato tutto il gruppo statuario protagonista della Pasqua a Biancavilla. Nel gennaio del 1993, il professore Salvatore Mazzone, si è occupato del restauro del volto della Madonna Annunziata che si presentava danneggiato a causa del tradizionale contatto con il Cristo Risorto come avviene ogni anno. Altro intervento da parte del maestro Antonino Vaccaielli sull’intero simulacro della Vergine Maria è stato fatto nel 2003.

‘A Paci! Una manifestazione che a distanza di tempo si ripete anno dopo anno a Biancavilla, immutata nei decenni, grazie ai protagonisti sin qui narrati e che hanno lasciato in eredità un gesto d’amore nel segno della continuità alle generazioni future.

Antonio Alessandro Marino Zappalà - 'a Paci (3)

https://www.youtube.com/watch?v=bypZ1KvFrfo&feature=youtu.be

Su Giuseppe Manzo vedi i nostri articoli:

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (prima parte)

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (seconda parte)

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (terza parte)

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quarta parte)

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quinta e ultima parte)

 

Da Maglie, ricordo di una bici tanto desiderata

bici

Da Maglie, ricordo di una bici, tanto desiderata e, però, non avuta

 di Rocco Boccadamo

Stamani, per il disbrigo di una pratica, mi trovavo a Maglie, la signorile cittadina del medio Salento che, fra l’altro, come è noto, ha dato i natali al compianto statista Aldo Moro.

Nel percorrere lentamente in auto una vecchia stradina del centro storico, dalle case basse sovente abbellite da ameni cortili, sono stato d’un tratto colpito da un’insegna di carattere commerciale in grande stampatello, recitante “RESTI”. In corrispondenza, invero, si stagliavano un paio di grigie saracinesche abbassate e, quindi, mute.

Tuttavia, quelle cinque lettere del cartello, in un baleno, andavano prodigiosamente a scatenare nella mia mente un piccolo indicativo ricordo, lontano e, insieme, vivo e guizzante, incentrato su un preciso e determinato episodio risalente, si pensi un po’, alla metà dello scorso secolo.

Correva l’anno 1953, io ero in prima media e, senza volermi esaltare, sul piano del profitto scolastico me la cavavo bene.

Nel paesello natio di Marittima, frequentavo, allora era normale, un’ampia cerchia di amici, coetanei o quasi, e, fra essi, ve n’era uno, D.A., più grandicello rispetto a me, che ammiravo e, anzi, invidiavo per una particolare ragione.

Mosca bianca nel gruppo, egli possedeva una bicicletta, non proprio da adulti, ma nemmeno mini, vale a dire del genere usato da qualche raro bimbetto; insomma, il suo, era un velocipede di dimensioni mediane (a cominciare dalla circonferenza delle ruote), ma, nello stesso tempo,  in tutto attrezzato e completo come se si trattasse di un’autentica bicicletta, sicché gli consentiva di scorrazzare di gran corsa per le vie della località e, talora, anche, di convincere le ragazzine a sedersi sulla canna.

Per rendere più efficacemente l’idea, mi viene di tirar fuori l’immagine di un letto: come c’è quello a due piazze o matrimoniale, c’è quello a una piazza o lettino ed esiste pure il modello a una piazza e mezzo. Ecco, la bici di D. si potrebbe accostare al concetto dimensionale di “una piazza e mezzo”.

Da parte mia, saltuariamente, convincevo il fortunato amico a cedermela per un giretto, beninteso solo per pochi minuti, e, in quei momenti, andavo letteralmente in sollucchero.

Di riflesso, non perdevo occasione per mettere in croce i miei genitori, affinché comprassero un mezzo a due ruote, magari usato, per me o, quanto meno, da adoperare alternativamente con i miei fratelli.

Loro replicavano che ciò non era fattibile, le misurate risorse finanziarie famigliari non potevano essere destinate a un acquisto della specie e, poi, osservavano che ero ancora piccolo. In fondo, loro cercavano di prendere tempo, io, nondimeno, li martellavo senza sosta.

Concentrato su tale obiettivo, rammentando che, in occasione dell’andata a Maglie per gli esami d’ammissione avevo scorto un grande negozio di vendita, guarda caso, di biciclette, non mi feci scappare lo spunto di una missione, nella cittadina, di mia madre, mio padre, la nonna materna Lucia, lo zio Toto e la sua promessa sposa Maria, per l’acquisto di vestiti, scarpe e altri accessori, in vista, esattamente, del matrimonio dei predetti zii Toto e Maria.

Aggregatomi, dovetti inizialmente sorbirmi i passaggi dai Magazzini Candido e dai vari negozi Puzzovio, Santese e De Giorgi; dopo, invece, convinsi il gruppo ad accompagnarmi in quella stradina citata in apertura, dove era ubicato l’esercizio di vendita di biciclette.

Lì, mi soffermai a girare a lungo, divorando con gli occhi i bellissimi modelli esposti, ma… i prezzi erano letteralmente inabbordabili.

Purtroppo, l’azienda non trattava bici usate e, alla fine, quindi, restai a bocca asciutta.

Mi toccò, di conseguenza, attendere l’estate dell’anno successivo per veder soddisfatto il mio sogno: in casa, arrivò una seconda bicicletta usata per noi ragazzi, intanto che quella preesistente serviva a mio padre per andare e tonare dall’ufficio.

La prima escursione che compii gongolante ebbe come meta la Marina di Andrano, dove s’inaugurava l’impianto elettrico, al posto delle vecchie lampade a acetilene, nella chiesetta dedicata alla Madonna.

Un amico magliese, mi ha appena riferito che la ditta Resti, che di generazione in generazione andava vendendo biciclette, ha chiuso da circa un decennio; della sua realtà, sopravvive, però, quell’insegna in grande stampatello che ha ispirato, al ragazzo di ieri, la rievocazione della presente, semplice e minuscola antica storia.

Michele Gaballo: in una scultura la sintesi della vita

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=en&case=&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_36698
immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=en&case=&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_36698

 

Ho esercitato la professione più bella del mondo, cioé quella dell’insegnante e sono orgoglioso, nel fare il suo bilancio, di aver appreso dai miei allievi, anche da quei pochi che per colpa mia non conseguivano, sempre secondo il mio giudizio, risultati soddisfacenti, più di quanto io sia stato in grado di trasmettere loro. Se così non fosse stato, non sarei stato in grado, oggi, di scrivere queste poche note. Tuttavia, se per assurdo mi fosse concesso di vivere una seconda vita, forse preferirei essere un artista, per creare la bellezza, non per commentarla, come oggi, indegnamente, mi accingo a fare. Lascio giudicare al lettore quanto mi sia lasciato trascinare dalla passione campanilistica, visto che l’autore del busto in gesso è un neretino, lo scultore Michele Gaballo (1896-1946), che lo realizzò nel 1935, cinque anni dopo la Fontana del toro, forse l’opera sua più conosciuta, perché bene in vista in piazza Salandra, ragione, evidentemente, non sufficiente per garantirne il decoro, oltre che la conservazione, con periodiche operazioni di pulizia …

Il busto, invece, è in una condizione più protetta, ma, paradossalmente, meno adatta ad una sua fruizione diretta, nonostante questa sia diventata solo auspicabile (siamo diventati un popolo che si pasce di auspici …), anche per ciò che quotidianamente è sotto i nostri occhi, per un’insensibilità dilagante, frutto di un imbarbarimento di cultura e valori solo in parte giustificato dal ritmo forsennato della vita di oggi, tutta dedita al presente, senza sguardi al passato e proiezioni nel futuro. Esso, infatti, è custodito nella quinta sala a destra del Convento dell’Immacolata a Galatina. Ignoro totalmente le ragioni di questa sua collocazione e non so neppure se le sembianze ritratte sono quelle di un personaggio reale o fittizio. Sarò grato a chiunque sia in grado di dare notizie al proposito, ma, secondo me, ciò che dirò varrebbe comunque in un caso (personaggio fittizio) o nell’altro (personaggio reale). Ho definito la scultura sintesi della vita perché a mio parere riassume in sé tutte le sue fasi meno la nascita, che, paradossalmente, è la meno importante, se non è il preludio di tappe scandite più o meno costantemente da quei comportamenti e connessi sentimenti che, forse presuntuosamente, consideriamo come il crisma che distingue l’umanità dalla bestialità.

Solo l’arte è in grado di riscattare tutta la negatività che è racchiusa nella parola ambiguità, anzi, sotto questo punto di vista, credo che tutta l’arte, quella vera, sia ambigua. E per questo è in grado di suscitare in chi sa leggerla sentimenti comuni e nello stesso tempo reazioni individuali, condizioni indispensabili, credo, per la sua universalità ed attualità.

