I tre nomi comuni che nel titolo accompagnano quello della città in cui sono nato risultano collocati in ordine cronologico. Nella trattazione, tuttavia, comincerò dal reportage perché questo mio post non sarebbe stato scritto se non avessi letto ieri quello a firma di Alessandro Romano in Fra le “SCRASCE” su Facebook. Ad essere pignoli, però, va detto che Alessandro l’aveva già pubblicato il 4 settembre 2015 sul suo blog (http://www.salentoacolory.it/la-chiesa-ipogeo-di-san-pietro-mandurino/), cui, infatti, il post facebookiano rimanda. Le ragioni di tanta pignoleria cronologica si capiranno fra poco.
Da lì ho tratto la foto dell’epigrafe che, naturalmente, è la protagonista più antica. Di seguito le mie trascrizione e traduzione, nonché qualche nota esplicativa. Per il contesto dell’epigrafe e per tutto il resto rinvio al post di Alessandro.
D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)
TEMPLUM HOC VETUSTISSIMUM APOSTOLORUM PRINCIPI SACRUM MANDURIENSIUM PIETATIS NOBILE MONUMENTUM SAECULORUM DECURSU FERE COLLAPSUM IOANNES BAPTISTA LABANCHI URITANUS PRAESUL INCOLATUS SUI HIC ANNO TERTIO RESTAURARI CURAVIT ET SOLEMNI RITU DIVINO CULTUI RESTITUIT DIE ANTIOCHAENAE CATHEDRAE DICATA ANNI DEI MDCCXXIV
A Dio Ottimo Massimo. Giovanni Battista Labanchi vescovo di Oria1 nel terzo anno di sua residenza qui curò che questo tempio antichissimo consacrato al principe degli Apostoli, nobile testimonianza della religiosità dei manduriani, quasi crollato per il trascorrere dei secoli, fosse restaurato e con rito solenne lo restituì al culto divino nel giorno dedicato alla cattedra di Antiochia2 dell’anno di Dio 1724
Non c’è nulla di strano che un’epigrafe entri nel tessuto narrativo di un romanzo, tanto più se esso è storico. Nel nostro caso si tratta de Il segreto della cripta messapica di Pietro Francesco Matino, CIESSE Edizioni, 2015. La lettura, per quanto parziale in rete (https://books.google.it/books?id=K99nBwAAQBAJ&pg=PT60&dq=IOANNES+BAPTISTA+LABANCHI&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjb6JC0wv_WAhUGuxQKHcKZDrYQ6AEIJjAA#v=onepage&q=IOANNES%20BAPTISTA%20LABANCHI&f=false) mi consente di precisare che il romanzo risulta stampato nel mese di marzo (esso precede,quindi, di pochi mesi il post di Alessandro; è solo una precisazione di natura cronologica, non avendo il reportage e il romanzo nulla in comune se non il dettaglio dell’epigrafe) e di riprodurre in formato immagine la trascrizione che vi si legge.
Lascio al lettore scoprire, originale sotto gli occhi, le differenze sulle due tracsrizioni e dare un giudizio sulla maggiore o minore fedeltà dell’una rispetto all’altra. Si tratta, comunque di dettagli di scrittura epigrafica che non avrebbero comportato alterazione del significato se nel romanzo fosse stata fornita la traduzione.
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1 Dal 27 maggio 1720 al 23 luglio 1745.
2 Secondo il Martirologio romano Il 22 febbraio; quello dedicato alla cattedra di Roma il 18 gennaio. Oggi le due commemorazioni avvengono il 22 febbraio.
Il ritmo frenetico della vita moderna scandito dall’uso sistematicamente esagerato e controproducente per tutti e per tutto (basta pensare al danno ambientale e alla paradossale perdita di tempo dovuta alle difficoltà di circolazione a causa del numero esorbitante dei veicoli in movimento in un certo tempo e in un certo tragitto) dell’auto ha precluso ogni possibilità di meditare su alcuni aspetti del paesaggio, naturale o no, nonché dell’arredo urbano in cui ad una semplice epigrafe e, nei casi più complessi, ad un vero e proprio monumento era affidato il compito di tramandare una memoria e di risvegliare con essa in chi si trovava a passare (a piedi!) nei paraggi la curiosità e, dunque, la voglia di approfondire e conoscere.
Oggi, per esempio, un malcapitato obelisco che si trovi al centro di un quadrivio sembra assolvere ad una funzione più tecnica che storico-artistica, quella di consentire l’eliminazione dei semafori, ridotto al rango di una semplice rotatoria a costo zero. Poteva sottrarsi a questa fine l’obelisco di Porta Napoli a Lecce che, in fondo, per quanto si dirà, pur nella dominante valenza commemorativa del potere, aveva fin dalla nascita tutte le caratteristiche di una rotatoria?
Non è fuori luogo, a tal proposito, far notare come l’area gradinata su cui sorgeva il monumento era quadrata (la foto d’epoca è tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone d’Italia, I, Lecce e dintorni, n. 61 della serie Italia artistica diretta da Corrado Ricci, Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911; tutte le altre corredanti il testo sono degli autori e di Corrado Notario), mentre quella attuale, esagonale, rivela l’avvenuta mutilazione degli angoli del quadrato originario.
Non sappiamo quando tale mutilazione avvenne. Ricordiamo che il monumento venne realizzato per celebrare la visita a Lecce nel 1822 di Ferdinando I di Borbone1, ma, se tutte le fonti sono concordi nell’attribuire la sua realizzazione allo scultore Vito Carluccio di Muro Leccese, estremamente variabile è il range temporale del periodo di esecuzione (1820-1842).2
Ma già prima il monumento era stato oggetto di “manomissione” se in un trafiletto de Il cittadino leccese del 13 dicembre 1870 si legge, col titolo Senso comune, sottotitolo Decoro e bellezza della città: “Uscendo dalla porta detta di Napoli, v’imbattete in una specie di costruzione che, pel tempo in cui fu fatta, non era poi delle più spregevoli. Vogliamo parlare dell’obelisco, posto nel punto d’intersezione delle due strade che corrono l’una verso Taranto e l’altra intorno della città. Ora noi crediamo che quell’obelisco, quelle mezze colonne stirate ed ornate con vasi di fiori, e quei canapè di pietra leccese che veggonsi collocati simmetricamente, in giro di esso, furono con una spesa non lieve (si figurino!) eseguiti non a solo fine di abbellire e decorare convenientemente quel luogo, ma a qualche altro ancora, che osservando il malvagio stato in cui vediamo ridotto quel quadrivio, non sapremmo ben diffinire; e vorremmo esserne istruiti dalla cortesia di chi non dovrebbe ignorarlo. Attenderemo adunque che il nostro giustissimo desiderio fosse appagato, per dire su quel luogo, e su l’obelisco di porta a Napoli un’ultima parola”.3
Non abbiamo la pretesa con questo modestissimo contributo, che nulla aggiunge a ciò che da sempre è noto a chi di queste cose si interessa per lavoro o per passione, di contenere e tanto meno di invertire una tendenza in atto; non ci auguriamo neppure che, in concreto, un automobilista rallenti in prossimità di questo monumento per lanciare uno sguardo, per quanto fugace, suscitando le ire di chi lo segue e propiziando pure qualche incidente. La nostra fatica non sarebbe stata vana se solo fossimo riusciti attraverso queste poche note ad educare, prima di tutti noi stessi, ad abbandonare, per quanto è possibile, l’inveterata abitudine di considerare non più degno di considerazione ciò che si vede ogni giorno e del quale crediamo di conoscere tutto.
Nella lettura del monumento che ci accingiamo a fare non ci lasceremo sfuggire la fortunata circostanza che il suo stesso progettista4 ce ne ha lasciato, in un opuscoletto5 dal titolo un po’ altisonante, ampia descrizione insieme con l’interpretazione dei singoli dettagli; fortunata circostanza perché così si eviterà il rischio di superfetazione sempre in agguato quando si tenta di commentare qualsiasi manufatto artistico, da una poesia ad una statua, da una pittura ad una cattedrale o, come nel nostro caso, un obelisco; il che non significa, altrimenti sarebbe plagio, che rinunceremo a riportare le nostre riflessioni, anche perché non di tutti i dettagli è presente nell’opuscoletto la descrizione e l’interpretazione.
Prima di cominciare, però, dobbiamo segnalare la strana notizia che Pietro Palumbo ci ha lasciato in Storia di Lecce, (citiamo dall’edizione Congedo, Galatina, 1991, 2a ristampa fotomeccanica della prima edizione uscita a Lecce nel 1915 per i tipi dello Stabilimento tipografico Giurdignano, p. 306): In quelle (le facce) dell’obelisco furono messi gli emblemi dei quattro capoluoghi della Provincia e le relative iscrizioni latine furono composte da Monsignor Rosini vescovo di Pozzuoli e dall’Abate don Angelo Antonio Scorti6.
Per comodità espositiva divideremo il monumento in nove parti: un’area a forma di ottagono irregolare (a) articolata, mediante tre gradini su ogni lato in tre piani sull’ultimo dei quali poggia un parallelepipedo a base quadrata (b) che ne regge uno simile ma di dimensioni ridotte press’a poco della metà (c); segue una base con una cornice convergente all’interno (d) che regge una parte cubica (e) sormontata da una cornice aggettante (f); a seguire un parallelepipedo (g) da cui si diparte un tronco di piramide (h) sul quale poggia la parte terminale cuspidata (i).
Sulla faccia di c rivolta verso Porta Napoli c’è una lunga iscrizione della quale ci occuperemo più in là.
Sulle quattro facce del cubo (e) è rappresentato lo stemma della Terra d’Otranto (ora della Provincia di Lecce) che mostra un delfino mentre azzanna la mezzaluna7 sul campo dello stemma d’Aragona con i quattro pali originari, però, diventati bande oblique per la diversa postura del delfino, ma anche per creare una sorta di continuità con le bande delle tre altre consimili raffigurazioni.
Le facce del tronco di piramide si presentano divise in cinque settori, i primi tre dei quali, per ogni faccia, sono dedicati ai quattro distretti dell’antica Terra d’Otranto: Lecce, Gallipoli, Taranto e Brindisi, con un orientamento direzionale coincidente con quello dei rispettivi percorsi di cui l’obelisco rappresenta contemporaneamente il punto di arrivo da e il punto di partenza per. La decorazione per gli altri due settori di ogni faccia è comune a quella delle altre (dal momento che celebra caratteristiche comuni), perciò verrà riprodotta, più avanti, solo quella del distretto di Lecce.
Di essa così scrive il progettista nel suo opuscolo (op. cit., pag. 3): ”Nella cima della Colonna si deve scolpire l’effigie della Costellazione Celeste, che domina la provincia di Terra d’Otranto, ossia il Leone, il quale deve contenere tutto il suo corpo, compresa anche la coda, ventisette stelle, col motto allusivo Benigno hoc sydere nati. Appresso vi si deve scolpire dell’uva intrecciata con frondi di ulivo, e col motto parimenti allusivo Bacchi, et Minervae munera indigenis propria”. In realtà di stelle ne compaiono otto, dislocate correttamente come mostra il raffronto con la mappa astronomica.
Inoltre, come si vedrà più avanti, le fronde di ulivo saranno accoppiate anche a dei fasci di spighe di grano. Com’è noto, il Leone che, insieme con il Sagittario e l’Ariete è un segno di fuoco, copre il tempo tra il 23 luglio e il 23 agosto e perciò ben si addice a simboleggiare, al di là delle idee di potenza e dominio, il clima della nostra terra e in particolare i frutti che si raccolgono proprio nel periodo prima indicato (il grano) o che in tale periodo vivono una fase fondamentale del loro sviluppo e maturazione (olive e uva). A questa scelta del Cepolla probabilmente non sarà stato estraneo il ricordo della rappresentazione del mese di agosto nel mosaico della cattedrale di Otranto.
Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189.
1 Così si legge in Maria Bianca Gallone, Lecce e la sua provincia, Edizioni Sussurro, Lecce, 1968, p. 93; ribadito in Florinda Cordella, Lecce e il Salento, Touring Club Italiano, 2005, p. 25. Questa nota non è presente nella pubblicazione originale ma è stata qui ora aggiunta per presa d’atto di quanto si legge, a firma di Niceta Maggi nel foglio locale Il Bardo, XXIV, 1, Marzo 2015. Di seguito citiamo in grassetto e volta per volta replichiamo in corsivo.
“Nel 2015 l’amico Andrea Tondo pubblicò il volume Dal giglio dedi Borbone al Tricolore d’Italia dove fra l’altro dedicò l’Appendice ad una inaspettata “breve cronaca della costruzione dell’Obelisco dedicato al Re Ferdinando I di Borbone che segnava l’inizio della strada Ferdinandiana”. Ebbene, quest’appendice faceva giustizia di molte “leggende” che sul monumento circolavano e purtroppo ancora circolano. Il non aver letto questo fondamentale contributo non ha permesso agli autori di un recente saggio intitolato L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (Il delfino e la mezzaluna n. 3) di cadere sugli stessi errori come, per esempio, quello di credere che l’obelisco stesso fu innalzato per una mai avvenuta visita di Ferdinando I a Lecce: in quegli anni, (dal 1822) il re, com’è noto, aveva ben altri problemi e spesso era per lunghi periodi fuori dal Regno. Comunque sia, il problema non è questo.”
Premesso che la mancata involontaria lettura di un fondamentale contributo può capitare a chiunque, un “auspicata” aggiunto a “visita” avrebbe forse aiutato a capire meglio l’incongruenza tra il 1822 presente nell’iscrizione tramandataci dal Cipolla e la sua assenza su quella del monumento (L’autore vuole ancora, che il pubblico abbia la conoscenza di una sua latina iscrizione, da lui fatta per l’aguglia medesima, nella quale essa non vedesi scolpita per causa della di lui assenza da Lecce). In parole povere: è pensabile che un simile monumento fosse realizzato senza l’intento di invitare, anche ad alcuni anni dal suo compimento, l’augusto dedicatario che non si sarebbe certo lasciato sfuggire, secondo un’abitudine inveterata e perseverante fino ai nostri giorni, una simile occasione? Che poi la speranza andò delusa perché il re aveva ben altri problemi che non fossero connessi con una banale diarrea è provato anche dall’assenza della notizia di tale visita nei giornali dell’epoca.
“Nessuno di questi studi, tranne l’accenno che ha fatto V. Cazzato sul catalogo Foggia Capitale. La festa delle arti nel Settecento (1998) ha messo in evidenza l’humus culturale dal quale proviene una proposta artistica del genere: questa è storia, storia della cultura, che non si trova belleffatta su Internet.”
Di seguito il recensore si prolunga sull’humus egizio-napoleonico dell’obelisco che non contestiamo minimamente; aggiungiamo solo che esso, fatte le dovute tare stilistiche, non è affatto un fenomeno nuovo ma, tutt’al più, contingente, visti i famosi precedenti, solo per fare qualche esempio, di Sisto V con la sistemazione ad opera del Fontana degli originali egizi Vaticano (1586), Lateranense (1588), Flaminio (1589), di Pio VI (con la sistemazione dell’originale egizio Montecitorio (1792). E, se gli esempi precedenti possono essere considerati come un recupero archeologico finalizzato alla celebrazione del potere ecclesiastico, l’obelisco carolino di Bitonto (iniziato nel 1736) ne costituisce il … contraltare laico. Insomma, l’humus evocato dal recensore era tanto banale che non ci è parso opportuno farne cenno. Per quanto riguarda, poi, la “storia della cultura, che non si trova belleffatta su Internet”: la tanto vituperata rete, e il suo uso critico, avrebbe consentito al recensore, “belleffatta” a parte, di riportare del padiglione e degli obelischi quanto meno l’olio di Salvatore Fergola (1799-1874) custodito nella Reggia di Caserta, e non l’anonima stampa mancante di qualsiasi indicazione relativa alla fonte. Dubitiamo che essa appartenga a qualche libro antico in vendita, magari, nella sua libreria e lo stesso dubbio formuliamo per l’immagine a corredo dell’articolo su Alberigo Longo, apparso, sempre a sua firma, sullo stesso numero; e, a proposito di numeri, ci permettiamo di far notare che il simbolo del Bocchi di cui si parla e lì riprodotto non è il n. 147 ma il n. CXLV, come chiunque potrà controllare, sempre scomodando la rete, in https://books.google.it/books?id=JTi4-NPUQAYC&printsec=frontcover&dq=achille+bocchi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwikvOOy2PzWAhVMJcAKHbl1B94Q6AEIJjAA#v=onepage&q=achille%20bocchi&f=false.
” E quindi, ogni tanto, bisogna studiare lontano dalla comoda, pigra e sviante postazione del proprio computer.“
La raccomandazione finale della maestrina mal si concilia con l’assenza nella sua recensione di qualsiasi riferimento all’humus classico (non è questione di spazio …), ben più profondo ed antico di quello napoleonico orgogliosamente sbandierato; ma sarebbe pretendere troppo da chi probabilmente non conosce né il latino né il greco (tanto meno la storia delle rispettive civiltà), ma col suo belleffatta dimostra di non conoscere nemmeno l’italiano … “. E, a tal proposito, sempre sfruttando la rete, notiamo che belleffatto compare solo in Gian Gasparo Napolitano, Troppo grano sotto la neve, un inverno in Canada, Casa editrice Ceschina, Milano, 1936, p. 359 e in Marina Minghelli, I tossici, Armando Editore, Roma, 2008, p. 172. Non ci risulta che il Napolitano e la Minghelli abbiano acquisito autorevolezza tale da far entrare “belleffato” nel novero dei lemmi registrati anche dal più scadente dei vocabolari. Ci riuscirà il Maggi?
2 Vedi Mario Falco, Il neo classico a Lecce, in La zagaglia, anno X, N. 38 (giugno 1968), p. 217.
3 Già poco dopo la sua realizzazione il monumento era stato oggetto di “attenzione” politica con manifestazioni vandaliche da parte degli antiborbonici. Sull’argomento vedi Nicola Vacca, I Carbonari e l’obelisco di porta Napoli, in Rinascenza salentina, anno II (1934), pagg. 158-160. Gli autori ringraziano la signora Mariagrazia Presicce per aver fornito la copia fotostatica dell’articolo de Il cittadino leccese.
4 Luigi Cepolla, nato nel 1766 a San Cesario di Lecce, era un avvocato, docente di diritto a Napoli, con la passione dell’archeologia e dell’epigrafia. Ebbe l’onore di vedere esaminate le sue carte dal Mommsen e nello stesso tempo la sfortuna della stroncatura da parte del maestro tedesco che in Annalidell’istituto di corrispondenza archeologica, 1848, volume 20, pagg. 80-81 proposito di alcune presunte iscrizioni messapiche mostrategli dal Cepolla così scrive: Fra le carte di Luigi Cepolla di Lecce, chè molto si diletta di studiare e tradurre le iscrizioni messapiche, rinvenni la seguente….non debbo tacere che di altre due iscrizioni che il Cepolla mi diede…l’una si trovò essere una nota iscrizione osca capovolta, l’altra…contiene un alfabeto greco antico. Tanto questo però che l’iscrizione capovolta furono credute cose messapiche, e come tali tradotte e spiegate. Di una terza iscrizione…lascio volentieri il giudizio ai lettori se sia vera o falsa, messapica o cristiana, e conclude impietosamente: Che disgrazia di dover attingere notizie importanti da così torbidI fonti!.
Il giudizio negativo sull’attendibilità scientifica del Cepolla verrà ribadito successivamente da L. G. De Simone che in Di un ipogeo messapico scoperto il 30 agosto 1872 nelle rovine di Rusce e delle origini de’ popoli della Terra d’Otranto, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1872, pag. 25 lo definisce un dotto ma strambo archeologo leccese. Dello stesso parere Luigi Maggiulli e Sigismondo Castromediano che in Iscrizioni messapiche, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1871, pag. 3 così lo giudicano: Tuttoché dotto fu strambissimo interpetre delle antichità, i documenti della quale storpiava a piacere, per poscia interpetrarli a piacere. Il Castromediano ribadirà la stroncatura affinando la mira nella sua Relazione della commissione conservatrice dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto per l’anno 1871 al Consiglio provinciale, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1872, p. 23 nota 1: … la sua [dell’obelisco] composizione venne ideata da Luigi Coppola. Dotto costui nelle antichità della Provincia alla maniera del secolo passato, ma più che dotto strano, servendosi di alcuni motti latini e della mitologia creò in quel monumento uno dei più intricati geroglifici, che anche leggendo la memorietta spiegativa da lui stesso stampata al proposito, nemmeno s’intende. Altre sue indecifrabili stramberie si scorgono nei brevi e pochi opuscoli da lui pubblicati. Anche se, come tenteremo di dimostrare, indecifrabili stramberie ci pare un po’ esagerato e se la celebrazione della componente cretese poteva forse avvenire in un modo meno prolisso, ci chiediamo, maliziosamente forse, se Coppola invece di Cepolla sia un refuso o una forma originalissima di damnatio memoriae, anche se una coppola vale certamente più di una cipolla …
Pure Nicola Vacca, op. cit. p. 159, era stato poco tenero con lui: Gli emblemi, i simboli dell’obelisco furono ideati ed illustrati stranamente dall’avv. Luici Cepolla.
Quanto ai brevi e pochi opuscoli, oltre la memorietta che citeremo in nota 3: Saggio d’idee filosofiche sopra la quistione più favorita del giorno. Qual è la migliore politica costituzione, Manfredi, Napoli, 1820; Dissertazione sulla significazione del toro a volto umano usato comunemente per simbolo della Italia, della Sicilia, e di molte altre città greche in alcune loro più antiche medaglie, Nobile, Napoli, 1826; Saggio analiticodi varii oggetti di morale, di scienze, di arti, e di bella ed amena letteratura, Chianese, Napoli, 1837; Breve componimento, Fratelli Cannone, Bari, 1841; Breve cenno fugitivo della storia primitiva di Ugento, s. n., s. l., 1841 (?): Agesilao Milano: Storia del secolo XIX, Giuntini, Catania, 1862.
5 Illustrazioni degli emblemi mito-istorici seguiti d’alcuni motti indicanti le prime tre epoche degli antichi popoli salentini figurati nella nuova aguglia eretta fuori della Porta di Napoli in Lecce del Sig. L. Cepolla, autore della formazione iconografica, ed epigrafica di tutta la storia Antiquario Numismatica della Provincia Salentina, Tipografia di Agianese, Lecce, 1827. Gli autori ringraziano Giovanna Falco peraverne fornito la copia fotostatica.
6 Carlo Maria Rosini, (1748-1836), vescovo di Pozzuoli dal 1797 fino alla morte, filologo. Ecco le sue benemerenze “laiche”: nel 1787 fu nominato da Ferdinando I titolare della Cattedra di Santa scrittura nella Regia Università di Napoli (in sostituzione di Nicola Ignarra nominato precettore del principe ereditario e poi re Francesco I), nel 1817 Presidente perpetuo della Società Reale Borbonica, nel febbraio 1822 presidente della Reale Biblioteca Borbonica, nel settembre dello stesso anno presidente della Pubblica Istruzione. Sterminata la serie delle sue pubblicazioni tra le quali spicca in campo scientifico Dissertationis isagogicae ad Herculanensium voluminum explanationem, Tipografia Regia, Napoli, 1797 (opera continuata dopo la sua morte dallo Scotti). Angelo Antonio Scotti (e non Scorti, come si legge nel libro del Palumbo) (1786-1845), arcivescovo di Tessalonica (dal 1843 fino alla morte), paleologo. Tra le sue numerose pubblicazioni, oltre la continuazione dell’opera del Rosini : Illustrazione di un vaso italo-greco del museo di mons. arcivescovo di Taranto, Stamperia Regia, Napoli, 1811; Memoria sopra un greco diploma esistente nel grande archivio di Napoli, s. n., s. l., 1813 (?); Dissertazione sopra un antico busto, Tipografia Trani, Napoli, 1815; Dissertazione sopra un antico mezzo busto falsamente attribuito ad Annibale cartaginese, Napoli, Tipografia Trani, 1816; Syllabus membranarum, Stamperia Reale, Napoli, 1824. I due si conoscevano e stimavano reciprocamente, stando a quanto si legge in Prospero De Rosa, Elogio istorico di Monsignor Carlo Rosini vescovo di Pozzuoli, Stamperia Reale, Napoli, 1841 (opera dedicata allo Scotti).
7 Questo elemento venne aggiunto dopo la cacciata dei Turchi (popolazione di cui la mezzaluna costituisce uno dei simboli) ad opera di Alfonso d’Aragona nel 1481.
Giuliano di Lecce e la tormentata lettura di una sua epigrafe
Un grido di dolore si leva ogni tanto, nemmeno unanimemente, dal mondo della cultura per lo sfacelo progressivo del liceo classico perpetrato da burocrati ignoranti, sedicenti esperti al soldo del potere politico che mira a gestire cervelli acritici con abbaglio intermittente di dati ISTAT utilizzati parzialmente per un’interpretazione ad usum delphini di quelli globali, con una spruzzata, un po’ più copiosa in concomitanza di appuntamenti elettorali, di dosi dopanti che già Giovenale quasi duemila anni fa stigmatizzò con il suo panem et circenses. Per tornare al classico: fra poco si proporrà lo studio del latino e del greco saltando la fase di acquisizione delle fondamentali norme grammaticali che a quel punto, debbo dire giustamente, sarebbe un’inutile perdita di tempo, visto che la meta finale è la lettura dei testi attraverso il riassunto della traduzione in italiano …
Da ex insegnante di queste materie debbo dire che io non sono indenne da colpe e ancora oggi mi tormenta il rimorso per non aver a suo tempo insistito sufficientemente nell’approvazione di mie, e solo mie, proposte in un periodo in cui il ministero competente si sciacquava la bocca raccomandando di privilegiare gli agganci con il territorio. Chissà agli occhi di quanti sarò sembrato un retrogrado e provincialotto quando senza mezzi termini ogni anno dichiaravo la mia disponibilità ad accompagnare i ragazzi solo in visite guidate e non nei viaggi d’istruzione, diventati col tempo viaggi-distruzione!
Si dirà che il nostro patrimonio culturale è tanto ampio che pone l’imbarazzo della scelta. Non mi pare una buona ragione per scegliere mete lontane quando conosciamo, se pure la conosciamo, solo una minima parte di quello che abbiamo in loco o nelle vicinanze più o meno immediate.
Forse sono un ingenuo e pure testardo e rincoglionito se, nonostante tutto, credo ancora oggi che una classe di un liceo classico salentino, purché preventivamente, tempestivamente e convincentemente preparata, potrebbe non trovare a priori più allettante una gita a Roma piuttosto che, solo per fare un esempio, a Giuliano di Lecce e, per restringere ancor più la meta, lungo la sua via Regina Elena?
Una scelta così mirata sarebbe dettata anche dalla scarsa, direi nulla, dispersività, nello studio grazie alla concentrazione, proprio in quella via, di numerose epigrafi latine. La gita a Giuliano di Lecce (qualcuno rida pure …) rappresenterebbe la prima fase di un lavoro più complesso che, giocoforza, deve partire da dati concreti, materiali, le epigrafi, appunto, da congelare in foto per le quali oggi anche la più economica delle fotocamere digitali garantisce un sufficiente livello di definizione. Se, poi, il docente accompagnatore si porta appresso quella telecamera O fotocamera costata alla scuola una barca di euro e la utilizza in parallelo al lavoro di prima documentazione dei suoi ragazzi, non fa altro che il suo primo dovere; il secondo sarebbe quello di controllare l’esatta ubicazione (leggi numero civico) di ciascuna epigrafe ripresa; il terzo riguarderà, una volta tornati in sede, lo studio dei dati raccolti e la loro sistemazione in una relazione scritta. Nell’ultima fase sarà di aiuto fondamentale l’utilizzo della rete (in sala pc, non con lo smartphone in classe …), quella rete che, se fosse stata utilizzabile al tempo in cui ho insegnato e nell’abbondanza di documenti digitalizzati che solo oggi essa può offrire, avrei perso meno tempo e sarei stato certamente più efficace a spiegare ai ragazzi, per esempio, come certi testi sono giunti fino a noi, che significa collazione dei manoscritti, come il principio obsoleto ma prezioso anche oggi (non per i profitti delle multinazionali …) dell’usa e riusa s’incarni in un palinsesto. Tutto ciò esibendo virtualmente (ma in questi caso il virtuale vale quasi quanto il concreto) l’oggetto da intendere, condizione primaria, nel metodo induttivo, per passare al concetto, dal fenomeno alla regola.
Dopo questo piagnisteo sulle occasioni perse, passo ad altri il ruolo di protagonista fin qui assunto.
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un piacevole (anche per la vista grazie alle immagini, ma non si tratta di donnine più o meno discinte …) reportage (http://www.salentoacolory.it/epigrafi-nel-piccolo-salento-antico/) dal titolo Le sagge epigrafi del Piccolo Salento Antico, uno dei tanti, tutti interessantissimi, postato da Alessandro Romano sul suo blog. Dopo aver detto, è il minimo che possa fare, che, se nessuno ha pensato di conferirgli una laurea honoris causa, il suo blog dovrebbe essere assunto a modello di amore autentico per la propria terra e di corretta divulgazione della sua cultura, passo a lei, cioè all’epigrafe che mi ha ispirato questo post.1 La riproduco nella foto di Alessandro.
Nella didascalia si legge: Qui invece c’è un’esortazione al disprezzo verso la vita oziosa, il lavoro è un rimedio efficace contro la povertà: “Non amare il sonno affinché la povertà non ti opprima. Ciò che hai messo da parte sia di guadagno per l’erede. 1778”.
Quella riportata da Alessandro è la traduzione italiana. E qui scatta in me la deformazione professionale che mi spinge, direi obbliga ad un controllo, questa volta. del testo originale che è in latino e che io leggo così:
Faccio osservare anzitutto che il supporto appare formato da due pezzi coerenti dal punto di vista dello stile e della scrittura epigrafica, nonostante la visibilissima diversa colorazione e l’asimmetricità delle due cornici. Ognuna delle sue parti contiene una citazione tratta dalle sacre scritture. La lettura risulta problematica per la prima linea, della quale, divise in due parti, restano tracce di scrittura nella prima e chiaramente leggibile solo M nella seconda.
Traduzione:
Confrontando la traduzione riprodotta da Alessandro con la mia, è evidente la differenza profonda del messaggio, per quanto saggio in entrambi i casi. Nel primo compare il concetto di povertà, nel secondo quello di bisogno. In latino povertà è paupertas, il bisogno è egestas e fra i due concetti la differenza è notevole perché la povertà comporta almeno il possesso del poco, il bisogno nemmeno quello. Una differenza abissale, poi, riguarda la seconda citazione. Nel primo caso cìè quasi l’invito ad accumulare beni, non per sé, ma per l’erede, strano concetto evangelico di elogio della ricchezza intesa come sistemazione della propria discendenza, quasi proiezione, tutta umana e per questo comprensibilissima, del proprio egoismo nel futuro. Non dico di non lasciare nulla ai figli e sperperare per sé tutto quello che si mette da parte, ma neppure dannarsi l’esistenza solo per loro e non augurarsi che, pur con il dovuto aiuto, si facciano da sé, il che, poi, è il modo migliore peché crescano spiritualmente sani …; nel secondo, invece, l’angoscioso interrogativo se valga la pena dannarsi l’anima per delle ricchezze certamente non traferibili nell’aldià (per chi ci crede, figurarsi per chi non ci crede …).
Se la differenza tra povertà e bisogno poteva apparire come una sottigliezza interpretativa, è la traduzione della seconda parte, tanto differente da quella del testo originale da me letto, che mi ha fatto venire il sospetto che provenisse da una lettura diversa. Sì, ma quale e di chi? Sarebbe come dire: qual è la fonte utilizzata da Alessandro?
La rete consente di scoprire, grazie alla sua disponibilità di una memoria quasi infinita e alla potenza dei motori di ricerca, di trasformare quel cretino velocissimo che è il pc in un formidabile strumento prima di controllo e poi di approfondimento della conoscenza.
Il post reca la data del 24 giugno 2017. Siccome quello di Alessandro reca la data del 26 dicembre 2016, è evidente è che non può essere stata la fonte, anche se la lettura del testo originale sembra avvicinarsi alla mia, a parte SOMNUM contro SOMNIUM, l’assenza del punto interrogativo dopo ERUNT, la penultima riga totalmente diversa e l’ultima, quella con la data, totalmente ignorata.
In via Regina Elena, sull’architrave di una porta secondaria, di proprietà Fuortes, si legge: “Noli diligere somnum, ne te egestas opprimat. Quae parasti, cuius erunt lucro sunto. A. D. 1778”. “Non amare il sonno per non essere oppresso dal bisogno. I beni, che hai procurati, siano di guadagno per l’erede”. E’ superfluo notare che in una società preminentemente agricola, in cui il lavoro massacrante, il labar improbus, (almeno per gli humili genere nati) era necessario antidoto contro la miseria, è superfluo, dico, notare che in tale ambiente doveva risuonare, ammonitore e pungolante, l’invito: “Non dormire”. La seconda parte, invece, molto profonda, anche se paternalistica, (ma in quei tempi il tono paternalistico non era scandaloso, com’è oggi talvolta anche il tono paterno), è un avvertimento serio all’erede a considerare un guadagno da custodire gelosamente ciò che formava la sua eredità. Ma in questo mondo “Perpetua vice hominum res mutantur”, con vicenda perenne cambiano le cose degli uomini, perché “Or puoi veder, figliuol, la corta buffa / del ben che sono commessi a la Fortuna” (Dante-inferno, Canto VII; versi 61-62), che “Permuta” a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue, / oltre la difension di senni umani” (verso 79-81).
Molto probabilmente Giovanni Prontera non potè leggere quanto pubblicato in A. Caloro, M. Monaco, F. Leonio, F. Fersini, Iscrizioni latine del Salento. Paesi del “Capo” di S. Maria di Leuca, Congedo, Galatina, 1998, p. 147.
Il lettore noterà la sostanziale coincidenza della mia lettura con questa, che, finalmente, dice la parola quasi definitiva, a parte quel poco che segue:
a) Non credo che nel 2000 o giù di lì fossero leggibili la D di D(EO) e la O di O(PTIMO). La lettura proposta è deduttiva perchè nelle epigrafi è normale trovare in quella posizione D. O. M. con le tre lettere uniformemente distanziate e nessun elemento, fregio compreso, che crei separazione. Qui bisognerenne immaginare D O a sinistra ed M a destra. Per questo nella mia trascrizione ho optato per il punto interrogativo.
b) Le parentesi quadre, che in epigrafia indicano le lettere illeggibili, non sono coerenti in un dettaglio la cui individuazione lascio al lettore.
Chi mi legge potrebbe pensare: – Ma che bravo ‘sto Polito! -. Se il pensiero è sincero lo invito a far controllare, comunque, da altri competenti quanto e più di me e di lui la fondatezza di quanto ho osservato (ad impedire, dunque, un’ulteriore proliferazione dell’errore, qualunque esso sia, tanto in rete che fuori), non senza aver prima spuntato una lancia a favore non solo di Alessandro, il cui rigore di divulgatore è fuori discussione, ma dello stesso professor Prontera che probabilmente avrebbe letto bene (e tradotto meglio, non fosse altro perché l’interpretazione sbrigativa, per usare un eufemismo, di quel cuius erunt con perl’erede e tutta la dotta consequenziale annotazione di natura sociologica non stanno né in cielo né in terra, e non solo grammaticalmente) se avesse potuto osservare l’epigrafe con un cannocchiale o fruire di una ripresa col teleobiettivo, che allora già esisteva). Se, invece, il pensiero è sarcastico, evito, per educazione, di aggiungere a questa protesi di periodo ipotetico la relativa apodosi …
1.2Iacta alea esto: Cesare varca il Rubicone (anno 49 a.C.)
Nel frattempo Cesare non era rimasto inattivo. S’era infatti portato a Ravenna («Ravennae substitit»)19, la città della Cisalpina più vicina al territorio italico, avendo con sé non più di trecento cavalieri e cinquemila opliti («Ἦσαν μὲν οὖν περὶ αὐτὸν οὐ πλείους ἱππέων τριακοσίων καὶ πεντακισχιλίων ὁπλιτῶν»)20 che, appena seppe della decisione del senato, mandò avanti segretamente verso il confine («praemissis confestim clam cohortibus»)21. Poi, per non destare sospetti, partecipò ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti d’una scuola di gladiatori e, come d’abitudine, pranzò in compagnia.
Solo al tramonto partì a sua volta in gran segreto con una esigua scorta («Dein post solis occasum… occultissimum iter modico comitatu ingressus est»)22 fino a raggiungere in maniera avventurosa il Rubicone, dopo aver vagato a lungo («diu errabundus»)22, essendosi smarrito, alla ricerca della strada giusta.
Sulle rive del piccolo fiume sostò in silenzio ed esitò, riflettendo sulla gravità del gesto audace che stava per compiere («ἔστη σιωπῇ καὶ διεμέλλησεν, αὐτὸς ἄρα πρὸς ἑαυτὸν συλλογιζόμενος τὸ μέγεθος τοῦ τολμήματος»)23; poi, non dando ascolto agli avvertimenti della ragione, stese un velo di fronte al pericolo e gridò ai presenti queste semplici parole in lingua greca: “Si lanci il dado”, e fece passare l’esercito («παρακαλυψάμενος πρὸς τὸ δεινόν, καὶ τοσοῦτον μόνον Ἑλληνιστὶ πρὸς τοὺς παρόντας ἐκβοήσας, “Ἀνερρίφθω κύβος,” διεβίβαζε τὸν στρατόν»)23.
Un breve inciso merita la frase comunemente attribuita in questa circostanza a Cesare, la celeberrima «iacta alea est» (il dado è tratto), per la diffusione di cui gode in ambiti pur non specialistici. Questo perché la stesura conosciuta contiene, con ogni probabilità, un errore causato da un amanuense nella trascrizione del passo in latino di Svetonio24. La frase infatti altro non è che la traduzione d’un verso allora celebre del commediografo Menandro, «ἀνερρίφθω κύβος»25 (si lanci il dado) che il condottiero romano pronunciò per esprimere l’azzardo cui andava incontro nel dare inizio ad un sanguinoso conflitto contro il proprio Paese. Considerato che ἀνερρίφθω è la terza persona dell’imperativo del verbo ἀναρρίπτω, sembra plausibile la correzione di Erasmo26 che introdusse «esto» al posto di «est», proprio perché esprimeva la volontà del condottiero di gettare il dado e non la constatazione d’averlo già lanciato. Per questo motivo l’espressione riportata nel manoscritto di Svetonio parrebbe essere stata «Iacta alea esto» e non la conosciuta «Iacta alea est», da rendere quindi in italiano con si lanci il dado o, forse magari, se si vuole mantenere in vita il verbo utilizzato nell’attuale versione, il dado sia tratto.
