Matino: due fogli di via obbligatori del passato

di Armando Polito

Il foglio di via obbligatorio come strumento preventivo per garantire la sicurezza pubblica con il fenomeno dell’immigrazione clandestina sta vivendo, credo, quella che comunemente si dice seconda giovinezza. Non intendo nemmeno sfiorare l’argomento della sua efficacia, anche se i reiterati reati con lo stesso protagonista, di cui le cronache si occupano giornalmente, mi fanno somigliare il foglio di via al tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto più che eliminarla. Non vorrei che l’ultimo verbo usato venisse interpretato strumentalmente, perché la sua carica semantica per me dovrebbe valere non solo nei confronti di colui che, disperato  o meno quanto si vuole, ha scelto di delinquere ma anche del potente che, anziché essere esautorato e sbattuto in galera, viene trasferito, in qualche caso con promozione; nel primo caso turismo delinquenziale di massa, nel secondo di élite …

Il mio interesse, dunque, è solo documentario e  non avendo preso visione, neppure per motivi indiretti …, di un foglio di via dei nostri tempi, non posso fare la comparazione formale con quelli del passato che mi accingo a presentare (il corsivo normale riproduce le parti a stampa, il grassetto le integrazioni a mano). Entrambe le immagini sono state tratte da eBay. Il primo documento  riguarda una donna nativa di Torremaggiore (FG) che alla data di emissione del documento (Torremaggiore, 12/9/1932) aveva 41 anni, com’è annotato nella colonna di sinistra insieme con la statura (1, 56), il colore dei capelli (castani), la fronte (giusta), le sopracciglia (regolari), il naso (regolare), la bocca (giusta), Nel foglio si dichiara che la donna residente a Matino circondario di ——- provincia di Lecce  ha ordine di trsferirsi a Matino  circondario di ——- provincia di Lecce  passando per ———- e di presentarsi all’autorità di P. S.entro gioni due cui dovrà rimettere personalmente il presente. Nella parte alta del documento si legge, scritto a mano, Diffidata ai sensi dell’art. 157 del T. U. delle leggi di P. S.

Il secondo documento, emesso a Lecce in data 15/2/1934  riguarda, invece, un ragazzo di 18 anni (unico dato riportato nella colonna a sinistra). Mentre nel documento precedente FOGLIO DI VIA era integrato con obbligatorio, quisi legge Foglio di via obbligatorio con mezzi. Il ragazzo, nato a Matino provincia di Lecce residente a Matino provincia di Lecce ha ordine di trasferirsi a Matino provincia di Lecce passando per (segue spazio non barrato) e di presentarsi al Podestà entro giorni uno cui dovrà rimettere (segue spazio non barrato) il presente.

Da notare nel primo documento figlio di … , mentre nel secondo si legge figlio die di …. ; nonostante in quest’ultimo fosse previsto appositamente lo spazio per il nome della madre, esso risulta vuoto.

 

Galatina ieri e oggi: benedetta cartolina!

di Armando Polito

La cara, vecchia  cartolina, per tanti anni è stata complice del nostro esibizionismo nel corso di qualche viaggio, per cui la inviavamo ad amici e parenti per far sapere che eravamo stati in quel bel posto più che per nostalgia di loro, tanto più che noi da quel posto eravamo ritornati da un pezzo. prima che essa giungesse a destinazione, cosa puntuale quando il nostro viaggio, con cartoline spedite a raffica dai vari luoghi visitati, durava parecchi giorni. Eppure, col passare del tempo, quello che era un documento della nostra debolezza personale è  per diventato una testimonianza della nostra storia collettiva. Perciò le cartoline, quanto più sono antiche, tanto più sono preziose per i collezionisti, non per chi, magari senza alcun compenso, se ne libera considerandole pura cianfrusaglia; salvo, poi, scoprire che quell’oggetto ha un certo valore.

Credo che la loro tiratura ormai sia ridotta al lumicino, anche perché apparirebbe semplicemente ridicolo inviarne una quando la tecnologia digitale consente con grande faciità e senza spendere nulla (a parte la spesa iniziale per l’acquisto dello strumento e quello ricorrente dell’abbonamento telefonico) di spedire foto e video, anche di qualità, in tempo reale.

Ma, mi chiedo, cosa resterà, a futuro utilizzo, di ogni file di questo tipo inviato o, comunque, memorizzato?   Le multinazionali del settore sfrutteranno nostre improbabili nostalgie  (ma sanno loro come ravvivarle …) inventando e montando mostruose, ma nello stesso tempo estremamente miniaturizzate,  memorie di massa che, se l’affidabilità le accompagna, saranno in grado di soddisfare l’immagazzinamento sicuro  dei dati ben oltre la vita più lunga (ma il prossimo modello è già sulla linea di produzione …) prevedibile per l’intera macchina?

Intanto, comunque andrà, ecco un esempio, attraverso vecchie cartoline, di una comparazione1 che non so se e in che modo le nuove tecnologie potranno continuare a garantire, anche a un dilettante.