Qui l’età non è perfettamente decifrabile ma potrebbe essere collocata in quello che Dante chiama mezzo del cammin di nostra vita, poco più o poco meno. L’atteggiamento si direbbe assorto, pensoso  ma nello stesso tempo sofferto, doloroso, quasi ai limiti di una voglia di reagire che ancora non è diventata (e forse mai diventerà) rassegnazione e resa. E il dettaglio degli occhi chiusi ne fa quasi una maschera funeraria, in cui l’impronta dell’ultimo sguardo (quello che precede la morte) resta fissato a coincidere quasi con il primo (quello della nascita). Il tutto espresso con una nitidezza formale che nulla concede al dettaglio retorico, antica e modernissima nello stesso tempo; insomma, quello che si definisce un classico.

La confraternita dell’Immacolata di Supersano

Foto 1: Supersano, Ex Chiesa confraternale, Facciata (ph Angelo De Pascali).
Foto 1: Supersano, Ex Chiesa confraternale, Facciata (ph Angelo De Pasca

 

TRA STORIA E DEVOZIONE

La confraternita dell’Immacolata di Supersano

di Fabrizio Mariano

La ricerca storica è sempre affascinante, soprattutto quando l’oggetto di studio è la propria terra, le radici, la cultura e le tradizioni che formano il bagaglio di crescita di ciascuno. In questo caso la passione per la ricerca mi ha spinto a indagare tutto ciò che permettesse di ricostruire la storia relativa alla Confraternita “Maria SS. Immacolata” di Supersano. Un lavoro affascinante, ma arduo, soprattutto per la carenza di fonti documentarie e iconografiche, che nel tempo sono state smarrite, anche per incuranza.

In questo lavoro, il primo più approfondito relativo alla congregazione laica di Supersano e non certo esaustivo, cercherò di delineare a grandi linee gli eventi principali che hanno caratterizzato la storia di questi sodalizi, in generale, e le tappe fondamentali che hanno caratterizzato la nascita e l’evoluzione della confraternita di Supersano, con le poche fonti a disposizione, grazie alle quali è stato possibile aggiungere alcuni tasselli, non ancora messe in luce.

Prima di addentrarci nel vivo della questione, il lavoro necessita una panoramica generale che inquadri i motivi e l’evoluzione che portano all’esistenza di queste associazioni di laici.

Prima di tutto va precisato che la comunità cristiana è, per sua stessa natura, una fraternità[1]. Basti pensare all’immagine paolina del corpus[2], che invita ciascuno ad essere come il corpo che, all’unisono, canta l’unità e le differenze. Nel corso della storia, nella società civile, l’uomo si è sempre aggregato, si pensi alle corporazioni. Anche nella Chiesa prendono forma le aggregazioni laicali e, tra esse, le confraternite: nobili, notabili e contadini si associano, accomunati dalla stessa preghiera, dagli stessi ideali. Sono gruppi che nascono col fine di servire la Chiesa e l’uomo, evitando ogni rivalità. Verso la fine del Medioevo, tra il XII e il XIII secolo, è sempre più forte il desiderio dei fedeli di identificarsi in uno status proprio, che si differisca da quello dei chierici o degli ordini religiosi. I capisaldi che caratterizzano il movimento confraternale, nella seconda metà del XIII secolo, sono: la valorizzazione della madre chiesa, l’espansione della devozione a Maria, le preghiere per i defunti, l’attività assistenziale. Si tratta, in questo caso, di una confraternita mariana, dedicata all’Immacolata, il cui culto, nello specifico, si diffonde in tutta Italia a partire già dal XIII secolo, ad opera dei Francescani, ardenti sostenitori di questo Dogma, asserito, poi, in forma solenne nel 1854 da Pio IX[3].

Nei secoli XIV e XV, in Europa, il movimento delle confraternite accentua l’attenzione verso attività di mutua assistenza e di carità, mentre in Italia si conserva, ancora, la prevalente caratteristica devozionale[4].

Foto 2: Supersano, Ex Chiesa confraternale, Madonna col bambino (olio su tela).
Foto 2: Supersano, Ex Chiesa confraternale, Madonna col bambino (olio su tela).

Il XVI secolo può essere considerato uno spartiacque nell’esperienza confraternale. Lo scenario cambia totalmente con l’avvento della riforma luterana. Le confraternite, sostenute dal clero e dai religiosi, contestano apertamente le tesi di Lutero e il ritorno ad usi religiosi tradizionali, ritenuti devianti. In collaborazione con le parrocchie, contribuiscono al rinnovamento del cristianesimo promosso dal Concilio Tridentino, riorganizzano il culto e attivano una proficua presenza nelle istituzioni sociali. Lo stesso Concilio, poi, nel 1562 sancisce il diritto dell’autorità ecclesiastica di visitare e controllare i bilanci amministrativi di ospedali, confraternite ed enti caritativi. La stessa esistenza dei pii sodalizi è determinata solo dall’autorità ecclesiastica, che ne decreta l’erezione. I confrati si impegnano a diffondere la dottrina cristiana, il culto Eucaristico e del santo titolare e organizzano la carità nella forma di promozione umana. Si ha una sorta di innovazione, rispetto al passato. Le confraternite, ridisegnate dalle nuove direttive del Concilio di Trento, partecipano al rinnovamento spirituale e potenziano il servizio educativo e caritativo. Esse divengono palestre di vita cristiana, capaci di educare la coscienza e il comportamento delle persone. Lo stesso servizio caritativo si apre a tutte le necessità della società. Inseriti nella Chiesa e nel mondo, questi sodalizi, raggiungono il loro massimo splendore, offrendo un sostegno protettivo che avvolge la persona.

Molto spesso, nel corso della ricerca, si ha la pretesa di ricercare una data incontrovertibile sulla fondazione di una confraternita. Si tratta, però, in molti casi, di tradizioni orali non documentabili. Pertanto, l’unica vera data a cui far risalire la nascita di un pio sodalizio è quella in cui l’autorità ecclesiastica ne ha decretato l’istituzione come tale, nel caso in cui si custodissero i manoscritti. Per la confraternita di Supersano non è stato facile rintracciare fonti e testimonianze, di ogni genere. Questa difficoltà è accentuata a causa dell’abbattimento dell’antico edificio sacro che ospitava i confrati, avvenuto nel 1968, per lasciare spazio all’attuale fabbrica. Un’importante perdita a livello architettonico, che dava valore al territorio. Si pensi che, la fonte documentaria più antica, la Visita pastorale del 1711 di mons. Tommaso De Rossi, vicario capitolare della diocesi di Ugento, riporta queste informazioni: “Attualmente – la chiesa – è molto pericolosa[5]. Si può dire, dunque, che la vecchia chiesa risaliva, presumibilmente, al XVI-XVII secolo. Si comprende bene come, conseguenza immediata è lo smarrimento di numerose suppellettili e fonti documentarie e iconografiche, forse anche per incuranza.

Attualmente, i documenti più antichi, che attestano la presenza confraternale a Supersano e ne regolano l’esistenza, non sono molti. Si può tracciare un filo conduttore che ne possa ricostruire la storia per sommi capi, grazie alle informazioni custodite nell’Archivio Storico Diocesano, nell’Archivio di Stato di Napoli e di Lecce.

Interessante è, a questo proposito, tutta la politica che ruota attorno alla questione del cosiddetto “regio assenso”, e che ha prodotto una certa mole di documentazione, permettendo di ricomporre i tasselli principali della storia dei pii sodalizi. Si tratta di una discussione che mantiene i toni accesi per tutto il XVIII – XIX secolo e consente di conoscere la composizione, l’organizzazione e la devozione delle congregazioni laicali. Le prime controversie si hanno con le disposizioni regie del regno borbonico, negli anni 1753-1761, e che, con un fare anticlericale, furono determinanti per decretare l’allontanamento dei chierici dalla vita confraternale, reminiscenza delle disposizioni del Concilio tridentino. Considerevole, a proposito, è il Concordato stipulato tra Carlo III e Benedetto XIV, nel 1741, secondo il quale i vescovi, e i chierici in genere, si sarebbero interessati solo dell’ambito spirituale, nominando un revisore dei conti, come delegato. L’amministrazione temporale, ora, è sotto il controllo di un tribunale misto e la revisione può essere ritenuta conclusa con il versamento di un tributo, ad opera di un giudice, laico o ecclesiastico, a scadenza annuale[6].

Risolutivi, per la vita confraternale, sono i successivi rescritti regi che regolano questi aspetti, dalla seconda metà del XVIII secolo e per tutto il XIX, e resi ancor più incisivi con il Concordato stipulato nel Congresso di Vienna, nel 1818. Tre di questi, in modo particolare, puntualizzano la restrizione, se non l’allontanamento definitivo degli ecclesiastici, dagli affari delle associazioni pie[7].