Comunque sia, dare l’avvio ad un’impresa così temeraria con neppure una legione al completo (la XIII), e senza neanche attendere le altre due legioni (VIII e XII) che aveva allertato, era certo una mossa arrischiata che poteva avere conseguenze fatali per Cesare, tenuto pure conto che Pompeo, a quel momento, poteva disporre di forze in numero superiore alle sue («Οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τότε πλήθει δυνάμεως ὑπερέβαλλεν ὁ Πομπήϊος τὴν Καίσαρος»)27. Invece, grazie alla imprevedibilità dell’azione ed alla rapidità con cui essa fu condotta, Cesare riuscì ad ottenere risultati che andarono oltre le più ottimistiche previsioni: in poco tempo occupò le posizioni strategiche prossime al confine italico (Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Arezzo, Gubbio e Osimo) e, al tempo stesso, aumentò gli effettivi con i legionari che avevano disertato da Pompeo. A tutto ciò si aggiunse lo sconcerto che serpeggiò in campo avverso alla notizia di quest’attacco improvviso che sembrava incontenibile.
A Roma fu il panico.
I senatori inquieti iniziarono ad assillare Pompeo con proposte e lamentele, creando solo ulteriore disorientamento e minando così sin dall’inizio qualsiasi decisione s’intendesse assumere. Ci fu anche chi espresse aperto dissenso, come Favonio, che lo invitò a battere il piede in terra per farne venir fuori le legioni promesse («Φαώνιος μὲν Πομπήιον ἐπισκώπτων τοῦ ποτὲ λεχθέντος ὑπ’ αὐτοῦ, παρεκάλει τὴν γῆν πατάξαι τῷ ποδὶ»)28, ricordandogli in tal modo con sarcasmo quando si era vantato di poter richiamare numerosi seguaci con un semplice cenno.
A differenza di Cesare, Pompeo non amava avventurarsi in mosse rischiose o condurre una guerra di movimento basata sulla rapidità d’azione. Preferiva le strategie ad ampio respiro che, alla lunga, creavano le condizioni favorevoli a combattere avendo tutti i vantaggi dalla propria parte. Tesseva le sue tele come un ragno, e come un ragno attendeva che gli avversari ci cascassero.
In questo caso, ritenne azzardato difendere Roma. Aveva sì forze superiori, ma troppo eterogenee e poco fidate29; scelse così di attirare Cesare in Oriente, dove poteva contare sul considerevole aiuto di amici e di clienti sicuri, con l’intento di tenerlo lontano dalle sue basi di rifornimento e, con l’andar del tempo, di sfiancarlo in un inseguimento senza soluzione. Era un disegno con buone possibilità di riuscita, se solo si fosse potuto realizzare con pazienza e, soprattutto, senza le insistenze dei senatori, per lo più critici e troppo spesso portati ad imporre la propria diversa e personale tattica.
Decise pertanto di evacuare Roma ed ingiunse ai senatori di seguirlo, avvertendo che avrebbe ritenuto un sostenitore di Cesare chi fosse rimasto indietro («καὶ κελεύσας ἅπαντας ἕπεσθαι αὐτῷ τοὺς ἀπὸ βουλῆς, καὶ προειπὼν ὅτι Καίσαρος ἡγήσεται τὸν ἀπολειφθέντα»)30.
È tra il 17 ed il 18 gennaio che Pompeo lascia Roma, diretto per le città fortificate della Campania e dell’Apulia31, e, anche se nessuno sa quale piano egli abbia per la mente, a posteriori è del tutto scontato presupporre che il suo fine fosse sin dall’inizio quello di giungere quanto prima possibile a Brindisi per poi da lì salpare per l’Oriente. Cicerone, che fa parte del folto gruppo dei senatori che lo segue, è irritato che Pompeo non dica cosa intenda fare e arriva persino a pensare che neppure lui stesso lo sappia («ne ipsum quidem scire puto»)32.
Le idee sono invece chiare e, al momento opportuno, il piano sarà reso noto.
19 Svetonio, Cit., XXX 1.
20 Plutarco, Vite parallele: Cesare, XXXII 1. Lo stesso dato è fornito da appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, II 5, 32.
21 Svetonio, Cit., XXXI 1.
22 Svetonio, Cit., XXXI 2.
23 Plutarco, Pompeo. Cit., LX 2.
24 Il dado è tratto, disse («Iacta alea est, inquit»). svetonio, Cit., XXXII 4.
25 Ateneo, (II o III secolo d.C.), I sofisti a banchetto., XIII 8.
26 Erasmo (XV secolo – XVI secolo.), Adagi, 1, 4, 32.
27 Plutarco, Cesare. Cit., XXXIII 6. Pompeo disponeva di due legioni di stanza a Capua, oltre che delle forze arruolate espressamente per contrastare Cesare e di quelle che si trovavano nelle guarnigioni del territorio italico.
28 Apiano, Cit., II 5, 37.
29 Le due legioni, che rappresentavano il nerbo della sua armata in Italia, erano state fino a poco tempo prima al servizio di Cesare e, quindi, non erano del tutto fidate.
30 Plutarco, Pompeo. Cit., LXI 3.
31 Cicerone, Epistole ad Attico, VII 10. In questa lettera del 18 gennaio Cicerone afferma di essere partito da Roma, prima che facesse giorno («ante quam luceret»), lasciando poi intendere che anche Pompeo si fosse avviato lo stesso giorno, oppure il giorno precedente e quindi il 17 gennaio, con destinazione le città fortificate («oppidis») che si trovavano in Campania e nell’Apulia.
Era probabilmente la notte tra il 10 e l’11 gennaio del 49 a.C. quando Giulio Cesare giunse nei pressi del Rubicone, un piccolo fiume sulla cui individuazione da tempo dibattono con scarsi risultati gli storici, e restò incerto sul da farsi intento a valutare cosa sarebbe accaduto se l’avesse superato. Un corso d’acqua del tutto insignificante ma al tempo stesso importante perché segnava il limite del territorio italico; la linea di confine che Cesare, proconsole delle Gallie, non avrebbe potuto valicare con un esercito in armi, senza che una simile trasgressione fosse considerata una esplicita dichiarazione di guerra alla città di Roma.
Per meglio comprendere cosa comportasse una simile scelta e quali fossero i gravi motivi che spinsero Cesare a farla, è bene esaminare, sia pure in maniera semplificata, gli elementi giuridici essenziali su cui si basava l’ordinamento romano.
Al pari del mondo greco, anche quello romano non amava affidare il potere decisionale alla discrezione d’un singolo individuo e questo si rifletteva con la presenza nell’ordinamento istituzionale di tutta una serie di limitazioni giuridiche che riguardavano principalmente lo svolgimento dei più importanti incarichi. Le magistrature erano pertanto soggette ad una serie di vincoli che ne limitavano la durata, le iterazioni e che ne impedivano di norma il cumulo. In definitiva un complesso di regole che creavano un sistema di garanzie e di controlli per evitare derive tiranniche, che tuttavia, viste le ricorrenti tensioni dovute a stati di guerra o a momenti di forte attrito sociale, erano anche soggette a possibili eccezioni e modifiche che ne snaturavano sia pure temporaneamente la struttura.
Il triunvirato imposto da Cesare, Pompeo e Crasso fu di per sé una situazione fuori dalla normalità che causò, appunto, l’adozione di misure straordinarie con le quali i tre uomini politici cercarono di concentrare nelle proprie mani il potere statale, dando continuità agli incarichi istituzionali ricoperti. I triunviri riservarono infatti per sé quelle cariche pubbliche fornite di imperium1 che conferivano il diritto di comando superiore sia di carattere militare, sia di carattere giurisdizionale, garantendosi così la possibilità di arruolare e comandare un esercito e d’incidere sui principali meccanismi legislativi. Non a caso tali magistrature venivano chiamate maiores, anche perché l’imperium conferiva un ulteriore non banale privilegio: chi ne era dotato non poteva essere perseguito nel periodo di svolgimento del mandato, pure a fronte di manifesti abusi compiuti. L’immunità cessava però con l’incarico e, una volta deposto l’imperium, si poteva essere trascinati in giudizio come un qualsiasi cittadino. Era questo l’aspetto che più preoccupava Cesare, ed i motivi traevano origine dalla disinvoltura con cui aveva fino ad allora gestito il potere.
Quando nel 59 a.C. era stato console, s’era difatti comportato in maniera spregiudicata anche nei riguardi del collega di consolato Bibulo, che non aveva esitato a cacciare con le armi dal foro perché gli si era opposto («obnuntiantem collegam armis foro expulit»)2, e in seguito addirittura ad esautorare sicché, per i restanti mesi, amministrò gli affari di stato da solo e nel pieno arbitrio («Unus… omnia in re publica et ad arbitrium administravit»)3. E peggio ancora aveva fatto nei successivi nove anni in cui, fruendo di varie proroghe, era stato proconsole nelle Gallie. Qui la sua smania di conquista l’aveva portato a compiere atti biasimati non solo dai suoi avversari politici ma pure da un commentatore non schierato come Plino, che non aveva dubbi a ritenere i massacri da lui compiuti un grave danno al genere umano («tantam… humani generis iniuriam»)4.
La lunga assenza da Roma concorreva poi a penalizzarlo, anche perché Pompeo, proconsole in province pacificate, poteva farsi sostituire nel comando dai propri legati e dimorare tranquillamente nei pressi dell’Urbs5, dove meglio poteva condizionarne la vita politica. E, se tutto ciò non bastava, si aggiunsero due tragici avvenimenti a rendere ancor più difficile la situazione: la morte della figlia Giulia, data in sposa6 a Pompeo, che faceva cessare il vincolo di parentela instaurato, e la morte di Crasso che, essendo per doti militari il meno titolato dei triunviri, s’era impegnato a garantire la coesione del sodalizio.
Ma il colpo definitivo fu costituito dalla uccisione di Clodio. I tumulti popolari susseguenti spinsero il senato ad adottare nel 52 a.C. un provvedimento senza precedenti che chiariva in maniera esplicita con chi si schierava la classe senatoriale. Pompeo fu infatti nominato console sine collega, formula giuridica mai prima adottata ma evidentemente assimilabile a quella più abituale di dittatore.
Un simile contesto, che rendeva realizzabili le minacce che venivano indirizzate a Cesare e proprio nel momento in cui si sarebbe dovuto presentare da privatus a Roma, non poteva che preoccuparlo. Soprattutto Catone Uticense gliel’aveva giurata e più volte aveva annunciato che l’avrebbe trascinato in giudizio, non appena avesse congedato l’esercito («ac primum exercitum dimisisset»)7. E Cesare, se voleva candidarsi per le elezioni consolari per il 48 a.C., doveva necessariamente presentarsi8 da privato cittadino a Roma nell’estate dell’anno precedente (49 a.C.), rischiando così una denuncia che avrebbe potuto distruggerlo politicamente.
Cesare riuscì allora, tramite i tribuni della plebe a lui favorevoli, a convincere l’intero collegio a proporre un plebiscito che gli attribuiva il privilegio della ratio absentis, vale a dire la concessione di poter partecipare, pur essendo lontano, ai comizi per ottenere il consolato («egit cum tribunis plebis… id potius ad populum ferrent ut absenti sibi, quandoque imperii tempus expleri coepisset, petitio secundi consulatus daretur»)9. Questo gli avrebbe consentito di mantenere l’imperium. e di proteggerlo quindi da possibili imputazioni.
Pompeo non si oppose, però, di lì a poco e sempre nel 52 a.C., presentò una rogatio10 (la lex Pompeia de iure magistratum) che, nel riordinare le magistrature, confermava la necessità della candidatura in praesentia e, quindi, dell’obbligo per i candidati di presentarsi a Roma, senza mantenere in vita l’eccezione prevista per Cesare di cui – si scusò – si era dimenticato («ne Caesarem quidem exciperet per oblivionem»)11. Quando gli amici di Cesare si resero conto dell’errore, protestarono facendo inserire una clausola che teneva conto dei privilegi a lui in precedenza concessi, senza ottenere che essa fosse aggiunta alla legge, in quanto già incisa sul bronzo e archiviata nell’erario («legge iam in aes incisa et in aerarium condita»)12.
L’eccezione prevista dal popolo per Cesare finì per non essere considerata valida, e si discusse più volte in senato sulla necessità di privarlo del comando e di obbligarlo a presentarsi a Roma da privato cittadino, senza tuttavia arrivare ad una decisione per il veto posto dai tribuni della plebe a lui favorevoli13. La rottura era però nell’area e, mentre girava voce che Cesare si stesse ponendo in marcia dalla Gallia Cisalpina con tutte le sue dieci legioni («δέκα τάγματα»)14, al senato pervenne una sua missiva in cui proponeva che tanto lui quanto Pompeo rinunciassero al proconsolato, congedassero le legioni ai loro ordini e si presentassero al popolo, al quale avrebbero reso conto del loro operato («Ἠξίου γὰρ ἀμφοτέρους ἐκβάντας τῶν ἐπαρχιῶν καὶ τὰς στρατιωτικὰς δυνάμεις ἀφέντας ἐπὶ τῷ δήμῳ γενέσθαι καὶ τῶν πεπραγμένων εὐθύνας ὑποσχεῖν»)15.
Questo il senso ma, a detta di Cicerone, Cesare usava nella lettera un tono minaccioso ed aspro («minacis… et acerbas litteras»)16 che offese il senato il quale pensò bene di reagire intimando al proconsole delle Gallie di licenziare le legioni, se non voleva che il suo atteggiamento fosse considerato ostile alla repubblica («Caesar exercitum dimittat; si non faciat, eum adversus rem publicam facturum videri»)17. Cesare non ci pensò nemmeno ad aderire all’invito e, di conseguenza, il 7 gennaio 49 a.C. con senatoconsulto ultimo, che non tenne conto del veto di due tribuni della plebe, il senato dichiarò lo stato di emergenza e, affinché la repubblica non subisse danno, conferì pieni poteri ai magistrati ed ai promagistrati che si trovavano alle porte della città («dent operam consules, praetores, tribuni plebis, quique pro consulibus sint ad urbem, ne quid res publica detrimenti capiat») 18.
In un ordinamento giuridico che assegnava uguale dignità ai diversi organi, proprio perché non si desiderava che ve ne fosse uno che prevalesse, il senatus consultum ultimum rappresentava il modo legittimo per accordare, in presenza di fatti anomali, poteri eccezionali. Di là della formula rituale, nel concreto si affidavano le sorti della città nelle mani del proconsole Pompeo.
Note
1 Competeva a consoli, pretori, al dittatore, al magister equitum e, nell’ambito delle singole province, a proconsoli e propretori.
2 Svetonio (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Cesare., XX 2.
3 Svetonio, Cit., XX 3.
4 Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), Storia Naturale, VII, 25, 92.
5 Chi era investito dell’imperium non poteva oltrepassare la linea del pomerium che contrassegnava il confine sacro dello stato romano, al cui interno non era consentito portare le armi. Per questo Pompeo non poteva risiedere a Roma.
6 Pur se dovuto a convenienza politica, fu un matrimonio felice e Pompeo era molto legato a Giulia.
7 Svetonio, Cit., XXX 3.
8 L’elezione doveva avvenire in praesentia del candidato che, dovendosi presentare a Roma da privato cittadino, doveva conseguentemente deporre l’imperium, considerato che chi ne era investito non poteva entrare nel pomerium,.
9 svetonio, Cit., XXVI 1.
10 Proposta di legge.
11 Svetonio, Cit., XXVIII 2.
12 Svetonio, Cit., XXVIII 2.
13 Pur non essendo magistrati, i tribuni della plebe avevano diritto di intercessio, vale a dire il diritto di veto nei casi di proposte di deliberazione e di legge.
14 Plutarco (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Vite parallele: Pompeo, LVIII 6. Le legioni a disposizione di Cesare erano così dislocate: 8 legioni in Gallia Transalpina (di cui 4 in Belgio e 4 tra gli Edui); 1 in Gallia Cisalpina ed 1 in Illirico.
15 Plutarco, Pompeo. Cit., LIX 2.
16 Cicerone (I secolo a.C.), Lettere ai familiari, XVI 11.
17 Cesare (I secolo a.C.), La guerra civile, I 2,6.
18 Cesare, Cit., I 5,3.
L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (terza ed ultima parte)
È ancora Cicerone — nelle lettere che indirizza all’amico Attico — che svela le intenzioni di Pompeo e delinea l’itinerario successivamente da questi compiuto nel viaggio di avvicinamento a Brindisi.
Nella prima, allega copia della lettera con cui Pompeo, trovandosi il 18 febbraio a Lucera, comunica ai consoli in carica d’aver deciso che, tranne i presidi stabiliti per la Sicilia, i restanti reparti militari devono concentrarsi a Brindisi, per essere poi di lì trasportati con le navi a Durazzo («reliquae copiae omnes brundisium cogerentur et inde navibus Dyrrachium transportarentur»)33. Li esorta pertanto a radunare tutti i contingenti militari possibili e di raggiungerlo quanto prima («Vos hortor ut quodcumque militum contrahere poteritis contrahatis et eodem Brundisium veniatis quam primum»)34.
Ma, come fa notare Cicerone ad Attico in una successiva lettera, a Brindisi confluisce ogni forma di ostilità futura («Brundisi autem omne certamen vertitur huius pr<ox>imi temporis»)35. Vi si dirige infatti anche Cesare, partito da Corfinio nel pomeriggio dello stesso giorno della festa dei Feralia in cui, al mattino, Pompeo s’è allontanato da Canosa («Eodem enim die video Caesarem a Corfinio post meridiem profectum esse, id est Feralibus, quo Canusio mane Pompeium»)36.
Pompeo arriva infine nella città salentina il 25 febbraio ed è sempre Cicerone a farcelo sapere. Il 18 marzo prima si lamenta con Attico di non aver niente da scrivere («Nihil habebam quod scriberem»)37, e poi redige una lunghissima lettera in cui, citando un avvenimento avvenuto il 1° marzo, ricorda en passant che Pompeo era, a quel tempo, a Brindisi già da quattro giorni. («At Kalendas Martias, cum ille quintum iam diem Brundisi esset»)38. Gli effettivi su cui può contare sono trentamila uomini («numerus est hominum milia triginta»)39 oltre a numerose navi che è riuscito ad ottenere («πλοίων εὐπορήσας τοὺς μὲν ὑπάτους εὐθὺς ἐμβιβάσας»)40 probabilmente dagli alleati orientali.
Ma nel frattempo anche Cesare si avvicina, avvalorando così le preoccupazioni di Cicerone. Ora pero può contare su una milizia ben più consistente di quella con cui aveva iniziato l’impresa. Ai veterani della XIII legione si sono uniti quelli della XII e dell’VIII e, durante la marcia, 3 altre legioni sono state costituite ricorrendo a nuove leve ed arruolando chi ha abbandonato i ranghi pompeiani41.
2.2 Cesare raggiunge Brindisi (anno 49 a.C.)
Cesare giunge a Brindisi il 9 marzo e si accampa davanti alle mura («a. d. VII Idus Martias Brundisium veni; ad murum castra posui»)42, come comunica egli stesso ai suoi agenti Oppio e Balbo,
Pompeo è ancora in città con venti coorti mentre il grosso delle sue truppe è salpato il 4 marzo («a. d. IV nonas Martias»)43 per Durazzo insieme con i due consoli, i tribuni della plebe ed i senatori, sfruttando i venti favorevoli che da quel giorno avevano cominciato a spirare da nord («Ex ea die fuere septemtriones venti»)44. Non è per scopi strategici che Pompeo resta a Brindisi ma per banali cause di forza maggiore: le navi non bastavano a trasbordare tutte le truppe insieme ed è costretto ad attendere il loro ritorno da Durazzo per salpare a sua volta («μέχρις οὗ τὰ πλοῖα ἐπανῆλθε»)45.
Cesare, non essendo in grado di valutare come stiano effettivamente le cose, e temendo che il rivale possa avere l’intenzione di occupare la città per presidiare le rotte del basso adriatico, decide di bloccare l’uscita e le attività del porto («exitus administrationesque Brundisini portus impedire institui»)46. In questo modo, come egli stesso chiarisce al nipote (o pronipote) Quinto Pedio in una lettera poi finita nel carteggio di Cicerone con Attico, vuole obbligare Pompeo a portar via quanto prima le truppe che tiene a Brindisi oppure intrappolarlo («ut aut illum quam primum traicere quod habet Brundisi copiarum cogamus aut exitum prohibeamus»)47.
Che però Pompeo non intenda tenere Brindisi è evidente dalla circostanza che non abbia fatto presidiare i litorali prospicienti il canale di accesso al porto interno, lasciando così del tutto sguarnita la città dalla parte del mare. Sa infatti che Cesare non dispone al momento d’una flotta, per cui ritiene che nell’immediato non possa creare eccessivi problemi per quella via.
Tuttavia Cesare è noto per l’imprevedibilità e, nonostante le incertezze manifestate, ha in realtà tutta l’intenzione di avere uno scontro con il rivale per risolvere entro breve la faccenda. Ne intravede la possibilità in quelle coste che ha preso con facilità e che gli possono consentire, bloccando il canale di comunicazione tra porto interno e porto esterno, di chiudere il rivale in una trappola senza via d’uscita. Solo deve fare in fretta, per non dare il tempo alla flotta di Pompeo di venire in suo soccorso. Per questo dà subito inizio ai lavori di sbarramento del canale.
Dapprima fa gettare massi per creare un terrapieno nel punto in cui l’imboccatura del porto è più stretta ed il mare è poco profondo («Qua fauces erant angustissimae portus, moles atque aggerem ab utraque parte litoris iaciebat, quod his locis erat vadosum mare»)48. Dove la profondità delle acque non può invece reggere un argine, fa collocare, come prolungamento, coppie di zattere quadrate larghe 30 piedi49, tenute ferme da àncore collocate ai quattro angoli in modo che non siano spostate dai flutti («Longius progressus, cum agger altiore aqua contineri non posset, rates duplices quoquoversus pedum XXX e regione molis collocabat. Has quaternis ancoris ex IV angulis destinabat, ne fluctibus moverentur»)50. Congiunge poi a queste zattere altre di pari grandezza ricoperte di terra e di altro materiale per passarci sopra con facilità e accorrervi per la difesa («alias deinceps pari magnitudine rates iungebat. Has terra atque aggere integebat, ne aditus atque incursus ad defendendum impediretur»)51. Come protezione pone sui lati esterni graticci e plutei52 («A fronte atque ab utroque latere cratibus ac pluteis protegebat»)53; infine, per ogni gruppo di quattro zattere, fa innalzare torri a due piani per difenderle da attacchi con le navi e da tentativi d’incendio («in quarta quaque earum turres binorum tabulatorum excitabat, quo commodius ab impetu navium incendiisque defenderet»)54.
Come vedremo in seguito, lo sbarramento non produsse l’effetto sperato, malgrado ciò l’episodio è tuttora ricordato dai cronisti in quanto è convinzione comune che sia stato la causa principale dei grossi problemi di impaludamento cui andò incontro il porto di Brindisi. Nel periodo di dominazione spagnola, infatti, il porto interno brindisino era più simile ad una palude che ad uno specchio di mare, risultando di fatto inaccessibile ai vascelli. Di tale stato di cose Pigonati, tenente colonnello del Genio dell’esercito borbonico, incaricato di ripristinarne l’agibilità, addossò tutta la colpa a Cesare, dimenticandosi che il porto aveva funzionato senza problemi di sorta per mille e più anni dall’evento narrato55. La cosa singolare è che tale opinione abbia superato i secoli e risulti tuttora diffusa, in aggiunta ingigantita con artifizi narrativi ancor meno credibili, del tipo quello che imputa al condottiero romano l’aver addirittura spianato le colline della fascia costiera per procurarsi i massi necessari a chiudere il canale.
Per altro non è che Pompeo lascia fare senza reagire: a sua volta fa allestire grandi navi da carico, su cui innalza torri a tre piani riempite di macchine da lancio e di ogni genere di proiettili («naves magnas onerarias… adornabat. Ibi turres cum ternis tabulatis erigebat easque multis tormentis et omni genere telorum completas»)56, che poi scaglia contro le opere di sbarramento di Cesare per scompaginare le zattere e disturbare i soldati al lavoro («ad opera Caesaris adpellebat, ut rates perrumperet atque opera disturbaret»)57.
Ci sono così scaramucce quotidiane con attacchi a distanza compiuti con armi da lancio e, proprio quando Cesare è arrivato a metà della sua opera («Prope dimidia parte operis a Caesare effecta»)58, rientrano a Brindisi, rimandate da Durazzo, le navi che hanno lì trasportato la prima parte dell’esercito («naves a consulibus Dyrrachio remissae, quae priorem partem exercitus eo deportaverant, Brundisium revertuntur»)59.
Pompeo può quindi prepararsi a partire. Guardato però con scarso favore dai brindisini.
3.1 Pompeo salpa da Brindisi (anno 49 a.C.)
Ora che le navi sono tornate ed i venti sono favorevoli per levare l’ancora, Pompeo non ha motivo di rimanere a Brindisi e così affretta i preparativi. Come riferito da Mazio e da Trebazio a Cicerone, la sera stessa del 17 marzo, giorno del ritorno della flotta da Durazzo, Pompeo lascia Brindisi con tutte le truppe a disposizione («Ante diem XVI Kalendas Apriles cum omnibus copiis quas habuerit profectum esse»)60.
Prima di andarsene, s’è però premunito d’impedire che il nemico possa irrompere in città mentre è in atto la partenza. Dopo aver ordinato ai brindisini di stare calmi nelle loro case («τοὺς δὲ Βρεντεσίνους ἀτρεμεῖν κατ’ οἰκίαν κελεύσας»)61, fa barricare le vie e le piazze; fa scavare fosse in senso trasversale alle vie e vi fa piantare dentro pali e tronchi con la punta aguzza. Poi ricopre i buchi con sottili graticci e terra, livellando il terreno («vicos plateasque inaedificat, fossas transversas viis praeducit atque ibi sudes stipitesque praeacutos defigit. Haec levibus cratibus terraque inaequat»)62. Rende in seguito inagibili le vie d’accesso e le due strade che, al di fuori della cerchia delle mura, conducono al porto sbarrandole con travi molto grandi e bene appuntite, conficcate nel terreno («aditus autem atque itinera duo, quae extra murum ad portum ferebant, maximis defixis trabibus atque eis praeacutis praesepit»)63. Lascia praticabili soltanto due vie delle quali si serve per scendere al mare («καὶ σκολόπων ἐνέπλησε τοὺς στενωποὺς πλὴν δυεῖν, δι’ ὧν ἐπὶ θάλατταν αὐτὸς κατῆλθεν»)64.
Quando ha imbarcato il grosso della truppa sulle navi, fa lanciare un segnale per i soldati che sono di guardia alle mura e questi scendono rapidamente verso il mare, montano a bordo e consentono alla flotta di salpare per la sponda opposta («τοῖς δὲ τὰ τείχη φυλάττουσιν ἐξαίφνης σημεῖον ἄρας καὶ καταδραμόντας ὀξέως ἀναλαβὼν ἀπεπέρασεν»)65.
Pompeo abbandona così Brindisi sul fare della notte.
Cesare comprende dalle mura deserte che il rivale gli sta sfuggendo. Ordina che vengano scalate e poco manca che, nella fretta, i suoi soldati non rimangano vittima dei pali nascosti nelle fosse che Pompeo aveva fatto scavare. Sono i brindisini, schieratisi apertamente a favore di Cesare, ad avvertirlo ed egli evita così di attraversare la città («τῶν δὲ Βρεντεσίνων φρασάντων φυλαττόμενος τὴν πόλιν»)66. Già quando si svolgevano i preparativi della partenza essi avevano incominciato a fare segnalazioni dall’alto dei tetti («ex tectis significabant»)67. Ora li guidano su un percorso più lungo sino a farli giungere incolumi nei pressi del porto («sed moniti a Brundisinis, ut vallum caecum fossasque caveant… et longo itinere ab his circumducti ad portum perveniunt»)68.
Ma, quando vi giungono, è ormai l’alba e le navi di Pompeo sono in mare aperto; Cesare, privo com’è di un qualsiasi supporto navale, non può che guardarle impotente allontanarsi all’orizzonte. Fallisce in questo modo il suo tentativo di avere uno scontro decisivo con il rivale e di annientarlo, quand’egli era ancora a Brindisi, così da porre termine al conflitto già sul suolo italico («Ὁ δ’ οὖν Καῖσαρ σπουδὴν μὲν εἶχε συμμῖξαί τε αὐτῷ, πρὶν ἐκπλεῦσαι, κἀν τῇ Ἰταλίᾳ διαπολεμῆσαι, καταλαβεῖν τε αὐτὸν ἐν τῷ Βρεντεσίῳ ἔτ’ ὄντα»)69.
L’abilità di Pompeo ha avuto in questa circostanza il sopravvento e il mancato scontro va in definitiva tutto a suo vantaggio; non a caso, questo suo ripiegamento dall’Italia sarà ricordato come una delle sue manovre belliche meglio riuscite («Οἱ μὲν οὖν ἄλλοι τοῦ Πομπηΐου τὸν ἀπόπλουν ἐν τοῖς ἀρίστοις τίθενται στρατηγήμασιν»)70.
A Cesare non resta che consolarsi con la cattura di due navi impigliatesi negli sbarramenti costruiti a prezzo di notevoli sforzi («duasque naves cum militibus, quae ad moles Caesaris adhaeserant»)71. Un bottino invero ben misero a fronte dell’impegno profuso nei nove giorni d’assedio, dove ha cercato invano d’impedire la partenza di Pompeo con tutti i mezzi possibili («Hos frustra per omnis moras exitu prohibere conatus»)72.
La delusione che traspare da questo passo di Svetonio è palese, tuttavia la conclusione non è poi tanto lontana: alla fine dell’anno, Cesare ritornerà a Brindisi per attraversare finalmente l’Adriatico e chiudere una volta per tutte i conti con il rivale.
Note
33 Cicerone, Cit., VIII 12A, 3.
34 Cicerone, Cit., VIII 12A, 4.
35 Cicerone, Cit., VIII 14, 1.
36 Cicerone, Cit., VIII 14, 1. I Feralia era la festa dedicata agli dèi Mani che si svolgeva il 21 febbraio.
37 Cicerone, Cit., IX 10, 1.
38 Cicerone, Cit., IX 10, 8.
39 Cicerone, Cit., IX 6, 3.
40 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 2.
41 Defezionarono dalle fila di Pompeo, passando con le milizie di Cesare, un numero imprecisato di coorti di Azio Varo (cesare, Cit., I 13, 4), la maggior parte delle dieci coorti di Lentulo Spintere (cesare, Cit., I 15, 3), le sette di Quinto Lucrezio e di Azzio Peligno (cesare, Cit., I 18,4), buona parte delle coorti di Domizio (cesare, Cit., I 23, 5) e le tre di Rutilio Rufo (cesare, Cit., I 24,3). In definitiva circa 26 o 27 coorti, come dire tre legioni scarse, cambiarono di campo. Si ricorda che una legione, composta da 10 coorti, aveva una consistenza ideale di 6000 uomini che, nella realtà, non superava in media le 4500 unità, destinate peraltro a ridursi con il protrarsi dell’evento bellico.
42 Cicerone, Cit., IX 13A, 1.
43 Cicerone, Cit., IX 6, 3
44 Cicerone, Cit., IX 6, 3. Si deve tener presente che il calendario era essenzialmente di carattere lunare sicché c’era una differenza tra calendario e stagioni che comportava uno sfasamento di circa un mese. All’inizio di marzo non si era quasi in primavera ma in inverno inoltrato, stagione questa in cui si evitava, a quei tempi, di affrontare viaggi in mare aperto.
45 Dione (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia romana, LXI 12, 3.
46 Cesare, Cit., I 25, 4.
47 Cicerone, Cit., IX 14, 1.
48 Cesare, Cit., I 25, 5.
49 Circa dieci metri.
50 Cesare, Cit., I 25, 6-7.
51 Cesare, Cit., I 25, 8.
52 I plutei erano ripari in legno di forma semicircolare o ad angolo retto, montati su tre ruote.
53 Cesare, Cit., I 25, 9.
54 Cesare, Cit., I 25, 10.
55 Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando, Michele Morelli, Napoli, 1781. Nella prefazione si può leggere: «Il porto celebre di Brindisi, soffrì nei tempi della Repubblica per l’assedio fatto da Cesare, e per la chiusura di due bracci che turarono l’entrata… il gran male lo produssero que’ bracci».
La vivacità caratteriale ed espressiva del nostro è confermata pure da quanto subito dopo fa dire al lettore dal suo stesso libro …
Dopo tre facciate dedicate all’imprimatur è l’autore, questa volta, a rivolgersi al libro con un sonetto.
Subito dopo e prima dell’inizio dell’agiografia vera e propria il volume presenta alcuni componimenti in lode dell’autore (è la prassi in libri di quell’epoca). Risparmio al lettore ulteriori trascrizioni e commenti ma non posso fare di riportare l’intestazione di quattro di loro.
1)
2)
3)
4)
Quanto riportato consente di trarre, oltre le precedenti, altre informazioni interne. In 1 e 3 si legge un Onofrio Guido, in cui Guido potrebbe essere il cognome del nostro autore. Che egli poi godesse di un certo prestigio lo dimostrano i nomi degli autori delle poesie celebrativi, che non sono personaggi qualunque . Per Francesco Prato non è fuori luogo pensare alla nobile famiglia leccese, il cui più famoso rappresentante era stato Leonardo, cavaliere di Rodi, baglivo di Venosa, governatore di Capitanata e Molise, morto in combattimento nel 1511. Sia o non sia parente del famoso cavaliere, il nostro dovrebbe essere il Francesco Prato annoverato tra i soci dell’Accademia leccese dei Trasformati (fondata da Scipione Ammirato nel 1559 e restaurata da Camillo Palma nel 1605)1. Non lasciano dubbi, invece, gli altri e cioè Antonio Martena, Angelo Gorgoni e Padre Bonaventura da S. Pier di Lama. Il Martena fece parte anche lui dell’Accademia leccese dei Trasformati. Il Gorgoni (†1684) fondò in Galatina nel 1637 l’Accademia dei Risoluti e dopo quella degli Irrisoluti ; di lui il fratello pubblicò postuma l’opera della quale segue il frontespizio.
Anche questa volta è lo stesso frontespizio a fornirci l’informazione che l’opera è dedicata a Francesco Maria Spinola e tra i suoi titoli si legge Duca di S. Pietro in Galatina, Conte di Soleto ed utile Signore delle Terre di Borgagne, Noe [oggi Noha], Padulano , Pisanello [questi due ultimi erano casali tra Galatina e Cutrofiano] &c. Inoltre c’è da ricordare che la famiglia Spinola, come la Grimaldi, era originaria di Genova; cpsì il circuito tra la città ligure e il Salento si chiude.
Padre Bonaventura da Lama, infine, pubblicò la Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della provincia di S. Nicolò.
A p. 34 si legge: Nell’anno 1656 à 24 di Giugno, in Gravina fu eletto per Provinciale il P. Onofrio da Corigliano. Si può pensare che personaggi di tale levatura e notorietà ci avrebbero messo la faccia (il Martena e il Gorgoni, addirittura, con due componimenti ciascuno) se avessero considerato un mediocre il nostro autore?
I fili che collegano i protagonisti di qualsiasi storia (intesa anche nel senso più comune e banale di racconto) possono essere spessi, complicati, tenaci; altre volte, ed è questo il nostro caso, sottili, labili, direi occasionali.
Ci portiamo nel XVII secolo e partiamo da Castrignano dei Greci, dove visse Padre Onofrio, del quale nulla sapremmo senza il frontespizio dell’unica sua opera pervenutaci, reperibile all’indirizzo https://archive.org/details/bub_gb_AiMgxUGR388C, da cui ho tratto le immagini che seguono.
Com’è quasi usuale nei testi a stampa di quell’epoca, il titolo è chilometrico, comprendendo, oltre ai dati cui siamo oggi abituati (nome dell’autore, titolo, nome dell’editore e data di pubblicazione (poi, fra dediche, patrocini, prefazioni, intrafazioni …, postfazioni, poco ci manca che all’interno non compaia anche il colore preferito dall’autore per le sue mutande), una serie di informazioni, molte delle quali mi hanno consentito di dare il titolo al post.
L’opera: s’inquadra nel filone delle agiografie, particolarmente fertile nel XVII secolo. Di S. Saba ce ne sono parecchi, ma qui il protagonista è S. Saba archimandrita nato a Cesarea in Cappadocia nel 439 e morto nel monastero di Mar Saba, uno dei tanti da lui fondato, presso Betlemme.
L’autore: frate francescano, teologo, lettore, predicatore generale (quest’ultimo titolo non veniva conferito a chiunque, presupponendo il possesso di preparazione teologica e capacità dialettica e retorica; nemmeno mi azzardo a formulare giudizi sul teologo, ma sul dialettico e retore addurrò elementi che ne mettono inluce le capacità..
La dedicataria: Brigida Grimaldi, figlia di Pier Francesco e di Aurelia Lomellini Granada, sposò nel 1644 Michele Imperiali, principe di Francavilla e marchese di Oria.
Lo stemma della dedicataria: quello della famiglia Grimaldi. Ecco come esso si presenta in alcuni manoscritti conservati presso la Biblioteca Universitaria Estense a Modena.
1) Giacomo Fontana, Insegne di varii prencipi et case illustri d’Italia e altre provincie (1605)
2) Angelo Maria da Bologna, Araldo nel quale si vedono delineate e colorite le armi de’ potentati e sovrani d’Europa (inizi del XVIII secolo)
Nell’immagine comparativa che segue lo stemma del frontespizio appare come una via di mezzo tra il n. 5 e quello dell’attuale principato di Monaco.