Via Garibaldi (anni ’30)

 

Via V. Emanuele II (1932)

 

Via V. Emanuele II (1945)

 

Via  Pietro Siciliani (1932)

 

Corso Re d’Italia (1936)

 

Piazza S. Pietro (anni ’40)

 

Corso Porta Luce (anni ’40)

 

Piazzetta Giuseppe Lillo (anni ’50)

 

 

Piazza Orsini (anni ’50)

anni '50d

 

Corso Principe di Piemonte (1956)

 

Piazza Fortunato Cesari (anni ’60)

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1 Le immagini più antiche sono state tratte dalle inserzioni della sezione collezionismo su eBay, quelle recenti adattate da Google Maps, le cui riprese sono datate febbraio 2009. Rimane aperta la preghiera, anche se, ormai, visto l’esito dei precedenti inviti spero poco in un suo esaudimento, perché qualche lettore locale di buona volontà offra il suo contributo inviando alla redazione foto recenti, con la prospettiva il più possibile fedele a quella più antica, che attestino lo stato attuale dei luoghi. Le foto saranno pubblicate con citazione del nome dell’autore.

Auguri dal vescovo Antonio Sanfelice

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di Giovanni De Cupertinis

 

Sono noti i rapporti tra la casa Albani e quella dei Sanfelice, in particolar modo quelli tra Giovanni Francesco Albani, meglio noto con il nome di Papa Clemente XI (1700-1721) ed il vescovo Antonio Sanfelice. Fu proprio Clemente XI a nominare Antonio Sanfelice vescovo di Nardò, che già a partire dal 1712 si portò a Roma per assolvere ai compiti assegnatigli dal pontefice Clemente XI, nominandolo prelato domestico e assistente al soglio pontificio.

Papa Clemente XI
Papa Clemente XI

 

Quelle che riportiamo di seguito sono due delle tante lettere di auguri, scritte dal Sanfelice durante il soggiorno napoletano, indirizzate al Cardinale Annibale Albani, nipote di Clemente XI, che già dal 1707 ricopriva l’incarico di presidente della Camera Apostolica e dal 1719 al 1747 la carica di camerlengo.

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Il cardinale Annibale Albani

 

Lettera al Cardinale Annibale Albani, Roma del 16 dicembre 1723

Fra tutte le creature dell’Ecc.ma Casa Albani essendo io la più obbligata, perché sempre favorita con eccesso per sola benignità non per merito proprio, mi veggo astretta à pregare il Sig.re con tutto lo spirito, che si degni concedere alla grand’anima di V. E. ogni maggiore vera felicità nell’imminenti feste Natalizie del Sig.re, ed all’Ecc.ma Casa. Averci voluto di persona passar per quest’uffizio, se averò vita spero d’esseguirlo in occasione dell’Anno Santo, in cui se con infinita passione dell’animo mio non trovarò il mio S. Pré grande zio di V. E., almeno potrò baciar la porpora di V. E. erede del suo spirito, e dell’eccellente sua virtù, e pregandola a conservarmi la sua potentis.ma protezzione le bacio divotam.te la Sagra Porpora.

D.V.E.

Napoli 16 xmbre 1723

Umili.mo Div.mo Servo Obblig.mo

Antonio Vescovo di Nardò

 

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Lettera al Cardinale Annibale Albani, Roma del 19 dicembre 1716

Son tante le grazie, che hò ricevuto sempre da V.E. , e dalla sua Ecc.ma Casa, che fan penare l’animo mio pieno di gratitudine per non poter inveruna maniera corrispondere alla grandezza de beneficij. Mi resta solo di pregare il Sig.re di concedere all’uno e all’altra la condegna retribuzione come farò nell’imminenti S.te Feste Natalizie del Red.re, nelle quali istantissimamente chiederò à concederli quelle vere felicità; che da se stessa può desiderarsi, e rinovando a V.E. il tributo reverentissimo dei miei umili ossequij, e della mia inalterabile ubbidienza, profondam.te inchinato le bacio la Sacra Porpora, e resto per sempre

D.V.E.

Napoli 19 xbre 1716

Umili.mo Div.mo Servo Obblig.mo

Antonio Vescovo di Nardò

Auguri

Pino Salamina e la Grotta dei Cervi a Porto Badisco: un ricordo

di Armando Polito

Nessuno come Foscolo ha celebrato quella religione tutta laica della sopravvivenza oltre la morte di coloro che sono stati protagonisti di alte gesta. Di fronte a queste espressioni la nostra povera mente corre subito alle imprese militari, senza che si lasci sfiorare dalla necessità di considerare quante vite umane è costata la gloria di uno solo. Per fortuna ci sono ben altre e più degne battaglie, quelle culturali; e di una di queste Pino, che ci ha lasciato ieri, è stato il grande, mai domo, condottiero. Il destino ha voluto che fosse lui ad immortalare i pittogrammi della Grotta dei Cervi a Porto Badisco e che ne facesse dono nel suo Pagine di pietra a Badisco, un foto-racconto, come lo definisce lo stesso autore, in cui su un sostrato d’indubbia abilità tecnica s’innesta l’ingenuità del fanciullo felicemente congiunta con la sensibilità e la capacità analitica e introspettiva del poeta. Non ho avuto il piacere e l’onore di conoscere Pino di persona, ma ho avuto il privilegio di esaminare alcune delle sue foto della grotta e di leggere le sue riflessioni prima che esse confluissero nel suo libro uscito nel 2009 in distribuzione gratuita, sottolìneo gratuita …

L’intermediario di questo incontro a distanza fu suo figlio Stefano, marito di Elisabetta Polo, che qualche anno prima era stata mia allieva e che, molto probabilmente, aveva fatto il mio nome, indegno, per un giudizio,  Rimasi, nel leggere quel canovaccio, piacevolmente sorpreso dal taglio originalissimo, per fortuna, secondo me, conservato integralmente nella stesura finale dell’opera, una cui copia, donatami a pochi giorni dalla sua uscita, con dedica, conservo gelosamente e con orgoglio.