Si chiede, dunque, un riconoscimento legittimo, senza il quale le pie aggregazioni già esistenti non possono restare in vita. Solo un decreto regio può approvarne gli statuti e l’esistenza. Seguono numerosi rescritti che sollecitano i ritardatari, tanto che tra il 1776 e 1777, nella diocesi ugentina solo 13 confraternite chiedono ed ottengono il riconoscimento regio, seppur già esistenti, tra cui la confraternita di Supersano.

Seppur abbastanza antica, la confraternita dell’Immacolata comincia a comparire negli atti, perché legittima, a partire dal 31 giugno 1777. L’atto che ne dichiara la fondazione è conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, oltre al quale è custodito il primo statuto del pio sodalizio[8].

Il controllo e l’ispezione non svaniscono nel nulla, anzi, sono sempre più accentuati sotto il regno borbonico. Nell’arco del 1800, altri mandati regi mirano a controllare lo stato e l’operato delle Opere Pie. Ripercorrendo queste vicende, riemerge alla luce un tassello importante che ha costituito la storia delle congregazioni laicali a Supersano, e che tutti hanno finora ignorato. Nel 1823, con l’arrivo del nuovo Intendente della Provincia di Terra d’Otranto, si avvia la caccia alle “Congregazioni di Pia Istituzione degenerate in adunanze poco religiose, indecenti e con qualche reminiscenza settaria”, richiesta nel febbraio 1825 dal Ministro e Real Segretario di Stato della Polizia Generale di Napoli. L’Intendente sig. Dei Marchesi riceve un rescritto del Sotto Intendente del Circondario di Gallipoli, che attesta lo stato delle congregazioni e confraternite esistenti nel distretto di Gallipoli. Scorrendo il lungo elenco balza all’occhio Supersano che, al 3 settembre 1825 ha due Confraternite: “Della Concezione” – tuttora esistente – e “S. Maria delle Grazie”. Nessuno ha mai parlato dell’esistenza di questo secondo sodalizio, probabilmente soppresso per decadenza o carenza di iscrizioni con il secondo mandato regio, nel 1861, con l’unità d’Italia. Si tratta sicuramente, come spesso accadeva in quel periodo, di una congregazione come quella dell’Immacolata, che si preoccupava di opere caritative e culto religioso, con un’unica differenza, l’assenza di una sede, quale l’edificio sacro.

Si può dunque attestare l’antica devozione mariana che contraddistingue i fedeli di Supersano.

Si tratta di uno stile di vita, questo delle Confraternite, che è manifestato ed espresso dalle insegne e dagli abiti di cui si rivestono i soci. Il camice, che ricorda il saio dei frati è inteso come veste battesimale che richiama il pellegrinaggio della vita cristiana sulle orme di Cristo. Il cingolo è un cordone che richiama le funi con cui fu legato Cristo, anticamente infatti aveva dei flagelli legati alle estremità e veniva usato pubblicamente in segno di penitenza. La mozzetta o mantellina ricorda al confratello che si è rivestito di Cristo e sottomesso a lui.

L’obiettivo è quello di completare questo lavoro di ricerca già iniziato da tempo, in una forma ampliata che possa raccontare nello specifico i tratti salienti di questa pia associazione, affinché tutti possano beneficiare di questo grande patrimonio culturale.

Foto 3: Supersano, Ex Chiesa confraternale, Altare maggiore, Immacolata Concezione della B. V. Maria con S. Antonio e S. Francesco (bassorilievo in cartapesta policroma, XVIII - XIX secolo).
Foto 3: Supersano, Ex Chiesa confraternale, Altare maggiore, Immacolata Concezione della B. V. Maria con S. Antonio e S. Francesco (bassorilievo in cartapesta policroma, XVIII – XIX secolo).

 

[1] At 2, 42-47.

[2] Rm 12, 4-5.

[3] Cfr. Pius IX, Ineffabilis Deus: definizione dell’immacolato concepimento della B. V. Maria, Osservatore Romano, Città del Vaticano, 2004.

[4] Cfr. Giuseppina Gasparini De Sandre, Confraternite e campagna, in Marina Gazzini (a cura di), Studi Confraternali: orientamenti, problemi, testimonianze, Firenze Unifersity Press, Firenze, 2009.

[5] Archivio Diocesano di Ugento (ADU), Visite, 1, Visitatio pastoralis habita pro universa diocesi Uxentina a R.mo D.no D. Thoma necnon Vicario Generali Ecclesiae Cathedralis Uxentinae. A. D. MDCCXI.

[6] Cfr. Salvatore Palese, Le confraternite laicali della diocesi di Ugento nell’epoca moderna, in «Archivio Storico Pugliese» (XXVIII), 1975, p. 154.

[7] I Rescritti regi sono quelli del 21 luglio 1753, del 3 ottobre 1761, del 3 agosto 1762. Cfr. Vito Giliberti, Polizia Ecclesiastica del Regno delle Due Sicilie, Napoli, 1845, p. 135.

[8] Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Cappellano Maggiore, fascicolo 22, busta 1199.

Ancora sulla carta aragonese di Otranto e dintorni

di Vanni Greco

 

Mi associo ai commenti soddisfatti per l’ampia partecipazione alla comune riflessione sulle carte, che ci confermano come la chiave per il coinvolgimento delle persone stia sempre in una felice combinazione di stimoli colti e popolari insieme che, quando opportunamente curati, si affrancano dai rispettivi rischi, assai frequenti, di esclusività elitaria e di becera faciloneria.

Un buon lavoro coordinato da Armando Polito che il Prof. La Greca, che ringraziamo ancora, ha voluto cortesemente onorare riservandoci la sua attenzione.

Provo qui ad offrire un nuovo contributo al dibattito sulla datazione dopo aver cercato qualche approfondimento direttamente sia attraverso il coinvolgimento della dott.ssa Antonella Candido che ringrazio per la considerazione che ha mostrato per il nostro lavoro e, soprattutto, per il contributo professionale che ci ha dato, oltre che per avermi autorizzato a render noto il suo punto di vista.

Rispetto alla chiesa di S. Eligio non ho, purtroppo, novità significative. Una delle prime narrazioni organiche dei fatti di Otranto è forse la Historia del Laggetto[1], canonico e giureconsulto otrantino, venuto a conoscenza dei fatti di cui narra attraverso il racconto del padre testimone oculare, il quale riporta che il duca Alfonso:

« la prima cosa che fece dopo venuto andò a visitare quei beati corpi uccisi, che stavano di tanto tempo sopra la terra nel Monte della Minerva, …costrinse tutti quei Signori che erano ivi presenti a lacrimare; ordinò che fussero discesi dal Monte, e fussero portati dentro una chiesa, quale era appresso il Pozzo della Minerva al piano; Così fu fatto dove stiedero poi fino alla recuperazione della Città.»

Poiché Daniele Palma[2] colloca la datazione dell’opera del Laggetto tra 1544 e 1571, si sarebbe tentati di affermare che ancora fino a questi anni la chiesa di S. Eligio non esistesse.

Una testimonianza di due secoli successiva (1751) è quella di Francesco D’Ambrosio, sacerdote di Castiglione, frazione di Andrano, che nel suo Saggio[3] riporta:

«Nel 1481, ritornato la seconda volta Alfonso all’assedio della Città di Otranto, …ordinò, che con tutta l’attenzione, e riverenza fussero trasferiti, e collocati in una Chiesa detta del Fonte della Minerva sita alle radici dello stesso monte, come si disse nel cap. 9 del 2. Lib. Oggi la detta Chiesa va sotto il titolo di S. Eligio, ed è titolo di Canonicato.

La seconda Traslazione successe, dopo che i turchi resero ad Alfonso la Città: e questa per esser stata una solennissima funzione, …con ordine di Sisto IV radunati i Vescovi suffraganei, ed i Sacerdoti della Diocesi, e delle vicine Città coll’intervento dell’Arcivescovo di Brindisi, il quale celebrò tal solenne funzione, furono trasferiti dalla Chiesa di S. Eligio nella Metropolitana, cioè nell’Oratorio di basso; essendo stato prima riconciliato, e benedetto, perché profanato da’ Turchi.

Non saprei dire se il D’Ambrosio sia stato il primo a fare il nome della Chiesa di S. Eligio, certo è che nulla chiarisce sul possibile anno di titolazione. In attesa che emergano altre fonti, potremmo affidare le nostre speranze ai documenti dell’Archivio storico diocesano di Otranto e a qualche generoso collaboratore o studioso dello stesso.