Dati editoriali: editore Pietro Micheli; luogo di edizione Lecce; anno di edizione 1681. Pietro Micheli, di origini francesi (era nato in Borgogna nel 1600) fu il primo stampatore autorizzato a Lecce, con monopolio assoluto dal 1631 al 1688, quando l’impresa fu rilevata dagli eredi.
Dopo aver passato in rassegna tutti i dati del frontespizio a giustificazione del titolo che, come ho detto all’inizio, ho voluto dare al post, mi pare opportuno ritornare all’autore. Doveva essere un bel caratterino, come si deduce dalla dedica, della quale riproduco le pagine originali con a fronte la trascrizione, espediente per aggiungere le mie note. Anticipando il mio giudizio complessivo dico che le scontate forme di cortesia, i richiami mitologici e lo stile ampolloso non appaiono come un tributo passivo agli strumenti espressivi tipici dell’età barocca; e tutto questo grazie alla parola a tratti energica ed alle metafore non stucchevolmente ingegnose.
«Due fiumi –il Tagliamento e il Piave- scorrono sulle strade del sud a denominare il luogo (e il tempo) delle proprie radici, una mesopotamia dell’anima. In queste poesie d’amore e di lontananza l’eccitazione congiunge –attenta o straniata- gli argini e i deserti. La scrittura si fa rappresentazione scenica. E i versi fotogrammi rapidi, movimenti di sequenze filmiche immersi in imprimiture poetiche, che custodiscono un mondo reale e iperbolico- e ferito. Il poeta si abbandona al fluire delle impressioni, delle immagini, delle descrizioni. E i dettagli allargano l’affabulazione, che lo avvolge e incanta-e rattrista» (Giuseppe Rizzo).
Antonio Tarsi, Alla confluenza di due fiumi-Poesie, Tharsys edizioni, giugno 2016, A/5, 132 pp.
Antonio Tarsi, docente di “Materie Letterarie e Storiche”, Laurea in “Storia del cinema”, con una tesi su Paolo e Vittorio Taviani, Giornalista Pubblicista, Membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, si occupa di Storia e Critica del Film, Teatro e Poesia. Tra i suoi lavori Il cinema di Paoloe Vittorio Taviani, Lacaita, Manduria 1978 ; Film 1966-1986, Milella, Lecce 1985; Cinema e sessantotto, Capone, Cavallino-Lecce 1988; La luce filmica e il suo ascolto, in Voci dell’ascolto, a cura di Giuseppe Rizzo, Marietti, Genova 1992; Pupi Avati o della sostenibile leggerezza del film d’autore in Il cinema italiano degli anni ottanta…ed emozioni registiche, a cura di Vincenzo Camerino, Manni, Lecce 1992 ; Il cinema di Krzysztof Kieslowski, Barbieri, Manduria, 1993 ; San Giuseppe da Copertino nel cinema e nel teatro, Panico, Galatina 2004; Alla confluenza di due fiumi-Poesie, Tharsys Edizioni, Copertino 2016; Meraviglie di Fra Lucio da Corsano, Tharsys Edizioni, Copertino 2016; Film-maker indipendente, ha realizzato Da scene di vita politica ( 1970 ), Salento-Roma ( 1973 ), I pescatori svizzeri ( 1975 ) Disabili un problema irrisolto ( 1983 ), Delitto ( 1993 ), Giuseppe Desa ( 2004 ).
Dal titolo delle presenti note, fanno capolino, non casualmente bensì in funzione dei contenuti e, specialmente, delle figure che, man mano, trovano anima e sviluppo, due singolari esemplificazioni di nomignoli o soprannomi, caduti e attaccatisi, secondo il lessico paesano, su determinate famiglie e/o persone.
Invero, da queste parti, siffatto genere di processo identificativo è più frequentemente veicolato da una coppia di precipue lettere minuscole dell’alfabeto precedute dal segno d’apostrofo, ‘u e ‘a, a seconda che ne segua un’accezione maschile o femminile, che si avvalorano e sostanziano in un caso, alla buona, indicante appartenenza o provenienza.
Qui, come dianzi accennato, la circostanza è però inconsueta, giacché gli appellativi menzionati sono, nell’ordine, in collegamento niente più che con un nucleo famigliare, contraddistinto da capigliatura spiccatamente riccia e un altro nucleo, proprietario di un piccolo fondo agricolo, denominato “Fiore”, che si raggiunge percorrendo Via Murtole in direzione della contermine località di Andrano.
Compiuta questa necessaria premessa e procedendo in un certo ordine logico, la rievocazione narrativa prende l’abbrivio da un’immagine a me particolarmente vicina e cara, ossia a dire quella dell’indimenticabile e dolce nonna materna, Lucia Frassanito, la cui famiglia d’origine e appartenenza era conosciuta e indicata, appunto, con la designazione di Capirizzi e Capirizze.
La predetta mia ascendente, insieme a nonno Giacomo, mise al mondo sei figli, fra maschi e femmine, con mia madre Immacolata primogenita, ma non è su di lei che intendo qui riferire, salvo che per il piacere di ricordarla in veste d’ideatrice, promotrice e protagonista di una minuscola joint venture, operante nell’ormai distantissima stagione della mia fanciullezza.
Nella sua famiglia era sempre allevata una capretta, dalla cui mungitura, è chiaro, si ricavava, quotidianamente, un quantitativo di latte risicato, assolutamente insufficiente per mettersi a trasformarlo in formaggio.
E, però, la brava donna, rimediava all’esigua produzione propria, mediante un accorgimento concordato con le famiglie del vicinato, anch’esse proprietarie di un capo ovino per ciascuna.
Un determinato giorno, gli allevatori, praticamente consorziatisi sulla parola, erano chiamati a conferire le rispettive produzioni, in blocco, alla famiglia X, il giorno seguente a un ‘altra e così via.
In tal modo, presso ciascun nucleo, veniva a concentrarsi, ogni volta, un’apprezzabile raccolta di bianco liquido, bastante per ricavarne, attraverso una lenta operazione di bollitura e con l’ausilio del caglio naturale, una piccola forma di formaggio.
Muovendo un passo indietro, nella povera abitazione a piano terra più un camerino sulla terrazza destinato al sonno e al riposo dei figli maschi, in vico Maggiore Galliano, nei pressi della piazza e della Chiesa Matrice di Marittima, nonna Lucia, da giovane, viveva insieme con i genitori Vitale e Grazia, le sorelle Cristina, Peppina e Teresina e i fratelli Michele e Cosimo.
Tutti i Frassanito marittimesi esercitavano indistintamente, per tradizione, il mestiere di muratore; così era, quindi, anche per il mio bisnonno (tataranne) Vitale, il quale, da esperto, aveva realizzato due piccoli monoliti in pietra leccese, con spigoli smussati e arrotondati, sistemandoli sulla terrazza di casa, a guisa di base d’appoggio per la ramificazione e la crescita, aiutate da fili di ferro incrociati, di una pianta di vite che, dal livello stradale, era lentamente salita sino a raggiungere il piano di copertura dell’abitazione.
A distanza di molti decenni, l’immobile in questione ebbe a passare di mano, quanto a titolarità, e a subire radicali modifiche, tuttavia uno di quei preziosi manufatti in pietra leccese è stato recuperato e conservato da una persona intelligente e fa ancora bella mostra di sé all’interno di una moderna dimora marittimese.
° ° °
Cristina “capirizza” (per mia madre e per me, zia), a sua volta, si maritò con tale Vitantonio Cerfeda ed ebbe sei figli, un maschio e cinque femmine, nominativamente Immacolata, Adelina, Maria, Annunziata, Agnese e Vitale.
Una famiglia che, evento non frequente, finì con l’integrarsi, se non in toto, in misura preponderante, con i componenti di un vicino nucleo o focolare, quello di Vitale e Pasqualina Nuzzo, soprannominati i “fiori” (oppure ‘u fiore) di cui al titolo; anche lì, sei figli, però cinque maschi e una femmina, ovvero Toto, Pippi, Fiore (addirittura un nome di persona derivato dall’attaccamento del capofamiglia al suo fondo agricolo), Uccio, Tereso e Tetta.
Ciò, giacché le prime quattro “capirizze” dell’elenco divennero mogli dei primi quattro “fiori” e, altro particolare non comune, andarono ad abitare in quattro nuove abitazioni, appositamente fabbricate, attaccate in progressione lungo un comune viale e fronteggiate da distinti eguali orti/giardinetti.
Un tempo, erano strettissimi, si può dire a livello di fratelli e sorelle, i legami intercorrenti tra cugini, perciò mia madre Immacolata era un tutt’uno con la sua omonima cugina, sposatasi con Toto ‘u fiore.
Detta cugina, oltre a governare la casa, si occupava di cucito e, in special modo, del confezionamento di copri letti imbottiti di bambagia, quelli che oggi sono definiti piumoni
o trapunte, mentre, allora, si parlava di imbottite.
In occasione del nostro matrimonio, anche mia moglie ed io ci rivolgemmo a lei per farci fare la nostra imbottita, accessorio che conserviamo gelosamente, non tanto per uso concreto, quanto come valore e ricordo affettivo.
Ancora, l’ho appreso di recente, mia sorella Teresa ha fatto capo al di lei marito, Toto ‘u fiore, per piastrellarela sua grande cucina.
L’intenso legame fra le due Immacolata ha avuto per seguito un bel rapporto fra i rispettivi discendenti, secondi cugini fra loro; così è avvenuto relativamente a me e a Vitantonio, primogenito di Immacolata e Toto. Quasi coetanei, verso la fine degli anni cinquanta, abbozzammo, contemporaneamente, innocenti filarini con due ragazze di Castro, poi entrambi iniziammo a lavorare e mettemmo su famiglia, tuttavia, nonostante risiedessimo in località distanti, il bel sodalizio continuò.
Vitantonio, chiamato Uccio – come si legge in una narrazione dell’amico e scrittore marittimese Giuseppe Minonne, anche lui cugino di Toto ‘u fiore e, dopo la morte della madre, le seconde nozze del padre e l’arrivo della “mamma nuova” non propriamente gradita e accettata, frequentemente ospite, insieme con due sorelle, nella relativa casa e nel fondo “Fiore” – fece in tempo a far conoscere al vecchio nonno paterno Vitale la sua primogenita Olga.
Dopo di che, purtroppo, a Uccio restò una breve vita, in quanto, ad appena quarantuno anni, finì i suoi giorni in un paese lontano dove s’era temporaneamente trasferito per ragioni di lavoro.
Uccio, un ragazzo e un uomo eccezionalmente a modo, d’oro si può affermare. A breve distanza dalla sua scomparsa, ritornato a Marittima per le ferie, mi recai a casa dei suoi genitori e abbracciai la sua mamma Immacolata, dicendole solamente: “Era il migliore di tutti noi”.
Uccio se n’è andato, ma conservo vivo nella mia mente, e tengo a rivederlo ogni tanto nella casa di tutti fra i cipressi, il suo sereno sorriso.
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Un’altra sorella di nonna Lucia, Peppina “capirizza”, si maritò con tale Carmine Sergi di Andrano e, dalla loro unione, nacque Rocco.
Quest’ultimo, sin da piccolo, più che nei confronti dei famigliari del ramo paterno, ebbe viva predilezione e forte affetto per i nonni, gli zii, le zie, i cugini e le cugine marittimesi, capirizzi e capirizze e pure per i rispettivi discendenti.
Rivedo Rocco, sebbene anche lui manchi da decenni, nell’atto di accogliere me e mia moglie che, ogni anno, compivamo una puntata ad Andrano in occasione della festa patronale della Madonna delle Grazie. Passavamo davanti a casa sua e ci salutavamo con ardore.
Puntuale la mia domanda: “Rocco, tua moglie Pasqualina, dov’è, come sta?” e lui a rispondermi sistematicamente, dando prova di delicatezza, affetto e rispetto per la consorte: “Rocco, la mia signora (da notare, non diceva mia moglie) è già andata avanti e mi sta aspettando all’esterno della chiesa per la processione della Madonna”.
Altra chicca che mi giunge alla memoria e mi sembra indicativa, Rocco Sergi ha avuto tre figli, Peppino, Lucia (divenuta suora) e Uccio. Il nome di battesimo dato alla figlia rispecchia, si pensi, quello della seconda moglie del padre Carmine, rimasto vedevo di nonna Peppina Frassanito “capirizza” e convolato successivamente a seconde nozze con una donna di Spongano chiamata Lucia.
Questo dimostra che, anche con una matrigna o con un patrigno, i nati di primo letto possono intrattenere buoni rapporti, sino, addirittura, come avvenuto in questo frangente, a dedicar loro il nome di un figlio.
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Venendo ora ai “capirizzi” Michele e Cosimo Frassanito, fratelli di nonna Lucia, atteso che, riguardo al primo, ho già avuto modo in passato di intrattenermi, tratteggiandone la figura e la carriera attraverso il racconto “Il mare di Meris” (Meris, sua unica figlia), incluso nella mia raccolta “Quando il gallo cantava la mattina” del 2012, qui mi concentro sul secondo, Cosimo, il quale, oltre che col nomignolo di “capirizzo”, era appellato “Cosimu longu” a motivo della sua elevata statura.
Zio Cosimo, sposato con zia Costantina, agli antipodi rispetto al fratello, era al vertice di una famiglia numerosa, ben otto figli (Antonietta, Elvira, Rita, Maria, Gino, Vitale, Eugenio e Franco), generati in un arco di tempo abbastanza ampio, al punto che l’ultima della nidiata, Maria (classe 1945), era più giovane del primo figlio avuto dalla sorella Antonietta.
Dimoravano in due abitazioni attigue a piano terra e primo piano, i predetti germani, immobili ora di proprietà, rispettivamente, di una coppia marittimese e di un noto personaggio televisivo.
Così gemelle e attaccate le case, così diverse e distanti le strade e le vicende esistenziali di Michele e Cosimo.
Il primo, sottufficiale di carriera in Marina, in giro per il mondo sino alla Cina, una lunga permanenza in Istria quando la medesima era territorio italiano, vita oltremodo tranquilla e senza scosse.
Al contrario, il secondo, zio Cosimo, peraltro sempre legatissimo e affezionato ai famigliari e parenti, ebbe invece a trovarsi coinvolto in un episodio di cronaca nera, l’uccisione di un compaesano marittimese, di cui gli fu fatto carico in concorso con il suocero, con lo sbocco anche, di un lungo periodo di detenzione.
La vicenda segnò un colpo devastante, non solo per lo zio Cosimo, ma pure per l’intera sua famiglia, che preferì lasciare Marittima e trasferirsi in una cittadina del Brindisino, avendo lì agio di contare su maggiori possibilità di lavoro.
Alcuni dei “capirizzi” così emigrati non ci sono più e, però, quelli che esistono ancora, abitanti a Mesagne o in altre località (mi è stato riferito che l’ultimogenita Maria vive a Megève, in Francia), sono rimasti fortemente legati alle loro origini. Un paio d’anni fa, in una rapida puntata da queste parti, hanno insistito con un parente al fine di ottenere una foto dell’insenatura “Acquaviva” così come si presentava negli anni cinquanta.
Un sito a loro carissimo e rimasto nel cuore, giacché, al pari dello zio Michele, il loro genitore possedeva una porzione del Bosco dell’Acquaviva, da dove erano soliti scendere a piedi per sostare e fare i bagni estivi nelle cristalline e fresche acque dell’amenissimo seno.
La Giornata della Memoria delle vittime meridionali del Risorgimento interroga la storia del processo unitario
Pasquale Soccio, gra…nde letterato garganico del Novecento, scriveva che il Daunus pauper acquae di Orazio e «i briganti dell’arsa Puglia» di Carducci, irrompevano « nel mondo della nuova storia, divenendone per un lustro attori e protagonisti di primo piano».
Ora non è più ammissibile ritenere che i briganti del Sud siano stati sic et sempliciter ladri e assassini. Essi si mossero alla rivolta spinti da condizioni di vergognosa e ignobile ingiustizia sociale, relegati all’ultimo stadio della società civile.
Usare il termine «civile» per indicare le condizioni di vita del ceto subalterno, costituito in gran parte da braccianti, da contadini, da artigiani pressati e compressi da strutture ancora feudali, notevolmente aggravate con l’avvento dei Savoia e mantenute in essere da una classe privilegiata di galantuomini senza scrupoli alleata con il nuovo potere, è solo un eufemismo spregiudicato.
Meglio usare il termine «barbaro» per rappresentare lo status di vita di piccoli contadini e braccianti senza terra, che subito dopo l’occupazione dei Savoia si rivoltarono contro un consolidato e secolare sistema di prevaricazione e di prepotenze che i Borbone si erano, perlomeno, preoccupati di controllare e indebolire.
Le rivolte delle masse contadine, iniziate già nell’estate 1860, furono dettate da secolari motivi di contrasto con la nobiltà e con la subentrata borghesia agraria a causa delle questioni demaniali, inerenti principalmente l’uso e la proprietà dei terreni demaniali usurpati e la reintegra negli usi civici negati. E, comunque, queste prime rivendicazioni sociali furono inizialmente prive di indirizzo politico clericale e borbonico e per lo più furono isolate, incerte, occasionali, frammentate e, quindi, facilmente reprimibili dalle truppe garibaldine e dalla Guardia Nazionale dei galantuomini.
Franco Molfese, nella Storia del brigantaggio dopo l’Unità, fatta una rassegna dei moti avvenuti durante l’estate nel Beneventano, nell’Irpinia, nel Matese, nel Vastese, nel Molise, dopo accurati studi ha concluso che «furono sommosse sporadiche, provocate perlopiù da contrasti municipali e da motivi di malcontento locali. Da questa sommaria rassegna risulta pertanto abbastanza evidente il carattere spontaneo ed ancora circoscritto dei moti dei contadini, prodottisi nelle provincie continentali liberate, fino al momento della controffensiva militare borbonica. Non è dato rintracciarvi organizzazione e direttive comuni, azioni concordate, né tanto meno obbiettivi insurrezionali; anche il colore antiunitario e filo borbonico veniva generalmente impresso ai movimenti soltanto dalla sobillazione operata dai notabili borbonici e da elementi del clero locale. Cionondimeno questi torbidi indicavano già abbastanza chiaramente qual era lo stato d’animo delle masse contadine, e quali gruppi locali riuscissero più facilmente a guidarle».
Tommaso Pedìo, rimpianto docente dell’Università di Bari, indicava sin dal 1941 come «briganti e galantuomini» fossero due classi sociali i cui contrasti avevano già caratterizzato, non solo a metà dell’Ottocento, la vita nelle province napoletane. Accusato di populismo da Giovanni Masi, ripeteva nel 1948 nel testo Brigantaggio meridionale che i briganti non erano altro che una «classe subalterna costretta a subire un sistema economico, sociale e politico che non ammette parità di diritti e di doveri tra i vari ceti sociali, i briganti si ribellano al sistema che ha sempre caratterizzato la società meridionale prima e dopo la caduta dei Borboni. Classe dirigente, egoisticamente unita nella difesa dei propri interessi, i galantuomini, difendono e mantengono, anche nel nuovo regime, la posizione preminente che, prima del 1860, avevano nella vita e nell’economia del proprio paese».
Enzo Di Brango e Valentino Romano, intellettuali di rango, nel nuovo testo Brigantaggio e rivolta di classe, riproponendo la corretta tesi di un’invasione piemontese tesa alla colonizzazione del Sud, mettono in primo piano la violenta reazione dei contadini e delle masse subalterne, qualificandola come lotta di classe.
Infatti, nella costituzione del nuovo Stato Italiano furono i proprietari terrieri della nuova borghesia agraria, eredi della tradizione feudo-nobiliare, a ricevere enormi vantaggi nella conservazione dei terreni demaniali usurpati e nell’acquisizione di nuovi. Un abuso perpetrato a discapito delle previste e legittime «quotizzazioni» dei demani, che dovevano necessariamente favorire e sviluppare la piccola proprietà contadina.
Questo atteggiamento prevaricatorio e classista irritò le già amareggiate masse rurali, spingendole sempre più alla rivolta in un tentativo illusorio di raggiungere e conquistare il riconoscimento di diritti sempre più negati, con l’intima e utopica aspirazione di diventare finalmente cittadini a tutti gli effetti, non più sfruttati dai detentori della ricchezza e del potere politico.
Atteggiamenti classisti e prevaricatori che determinarono nei decenni successivi nel Sud la manifesta sfiducia nelle principali istituzioni dello Stato, nell’amministrazione della giustizia, negli organi di controllo del fisco, negli organi di polizia, nelle istituzioni bancarie, segnalati già alcuni decenni fa da Aldo de Jaco, che nei suoi studi sul brigantaggio meridionale, pubblicati dagli Editori Riuniti nel 1969, vedeva nel Risorgimento propagandistico e agiografico dei vincitori «una pagina di storia che non si può saltare se non si vuol perdere il senso dei problemi successivi ed anche, per tanta parte, dei problemi dell’oggi del nostro paese».
Un paese in cui ancora oggi un’intera classe politica, utilizzando strumentalmente e impropriamente la forma costituzionale del partito, concorre a fondare un sistema di impunità diffuse, appropriandosi di denaro pubblico, elevando a regola fissa la difesa degli interessi privati su quelli pubblici, erigendo a sistema le clientele, affondando la meritocrazia. Un paese che, alimentando nuove ingiustizie sociali e determinando nuovi problemi economici, scarica ancora sul Sud i costi di una lunga e prolungata crisi, causata da evidente incapacità politica e da manifesta inefficienza amministrativa. Ultimo esempio lo scandalo dei concorsi universitari.
Il tentativo prolungato e ripetuto in questi ultimi 156 anni di relegare il fenomeno del brigantaggio a semplice cronaca criminale, senza indagare sulle cause che lo provocarono e senza approfondire gli effetti che ha prodotto nella società italiana, col semplice e chiaro scopo di coprire gli interessi untuosi della classe liberal-massonica elitaria al potere, è la conseguenza di una mentalità limitata, oscurantistica e negazionista, che ancora oggi produce i suoi nocivi esiti sulla vita delle attuali depauperate popolazioni del Meridione e sui corretti rapporti tra il Nord e il Sud del paese.
Rapporti e condizioni imposte con la forza che rischiano di saltare ora che le regioni Puglia e Basilica hanno promosso una Giornata della Memoria delle vittime meridionali del Risorgimento, scatenando una reazione ancora, come sempre, oscurantistica e negazionista, motivata da pseudo e false motivazioni che vedono apparire all’orizzonte un nuovo regno dei Borbone o la preoccupante organizzazione di un leghismo di matrice sudista. Semplici visioni oniriche di chi ha interesse a non affrontare seriamente la revisione storica del nostro Risorgimento.
Bisognerebbe chiedere ai docenti del Disum (dipartimento di studi umanistici) dell’Università di Bari e a quelli che hanno promosso una petizione contro la Giornata della Memoria, agli intellettuali e ai politici meridionali da sempre al servizio di interessi contrari alla loro terra, cos’altro serve raccontare perché si possano finalmente onorare le nostre ingiustamente malfamate vittime del Risorgimento.
Serve inevitabilmente una seria revisione storica del nostro processo unitario, che tolga il velo posto sui massacri perpetrati, sulle violenze subite anche da donne e bambini, sui paesi rasi al suolo, sugli incarcerati senza accusa, sui fucilati senza processo, sulla legge Pica, sulle infauste leggi fiscali e doganali che condannarono l’economia, sui milioni di emigrati condannati al destino infame di chi è costretto a lasciare la propria terra.
Dopo “L’utente potrebbe avere il terminale spento” (Edizioni Zona) del 2007, “Le facce. Dal diario del dottor Frank Saltarino. Storie di ordinaria incomunicabilità” (Edizioni Zona 2015) è il secondo romanzo di Rudy Marra, conosciuto ai più come cantautore di talento sebbene lontano dalle scene da molti anni.
Marra continua a comporre e a cantare, lontano dai circuiti promozionali ufficiali. Ma se la grande industria discografica sembra essersi scordata di lui, d’altro canto sembra che lui non ne soffra particolarmente, impegnato come è a portare in giro per l’ Italia i suoi incendiari recital concerti e affaccendato anche in altre e più private incombenze.
Il libro è un romanzo breve. Al mondo della comunicazione Rudy Marra è molto attento, anche per studi fatti: è laureato in Sociologia all’Università di Urbino. Il dottor Frank Saltarino del titolo, come spiega l’autore nella Prefazione, è uno psichiatra italo-americano, vissuto nella prima metà del Novecento, che ha lasciato un ricco diario da cui l’editore del libro attinge per questo racconto e per altri che probabilmente ne verranno. Il libro infatti sembra quasi precludere ad un seguito, ad una saga a puntate, magari, dei vari casi clinici trattati dal medico.
Il movente del libro è la confessione di un paziente del dottor Frank Saltarino, il quale, per paradosso, ma nemmeno tanto, finisce fra quegli stessi “pazzi” che egli ha avuto in cura per molti anni. Cioè, termina la propria vita in un centro di igiene mentale, vittima forse della sua professione, del logoramento dovuto al suo diuturno esercizio.
Il paziente di cui viene pubblicata la confessione è un pittore che dipinge facce sulle sue tele coi colori ad olio e che è ossessionato dalla corrispondenza dei suoi dipinti con le persone ritratte, nella tormentata ricerca di una impossibile armonia fra realtà e finzione, fra vero e verosimile. Egli vorrebbe dare vita ai propri ritratti. Allora inizia tutta una serie di sperimentazioni, sia sui materiali, che sui colori, che sugli stessi modelli, i soggetti da ritrarre, nella febbrile ricerca del vero, nella spasmodica tensione verso il ritratto perfetto.
Sullo sfondo, la New Orleans del jazz e del woodoo, di Billie Holiday e Louis Armstrong, di George Lewis e Emma Barret, con un ossessivo motivetto, St. Thomas, di Sonny Rollins, che accompagna tutta la narrazione. Fra il delta del Mississipi che attraversa il ventre della città e il Quartiere Francese dove abita il pittore, si snoda la trama allucinata del racconto, con la lunga teoria di tentativi andati a vuoto nella ricerca pittorica, frustrata dalla incipiente schizofrenia che lambisce, fino a devastare, la fragile psiche del protagonista. Così il pittore di facce inizia ad accumulare copie di copie sempre dello stesso soggetto, una grassa negra, Mamy, la sua donna delle pulizie, e queste copie diventano sempre più simili all’originale, apparentemente uguali, ma in realtà ognuna di esse contiene un lieve miglioramento, fino a quando il pittore non raggiunge il suo scopo, ossia quello di confondere l’originale con il ritratto. Ma ancora qualcosa manca, resta anche ora, seppure impercettibile ai più, una lievissima differenza, fra vero e dipinto. E questo lo porta alla dannazione.
Si avverte il richiamo di Goethe e la “Teoria dei colori” in questo racconto, ma fonte di ispirazione può anche esser stato il noto aneddoto che si tramanda su Michelangelo il quale di fronte alla perfezione delle forme del suo Mosè avrebbe gridato “perché non parli?”.
Fra fumo e birra, nella follia parossistica del pittore di facce, leggiamo questo racconto breve ma intenso, che rievoca le atmosfere di certa letteratura americana, come quella della Beat Generation, di Kerouac, di Burroughs, vagamente anche Bukowsky. In effetti la scrittura è dinamica, quasi cinematografica e il linguaggio usato, confidenziale, basso, “sporcato”, per utilizzare un termine prestato dalla musica. In effetti, potremmo definire questa scrittura, per certi versi, molto musicale, e non vi è da meravigliarsi, data la provenienza del suo autore. Che dire poi del movente che offre pretesto e contesto a Marra di scrivere questa short story, ossia la confessione di un malato di mente? A partire dall’inizio del Novecento, con le teorie di Freud, i rapporti fra letteratura e psicanalisi sono sempre stati molto stretti. Pensiamo a “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo o a “La signorina Else” di Arthur Schnitzler, connazionale di Freud e medico psichiatra come lui, autore anche di “Doppio sogno” da cui il regista Stanley Kubrick ha tratto nel 1999 il film Eyes Wide Shut. Lo stesso Freud ha analizzato questi rapporti nei suoi interessanti “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio” con uno studio psicanalitico sul romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen, le annotazioni psicobiografiche su Leonardo da Vinci e la teoria sul perturbante, e poi con il saggio “Dostoevskij e il parricidio”. Tanti gli scrittori nel corso del Novecento che hanno contratto un debito di riconoscenza con la psicanalisi, da T.S. Eliot a Stefan Zweig, da Thomas Mann a Robert Musil, da D.H. Lawrence, a Hjalmar Bergman, ma anche gli scrittori del “flusso di coscienza” come James Joyce e Virginia Woolf. Rudy Marra si inserisce in questo fortunato filone che ultimamente anche in tv sta dando i suoi frutti, pensiamo a “Mental” trasmesso in Italia da Fox, a “Perception”, sempre su Fox , o più recentemente a “In treatment”, serie italiana trasmessa da Sky.
Anche nel libro in parola si tratta di autoanalisi, come ne “La coscienza di Zeno”, un caso clinico, in cui il protagonista del racconto espone al medico curante gli accadimenti della propria vita, li scrive su un diario, e affastella tentativi di spiegare le cause che lo hanno portato a quella ossessione per i colori, e per il vero più vero, divenuta patologica. Un libro da gustare e, anche per la sua mole contenuta, leggere tutto d’un fiato.
Qualcuno penserà che il titolo sia artificiosamente architettato per avere qualche contatto in più, visto che il lettore comune è più interessato ad una ricetta di cucina o a un argomento pruriginoso che, per esempio, al commento di una poesia …
A riprova che questi mezzucci da giornalismo corrente non mi piacciono non ho corredato il post dell’immagine più appropriata, cioè L’origine du monde di Gustave Courbet custodita a Parigi al Musée d’Orsay. A questo punto vedo una frotta di ricercatori, nonostante, contrariamente al mio solito, non abbia aggiunto, volontariamente, alcun comodo link ….
Non perdo altro tempo e vi presento subito il protagonista di oggi, anzi la protagonista, e che protagonista!, visto che probabilmente essa ha cambiato molte volte la storia, ma sicuramente ha segnato, fin dalla nascita, quella di ogni essere umano: fessa.
Il dialetto salentino usa questa voce in locuzioni del tipo quiddhu è nnu fessa (quello è uno stupido) o queddha è nna fessa (quella è una stupida). Come si vede dagli esempi riportati fessa vale tanto per il maschile che per il femminile e l’individuazione del sesso del destinatario è affidato all’articolo indeterminativo che precede. A tutti gli effetti fessa si comporta come un sostantivo di genere comune (come il giornalista/la giornalista, l’insegnante/l’insegnante, etc. etc.).
Passiamo ora in rassegna le voci italiane (lemmi tratti dalla Treccani on line) che più si avvicinano formalmente e semanticamente, con un occhio particolare all’etimologia, che fornirà l’aiuto decisivo:
1) fésso1 aggettivo e sostantivo maschile [participio passato di fendere; latino fĭssus, participio passato di findĕre]. – 1. agg. a. Spaccato, diviso con un taglio; – 2. sostantivo maschile, antico o letterario Spaccatura, fessura.
2) fésso2 sostantivo maschile e aggettivo [dall’aggettivo precedente, attraverso il significato eufemistico del femminile fessa nell’Italia meridionale]. – Imbecille, sciocco.
3) fessa[femminile sostantivato di fésso1]. – Fessura; è in uso come voce popolare dell’Italia meridionale per indicare i genitali esterni femminili.
Il fessa salentino, dunque, è quello del n. 3 e l’uso eufemistico di cui si parla al n. 2 è fenomeno ricorrente, che io considero come una forma di ipocrisia linguistica. Qui l’eufemismo ha fruito della mediazione del significato, in altri casi la mediazione è di natura fonetica (cacchiu per cazzu, Matombula per Madonna, Dis per Dio,etc. etc.). Fenomeno a tutti ben noto e legato alla sessuofobia di alcune religioni è pure quello per cui parole attinenti alla sfera sessuale hanno assunto un significato spregiativo, nonostante si riferiscano a un dettaglio fisico senza il quale nessuno di noi avrebbe potuto aprir bocca a questo mondo. Basta pensare a coglione, la cui rottura oggi lamentano pure le donne, che, però, sono state apparentemente risparmiate, visto che fica ha dato fico, con significato tutt’altro che negativo; e ho detto apparentemente, perché, secondo me, più che un omaggio alla donna, è un’usurpazione a denti stretti perché l’uomo reciti la parte del protagonista oltre che nel male (settore in cui la donna fu stigmatizzata fin da quando si chiamava Eva come fonte di tentazione e di peccato) anche nel bene.
E, per chiudere col dialetto, nessuno pensi che nella locuzione la fessa ti màmmata! l’allusione diretta sia alla stupidità di una madre …
Quando un poeta scompare, restiamo sempre un po’ orfani di pensiero, di sentimento, di senso. Ancor di più se si tratta di un poeta che avrebbe avuto molto da dire, quando l’incipit equivale drammaticamente all’explicit, il prologo all’esodo, in quella corrispondenza di vita e morte che gli antichi chiamavano fatum, un concetto un po’ più ampio del nostro destino. Dum fata sinunt vivite laeti, dicevano i latini, e Cosimo Russo forse proprio consapevole di questa massima grave e leggera viveva i propri giorni serenamente, senza sgomitare, senza fretta direi, senza ansie, arrivismi, senza brama di apparire, interessi, cupidigia. Tanto appunto quando il fato si compirà, si compirà.
Russo sapeva contare i giorni di un tempo fuggitivo, snocciolarli come grani di un rosario, segnarli come su un calendario essenziale, e per fermarli li trasformava in versi, quelli che hanno la sostanza dei sogni, la concretezza dell’inutilità. Baluginanti, come il brillio del mare di FinibusTerrae, odorosi come effluvi di estati bambine, preziosi come collane di madreperla. Eppure intensi, pensosi della fine, vagamente, oscuramente presaghi. Come vaghe e oscure le ombre che di sera si allungano sulla case, come oscuri e vaghi echi quei richiami del mare al quale è cresciuto vicino. A che serve sbracciarsi, affannarsi, correre nell’assurda frenesia che tutti ci contagia, nell’odierna competizione che ci vedrà comunque sconfitti, soccombenti?
La sua vita appartata, poco devota al transeunte, può essere un monito in effetti per tutti noi, che con fatica lo raccoglieremo. Ora i suoi pensieri sono diventati un prezioso cofanetto, uno scrigno di memorie, che è questo libro, “Per poco tempo” (Manni Editore 2017), in cui già il titolo è paradigmatico di una vita spezzata, di una parabola interrotta, di un’opera autoconclusa, e quindi ancor più bella perché non ce ne sarà un’altra.
Un libro ben fatto, di cui curatrice è la madre dell’autore, Luigina Paradiso, vestale dei giorni, dei luoghi, dei sapori, degli umori, e custode di memorie lariche, di quel lessico famigliare, per dirla con Natalia Ginzburg, di quell’alfabeto poetico adoprato da Mimmo per comporre queste poesie. Versi brevi, leggeri, come la sua vita. Si può facilmente rintracciare la matrice di questa poesia nella linea poetica del Novecento, dei Montale, Rebora, Quasimodo, Gatto, Caproni. Il lirismo si compagina di una intimità sofferta, una dimensione del tragico della vita che affiora inaspettatamente anche nelle poesie più luminose, fra le pagine di questo canzoniere ricomposto. Il linguaggio di Mimmo è altamente poetico, avulso dalle problematicità dell’oggi eppure così contemporaneo, ma lontano dalla lingua dell’omologazione.
Poesia dei minimi dettagli, dell’apparizione numinosa del mondo, soprattutto nell’incontro col paesaggio, delle relazioni famigliari, amicali, sentimentali, della bellezza dolce e amara, dei silenzi, di quella sorta di hortus conclusus che era il suo microcosmo abitato da presenze rassicuranti, poesia della stessa poesia infine, in questa silloge che negli ultimi giorni è stata presentata in alcune date nel Salento, volute da Luigina Paradiso. Ecco, l’immagine più bella, che sospesa in filigrana fra le pagine del libro diventa messaggio prezioso alla fine, è proprio questa: le mani materne curano sempre, curano ancora. Quelle mani che hanno rimboccato coperte ora ricompongono pagine preziose, nel dono.
”Per poco tempo”, allora, ma, nel tempo, in questo poco tempo, Cosimo Russo ha scavato un solco, e , hic manebimus optime, continuerà a parlare a chi vorrà ascoltare. Perché la permanenza della poesia possa essere voce che continui ad abitarci.
Nardò: il Sedile l’altro ieri, ieri e oggi, con una nota pericolosa …
Anche una semplice panchina può essere oggetto di trattazione, specialmente se i segni lasciati dal tempo e dagli uomini offrono l’occasione di fare riflessioni di ordine anche antropologico, Tagli, abrasioni, ammaccature e mutilazioni in particolare dimostrano una diversa destinazione d’uso messa in atto da un dettaglio anatomico che non è certo quello legato allo stesso etimo di sedile, cioè il sedere, voce che nasce come verbo e che con l’aggiunta dell’articolo assume un valore sostantivato. Mi si farà notare che qualsiasi verbo preceduto dall’articolo assume tale valore. Vero, ma il nostro ha conservato la sua originaria autonomia; per esempio: il posto elevato da cui si gode un’ampia e suggestiva veduta si chiama belvedere, ma nessuno, dopo essersi sciacquato la vista ed essersi ripreso dalle palpitazioni, si sognerebbe di definire belsedere lo spettacolo cui ha assistito sulla spiaggia di Rio …
Sedile deriva, tal quale, dal latino sedile, sostantivo neutro che, però ha tutta l’aria di essere un aggettivo sostantivato dal verbo sedere, così come habilis/habile lo è dal verbo habere. Sedile e sedere, poi, sono corradicali di sedes, da cui è derivato il nostro sede.