Non si chiudono per sempre gli occhi di chi ha visto qualcosa di stupefacente e ha reso partecipi gli altri della sua fruizione, sia pure mediata dal mezzo tecnico, nel nostro caso la fotografia. E poi la sua tenace difesa dai rischi di limitrofa cementificazione del delicatissimo sito, tanto delicato che non è possibile visitarlo in quanto, si dice, sarebbero alterate le condizioni climatiche che hanno consentito alle pitture di giungere fino a noi. Sarà pure così, ma da cittadino che, data l’età, ne ha viste di tutti i colori, mi riservo il diritto di ipotizzare, malignamente e maliziosamente quanto si vuole, che ciò costituisca un comodo alibi per non accollarsi  un onere finanziario considerato secondario e superfluo, come secondario e superfluo in Italia è tutto ciò che riguarda la cultura, quando il solo settore del turismo culturale propriamente detto dovrebbe essere, col patrimonio in nostro possesso, il volano della nostra economia.

Sarebbe stato più onesto dichiarare che la fruizione pubblica, pur con le precauzioni del caso, sarebbe stata troppo onerosa nella fase di progettazione e di realizzazione dei sistemi protettivi, mentre le spese di gestione sarebbero state compensate dagli incassi e solo dopo parecchi anni avrebbero a loro volta cominciato a compensare la spesa iniziale. Il nome di tutto ciò? Investimento pubblico oculato: nesso in Italia sconosciuto o, quando non lo è, annegante negli oscuri meandri della burocrazia o del malaffare.

Invece ci si è sciacquato la bocca di belle parole con un progetto iniziato nel 2003. che aveva come obiettivo finale la ricostruzione virtuale in 3D della grotta e, quindi, la possibilità per chiunque, grazie alla tecnologia, di conoscerla senza alcun rischio per il suo prezioso contenuto.

Sono trascorsi ben 14 anni nel corso dei quali chissà quanti nuovi stadi (non ospedali o carceri…) saranno stati costruiti, ma il meraviglioso progetto, con legittimo orgoglio sbandierato ai quattro venti al momento del concepimento, sembra abortito per esaurimento dei fondi.

Chissà per quanti anni ancora Pagine di pietra resterà come il più completo repertorio iconografico della grotta. Pino probabilmente avrebbe gradito esserne uno dei primi visitatori virtuali, dopo esserne stato uno dei primi reali e sarebbe stato ben felice di sentirsi “superato”. Ma, forse, è meglio così …

Il nuovo libro di Boccadamo, “Gli sposi di Monteruga”

boccadamo

E’ stato appena pubblicato, con Spagine Edizioni (Fondo Verri) – Lecce, il nuovo libro dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo “Gli sposi di Monteruga” – Lettere ai giornali e appunti di viaggi.

Di seguito, un’interessante recensione al volume redatta dal poeta e critico letterario Marcello Buttazzo.

 

La scrittura del narrastorie Boccadamo

di Marcello Buttazzo

Fortunatamente, l’uomo preserva la memoria, la ravviva continuamente di linfa vitale. La memoria, conchiglia di vissuti, che navigano sulle spiagge del tempo. Rocco Boccadamo è un narrastorie salentino attento ai ricordi, ai trascorsi traversati con lo sguardo composto, discreto. Ogni anno Rocco ci ha abituato alle sue pubblicazioni, raccolte di articoli e lettere ai giornali. A fine anno, Boccadamo fa un compendio di ciò che l’ha colpito nel sommerso e nel manifesto e ci dona il suo libretto di storie. È appena uscito dell’autore salentino “Gli sposi di Monteruga”, appunti di viaggio, edito da Spagine (Fondo Verri Edizioni).

I luoghi sono sacri per Rocco, i luoghi della sua storia, della nostra storia, della sua infanzia e giovinezza, bordeggiate ai margini del sogno, della semplicità, della purezza fanciulla. Marittima, paesino natale dell’autore, l’insenatura dell’Acquaviva e Castro, sono delle perle, non solo di splendore paesaggistico, ma anche carne viva di memoria, di ricordo rosso d’incanto. In particolare, l’Ariacorte, piccolo quartiere di Marittima, viene evocata in tutta la sua francescana compostezza, abitata da gente del popolo, devota al lavoro e alla fatica. Si staglia limpidissimo il ricordo della madre Immacolata, morta giovanissima, che per Rocco è stata una fulgida figura di riferimento, capace di accoglienza e d’amore.

La narrazione di Boccadamo è, per l’innanzi, descrizione della gente, che scende essenzialmente fra le viuzze, fra le strade, di Marittima, di Castro, e di altre località vicine. I protagonisti dei suoi racconti sono pescatori, contadini, muratori, ciabattini, gente umile, con la notazione di spontaneità e di genuinità. Ma protagonista fondamentale delle pagine di Rocco è anche il paesaggio, il mare adamantino, la terra generosa, la via del tabacco, i quartieri assolati d’amore e d’attesa, d’umana speranza. Nel libro viene esaltato il valore e il sapore dell’amicizia. Una costellazione di persone s’affolla fra le righe, Nzino, Nino, Luigi, Antonio, tutta gente del popolo. Potremmo dire, con una vulgata scontata, che Rocco sia scrittore popolare, perché gli umili sono tenuti in massima considerazione. Loro fanno la storia.