Una seconda pista, per così dire di natura più creativa, verso la datazione della carta mi ha portato a considerare che la densità urbanistica delle diverse località riportate non fosse generica, ma piuttosto rispondente alla realtà dell’epoca di rilevazione. In questo senso, ho trovato conferma che le mappe siano disegnate con grande cura per i dettagli in un articolo di Antonio Capano[4] che si occupa del territorio potentino rappresentato nelle carte aragonesi: «…più case intorno ad un campanile sormontato da croce, o intorno ad una chiesetta a pianta rettangolare, con tetto a doppio spiovente e campanile; sono visibili la facciata ed uno dei lati, con un accenno di porte e finestre. Considerando il numero degli elementi disegnati, in particolare le case, è abbastanza evidente che il cartografo intendeva in tal modo dare un’indicazione, sia pure sommaria, sul numero degli abitanti di ciascun insediamento, forse in base ad un elenco di “fuochi” o di famiglie di cui disponeva; come è noto, fu Alfonso I d’Aragona ad attuare per primo i censimenti della popolazione del Regno di Napoli con il sistema della numerazione dei focolari, a partire dal 1443. Forse la mappa poteva essere usata anche come guida per gli addetti ai censimenti dei fuochi, i “numeratori delli fuochi”. I toponimi con i valori più bassi, da 1 a 4 elementi, solitamente indicano santuari, monasteri o località di interesse religioso e, invece del solo campanile, troviamo il disegno schematico di una chiesa. Le Città fortificate, …sono rappresentate a volo d’uccello da una cerchia di mura turrite, e/o con una rocca o castello che sovrasta il paese, con numerose case addensate all’interno. Sono anche le più importanti dal punto di vista militare».

Città fortificata era anche la nostra Otranto.

Essendomi imbattuto, nel corso delle mie ricerche, nella documentata tesi di laurea su “Le Mura e il Castello di Otranto” della dr.ssa otrantina Antonella Candido, non ho resistito alla tentazione di contattarla (grazie alla cortese e preziosa mediazione di Marcello Gaballo e Marcello Semeraro) per avere un suo punto di vista specialistico sulla descrizione di Otranto riportata dalla mappa, nella quale si riconosceva la cittadella protetta da mura, torri e torrioni. Anticipo che la mia ipotesi non è risultata poi così peregrina. Con il mio ringraziamento, ecco la sintesi delle sue risposte alle mie domande, idee e obiezioni:

«Supponendo che la mappa sia stata disegnata con fedeltà alla realtà, tenderei ad escludere con certezza una datazione a metà ‘500 e ancor meno successiva. Mancano, infatti, del tutto i tre bastioni poligonali che a partire dal 1540 vennero man mano aggiunti all’impianto iniziale della fortificazione.

Escluderei anche il periodo precedente all’attacco turco, in quanto è già presente abbastanza chiaramente la successiva struttura aragonese dell’impianto murario, con rondelle circolari e merlate in cima e addirittura la doppia rondella della Porta Alfonsina (quella visibile al centro delle mura della parte ovest). Inoltre, gli studi fatti finora, nonché le poche fonti scritte, tendono ad escludere un impianto murario aragonese prima del 1481.

Secondo il mio parere questa mappa dovrebbe essere del periodo immediatamente successivo alla primissima ricostruzione del castello e delle mura da parte di Alfonso d’Aragona. Quindi, in un lasso di tempo che andrebbe dal 1482 al 1540 massimo quando fu effettuata anche la nuova fodera delle mura da parte di Carlo V, che qui non sembra esserci. Si può notare infatti la struttura abbastanza squadrata del castello, con le quattro rondelle ad ogni lato, tipica del primo impianto, ma soprattutto la presenza di un paio di torri non tondeggianti ma squadrate, che è possibile appartenessero all’impianto precedente (o vestigia addirittura più antiche inglobate nella struttura di epoca federiciana) e che furono forse inizialmente incorporate nel nuovo progetto aragonese. Come conferma, invito a notare la forma delle rondelle sulla mappa, che sono raffigurate non in maniera verticale e quindi perfettamente dritta (com’erano invece costruite in epoca federiciana), ma risultano rastremate verso l’alto, secondo la tipologia aragonese di costruzione, che prevedeva un toro marcapiano a metà della torre che segnava anche un cambio di inclinazione delle pareti esterne.

Un’ulteriore prova che la mappa possa essere riferita al periodo dopo la riconquista aragonese e non prima può sicuramente essere la stessa grandezza della città e delle mura urbiche: la città risulta molto piccola e pressoché ridotta all’interno della “cittadella”. Prima della conquista turca infatti la città contava quasi 5.000 abitanti (all’incirca la popolazione attuale) ed era estesa in un’area molto più ampia di quella della mappa. Tant’è che si parla per il periodo precedente addirittura di tre circuiti murari, uno che racchiudeva la cittadella appunto (quella visibile sulla mappa), uno che racchiudeva la cosiddetta “città bassa” e infine un circuito esterno formato esclusivamente da torri di vedetta. Anche il Galateo descrive la cinta muraria otrantina, al momento dell’attacco turco, come molto imponente, dotata di profondissimi fossati e di mura. Subito dopo la presa turca la città e la popolazione decimata non resero più necessario il circuito murario esterno, riducendo così la sua area al solo “centro storico” attuale.

In definitiva, rispetto alla datazione propenderei per l’ultimo decennio del XV secolo, soprattutto se il possibile autore, il Pontano, era molto attivo proprio in quegli anni e al seguito di Alfonso d’Aragona sul quale, durante le mie ricerche, sono giunta alla conclusione (forse solo una suggestione) che fosse molto fiero del lavoro di fortificazione svolto ad Otranto quando ancora non era sovrano e che quindi avesse deciso di inserire nelle mappe del tempo la nuova fortificazione di cui aveva dotato la città.»

Si trova conferma, quindi, a quanto autorevolmente sostenuto dal Prof. La Greca che richiama un’elaborazione della mappa in fasi successive a partire dalla fine del Quattrocento fino alla metà del Cinquecento e che però, grazie al presente contributo della dr.ssa Candido, forse possiamo limitare al 1540.

Tuttavia, a mio giudizio, rimarrebbe da chiarire anche il riferimento al Pontano, che già in un mio precedente intervento ho provato a collocare temporalmente, che penso meriterebbe una precisazione ulteriore rispetto all’attribuzione che viene fatta a lui di tali mappe, in qualità di autore o, più verosimilmente, di coordinatore del progetto complessivo.

In conclusione, ci stiamo avvicinando alla meta, ma c’è ancora del lavoro da fare. E noi, non rinunceremo a cercare ancora.

 

[1] Giovanni Michele Laggetto, Historia della città di Otranto. Come fu presa da’ Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini. Scoperto nell’archivio della chiesa metropolitana il 3 aprile 1660, fu pubblicato, per la prima volta, a Maglie nel 1924 nella trascrizione dei can. Luigi Muscari e ripubblicato, a cura di Antonio Antonaci, nel volume Otranto. Testi e documenti, Galatina, 1955.

[2] Daniele Palma, L’autentica storia di Otranto nella guerra contro i Turchi, Kurumuny, 2013.

[3] Francesco D’Ambrosio, Saggio istorico della presa di Otranto e stragge de’ Santi Martiri di quella Città successa nel 1480, Napoli 1751, Libro Terzo, Delle varie traslazioni dei Santi Martiri, Cap. 1, pagg. 117-119.

[4] Antonio Capano, La provincia di Potenza nelle carte aragonesi della seconda metà del XV secolo, in Basilicata Regione Notizie, N. 131-132, 2013, pag. 156-178.

A proposito di TAP e no TAP

ph Emilio Nicolì
ph Emilio Nicolì

 

di Marco Basile

A scanso di equivoci (dato che qualcuno – come direbbe Montalbano – mi sta massacrando i cabasisi in pvt) NON sono a prescindere contro TAP e NON sono preoccupato dello spostamento temporaneo di qualche centinaio di ulivi.

Tuttavia:
1) non mi sembra giusto che TAP arrivi in un luogo di particolare bellezza paesaggistica quando potrebbe arrivare sulla terraferma in luoghi compromessi dal punto di vista ambientale e contribuire al risanamento (qualche milione di euro in più di costi su un budget decennale di miliardi sono poca cosa). Siamo una regione che ha ilva, enel cerano e papabile per il deposito unico nazionale delle scorie nucleari…. nonostante questo stiamo coltivando uno sviluppo turistico, fra le.prime regioni per start up innovative e per produziobe di energie da rinnovabili. anni e anni di disinteresse della politica nonostante le richieste del territorio e i bambini di tarantoche si ammalano di tumore con percentuali bulgare rispetto alla media nazionale.

Il prezzo che abbiam pagato per localizzazione “di industrie strategiche per l’interesse nazionale” ci fornisce titolo per non essere accusati di miopia localistica.