Il lettore avrà notato nel titolo Sedile con l’iniziale maiuscola. Non è manifestazione dell”antico vezzo, probabilmente legato alla dominazione spagnola, che ancora oggi ci spinge a fare abuso di maiuscole per un malinteso e stupido senso del rispetto. Io, per esempio, quando ero studente universitario, trovavo ridicolo scrivere in testa ad una domanda Al Magnifico Rettore dell’Università di Lecce e alla fine, nel rispetto della grammatica, le uniche iniziale maiuscole erano quelle della preposizione articolata Al e di Lecce, perché proprio quest’ultima indicazione geografica rendeva inutile la maiuscola in università (che, oltretutto, non poteva certamente riassumere il significato antico di governo cittadino o quello obsoleto di universalità) e, a cascata, in rettore (non è che in quell’università ce ne fosse più di uno …), per non parlare di magnifico, in cui l’iniziale maiuscola sarebbe stata senz’altro da ascrivere ad un residuo del condizionamento psicologico rimasto quasi a livello inconscio (in realtà frutto di pigrizia culturale) dalla dominazione di cui ho detto prima.
In Sedile, invece, l’iniziale maiuscola ha un carattere distintivo rispetto al nome comune, perché definisce la sede più antica, di regola collocata nella piazza principale, del governo cittadino.
A questa regola non fa certamente eccezione Nardò il cui Sedile è in piazza Salandra. Nelle immagini che seguono i suoi altro ieri, ieri e oggi. Lascio al lettore cogliere le differenze, dopo aver fatto presente che la fedeltà rappresentativa di documenti visivi antichi (mappe, disegni, dipinti) è relativa.
La prima è costituita da un trittico che comprende la mappa di Nardò che Jean Blaeu pubblicò nel 1663 in Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum (Rappresentazione delle città nonché delle cose degne di ammirazione dei regni di Napoli e di Sicilia) e il dettaglio che ci interessa in due ingrandimenti progressivi.
La terza è una cartolina edita da Ernesto Franchini, libraio in Nardò, sicuramente non anteriore al 1922, come provano il REX e il DUX che si leggono, rispettivamente a sinistra ed a destra, sulla facciata principale. Purtroppo la scarsa definizione non consente di leggere il contenuto delle sottostanti bacheche, anche se è legittimo supporre che vi fossero raffigurati Vittorio Emanuele III e Mussolini1. Da notare come l’arco frontale e quello laterale risultano, a parte i vuoti della porta in entrambi e il finestrone nel primo, murati.
Agli anni ’60 dovrebbe risalire la cartolina che segue. Quanta rabbia in quel dovrebbe, per non essere riuscito a leggere il titolo del film, il cui manifesto è visibile nella bacheca oscenamente appesa all’angolo!
E siamo ad oggi (immagine tratta ed adattata da GoogleMaps). Da notare, una volta tanto, il recupero dell’aspetto più antico documentato. Chiudo con una raccomandazione: si vedono entrambi, ma lasciatevi sedurre dal Sedile e non dal sedile …, anche se fra qualche decennio qualcuno manifesterà lo stesso rammarico da me espresso a proposito del manifesto dell’immagine precedente, ma questa volta il disappunto riguarderà l’impossibilità di individuare l’identità di chi occupa la panchina.
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1 DUX e REX, uno dei tanti giochi di parole con cui il potere ha tentato, tenta e tenterà di suggestionare i cervelli e favorire l’adesione. Ieri, almeno, si scomodava il latino per ricordare, strumentalmente e, quindi, non culturalmente, i fasti (e, aggiungo io, le nefandezze dell’impero romano), oggi si utilizza l’inglese per apparire moderno e alla moda. Debbo aggiungere che il giochetto DUX/REX, pur riuscito abbastanza bene grazie al fatto che entrambi sono formati da tre fonemi costituenti un’unica sillaba e l’ultimo, in Omune, è X (dal suono maschio e secco, a parte la forma di croce), potrebbe (uso il condizionale per non attribuire a chi creò questo slogan pubblicitario un acume che, magari, non possedeva) essere non originale e blasfemo (detto da un ateo come me …). Lo slogan potrebbe essere stato ispirato dal motto DUX LUX REX LEX (Guida Luce Re Legge), riferito a Cristo, che si legge, con un ordine diverso che nulla cambia nel significato, in parecchi testi religiosi; uno per tutti: Gaspare Druzbicky, Sublimitas perfectionis religiosa uscito a Praga per i tipi dell’Università Carlo Ferdinandex, 1713, p. 163, dove si legge: Est enim sui ipsius Lux, Rex, Dux, Lex (È infatti Luce, Re, Guida, Legge. Adottato da più di un collegio religioso, è visibile anche, con diverse soluzioni grafiche, su alcune tombe; nell’immagine che segue un dettaglio della tomba di Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) nel cimitero di Mount Auburn a Cambridge (quella americana, nel Massachusetts).
Non mi meraviglierei se tutto questo fosse sufficiente per essere incriminato di apologia del fascismo, non fosse altro che per la lunghezza di questa nota . .. È questo il pericolo cui si allude nel titolo.
In anteprima pubblichiamo in versione ridotta l’articolo sullo stemma papale della chiesa di S. Giovanni Battista che apparirà prossimamente sulle pagine della rivista Nobiltà
UN LEONE RAMPANTE CON UNA FASCIA A TRAVERSO: LO STEMMA PAPALE DELLA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA DI ORIA, UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA
di Marcello Semeraro
Sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista di Oria si trova scolpito l’esemplare araldico a cui è consacrata la seguente indagine (figg. 1, 2). La presenza delle chiavi e della tiara, poste come insegne di dignità all’esterno dello scudo, indica chiaramente all’araldista che si tratta di un’arma papale, ma per l’attribuzione del manufatto è necessario conoscere la storia dell’edificio su cui esso è apposto. Scopriremo che non si tratta di uno stemma vero e proprio, o forse sì…
IL LUOGO
Il monastero e la chiesa di S. Giovanni Battista furono eretti nel 1344 per volere della baronessa oritana Filippa di Cosenza (†1348), vedova di Guglielmo dell’Antoglietta, barone di Fragagnano, la quale fece costruire sul suo palazzo paterno una sontuosa dimora per i monaci della Congregazione Celestina[1], come si ricava da una lapide commemorativa datata 1613, murata sulla parete destra della chiesa, e dallo spoglio di altre fonti storiche[2]. Si tratta di una delle primissime fondazioni celestine attestate in Puglia, seconda solo a quella di S. Eligio in Barletta[3].
L’arrivo dei Celestini in Oria coincise con il periodo d’oro della nuova Congregazione monastica, che proprio nel Trecento, sotto l’impulso della diffusione del culto di Celestino V seguita alla sua canonizzazione (5 maggio 1313), registrò il massimo sviluppo e la più ampia estensione, propagandosi anche nel Regno di Napoli, dove godette della protezione e del sostegno dei sovrani angioini[4].
Nella prima metà del XVIII secolo i monaci oritani utilizzarono parte delle loro cospicue risorse per avviare una radicale ristrutturazione che trasformò l’antica costruzione trecentesca in un grande complesso in stile barocco[5]. L’opera fu intrapresa dall’abate Oronzo Bovio e poi continuata dal suo successore Tommaso Marrese e prese la forma di un complesso di vaste e solenni proporzioni che divenne il più cospicuo della città[6]. Agli inizi dell’Ottocento la Congregazione fondata nel XIII secolo da Pietro del Morrone fu vittima delle leggi eversive napoleoniche[7]. La legge del 13 febbraio 1807, promulgata da Giuseppe Bonaparte, soppresse in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto.
A Oria il provvedimento colpì i Benedettini Cassinesi di Aversa – a cui apparteneva il santuario di S. Pietro in Bevagna – e ovviamente i Benedettini Celestini[8]. Il colpo decisivo alla loro memoria fu però inferto dal sindaco Gennaro Carissimo, che nel 1912 fece abbattere il grandioso palazzo settecentesco, trasformando quella che era una perla del barocco pugliese nell’attuale edificio scolastico[9].
Dell’antico palazzo, ammirabile in tutta la sua grandiosità in alcune preziose foto d’epoca, non restano che pochi reperti: un balcone monumentale e qualche rudere erratico conservato nella Biblioteca comunale De Pace-Lombardi[10].
Dell’imponente complesso celestino, invece, rimangono la chiesa, che dopo la soppressione napoleonica svolse funzioni diverse e che oggi non è più adibita al culto[11], e l’attuale Parco Montalbano, un suggestivo giardino pensile risalente alla prima metà del Settecento.
LO STEMMA PAPALE
Lo stemma in questione, di grandi dimensioni, venne collocato al termine dei lavori costruzione della facciata settecentesca voluta dall’abate Tommaso Marrese nel 1718[12]. Timbrato da una tiara priva di infule e accollato alle chiavi petrine decussate, di cui restano solo le impugnature[13], lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata e raffigura al suo interno un leone rampante attraversato da una fascia diminuita (fig. 2). L’analisi del manufatto e del contesto di committenza non lascia dubbi sulla sua attribuzione. Si tratta dello stemma di Celestino V, al secolo Pietro di Angelerio (1209/10-1296), il celebre papa eremita, fondatore dell’omonima Congregazione monastica, che rinunciò al soglio petrino dopo appena cinque mesi dalla sua elezione e che finì i suoi giorni prigioniero di Bonifacio VIII nel castello di Fumone[14]. Tuttavia, quello scolpito sulla facciata della chiesa oritana non è lo stemma pontificio realmente innalzato da Pietro del Morrone, semplicemente perché egli non ne ebbe mai uno vero. Si tratta, invece, di un’insegna fittizia, di un’arma di fantasia che qualcuno gli attribuì a posteriori, di un vero e proprio falso, insomma, di cui restano, come vedremo, numerose testimonianze. Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (scudo ornato da tiara e chiavi decussate, legate da un cordone)[15], mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI[16]. Quanto a Celestino V, le prime attestazioni della sua arma leonina non rimontano oltre il XVI secolo. Sull’origine di questa insegna sono state avanzate alcune ipotesi suggestive ma prive di qualsiasi riscontro storico e documentario[17]. Secondo alcuni studiosi, si tratterebbe dell’arma parlante dei Leone (o de Leone), nobili di Alife e Venafro, dai quali discenderebbe Maria, madre del pontefice[18]. Secondo altri, invece, l’insegna sarebbe stata ricalcata su quella del cardinale Guglielmo Longhi (†1319), che fu fra i porporati creati da Celestino V nel corso del suo breve pontificato. Quest’ultima ipotesi è quella che ha goduto di una maggiore fortuna[19]. Lo stemma del cardinale Longhi, apparentemente simile a quello attribuito ex post a papa Celestino, si trova scolpito in coppia ai lati del sarcofago del suo pregevole monumento funebre ammirabile nella basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo[20]. All’interno di una cornice modanata compare un leone attraversato da una banda diminuita e trinciata, ma il manufatto non contiene alcuna indicazione cromatica utile alla ricostruzione degli smalti originari[21] (fig. 3).
Il Longhi apparteneva a una nobile famiglia bergamasca e fu anche intimo della corte angioina, abile diplomatico nonché amico di Bonifacio VIII, per incarico del quale gestì la delicata fase di abdicazione del papa eremita. Dopo la morte di quest’ultimo nel castello di Fumone, inoltre, ne prese in custodia il corpo e presenziò alla sua sepoltura nella tomba terragna posta al centro della chiesa di S. Antonio Abate a Ferentino. Secondo lo studioso Fabio Valerio Maiorano, è possibile che «in ricordo dell’evento, il cardinale de Longhi abbia fatto incidere sulla lastra sepolcrale la propria insegna araldica, in epoche successive “interpretata” e scambiata erroneamente per lo stemma papale di Celestino V»[22]. Tale supposizione appare verosimile anche perché all’epoca in cui visse il cardinale Longhi il galero rosso non si era ancora diffuso come timbro della dignità cardinalizia e, quindi, è possibile che qualcuno abbia confuso erroneamente lo scudo del porporato, privo di ornamenti esterni, con quello del papa del Gran Rifiuto[23]. Quello che è successo veramente non lo sapremo probabilmente mai perché la lastra tombale originaria è andata purtroppo persa[24]. Occorre tuttavia sottolineare che le ipotesi finora avanzate sull’origine di questo pseudostemma si limitano ad indagini isolate che non tengono conto del contesto storico-culturale che ne favorì l’apparizione nel corso del XVI secolo e la rapida diffusione nel periodo successivo. Intorno alla metà del Cinquecento prese piede un fenomeno nuovo, figlio dell’erudizione rinascimentale, che divenne poi dilagante in epoca barocca. Mi riferisco alla moda dell’araldica papale immaginaria e alla fantasia che si scatenò nell’attribuire stemmi d’invenzione ai pontefici vissuti prima di Bonifacio VIII[25]. L’araldista francese Édouard Bouyé ne ha individuato l’origine all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), quando nacquero, con intenti eruditi e apologetici, le prime raccolte di stemmi contenenti anche le armi dei pontefici vissuti in epoche pre-araldiche e proto-araldiche. L’Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, scritta da Onofrio Panvinio e pubblicata a Venezia nel 1557[26],può essere annoverata fra le prime testimonianze del fenomeno, ma furono soprattutto le varie edizioni sulle vite dei papi scritte dal Platina e dal Ciacconio a dare un impulso decisivo alla diffusione di questa pratica[27]. Col tempo tale usanza travalicò anche l’ambito strettamente librario, trovando la sua massima espressione nella celebre serie araldica presente nella galleria dei papi di palazzo Altieri a Oriolo Romano. Iniziata intorno al 1671, la pinacoteca della località viterbese costituisce una delle fonti araldiche più importanti e mature per lo studio della materia, giacché contiene la prima e unica raccolta completa di tutti gli stemmi pontifici da San Pietro in poi[28]. Quanto a Celestino V, la sua personalità e la brevità del suo pontificato gli impedirono di innalzare un’arma papale vera e propria, ma ciò non ostacolò l’operazione di «risarcimento» araldico finalizzata a dotarlo retrospettivamente di un’insegna che mai si sarebbe sognato di avere, un’insegna della quale non sono note con certezza le origini, ma la cui circolazione fu sicuramente favorita dalla nascente e poi dilagante voga dell’araldica pontificia immaginaria. Le testimonianze relative all’uso di tale stemma abbondano e si trovano disseminate su opere a stampa, monumenti e altri manufatti. Fra gli esemplari su stampa, segnalo quello che accompagna il ritratto di Celestino V presente nel Pontificum romanorum effigies di Giovanni Battista Cavalieri (Roma 1580) e quello inciso sul frontespizio dell’edizione del 1627 delle Costituzioni celestine, approvate l’8 luglio dell’anno prima da Urbano VIII[29](figg. 4, 5).
L’incisione presente sul frontespizio, in particolare, mostra in chiave allegorica San Pietro Celestino e San Benedetto da Norcia ai lati di un altare, sulla cui base, al centro, campeggia lo scudo di Maurizio di Savoia, cardinale protettore dei Celestini, affiancato da due scudi più piccoli (quello di papa Celestino e quello della Congregazione da lui fondata[30]) sottostanti ai due santi, mentre sulla trabeazione spicca l’arma di papa Barberini, sormontata da uno scudo con la Vergine e il Bambino posto sul fastigio. Si tratta di una testimonianza significativa perché mostra come agli inizi del Seicento questo stemma, nato senza il presupposto storico di un possessore che lo abbia effettivamente portato, si sia ormai «istituzionalizzato».
L’insegna leonina era del resto ben nota a uno dei più accreditati biografi seicenteschi di Celestino V, Lelio Marini, abate generale della Congregazione Celestina dal 1630 al 1633, che in un passo della sua opera Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V descrisse l’arma del santo eremita in questi termini: «L’insigne nondimeno, che si chiama Arma, al nostro Pietro si trova in tutte le sue imagini antiche attribuito un Leone rampante con una fascia a traverso dalla coscia al piede destro, essendo come appoggiato sù il lato sinistro, si come è descritto da tutti gli autori, e in tutte le imagini, e anco da Alfonso Ciaccone nell’opra, che hà fatto della vita de i Sommi Pontefici con le armi e nomi ancora de i Cardinali di Santa Chiesa»[31]. L’opera del Ciacconio a cui si riferisce Marini è una raccolta sulle vite dei papi e dei cardinali, uscita in varie edizioni a partire dal 1601, nella quale si illustra la narrazione delle biografie dei pontefici con il rispettivo ritratto accompagnato dalla riproduzione dello stemma[32]. Il Ciacconio assegna a Celestino V uno scudo d’oro, al leone d’azzurro, attraversato da una banda abbassata e diminuita di rosso(fig. 6).
Un blasone simile si osserva sulla tela di Celestino V conservata nella galleria dei papi di Palazzo Altieri a Oriolo Romano[33]. La rappresentazione dell’arma, tuttavia, non fu stabile nel corso del tempo. La bicromia oro/azzurro del campo e della figura principale, ad esempio, risulta talvolta invertita, come si vede nell’esemplare ad intarsio marmoreo ammirabile sulla parete della cappella di Celestino V, in fondo alla navata destra della basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila: d’azzurro, al leone d’oro, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e diminuita dello stesso[34] (fig. 7).
Gli studi condotti sul corpus araldico relativo a Pietro del Morrone mostrano, in effetti, un’arma caratterizzata da un’estrema variabilità blasonica, comprensibile per un’insegna come questa nata senza il vincolo di un uso storico effettivo e di un titolare che l’abbia davvero voluta. Le varianti, insomma, abbondano e se ne trovano versioni col campo d’argento[35], con la banda modificata rispetto alla sua posizione e alla sua forma ordinarie, tanto da assumere talora la forma di una fascia tout court (figg. 2, 5, 8), col capo caricato dalle insegne papali[36], col leone rivolto (figg. 4, 9) oppure rampante su un monte alla tedesca[37], e così via.
Fra tutti gli stemmi di fantasia della cronotassi papale anteriore a Bonifacio VIII, l’insegna araldica attribuita al papa eremita vanta il primato di essere quella che presenta la configurazione più instabile e variabile nel corso del tempo.
CONCLUSIONI
Nel XVIII secolo la Congregazione Celestina si attesta sulle posizioni consolidate nel periodo precedente, recependo alcune caratteristiche proprie del monachesimo settecentesco, come la prevalenza degli aspetti istituzionali e giuridici, la celebrazione dei fasti e delle glorie del passato, la corsa ad accaparrarsi titoli e dignità per il decoro dell’istituzione, lo sforzo per incrementare le rendite con cui provvedere alla manutenzione e al restauro degli edifici[38]. I monaci oritani non furono da meno ed è in questo contesto che vanno collocati l’ampliamento settecentesco del complesso monastico e l’apposizione delle insegne del loro fondatore, dell’Ordine[39](figg. 10, 11) e dell’abate generale Ludovico Grassi[40](figg. 12, 13, 14) in vari punti del monastero, della chiesa e del giardino.
In questa araldizzazione degli spazi sacri, lo stemma del papa del Gran Rifiuto, benché non autentico, era ormai diventato parte integrante dell’iconografia araldica dell’Ordine e, come tale, funzionale alla strategia comunicativa messa in atto dai Celestini oritani nella prima metà del Settecento. Sopravvissuto alle ingiurie del tempo e ai cambi di destinazione a cui è stato sottoposto l’edificio nel corso del tempo, il leone di Celestino campeggia ancora oggi, beffardamente, sulla superba facciata, perpetuando il mito e la memoria del fondatore della Congregazione Celestina: un bel risultato, se ci pensiamo, per uno stemma immaginario attribuito a un papa che giammai ne fece uso.
[1] Sulla storia della Congregazione Celestina segnalo soprattutto il fondamentale studio di U. Paoli, Fonti per la storia della Congregazione Celestina nell’Archivio Segreto Vaticano, Cesena 2004.
[2] Cfr. S. Ammirato, Della famiglia dell’Antoglietta di Taranto, Firenze 1597, p. 26; M. Matarrelli-Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città diOria nella Messapia, a cura di E. Travaglini, Oria 1976, p. 84; D. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, cc. 314r e v; G. Papatodero, Della Fortuna di Oria Città inProvincia di Otranto nel Regno di Napoli, con giunte dell’arcidiacono GiuseppeLombardi, Napoli 1858, pp. 319-320. Per una sintesi, mi sia consentito il rinvio al mio saggio M. Semeraro, Insignia. Saggi su Oria araldica, Oria 2015, pp. 14, 18-20 e relative note.
[5] Sull’argomento v. P. Malva, M. Mattei, Oria, l’organo dei Celestini, Oria 2007, pp. 11-14; P. Spina, Oria, stradevecchie, nomi nuovi. Strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003, pp. 59-63.
[10] Il balcone era originariamente collocato sulla facciata del monastero settecentesco. Fu poi smontato e ricostruito da Floriano Stranieri nel cortile dell’attuale scuola elementare Edmondo De Amicis (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p. 21, nota 16). Sul fastigio della trabeazione del portale che dà sul balcone, fa bella mostra di sé lo stemma di Ludovico Grassi, abate generale della Congregazione Celestina per tre mandati: 1704-1707, 1707-1710, 1719-1722 (cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 528-530). Il Malva ha erroneamente attribuito tale stemma all’abate oritano Oronzo Bovio (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p 11). Per il blasone, v. infra, nota 40.
[11] Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., pp. 14-15.
[12] Come si evince dall’epigrafe incisa sul drappo litico che sormonta lo stemma papale (cfr. ivi, p. 21, nota 17).
[13] Sull’uso e sulla simbologia della tiara e delle chiavi v. B.B. HEIM, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi,legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 50-55; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale diaraldica ecclesiastica nella chiesa cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 38-40.
[14] Pietro di Angelerio (chiamato anche del Morrone) nasce tra il 1209 e il 1210, penultimo di dodici fratelli, da una famiglia modesta, probabilmente a Sant’Angelo Limosano, anche se Isernia, Sulmona e altre città se ne contendono i natali. Negli anni 1233-1234 si reca a Roma, dove probabilmente riceve l’ordinazione sacerdotale. Intorno al 1235 si ritira in località Sigezzano, presso Sulmona, ai piedi del monte Morrone, dove accoglie i primi discepoli. Da sempre attratto dall’austerità della vita monastica, fonda una comunità di religiosi di cui si hanno le prime notizie certe a partire dal 1259. Con la bolla Cum sicut del 1263 di Urbano IV si registra la prima regolarizzazione della famiglia eremitica, incorporata nella regola benedettina, e confermata in seguito da Gregorio X nel 1275. Il 5 luglio 1294 viene eletto papa nel conclave di Perugia; il 28 luglio entra all’Aquila a dorso di un asino; il 29 agosto viene incoronato col nome di Celestino V sul piazzale antistante a S. Maria di Collemaggio. Con la bolla Et si cunctos del 1294, papa Celestino stabilisce la struttura giuridica e istituzionale della comunità religiosa da lui fondata, che ormai ha assunto ufficialmente la denominazione di Orso Murronensis o Ordo S. Spiritus de Murrone. Il suo pontificato, tuttavia, si rivelerà difficoltoso e lontano dalle sue aspirazioni eremitiche. Il 13 dicembre del 1294, dopo appena cinque mesi dalla sua elezione, il papa annuncia la sua decisione di rinunciare al sacro soglio davanti ai cardinali riuniti in concistoro. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dapprima lo fa sorvegliare, poi, dopo un tentativo di fuga, lo relega nella rocca di Fumone, dove muore il 19 maggio del 1296. La Congregazione Celestina ha assunto nel corso del tempo varie denominazioni: Ordo S. Spiritus de Maiella, Ordine di fra’ Pietro del Morrone, Ordo Murronensis, Ordo S. Spiritus de Murrone, Ordo Caelestinorum, mentre dalla seconda metà del XV secolo diventerà prevalente quella di Congregatio Caelestinorum. Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 3-21.
[15] Sulle origini e l’evoluzione dell’araldica papale v. Heim, L’araldica cit., pp. 98-102; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la findu XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in «Médiévales», 44 (2003), pp. 173-198; D. L. Galbreath, Papal heraldry, 2nd ed. revis. by G. Briggs, London 1972.
[16] Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso.
[17] La questione relativa alle ipotesi sulle origini dello stemma di Celestino V è stata affrontata da F.V. Maiorano, S. Mari, Gli stemmi superstiti dell’abbazia di S. Spirito del Morrone el’enigma di un’insegna trecentesca, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 103 (2012), pp. 93-95.
[18] In realtà i cognomi de Angeleriis e de Leone sono sconosciuti ai primi biografi di Celestino V e sono stati tirati fuori per accreditarne l’origine isernina, basandosi su due documenti la cui autenticità è stata giudicata dubbia da studiosi del calibro di Peter Herde. Cfr. P. Herde, Celestino V, santo, in «Encicplopedia dei Papi», disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-celestino-v_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/.
[19] V. anche A. Savorelli, Il papa e il leone, in «Medioevo», XI, n° 7 (126), Novara 2007, p. 92.
[20] In origine il monumento, opera di Ugo da Campione, era collocato nella chiesa di S. Francesco, nella cappella di San Nicolò che lo stesso cardinale Longhi fece edificare. Nel 1843 fu trasferito in S. Maria Maggiore. Cfr. G. Cariboni, Longhi, Guglielmo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 65 (2005), disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-longhi_(Dizionario-Biografico)/.
[21] Sugli smalti dello stemma gentilizio del cardinale Longhi le fonti, tutte successive all’epoca in cui egli visse, non concordano. Secondo il Ciacconio, il cardinale portava uno scudo d’argento, al leone d’azzuro, attraversato da una banda abbassata, diminuita e trinciata del primo e di verde, mentre nel blasone fornito dal Crollalanza la banda è di rosso e di verde. Lo stemmario Camozzi-Vertova, alla voce Longhi degli Alessandri di Adrara, riporta invece uno scudo d’argento, al leone d’azzurro, lampassato di rosso, attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e del terzo. Il Maiorano, infine, riporta un’arma d’argento, al leone di nero, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e di verde. Cfr. A. Chacón, Vitae et gesta summorum pontificum ab Innocentio IV usque ad Clementem VIII necnon S. R. E. cardinalium cum eorumdem insignibus, II, Roma 1601, p. 638; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglienobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965, II, p. 31; Stemmario Camozzi-Vertova, Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, Manoscritti, ms. AB016, n. 2323; Maiorano, Mari, Gli stemmisuperstiti cit., p. 94.
[22] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95.
[23] Il cappello di rosso, concesso nel 1245 dal papa Innocenzo IV ai cardinali in occasione del Concilio di Lione, fece la sua comparsa in araldica nella prima metà del Trecento, ma fino alla fine del secolo il suo uso non si era ancora generalizzato. Fu solo a partire dal XV secolo che il suo impiego divenne abituale. Su tale questione v. M. Prinet, Les insignes des dignités ecclésiastiques dans le blason français du XV siècle, in «Revue de l’Art Chretien», Paris 1911, p. 23; Cordero Lanza di Montezemolo, Pompili, Manuale diaraldica cit., p. 19.
[24] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95, nota 78.
[25] Quello degli stemmi d’invenzione, in realtà, è un fenomeno più vasto, non circoscritto ai soli papi, osservabile sin dai primordi dell’araldica. La rapida diffusione sociale delle armi vere, apparse nei tornei e nei campi di battaglia nella prima metà del XII secolo, fece sì che ben presto, sin dalla seconda metà dello stesso secolo, se ne attribuirono altre a personaggi immaginari o vissuti in epoche precedenti alla comparsa dell’araldica (cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 25). Fu però nel periodo a cavallo fra il Rinascimento e il Barocco che il fenomeno coinvolse massicciamente la chiesa, investendo non solo i papi ma anche i cardinali pre-araldici (cfr. M. C. A. Gorra, L’arma di Pietro: ipotesi per un blasonario dei pontefici anteriori a Bonifacio VIII, in «Nobiltà», a. VIII, n. 39, novembre-dicembre 2000, pp. 557-576; Bouyé, Les armoiries pontificales cit.).
[26] Cfr. O. Panvinio, Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, Venezia 1557.
[27] A. Chacòn (Ciacconius), Vitae, et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, edizioni diverse fra 1601 e 1751; B. Platina, De vitis pontificum romanorum (Le vite de’ pontefici), edizioni diverse fra 1540 e 1703.
[29] Cfr. Constitutiones monachorum Ordinis S Benedicti Congregationis Coelestinorum, sanctissimi domini nostri Urbani papae VIII iussu recognitae et eiusdem auctoritate approbatae et confirmatae, Roma 1627; Paoli, Fonti per la storia cit., p. 57.
[30] Lo stemma innalzato dai monaci della Congregazione Celestina non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede mi limito pertanto a dire che in origine i monaci portarono uno scudo d’argento, alla croce latina accollata alla lettera S, il tutto di nero: la bicromia bianco/nero rappresenta l’araldizzazione dell’abito monastico, mentre la lettera S sta probabilmente per Santo Spirito (ma altre spiegazioni sono state addotte), al quale Pietro del Morrone era particolarmente devoto, come provano anche i numerosi monasteri eretti sotto questo titolo e alcune fra le denominazioni primitive della Congregazione (v. supra, nota 14). Successivamente lo stemma fu incrementato con l’aggiunta di altre figure di carattere allusivo: un monte all’italiana di tre cime, probabile allusione ai monti Morrone e Maiella, cari al papa eremita, e due gigli, in ricordo della speciale protezione e del sostegno accordati ai Celestini dai sovrani angioini di Napoli e da quelli di Francia. Lo stemma divenne così d’azzurro, alla croce latina di nero (alias d’oro), accollata alla lettera S d’oro, accostata da due gigli dello stessoe fondata su un monte all’italiana di tre cime di verde, movente dalla punta. Ma vi furono varianti sia negli smalti, sia nella foggia della croce. Talora la lettera S assunse una forma serpentina. Cfr. Maiorano, Mari, Gli stemmisuperstiti cit., pp. 80-88; G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, pp. 53-54.
[31] L. Marini, Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V, Milano 1630, p. 4.
[37] Come si vede nell’esemplare raffigurato sull’altare di S. Antonio di Padova nella chiesa di S. Maria di Bethlehem di Mesagne. La chiesa e l’ex convento ad essa attiguo (antica dimora dei Celestini, oggi palazzo di Città) custodiscono vari esemplari dello stemma attribuito a Celestino V. Dato il loro interesse, sarebbe interessante farne oggetto di un’indagine specifica.
[39] V. supra, nota 30. Dall’osservazione di alcune foto d’epoca scattate prima dell’abbattimento del 1912, si evince che un altro stemma della Congregazione Celestina era collocato sul portale d’ingresso del palazzo. Altri esemplari, che sicuramente erano presenti all’interno dell’edificio, sono andati purtroppo persi. Lo stemma dei Celestini scolpito, negli anni 1726-1730, sui due lati del parapetto del giardino di Parco Montalbano (fig. 10) è stato da taluni erroneamente confuso con il bastone di Asclepio, noto simbolo della medicina, deducendo da ciò l’ipotesi che il giardino sia stato adoperato dai monaci come luogo per la coltivazione di erbe medicinali. A questa tesi strampalata sembra credere anche l’autore delle note storiche su Parco Montalbano presenti nel sito del comune di Oria: cfr. http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/parco-montalbano.
[40] Lo stemma in questione mostra l’arma gentilizia propria dell’abate Grassi (troncato: nel 1° un’aquila coronata, rivolta e posata sulla partizione; nel 2° scaccato di quattro file) abbassata, per mezzo di uno scudo troncato, sotto il quarto della Religione Celestina. Il timbro è costituito da un cappello prelatizio (di nero) da cui pendono due cordoni terminanti con dodici nappe, sei per lato (1.2.3), delle quelli si vedono solo quelle terminali. L’arma si presenta acroma, ma per la ricostruzione degli smalti può essere utile il raffronto con stemma dello stesso abate, privo tuttavia del quarto celestino, visibile nell’abbazia di S. Spirito al Morrone, nell’altare sinistro della chiesa interna, così blasonabile: d’argento, all’aquila al volo abbassato di nero, coronata e rostrata d’oro, posata su una campagna scaccata di cinque file dell’ultimo e del secondo. Lo scudo è timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato (1.2.3), il tutto di nero (fig. 13). Altri esemplari del suo stemma si trovano in Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 73-75.
Leo Stefàno, studioso di Casarano, da sempre interessato al simbolismo e all’arte paleocristiana. Per oltre cinque anni ho condotto una ricerca sulla storia degli studi sulla chiesa di Casaranello (di prossima pubblicazione).
La conferenza, a carattere divulgativo, farà luce sulla genesi del mito della nascita del pontefice Bonifacio IX a Casaranello. Mito che in qualche modo ha condizionato la riflessione critica sul monumento.
La seconda parte della conferenza sarà dedicata alla “scoperta” della chiesa ad opera dello storico dell’arte tedesco Arthur Haseloff (1872-1955).
Per motivi cronologici e non per stupido campanilismo il titolo corretto sarebbe dovuto essere Giucas Casella, l’Angelo Serio di Termini Imerese. Così facendo, però, il nome del salentino sarebbe passato in secondo piano ed avrebbe avuto pure meno visibilità immediata agli occhi del motore di ricerca. Questo post a distanza di quasi 65 anni intende ridare rilievo ad un avvenimento che oggi sarebbe immortalato, senza scomodare le reti televisive, da un comune telefonino. A proposito: ho notato che da un po’ di tempo a questa parte i tg delle reti pubbliche e private mandano in onda generalmente su fatti di cronaca nera, manifestazioni di protesta, catastrofi naturali, servizi con video dei quali è leggibile solo la parte centrale, mentre quelle laterali, ingrandimento sfocato dei due estremi di quella, hanno il compito di evitare che sullo scghrmo compaiano due bande nere. Il fenomeno, che sta diventando sempre più invadente e fastidioso, è dovuto, credo, all’utilizzo di filmati girati da privati col telefonino. Ad essi chiedo: che cosa vi costa, soprattutto quando vi capita di riprendere qualcosa che può avere un pubblico interesse, ruotare di 90° il telefonino, così da riprendere in un formato il più vicino a quello (16:9) degli schermi tv?
Ai tempi in cui Angelo Serio, in arte Reikan, compì la sua impresa il compito di divulgare simili notizie era appannaggio de La settimana Incom, una sorta di telegiornale della durata di dieci minuti circa, distribuito settimanalmente nei cinema, ove precedeva la proiezione del film in programma, dal 1946 al 1965 in 2554 numeri. Dal n. 892 del 15 gennaio 1953 è tratto lo spezzone che segue.
Integrazione aggiunta in data 2/10/2017 su gentile segnalazione del sig. Salvatore Fischetti, che qui pubblicamente ringrazio. P. 4 del n. 199. anno LVI , di sabato, 23 agosto 1952 dell’Avanti.
Sono settanta gli anni della Ferrari SpA, da quando quel sognatore di Enzo Ferrari, costruttore automobilistico con la passione della velocità e della competizione sportiva, mise su a Maranello, in via dell’Abetone, nel marzo del 1947, il primo nucleo di officina, dentro cui tenere a battesimo i suoi bolidi, oggi obiettivo dell’immaginario collettivo di mezzo pianeta.
Sono in programma, per l’importante ricorrenza, meetings, aste, mostre, convegni per collezionisti e, non ultimo , sabato 23 settembre 2017, il Family Day a Maranello. Ventimila visitatori, accorsi qui su invito nominativo, si aggireranno negli ambienti-salotto della mitica Ferrari. A chi scrive il privilegio di prendervi parte per la terza volta. L’occasione è soprattutto un omaggio ad una figlia, ingegnere aeronautico del Politecnico di Milano, che da qualche anno è approdata alla corte del mito della velocità, la Ferrari. Qualche giorno fa, provenienti dai cinque Continenti, si sono dati appuntamento sulla pista di Fiorano, i più accaniti collezionisti al mondo, per acquistare all’asta una ventina di esemplari “Ferrari”, in una giornata dedicata a Michel Shumacher e una donazione di venti milioni di euro della Ferrari a favore di “Save the children”. L’iniziativa benefica ha invece fruttato bel 65 milioni di euro.
Può sembrare ai disinformati che l’azienda di Maranello sia improvvisamente divenuta una succursale del conio di Stato. In verità è una struttura complessa, dove operai, ingegneri, manager e piloti si misurano col lavoro per regalare ai tifosi l’ebbrezza della vittoria sportiva e il fascino di un brand “Made in Italy”. Da qualche anno campeggia nella mia libreria qualche copia “The official Ferrari Magazine”, elegante pubblicazione di circa 250 pagine, stampate rigorosamente in lingua inglese, felice intuizione di Antonio Ghini, che la fece nascere nel 1993.
Dono puntuale della figlia minore, ingegnere aeronautico- donna alla “corte del Cavallino”, salentina doc, che, come tanti altri tecnici salentini, diffondono nel mondo, da Maranello, l’unicità del “made in Italy”.
Ferrari SpA, quest’anno, la Casa automobilistica di Maranello, compie i primi suoi settanta anni di vita. Ferrari è il marchio più conosciuto al mondo, prima di Google e della stessa Cocacola. Le “Rosse” del Cavallino sono il sogno di piloti, di collezionisti, di miliardari e, naturalmente, anche di chi sa,ed é la maggioranza, di non potersela mai permettere. La dimensione della passione e della sfida la vivono un po’ tutti a Maranello: è l’eredità inconfondibile lasciata dal suo inventore nei primi mesi del 1947, un ingegnere-pilota tramite cui tecnologia, velocità e lavoro di squadra continuano ad alimentare i sogni degli sportivi di tutto il mondo.
Ogni ingegnere alla corte della Azienda Ferrari SpA fa del suo meglio, con la creatività degli ingegneri, con la certosinità di ogni operaio nella catena di montaggio, per creare prodotti di ruggente potenza e d’invidiabile bellezza. Spesso, quando di domenica sera, i bolidi Ferrari vincono i Gran Premi in qualche parte del Pianeta, Maranello assapora il brivido della vittoria issando in città una bandiera gialla, accanto a quelle fatte innalzare dai Villeneuve, Lauda, Schumacher e oggi Sebastian Vettel. E’ stato chiesto al pilota ferrarista, in occasione della giornata dedicata di recente a Maranello al grande Schumi, una delle tante manifestazioni per il Settantennio Ferrari, in che cosa consista “la diversità” dell’essere, oggi, la punta di diamante della scuderia Ferrari. Egli ha così affermato: “
Ho letto in questi giorni una frase di Enzo Ferrari. Non si può descrivere una passione, la si può solo vivere. Ferrari rappresenta una passione infinita, che spinge milioni di persone a tifare per te. Senti un Paese (L’Italia) che ti abbraccia. La magìa esiste, perché la Ferrari è una leggenda vivente che continua a far innamorare”. Passione e leggenda, come rimarcato dal pilota Sebastian Vettel, create settant’anni fa a Maranello, nel marzo del 1947, da Enzo Ferrari, il quale ha creato in tutti il mito, nell’immaginario collettivo, di chi, fortunato, riesce a custodire in garage un bolide Ferrari e di chi, non possedendolo, immagina in sogno di averne cento.