Il nostro autore dedica pagine d’amore e di commozione a un grande uomo di Marittima, Vitale Boccadamo, distintosi per eroismo nel corso della Prima Guerra mondiale. Leggendo “Gli sposi di Monteruga” si comprende che Boccadamo, pur senza particolari implicazioni confessionali, abbia una precipua propensione per la mansione spirituale e religiosa. Molto belli sono i racconti su Castro e la sua Protettrice, la Madonna, Maria SS. Annunziata, e su S. Maria Maddalena, venerata a Castiglione d’Otranto. In un’era in cui eccessivamente si pontifica su grandi sistemi, ben venga questa prosa minimalista di Rocco, questo florilegio sulla vita quotidiana, ordinaria, che ci indica il passo, che ci segna la danza. Dobbiamo dire anche che ne “Gli sposi di Monteruga” il racconto si dispiega su due fronti coincidenti: il presente e il passato. Esiste un continuum nel tratteggio di ciò che è avvenuto tanti anni fa e di ciò che fluisce attualmente. E Rocco, marito, padre e nonno, dal suo osservatorio prediletto e buon ritiro della “Pasturizza” con pazienza tesse e ci rede partecipi. La fluidità della scrittura di Boccadamo si amplia con la meraviglia che l’autore prova in certi frangenti. Rocco descrive con stupore da poeta la magnificenza della Natura, i voli di storni paesani. E introduce scenari di fiaba con le storie del rospetto Pancino e del riccio Culèo.

La prefazione del libro è di Ermanno Inguscio. Nella postfazione Raffaella Verdesca tocca una corda cruciale quando scrive: “Uno scrigno, questo, che Rocco Boccadamo ci consegna grazie ai suoi scritti: parola-chiave, l’AMORE”. E, in effetti, l’amore è il motore che tutto muove, che ci rende compartecipi agli umani, che scioglie il gelo. Che ci salva la vita.

Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia cittadina (prima parte)

di Nazareno Valente

Uno dei temi più usati dalla fantascienza è quello degli universi paralleli dove, a dirla in parole povere, due (e anche più) mondi simili coesistono senza incontrarsi mai, salvo non si riesca ad intraprendere un viaggio nel tempo che consenta il passaggio da una dimensione ad un’altra.

Sempre facendo riferimento alle antichità, puntando questa volta l’attenzione sull’assetto politico-amministrativo di Brindisi del periodo repubblicano, potremmo riscontrare che in tal caso Wikipedia e la storiografia ufficiale sono un perfetto esempio di realtà parallele che nessun buco nero potrà mai collegare.

Racconta l’enciclopedia in linea nella scheda dedicata alla mia città1: «Nel 267 a.C. Brindisi, come l’intero Salento, fu conquistata dai Romani e divenne un importantissimo scalo per la Grecia e l’Oriente, quindi venne elevata al rango di municipio nell’83 a.C. e ai brindisini fu riconosciuta la cittadinanza romana (240 a.C.)».

A parte la poca consequenzialità e l’esplicita mancata indicazione delle fonti da cui sono state ricavate le notizie, veniamo così a sapere che Brindisi, conquistata nel 267 a.C., ottiene la cittadinanza romana nel 240 a.C. e, successivamente, nell’83 a.C. diviene municipium, senza però comunicarci quale rango, per usare lo stesso termine, essa avesse avuto prima di quest’ultima data.

Le parti s’invertono nella scheda che caratterizza il Salento2. Qui apprendiamo che «Brindisi con il suo porto, intorno al 240 a.C., venne dichiarata municipio insieme a Taranto… dopo l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C. fu riconosciuta la cittadinanza romana». Quindi, municipium sin dal 240 a.C. e, solo nell’80 a.C., ottenimento della cittadinanza.

Trattando la storia del Salento3, Wikipedia riporta che «Brindisi, intorno al 240 a.C., venne elevata al rango di municipio e ai brindisini fu riconosciuta la prestigiosa cittadinanza romana», come dire che i due avvenimenti sono qui dati coincidenti.

Nella schede sul cavaliere brindisino Lucio Ramnio4 non c’è, invece, alcuna indicazione sulla struttura istituzionale assunta dalla città: molto semplicemente Brindisi, caratterizzata come «città apula», viene «prima conquistata (266 a.C.) ai Messapi» e, dopo poco, ottiene « la cittadinanza romana (240 a.C.)». E mi fermo qui per non martirizzare troppo il lettore.

Fossero avvenimenti controversi su cui gli storici si accapigliano, le diverse opinioni esposte da Wikipedia sarebbero giustificabili e rappresenterebbero, al tempo stesso, una ricchezza; il fatto che siano invece eventi del tutto scontati, la cui conoscenza è acquisibile consultando un qualsiasi testo specialistico, crea parecchio stupore e fondati dubbi sulle conoscenze di chi redige le varie schede.

Appare infatti strano che chi vuol spiegare fatti avvenuti nel III secolo a.C. non sia nemmeno a conoscenza che a quel tempo gli abitanti d’un municipium romano non potevano che essere cittadini romani oppure che la cittadinanza d’una città era conseguente alla configurazione giuridica che Roma aveva consapevolmente imposto, e non certo frutto di estemporanee decisioni.

Nelle espressioni del tipo la prestigiosa cittadinanza romana oppure elevata al rango di municipio si coglie poi una visione alquanto datata delle antichità romane, che rinvia agli stereotipi imposti nella prima metà del secolo scorso, dove la romanità era l’aspetto centrale attorno al quale ruotavano tutti gli altri elementi del mondo latino. In definitiva una riproposizione di cliché talmente consolidati che inibiscono qualsiasi tipo di riflessione, anche quella più spontanea, del tipo: ma davvero la cittadinanza romana era così prestigiosa o invidiabile come si vuol far credere?