2) sono preoccupato che il consorzio nasca su delle basi in cui sono altamente probabili speculazioni, infiltrazioni mafiose e tangenti

3) sono stupito che a capo di TAP italia ci sia una persona condannata (in primo grado) per la strage di Viareggio (lacune sulla sicurezza)

4) sono offeso che TAP pensi di “comprare” il salento con due corsi di inglese e di patente europea del computer e qualche migliaio di euro ad associazioni (nel 2017)…. e nulla su investimenti compensativi per il territorio (scuole, strade, infrastrutture, ecc) come accade in tutti i paesi civilizzati.

5) sono sorpreso che un’opera privata (seppur di interesse pubblico) con centinaia di milioni di euro di margine annuali preveda che un tratto di gasdotto debba essere realizzata da snam e i costi verranno riversati sulla bolletta del gas degli italiani.

Detto questo è invece utile rilevare come queste proteste nascano dal deficit di rappresentatività politica e dall’incapacità dei nostri politici di essere alfieri e numi tutelari dell’interesse del Paese e delle comunità….

Stanno pagando dazio di anni di corruzioni e di mancanza di dialogo con la base.

In Francia esiste una normativa che impone le opere di interesse nazionale alle comunità locali e nessuno protesta perchè sanno che a Parigi fanno gli interessi della nazione…. in Italia quanti sono persuasi che a Roma si faccia lo stesso?

La politica deve recuperare credibilità eliminando gli sprechi e realizzando infrastrutture che migliorino la qualità della vita dei cittadini e solo dopo potranno apparire credibili.

Altro che 80 euro quando si potevano dirottare quelle risorse su infrastrutture necessarie (edilizia scolastica in primis)…. come si fa a credere alle promesse di questi marinai del mare del tornaconto elettorale?

E chi vi parla di duecento ulivi e di sindrome NIMBY fatemi la cortesia di mandarlo affanculo.

Come per la xylella…. stanno per arrivare miliardi di euro di indennizzi (soldi soldi) a fronte di una latitanza della politica e di una gestione approssimativa e pressapochista della politica.

E io non dovrei essere moralmente al fianco dei fratelli radunati a Melendugno e fidarmi di questi politici?

Non penso. E se fossi giù sarei a San Foca!

Vitale Boccadamo da Marittima, medaglia d’argento al valor militare

Onore al merito di un grande eroe marittimese

Vitale Boccadamo, M.A.V.M.

di Rocco Boccadamo

Devo ammettere che pure a uno come me che conosce a fondo, almeno così ritiene, la propria plaga natia, nel senso specifico delle fondamenta, degli scenari tipici e strutturali, dei limiti, confini e dettagli delle proprie origini, può, talvolta, accadere di non avvedersi, anche per lungo tempo, di un determinato particolare, vie più se il medesimo coincide con un aggiornamento risalente a epoca, diciamo così, non antica.

La suddetta confessione/considerazione non viene a sgorgare e cadere casualmente e/o per mero sfogo concettuale. Giacché il mio proposito, in veste di narratore, di stendere le presenti righe trae spunto, esattamente, da un minuscolo particolare colto qualche mese fa, un segnale d’indicazione toponomastica, fra i tanti che si affacciano all’imbocco delle strade e viuzze della località di Marittima in cui sono nato, ho vissuto stabilmente sino a diciannove stagioni e abito tuttora per sei mesi l’anno.

Alla periferia a sud est del paese, un’arteria invero contrassegnata da scarsissimo traffico, in proseguimento della preesistente Via S. Bernardo e, quindi, sfiorando la zona agricola comunemente conosciuta come “Pustizze”, nella parte inferiore sino a congiungersi con Via Maria SS. Di Costantinopoli, quasi al suo incrocio con la certamente più nota e ancor più storica e trafficata Via Acquaviva (ora, peraltro, ufficialmente e precisamente denominata Via Agostino Nuzzo), reca l’intitolazione “Boccadamo Vitale – M.A.V.M.”.

boccadamo

Nel notare il relativo cartello segnaletico, di primo acchito, nonostante che la popolazione marittimese si collochi sotto le duemila anime, non sono riuscito a identificare il personaggio.

Né maggior lume, a tal fine, ho potuto trarre consultando la deliberazione della Giunta comunale, che risale al 2011, relativa alla dedicazione della via e contenente una serie di dettagli sulla figura, compresa la motivazione all’origine e presupposto della scelta.

Poi, però, memore degli intensi legami di conoscenza, consuetudine e vicinanza che, sin dall’infanzia, mi sono sentito vocato, con naturalezza e piacere, a intrecciare e tenere con la generalità dei nuclei famigliari del paese, a un certo punto, non ho potuto fare a meno di andare a fondo e cercare di determinare, con precisione e chiarezza, di chi si trattasse. In altri termini, chi fosse, a quale focolare dovesse riferirsi, quel piccolo, anzi grande, eroe marittimese (una medaglia d’argento al valor militare non è un’onorificenza qualunque, non è per tutti, né, tanto meno, si può registrare in ogni paese), di cui mai avevo sentito parlare in precedenza e che, quindi, doveva essere rimasto, purtroppo, a lungo negletto nella memoria, nel ricordo e nell’ammirazione dei compaesani e delle stesse autorità locali.

Pongo quest’ultimo accento, atteso che, avanti di compiere le mie personali ricerche approfondite con finalità identificative, sono venuto a sapere che l’iniziativa dell’intitolazione di quella strada a Vitale Boccadamo, non era stata coltivata, sviluppata e conclusa localmente, avendo, bensì, preso abbrivo a seguito della segnalazione, da parte di un parlamentare della zona agli amministratori comunali, circa l’esistenza di un nativo di Diso/Marittima, Vitale Boccadamo, decorato di M.A.V.M., e ciò per essere caduto eroicamente durante la prima guerra mondiale.

Tale informativa, a quanto riferitomi, lì per lì, richiese che anche il Sindaco pro tempore e i suoi collaboratori ponessero mente locale e operassero diversi riscontri per dare un volto e un’appartenenza precisa all’illustre personaggio.

marittima

Dire che, in una delle mie prime narrazioni intorno al paesello di Marittima, pressappoco quindici anni addietro, fra l’altro così annotavo:

Regnava una totale e assoluta familiarità, si conosceva tutto di tutti, i vecchi avevano presenti i nomi finanche dei neonati e, analogamente, anche i bambini conoscevano quelli degli anziani.

Indimenticabili i semplici giochi delle serate estive nelle viuzze dei vari rioni, sotto una casuale lampadina dell’illuminazione pubblica, se e quando esistente, altrimenti al buio rischiarato solo dal luccichio delle stelle e dalla luna: si partecipava in numerosi, serenamente e gioiosamente, a prescindere dall’età.

Quotidianamente, anche col tempo inclemente, i giovani, gli adulti e gli anziani, di sera, erano soliti “uscire in piazza”, con lo scopo prevalente, se non esclusivo, di incontrarsi, far crocicchi, parlarsi e, così, tener sempre aggiornate le reciproche conoscenze.

Magari, ci stava anche qualche passata dalla bottega di mescita del vino, ma, ripeto, essenzialmente si discorreva, del più e del meno, come nell’agorà delle civiltà antiche.

Le ricorrenze delle feste, almeno delle principali, rinfocolavano vieppiù gli stimoli ai contatti, alla socializzazione, alle passeggiate, in coppie o in gruppi. In quelle circostanze, si registrava anche il fenomeno dei numerosi compaesani – residenti altrove – che mai mancavano all’appuntamento di un rientro, seppure breve; si materializzavano, in tal modo, più ampi e festosi spunti per incontrarsi.

Quando qualcuno versava in cattive condizioni di salute, non passava giorno senza che i compaesani, a frotte, di solito al rientro dalle fatiche nei campi, passassero a rendergli visita, per informarsi sul decorso della malattia, per condividerne le sofferenze mediante due parole o un sorriso.

Nei ragazzi e negli adolescenti era radicata l’abitudine, la domenica, di assistere alla “prima” messa al Convento; si saltava giù dal letto verso le cinque e mezzo, in certe stagioni ancora notte, si compiva il tragitto a piedi sotto l’incanto di cieli tersi e stellati. La funzione, per le otto, era già terminata e, così, si aveva a disposizione l’intera mattinata, per giochi e divertimenti nel boschetto sulla via dell’Arenosa.

D’estate, i giovani, se non c’era altro da fare, si attardavano in piazza o nelle strade principali del paese per tutta la notte, sino alle prime ore del mattino, discorrendo e scherzando, ma senza schiamazzi per non arrecare disturbo agli altri, in un clima di autentica amicizia e di schietto cameratismo.