Dopo il pc e il tablet anche lo smartphone si appresta a fare il suo ingresso trionfale nel mondo della scuola. Io ho l’impressione che l’unico profitto sarà quello delle multinazionali che avranno un motivo in più per immettere sul mercato modelli sempre più sofisticati e costosi …
Non ho nulla contro le nuove tecnologie (questo stesso post non avrei potuto scriverlo dieci anni fa, quando il patrimonio digitalizzato e disponibile in rete era esiguo; qualcuno dirà che avrei fatto meglio a non scriverlo pure ora …), anzi, posso vantarmi di essere stato uno dei rari docenti a tentare un uso intelligente del pc quando il collegamento ad internet era ancora una chimera. Fui uno dei partecipanti ad uno dei primi, se non il primo, corso istituito dal ministero per l’alfabetizzazione informatica dei docenti e ricordo ancora con raccapriccio la montagna di carte che un tutor il primo giorno, l’altro il secondo ci consegnarono. Nozioni teoricamente e praticamente inutili, mentre solo nella parte finale del corso una quantità esigua di ore venne dedicata all’approccio diretto alla macchina e all’uso del programma di videoscrittura. La sensazione più esilarante, però, la provai alla fine del corso, nel giorno in cui scoprimmo che l’ispettrice inviata dal ministero, credo per controllare le competenze da noi acquisite, non sapeva neppure dove e quale fosse l’interruttore di accensione del pc … (se qualche compagno di quel corso mi legge potrà confermare).
Mi pare che ancora una volta tutto sia nel segno dell’improvvisazione e dell’ammiccamento agli aspetti più spettacolari, con l’aggravante che i nativi digitali di oggi già all’asilo mostrano di saper usare i nuovi aggeggi con più disinvoltura dei loro insegnanti che hanno appena appena superato gli enta. L’uso intelligente delle nuove tecnologie (ma, a dire il vero anche delle vecchie …) consiste nello sfruttamento dello strumento per fini originali (ai quali spesso, nel nostro caso, nemmeno i progettisti hardware e software hanno pensato), per tentare di risolvere un problema inusuale e la cui soluzione non sia brutalmente e rozzamente a portata di dita.
Per esempio: ormai qualsiasi edizione di un qualsiasi vocabolario prevede accanto o in aggiunta alla versione cartacea anche quella digitale che, se ben fatta, consente di acquisire nuove conoscenze, la cui importanza culturale non è certamente inferiore ai risultati economici che, per esempio, la Guardia di Finanza ottiene, con i suoi controlli incrociati, nel campo della lotta all’evasione e agli altri reati . Sarebbe interessante sapere quante volte quel magico cd o dvd, acquistato, è stato usato almeno in classe (figurarsi a casa, specialmente ora che i relativi compiti sono un’offesa per la dignità del discente).
Un altro esempio: i più avvezzi al piacere della lettura avranno immediatamente constatato che la portabilità del libro elettronico (che, tuttavia, può tornare utile in certe situazioni ed essere, ma solo provvisoriamente, decisiva) comporta una serie di inconvenienti e di limitazioni rispetto al libro cartaceo. Lascio da parte certi gusti che qualcuno può considerare nostalgici e, magari, pure perversi, quali il piacere di toccare la carta, di sentire il suo profumo sempre diverso, di trovare, grazie solo all’ausilio di quel rudimentale motore di ricerca che è l’indice o, qualora il libro sia stato già sfogliato, della cosiddetta memoria visiva, una certa pagina o (e qui il motore di ricerca della versione digitale, se non adeguatamente calibrato, può fare cilecca) un’immagine; per non parlare della visione a colpo d’occhio, senza scorrimento settoriale dello sguardo o improbabili zoomate … Lascio da parte tutto questo per passare alle note personali (inclusi i segni convenzionali come frecce, sottolineature e simili), frutto di una lettura non superficiale, che hanno integrato (in qualche caso deturpato …), un manoscritto (scoli e glosse) o un libro a stampa. Certo, anche un libro elettronico può essere dotato in qualsiasi momento, cin procedure, però, non sempre “amichevoli”, di note personali destinate, però, a tramandare (ammesso che il supporto resista ai fattori ambientali ed all’azione del tempo …) un numero di informazioni decisamente inferiori, a cominciare dalla grafia del loro autore, per finire con un dettaglio che può sembrare irrilevante ma che per me è importantissimo: l’eventuale commento digitato tenderà ad essere nella sua forma finale esteticamente perfetto, non registrerà, cioé, tutto il processo mentale che la nota autografa esprime, per esempio, in parole barrate, leggibili o no, o in altre sovrascritte. La nota digitale sarà, per parafrasare Cocciante, una bella senz’anima, ammesso che il nostro file compaia, prima o poi, sul display altrui …
Questa premessa rischia di diventare troppo lunga; perciò passo all’argomento di oggi lasciando al lettore il giudizio sulla coerenza tra quanto tratterò (e come lo tratterò) e le affermazioni appena fatte.
Nella Stiftsbibliothek (Biblioteca dell’abbazia) di St. Gallen1 in Svizzera è custodito un codice (n. 863) pergamenaceo del secondo quarto del secolo XI contenente il De bello civili alias Pharsalia del poeta latino Marco Anneo Lucano (I secolo d. C.).
A p. (ogni foglio si presenta scritto solo su una facciata) 47 (che riproduco di seguito da http://www.e-codices.unifr.ch/it/thumbs/csg/0863/, dove l’opera è integralmente consultabile) compare il disegno del titolo. Cliccando di sinistro una prima volta su questa immagine (vale anche per le successive) la stessa sarà visibile in una schermata indipendente dove, cliccando ancora di sinistro, potrà essere studiata al massimo della definizione).
Il testo è costituito dai vv. 610-638 del libro II. A noi interessano i versi 610-627, che trascrivo e traduco.2
Urbs est Dictaeis olim possessa colonis,/quos Creta profugos vexere per aequora puppes/Cecropiae victum mentitis Thesea velis./Hinc latus angustum iam se cogentis in artum/Hesperiae tenuem producit in aequora linguam,/Hadriacas flexis claudit quae cornibus undas./Nec tamen hoc artis inmissum faucibus aequor/ portus erat, si non violentos insula Coros/exciperet saxis lassasque refunderet undas./Hinc illinc montes scopulosae rupis aperto/opposuit natura mari flatusque removit,/ut tremulo starent contentae fune carinae./Hinc late patet omne fretum, seu vela ferantur/in portus, Corcyra, tuos, seu laeva petatur/Illyris Ionias vergens Epidamnos in undas./Hoc fuga nautarum, cum totas Hadria vires/movit et in nubes abiere Ceraunia cumque/spumoso Calaber perfunditur aequore Sason.
(Questa città [Brindisi] fu posseduta un tempo dai coloni dittei3 che, profughi da Creta, navi cecropie4 trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto5. Da qui un angusto tratto dell’Italia che già si restringe sospinge nel mare una tenue lingua che racchiude le onde dell’Adriatico con corna ricurve. Tuttavia questo mare immesso in strette gole non sarebbe un porto se un’isola non smorzasse con le sue rocce il violento maestrale non respingesse le onde stanche. Da una parte e dall’altra la natura ha opposto al mare aperto l’altezza di rocciosa scogliera ed ha tenuto lontani i ventiin modo che le imbarcazioni potessero stazionare trattenute da una tremula gomena. Da qui si estende il mare aperto sia che si spieghino le vele verso i tuoi porti, o Corcira, sia che si cerchi di raggiungere a sinistra Epidamno d’Illiria che si protende verso le onde dello Ionio. Questo è il rifugio dei marinai quando l’Adriatico scatena tutta la sua forza e i monti Cerauni svaniscono tra le nubi e la calabra Sason è sommersa dal mare spumeggiante.
Appare evidente come il disegno costituisca la trascrizione iconica del testo latino e non possa, quindi, essere considerato come una mappa “recente” dello stato dei luoghi, ma una vera e propria antica mappa storica, manoscritta, che anticipa quelle che sullo stesso evento (tentativo di Cesare di bloccare a Brindisi Pompeo, che, però, riuscì a fuggire in Grecia) dopo qualche secolo compariranno a stampa (vedi, per esempio, quella del Palladio al link segnalato nella nota 2). Prima ho posto recente tra virgolette perché è difficile dire se il disegno è coevo al manoscritto o posteriore. Io propenderei per la seconda ipotesi, fermo restando il fatto che rimarrebbe da capire quanto tempo dopo, sia pure approssimativamente, venne operata l’aggiunta6.
Tale, infatti, mi pare corretto definirla per il fatto che nell’economia del foglio il disegno appare, dal punto di vista estetico, un intruso, proprio come le glosse presenti a margine in parecchie pagine.
Sembrano,invece, essere autonomi altri disegni occupanti l’intero foglio e precisamente, oltre quello della pagina finale (seconda immagine di nota 1), quelli di p. 77, e p. 78. La p. 76 contiene l’ultima parte del libro III, cioè la descrizione della battaglia navale di Marsiglia (49 a. C.), condotta da Decimo Bruto per conto di Cesare. I due disegni (il primo del porto, nel secondo la porta semiaperta di quella che sembra una torre rappresenta, credo, la presa della città) si riferiscono proprio a questa battaglia.
Da notare come il nostro disegnatore avesse la tendenza a rappresentare i porti allo stesso modo, visti gli elementi strutturali comuni a questo disegno e a quello relativo a Brindisi, nonostante le differenze che è agevole cogliere nella comparazione delle due mappe tratte ed adattate da GoogleMaps. Non credo che in due millenni i cambiamenti siano stati così radicali, come quasi certamente lo saranno, sempre per i due siti, tra un secolo …
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1 Di seguito la segnatura del monastero nel retto della pagina iniziale ed in quello della finale.
Le due segnature sono perfettamente sovrapponibili anche nelle sbavature, e appaiono molto simili alle prime marche editoriali. Nella parte superiore è raffigurata una tiara, in quella inferiore un orso, figura legata alla leggenda che riguarda il fondatore dell’abbazia, della città a suo protettore: san Gallo. Giunto in quei luoghi da quelle parti dal lontano Galles aveva predicato per anni dalla sua celletta eremitica ai rozzi abitanti senza essere mai ascoltato. Alla fine incominciò a venirlo a trovare un orso che, a poco a poco, gli divenne amico, unico essere vivente disposto ad ascoltarlo. Dopo la sua morte gli abitanti eressero su qiello che restava della sua cella una splendida abbazia. L’orso è ancora oggi presente nello stemma della città. Nella parte superiore della seconda immagine la segnatura rende appena leggibile la figura di un cavaliere al galoppo armato di scudo ed asta, tema replicato nella parte inferiore della pagina.
4 Ateniesi; da Cecrope, antichissimo re dell’Attica, fondatore della rocca di Atene.
5 Il riferimento è legato al tributo dovuto da Atene a Minosse, re di Creta, dal quale era stata sconfitta: il sacrificio annuale (secondo altre versioni quinquennale) di sette fanciulli e sette fanciulle destinati ad essere divorati dal Minotauro. La terza spedizione sacrificale fu affidata aTeseo il quale promise al padre Egeo che, se fosse riuscito ad uccidere il mostro, al ritorno avrebbe issato vele bianche. Teseo con l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, che si era innamorata di lui, uccise il Minotauro, uscì dal labirinto e fuggì con la ragazza, che, però, poco dopo fu abbandonata dall’eroe sull’isola di Nasso. Teseo, però, sulla via del ritorno ad Atene dimenticò di issare le vele bianche al posto delle nere, sicché il padre Egeo, credendo che egli fosse morto, si gettò nel mare che da lui prese il nome.
6 Appare, invece, come parte originariamente integrante l’immagine di Brindisi (che sia proprio di questa città lo provano i versi, che ho già ho avuto occasione di citare, del testo del foglio e ancor più il Brundusium che, equamente diviso, si legge a sinistra ed a destra della stessa) che compare in calce al f. 59r (di seguito l’intero ed il dettaglio che ci interessa) del manoscritto pergamenaceo, la cui scrittura fu terminata nel 1299, custodito nella Bayerische Staatsbibliothek a Monaco (Clm 349) ed integralmente leggibile in http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0008/bsb00084710/images/index.html?id=00084710&seite=59&fip=193.174.98.30&nativeno=%2F&groesser=300%25.
Ad integrazione di quanto, soprattutto dal punto di vista iconografico, sul santo ho avuto occasione di scrivere in precedenti contributi (vedi in calce a questo post), quest’anno presenterò due altre immagini che tenterò di commentare con quelle poche informazioni che sono riuscito a reperire.
La didascalia di questa stampa, che è custodita nella Biblioteca nazionale austriaca, recita: Veraeffig(ies) S(ancti) Iosephia Cupertino Sac(erdotis) Ord(inis) Min(orum) Convent(ualium) cuiuscorpus Auximi in Piceno in Ecc(les)iasui Ordinis requiescit (Vera immagine di san Giuseppe da Copertino sacerdote dell’ordine dei Minori Conventuali, il cui corpo riposa ad Osimo nel Piceno nella chiesa del suo ordine).
In basso a sinistra si legge: Sac(erdos) Ant(onius) Bovasc(ulpsit) (Il sacerdote Antonio Bova incise).
Antonio Bova (1688–1775), sacerdote secolare, svolse l’attività di incisore a Palermo dal 1727 al 1773. Appare impossibile dire, in mancanza di altri riscontri, se questa stampa risalga alla prima o alla seconda metà del XVIII secolo. Per completezza documentaria aggiungo che nella stessa biblioteca è custodito il suo ritratto che di seguito riproduco.
Sue sono le due tavole a corredo del volume di Francesco Testa Relazione istorica della peste che attaccossi a Messina nell’anno 1743 uscito per i tipi di Felicella a Palermo nel 1745. Non posso riprodurle perché la digitalizzazione automatica del testo ha comportato una loro riproduzione solo parziale, essendo collocate in pagine pieghevoli.
Posso riprodurre, invece, il ritratto, conservato anch’esso nella biblioteca già nominata, del teologo Paolo Amato (1634-1714) inciso da Antonio Bova su disegno di Niccolò Palma.
In basso a sinistra: Gaet(anus) Bosainc(idit o isor) (Gaetano Bosa incise o incisore). In basso a destra F. A. A. G. M. C. inc(idi) cur(avit) (F. A. A. G. M. C. [chi è in grado di sciogliere questa sfilza di abbreviazioni?; solo un’ipotesi: F. potrebbe stare per Frater, A. A. per i due nomi, G. per il cognome, M. per Minor e C. per Conventualis ] curò che fosse inciso).
Gaetano Bosa (o Bosio o Boza) fu un incisore veneto vissuto dal 1770 circa al 1840 circa. Sue sono le tavole anatomiche dalla n. XLI alla finale (n. LI) a corredo della sezione Ossa et ligamenta che costituisce la prima parte del volume pubblicato da Floriano Caldani per i tipi di Picotti a Venezia nel 1801.
In basso a sinistra il dettaglio, di seguito ingrandito, presente nelle tavole XLI-LI (Le altre, qualitativamente di inferiori, non recano alcuna “firma”).
Cajetanus Bosa ad ipsa corpora hominum delineavit (Gaetano Bosa disegnò per gli stessi corpi umani).
Da notare che nella tavola del Bosa, che pure è successiva al testo del quale ho appena riprodotto il dettaglio, sono assenti i sei ultimi ottonari. Credo, infine, che insegnò … con i seguenti versetti non costituisca prova inequivocabile della paternità dei versetti che il santo copertinese potrebbe aver mediato dalla cultura francescana o popolare dei secoli a lui precedenti.
La mia amica marittimese A., la quale, già in passato, mi ha gentilmente fatto dono dello spunto ispiratore per una narrazione, dedicatale e poi raccolta in un volume che ne ha ripreso il titolo, dimostrando in certo qual modo di resistere allo scorrere di almanacchi e lustri, si conferma alla stregua di fonte inesauribile di piccole storie di vita e di costume, compresi i relativi personaggi, intrecciatesi e succedutesi, in tempi lontani, entro i confini del nostro paesello. Vicende e azioni comportamentali che non sono scivolate, progressivamente, lungo i solchi dell’oblio e dell’indifferenza, ma hanno, al contrario, lasciato tracce e segni.
A., sin da ragazzina e da giovinetta, si distingueva e, comunque, non passava inosservata, in seno alla comunità paesana; ciò, per un insieme di ragioni, vale a dire la sommatoria fra la sua prestanza fisica e il suo carattere estroverso, gioviale e allegro.
Di carnagione color bruno intenso, alta, formosa, grandi occhi scuri e lunghi capelli neri, intorno ai diciassette anni ebbe il suo primo fidanzato (zitu, in dialetto), un giovanotto di Spongano.
Per il genetliaco, questi pensò di regalare, alla sua amata, un vestito, da intendersi non come abito già pronto da indossare, bensì come spezzone, taglio, di un apposito tessuto.
Al che, A., particolarmente su di giri per l’inaspettato e gradito dono, non volle perdere tempo e si recò, lesta, nella vicina abitazione di alcune sue amiche.
Le medesime facevano parte di un nucleo famigliare considerevole, anche se non eccezionale per gli anni trenta/quaranta, comprendente, oltre ai genitori, ben otto figli, di cui sei femmine e due maschi.
Particolare degno di rilievo è che le ragazze – Ass., S., Ann., M., Ant. e T., i loro nomi di battesimo -, per lo meno le più grandi, avevano imparato un mestiere: una era sarta, un’altra magliaia e un’altra parrucchiera.
Quindi, a quell’indirizzo, A. avrebbe potuto farsi sia consigliare, sia materialmente cucire l’abito ricevuto dal fidanzato.
Sennonché, le anzidette amiche, dopo aver discusso del progetto sartoriale, strinsero in mezzo, circondandola letteralmente, la povera A. e, con la motivazione che la bellezza del suo vestito confezionando ne sarebbe uscita ulteriormente valorizzata, la convinsero a sottoporsi a un trattamento speciale dei capelli, la permanente, un’assoluta novità nel paese.
Detto fatto, pinze metalliche manovrate dalle abili mani di S. addentarono diffusamente la lunga, liscia e ondulata chioma di A., dopo di che seguì una sosta prolungata con il capo sotto un coperchio tondeggiante (casco) ma visto prima e, l’operazione, si compì.
Da un rapido sguardo nello specchio, l’acconciatura venuta fuori, pur stravolta in una foresta d’inediti ricci, non dovette dispiacere ad A., che, accommiatatasi dalle amiche, fece ritorno a casa.
Lì, purtroppo, accolta di botto da un accorato: ”Figlia mia, come diavolo ti sei conciata?”, per voce della madre e, ancora peggio, una volta rientrato, da una severa reprimenda, non solo verbale, per opera del padre, capo assoluto vecchio stampo, se non addirittura padrone, della famiglia, dal carattere impulsivo e irruento, che esigeva che tutti i componenti del nucleo chiedessero il suo preventivo assenso avanti di compiere qualsivoglia azione o passo.
L’uomo ebbe a prorompere, urlando, in una serie di: “Disgraziata, che hai fatto, ti sei ridotta a “nu pecoru rizzu” (un agnellino con la sua lanuggine arricciata). Ebbe paura, A., di fronte a quella violenta reazione, tanto che, nelle more che le acque si calmassero, preferì scappare fuori e andare a chiedere momentanea accoglienza e rifugio a una vicina di casa, la quale, per fortuna, la trattenne di buon grado e amorevolmente presso di sé, anche per dormire.
Tuttavia, A., a parte l’iniziale sgomento per lo sbotto del severo padre, non si ricredette riguardo alla nuova foggia dei suoi capelli, se li tenne così, ricci, convinta di star bene nel cambiamento, in ogni caso senza aver posto in atto alcunché di sconveniente.
In breve, trovò l’occasione, riservatamente, per un ritratto dal fotografo, che consegnò al fidanzato per ricambiare il suo regalo del vestito; inoltre, nel volgere di poco tempo, riuscì a prendersi la rivincita nei confronti dello stesso genitore, il quale, non soltanto finì col perdonare e accettare il cambiamento a “pecuru rizzu” cui A. s’era sottoposta, ma si prestò, finanche, ad accompagnare , con la sua bicicletta, la figlia, sistemata alla meglio sulla canna o sul sedile porta oggetti posteriore del velocipede, a Poggiardo, per periodici passaggi dal parrucchiere e la ripresa della permanente.
Successivamente, invero, maturarono nuove situazioni, apparentemente e pure sostanzialmente del tutto normali, in cui la cara A. si trovò a incappare sotto pesanti rilievi e/o secche inibizioni e diffide, provenienti, sistematicamente, dal padre.
Ad esempio, si scatenò il putiferio quella volta in cui la giovane, poco meno che ventenne, trovandosi temporaneamente emigrata insieme con la famiglia a Nova Siri, nel Materano, per la coltivazione del tabacco e altre attività agricole, in una giornata di grande calura e sudore, costretta, a un certo punto, a cambiarsi la veste che le s’attaccava sul corpo, decise d’indossare una sottana color rosa, confezionatale dalla madre, a giro maniche, fresca, adatta proprio all’estate.
Scorgendo la figlia mentre si dirigeva a riunirsi ai compagni di lavoro, in tale tenuta (da notare che, all’epoca, le donne contadine, specialmente le giovani, non mettevano il reggiseno), il padre la bloccò in malo modo, dicendogliene di tutti colori, e ancora di più.
° ° °
V’era un’altra famiglia, a Marittima, pure in questo caso formata da sei o sette figlie di sesso femminile e da due maschi.
La minore delle donne, di nome M., fisicamente di bella presenza, incline a mettersi in mostra, da essere considerata amica un po’ di tutti i compaesani, a un certo punto, s’era messa a frequentare un “signorino” del posto, a voler dire uno scapolo di ceto abbiente, dal nome di battesimo R., preceduto, ovviamente, da tanto di “don”.
La circostanza era gradualmente divenuta di dominio pubblico in seno alla minuscola comunità.
Sulla scia di tale relazione, M. venne a trovarsi in dolce attesa e diede alla luce una creatura.
Di primo acchito, ci fu in giro qualche moto di scompiglio, ma poi, l’evento, anche se non insignificante, andò a evolversi per suo conto, semmai in clima di riservatezza e con qualche mistero circa l’epilogo.
Il fatto di cronaca, se si vuole sul fronte del costume, non sfuggì, però, alla vulgata spicciola da parte dei paesani, trasformandosi in estro per le strofette di una canzoncina che le donne, specialmente, si mettevano a intonare durante la raccolta, in gruppo, delle olive:
“M. e don R.
“hannu fattu na criatureddra (hanno generato una creatura).
“M., poi, l’ha misa ‘ntra na spurteddra (M., poi, l’ha sistemata in una piccola sporta)
“e l’ha ‘infilata a l’ucculeddra (e l’ha infilata alla maniglia – sottinteso, del portone di don R.).
° ° °
Altra storia di vita, intorno alla metà del secolo scorso, due giovani ziti (fidanzati) marittimesi, V. e Ch., fecero notizia, si fa per dire, tenendo anche conto della mentalità dell’epoca, non per un caso di fuitina pro matrimonio (ogni tanto, ne capitavano), ma per la circostanza dell’intervenuta gravidanza della donna prima delle nozze.
Niente di particolare, in fondo, solo un’accelerazione dei tempi rispetto al passo ufficiale, volto a mettere su famiglia, che la coppia era comunque intenzionata a compiere, come poi celermente avvenuto.
Nacque, dunque, il primogenito L., nome di battesimo rigorosamente basato su quello del padre dello sposo e, dopo, anche una figlia, M.
Giunto, a sua volta, in età adulta, il predetto L. si sposò ed ebbe un figlio, chiamato come il nonno paterno, ovvero V.
Corso delle cose che si ripete e si rinnova, sia L. che l’ultimo V., per avere un lavoro stabile e duraturo, contrariamente alla loro volontà, hanno entrambi dovuto lasciare il paese natio e trasferirsi nel Nord Italia.
Ciò, rimanendo fortemente legati a Marittima, ai luoghi, ai parenti, agli amici, in particolar modo V. L’ultimo suo ritorno è avvenuto agli inizi della corrente estate; oltre a prendere i bagni e a intrattenersi in sana allegria con gli amici, egli non saltava un giorno per passare da casa dei nonni, fermandosi a parlare specie col suo ascendente omonimo.
Ho appreso, fra l’altro, che tenendosi al corrente dello stato delle loro piccole proprietà agricole e intenzionato a dare una mano, nel corso delle recenti vacanze ha anche imbracciato una grossa scopa di saggina e dedicato non poco tempo a ripulire le aie (zone di terra rossa) sottostanti agli alberi di ulivo, nell’imminenza del prossimo raccolto dei preziosi frutti.
Purtroppo, una settimana fa, V., non ancora trentenne, è rimasto vittima di un tragico incidente sul lavoro, nella fabbrica piemontese in cui era riuscito ad entrare.
Ovviamente, le sue spoglie sono state riportate nella nostra Marittima e io, come accade in tutte le circostanze del genere che riguardano i compaesani, sono andato a stringere la mano, e a manifestare la mia vicinanza, ai genitori dello sfortunato e, con spirito particolare, ai nonni V., ultra novantenne, e Ch., rievocando, dentro di me, il loro lieto “evento”, antico di una sessantina d’anni.
Il S. Eligio del pittore neretino Donato Antonio D’Orlando custodito a Nardò nella chiesa della Beata Vergine del Carmine ha ispirato il titolo di questo lavoro1 con un suo dettaglio, anzi con due. Il primo è rappresentato da un paesaggio, il secondo dal testo che vi si legge sovrapposto a mo’ di didascalia. Partiremo proprio da questo facendo notare la sua divisione in due spezzoni: a sinistra la CITTÀ DI NOVI, a destra OME IN BELGI2. La divisione ha lo scopo di evitare che la sovrapposizione invada fino a renderla illeggibile la figura del pastore e del secondo gregge che lo segue, dettagli il cui valore simbolico in riferimento a S. Eligio protettore dei maniscalchi e dalle miracolose capacità veterinarie (si ricordi il miracolo della zampa riattaccata al cavallo, cui allude, forse, proprio il cavallo scalpitante che si nota in basso a sinistra) è, sia pure indirettamente, indiscutibile. Il testo, dunque, va letto continuativamente: CITTÀ DI NOVIOMI IN BELGI. Noviomi è l’italianizzazione di Noyon, la città appartenente in epoca romana alla Gallia belgica (da qui il successivo IN BELGI) e della quale, com’è noto, S. Eligio fu vescovo. Il nome latino largamente attestato nel XVII secolo per Noyon era Noviomum, come mostra, per fare un solo esempio, il Noviomi (genitivo locativo, dunque solo per puro caso formalmente uguale al Noviomi del dipinto) che si legge in Josephus Geldolphus a Ryckel, Vita S. Beddae, Typis Cornelii Coenestenii, Lovanii, 1631, p. 4213. Una forma femminile, Novioma, è attestata in epoca medioevale; per esempio: nel Chronicon Ecclesiae Sancti Bertini di Giovanni Iperio (seconda metà del XIV secolo) in Recueils des historiens des Gaules et de la France, a cura di Martin Bouquet, Aux dépens des libraires associés, Paris, 1741, v. III, p. 5814.
Largamente attestato è pure l’aggettivo Noviomensis, come per Nardò Neritonensis da un nominativo Neriton o Neritonum, da cui le forme volgari Neritone e Neritono. Anche per Novionensis uno dei tanti esempi è in un manoscritto del 1190 pubblicato in Martin Marville, Trosly-Loire ou le Trosly des Conciles, Typographie D. Andrieux, Noyon, 1869, p. 2365.
Quanto fin qui detto basta ed avanza per affermare che lo scorcio paesaggistico raffigurato è proprio una veduta di Noyon. La posizione della didascalia appare anomala, ma, d’altra parte, non poteva essere collocata in posizione diversa, come le altre che si leggono ai piedi del santo, le cui caratteristiche grafologiche non appaiono perfettamente compatibili con quelle della didascalia della veduta.6
È d’obbligo, giunti a questo punto, chiedersi se la rappresentazione è di fantasia o se il D’Orlando s’ispirò a qualche modello e, presumibilmente, a quale. Abbiamo condotto la ricerca su due filoni. quello delle opere pittoriche e quello delle opere a stampa cronologicamente compatibili con il pittore, tali, cioè, che potesse averle conosciute personalmente. Il primo non ha dato alcun esito (nel senso che non siamo riusciti a reperire neppure un dipinto raffigurante Noyon), le cose sono andate un po’ meglio con il secondo, che ci ha offerto i documenti che di seguito riproduciamo, lasciando, comunque, ad altri più esperti il giudizio di probabile plausibilità di rapporto con la veduta neretina.
Cominciamo con un’incisione di Joachim Duwiert (1580 circa-1648), del 1611, pubblicata in Alfred Pontieux, L’Ancien Noyon, A. Sevin & C., Chauny, 1912.
La seconda incisione è di Claude Chastillon (1559/1560-1616), topografo reale dal 1592. Le sue incisioni sono custodite in parecchi musei prevalentemente francesi; questa fu pure pubblicata postuma, insieme con altre tavole, in Topographie françoise ou représentation de plusieurs villes, bourgs, chasteaux, maisons de plaisance, ruines et vestiges d’antiquitez du royaume de France, designez par dessunst Claude Chastillon et mise en lumière par Jean Boisseau, Paris, 1641. Di seguito il frontespizio e la tavola che ci interessa.
Dello stesso incisore è conservata a Noyon nel Musée Jean Calvin un’altra veduta.
Riportiamo, infine, per completezza documentaria un’ultima tavola, anonima, la cui data di pubblicazione non sembrerebbe compatibile con il D’Orlando. Tuttavia va detto che nulla esclude che detta tavola sia stata pubblicata sciolta precedentemente. È inserita in Les plans et profils de toutes principales villes et lieux considerables de France, Sebastien Cramoysi, Paris, 1638.
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1 Pubblicato in Decor Carmeli.Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, Mario Congedo editore, Galatina, 2017, pp. 147-150.
2 M. Cesari in La Puglia il manierismo e la controriforma, a cura di Antonio Cassiano – Fabrizio Vona, Congedo, Galatina 2013, p. 255 la riporta, ma legge IMBELGI, ipotizzando che si tratti di una veduta di Nardò.
3 Hunc vitae canonem sequebantur olim Hospitalariae Parisiis et Noviomi in Francia … (Seguivano un tempo questo canone di vita le Ospitaliere a Parigi ed a Noyon in Francia).
4 Intereà decedente Achario Episcopo urbis Noviomae, ad Episcopatum eiusdem urbis venerabilis vir Mummolinus provehitur … (Frattanto alla morte di Acario vescovo della città di Noyon diventa vescovo della medesiuma città il venerabile uomo Mummolino …). Noviomae è genitivo di Novioma e, come giustamente fa notare in nota il curatore, Mummolino non subentrò ad Acario ma proprio ad Eligio, il futuro santo.
5 … ecclesie beate Marie Noviomensis … ( … alla chiesa della beata Maria di Noyon …).
6 Le tre didascalie del bordo inferiore sono prive di riquadri iconologici di riferimento e sono ancora visibili perfettamente le linee-guida.
Nella prima si legge: TRONCATI LI PIEDI DI QUATRO CAVALLI,/[LA] BENEDITIONE LI FÈ SANI; segue un segno interpretabile come un adattamento rettilineo del lau buru (la croce basca), un altro che raffigura un animale (si direbbe un cane) e un altro ancora, articolato in due elementi, di problematica lettura, anche se ci potrebbe essere una valenza araldica. Tuttavia non è da escludere che la sua funzione sia puramente decorativa e che i segni finali delle due altre didascaklie ne rappresentino la progressiva semplificazione. Nella seconda: S. ELIGIO, FÀ TRONCARE IL PIEDE D’UN CAVALLO DEL RÈ DAL/MINISCALCO, CH’ERA FEROCISSIMO LO FÈ SANO ET HUMILE; segue un segno per il quale vedi la precedente didascalia. Nella terza: S. ELIGIO, PREGATO DA MOLTI MASSARI, ET MOLI/SANITÀ AL LOR BESTIAME; segue un segno che appare come l’estrema semplificazione di quello finale della prima didascalia; MOLI e lo spazio libero all’inizio di quest’ultima’ultima didascalia potrebbe essere un indizio, più che della mutilazione, dell’incompiutezza dell’opera.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento annunziato nel titolo sento il dovere di ringraziare per la segnalazione il signor Salvatore Fischetti di Lizzano e non mi pare fuori luogo ricordare che Giuseppe Silos fu un letterato bitontino chierico regolare dell’ordine dei Teatini. Autore molto prolifico, la sua produzione fu essenzialmente storico-agiografia e celebrativa, come il lettore potrà agevolmente constatare scorrendo i titoli che seguono.
Historiarum clericorum regularium a Congregatione condita pars prior, Vitale Mascardi, Roma, 1650
Musa canicularis sive iconum poeticarum libri tres, Eredi del Corbelletti, Roma, 1650 (ristampa per i tipi di Pietro Lamy a Parigi nel 1652; una seconda edizione uscì, sempre a Parigi, nel 1658 per i tipi di Goffredo Marcher)
Historiarum clericorum regularium a Congregatione condita pars altera, Eredi del Corbelletti, Roma, 1655
Venerabilis Servi Dei Francisci Olympii ordinis clericorum regularium vita, Eredi del Corbelletti, Roma, 1657
Opere di misericordia, overo sermoni di Purgatorio, Eredi del Corbelletti, Roma, 1660
Vita del Venerabile Servo di Dio D. Francesco Olimpio, Paolo Bonacotta, Messina, 1664 (ristampa postuma per i tipi di Salvatore Castaldo a Napoli nel 1685; entrambe traduzioni dello stesso autore dell’opera uscita in latino nel 1657)
Analecta prosae orationis, et carminum, epistolarum, epigrammatum, inscriptionum centuriae, Pietro dell’Isola, Palermo, 1666
Ragionamenti vari fatti in varie occasioni da D. Giuseppe Silos, Eredi del Corbelletti, Roma, 1668
Conferenze accademiche tenute da quattro virtuosi ingegni, Ignazio Lazzari, Roma, 1670 (dal frontespizio apprendiamo che il Silos fu Accademico Infiammato, detto lo Smemorato)1
Mausolea Romanorum Pontificum et Caesarum Regumque Austriacorum, Ignazio Lazzari, Roma, 1670
Vita di S. Gaetano Thiene, Ignatio de Lazari, Roma, 1671
Plausus in solemni consecratione D. Caietani Thienaei, Ignazio Lazzari, Roma, 1671
Passo ora all’epigramma in questione che è il LIV della seconda centuria. Lo riproduco in formato immagine da p. 254.
A causa di qualche imperfezione tipografica trascrivo il testo prima di passare alla traduzione.
Cerne Phalantaei sublimia tecta Tarenti/Daunia cui quondam sceptra stetere manu,/nobilitata mari et caelo; portu inclyta cultis/sat clara ingeniis Urbs, genioque soli/dives opum, Tyriisque ostri, celeberrima luxu/regifico, Assyrio rore, meroque madens./Delicias inter saevis efferbuit armis,/movit et in latios bella cruenta Duces./Certatum, fato at cecidit, victumque Tarentum est,/visaque Tarpeio praeda superba iugo./Roma, Tarentinas ne iactes Dardana palmas;/falleris; haud ingens est, superasse lanor,/vicerat illecebris se primum molle Tarentum;/vincere iam victum, quam leve Martis opus.
Guarda le alte costruzioni della Taranto di Falanto, nelle cui mani un tempo stette lo scettro della Daunia, nobilitate dal mare e dal cielo; la città (è) famosa per il porto, abbastanza illustre per le qualità naturali coltivate, e, grazie alla divinità protettrice del luogo, abbondante di ricchezze, e di porpora di Tiro, celeberrima per il lusso regale, per il sommacco2 assiro, madida di vino. Fece ribollire i piaceri tra le crudeli armi, mosse guerre cruente anche contro i condottieri latini. Si combattè, ma Taranto per volere del destino cadde e fu vinta e sembrò preda superba della rupe Tarpea. Roma di origine troiana, non esaltare la vittoria su Taranto. Sbaglieresti; non è grande fatica averla superata. La molle Taranto per prima aveva vinto se stessa con le lusinghe: vincere il già vinto è impresa di guerra quanto mai facile.
Extremis quamvis Italum me cernis ad oras,/sum Salentini gloria prima soli./Me pietas, splendorque virum, laqueataque templa/nobilitant, facili sculptaque saxa manu./Me Caietani resonat dum fama triumphi,/non piguit longas arripuisse vias./Pectore nempe avido, ventis pernicius ipsis,/tot terras volucri visa vorare gradu./Nempe Urbs Italici ut quae sum velut ultima mundi;/ad Caietani gaudia prima forem.
Sebbene tu mi veda presso le estreme regioni d’Italia sono il primo vanto del suolo salentino. Mi nobilitano la pietà, lo splendore degli uomini e i templi dai soffitti a cassettoni, la pietra3 scolpita dall’abile mano. A me, mentre risuonava la fama del trionfo di Gaetano4, non rincrebbe di aver intrapreso un lungo cammino. Col cuore certamente avido, più velocemente degli stessi venti sembrai divorare tante terre con passo alato. Certamente io, per quanto sia come l’ultima città del mondo italico, potrei essere la prima per la gioia di Gaetano5.
Si direbbe che al Silos sia più simpatica, nonostante la sua marginalità geografica ricordata all’inizio e ribadita alla fine, la civile” e spirituale” Lecce della “militare” e “carnale” Taranto (anche se lo stesso verbo, nobilitare, è usato per entrambe), forse anche per la sua “affinità” religiosa. Addirittura, visto che è la citta stessa a presentarsi in prima persona, potremmo definire “parlante” l’epigramma a lei dedicato. Resta, comunque, il fatto positivo che l’una e l’altra abbiano avuto posto, come rappresentanti della Terra d’Otranto (Brindisi si metta il cuore in pace …), tra innumerevoli epigrammi dedicati, nell’una e nell’altra opera, a città importanti, e non solo italiane.