Intanto occorrerebbe premettere che al prestigio poteva essere sensibile la ristretta cerchia dei notabili, e non certo il resto della popolazione più istintivamente portato a valutare la questione in base a parametri meno elevati e più concreti. Parlerei piuttosto di convenienza e, da questo punto di vista, sarebbe semplicistico, oltre che irrealistico, liquidare la questione con una risposta valida per tutto il tempo in cui l’Urbe fu egemone. Dipendeva pertanto dal momento e dalle situazioni contingenti, com’è naturale che fosse, e c’è un passo di Livio che lo chiarisce in maniera inequivocabile.

Siamo nel pieno svolgimento della seconda guerra punica, quando Annibale sta prendendo il sopravvento e le città Italiche sono propense ad abbandonare Roma. Durante l’assedio di Casilinum, i Prenestini, che formano il grosso del presidio, si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»5) e offre loro la cittadinanza romana per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»6); i Prenestini accettano il denaro, però, rifiutano compatti l’altra offerta preferendo mantenere la propria cittadinanza («non mutaverunt»7).

Non è questo l’unico esempio in cui un popolo respinge la possibilità di ottenere la cittadinanza romana e, volendolo, ci sarebbe pure un caso in cui l’offerta è considerata persino risibile. Diodoro Siculo ci racconta infatti che un Cretese, al dono fattogli dal console della cittadinanza romana, risponde che per i Cretesi quella cittadinanza è una solenne baggianata cui essi preferiscono di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»8). Vero è che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, tuttavia abbiamo a questo punto più d’un motivo per dubitare che diventare Romani fosse cosa desiderabile in assoluto.

Per altro la civitas non era slegata dalla formula organizzativa che i Romani sceglievano di adottare per la città sottomessa. Semplificando il più possibile9, vediamo i possibili regimi giuridici che venivano attuati nel periodo in cui, come racconta Eutropio, fu fatta guerra ai Salentini ed i Brindisini furono conquistati («Sallentinis in Apulia bellum indictum est, captique sunt cum civitate simul Brundisini»10).

Il sistema più utilizzato era quello federativo che derivava da specifico accordo (foedus) stipulato con la comunità sconfitta. Nel 267 a.C., data più probabile per la presa del Salento, erano sempre più rari i foedera aequa, dove le parti si ponevano in una posizione di formale parità, mentre più comuni erano i foedera iniqua, con cui Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate, che divenivano alleate dell’Urbe ma in condizione subordinata. In pratica gli alleati (socii) rinunciavano a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). Chi era amico o nemico di Roma lo diventava di conseguenza anche dei socii (pure chiamati foederati) che avevano l’obbligo di assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare fornendo un contingente di truppe prefissato, che operava nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Il foedus però consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro concessa l’autorità di battere moneta.

 

Dal canto suo, il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui di solito Roma annetteva un territorio conquistato. Sino alla guerra sociale, i municipia non erano organizzati in maniera uniforme in quanto fruivano di condizioni giuridiche diverse e del tutto conseguenti al modo con cui l’annessione era avvenuta.

I popoli sconfitti, che si riteneva utile incorporare nello Stato romano, erano organizzati in municipia sine suffragio et iure honorem e, pertanto, pur godendo della cittadinanza romana, erano limitati nei principali diritti politici, non avendo titolo a votare e ad aspirare alle cariche politiche. Le comunità, la cui annessione era avvenuta (se così si può dire) in maniera pacifica, erano invece dotate della cittadinanza piena (cives optimo iure) e quindi in possesso dei medesimi diritti di un qualsiasi altro cittadino romano. In ogni caso, i municipes erano tutti dotati di cittadinanza romana.

C’era una certa dinamicità nelle configurazioni dei municipia per cui, con il passare del tempo, quelli sine suffragio potevano divenire optimo iure, così come, a seguito di ribellione, essere degradati in stato di soggezione pari a quella dei provinciali.

Il municipium era generalmente soggetto al tributo e, in ogni caso, doveva fornire proprie truppe all’esercito romano; nel contempo, fruiva di un’ampia autonomia amministrativa.

Oltre che con gli accordi (foedera) e con le annessioni (municipia), i Romani controllavano il territorio conquistato con le coloniae che avevano funzioni in prevalenza militari ma che erano anche un modo per diffondere la romanità.

Le colonie erano di due tipi, quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi vi partecipava come colono conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i cittadini romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»11) perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum12), vale a dire degli uomini in età militare, e di non stipulare accordi con altre città, ma, a parte questi limiti, avevano un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta.

Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii13) e di commerciare con essi (ius commercii14); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi15); di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»16). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane.

Nella scelta i Romani salvaguardavano i propri interessi ma tendevano anche a non deprimere le popolazioni conquistate. Per questo seguivano anche un criterio logistico e, di conseguenza, non adottavano il sistema del municipium per città lontane dal territorio romano in quanto, a causa della lontananza, non avrebbero potuto attuare un concreto controllo sulla città annessa e, nel contempo, non avrebbero consentito alla popolazione una effettiva fruizione dei diritti.

Si pensi, ad esempio, ai Brindisini. Fossero stati inseriti in un municipium, avrebbero dovuto affrontare ogni cinque anni un viaggio di circa quattro settimane, solo per il censimento, cui erano tenuti a partecipare i cittadini romani, che veniva svolto a Roma. E lo stesso tempo ci avrebbero messo per esercitare l’eventuale diritto al voto, perché tanto durava allora andare avanti e in dietro da Brindisi a Roma.