Succedeva, non di rado, che la loro permanenza così prolungata s’incrociasse con le prime sortite da casa degli adulti, i quali, ancora buio, si avviavano verso i campi. Ed era molto bello scambiarsi, insieme, quel buongiorno avente un sapore assolutamente speciale.

Saltuariamente, di solito nella tarda serata del sabato, si spostavano in gruppi verso le marine per pescare i granchi, qualche scorfano o, magari, i polpi, sorprendendoli sugli scogli bassi e nelle buche a ridosso del bagnasciuga erboso sotto il fascio di luce di rudimentali lampade ad acetilene. In qualche punto, i gruppi s’incontravano e facevano il confronto dei rispettivi bottini che, intanto, strusciavano scivolando lungo le pareti interne delle caratteristiche anfore di rame o zinco (capase).

Gli usci delle case restavano in genere aperti, il rispetto della proprietà altrui era sacro, le notizie di qualche furterello costituivano un evento davvero eccezionale.

 

E poi, l’ultimo ma in certo qual modo pertinente, mio richiamo narrativo, contenuto nel racconto “Congedo dalla bella estate salentina: sui passi di Luca”, pubblicato in seno al volume “Luca e il bancario” – Edizioni Spagine Fondo Verri, dicembre 2016:

Luca, mio gemello di cognome perché primo cugino del mio nonno paterno Cosimo (al pari di Donato ‘u culiniuru, Costantino e Toto ‘u pulinu e di un certo Caianu), era un uomo dotato di grande giovialità, il classico amicone, anche se gravato, come, del resto, tutti, dal peso del lavoro sulla terra rossa e, in più, condizionato pure da un grave difetto o imperfezione nel camminare, non so se dipendente da un motivo congenito o dai postumi di qualche infortunio o caduta non curati adeguatamente.

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°   °   °

Dopo la parte introduttiva e di ambiente, adesso avverto dentro, prevalente, il bisogno che queste righe siano indirizzate e rivolte eminentemente a rendere onore e omaggio all’unico vero protagonista del “racconto”, all’eroe, a Vitale Boccadamo, nipote, figlio del figlio Salvatore, del Donato ‘u culiniuru, citato quale cugino carnale del mio nonno paterno Cosimo e, dunque, anche mio lontano parente.

Di famiglia contadina, analogamente e ovviamente come quella da cui provengo io stesso, Vitale nacque a Marittima il 9 luglio 1894 e lì visse da bambino, adolescente e giovane, sino a quando fu chiamato alle armi.

Mi torna facile vederlo in quelle lontane stagioni della sua esistenza, paesano fra paesani, presto avviato ad aiutare i genitori nei lavori in campagna, magari sospingendo al pascolo una pecora o una capretta.

Ho motivo di credere che gli fossero familiari determinate zone del comprensorio natio, in special modo la strada che conduceva e anche adesso porta verso l’insenatura Acquaviva, inframmezzata, a un tratto, dal cosiddetto canalone nella zona delle “Oscule” dove i progenitori di Vitale possedevano o conducevano qualche fazzoletto di terra.

Sullo sfondo la modesta ma caratteristica collina delle “Acquareddre” (piccole acque), verso la quale si affaccia l’imbocco della via da poco intitolata.

Non richiede speciale ardire configurare, quindi, che adesso, a distanza di oltre un secolo dai tempi dei suoi percorsi terreni sul frammento di territori in questione, Vitale continua idealmente a percepire gli stessi odori, la luce, i richiami, il frastuono, quando lieve e quando forte, delle onde del mare vicino, confidando i suoi pensieri, le sue attese, speranze e prospettive alla natura, al cielo azzurro, alla vegetazione e agli arbusti che, in buona parte, non hanno fortunatamente subito modifiche, con l’accompagnamento di cinguettii amici. Non senza rimirare, estasiato, la maestosità dei due carrubi giganti del contermine fondo agricolo “Mastefine”.

°   °   °

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Questi i connotati e le indicazioni personali di Vitale impressi sull’Estratto del suo Foglio matricolare concernente il servizio militare:

–         statura: m. 1,55;

–         torace: m. 0,81;

–         capelli: colore castani, forma lisci;

–         occhi: castani;

–         colorito: bruno;

–         dentatura: sana;

–         arte o professione: contadino;

–         sa leggere e scrivere: no.

Tratti somatici e altre caratteristiche e requisiti del tutto comuni, ove si rapportino all’epoca cui risalgono.

Vitale Boccadamo lasciò Marittima, chiamato alle armi, nel luglio 1916, con inquadramento nell’83° Reggimento Fanteria dell’Esercito e giunse, nel successivo ottobre, in territori dichiarati in istato di guerra. Dopo aver partecipato alla nona e alla decima Battaglia dell’Isonzo, rientrò al Corpo d’appartenenza nel dicembre 1917.

A distanza di pochi mesi (febbraio 1918), arrivò nuovamente in territori dichiarati in istato di guerra, con inquadramento nel 47° Reggimento Fanteria. Nel successivo giugno, prese parte attivamente alla Battaglia del Piave (o del solstizio) e nel corso dei correlati combattimenti, il 15 giugno 1918, morì a seguito di ferita da pallottola nemica, in località Zenson di Piave.

Il biennio dedicato al servizio della Patria ebbe a rivelarsi, per il giovane marittimese, un’eccellente scuola formativa, di crescita morale e umana, verosimilmente a completamento e rafforzamento dei sani e solidi principi di vita semplici e seri maturati e accumulati durante i precedenti periodi trascorsi in famiglia, tra i compaesani e gli impegni di lavoro nei campi.

Se è vero che, la “statura” d’insieme di Vitale ricevette una graduale ma decisa sublimazione e crescita, specialmente sotto le insegne, ritenute insostituibili, della dedizione alla Patria, dell’altruismo e dell’esempio positivo e attivo all’indirizzo dei compagni, o, per meglio dire, nel caso di un soldato, dei commilitoni.

Al culmine ed epilogo della sua azione, egli ebbe, difatti, a dimostrarsi una vera e propria pietra miliare per impegno, iniziativa e coraggio, e solo ciò spiega il tenore, parola per parola, della motivazione con cui, in seguito al suo estremo sacrificio in battaglia, fu ritenuto meritevole di un’altissima onorificenza, sotto forma di Medaglia d’argento al valor militare:

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Distintosi già in parecchie azioni di pattuglia, sempre pronto ad offrire la sua opera nelle più pericolose operazioni, fu di valido aiuto al suo comandante di compagnia, infervorando i compagni, e dando loro costante mirabile esempio d’ardimento e di alte virtù militari. Slanciatosi poi fra i primi all’assalto, irrompeva con impeto tra le file nemiche e, ferito a morte, incitava fino all’ultimo istante i compagni alla lotta.

Zenson di Piave, 15 giugno 1918

°   °   °

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A tuo ulteriore e speciale merito, caro Vitale, al narratore tuo compaesano, omonimo di cognome e lontano parente, viene di rimarcare che la medaglia assegnatati dall’allora governante Re d’Italia acquista notevole maggior valore in virtù delle tue doti di uomo semplice e di umile meridionale. L’autentica grandezza non si misura per mezzo di stereotipi o regole generiche, ma è tanto più evidente e indicativa quanto più promana dall’animo, dall’essenza genuina e dal disinteresse rispetto a obiettivi utilitaristici o di vuoto egoismo.

Dal tuo arrivo al mondo nella Piazza Re Umberto I della comune Marittima, sono passati oltre 120 anni e il prossimo calendario segnerà esattamente un secolo dal tuo sacrificio sul fronte del Piave.

Si tratta, indubbiamente, di notevoli spezzoni temporali (mi permetto di segnare, sul tema, che mia madre, classe 1917, ha compiuto, idealmente da lassù, un secolo proprio qualche giorno fa e che nel 2018, insieme con un importante anniversario dalla tua dipartita in battaglia, a Marittima, a Dio piacendo, ben quattro nostre compaesane – Valeria, Ntina. Bice e Maria – celebreranno il loro secolo di vita), tuttavia, alla presenza di figure del tuo spessore, a mio parere, non possono esserci né quantificazioni di calendari, né somme di stagioni, né indici numerati di età.

Cosicché, anche l’ascesa in alto, viene a mantenere una continuità esistenziale, nel caso tuo con il legame proprio del gruppo di concittadine, che fra un anno, con lo stesso “18”, segnale indicativo del tuo percorso finale, registreranno un egualmente indicativo traguardo di vita.

La via, nei paraggi delle Oscule, delle Acquareddre, del Canalone e dell’Acquaviva, al cui imbocco ora si staglia nitidamente il tuo nome, ti rende maggiormente presente nell’ambito della minuscola realtà paesana e, da ultimo, anch’io, attraverso queste note che ho fortemente e sinceramente voluto rivolgerti, mi auguro di concorrere a renderti più vicino e idealmente ancora e sempre vivo in mezzo a noi.