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1 L’Accademia degli Infiammati era stata fondata a Padova nel 1540 da Leone Orsini, Ugolino Martelli e Daniele Barbaro. Trasse il nome dall’insegna che riproduceva Ercole avvolto dalle fiamme sul monte Ceta dopo aver indossato, su invito della moglie Deianira, la tunica del centauro Nesso ucciso dall’eroe con una freccia bagnata del sangue dell’Idra perché durante il passaggio di un fiume aveva tentato di prendersi un altro tipo di passaggio con sua moglie … Il motto dell’accademia era Arso il mortale, al ciel n’andrà l’eterno, con riferimento all’intervento del padre Giove che pose fine alla sua agonia portandolo con sé sull’Olimpo.
2 Piccolo arbusto, dalla corteccia e dalle foglie del quale si estraevano un tempo i tannini impiegati in tintoria e come mordente per la concia delle pelli.
3 Gaetano Thiene (1480-1547), fondatore nel 1524, insieme con Gian Pietro Carafa, dell’ordine dei Teatini. Fu proclamato beato da Urbano VIII nel 1629, santo da Clemente X nel 1670; è il trionfo celebrato nell’epigramma. Ricordo che nello stesso anno del Plausus (1671) uscì la biografia del santo scritta dal Silos (vedi penultima opera citata nell’elenco iniziale).
4 Quasi scontato questo riferimento alla pietra leccese.
5 Io vi colgo un’allusione al convento dei Teatini annesso alla chiesa di S. Irene, la cui costruzione fu iniziata su progetto del teatino Francesco Grimaldi nel 1591 ed ultimata nel 1639.
Le quattro più antiche mappe a stampa di Otranto, forse … (3/?)
L’immagine si riferisce, dunque, alla fase iniziale dell’assedio e del relativo bombardamento da parte dei Turchi e trova una sorta di postuma didascalia nella memoria del 1537 lasciata manoscritta da Giovanni Michele Laggetto; una copia settecentesca del manoscritto (D/11, carte 10v-14r) è custodita nella biblioteca arcivescovile “A. De Leo” a Brindisi6. Da questo manoscritto (consultabile e scaricabile in http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209730&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU) ho tratto ciò che sembra essere l’esatta descrizione della nostra immagine (nella trascrizione ho sottolineato gli elementi descrittivi salienti).
Carte 11r-15v, passim
… pigliorono sotto vento della Città quasi un quarto di miglio per Scirocco in luoco, che si dicono Le Foggie Luoco coverto di Monte, molto commodo per disbarcare, facendo ivi subito un scaro [per scalo] tagliorono con piconi li scogli, e disbarcorno le genti, Cavalli, Artigliarie, e Munizioni, e così disbarcati i Turchi con suoni timpani, ed altre allegrie s’accostorno alla città, e con suoni di Ciaramelle s’incominciorono ad accampare le loro Tende, e Padiglioni
Padiglioni intorno alla Città.
Il Bassà poi che il campo fù assentato [per assettato] mandò un Interpetre, che i Turchi chiamano Iurìman, a fare intendere a i Capitani della Città, che esso era venuto con questa Armata, ed Esercito per ordine del suo Signore, che voleva la Città in suo dominio, e che se loro l’avessero voluta dare, e renderla liberamente, e di buona voglia
voglia senza combattere, che esso l’averia fatti liberi, e di poter andare con loro fameglie, mogli, e figli dove più ad essi avesse piaciuto, e che se avessero voluto dare la Città sotto il dominio del suo Signore che l’avria molto ben trattati come gli altri sudditi, ch’anno a lor Paese. Fù risposto al predetto Bassà per il detto interpetre da tutti comunemernte ch’essi in nessun conto deliberavano dare la Città, anzi più presto volevano morire, che venire in questo atto della dezione, e che non volevano altro Signore di quello, che aveano; e per difensione della Fede, e per il loro Signore volevano morire. E con queste, e simili parole in sostanza fecero li Capitani colli Cittadini con gran costanza d’animo per l’interpetre la risposta al Bassà, quale avuta, ed incrudelito nell’animo minacciando fuoco, fiamme, e ruina, distruzione e morte fece mettere in ordine la batteria in più parti della città; liSoldati, che v’erano dentro quasi tutti se ne fuggirono di notte calandosi colle funi dalle Mura, ma non restandoci altro solo che li Cittadini, quali facevano grand’istanza alli Capitani, che non
che non si sbigottissero, ma che stessero saldi; e di buon animo di osservare la fedeltà; ed il simile faceano li Capitani, che non si sbigottissero i Cittadini, animandoli; ed animandosi l’uno, e l’altro alla difesa contro li nemici, di modo che d’un concorde volere per levare ogni sospezione pigliorono le chiavi della Città, e quelle presente tutto il Popolo, che lo vedesse e da sopra una Torre le buttarono in mare. Ora assattate le Bombarde da Turchi per la batteria incominciorno a battere la città da più parti; cioè dalla parte di Levante, da sopra un’alto [sic]dove erano certe calcare antiche distanti dalle Mura passi 30; ed un’altro nonte chiamato il Monte di S. Francesco per ponente distante passi 80; ed anche battevano dalla parte di Ponente da un luoco detto Rocca Murata, lontano dalla Città passi 20; però il primo colpo, che fù tirato fù di quella parte di Rocca Murata, e diede la palla in una finestra della Città, che stà alla strada di mezzo, ch’era
ch’era della famiglia di Gaoti; ed andò scorrendo per la strada insino ad un luoco che si dice la piazzella, quasi mezzo la Città. Questa batteria facevano i Turchi con certe bombarde grosse di gran maraviglia, che parevano esser botti, ed erano di bronzo, ed altri [per altre] di ferro: e l’uno, e l’altro mettalo [per metallo] tiravano palle di pietra viva di smisurata grandezza, mettendoli dentro con ingegni, e le stesse palle menavano con mortali [per mortai] di molta grandezza. Le dette palle alcune erano di circuito di 10 palmi; alcuni di 8, altri di sei, e più, che ancora se ne vedono nella Città quantità, che tutte le strade ne sono piene di dentro, e di fuori alle rive del mare, benché i Signori Veneziani quando ebbero questa Città in pegno da Ferdinando ne portorno in Venezia una quantità le più belle , le più grosse, e le più maravigliose, quali posero ne i loro Arsenali per un trofeo, e memoria, ed erano di peso dette palle alcune di sei cantari l’una, alcune più, ed altre meno secondo
la grandezza, e volume loro, perche quando dette bombarde sparavano era tanto il terremoto, che pareva il Cielo, e la terra si volesse abissare, e le case ed ogni edificio per il gran terrore pareva ch’allora cascassero; tutti gli animali così aggresti, come domestici se n’erano per la gran paura fugiti [sic] dal territorio; e per l’aria non si vedevano Ucelli, per meraviglia usavano di più usavano certi strumenti chiamati Mortari, quali pur tiravano simili palle in alto verso l’aria spinte, parte della violenza della polvere, e poi cadevano dette palle in mezzo della Città, e sopra delle Case, talche non si poteva caminare per le strade, ne meno si poteva stare in casa onde si pigliò espediente di abbandonare le Case, e ridurre tutte le Donne, e figlioli nella Chiesa Maggiore, e sotto la Confessione, ed alcuni vecchi decrepiti insieme. Ma l’uomini di combattere sopra le Mura, e così continuorno di fare con quei strumenti bellici per più giorni di poco
tempo avanti. L’Avoli nostri ritrovati, e che l’antichità non ebbero stromenti veramente diabolici trovati senza alcun dubiodel Diavolo per avere più commodità di mandare ad un tratto una infinità d’anime all’Inferno.
Venerdì matinoall’Alba nel dì 12 Agosto avendone fatto una gran battaria [sic] alla cortina, quale viene da Levante verso ponente e il che aveva, e hà oggi la faccia in ostro, che è trà il Castello e la Torre e hà l’angolo verso Tramontana, dove era una porta, che si chiamava porticella; ed avendo pieno i fossi per il guasto dell’artiglierie da quella banda ordinavano che si sparasse tutta l’artigliaria senza palle, per non offendere a i loro, e con i fulmini, e con il fumo di detta artigliaria si mossero con gran impeto, e rumore d’urli, e di gridi, e con suoni di timpani e di tamburri turcheschi per entrare, dove trovarono il Capitano Francesco Zurlo con la sua compagnia di gente armata, e con un suo figlio che guardava il fuoco, e molti altri cittadini armati alla difesa, che resistevano più d’un’ora e mezza gagliardamente ributtando i Turchi, ed ammazzandono gran quantità, che ne …
Non conosco altra celebrazione scultorea della presa di Otranto se non quella dello Zimbalo (altare di San Francesco di Paola nella basilica di Santa Croce a Lecce; immagine tratta da http://www.salentoacolory.it/i-turchi-in-terra-dotranto/) successiva di quasi due secoli all’immagine dell’assedio del 1486.
Al di là della coincidenza forse scontata di alcuni dettagli (la città sullo sfondo, le tende a destra) e della discrepanza cronologica (assedio in atto/assedio concluso), se la cronaca del Laggetto appare come lo sviluppo narrativo dell’immagine del 1486, di quest’ultima l’opera dello scultore leccese costituisce la trascrizione poetica.
Appuntamento alla prossima puntata, in cui riprenderò l’esame bibliografico ed iconologico dell’opera del Foresti.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, in riferimento all’ipotetica imbiancatura, evocata nella prima puntata (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/13/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-1/) , che da qualche parte potrebbe nascondere una mappa di Otranto, debbo qui ricordare che nemmeno tale destino toccò, purtroppo, ad una pittura raffigurante Otranto eseguita dal pittore Calvano di Padova, una delle tante a lui commissionate da Alfonso II (duca di Calabria e liberatore, come vedremo, di Otranto dai Turchi) per decorare Villa Duchesca, sontuosa residenza preferita da sua moglie (Ippolita Maria Sforza), villa mai completata e ben presto abbandonata, fagocitata dalla speculazione edilizia fin dal secolo XVI e della quale oggi resta, come è avvenuto più lentamente per quella di Poggioreale, solo il nome Duchessa. Del pittore e del dipinto nulla sapremmo se cedole di pagamento della cancelleria aragonese per gli anni 1487-1489 [grazie a N. Barone (Le cedole di tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli dal 1460 al 1504 in Archivio Storico delle Provincie napoletane, IX, 1884 e a E. Percopo (Nuovi documenti su gli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, in Archivio Storico delle Provincie napoletane, XVIII-XX, 1893-1895) perché i registri originali sarebbero andati distrutti dai bombardamenti del 30 settembre 1943] non ci informassero che il Calvano fu retribuito per la decorazione di Villa Duchesca dal 1487 al 1489, data in cui iniziò ad essere regolarmente stipendiato dalla corte, e che nell’agosto 1488 l’affresco di Otranto, sul quale stava, presumibilmente, lavorando da un anno, era terminato. Tenendo conto del committente, è plausibile immaginare che il soggetto fosse proprio la liberazione della città.
Sempre nella puntata precedente avevo scritto che a quanto mi risulta, al tempo delle quattro stampe in epigrafe, la cartografia ancora non aveva abbandonato i suoi primi timidi passi (anche per via dei costi fra disegnatori ed incisori) e avrebbe cominciato a farlo nel secolo successivo per lo più con mappe rappresentanti una parte di territorio ben più esteso di quello occupato da una singola città.
L’unica eccezione può essere considerata il Liber chronicarum, più comunemente noto come Cronache di Norimberga, di Hartmann Schedel, pubblicato nel 1493, dove, accanto ad altre figure che possono essere considerate come le eredi delle miniature più complesse dei codici medioevali, compaiono anche vedute di città, considerabili come embrionali mappe.
Il corrispondente italiano, molto più modesto ma cronologicamente anteriore di un decennio, del Liber chronicarum può essere considerato il Supplementum Chronicarum del frate bergamasco Giacomo Filippo Foresti (1444-probabilmente 1520) dell’ordine degli Eremitani di S. Agostino. Di seguito documento la vicenda editoriale di quest’opera fornendo sempre la traduzione perché la parte testuale, pur non cambiando il contenuto, presenta nella forma numerose varianti.
Essa vide la luce per la prima volta nel 1483 a Venezia per i tipi di Bernardino Benali, come si legge nella sottoscrizione e nel colophon1 (in corsivo, qui e più avanti la mia traduzione).
Qui dunque porrò fine al Supplemento della storia che promisi che avrei tramandato con ogni verità. Mi sono poi sforzato [di tramandare] senza errori le successioni dei re e dei principi, le gesta loro e degli uomini eccellenti nelle discipline e l’origine delle religioni secondo quanto è scritto nei libri degli storici. Questo infatti mi ripromisi di fare all’inizio di quest’opera. L’opera poi fu completata da me nell’anno della nostra salvezza 1483 il 29 giugno nella città di Bergamo, per me nell’anno quarantonovesimo dalla nascita.
Quest’opera fu poi stampata nell’illustre città di Venezia da Bernardino Benali di Bergamo il 23 agosto dello stesso anno.
Questa prima edizione non solo non reca alcuna figura ma non contiene riferimento di sorta ad Otranto. La lacuna non è giustificata per la risonanza che gli eventi salentini, per quanto relativamente recenti, dovevano, giocoforza, aver avuto. Il Foresti, tuttavia, si fece subito perdonare.
La seconda edizione, infatti, uscì nel 1485 a Brescia per i tipi di Bonino Bonini (di seguito sottoscrizione e colophon2).
E così infine: qui col favore di Dio già propizio porrò fine al supplemento delle Cronache, [opera] che mi ripromisi ditramandare per la seconda volta con ogni diligenza e verità.In essa mi sono sforzato [di tramandare] senza errore le successioni di Re e di principi e le gesta loro e degli uomini eccellenti nelle discipline e le origini delle Religioni secondo quanto è scritto nei libri degli storici. Questo infatti mi ripromisi di fare all’inizio di quest’opera. L’opera poi fu completata e di nuovo corretta e integrata da me il 22 novembre del 1485 dalla nascita di Cristo nella città di Bergamo nel cinquantunesimo anno dalla mia nascita, mentre erano direttori per noi nell’ufficio di generalato del nostro ordine il Maestro Silvestro di Bagnaria studioso di teologia e delle buone arti e nella nostra congregazione in Lombardia vicario generale il padre fratello Agostino da Crema predicatore egregio che per trentasei quaresime con grande vantaggio della religione e delle anime continuamente predicò e restaurò ed eresse molti Monasteri.
Stampato a Brescia da Bonino Bonini di Ragusa nell’Anno del signore 1485 il promo dicembre.
Anche questa edizione è priva di figure, ma contiene un riferimento alle note vicende otrantine del 1480, come appare nei dettagli delle carte 351v-352r:
Otranto, città marittima dell’Apulia, in questo anno [1480 stampato a margine in alto all’inizio della carta] fu all’inizio assediata a lungo dall’esercito di Maometto principe dei Turchi; alla fine viene sottomessa con infinite stragi e viene perciò saccheggiata da un esercito moltiplicato [la mancanza di difensori raddoppia la forza degli attaccanti] [i Turchi]distrussero molte borgate,rubarono moltissimi animali e facendo scorribande tutto all’intorno arrecarono infiniti mali(mettendo tutto a ferro e a fuoco) al regno di Apulia; per questo Alfonso duca di Calabria che assediava la città di Siena fu costretto, abbandonato l’assedio, a ritornare a difendere le sue cose. E se Maometto non fosse stato tolto dal centro dello stato sarebbe stata la rovina non solo della provincia di Apulia ma di tutto il regno e di tutta l’Italia. [Sia]benedetto per tutto Dio che non solo ha rimesso a noi i nostri peccati. Morto così l’Imperatore dei Turchi il duca Alfonso di Calabria con molte stragi inferte e subite cinse la città di valido assedio. I Turchi poi alla notizia della morte del loro principe avendo perso la fiducia di poter difendere la città, salve le loro cose, si consegnarono ad Alfonso che entrato in città trattenne tutto e rese i Turchi suoi schiavi.
Del 1486 è la terza edizione ( la prima illustrata), uscita a Venezia ancora per i tipi di Bernardino Benali (di seguito sottoscrizione e colophon)3.
E così infine con l’aiuto e il favore di Dio porrò fine ormai per la terza volta al supplemento delle cronache, [opera] che una volta e due e tre promisi che con ogni diligenza e verità avrei realizzato; in essa ora e sempre mi sono sforzato di scrivere senza errore la successione dei re, e di tutti i principi e le gesta loro e degli uomini eccellenti nelle discipline e le origini delle religioni, nonché la sequenza di tutti i pontefici come risulta dai libri degli scrittori di storia. Perciò mi ripromisi di fare questo all’inizio di quest’opera. L’opera fu da me completata e di nuovo corretta ed integrata il 15 ottobre nell’anno 1486 dalla nascita di Cristo nella nostra città di Bergamo, nell’anno cinquantaduesimo dalla mia nascita.
Stampata poi a Venezia da Bernardino Benali di Bergamo nello stesso anno, cioè il 1486, il 15 dicembre).
Dettaglio della carta 289v:
Otranto città della Magna Grecia.
Otranto città dell’Apulia, assediata a lungo dall’esercito di Maometto principe dei Turchi e di altri, in questo anno dopo infinite stragi di uomini viene presa, saccheggiata e deturpata, devastando i Turchi con il loro esercito moltiplicato molte borgate e apportando molti mali alla regione dovunque all’intorno con le loro scorrerie. Mettendo anche tutto a ferro e a fuoco posero tutto il regno in grandissimo pericolo e se il loro imperatore Maometto non fosse stato tolto subito di mezzo c’era da credere che il pericolo avrebbe coinvolto non solo il regno di Apulia ma tutta l’Italia. Perciò anche (sia) benedetto per tutto Dio che nel comportarsi con noi non tenne conto dei nostri peccati. Per questo Alfonso duca di Calabria che allora assediava Siena città dell’Etruria, avendone avuta notizia, sciogliendo l’assedio dal luogo affrettandosi con l’esercito in Apulia cominciò a difendere il suo interesse. In verità appena morto l’imperatore dei Turchi lo stesso Alfonso subito cinse la città con uno stretto assedio. Ma i Turchi, avuta notizia della morte del principe, disperando di poter difendere la città mantenendo integre le loro cose si arresero ad Alfonso. Egli entrato in città s’impossessò di tutto e ridusse i Turchi a suoi schiavi.
Anche se il mio scritto ha un taglio esclusivamente iconologico e bibliografico e non ha alcuna pretesa di ricostruzione storica degli eventi, l’immagine del 1486 può a buon diritto avere valenza di fonte e merita, perciò, che su di essa io spenda qualche parola.
Una bombarda (A) e sei mortai4 [dei quali tre in batteria (B), due da soli (C) ed uno parzialmente montato (D) collocati sulla loro base di legno] spiccano in primo piano; a destra un gruppo di tende di foggia chiaramente orientale (E). Le mura delle città mostrano in più punti (F) gli ingenti danni procurati dall’artiglieria nemica. Sulla torre di destra sventola la cornetta (G).
4 Sono ben distinguibili in ogni mortaio la parte posteriore, di minore diametro ma più lunga (detta cannone o gola), contenente la carica di polvere da sparo, e la anteriore, di maggior diametro e più corta (detta tromba), contenente il proiettile, di solito in pietra ma talora anche in metallo. Contando come unitaria la batteria da tre pezzi c’è una singolare coincidenza numerica con quanto riportato nel presunto scritto in latino del Galateo e pubblicato in estratto nella traduzione di Michele Martiano col titolo Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nell’anno 1480 per i tipi di Lazzaro Scoriggio a Napoli nel 1612 (integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=OeViAAAAcAAJ&pg=PP11&lpg=PP11&dq=Successi+dell%27armata+turchesca+nella+citt%C3%A0+d%27Otranto&source=bl&ots=W9FTmVtEjs&sig=U0MP9VXjBHWIwzlq_rXr1YmBMIw&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj_27jR_MvJAhVItBQKHYjpBMgQ6AEIIzAB#v=onepage&q=Successi%20dell’armata%20turchesca%20nella%20citt%C3%A0%20d’Otranto&f=false), p. 4: … quindi accostati li Mahoni [ imbarcazioni per il trasporto di cavalli, artiglierie e vettovaglie] furono sbarcati li cavalli, e nel seguente giorno, che fù alli XXV di Luglio, messo in punto l’essercito, con ordine militare se inviaro verso Otranto; e riconosciutolo di fuori, conobbero, che per la profondità de’ fossi, conveniva, senza tentar altra fortuna, batter prima à terra le sue mura, il che facendosi con cinque ben grossi pezzi, per spatio di dieci giorni , né in questo tempo rallentando mai l’ordine, furono fatti in più luoghi del muro larghissime entrate …
Libri| Giovan Battista Della Porta e i segreti della natura
LOGICA E MAGIA. GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA E I SEGRETI DELLA NATURA, COLLANA “DELLAPORTIANA. STUDI E TESTI DI FILOSOFIA NATURALE”, AGORÀ & co, Lugano 2017, 174 pp.
Primo volume di una nuova collana dedicata a Della Porta e al naturalismo mediterraneo tra Rinascimento ed età moderna, Il libro fornisce un compiuto profilo filosofico di Giovan Battista Della Porta (1535-1615), inserendo la sua opera nei dibattiti scientifici napoletani del Rinascimento. Pensatore ‘più famoso che noto’ – secondo la celebre espressione di Giuseppe Gabrieli – Della Porta è uno dei protagonisti più rappresentativi della cultura filosofica e scientifica del suo tempo. Nato a Vico Equense (per alcuni a Napoli) è il primo ascritto all’Accademia dei Lincei. Si distingue ben presto per i suoi studi di ottica, di fisiognomica e di magia naturale, raggiungendo risultati di gran pregio anche sul versante del teatro.
In un passo del Del senso delle cose e della magia, rievocando i termini di una pubblica disputa con Della Porta, Tommaso Campanella (1568-1639) rivolge al filosofo campano una critica assai dura, accusandolo di essersi approcciato al mondo naturale e ai suoi ‘segreti’ con metodo meramente descrittivo.
Stanno veramente così le cose? Prendendo le mosse da questo celeberrimo episodio della biografia dei due pensatori, il libro ricostruisce l’effettiva posizione di Della Porta circa il tema degli ‘occulti segreti della natura’, approfondendo i rapporti che essa intrattiene con le riflessioni coeve sulla logica e l’astrologia.
In particolare, è preso in esame l’apporto alla formazione dellaportiana delle proposte di pensatori più o meno noti al lettore moderno (ma fondamentali nel dibattito napoletano del tempo) quali Francesco Storella di Alessano, Matteo Tafuri da Soleto, Giovanni Abioso da Bagnolo e Giovanni Pontano.
Se l’opera del salentino Storella – al tempo professore di logica a Napoli – risulta utile alla formulazione dellaportiana di una scienza dei segreti della natura non del tutto estranea all’aristotelismo, le proposte di Giovanni Abioso e di Pontano forniscono a Della Porta le coordinate astrologiche nelle quali inserire la propria riflessione sulla ricerca naturale.
Pur non negando, ma anzi ribadendo, il ruolo di Tafuri nel dibattito astrologico napoletano, il libro mostra come la visione dell’astrologia proposta dal mago di Soleto sia invece alquanto distante da quella poi formulata da Della Porta. In questa prospettiva si inserisce lo studio di un manoscritto astrologico di Tafuri, il Pronostico del nascimento di Hemilio del Tufo (1571), dove sono presenti elementi riconducibili a tradizioni di pensiero messe ai margini da Della Porta.
Per il filosofo campano – che in questo sembra collocarsi nell’ambito dell’albertinismo medievale e del Rinascimento – il mago naturale è colui che, dotato dal cielo di nascita di particolari capacità, mette in relazione, anche tramite un’adeguata preparazione teorica, gli astri e il mondo corruttibile della materia sublunare. A distinguerlo dal filosofo naturale, troppo impegnato nelle ricerca delle ‘ragioni delle cose’, è la consapevolezza che lo sforzo ermeneutico della magia naturale si misura soprattutto nel quadro della comprensione empirica, ma non per questo esente da una doverosa giustificazione logica, delle qualità occulte dei segreti della natura.
Donato Verardi, dottore di ricerca in Storia (Parigi) e in Filosofia (Pisa), vive attualmente in Francia ed è tra i più accreditati studiosi dell’opera di Giovan Battista Della Porta.
Specialista in storia del pensiero tardo medievale e rinascimentale, la sua riflessione critica è indirizzata soprattutto verso problematiche inerenti l’astronomia, l’astrologia, l’ottica e la meteorologia.
Al pensiero di Della Porta e di molti altri filosofi salentini e meridionali (Cesare Rao, Antonio Galateo, Francesco Storella, Matteo Tafuri, Girolamo Balduino) ha dedicato numerosi saggi, voci enciclopediche e diverse conferenze, in Italia e all’estero.
Ripropongo in questa sede la versione integrale del mio saggio sull’iconografia araldica dei Carmelitani Calzati di Nardò, apparso sul volume Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, a cura di Marcello Gaballo (Mario Congedo editore, Galatina 2017, pp. 259-264).
ARALDICA CARMELITANA A NARDÒ
LO STEMMA CARMELITANO: ORIGINE E SVILUPPI
L’uso degli stemmi da parte dei membri della Chiesa risale alla prima metà del Duecento, un secolo dopo la comparsa delle prime armi in ambito militare e cavalleresco. Questo ritardo si spiega facilmente se si considera che il sistema araldico primitivo si elaborò interamente al di fuori dell’influenza di Roma, la quale in un primo momento si dimostrò refrattaria all’utilizzo di emblemi profani legati a guerre e tornei. Fu solo col prevalere di un più generico significato di distinzione sociale che l’uso degli stemmi troverà piena giustificazione negli ambienti ecclesiastici, soprattutto per via della sua utilità nei sigilli[1]. L’iniziale avversione della Chiesa nei confronti delle armi cadde quindi nel momento in cui esse persero il loro carattere esclusivamente militare, diffondendosi, tra il XIII e il XIV secolo, a tutte le classi e le categorie sociali. I vescovi furono i primi a fare uso di stemmi (ca. 1220-1230), seguiti dai canonici e dai chierici secolari (ca. 1260), dagli abati e, verso la fine del Duecento, dai cardinali[2]. Quanto ai papi, il primo a utilizzare uno stemma fu Niccolò III (1277-1280), ma è con Bonifacio VIII (1294-1303) che tale uso divenne sistematico[3]. Le comunità ecclesiastiche fecero lo stesso a partire dal XIV secolo: ordini religiosi, abbazie, priorati, conventi e case religiose faranno via via un uso sempre maggiore di emblemi araldici, con le dovute differenze, a seconda del particolare ordine e delle regioni di appartenenza[4]. Anche i Carmelitani si dotarono di proprie insegne araldiche, tuttora innalzate dagli appartenenti a due distinti ordini religiosi: i Carmelitani dell’antica osservanza (o Calzati) e i Carmelitani Scalzi (o Teresiani) (figg. 1 e 2).
Sulle origini dell’arma carmelitana non si hanno riferimenti cronologici certi. Quel che sappiamo è che l’insegna vanta una lunga storia, attestata sin dalla prima metà del XV secolo[5]. In origine i frati portarono uno scudo “di tanè, cappato di bianco (d’argento)”[6], composizione che rappresenta l’araldizzazione dell’abito carmelitano, formato dalla cappa bianca aperta sull’abito di colore tanè (marrone rossiccio)[7]. Questo fenomeno di araldizzazione dell’abito si ritrova, del resto, anche nello stemma innalzato dall’Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani), nel quale però il cappato rappresenta la cappa nera aperta sull’abito bianco[8]. Il più antico esemplare a noi noto di stemma carmelitano si trova su un sigillo ogivale usato intorno al 1430 dal Capitolo Generale dell’Ordine (fig. 3).
Il campo mostra la Vergine in trono – un tipo assai ricorrente nella sfragistica carmelitana, che perdurerà fino al XVIII secolo – dentro un edicola tardo-gotica e in basso un frate genuflesso, affiancato da due scudi: quello dell’Ordine, accollato a un pastorale posto in palo, e quello di famiglia[9]; attorno la legenda SIGILLUM COMMUNE CAPITULI GENERALIS CARMELITARUM. Un altro sigillo ogivale, datato 1478 e pubblicato dal Bascapè, ha il campo suddiviso in tre piani: in alto un sole raggiante, al centro l’Annunciazione, in basso un frate affiancato da due scudetti cappati dell’Ordine[10]. Nel corso dei tempo, tuttavia, questa forma grafica primitiva conobbe numerosi sviluppi e varianti, in linea con una tendenza riscontrabile anche in altri stemmi di ordini religiosi. Lo studio delle testimonianze araldiche dimostra che l’evoluzione dell’insegna carmelitana può essere fatta risalre al XVI secolo. Sul frontespizio del Jardín espiritual di Pedro de Padilla, pubblicato a Madrid nel 1585, si trova inciso uno scudo cappato che reca per la prima volta, nelle due metà del campo, tre stelle dell’uno nell’altro[11], figure allusive alla Vergine Maria e ai profeti Elia ed Eliseo (fig. 4).
Lo scudo è timbrato da una corona, formata da un cerchio rialzato da tre fioroni e da sei perle poste a trifoglio e diademato da un arco di dodici stelle: chiaro riferimento alla corona della “donna vestita di sole” di biblica memoria (cfr. Ap 12, 1). L’uso di questo tipo di corona quale timbro dello scudo è documentato già alcuni anni prima, come si vede nell’incisione presente sul frontespizio delle Costituzioni del 1573[12].
Nel 1595 furono pubblicati i decreti per i Carmelitani di Spagna e Portogallo, dove si trova inciso uno scudo ovale[13], timbrato da una corona con cinque fioroni alternati a quattro perle, dalla quale esce come cimiero un braccio sinistro impugnante una spada fiammeggiante; sopra, un cartiglio svolazzante reca il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum (“Ardo di zelo per il Signore Dio degli eserciti”) (fig. 5).
La spada e il motto alludono, chiaramente, al profeta Elia (cfr. 1Re 19, 10). Nei secoli seguenti, questa rappresentazione completa dell’arma carmelitana, costituita dallo scudo e dalle sue ornamentazioni esterne, godette, pur tra varianti, di una certa fortuna. La riforma dell’Ordine, avvenuta nella seconda metà del Cinquecento per opera di Santa Teresa d’Ávila e di San Giovanni della Croce, ebbe conseguenze anche dal punto di vista araldico.
I Carmelitani Scalzi, infatti, si differenziarono dai Calzati aggiungendo una crocetta[14] sulla sommità del triangolo, probabilmente per “denotare la vita più penitente che essi menano osservando la primitiva regola”[15]. Ne troviamo un esempio antico sul frontespizio dei Privilegia Sacrae Congregationis Fratrum Regulam primitivam Ordinis B. Mariae de Monte Carmeli profitentium, qui Discalceati nuncupantur, opera edita a Madrid nel 1591 (fig. 6).
Come si vede nell’illustrazione, la modifica operata dagli Scalzi, una sorta di brisura[16] araldica nel senso lato del termine, riguardò solo il contenuto dello scudo, lasciando inalterate le ornamentazioni esterne, vale a dire la corona nimbata, il cimiero e il motto eliani. A poco a poco il triangolo della partizione prese la forma di un monte stilizzato, probabilmente per effetto di una diversa interpretazione attribuita al cappato, considerato come rappresentazione simbolica del biblico Monte Carmelo – al quale le origini dell’Ordine sono ricondotte – piuttosto che come araldizzazione dell’abito religioso.
Una forma particolare di stemma fu poi quella adottata in epoca moderna dalla Congregazione Mantovana, dal Camine Maggiore di Napoli e, più in generale, dai Calzati delle Province del Sud Italia, che si caratterizza per l’aggiunta, nella metà inferiore del campo, di un ramo di palma e di giglio – attributi iconografici di S. Angelo di Sicilia e S. Alberto di Trapani, i primi due canonizzati dell’Ordine – spesso infilati in una corona e talora uscenti da un monte di tre cime all’italiana[17] (figg. 7, 8)[18].
Le varianti a cui andò incontro l’insegna nel corso del tempo furono molteplici e riguardarono sia il contenuto dello scudo che le sue ornamentazioni esterne[19]. La corona, ad esempio, non compare in tutti gli stemmi e non sempre da essa esce il braccio d’Elia impugnante la spada. Anche il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum non è di uso costante. Gli smalti della metà inferiore del campo sono il tanè o il nero, ma vi sono casi eccezionali in cui esso è d’azzurro. Nel Settecento, al posto del cimiero col braccio di Elia, apparve sporadicamente un monogramma mariano dentro un sole raggiante. In linea generale si può sostenere che lo sviluppo grafico dello stemma è stato vario, condizionato, da una parte, dall’aggiunta di figure allusive alle origini e ai santi patroni dell’Ordine, e, dall’altra, da altri fattori propri della creazione artistica, quali il capriccio degli esecutori o il gusto del tempo.
L’arma carmelitana può anche comparire come quarto di religione all’interno dello scudo, dov’è associata, mediante una partizione (soprattutto il partito), all’arma (personale o familiare) dell’ecclesiastico proveniente da tale Ordine (fig. 9).
L’uso del partito, in particolare, è documentato sin dal XVII secolo negli stemmi dei priori generali e dei Carmelitani divenuti cardinali o vescovi. Talora, l’insegna dell’Ordine è posta su uno scudetto, come si vede nello stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga (†1882, O.C.D.) e in altri esempi[20]. Le suore del Secondo Ordine carmelitano, infine, portano le medesime insegne dei rispettivi ordini maschili[21].
GLI STEMMI DEI CARMELITANI CALZATI DI NARDÒ
L’arrivo dei Carmelitani dell’antica osservanza a Nardò risale al 1568, come già trattato da diversi autori in questo lavoro. Dai documenti d’archivio risulta, infatti, che in quell’anno ai frati, rappresentati da Crisostomo Romano di Mesagne, con il beneplacito del vescovo Giovan Battista Acquaviva d’Aragona e del duca Giovan Bernardino II Acquaviva, fu assegnata provvisoriamente la chiesa dell’Annunziata, dimorando in un primitivo e ridotto insediamento che avrebbero ampliato negli anni seguenti. Alla fine del XVI secolo è databile l’esemplare araldico più antico giunto fino a noi, scolpito sulla facciata dell’ex convento (fig. 10).
All’interno di uno scudo appuntato, col lato superiore sagomato a due punte, è rappresentato un monte[22] stilizzato e acuminato, accompagnato, nel cantone destro del capo, da una cometa di sette raggi (più la coda), ondeggiante in banda. Lo scudo è timbrato da una corona costituita da un cerchio gemmato di stelle, sostenente fioroni oggi quasi del tutto abrasi. La composizione araldica è posta su un medaglione circolare, attorno al quale corre la scritta INSIGNE CARMELI VEXILLUM. L’uso del termine “vexillum” con riferimento allo stemma carmelitano non è certo una novità (fig. 5) e si riferisce probabilmente all’origine vessillare dell’insegna dell’Ordine[23].
Come ho già ricordato sopra, fu solo alla fine del Cinquecento che lo stemma carmelitano assunse la forma col cappato (variamente interpretato) e le tre stelle, che sarebbe poi diventata classica (figg. 4 e 5). L’esemplare litico neretino si rivela, da questo punto di vista, una testimonianza di notevole interesse perché mostra una variante insolita nell’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, ascrivibile a una fase transizione dello stemma dalla versione primitiva a quello classica. Probabilmente seicentesca è, invece, l’arma affrescata sulla volta dell’ingresso dell’ex convento (fig. 11), riconducibile alla variante con i rami di palma e di giglio, decussati e uscenti da una corona, usata in epoca moderna nel Meridione d’Italia (figg. 7, 8)[24].
Lo scudo, di foggia semirotonda e con contorno a cartoccio, timbrato da una corona con cinque fioroni e quattro perle, appare ingentilito, ai lati, da un cordone di tanè terminante con due nappe e, al di sotto della punta, da un cherubino; il tutto è circondato da un serto di alloro. Alla stessa tipologia appartengono due altri esemplari presenti nell’ex convento. Uno di questi è dipinto sul trono su cui è assisa la Vergine nell’affresco della Madonna del Carmelo e reca uno scudo sagomato e accartocciato, timbrato da una corona all’antica[25] (fig. 12).
L’altro si trova scolpito sulla volta del salone al pianterreno, racchiuso da uno scudo semirotondo e accartocciato, timbrato da una corona con perle sostenute da punte (fig. 13).
Nella chiesa della Beata Vergine Maria del Carmelo (in origine chiesa dell’Annunziata) si conservano altri tre esemplari che invece rispecchiano, seppur con varianti, l’iconografia classica dello stemma dei Carmelitani Calzati. Il primo è raffigurato su una lastra marmorea che in origine copriva l’accesso della sepoltura dei frati e che attualmente si trova come pezzo erratico in un deposito della chiesa (fig. 14).
Tale lastra mostra al centro l’emblema dei Calzati, racchiuso da uno scudo ovale e accartocciato, timbrato da una corona rialzata da cinque fioroni, alternati a quattro perle, sostenute da altrettante punte. Il secondo esemplare è uno stemma ligneo che fa bella mostra di sé sul fastigio dell’edicola centrale del coro (fig. 15).
Uno scudo sagomato e accartocciato, dalla foggia tipicamente settecentesca, timbrato da una corona di cui resta solo il cerchio, contiene un’irregolare rappresentazione dell’arma dei Calzati, così blasonabile: “troncato in scaglione di tanè e di…?, a tre stelle di otto raggi d’oro”[26].
Chiude questa carrellata di stemmi l’esemplare che decora un drappo rosso conservato fra gli arredi sacri della chiesa[27]. L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico accartocciato, munito di una punta nel lato superiore e timbrato da una corona all’antica (fig. 16).
In conclusione, in base alle testimonianze superstiti si può affermare che la rappresentazione dello stemma innalzato dai Calzati di Nardò seguì, pur tra varianti, l’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, caratterizzata dalla progressiva aggiunta sul cappato originario di figure e simboli allusivi agli ispiratori e ai santi patroni dell’Ordine. Se letti correttamente e in senso diacronico, gli esemplari neretini mostrano tre diverse fasi evolutive nella conformazione dell’insegna, che vanno dallo sviluppo della forma primitiva (fig. 10) alla forma classica (figg. 14, 15 e 16), passando attraverso la variante seicentesca adoperata nel Sud Italia (figg. 11, 12 e 13).