La cittadinanza sarà stata pure prestigiosa; il rango municipale il non plus ultra ma, agli effetti pratici, in quel periodo, avrebbe comportato notevole disagio e quasi nessun beneficio.

LaffiColonozzazione

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per l’elemento romano, per la rinuncia alla cittadinanza romana, sia per l’elemento indigeno, per la preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. In tal senso, sintomatico è il caso capitato agli abitanti di Anzio una settantina di anni prima.

In un passo non del tutto chiaro17, Livio ci fa infatti intendere che Anzio, colonia latina, viene punita per la sua condotta ribelle con la perdita del diritto latino e con la confisca del territorio che viene rifondato come colonia romana («Et Antium nova colonia missa») a cui gli Anziati, se lo vogliono, possono comunque iscriversi come coloni («ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi coloni vellent»). Al resto della popolazione anziate viene invece vietato il mare e concessa la cittadinanza («interdictumque mari Antiati populo est et civitas data»).

Di là del fatto che Livio si riferisca ad una colonia d’un periodo anteriore allo scioglimento della lega latina (le cosiddette priscae latinae coloniae), e quindi con un assetto giuridico diverso da quelle che qui trattiamo, quel che emerge è che la concessione della cittadinanza non fosse poi tanto da considerarsi in assoluto un privilegio. E, ciò che più importa, che la condizione giuridica di colonia latina fosse, tra quelle che Roma imponeva ad un popolo vinto, la preferibile.

D’altra parte le scelte dei Romani erano improntate al più ferreo pragmatismo: Brindisi aveva un porto che rappresentava la chiave di volta per ogni possibile rapporto con il mondo orientale e, in senso regionale, poteva costituire il giusto contrappeso a Taranto, città di cui l’Urbe per secoli non si sarebbe mai fidata. Per questo c’era tutto l’interesse a valorizzarla riconoscendole la posizione istituzionale che la rendeva la più autonoma possibile.

Nel 247 a.C. fu formalmente decisa la deduzione a Brindisi d’una colonia di diritto latino e nel 244 a.C., completatasi la centuriazione prevista, la città celebrò la sua nuova nascita.

“Il 5 agosto giunsi a Brindisi” («Brundisium veni Nonis Sextilibus»), scrive Cicerone18 ad Attico; lì l’attendeva la figlia Tulliola, nel giorno stesso del suo compleanno che coincideva con la ricorrenza della fondazione della colonia di Brindisi («ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae»). Per cui il 5 agosto 244 a.C.19 fu fondata la colonia latina di Brindisi, i cui abitanti erano cittadini brindisini di diritto latino. E non cittadini romani. Le altre città salentine stipularono invece un foedus e, quindi, furono federate con l’Urbe.

Che Brindisi sia stata colonia latina, e che tale struttura sia rimasta in vigore almeno sino alla lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda del 90 a.C., è un fatto innegabile che trova d’accordo tutti gli storici. È pertanto del tutto scontato che Wikipedia commetta un errore nell’anticipare al 240 a.C.20 l’ottenimento della cittadinanza romano e/o la costituzione di Brindisi a municipium, forse condizionata dalle ipotesi formulate in merito dalla gran parte dei cronisti brindisini, i quali, a loro volta, tendono ad oscurare il passato coloniale della città oppure, nel migliore dei casi, ad annacquarlo con la civitas romana.

Sembrerà strano ma questa linea di pensiero — forse inaugurata dal canonico Camassa che, come meglio vedremo la prossima volta, almeno aveva qualche convenienza a spacciarla per vera — trova tuttora istintive adesioni. Ad esempio, A.M. Caputo anticipa addirittura al 276 a.C. — ma forse intende 267 a.C. — il momento in cui i Romani «elevarono Brindisi alla dignità di Municipio, riconoscendole tutti i diritti della cittadinanza romana»21; G. Perri la retrodata al 244 a.C. quando vi fu dedotta «una colonia romana di diritto latino»22, vale a dire proponendo una forma giuridica mista (al tempo stesso romana e latina) mai adottata da Roma che fondava, invece, o colonie romane o colonie latine, perché il diritto di riferimento, e conseguentemente la cittadinanza, non poteva che essere unico. Non a caso i Romani per diventare coloni latini dovevano rinunciare alla loro cittadinanza originaria.

La conclusione amara, e per certi versi ridicola, è che la configurazione che i cronisti brindisini per lo più stentano ad accettare è appunto quella alla base della notorietà della Brindisi antica: la nominale autonomia, di cui beneficiò in virtù d’essere una colonia latina, le consentì di mantenere una propria identità e di non rimanere appiattita nel gruppo anonimo dei municipia.

Wikipedia da parte sua non sa neppure di questo passato illustre, tanto è vero che nella scheda in cui mescola le colonie romane con quelle latine, trattandole come se facessero parte d’un mondo ibernato per secoli23, Brindisi non compare nemmeno.

Il mondo romano era invece sufficientemente dinamico ed anche i significati ed i valori s’andavano modificando con il tempo. La stessa cittadinanza romana, che, come riportato, un Cretese aveva ritenuto una baggianata, divenne con il passar degli anni sempre più apprezzabile, tanto da scatenare una sanguinosa guerra che avrebbe comportato il totale riassetto delle città italiche.

Una riorganizzazione che, come scopriremo nella prossima puntata, coinvolse pure Brindisi.

Secondo me, senza che lo desiderasse troppo.

 

 

Note

1 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Brindisi#Il_periodo_romano (17.12.2017).