Terminando, mi piace inserire in calce, alla stregua di parte integrante della mia rievocazione, taluni atti, documenti e immagini che sono un tutt’uno con la tua persona e la tua vita, sino all’eroico compimento.

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Femmine ti pittaci (Donne di quartiere)

di Armando Polito

immagine tratta ed adattata da Salento come eravamo (https://www.facebook.com/Salentocomeeravamo/photos/a.305648509568488.1073741828.305645896235416/1005261899607142/?type=3&theater)
immagine tratta ed adattata da Salento come eravamo (https://www.facebook.com/Salentocomeeravamo/photos/a.305648509568488.1073741828.305645896235416/1005261899607142/?type=3&theater)

 

 

 

A beneficio dei non salentini riporto la traduzione delle battute e ne approfitto per corredarle di qualche nota. Su pittaci, civettuolmente tradotto in italiano nei testi di storia locale con pittagio, segnalo altresì https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/20/lu-pittaci-il-quartiere-di-un-tempo-in-una-poesia-di-altri-tempi/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/08/zzippu-ti-pitaccia-e-lei-linventore-della-zip.

La sapiti l’ùrtima? Stanotte si ‘nd’è ffuciuta la figghia ti ‘Ntunietta ( – La sapete l’ultima? Questa notte se n’è fuggita1 la figlia di Antonietta).

– Ci sape quant’abbia ca ‘nci pinsaanu … – (Chissà da quanto tempo ci stavano pensando …).

– Ci ‘Ntunietta si l’era tinuta sotta alli stiani2 … – (Se Antonietta se la fosse tenuta attaccata alla gonnella …).

– … ggh’è ccertu ca no era successu nienti! ( … è certo che non sarebbe successo niente!).

Saperà mo a ddo’ si troanu … (- Chissà ora dove si trovano … -).

_________

1 Si tratta di quello che un tempo era un classico: la fuga d’amore, extrema ratio per vincere le resistenze dei genitori ad un rapporto non condiviso per motivi i più disparati (età, stato sociale, aspetto fisico, per citare i principali)  e, in più di un caso, per soddisfare la propria esuberanza ormonale … Oggi quest’esuberanza ormonale, a furia di una soddisfazione ormai consolidata da decenni, sembra geneticamente in declino, visto che, in generale, si parla di un drastico calo del desiderio. E così quando vedo una giovane coppia in cui lei sembra molto più sveglia di lui (non mi riferisco al calcolo della percentuale …), mi viene in mente l’adattamento a modo mio del vecchio Lu Patreternu tae li friseddhe a ccinca no lli rrosica (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/07/la-puglia-da-tiranna-poco-illuminata-a-reale-stupida-e-povera-serva/).

2 Stiànu è per aferesi da fustianu (che compare in uno strumento notarile di Copertino del 1628), che corrisponde all’italiano fustagno.

 

 

 

Un commento alla “Sartoria delle zie” di Chiara Briganti

sarta

di Vanni Greco

Hanno un grande fascino, Chiara, le tue parole.

Lo faccio con molto rispetto, ma mi è venuto di darti del tu in modo naturale. Forse perché ci hai accompagnato amabilmente nella sartoria dei tuoi ricordi con la grazia e leggerezza della persona cara, di famiglia, che racconta prendendosi cura di chi ascolta, di chi legge, mettendolo a suo agio. Senza alcuna vanità, ma con una sincerità che, prima di lasciarsi irreggimentare dalla ragione, attinge alla fonte vitale dell’anima. Virtù rara.

Il tuo breve racconto, dalle immagini limpide e vivaci che catturano e coinvolgono, ha richiamato alla mia memoria una confidenza, dall’identica ambientazione, che nella mia prima adolescenza venne non da una bambina attratta da quel mondo femminile, colorato ed elettrizzato dall’abito nuovo che prendeva forma, nel quale le fantasie della ragazza cominciavano a far capolino. Fu invece la confidenza di un maschietto mio coetaneo che, anche lui nella casa-sartoria delle zie, non appena giungeva l’eco di voci femminili in movimento, dal giardino sul retro guadagnava in segreto l’accesso alla camera da letto matrimoniale destinata alla prova delle vesti davanti allo specchio grande dell’armadio e, nascosto sotto il lettone, trattenendo quasi il respiro, dall’oscurità di quella ricercata prigione lanciava i suoi occhi su viste chiare e luminose, d’un bianco spesso maestoso sul quale talvolta inattese chiome nere contrastavano tanto ribalde da arrestare il cuore. Occhi che si lanciavano alla conquista di sinuosi e morbidi panorami di valli, colline, montagne ora separate da gole strette ed anguste, ora adagiate su ampi ed aperti scenari. Che magnifici spettacoli! Che viaggi emozionanti!

Non ricordo che il mio amico m’abbia mai parlato di «’nfilare l’imbastire» comandato dalle zie, ma solo di rari, complici rimbrotti per quell’inguaribile passione del nipote per il gioco del nascondino. Che peccato non avere più zie così preziose per la nostra …educazione sentimentale. Colpa della diaspora delle famiglie ormai troppo tese a rincorrere, isolate, lontane lusinghe che illudono la felicità dell’una di poter fare a meno della felicità dell’altra famiglia.

Anch’io cominciavo in quegli anni a guardare con grande interesse alla forma racconto che, non certo nella sua proposizione scolastica poco stimolante, mi arrivava più diretta per via di quelle voci suadenti che, preferibilmente a casa dei nonni, cullandomi, mi affascinavano nelle fredde sere d’inverno davanti al camino acceso o nelle afose sere d’estate fuori dall’uscio, ssittati annanzi casa, anelando un soffio di tramontana.

Da più grandicello, mi sono anche interrogato sui racconti del mio amico chiedendomi se non fossero il frutto della fervida fantasia di un adolescente, cui le prime esuberanze ormonali fornivano la spinta narrativa decisiva. Un dubbio però che, a conti fatti, non ha mai minimamente intaccato la seduzione di quelle narrazioni, in cui la verità assumeva un ruolo del tutto marginale. Sarà perché, come acutamente ci fai notare, Chiara, «avevo bisogno di veder assecondato il mio orizzonte d’attesa». Splendida illuminazione di cui ti sono profondamente grato.

Fai molto bene a riconoscere nell’atto generoso di parlare per qualcuno le forme dell’amore. Sommessamente mi pemetto di aggiungere che un atto d’amore di pari grandezza può essere lo smettere di parlare, che non richiede di smettere d’amare, e che diventa saper ascoltare, proprio come fai tu che dimostri di frequentarlo con altrettanta intimità. Ascoltare che, lungi dal confinarci in uno stato inoperoso, esalta la più nobile capacità di sentire, di mobilitare tutti i nostri sensi, di celebrare un sentimento che al suo apice si trasforma in assoluto atto devoto di adorazione che, nell’«ascoltare sempre», tratteggia il sublime traguardo dell’amare per sempre. Per sempre.

Grazie ancora per averci parlato.

 

La sartoria delle zie

Nardò, via Belisario Acquaviva

di Armando Polito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spesso mi chiedo se abbia un senso intitolare una via, e il discorso vale per qualsiasi nucleo abitato, dalla frazione alla metropoli,  ad un personaggio che in qualche modo abbia avuto un rapporto con essa, quando la grafia stessa del nome suscita non poche perplessità: emblematico, per restare in casa, per Lecce il caso di via a. da taranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/06/archita-da-taranto/) e, per restare ancora più in casa …, per Nardò quello di via Scapigliari (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/). E se per a. da taranto  c’è forse l’alibi dei troppi secoli trascorsi e per Scapigliari un’idiota esigenza di nobilitazione, per personaggi più recenti come, faccio un solo esempio, Foscolo, avanza l’alibi dell’ignoranza (da non escludere a priori, anzi da sommare a quello del tempo trascorso nei casi appena ricordati …), che assume aspetti macroscopici quando il personaggio in questione ha una duplice fama, nazionale, per così dire, e locale.

In fondo, forse, è meglio così: la lettura sulla targhetta viaria di via Ugo Foscolo non evocherà, distraendolo,  al pedone o all’automobilista il carme Dei sepolcri, propiziando, nel caso in cui l’uno o l’altro passi con il rosso di propria competenza, quel funerale che di regola precede la tumulazione …

Continueremo, così, a dare con gli stessi inconvenienti procedurali un nome alle nuove vie anche con i nomi nuovi che la storia fatalmente ci proporrà, con la stessa logica, in fondo, delle giornate, la cui celebrazione (ormai con soli 365 giorni a disposizione, restano, credo, pochi giorni da dedicare, per cui saremo costretti nel giro di qualche anno ad attribuire due o tre dediche alla stessa giornata …) non è servita certo, almeno fino ad ora, a ridimensionare sensibilmente i problemi connessi con il tema volta per volta celebrato; con la stessa logica delle altre feste che avremmo il dovere di sopprimere  in un empito di responsabile coerenza.