Riprodotti su supporti di vario tipo, questi stemmi furono impiegati dai frati con la duplice funzione di segni di appartenenza all’Ordine e motivi decorativi. Malgrado il notevole numero di varianti, i Calzati si riconobbero tutti nella propria insegna, professando orgogliosamente per mezzo di essa la propria fede e la propria appartenenza all’Ordine, con l’intento di trasmettere questo patrimonio ideale alle future generazioni. Sta a noi, dunque, decifrane il contenuto e diffonderne il messaggio: è questo, in fondo, l’obiettivo che il presente contributo, scevro da qualunque pretesta di esaustività, si propone di raggiungere.
[1] B. B. Heim, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi,legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 23-24; M. Pastoureau, Le nom et l’armoirie. Histoire et géographie des armes parlantes dans l’Occident médiéval, in “L’identità genealogica e araldica. Fonti, metodologie, interdisciplinarità, prospettive”, Atti del XXIII Congresso internazionale di scienze genealogica e araldica (Torino, 1998), Roma 2000, pp. 78-79.
[2] M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014, pp. 201-202; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la findu XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in “Médiévales”, 44 (2003), pp. 173-198.
[3] Sulle origini dell’araldica papale, v. Bouyé, Les armoiries pontificales cit., pp. 173-198; Heim, L’araldica cit., p. 100.
[4] A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale diaraldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 17-18.
[5] Le fonti per lo studio dell’arma carmelitana antica sono costituite essenzialmente dai sigilli. Sulla sfragistica e sull’araldica carmelitane, v. G.C. Bascapè, Sigillografia: il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nellastoria, nell’arte, II, Milano 1969, pp. 180-186.
[6] Nel blasone il termine cappato designa una partizione formata da due linee curve o rette che partono dal centro del capo e terminano ognuna al centro dei fianchi dello scudo. Come vedremo, nel corso del tempo il cappato carmelitano venne reso in maniera diversa, fino ad assumere la forma di un troncato in scaglione o di un monte stilizzato.
[7] Tuttavia, negli stemmi disegnati e stampati il colore tanè, che non fa parte dei sette smalti convenzionali del blasone (oro, argento, rosso, azzurro, verde, nero e porpora), diventa spesso nero. Il Ménestrier, il più autorevole araldista dell’Ancien Régime, a proposito dello stemma carmelitano così scrive: “L’Ordre des Carmes porte un escu tanè ou noir, chappé ou mantelé d’argent, pour representer les couleurs de leur habit”. C.F. Ménestrier, Les recherches du blason. Seconde partie de l’usage des armoiries, Paris 1673, p. 182. L’uso di una formula bicroma negli abiti religiosi fu introdotto intorno al 1220 dai Domenicani (saio bianco e mantello nero, presentati come i colori della purezza e dell’austerità) e fu ripreso dagli stessi Carmelitani e da alcuni ordini monastici (Celestini, Bernardini, ecc.). Su tale questione, v. Pastoureau, Medioevo simbolico cit., p. 140.
[8] Sull’insegna domenicana e sulle sue varianti, v. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 203-205.
[9] Nei sigilli ecclesiastici, l’uso di associare, ai lati della figura del religioso, due scudi (quello del vescovado, dell’abbazia o dell’ordine, da un lato, e quello familiare, dall’altro) è riscontrabile a partire dal XIV secolo. A. Coulon, Éléments de sigillographie ecclésiastique française, in “Revue d’histoire de l’Église de France”, 18 (1932), pp. 178-179.
[10] Bascapè, Sigillografia cit., tav. XXXI, n. 3.
[11] Si dice di più figure che, poste in campi contigui di smalti diversi, assumono lo smalto del campo opposto. Le stelle sono invece due nell’esemplare inciso sul frontespizio delle Costituzioni del 1573, pubblicato dal Bascapè. Cfr. ivi, tav. XXXII, n. 7.
[13] Si noti la presenza, attorno allo scudo, di una bordura composta, formata da triangoli alternati di nero e di bianco (d’argento), ripetizione degli smalti del cappato. Questo tipo di bordura è simile a quella che compare nello stemma domenicano, del tipo con la croce gigliata.
[14] La provincia di Sicilia poneva, invece, un altro tipo di croce, quella gerosolimitana, potenziata e accantonata da quattro crocette, il cui uso è attestato anche per i Carmelitani di Malta. G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, p. 9.
[15] Bascapè, Sigillografia cit., p. 185; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, X, Venezia 1841, p. 59.
[16] La brisura, stricto sensu, è una variante introdotta in uno stemma rispetto all’originale, per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. I procedimenti più impiegati per brisare un’arma sono tre: la modificazione degli smalti, la modificazione delle figure e l’aggiunta di altre figure.
[17] Figura stilizzata, costituita da un insieme di cilindri coperti da calotte sferiche, detti colli o cime, disposti, generalmente, a piramide.
[20] Lo stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga è riprodotto sul sito Araldica vaticana, al seguente indirizzo: <http://www.araldicavaticana.com/luch_y_garriga_fra_gioacchino_1.htm>. Altri esempi di stemmi prelatizi con lo scudetto dell’Ordine si trovano in G.C. Bascapè, M. Del Piazzo, con la cooperazione di L. Borgia, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata,medievale e moderna, Roma 1999, pp. 404, 409.
[22] Utilizzo volutamente il termine monte e non montagna (che sarebbe araldicamente più corretto) perché più allusivo alle origini dell’Ordine.
[23] Il termine vexillum si trova documentato per la prima volta sulla xilografia raffigurata sul frontespizio della Vita di Sant’Alberto, pubblicata nel 1499, dove compare una mandorla ogivale, raggiante e sostenuta da due angeli, che contiene nel campo superiore la Vergine assisa in trono, incoronata e nimbata, sul cui grembo sta il Bambino, mentre i piedi poggiano su una mezzaluna su cui è inciso il motto “luna sub pedibus eius”; nel campo inferiore, invece, si trova il cappato carmelitano. Secondo il Bascapè, si tratta della riproduzione del gonfalone dell’Ordine, della fine del Trecento o degli inizi del secolo successivo. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 181-182.
[24] Di questa variante dello stemma carmelitano sono documentate versioni con una o con tre stelle. Cfr. <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto034.jpg>; <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto033.jpg>.
[25] Si dice della corona composta da un cerchio rialzato da punte aguzze. In araldica è detta anche corona radiata.
[26] V. supra, nota 6. Si noti anche la differenza rispetto agli smalti convenzionalmente usati nel blasone dei Carmelitani.
[27] Marcello Gaballo, che ringrazio, mi ha riferito che il drappo era applicato dietro la croce processionale della Confraternita dell’Annunziata e del Carmine.
Un’inedita arte del ricamo: “Needle Time” (il tempo dell’ago)
Un’inedita arte del ricamo: “Needle Time” è la personale di Gianfranco Basso a Palazzo Vernazza
In esposizione opere “pittoriche” che nella linearità segnica del ricamo intrecciano nuovo e l’antico, passato e presente, a cura di Carmelo Cipriani.
Vernissage sabato 9 settembre alle 19
Una personale originale quella di Gianfranco Basso, artista poliedrico (è anche fotografo e scultore) di origini salentine ma di stanza a Roma, in esposizione a Palazzo Vernazza dal 9 al 24 settembre. Le opere sono realizzate con la tecnica del ricamo, da questo l’ispirazione del titolo “Needle Time” (il tempo dell’ago). Vernissage fissato per sabato 9 settembre alle 19.
Quindici tele ricamate, quattordici a mano e una a macchina dai piccoli ai grandi formati (fino ai 200 cm x 130 cm) nate dall’ingegno e dall’estro dell’artista che rielabora un’arte antica con contenuti contemporanei e forme attuali, un’analisi sullo stato di fatto ma anche riflessione sulla relatività dell’attimo, al tempo stesso punto di arrivo e di ripartenza.
“Nel suo lavoro, – scrive nel testo critico Carmelo Cipriani, curatore della mostra – pur nell’innegabile originalità, non è difficile leggere i segni di una riflessione profonda sul passato artistico, italiano in particolare. Ai mezzi tecnologici e ai linguaggi più attuali, Basso preferisce il candore di un mezzo antico ed inaspettato com’è quello del ricamo. Nella dimensione appartata, a tratti epica, dello studio, Basso ricama ogni giorno, senza timore di apparire anacronistico, con il solo scopo di esprimersi. Cerchietto, fili variopinti e tessuti neutri ma anche rigati o floreali hanno preso il posto di tele e colori, rappresentando i nuovi-vecchi strumenti per la conquista dell’intangibile, in una dimensione solo all’apparenza paradossale, in cui le basi del nuovo si rintracciano nell’antico”.
La mostra, promossa dall’Associazione Culturale “De la dà mar. Centro Studi sulle Arti Pugliesi” e patrocinata dall’Assessorato all’Industria turistica e culturale, gestione e valorizzazione dei Beni Culturali della Regione Puglia, dalla Provincia di Lecce e dal Comune di Lecce, è visitabile, a ingresso libero e gratuito, dal lunedì al giovedì dalle 17 alle 21, dal venerdì alla domenica dalle 9 alle 13 e dalle 17 alle 21.
Gianfranco Basso è nato a Lecce nel 1978. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma laureandosi in Pittura nel 2009. Nel corso degli anni si appassiona anche alla fotografia e alla scultura. La sua ricerca indaga il rapporto tra spazio e individuo. Nelle opere è il vuoto a creare lo spazio, ambiente catartico in cui gli oggetti e le figure vivono, pensano ed esistono. Nel 2015 ha avviato una collaborazione con lo Studio Arte Cannaviello ed è stato scelto da Alberto Dambruoso, direttore artistico de “I Martedì Critici”, per partecipare al progetto di residenza artistica BoCS Art a Cosenza. Nel 2012 ha ricevuto il premio della critica alla “I Biennale Internazionale – Città di Lecce”, mentre nel 2016, sempre nel Salento, ha vinto il Premio di pittura intitolato al grande paesaggista Giuseppe Casciaro. È stato tra i finalisti al Premio Arte Cairo Editore, al Celeste Prize 2015 e al Donkey Prize III. Molte le mostre all’attivo. Tra le ultime “In-Perfectione”, collettiva allestita nel 2016 nell’ex convento dei Domenicani a Ruvo di Puglia e “Momentum”, personale del 2016 presso Loft Gallery Spazio Mater a Roma. Di recente ha esposto le sue opere a Pechino. Vive e lavora tra Lecce e Roma.
Una serata con i cortometraggi e i documentari prodotti da Apulia Film Commission, organizzata da Comune di Maglie con Fondazione Capece e il patrocinio di AFC.
cinque, sei, sette volte ho messo mano a una risposta, e se vuoi a un riscontro, alla tua “Terza generazione”. E ogni volta, puntualmente, ho tracciato una croce sghemba sul manoscritto e ho mandato tutto all’aria. Qualcosa non quadrava, qualcos’ altro mi sfuggiva, mentre intendevo trovare una misura, con echi sinceri, realistici e speculari a quanto hai scritto in quelle pagine. Lo faccio ora, in via definitiva, forse perché mi sento in una condizione serena, (per quanto si possa restare sereni ad ogni rilettura del tuo testo), forse anche perché non ti aspetti più alcuna mia risposta, mentre io non ho mai rimosso questi tuoi grumi di vita vissuta, di esperienze esistenziali, di delusioni (tradimenti) e di illusioni futuribili (l’eterno inganno meridionale di una pertinace “speranza”. Capirai dagli ultimi righi perché questo disprezzo del termine).
Dunque. Tu rivedi un tuo cugino dopo una parentesi di dodici anni. Tu e lui anagraficamente adulti, ormai, ma ancora segnati (particolarmente tu, par di capire) dagli antichi ragionamenti sul mondo, qual era e come avreste voluto trasformarlo, nel senso di renderlo migliore e più nobile, o meno ignobile, nel momento in cui nella nostra cultura e civiltà si attuava una svolta radicale, e Supersano, il Salento e il Sud erano in fase di mutazione e si sentivano scivolare di dosso la vecchia pelle come la “camicia” di un rettile. Tu scrivi: era il 1960, tempo del miraggio di un salario fisso e del consumismo che aveva varcato anche le frontiere del Mezzogiorno, ma pure dell’emigrazione, dell’ espulsione dei valori consolidati della civiltà rurale dal contesto dell’antropologia umana e civile che aveva contrassegnato la nostra identità dalla notte dei tempi. E’ il tuo appassionato elogio dell’universo contadino, quello che aveva formato la tua (e nostra) anima e la tua (e nostra) coscienza e conoscenza, quello che però registri come irrimediabilmente tramontato. Era fatale che accadesse. I nostri contadini, i nostri artigiani, i “negri bianchi” che affollavano i mai abbastanza maledetti ”treni della speranza” (ho il malinconico vanto di avere inventato questa espressione nel linguaggio del giornalismo d’inchiesta italiano) erano esuli solitari della fame, erano miriametri di fasci muscolari, erano tonnellate di disperata materia grigia, che andavano al Nord e in Europa a vedere, come si diceva dalle nostre parti, “dove chiarisce il giorno”: vale a dire, dove fossero possibili un lavoro meno precario, un tozzo di pane meno amaro, un’ accumulazione primitiva di microcapitali in valuta che un giorno consentissero il ritorno ai luoghi d’origine, l’impianto di una modesta attività lavorativa (al pianterreno) e di un’abitazione con l’acqua corrente (da sempre più preziosa dell’ argento vivo) e col bagno di ceramica ordinaria (accanto all’officina o alla bottega che dir si voglia, oppure al primo piano) che sostituisse il vaso di coccio o il cesso dietro un paravento di fortuna. Tu sai che non sto inventando nulla: la condizione civile e sociale di un imponente di “lumpenproletariat” avrebbe reclamato una autentica rivoluzione, che non ci fu. E quando si realizzò, fu pacifica e nello stesso tempo radicale: si chiamò spopolamento di interi paesi e abbandono delle campagne, ricerca della tuta blu, trasferimento delle radici (e dei valori) oltre i confini dell’antico Regno di Napoli. In quei giorni cominciò a morire il vecchio Sud rurale. Osserva i nostri paesi. Le periferie sono butterate da costruzioni, che ancora oggi grondano sudore e sangue versati da quegli uomini in quegli anni. E sono orrende periferie, sotto il profilo urbanistico e architettonico. Alcune hanno divorato boschi, devastato campagne, sottomesso violentemente serre e pianure. Eppure testimoniano del transito, del passaggio su un diverso e più dignitoso gradino, appunto, civile e sociale. Sono il segno tattile del nostro inconfessato ri-morso. Così sono state travolte le superbe skylines salentine e meridionali, le linee del cielo e i profili degli orizzonti che ci facevano immaginare – da bambini – mondi altri e diversi, esplorazioni esotiche, scoperte da mozzare il fiato. E sono stati abbandonati i centri storici, perché in tanti, una volta indossato un doppiopetto, si vergognavano di abitarli: e con questo esodo è stata uccisa la solidarietà di vicinato, come sono svaniti il sentimento comune dei problemi di ciascuno e il disinteressato sentimento di missione professionale che appartenne a poche, ma alte figure locali. Se, poi, abbiamo voluto più lampadine elettriche in casa e tra gli sbavi di verde nei nostri giardini sgradevolmente pettinati, se abbiamo reclamato più pali d’illuminazione lungo le strade e nelle piazze, possiamo pretendere ora di vedere le orse e le costellazioni? Il progresso non comporta molte perfidie e qualche tradimento? Il fatto è che ti (ci) condiziona il tuo (nostro) background umanistico, fusione nell’ anima magnogreca di tutto ciò che il mondo classico ci ha donato. Musica, poesia, narrativa, cinema, (e io aggiungo il teatro), sicuramente hanno preservato da più torvi imbarbarimenti, ma proprio questa è la nostra croce, perché siamo fatalmente portati al confronto e al giudizio, al rimpianto per quel che poteva essere e non è stato e alla presa d’atto (spesso unilaterale) dell’ impoverimento ideale e spirituale del nostro tempo. E’ quello che tu esplicitamente definisci “il senno del poi”. Il treno che passa una sola volta, ma che non si prende. L’attimo che fugge e non ritorna. L’ euclideo “panta rei”, ogni cosa che scorre e non è mai più. Non è mai più se stessa. Per nessuno. Perciò, ad esempio, inorridiamo se a Torrepaduli (villaggio emblematico della nostra terra) si può ballare la pizzica utilizzando strumenti del tutto estranei, e persino alieni alla tradizione musicale che ci diede identità anche nel mito del tarantismo, cioè della sintesi estrema del cono d’ombra dentro il quale trovarono rifugio e forza di proiezione culti pagani e innesti cristiani. Si esorcizza così lo smarrimento della civiltà contadina, tu dici. Ed è vero. Con un’ aggravante: la pizzica, espressione storica di un malessere sociale, civile, e dunque politico (nel significato etimologico del termine: di vita della polis), è da tempo una sovrastruttura consumistica, le radici sono andate perdute, le coordinate antropologiche cancellate. La “malattia” è ludica. La taranta cantata o ballata è competitiva sul mercato del sound e del rock. In Salento sopravvivono riti residuali, figurazioni artefatte, sussulti coma tosi. Come gli arrosti sulle scogliere marine nella notte di San Lorenzo, come la sbronza di rigore la sera di San Martino, fanno parte di scintillanti quanto caduche liturgie che oggi incantano quasi esclusivamente gli spiriti romantici, e semmai sciolg~no il sangue agli algidi turisti del Nord. La pizzica-taranta non è più bruco, non sarà mai più farfalla. E’ una crisalide svuotata e infeconda.
Il “vostro” ’68 fu un crogiolo formativo, un’entusiastica affabulazione, un sogno che fortemente voleva valicare la linea polare delle pure e semplici proposizioni astratte per farsi esperienza reale di vita e d’impegno. Appunto: era il “vostro” sogno, e anche quello di tanti altri generosi sodalizi giovanili che germinarono non soltanto sugli echi ondulari di quanto sarebbe accaduto nel Maggio francese (non va dimenticato: quel Maggio fu a sua volta anticipato dal ’67 di Sociologia a Trento), ma anche nella visione complessiva della condizione delle aree arretrate e dell’Italia (nel frattempo “meridionalizzata”) in generale, con i salari compressi, con la ricchezza nazionale mal distribuita, con le persistenti maree migratorie, con la rapina delle rimesse in valuta dei nostri ex contadini e artigiani usate per pagare le importazioni di materie prime destinate solo alle imprese del Nord, col trasferimento al Sud di aziende votate all’obsolescenza, e con l’eterna questione meridionale che, raggirata da una strumentale questione settentrionale, vide impegnato il pensiero di fior di intellettuali, mandato in fumo dallo strategico disimpegno di fior di politici nazionali. Al vostro, seguì il vero e proprio ’68, e fu una catastrofe, uno scirocco travestito da libeccio che seppe solo distruggere, far marcire, togliere anima, senza saper creare nulla. Non generò, a differenza di quanto accadde in Francia, una classe politica in grado di progettare un sistema-Paese moderno; non fu capace di spirito predittivo; non seppe, non poté o non volle impedire abusi, corruzioni, regressioni dei contigui anni ’70 e dei vicini e orribili anni ’80. Tanta passione, tu dici. Ci fu anche passione civile, certamente, ma morì nello spazio di un mattino, issata sulla forca di interessi di parte, di tribù, di cosca. E ci furono tanta utopia e tanta ingenuità, aggiungi. Appunto, fu così: ma guai a non dare ascolto a un’utopia possibile, e per converso guai a non disertare il territorio infido dell’ingenuità. Fatto è che, espugnate le stanze del potere, (Università, giornali, uffici-studi, marketing…), e abbandonate a se stesse le masse giovanili che ci avevano creduto, i leaders sessantottini borghesemente riposarono sulle macerie ancora fumanti, consentendo l’onda d’urto di forza contraria. La reazione si sommò ai loro e agli altrui ritorni al privato (all’interesse privato), che tenacemente perdurano abilmente coniugati con accanite competizioni planetarie e nazionali che hanno comportato di primo acchito il crollo dei valori che pure erano stati alla base di quelle che defmisci “certezze acquisite, quelle d’origine”, che però avevamo buttato a mare. Che non sarebbero state tutte valide, col mutare dei tempi; ma che comunque almeno in parte sottintendevano un sostrato etico (amicizia, lealtà, solidarietà, rispetto di regole condivise…) senza il quale una civiltà naviga verso il declino e l’uomo diventa alieno all’uomo. Se questa è la storia del nostro recente passato, scritto sulla nostra carne e nella nostra memoria; se queste sono state le direttrici dell’azione culturale e politica sulla quale abbiamo costruito le strutture portanti del nostro presente; se mai come ora il senso di solitudine, di impotenza, di devastazione fisica e morale ci ha impastato di cinismo e di “particulare”, su chi potremo mai contare per riemergere e rimettere l’uomo al centro degli interessi e dei fini: sulla prima generazione, perduta al modo della legione romana che si spinse in viaggio verso le “terre nuove” dell’ Oriente medio ed estremo, senza riuscire a far ritorno, come testimoniano un tempio con colonne ioniche e i lineamenti mediterranei di una piccola popolazione tuttora residente nel cuore della Cina; oppure sulla generazione migrata in massa, dunque perduta anch’essa, che ha ormai per patria il mondo e che reprime la nostalgia per le radici per non compromettere il proprio futuro e quello dei figli; o infime su quella che vera e propria generazione non è, non può essere, perché include intelligenze ipersensibili, e per questo probabilmente più delicate e fragili, in ogni caso non manipolabili, che hanno manifestato un unilaterale e irrevocabile “gran rifiuto”, restando spiriti solitari, scegliendo l’impegno al di fuori di qualsiasi interesse precostituito, pagando con l’emarginazione o con l’esclusione o con la persecuzione sottilmente calunniosa il prezzo della propria decisione? (E penso con rabbia mal repressa all’esperienza di tuo cugino, che ha scelto l’assenza, attraverso una dolorosa uscita di sicurezza, chiedendo asilo a un’età che per antonomasia doveva essere “dell’oro”, e che invece fu “del piombo”, alla luce delle vicissitudini del piccolo Sergio, all’anagrafe Salvatore, nato in una notte di Natale che non portò con sé alcun dono o risarcimento, né nel nome della bontà né in quello della redenzione, da offrire come segno di rimorso a un orco in abiti talari. O forse la “nuova” età dell’oro l’ha misteriosamente scoperta in questa sua sublime fuga nella pazzia: una croce, ma forse più ancora una caverna un bosco una sorgente primigenia d’una latitudine non bassa, non carsica, ma alta e siderale, al modo di quanto sosteneva nel suo “Elogio” Erasmo da Rotterdam, e altrettanto bene affermavano gli esegeti musulmani, secondo i quali i pazzi sono Santi perché hanno donato la ragione a Dio? Domande che, incontrando per caso o per avventura tuo cugino, non potrei mai porre, e non solo per mia consueta. discrezione, ma soprattutto perché, scegliendo il divino territorio della non-ragione, Sergio alias Salvatore ha attinto una cognizione del dolore sconosciuta a noi uomini ordinari, a me e a te che siamo stati teste d’ariete, abbiamo affrontato la vita e le sue insidie con determinazione gladiatoria, e ce l’abbiamo fatta, oppure no, ma nessuno può accusarci di non avercela messa tutta. E vien da chiedersi: chi è sconfitto? Chi abita una regione per noi – esseri limitati dalla necessità – sconosciuta o incomprensibile, e lì forse dà libero corso ai propri sogni segreti e slanci appassionati e avventure dello spirito; oppure chi solca le prevedibili rotte di un’ esistenza condizionata, a volte compromissoria, altre volte contraddittoria, mai veramente libera, sempre priva di un buen retiro che non sia fittizio, talora frutto tossico di un malinteso “piacere di sembrare”, di apparire e non di essere, di avere e ancora una volta non di essere? Osservala con occhio disincantato, quest’umanità banale che ci assedia: privi come sono di pensiero propositivo, pretendono di essere tutti eternamente giovani, tutti belli, tutti intelligenti, tutti sulla cresta dell’onda, visibili, presenzialisti e fatui. Miscela micidiale, il mito di Narciso alimentato da un illusorio elisir di lunga vita: l’eternità giovanilistica conseguita per i secoli dei secoli! E non è escluso che a forza di trapianti diventeremo doni interetnici, con sezioni di corpi magari criminosamente procurate, e ricostruite e innestate nel nome di ben altra follia, questa sì ignobile, perché violenta e innaturale).
La Seconda Generazione, poi. Che dalla prima per li rami deriva, sotto il profilo dell’antropologia culturale e della stessa psicologia. E a questo punto, devi avere pazienza, e formulare insieme con me qualche domanda che sta, come si suoi dire, “a monte”. La prima: – Ma c’è stata veramente, a Sud, una civiltà contadina? -. Una polemica in proposito esplose quando Carlo Levi diede alle stampe il suo “Cristo si è fermato a Eboli”, e fu il Pci dell’epoca ad assumere un atteggiamento radicalmente critico nei confronti dello scrittore e dei sostenitori dell’esistenza di quella civiltà. Il problema non era tanto quello di intendersi sul valore dell’ aggettivo (“contadina”), quanto su quello del sostantivo (“civiltà”). Rientravano in una civiltà con qualsiasi aggettivazione i bambini sfruttati per sedici ore al giorno nelle miniere di carbone della Sardegna, o quelli che smagrivano fmo a morire nelle miniere di zolfo o di sal gemma nella Sicilia; le vendemmiatrici e le raccoglitrici di olive che in Calabria, mentre lavoravano, dovevano portare la museruola per non cedere alle tentazioni della fame; le migliaia di uomini e di donne vestiti a festa (cioè di nero, colore luttuoso, con i miserabili panni che avevano indossato il giorno del matrimonio e in qualche festa comandata, e che avrebbero reindossato soltanto il giorno della loro morte) che stavano in piedi, testimoni di pietra, sulle soglie dei loro tuguri, fra le ripide scalinate scavate con il piccone, sulle cupole degli antri occupati da uomini e bestie, in quella casbah trogloditica che erano i “Sassi” di Matera, al cospetto dei quali De Gasperi scoppiò in lacrime; i mietitori del Tavoliere delle Puglie che lavoravano da crepuscolo (dell’alba) a crepuscolo (del tramonto), con l’orcio dell’acqua che passava una volta soltanto, a sole meridiano, e che, guardati a vista da un “soprastante” armato di fucile, se trasgredivano gli ordini o rallentavano il ritmo forsennato del lavoro o chiedevano un solo altro sorso d’acqua venivano esclusi dal lavoro per quella e per tutte le altre stagioni a venire, elencati in una lista di proscrizione redatta nel Castello di Federico TI, Castel del Monte, e passata di mano in mano fra tutti i latifondisti della Capitanata; e le nostre tabacchine, (delle donne anche incinte, ma guai a sapersi in fabbrica, pena il licenziamento in tronco), alle quali non era consentito neanche di orinare per dieci-dodici ore, anch’esse tenute d’occhio dalla “maestra” che traeva prestigio soltanto dal rozzo rigore con cui applicava quel che poteva applicare, vale a dire esclusivamente i divieti; e le campagne raggiunte a piedi (nudi) prima dell’alba e condotte con strumenti primordiali, buoni per l’olio di gomito, cioè per la fatica fisica, senza macchine agricole, senz’acqua, senza energia rurale, senza strade di collegamento, senza servizi minimi; e i giornalieri affamati, al pari delle loro famiglie, raccolti nelle piazze di paese in attesa di un ingaggio; e l’ineducazione sessuale, buona per sfornare cucciolate di figli candidati all’ indigenza e alla precarietà fisica (oltre che agli arruolamenti per un po’ di guerre mondiali), sebbene circolasse fin dagli anni ‘ 50 il celeberrimo “Rapporto Kinsey” che alla disoccupazione e ad altre frustrazioni e schiavitù attribuiva l’intensificarsi dei rapporti sessuali, sempre incontrollati; e via elencando? Sicuramente, c’erano i valori di cui tu parli, e io parlo; e alcuni erano valori senza tempo, vorrei dire precetti di una inconsapevole religiosità laica largamente condivisa che regolavano la vita delle comunità. Ma molti di essi erano connessi a quell ‘universo arretrato, immobile (e strumentalmente immobilizzato dalla politica dualistica italiana), con un suo proprio fuso orario, con un ritmo del tempo che non si dominava, non si accelerava a volontà, col cuore viola che faceva “tremare la terra” per le marce dei contadini che ne reclamavano il possesso: salvo scoprire, poi, a riforma agraria bene o male attuata, che era stata tutta un’ illusione, e che alla terra non si poteva chiedere più nulla. Transitando in automobile per il Foggiano, guardai e le case rurali di quella riforma. Sono ancora là, con le orbite nere, le pareti sbilenche, le stalle e i fienili desolati. Gli assegnatari, dopo poco tempo, esasperati dall’isolamento, (solo gli uomini di cultura protestante, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, hanno imparato da secoli ad abitare le campagne che lavorano), vendettero porte e fmestre, abbandonarono tutto il resto, legarono le valigie con lo spago, ed emigrarono. Si poteva defmire “civiltà” quest’inferno? Si poteva benedire un sole che, amico delle pianure nebbiose del Nord, era implacabilmente ostile nelle pianure e nelle murge luminose del Sud? Questione aperta, confronto non ancora concluso. Giudizio da tener sospeso. Ma soltanto come esercizio intellettuale.
La seconda domanda: – Se si escludono i Vespri e quella napoletana del 1799, oltre al buon riformismo di un Gioacchino Murat che, al modo dell’ultimo re svevo, il ghibellino Corradino, i meridionali fucilarono dopo processo sommario, il Sud (l’Italia) ha mai realizzato un’autentica rivoluzione? Che io sappia, no. Non proletaria, e non solo perché le masse avevano il problema del pane quotidiano, (“Franza o Spagna, purché se magna”), ed erano stremate fisicamente e psicologicamente, ma soprattutto perché erano inesistenti sul piano culturale, (indici di analfabetismo più alti d ‘Europa), oltre che vessate da una violenza baronale cieca e, alla lunga, suicida. Del resto, ripercorri un po’ di narrativa e di poesia di scrittori meridionali: dopo Verga, Capuana, Pirandello, Brancati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Quasimodo e Cattafi, siciliani; dopo alcune cose della Negri e dopo Lussu, sardi; dopo Répaci e Alvaro, e – per l’emigrazione – Strati, calabresi; dopo Scotellaro, Gatto, Sinisgalli, Pierro e il recentissimo Nigro, lucani; dopo alcune pagine di Cassieri, e Bodini, Tommaso e Vittorio Fiore, Accrocca, Pierri, i recenti Verri e De Donno, pugliesi; dopo il lontano (nel tempo) Jovine, molisano, e il più vicino Silone, abruzzese; dopo Marotta, Rea, Compagnone, Prisco e De Filippo, campani, poco o nient’altro ha avuto il Sud come protagonista, i popoli del Sud come matrici di narrazione, come scuola di poesia, come impronta identitaria nazionale. Non per niente l’industria editoriale è dispiegata al Nord. Non per niente la stessa Tv d’oggi è emblema di disimpegno civile, etico, didattico. E chissà perché continuano a moltiplicarsi, come per partenogenesi, le mafie, una delle quali -la più recente – imbratta anche la nostra Terra d’Otranto. E neanche borghese, e tu stesso chiarisci perché: perché gli studenti (intellettuali in nuce), una volta tornati con il pezzo di carta in tasca, vittime di un connaturato trasformismo, subito e definitivamente si integravano. I loro antichi ideali? Sbolliti gli slanci giovanili, cambiava il colore del cielo e della terra. Nuove mete: l’agiatezza, o la ricchezza (possibilmente veloce), il circolo cittadino, la scalata al potere locale con potenziale conquista di altri livelli politico-amministrativi, e, per chi aveva capito che la malattia e la morte erano i marchingegni che la precarietà fisica (la prima) e l’ineluttabilità del destino che tutti ci livella (la seconda) avevano dall’ alba del mondo predisposto per gli uomini, lo stetoscopio e i paramenti sacri diventavano strumenti di dominio sugli altri. E non sono del tutto convinto che “gli studenti attesi a lungo”, una volta tornati e burocratizzati tra le griglie del loro lavoro e delle loro nuove relazioni, sentano davvero il tormento per ciò che hanno rinnegato. Ho motivo di dubitarne, ma forse è il mio scetticismo a condizionarmi (però sapessi quante energie ho speso per evitare che tanti idealisti diventassero, come sono poi diventati, apostati!), e dev’essere la mia ragione a frenare l’antica passione, rendendomi misuratamente diffidente. Il trasformismo rappresenta lo zoccolo duro della storia meridionale. Che è sempre stata una storia senza indulgenze e senza innocenza. E intanto coloro i quali avevano immaginato un progetto e lo vedevano fermo per le diserzioni, oppure osteggiato perché non conformista, continuavano ad emigrare, il loro spirito inquieto e la loro indole inappagata non potevano accettare l’appiattimento delle idee, la caduta dei valori fondanti, lo svilimento delle istanze rinnovatrici, le abiure, le tattiche del voltar gabbana, le compromissioni, i baratti… Questa è cronaca di un numero infinito di giorni di passione, da altri incompresi, e più ancora elusi per tornaconto oppure per viltà. E’ il filo rosso della generosa disposizione d’animo dei vinti che anche da soli, e talora irrisi dagli stolti costretti ad autodifese senza ritegno, si erano battuti per tutti. Ma chi ha memoria, chi vuole aver memoria nel profondo Salento, a sud del Sud?
Certe volte mi sorprendo a immaginarti intento al tuo lavoro. Tu macinavi (macini ancora, presumo) le terre per creare i tuoi colori. E pure questo fa parte del nocciolo umanistico che si era impossessato di te, e che continua a non mollarti. Dunque, ti penso su alte scale, intento a rigenerare affreschi con la testa girata all’ insù, al modo del ruvese Cantatore quando dipingeva le volte delle ville lombarde che – mi diceva – così tornavano in vita, rianimate centimetro dopo centimetro, pennellata dopo pennellata. Simultaneamente cerco di disegnare il profilo di tuo cugino e di indovinare i suoi gesti, i comportamenti, il suo modo di relazionarsi, anche – ma è molto più difficile – i pensieri che racchiude la sua anima in esilio volontario. “Siamo cresciuti, e vorrei che tu te ne accorgessi”, gli scrivi. E’ il tuo strenuo vitalismo a suggerirti l’esortazione. E’ la tua gran voglia di vivere la contemporaneità, ma ricordando chi sei e da dove vieni, a suggerirti la continuità dell’ impegno, il tentativo di recupero degli ideali non del tutto annientati dall’ indifferenza e dalle ipocrisie del mondo, la loro proiezione nella sfera della Terza Generazione: “Non di quella attuale, fredda e calcolatrice…, ma di una generazione nuova, con più orgoglio e dignità… Forse quella ideale”. E intanto, delinei il proposito di ricompattare gli sparsi e i dispersi per ricostruire una storia “altra”, per scagliare una sfida all’intero millennio che ci sta di fronte: la scommessa è apodittica, tu comunque sarai lì (al culmine del percorso catartico) ad aspettare chi, ripresa la saggezza dell’età e la forza della ragione, abbandonata la latitudine aurorale della fanciullezza, tornerà adulto fra adulti, fra compaesani ridiventati popolo, comunità solidale. Coinvolgente utopia, da sintonizzare lungo l’asse Supersano-Parma. E, in tutta la sua sostanza antropologica e storica, spericolata negazione di ciò che noi salentini realisticamente siamo: “Un popolo di individualisti nello stesso tempo di elegante ironia e di lezioso sentimentalismo, un colto e risoluto coacervo di monadi solitarie che riproducono soltanto in se stesse, nella loro sfera esistenziale, nella loro orgogliosa e schiva temperie, nella loro simultanea disposizione al sogno e al progetto, le strutture intellettuali e sociali della realtà che li circonda. Essi sono consapevoli di abitare una terra di mezzo, una penisola della maggiore Penisola. Sanno anche di avere occhi che guardano alle Colonne Occidentali che non sono più paradigmi della paura e della sfida, e cuore che batte ad Oriente, trepidante per l’antica Madre. Sono, allora, quello che furono in ogni tempo: uomini scalpellati da una Storia più tragica che grande, anime in guardia su stolte pianure di acqua e di sabbia. Erratici menhir”. Chiedo scusa per l’ autocitazione, e concludo. Non amo il termine “speranza”, perché nel suo nome sono stati ideati e portati a compimento gli inganni più saturnini per il Sud. Inganni la “California della Penisola”, le “frontiere degli anni ’80”, la “Sylicon Valley del Mezzogiorno”, la “redenzione dell’osso appenninico con allevamenti intensivi” e altre corbellerie politico-favolistiche con le quali ci hanno menato per il naso almeno dal secondo dopoguerra ai nostri giorni. Tu hai speranza. Dici di avere speranza, e la connetti a una generazione ideale. Voglio aver torto, scommettere sulla tua speranza, ricorrere alla tua Cassazione e perdere la partita, richiamare in vita una speranza che da tempo ho stoicamente ucciso e riconsiderarla dura a morire. Regredisco consapevolmente agli anni giovanili, quando le speranze imperversavano, speculari alle tecniche dei bidoni puntualmente realizzati. Faccio anch’io un salto indietro, falsifico i paradigmi anagrafici. Affilando la ragione, però. Altro non posso concedere.