2 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (17.12.2017).

3 Link https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Salento#Il_periodo_romano (17.12.2017).

4 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Ramnio (17.12.2017).

5 livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

6 Livio, Cit., XXIII 20, 2.

7 Livio, Cit., XXIII 20, 2.

8 Diodoro Siculo (I secolo a.C.), Biblioteca Storica, XXXVII 18.

9 Per gli inizi della primavera prossima, spero di poter completare un lavoro di più ampio respiro sulla conquista del Salento e sull’assetto organizzativo della Brindisi romana.

10 Eutropio (IV secolo d.C.), Breviarium ab urbe condita, II 17.

11 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), De domo sua, 77.

12 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

13 La prole godeva quindi dei diritti civili.

14 Si poteva così ricorrere al pretore, o ad un suo delegato, per tutelare i propri atti negoziali.

15 Occorreva però lasciarvi un figlio, per non depauperare la colonia.

16 Livio, Cit., XXV 3, 16.

17 Livio, Cit., VIII 14, 8.

18 Cicerone, Epistole ad Attico, IV 1, 4.

19 Oppure 245 a.C.

20 Resta invece un mistero da dove si sia potuta ricavare la data del 240 a.C. che ricorre puntuale nelle varie schede.

21 A.M. Caputo, Presentazione, in G. Perri, Brindisi “raccontata”, Lulu.com 2015, p. 8.

22 G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, p. 24.

23 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Colonia_romana (17.12.2017).

 

Le Panare di Spongano

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

 

Le Panare di Spongano 2017: il tempo passa e la festa cambia pelle   

di Giuseppe Corvaglia

Le Panare sono una festa dei frantoi di Spongano che, come festa dei frantoi, ha rischiato di scomparire ma che, diventando festa di tutta la comunità, è rifiorita da circa mezzo secolo e oggi è un evento.

Le panare sono ceste di canne tagliate a listarelle e intrecciate a una struttura di polloni di ulivo che servivano a trasportare tante cose, ma che, per l’occasione, i frantoiani riempivano di sansa con una modalità particolare tale da consentire di porre al centro della panara il fuoco.

La festa è stata sempre una gioia della comunità, anche se in origine gli unici che facevano le Panare erano i frantoi: tanti frantoi tante Panare.

E a Spongano di frantoi ce n’erano tanti, come si evince da una ricerca di prossima pubblicazione sul Delfino e la Mezzaluna, ma anche quando le panare le facevano solo i frantoiani era sempre una festa della comunità, sia perché molte famiglie del paese avevano frantoiani che in quel giorno uscivano dalla “nave”, che era il frantoio, e potevano godere della loro presenza, sia perché la maggior parte della popolazione era parte del processo di produzione dell’olio, dalle olive al frantoio.

I frantoi erano tanti e chi non lavorava nei frantoi lavorava negli uliveti per la raccolta dei frutti. Poi c’erano i “ccatta e binni”, mediatori che compravano e vendevano olive per consentire a chi non ne avesse abbastanza per una molitura di realizzare in soldi il raccolto o di completare la quantità di frutti per fare una “vascata” (4 tomoli o 160 Kg di ulive). C’era chi raccoglieva la morchia, residuo dell’olio, per rivenderla ai saponai; c’era chi nelle Saponiere ci lavorava e c’erano le famiglie che vivevano dei proventi di tutti questi lavori.

ph Antonio Chiarello (2006)
ph Antonio Chiarello (2006)

 

La festa poi consentiva per quel giorno di ascoltare musica, ballare, cantare, stare in compagnia e in allegria, sfidando il freddo e il buio dell’inverno.

Nei tempi andati oltre alle fiammelle delle Panare si allestiva anche un falò che scaldava la piazza e consentiva ai paesani di portare a casa, in recipienti di metallo o terracotta, della brace, partecipando a quel fuoco comune che rinsaldava i legami comunitari.

Intanto, tra le note dei musicanti e i balli dei giovani, le Panare si consumavano lentamente, sotto la sorveglianza dei frantoiani che “governavano” il fuoco facendolo durare anche fino al giorno dopo.

ph Adriano Rizzello (1983)
ph Adriano Rizzello (1983)

 

Circa quarant’anni fa ci fu la prima vera rivoluzione: un gruppo di amici realizzarono la prima Panara che non partiva da un frantoio. Era gente che nei frantoi aveva lavorato e sapeva cosa erano e come si realizzassero le Panare, le quali, con l’avvento di nuove tecnologie, diventarono più rare, come accadeva per i frantoi.

Da quel momento la panara fatta al di fuori dei frantoi fu sdoganata e paesani, gruppi di amici, famiglie, associazioni, si sono cimentate a creare la lpropria Panara, ognuno mantenendo la struttura tradizionale e addobbandola come meglio sapeva e poteva. La tradizione vuole che gli ornamenti siano combustibili, perché la panara deve consumarsi lentamente, ma deve anche bruciare completamente.

L’aumentato numero delle Panare è una bella cosa, ma porta, talvolta, a qualche inconveniente specie quando la gestione della fiamma non è adeguata: infatti se si alza troppo deve essere domata con pezzuole bagnate di acqua e se tende ad affievolirsi con pezzuole bagnate di un combustibile lento, come olio o nafta. La benzina potrebbe avvampare tutto e l’acqua sulla sansa che arde provoca un fumo denso e fastidioso. Oggi non è che l’esperienza dei conduttori delle panare sia aumentata, ma ognuno si attrezza perché nel centro della panara, al posto dello spurtiddhru, con il fuoco vivo ci siano i più sicuri lumini o lanterne che mostrano la fiamma, certamente meno rischiosi.