E quanto vale, ritornando al Foscolo, per tante città d’Italia, perché lo stesso non dovrebbe valere per Nardò a proposito di Belisario Acquaviva con la via che reca il suo nome?

Ma io in questo momento sto in casa, comodamente seduto e, perciò, posso permettermi senza correre rischi la distrazione che sto per sottoporre alla vostra attenzione. Spero solo che non mi leggiate mentre guidate o attraversate …

Debbo notare che la lunghezza della via (credo sia la più lunga di Nardò) è congrua al personaggio che, per cominciare con i titoli, fu duca di Nardò dal 1516 al 1528. Di lui mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/25/ho-scritto-un-libro-ma-non-trovo-il-prefatore/ e quanto sto per dire può essere considerato integrazione di quel post.

Non capita a tutti di essere celebrati quando si è ancora in vita e questo anche ai tempi del nostro Belisario era riservato a personaggi veramente eccezionali, tanto più quando l’autore della celebrazione era, a sua volta, famoso.  E la stessa celebrazione, quand’era in versi1, assumeva, com’è facile intuire, un rilievo tutto particolare. All’esame delle più significative è dedicato questo post.

Camillo Querna, De bello Neapolitano, Sultzbach, Napoli, 1529: Non Aquivivus abest Belisarius, optima pandens/virtutis monimenta suae. Fidissima magni/corda gerens Caroli titulis, discedere numquam/Partenope voluit, tanta est constantia fortis/,et virtus animi, nullo sub tempore pallens (Non manca Belisario Acquaviva, che mostra ottime testimonianze del suo valore. Mostrando fedelissimo affetto alla corona di Carlo mai volle andar via da Napoli, tanto grandi sono la costanza e il coraggio del forte animo, che non impallidiscono in nessuna circostanza). 

Girolamo Carbone (1465-dopo il 1527) in due versi (18-19; li cito dall’edizione dei Carmina curata da P. de Montera, Ricciardi, Napoli, 1935= di un’elegia (carme XXX) indirizzata ad Agostino Nifo: Namque videre iuvat duplici sua tempora fronde,/et Phebi, et Martis, Dux Aquavive, premi (E infatti, duca d’Acquaviva, piace vedere che le sue tempie sono premute da una duplice fronda e di Febo e di Marte).

Giovanni Matteo Toscano, Peplus Italiae, Morelli, Parigi, 1578, p. 42: Quam non Marte minus Musae sint principe dignae,/gentis Aquivivae gloria bina docet./Frater uterque suis cumularunt sceptra tropheis,/

ornavit libris frater uterque suis./Nunc calamo est gravis, ense manus nunc rite colore/tingitur hic rubro, tingitur ille nigro./Classica nunc animos stimulans, nunc barbita mulcent:/quodque caput cassis, mox sua serta tegunt./Duplex ergo tuum gemini decus Adria fratres/nobilitantque sago, nobilitantque toga (Quanto le muse siano degne di Marte non meno che di un principe, lo insegna la duplice gloria della famiglia Acquaviva. Entrambi i fratelli con i loro trofei accrebbero il potere, entrambi i fratelli lo adornarono con i loro libri. Ora la mano è affaticata per la  penna,  ora per la spada e si tinge in questo caso di colore rosso, nell’altro di nero. Ora c’è la tromba che stimola gli animi, ora la cetra che li accarezza: quella testa che gli altri coprono con vari oggetti, subito la  ricoprono le loro corone. Dunque i due fratelli, o Atri, nobilitano il tuo duplice decoro con il sago, lo nobilitano con la toga).

Pietro Gravina (1452/1454-1528 circa) celebrò il valore militare e letterario di Belisario in un epigramma in distici elegiaci tramandatoci da Giammaria Mazzucchelli in Gli scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1753, volume I, parte I, p. 121: Qui populis dare iura suis non destitit umquam/qui Patriae toties profuit ore potens,/non minus aeratas ductando in proelia turmas, /fortiter austerum Martis obivit opus,/Palladis amplexus Numen veniente senecta,/ipse docet, quales convenit esse Duces (Colui che mai desistette dal dare diritti alle sue genti, che con la forza della sua voce giovò tante volte alla patria, non di meno guidando nei combattimenti le schiere armate con forza andò incontro alle severe fatiche di Marte, dopo avere abbracciato al sopraggiungere della vecchiaia la divinità di Pallade, proprio lui  insegna quali condottieri conviene essere).

Jacopo Sannazzaro (1457-1530), Epigrammi, II, XXXVIII:

De lauro ad Neritonorum ducem

Illa Deum laetis olim gestata triumphis,/claraque Phoebaeae laurus honore comae,/iampridem male culta, novos emittere ramos,/iampridem baccas edere desierat./Nunc lacrimis adiuta tuis revirescit; et omne/frondiferum spirans implet odore nemus./Sed nec eam lacrimae tantum iuvere perennes;/quantum mansuro carmine quod colitur./Hoc debent, Aquivive, Duces tibi debet et ipse Phoebus; nam per te laurea silva viret  

(Intorno all’alloro al duca di Nardò

Quell’alloro un tempo recato ai trionfi lieti degli dei e famoso per l’onore della chioma di Febo, già da prima mal coltivato aveva smesso di emettere nuovi rami, già da tempo di produrre bacche. Ora aiutato dalle tue lacrime rinverdisce e respirando riempie di  profumo ogni frondoso bosco. Ma ad esso non giovarono tanto le perenni lacrime quanto ciò che viene onorato da un canto destinato a rimanere. Questo ti devono, o Acquaviva, i condottieri  e lo stesso Febo; infatti grazie a te verdeggia la selva d’alloro).

Ecco cosa scrive Giovanni Bernardino Tafuri in Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, v. II, pp. 53-54: Il celebre Belisario Acquaviva, uno degli assidui, e dotti Accademici dell’Accademia del Pontano nel 1506, ne fondò una in Nardò sotto il titolo del Lauro, la quale, e per gl’insigni Personaggi, che la componevano, e per la condizione de’ versi, e degli eruditi Ragionamenti, co’ quali era coltivata, si rendè chiara, e rinomata in quella Stagione, onde Jacopo Sannazzaro ebbe co’ seguenti versi a lodare l’Acquaviva fondatore della medesima …  

Osservo che, seguendo pedissequamente il Tafuri, la storiografia successiva ha attribuito a Belisario la fondazione delle neretina Accademia del lauro. Appare, però, strano  che di un’accademia presumibilmente vissuta fino alla morte del suo fondatore, dunque per ben ventidue anni, non resti cenno alcuno nei contemporanei (a parte quello,  presunto, del Sannazzaro), mentre minore peso avrebbe senz’altro il fatto che nessuna testimonianza esista né manoscritta, né a stampa (per quest’ultima, però, con uno sponsor come Belisario quale ostacolo economico sarebbe stato invalicabile? …), di una produzione, anche in versi, che, secondo l’affermazione del Tafuri, sarebbe stata ragguardevole?

E la dedica del Sannazzaro, allora? A nessuno è venuto il dubbio che il lauro, che compare fin dal titolo, non contenga riferimento  alcuno ad un’accademia, ma sia proprio l’albero in radici, rami, tronco e foglie (se fosse stato un animale avrei detto in carne ed ossa …) da sempre simbolo della poesia? E che, dunque, il Sannazzaro celebri Belisario non come fondatore di un’accademia ma come ispiratore di poesia (scritta da altri) con le sue gesta militari e pure con i suoi trattati?

E con questo ennesimo dubbio suscitato dalla storiografia tafuriana quando essa, come troppe volte succede, non è suffragata da uno straccio di fonte o, come nel nostro caso, è supportata da una discutibilissima interpretazione dell’unica esistente (per non parlare di quelle truffaldinamente  inventate …), chiudo con via Belisario Acquaviva ma lascio aperto un sentiero, sia pur debolmente tracciato, per chi vorrà approfondire …

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1 Per quanto riguarda, invece la prosa, oltre a quanto riportato nel post citato all’inizio, mi sembra doveroso informare il lettore che Antonio De Ferrariis detto il Galateo gli dedicò l’opera Argonautica de Hierosolymitana peregrinatione dichiarando espressamente all’inizio: Nos somniamus quotidie Argonautica. Tu Dux nostre eris Iason … (Noi sogniamo ogni giorno le Argonautiche. Tu, nostra guida, sarai Giasone …).

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