Niente e nessuno cancellerà i segni inquietanti che ti ha scavato dentro (e che traspaiono sulla tua pelle) l’universo che, emigrando, ti sei lasciato alle spalle, questo è pacifico. Come niente e nessuno potrà mai distoglierti dall’ idea che tuo cugino possa fare il percorso a ritroso, dopo il viaggio nella non-ragione, con un transfert che rimuova le pagine nere della sua vita e lenisca anche il tuo cruccio per la sua condizione attuale, che ferisce la tua sensibilità e ti fa riaffiorare la nostalgia dei giorni delle grandi (e belle) affabulazioni con lui. L’augurio è che questo possa in qualche modo accadere, che scatti un folgorante meccanismo, che so, fisico o chimico o d’altra misteriosa o sublime natura, che riporti su coordinate contemporanee la fanciullezza che finora ha protetto e forse salvato un innocente; e che tu (insieme con lui) possa riattualizzare i tuoi (e vostri) ricordi, aderendo ad essi come se fossero appena di ieri, rimettendo in moto lo scambio di idee, conoscenze, progetti, e quant’ altro contribuiva a unire, e non a spezzare, le vostre giovinezze e il vostro pensiero. Ti siano propizi i giorni e le opere, Ezio. Siano lievi i giorni e i pensieri di Salvatore: e possa finalmente dormire, ora che avete rianno dato i fili sospesi per dodici anni. Se non vi pesa l’ombra di una compagnia, aspetterò con voi, discretamente invisibile, le cifre ultime del bilancio millenario, nel nome della verità “che è sempre senza colpa”. Da questa o dall’altra riva, in qualunque cono cosmico mi sia concesso l’ultimo asilo. Aldo
Il titolo potrebbe essere quello di un romanzo criminale in cui è ripercorsa la carriera di una banda di delinquenti, tutti fratelli, capeggiata, magari per essere originali, dal più giovane di loro, Cuènzu appunto. invece le cose stanno diversamente, anche se rimane la famiglia, quella di parole legate tra loro da un filo sottile e, nella fattispecie, emblematico delle particolari, multiformi potenzialità di alcune di loro.
Cuènzu a Nardò ) in altre zone del Salento è usata la variante conzu) è una lenza lunghissima, recante molti amii, che proprio per questa sua caratteristica richiede abilità nel calarla in mare per evitare letali, per la giornata di pesca e per il sistema nervoso …aggrovigliamenti. L’attrezzo in italiano è chiamato palàmito o o palàngaro o coffa. Palamito è forse deformazione del greco πολύμιτος (leggi poliùmitos)=dai molti fili, composto da πολύς (leggi poliùs)=molto e μίτος (leggi mitos)=filo. Palàngaro è deformazione del greco πολυάγκιστρον (leggi poliuànchistron), composto di πολύς (come il precedente) e ἄγκιστρον (leggi ànchistron)=amo. Coffa è dallo spagnolo cofa, a sua volta dall’arabo quffa=cesta, che, a sua volta, è dal greco κόφινος (leggi còfinos)=cesto, che ha dato origine all’italiano cofano. In tutti e tre i casi il riferimento è ad un dettaglio strutturale e non si creda che fili ed ami abbiano più importanza del la cesta in cui l’attrezzo viene accuratamente sistemato prima dell’uso successivo: ne verrebbe fuori un disastroso groviglio di fili ed ami …
Cuènzu ha il suo esatto corrispondente etimologico, ma non semantico, nell’italiano concio. Il vocabolrio De Mauro (da cui sono tratte le schermate che seguono) registra due lemmi distinti di concio, ma questa divisione mi pare inopportuna, vista la comune etimologia (non citata, fra l’altro, in concio2).
Conciare è da un latino *comptiare, da comptum, supino di còmere=mettere insieme, composto da cum=insieme + èmere=comprare, secondo la stessa tecnica di formazione che ha portato da ìnitum (supino di inire) ad initiare (da cui l’italiano iniziare). Nominato il padre, non mi rimane che riportare la lunga lista di figli e nipoti in italiano, compreso concio, con le varianti neretine, laddove in uso, in parentesi tonde.
acconciare (‘ccunzare)
sconciare (scunzare)
sconcio
concia (concia)
concime (concime, ma di genere femminile; vedi il mio commento a https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/09/dialetto-salentino-non-indigeni-avvertiti/
concio (cuènzu a significare l’attrezzo da pesca, il diminutivo cuzzettu, come le altre varianti salentine cuccettu e uccettu che deivano per assimilazione da un *concetto1) a significare il blocco di tufo squadrato, quello che in italiano è l’ultimo significato registrato in concio2; e il composto stracuenzu, per il quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/21/11025/).
In chiusura non posso non ricordare, in omaggio agli amici piemontesi che seguono il blog, la polentaconcia, sulla quale evito di avventurarmi in dettagli (nonostante il concia sia chiarissimamente in linea con l’etimo messo in campo oggi; vedi il significato n. 4 di concio2) perché totalmente digiuno di culinaria (col risultato che rischio veramente di restare digiuno dal momento che sono in grado di preparare solo un uovo alla coque …) e col rischio ulteriore di restare in quella pericolosa posizione evocata dallo spezzettamento della parola in tre tronconi …
E con questa immagine di .. sconcia autoironia, per oggi è tutto.
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1 Ben diverso, e non solo perché è concreto …, dall’omofono astratto italiano, che è dal latino conceptum, participio passato di concìpere=prendere in sé, composto da cum=insieme e càpere=prendere.
Sembra essere uno di quei titoli buttati a caso o, al contrario, studiati per suscitare curiosità. Peccato che per saperlo bisogna prima leggere tutto il post …
Cominciamo dal cocomero (Citrullus lanatus) , del quale difficilmente mi sarei occupato su questo blog se il Salento e il territorio di Nardò in particolare non fossero, e da tempo, importanti produttori. Il nome locale del frutto è sanginiscu, il cui etimo è un vero rompicapo. ll Rohlfs non registra la voce neretina ma al lemma sargenisco tratto da fonti letterarie leccesi e brindisine riporta le varianti raccolte, per così dire, sul campo: sarginiscu per il Leccese (S. Cesario di Lecce, S. Cesarea Terme e Vernole) e per il Brindisino (Mesagne); sciarginiscu ancora per il Brindisino (Faggiano) e sorgianiscu per il Leccese (Parabita) e alla definizione (mellone d’acqua, anguria) fa seguire quella che appare una criptica trascrizione italiana (saracinesco). Non è finita: al lemma sciardiniscu (tratto da fonte letteraria leccese) registra sul campo proprio per Lecce sciardeniscu. Credo che quest’ultima variante sia la madre di tutte le altre, figlie più o meno deformi. Sciardeniscu mi appare derivato da sciardinu (giardino), che in passato era sinonimo di orto. Questo spiegherebbe anche il saracinesco rohlfiano che, a questo punto, probabilmente, nelle intenzioni del grande filologo non evocava improbabili (e, comunque, tutti da dimostrare) rapporti con i Saraceni ma con la saracinesca e la sua funzione importante nell’irrigazione.
Se sanginiscu, dunque, come tutti i suoi fratelli sarebbe, secondo me, deformazione di un italiano *giardinesco (con buona pace del neretino che volesse mettere in campo qualche santo …)più che *saracinesco, nessun dubbio comporta l’etimo di cocomero.
La voce è dal latino cucumere(m), che appare imparentato con cucurbita, che significa zucca. Difficile dire se un altro parente sia cucuma (da cui l’italiano cuccuma) che è da coquere, che significa cucinare. ipotizzando un rapporto basato più sulla somiglianza di forma (bisognerebbe, però, immaginarsi il frutto vuoto) che sul ruolo del sole nella maturazione del frutto stesso.
Comunque stiano le cose, è certo che dal cocomero fu isolata per la prima volta la citrullina, nel metabolismo umano fondamentale per disfarsi di prodotti azotati di scarto come l’urea.
Citrullina è da citrullo, pianta erbacea appartenente alla stessa famiglia del cocomero (Cucurbitacee). Citrullo, a sua volta, è italianizzazione della variante napoletana (cetrulo) di cetriolo (anticamente cedriolo), che è dal latino medioevale citrulus, diminutivo di citrus che significa cedro (citrus medica), l’agrume, da non confondere con l’omonimo albero delle conifere. Se il cocomero e il cetriolo sono legati da un non troppo evidente somiglianza di forma, tale somiglianza appare meno vaga quando citrullo assume il significato traslato di stupido, sottintendendo un passaggio intermedio che implica un rapporto di somiglianza tra l’agrume e l’organo genitale maschile.1
E ora dite pure che il titolo non vi sembra buttato a caso, ma a qualcosa che foneticamente si avvicina all’ultimo … membro della locuzione …
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1 Tuttavia, sotto questo punto di vista, la priorità, per così dire, metaforica spetterebbe alle donne se per il sinonimo anguria valesse l’etimo che sto per ipotizzare. Che anguria derivi dal greco bizantino ἀγγούριον (leggi angùrion) è incontrovertibile, ma nessuno, a quanto ne so, ha notato che la voce è troppo lunga per non essere composta e che – ιον in greco è un comunissimo suffisso diminutivo. Ipotizzo, perciò, che la voce sia composta da ἄγγος (leggi angos) che significa vaso, utero, conchiglia (ritorna il concetto di contenitore già visto per cucuma) + οὐρά (leggi urà) che significa coda + il già detto suffisso diminutivo; la nostra anguria, insomma, sarebbe come un piccolo vaso con la coda.
Il Guercio di Puglia (1600-1665) e una pubblicazione del 1650
Questo post ha solo lo scopo di segnalare agli storici, ai quali fosse sfuggita, una fonte, secondo me molto interessante, coeva al famigerato duca di Nardò, recante la data 1650. Il testo a stampa fa parte delle allegazioni giuridiche del collegio degli avvocati di Barcellona, nel cui sito web è integralmente leggibile, e scaricabile, all’indirizzo http://mdc.cbuc.cat/cdm/ref/collection/allegacions/id/9454 la copia digitale. Si tratta di un opuscoletto di 16 pagine non numerate. Di seguito riproduco la prima (in pratica il frontespizio) e l’ultima.
In calce a quest’ultima pagina compare, a mo’ di firma, il nome di don Diego Boleroy Caxal. Per farmi parzialmente perdonare per il fatto che, frontespizio a parte, questa volta ho rinunziato a recitare la parte del traduttore (non tanto perché il testo è in spagnolo, quanto perché sono costretto a dedicare prioritariamente il mio tempo ad altri lavoretti in corso d’opera, che altrimenti non vedrebbero mai la luce) dirò solo che Diego Bolero y Caxal (1612-1681) era un giurista famosissimo ai suoi tempi, un’autentica autorità in materia fiscale, la cui opera più nota è quella della quale faccio seguire il frontespizio, augurando buon lavoro a quanti della fonte segnalata vorranno avvalersi.
Oria e la damnatio memoriae del Fascismo: l’insegna civica di Palazzo Martini
Durante il ventennio fascista il regime individuò nell’araldica pubblica un valido strumento di consenso e di propaganda politica. A partire dal 1933 negli stemmi dei comuni, delle province e degli enti morali fece la sua comparsa il famigerato fascio littorio, emblema dello Stato fascista (fig. 1).
Non è questa la sede per disquisire della storia di questo antichissimo simbolo, del suo utilizzo nel corso del tempo e dello stravolgimento che ne fece il fascismo. Qui mi limito pertanto ad osservare che si tratta di una figura di origine etrusca, passata poi alla civiltà romana, dove divenne insegna e simbolo dei magistrati dotati di imperium. I fasci romani erano costituiti da verghe di olmo e di betulla, tenute insieme di strisce di cuoio rosse, con una scure inserita lateralmente. Erano portati sulla spalla sinistra dai lictores – una sorta di scorta che precedeva i magistrati in numero diverso a seconda della loro importanza – e simboleggiavano la dimensione coercitiva dell’imperium: le verghe richiamavano infatti la pena della fustigazione, mentre la scure quella della decapitazione.
Come è noto, il fascismo si considerò il naturale continuatore dell’antica Roma e ne mutuò non solo la terminologia (soprattutto in ambito militare e politico) ma anche i simboli. È proprio dall’antica Roma fu attinto quello che sarebbe diventato il principale simbolo del regime: il fascio littorio. Fu il Regio Decreto n. 2061 del 12 dicembre 1926 ad elevare il fascio ad emblema di Stato, disponendone la diffusione su ogni genere di distintivo pubblico. Sette anni dopo fu la volta del Regio Decreto n. 1440 del 12 ottobre 1933, che ne disciplinava l’uso da parte dei comuni, delle province e degli enti morali, stabilendone l’inserimento all’interno dello scudo, nella forma della figura araldica del capo (pezza che occupa la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo, delimitata da una linea orizzontale).
Nacque così il cosiddetto capo del littorio: di rosso (porpora), al fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali (fig. 2).
Il capo è la pezza più importante dell’araldica italiana. Una delle sue funzioni principali è di indicare l’appartenenza a una determinata fazione politica (sono noti, ad esempio, i capi d’Angiò e dell’Impero, rispettivamente distintivi della fazione guelfa e di quella ghibellina). Riprendendo l’uso medievale tipicamente italiano di esprimere l’appartenenza a una fazione politica attraverso il capo araldico, il regime volle così arricchire l’iconografia di Stato introducendo nelle insegne civiche un elemento visivo che rappresentasse l’indissolubile legame tra gli enti territoriali italiani e il fascismo.
La presenza di questa raffigurazione nell’araldica italiana durò tuttavia solo pochi anni. Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approvò un ordine del giorno che sfiduciò Mussolini, provocandone la caduta. Già a partire dal giorno successivo, centinaia di persone si riversarono nelle vie delle città italiane e, armati di picconi e scalpelli, iniziarono a cancellare i simboli fascisti (fig. 3).
Il Decreto Luogotenenziale n. 313 del 26 Ottobre 1944 soppresse poi il fascio littorio da ogni documento ufficiale, compresi gli stemmi. Molti comuni italiani seguirono alla lettera le disposizioni del decreto e, pur eliminando il fascio (talora sostituendolo con figure diverse), mantennero tutto il resto (i rami decussati e il nastro). Oria non fu immune da questa furia iconoclasta, i cui effetti sono ancora oggi visibili sullo stemma civico scolpito sulla facciata di palazzo Martini. Dopo essere stato a lungo dimora dell’omonima e illustre famiglia oritana, nel 1933 il palazzo fu ceduto, in cambio del castello svevo, al comune di Oria, di cui fu sede municipale fino alla metà degli anni ’80 (fig. 4). La funzione pubblica svolta dall’edificio in quel lasso di tempo spiega quindi la presenza dello stemma cittadino, in uso almeno dal XVI secolo (fig. 5).
L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico racchiuso da una cornice cuoriforme ornata da cartocci e foglie di acanto. Al di sopra dello scudo compare una corona muraria merlata alla ghibellina, timbro che allude al titolo di comune di cui si fregiò Oria fino al 1951, allorché assunse quello di città, acquisendone la corrispettiva insegna, ovvero la corona turrita. Osservando bene la parte superiore del manufatto, si nota con molta chiarezza, in mezzo ai due rami, il particolare del fascio “raschiato”, vittima di quella iconoclastia che si scatenò anche ad Oria dopo la caduta di Mussolini. Dell’emblema di Stato, simbolo del potere fascista, non restarono che il capo e le figure più neutrali (i rami di alloro e di quercia), svuotati di ogni connotazione coercitiva. Come quasi sempre accade dopo rivoluzioni e conquiste, al cambio di regime corrisponde anche una cancellazione dei simboli e degli emblemi del potere precedente.
Nel caso del fascismo, questa damnatio memoriae fu ancora più dissacrante se pensiamo che esso fu un sistema politico che assegnò ai riti e ai simboli una centralità assoluta. Se adeguatamente interpretato, lo stemma civico di palazzo Martini costituisce quindi un manifesto visivo dalla valenza polisemica, rappresentativo dell’evoluzione dello status del comune di Oria nel periodo che va dal 1933 alla fine del regime fascista.
Come tale, non va analizzato come un esemplare a sé stante, ma piuttosto come parte di un contesto più vasto, frutto di una precisa realtà storica e sociale. Solo attraverso la ricostruzione del sistema di appartenenza e del vincolo che lo ha creato e poi dissolto, si può comprendere il messaggio che lo stemma ci trasmette: un messaggio di libertà e di democrazia, valori faticosamente conquistati dai nostri avi dopo anni di feroce dittatura.
BIBLIOGRAFIA
M.C. A. GORRA, Il valore simbolico del fascio, dagli Etrusci ad oggi, in “Cronaca Numismatica”, n° 234, novembre 2010, pp. 63-67.
Neubecker, Araldica. Origini, simboli, significati, Milano 1980.
POPOFF, Le “capo dello scudo” dans l’héraldique florentine XIII-XVI siècles , in “Brisures, augmentations et changements d’armoiries”, Actes du 5e colloque international d’héraldique, Spolète 12-16 oct. 1987, Bruxelles, Académie Internationale d’Héraldique, 1988.
S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio, in “Forma Urbis”, XVIII, n° 6, giugno 2013, pp. 6-13.
Ho riportato nel titolo in traduzione italiana il nesso neretino Salentu: lu sole, lu mare, lu ientu per un motivo informatico/pubblicitario: i motori di ricerca privilegiano le parole di uso più comuni e non certo quelle più rare o, addirittura, dialettali; e poi un nesso italiano ha maggiori probabilità di suscitare interesse nel comune lettore più del corrispondente dialettale. Che, poi, il corpo del post sia tutto in dialetto, è un’altra storia sì, ma raccontata attraverso proverbi e resa fruibile anche ai non indigeni dalla versione in italiano e dalle note che la corredano. La foto di testa l’ho presa tempo fa dal web dimenticando di annotarmi il link. L’autore, se lo desidera, potrà farsi vivo e rivendicarne, con prove inoppugnabili, la paternità e chiederne eventualmente la rimozione. È vero, pensando al titolo del post, si vede solo il mare, ma sarebbe così increspato se non ci fosse nemmeno un alito di vento e così luminoso se non ci fosse il sole? Anche una foto può sottindendere qualcosa …
Quandu lu sole ponge l’acqua è bbicina (Quando il sole punge la pioggia è vicina), Il detto rientra tra quelli, per così dire, meteorologici, frutto di secolari osservazioni, la cui attualità, però, rischia di essere ridimensionata, e pesantemente, dagli ultimi cambiamenti climatici.
Sott’allu sole ti lugliu la capu vae a subbugliu (Sotto al sole di luglio la testa va in subbuglio). Valgono le stesse osservazioni fatte per il precedente e, magari solo fra poche generazioni, il fenomeno si verificherà in pieno gennaio …
MARE
A mmare cantatu no sscire ppiscare (Non andare a pescare in un mare decantato). Quasi un invito a non cedere alle lusinghe di informazioni eccessivamente seducenti (oggi diremmo della pubblicità ingannevole, anche se, a parer mio, tutta la pubblicità è uno dei tanti inganni legalizzati del nostro tempo, tra cui, in primis, le banche e le assicurazioni…). Lo stesso concetto è espresso da un altro proverbio che suona così: A ddo’ sienti ca ‘nci so’ mote fogghe porta lu saccu picciccu (Dove senti che ci sono molte verdure selvatiche porta il sacco piccolo).
Ci a mmare vae, maru si ‘ndi ene, scazzatu, nutu e muertu ti la fame (Chi va per mare se ne viene triste, scalzo, nudo e morto di fame). Mi pare chiaro il riferimento alla scarsa redditività ed alla pericolosità del mestiere del pescatore.
La femmina ca no bbedde mai lu mare quandu lu edde li parse picciccu (Alla donna che non aveva visto mai il mare, quando lo vide, esso parve piccolo). Sinceramente non saprei dire se si tratta di un omaggio all’ immense potenzialità femminile o, al contrario, una frecciata alla sua incontentabilità o alla scarsa capacità di valutazione, beninteso presunte …
Maistrale: nné ceddhi ‘n terra nné ppisci a mmare (Maestrale: né uccelli a terra, né pesci a mare). Il vento di maestrale non favorisce né la caccia né la pesca. Chissà, visto lo stravolgimento generale, e non solo climatico, se non avverrà il contrario e pescatori e cacciatori saranno costretti a dotarsi di armi ancora più sofisticate e, soprattutto i primi, a correre rischi maggiori …
Sciroccu chiaru e tramuntana scura: mintite a mmare e no bbire paura (Scirocco col cielo chiaro e tramontana col cielo scuro: mettiti in mare e non avere paura). Con i cambiamenti climatici in atto ci sarà ancora da fidarsi?
VENTO
Chissà cosa avremmo dato nelle settimane di caldo infernale appena trascorse per un alito di vento! Eppure qui non posso fare a meno di notare che questo fenomeno, fastidioso soprattutto se continuato, trova la sua celebrazione in un numero schiacciante (rispetto al sole e al mare) di proverbi. Perciò tenetevi forte, magari aggrappandovi alla sdraio della bella vicina o del bel vicino di spiaggia oggetto (non la sdraio …) dei vostri famelici sguardi, con la scusa che, se l’erba del vicino è più verde, anche la sua sdraio non scherza quanto a stabilità … E chi non si trova in spiaggia ma, per dirne una su un tram? Vi si attacchi!
Cielu russu: o acqua o ientu o frùsciu (Cielo rosso: o pioggia continua o vento o brevissima caduta di pioggia). Per quanto riguarda l’attualità del proverbio vale quanto detto per gli altri di natura metereologica e perciò, ogni volta che ne capiterà uno, sìintenda sottintesa questa riflessione. Frùsciu corrisponde all’italiano flusso, dal latino fluxu(m).
Ci vuei acqua, cerca ientu (Se vuoi l’acqua cerca il vento).
Ddiu cu tti quarda ti tramuntana e ientu, ti omu e femmina ca parlanu lientu (Dio ti guardi da tramontana e vento, da uomo e donna che parlano lentamente). Il proverbio appare basato sulla contrapposizione tra gli elementi climatici che sono pericolosi quando sono veloci e violenti e alcuni atteggiamenti umani in cui la lentezza, la pacatezza e la calma potrebbero nascondere un inganno (la lentezza nel parlare può anche essere sintomo di qualche serio problema …).
È mmegghiu fumu ti cucina cca ientu ti marina (È meglio il fumo della cucina del vento proveniente dal mare). Bisognerebbe ascoltare il parere di qualcuno rimasto vittima della frittura del suo coinquilino cinese …
La femmina cangia cchiù ti li ienti (La donna cambia più dei venti). Sembra la traduzione in salentino di Ladonna è mobil qual piuma al vento …
Lu ientu ti fissura ti porta a ssipurtura (Il vento di fessura ti porta a sepoltura). Un ottimo deterrente contro i danni dovuti a spifferi, correnti d’aria ed affini, proprio quei rimedi che, in mancanza di strumenti più sofisticati, abbiamo agognato in questo infuocato passaggio da luglio ad agosto 2017.
Lu ientu ti marina ‘ndi mena la megghiu cima (Il vento proveniente dal mare butta giù la migliore cima).
Mueru e mmueru cuntente, basta cu nno bbèsciu lu ientu ti punente (Muoio e muoio contento, basta che non veda il vento di ponente). Sarà, ma credo che i più preferirebbero sopravvivere anche se si trovassero nell’occhio di un ciclone.
Ttre ggiurni mena ientu lu sciroccu e quattru li continua la tramuntana (Il vento di scirocco spira per tre giorni continui, la tramontana per quattro).
‘La nuova statua fatta venire da Napoli’: attori e comprimari intorno alla commissione dell’Assunta lignea per il Duomo di Lecce
di Maura Sorrone
<<A 15 agosto si fece la prima festa della SS. Vergine Assunta della nuova statua fatta venire da Napoli dal vescovo Pignatelli collocata sopra l’altare maggiore della cattedrale, opere del celebre Nicola Fumo insigne scultore napoletano>>[1].
L’opera, conservata nel museo dell’arcidiocesi di Lecce, ben conosciuta dai più autorevoli studiosi del settore[2], testimonia la fervida attività di committenti nobili ed ecclesiastici che tra Sei e Settecento favorirono la devozione popolare, facendosi carico e promuovendo l’acquisto di importanti sculture sacre.
Il 15 agosto del 1689 i leccesi per la prima volta avevano a disposizione un’opera monumentale per manifestare la propria devozione alla Vergine Maria.
All’arrivo della statua, avvenuta qualche mese prima, la chiesa cattedrale era già stata ricostruita e ammodernata da Giuseppe Zimbalo (1659 – 1670) per volontà del vescovo Luigi Pappacoda (1639 – 1670)[3].
Il committente dell’opera, mons. Michele Pignatelli (1682 – 1694), tenne conto dello spazio a disposizione per la sistemazione della maestosa statua sull’altare maggiore del duomo, probabilmente accordandosi con lo scultore su misure e modello da realizzare. Come possiamo immaginare tale scelta rendeva piuttosto scenografica l’area presbiteriale della chiesa.
Giuseppe Cino, testimone dell’arrivo dell’opera a Lecce, con le sue Memorie ha fornito agli studiosi di scultura in legno un importante dato documentario. Infatti la sua affermazione che cita Nicola Fumo autore dell’Assunta è tra le più antiche .
Fin qui nulla ci sarebbe da aggiungere. Nel 2011, però, un atto di pagamento recuperato da Vincenzo Rizzo presso l’archivio storico del Banco di Napoli, ha permesso di conoscere altre personalità che contribuirono in diverso modo alla realizzazione dell’opera.
ASBN, Banco della Pietà, giornale copia polizze di cassa, matr. 903, 15 aprile 1689:
A Geronimo d’Aponte, ducati 25 et per lui a Giovanni Battista Gricelli per altrittanti e per lui a d. Carlo Coppola per altrittanti e per lui a Francesco D’Angelo a compimento di d. cento ottantuno, e sono in conto d’una statua di legno lavorata e miniata dell’Assunta della nostra Regina quale doverà consignarli per servitio del duomo di Lecce, non restando a conseguir’altro che d. dodici, atteso l’altri l’ha ricevuti per diversi banchi et per lui ad Aniello Conte per altrittanti [4].
Come talvolta accade, non sempre negli atti di pagamento è dichiarato il nome dell’artista. Questo documento in un primo tempo ha portato a mettere in discussione dati storicizzati e considerati attendibili.
Considerare ogni singolo episodio come facente parte di una “serie”, cioè di un insieme di fatti, circostanze e abitudini legati tra loro da un’imprescindibile relazione, ci consente di dare la giusta importanza ad eventi artistici che, se estrapolati dalla realtà che li ha generati, finirebbero per restituirci una visione alquanto distorta di fatti e relazioni che hanno contribuito alla presenza nel territorio salentino di importanti sculture in legno commissionate a Napoli tra Sei e Settecento.
Da un’analisi del nostro documento diverse persone prendono parte alla vicenda. Si tratta di un passaggio di denaro da Geronimo, noto esponente della famiglia d’Aponte[5], a Francesco D’Angelo tramite diverse altre personalità. Nel gergo delle attività bancarie dell’epoca, Geronimo d’Aponte è il “cambiatore”, colui cioè che da una determinata zona periferica raggiungeva i Banchi napoletani per adempiere commissioni prese in carico. Infatti, analizzando i documenti a suo nome, si leggono tantissimi atti di pagamento effettuati tramite i banchi riguardanti le faccende più disparate, che legavano molti prelati e membri della nobiltà locale della Terra d’Otranto alla città di Napoli. Allo stesso modo gli altri personaggi citati nel documento fanno da tramite: da quanto è emerso dagli archivi, Don Carlo Coppola è un sacerdote della curia leccese, vicino al vescovo Pignatelli. Quest’ultimo, seppur non presente nell’atto di pagamento, da quanto leggiamo nelle attendibili cronache di Giuseppe Cino, è evidentemente il committente della scultura.
Giovan Battista Gricelli, non è stato rintracciato in nessuna fonte locale, ma finora è stato sottovalutato un fatto importante: il suo nome compare nella polizza di pagamento della Madonna del Carro realizzata dieci anni dopo da Gaetano Patalano per la parrocchiale di San Cesario di Lecce [6], sebbene Isabella Di Liddo abbia riportato il nome di Giovan Battista Oricelli, il corretto nome dell’intermediario è da leggersi più correttamente “Gricelli”:
ASBN, Banco della Pietà, giornale copiapolizze di cassa, matr. 1069, anno 1699
31 marzo:
A D. Francesco Marullo ducati quaranta, e per lui a Gaetano Patalano, statuario per farne una statua della Madonna Santissima del Carro secondo il convenuto con D. Giovanni Battista Gricelli della Città di Lecce, in qualità del disegno, al medesimo trasmesso, e per lui a Nicola Garofano.
Invece non possiamo affermare con certezza che Francesco D’Angelo, citato nel documento riguardante l’Assunta del Duomo, sia l’argentiere attivo nel cantiere della fontana di Monteoliveto a Napoli, come si è pensato in un primo momento [7].
Ad ogni modo un Francesco D’Angelo compare ancora in un atto di pagamento per altre opere leccesi, cioè le statue di San Pietro d’Alcantara, di San Gaetano Thiene e dell’Immacolata per la chiesa di Santa Chiara, datate 1692. Dunque è importante evidenziare che le commissioni fatte in questi anni a Nicola Fumo e Gaetano Patalano per le chiese leccesi avvenivano tramite gli stessi intermediari.
ASBN, Banco dello Spirito Santo, giornale copiapolizze di cassa, matr. 721, anno 1692, 7 febbraio:
A Francesco d’Angelo duc. Cinquantasei, e per lui a Gaetano Patalano e sono per saldo delle tre statue che l’ha fatto per servitio del monastero delle rev.de monache della città di Lecce cioè della Concettione, San Gaetano, e San Pietro d’Alcantare di altezza di palmi sette l’una, e d.ti 56 li paga se suoi propri denari per doverseli rimborzare da d.to monasterio, e con d.to pagamento resta d.to Gaetano interamente soddisfatto per non doversene avere cosa alcuna [8].
Sicuramente non si tratta di nomi clamorosi, ma comparare fonti e documenti ci permette indubbiamente di conoscere al meglio le relazioni tra individui che hanno contribuito alle scelte delle opere e degli artisti nel campo di un settore alquanto complesso come quello della scultura in legno napoletana.
Ritornando alla nostra Assunta, ricordiamo che l’opera restò sull’altare maggiore sino al 1757, quando si decise di dotare la cattedrale di un cospicuo arredo marmoreo che modificò nuovamente l’aspetto dell’edificio. A testimonianza di ciò Francesco Piccinni nel 1757 ci racconta del nuovo capo altare consacrato dal vescovo Sozy Carafa e di una nuova sistemazione dell’Assunta del “celebre Nicola Fumo”. Cambiamento voluto dall’Abate don Francesco Palumbo canonico della Cattedrale, “di indole portato alle novità nonostante molti reclami del popolo” [9]. All’Assunta lignea del Fumo, fu preferita una nuova tela della titolare, dipinta da Oronzo Tiso e collocata nell’area presbiteriale [10].
Si può comprendere quanto l’opera di Fumo fosse stata una novità apprezzata dai fedeli che non sembra abbiano ben tollerato le modifiche compiute dal vescovo Alfonso Sozy Carafa nel 1757. Il vescovo attuò le disposizioni testamentarie del predecessore, Scipione Sersale (1744 – 1751), facendo eseguire un nuovo altare marmoreo con balaustrata e due angeli capo altare dal marmoraro napoletano Gennaro De Martino.
È evidente quanto l’immagine della Vergine dipinta dal Tiso abbia avuto come modello la scultura di Nicola Fumo sia nell’impostazione delle figura sia nella postura degli angeli – soprattutto quello a sinistra di chi guarda l’opera -[11] .
Dal punto di vista dello stile non si aggiungerà in questa sede nulla d’inedito riguardo alla scultura di Fumo. L’opera, già ricordata da Borrelli come “un’autentica montagna colorata semovente” [12] si caratterizza per la dinamicità totale. Lo scultore, con abilità e sapiente maestria, ha perfettamente reso l’idea del transito al Cielo della Vergine in anima e corpo.
La figura di Maria sembra pronta a sollevarsi dalla nuvola posta sotto i suoi piedi, i panneggi sono mossi e impreziositi dalla fantasia floreale [13]. Motivo questo che ben presto diverrà modello iconografico da non sottovalutare nella pittura e nella scultura locale da questa data in poi.
Il panorama che si andava così tracciando nel Salento sul finire del XVIII secolo, fu quello di un territorio pronto ad accogliere le principali novità napoletane. Tali innovazioni artistiche furono ricercate dai committenti per omologare le città della Terra d’Otranto, alla Capitale. Il Salento, infatti, a differenza di quanto accadde nelle altre periferie dipendenti da Napoli, fu senz’altro maggiormente disposto ad accogliere le opere d’importazione, allontanando ogni tipo di ritardo artistico o rifiuto dei nuovi modelli elaborati nella capitale partenopea.
Note
[1] CINO, Giuseppe, Memorie ossia notiziario di molte cose accadute in Lecce dall’anno del Signore 1656 sino all’anno 1719 del signor Giuseppe Cino ingegnere leccese, in Cronache di Lecce, a cura di Alessandro Laporta, Lecce: Ed. del Grifo, 1991, pp. 49 – 98, p. 63.
[2] CASCIARO, Raffaele, Seriazione e variazione: sculture di Nicola Fumo tra Napoli, la Puglia e la Spagna, in La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lecce, 9 – 11 giugno 2004), a cura di Letizia Gaeta, Galatina: Congedo ed. 2007, 2 voll., II, pp. 245 – 264, 247 – 248; Rossi, Valentina, scheda opera n. 48 p. 260- 261, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna catalogo della mostra (Lecce, 16 dicembre 2007-28 maggio 2008), a cura di Raffaele Casciaro e Antonio Cassiano, Roma: De Luca edit. 2007, pp. 260 – 261.
[3] Cazzato, Vincenzo, Schedatura dei centri urbani, Provincia di Lecce, in Atlante del Barocco in Italia, Puglia, 2. Lecce e il Salento, 1, i centri urbani. Le architetture e il cantiere barocco, a cura di Mario Cazzato e Vincenzo Cazzato, Roma: De Luca ed. 2015, pp. 99 – 103.
[4] RIZZO, Vincenzo, Su alcune ritrovate sorprendenti sculture napoletane tra Sei e Settecento, in “Quaderni dell’Archivio Storico del Banco di Napoli”, Napoli 2009 – 2010, Napoli: Farella snc. 2011, pp. 213 – 231, p. 224. Il documento è stato verificato da chi scrive durante le ricerche per la tesi di dottorato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli. Colgo l’occasione per ringraziare il responsabile dell’Archivio Storico dell’Istituto Banco di Napoli – Fondazione – Eduardo Nappi e il personale tutto.
[5] BALSAMO, Bruno, Gli Aponte: un’antica famiglia marinara sorrentina, Sant’Agnello: Monghidoro 2011.
[6] DI LIDDO, Isabella, La circolazione della sculturalignea barocca nel mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma: De Luca ed. 2008, pp. 131 – 136.
[7] Rizzo, Vincenzo, Su alcune ritrovate sorprendenti sculture napoletane…cit., p. 223
[8] Borrelli, Gian Giotto, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli: Paparo ed. 2005, doc. 60 p. 112.
[9] Principiano le notizie di Lecce di Francesco Antonio Piccinni della classe dei civili di questa città nell’anno 1757, in Cronache leccesi…cit., pp. 99 – 303, p. 148.
[10] In precedenza, nel presbiterio era collocata un’Assunta dipinta dal gallipolino Giovan Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.).
[11] Sicuramente non fu una novità per il pittore Oronzo Tiso prendere a modello l’opera di Fumo. Egli, infatti, nella sua produzione ebbe come punto di riferimento i pittori del barocco napoletano, però probabilmente nel duomo leccese il modello di riferimento fu specificatamente la statua dell’Assunta.
[12] BORRELLI, Gennaro, Sculture di Nicola Fumo nel Salento, in Studi di storia pugliese in onore di Nicola Vacca, Galatina: Congedo ed. 1971, pp. 19 – 25, p. 24.
[13] GAETA, Letizia, “… colorite e miniate al naturale”: vesti e incarnati nel repertorio degli scultori napoletani tra Seicento e Settecento, in La statua e la sua pelle. Artifici tecnici nella scultura dipinta tra Rinascimento e Barocco, Atti del Seminario Internazionale di Studi (Lecce, 25 – 26 maggio 2007), a cura di Raffaele Casciaro, Galatina: Congedo ed. 2007, pp. 199 – 220.
Le quattro più antiche mappe a stampa di Otranto, forse … (1/?)
Nel titolo il punto interrogativo vale come avviso al lettore che il numero delle “puntate” non è al momento quantificabile e che esso sarà sciolto solo con l’uscita dell’ultima parte; l’avverbio forse, invece, ha la sua ragion d’essere non tanto nel fatto che in qualche sperduto, impolverato e ammuffito manoscritto o sotto qualche sciagurata (ma nello stesso tempo provvidenziale: l’ossimoro più caro a chi studia il passato) imbiancatura a calce potrebbe celarsi qualche mappa della cittadina salentina (perciò ho specificato a stampa) ma, piuttosto, nel considerare che, a quanto mi risulta, al tempo delle quattro stampe in epigrafe, la cartografia ancora non aveva abbandonato i suoi primi timidi passi (anche per via dei costi fra disegnatori ed incisori) e avrebbe cominciato a farlo nel secolo successivo per lo più con mappe rappresentanti una parte di territorio ben più esteso di quello occupato da una singola città.
In considerazione di quanto appena detto le quattro immagini sono per il momento da considerarsi come un messaggio promozionale o, se preferite, pubblicitario, quello che nel gergo cinematografico si chiama trailer. Il lavoro è già pronto ma uscirà solo se un numero adeguato di lettori manifesterà la voglia di fare insieme questo viaggio, invitandomi con un semplice vai!. Sono consapevole del rischio che corro con la proposizione finale che potrebbe essere sottintesa …, come anche del fatto che questa mia scelta, che formalmente ricalca pure quella politica dell’annunzio, potrebbe apparire come una forma di sadismo culturale, meno dannoso, comunque, del sensazionalismo divulgativo di certi servizi televisivi … Voglio illudermi, comunque, che dall’altra parte non ci sia un numero dominante di masochisti, sempre culturali, e che il viaggio possa, perciò. cominciare al più presto …
Già facente parte della collezione del genovese Tammar Luxoro (1825-1899), il portolano citato nel titolo, fu acquistato dal comune di Genova, ed è custodito dal 1908 nella civica biblioteca Berio. Esso è integralmente visionabile, anche se non in alta definizione, all’indirizzo http://www.e-corpus.org/notices/10651/gallery/.
La rappresentazione della Terra d’Otranto coinvolge due tavole, donde la ripetizione obbligata di alcuni toponimi. Passo ai consueto commento dei dettagli evidenziati in rosso dopo la loro elaborazione elettronica necessaria per facilitarne la lettura. A tal fine il secondo è stato pure ruotato di 180°. Nonostante gli espedienti messi in atto rimangono alcuni punti interrogativi, per lo scioglimento dei quali confido nell’aiuto (e nella vista migliore della mia …) di chi mi legge.
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