Dalle poche Panare di un tempo oggi se ne contano fino a 40 o 50, e qualche anno di più, disposte in uno scenografico serpentone colorato e vivace che si forma a partire dalla Casa Cranne, il Palazzo Bacile, da dove è sempre partito il corteo.

ph Antonio Chiarello
ph Antonio Chiarello

 

Nel primo pomeriggio la banda parte dalla piazza e va al citato Palazzo, dove prende la prima delle Panare e da lì andrà a prendere tutte le altre, secondo un percorso stabilito dal Comitato dei festeggiamenti e dalla Polizia Municipale.

In passato la banda raccoglieva tutte le Panare e i frantoiani pretendevano che ognuna di esse fosse accolta nel corteo con una marcetta e tutti gli onori. La bandicella che le aveva accompagnate si rifocillava alla fine del percorso nel Palazzo baronale con stuzzichini e l’ottimo vino di casa Bacile; oggi imprenditori o privati cittadini generosi apprestano dei piccoli rinfreschi in itinere.

ph Giuseppe Corvaglia (2003)
ph Giuseppe Corvaglia (2003)

Se quarant’anni fa la gestione dell’evento era possibile con due membri del comitato e un vigile urbano, oggi necessita di una vera e propria macchina organizzativa che studia il percorso, i punti di raccolta, la gestione del traffico, col coinvolgimento anche della Protezione Civile per domare eventuali incendi.

Anche la Panara delle Scuole è una iniziativa lodevole e ormai consolidata, con il coinvolgimento delle diverse classi cittadine.

1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi "Scorcia" Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)
1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi “Scorcia” Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)

 

Un altro piccolo, ma significativo, cambiamento avvenne trent’anni fa quando un gruppo di amici decise di riproporre la Panara come si faceva una volta, prima dell’avvento di carri motorizzati.

Gli amici, da sempre attenti alla cultura e alle tradizioni popolari, decisero di proporre la panara ponendola su un carretto rigorosamente trainato a mano. Un altro elemento della festa sono, infatti, i mortaretti e qualsiasi bestia al loro scoppio potrebbe imbizzarrirsi con effetti imprevedibili.

La Panara partì da via Torquato Tasso, proprio da quello che era stato negli anni ’50 un frantoio della famiglia Casarano, e l’impresa riuscì grazie alla collaborazione di Arcangelo Corvaglia che allestì la struttura della Panara e di Salvatore Bramato che ci prese per mano e avviò un percorso che sembrava estemporaneo e dura ancora.

All’epoca la festa si concludeva con la deposizione delle Panare nel punto di raccolta . La banda, dopo essersi rifocillata, andava nella piazza principale e suonava ancora qualche marcetta e poi una coda fatta di ballabili con i pochi musicanti che si fermavano, ma poi la festa finiva.

Oggi la serata fredda è riscaldata dal fuoco, ma anche dal buon vino e da buona musica con un palcoscenico che, negli ultimi anni, ha visto gruppi di rango della musica salentina, ben diversa da quel rimorchio di trattore e da quei musici pieni di buona volontà, e la festa diventa una buona occasione per stare insieme all’aperto anche in una serata invernale.

Anche il piccolo rinfresco offerto dai Comitati fatto di taralli e lupini per “appoggiare” un buon bicchiere di vino nel tempo si è evoluto con aggiunta di pittule prima impastate e fritte dalle donne della Fratres, poi con la Confraternita dell’Immacolata, che alle pittule ha associato vin brulè, poi il brudinu di pipirussi e cucuzze siccate e dopo i pezzetti di cavallo…

La festa, insomma, si è evoluta, come è giusto che sia, mantenendo il connotato di festa comunitaria e diventando un evento che accoglie un discreto pubblico che di anno in anno va aumentando.

ph Giuseppe Corvaglia (2009)
ph Giuseppe Corvaglia (2009)

 

Anche l’atteggiamento della Chiesa è cambiato. In passato non riconosceva questa festa, tant’è che la messa di Santa Vittoria con il bacio della reliquia era contemporanea al corteo e anche il titolo di Panare de Santa Vittoria era sbagliato, attribuito solo perché il Comitato della festa della Santa organizzava anche le Panare, oltre al fatto che parte delle Panare fra gli addobbi avesse anche una immaginetta della santa. Oggi c’è un’attenzione diversa e il parroco partecipa alla festa con una benedizione delle Panare e del fuoco.

Quest’anno il programma sarà davvero ghiotto e stimolante.

Ad accompagnare gioiosamente con la musica le Panare sarà la banda Città di Racale che alle 15,30 partirà dalla piazza per raccogliere le Panare, prima fra tutte quella di Palazzo Bacile.

Sarà presente fra le tante associazioni, istituzioni e gruppi di privati cittadini, anche l’Associazione Panara Antica con la tradizionale Panara trainata a mano e il variegato gruppo che ormai da trent’anni non manca mai all’appuntamento, così come non mancheranno partecipanti di vecchia data e giovani che per la prima volta si misurano con questa esperienza.

Il corteo si prevede partecipato e allegro con le Panare adornate al meglio con addobbi che bruceranno con esse, ma che le rendono belle come altri ornamenti e che ravvivano il carro che le trasporta.

A fine corteo, mentre le Panare si consumano riscaldando l’ambiente col fuoco, Spongano festeggerà e accoglierà gli Ospiti.

Il Comitato offrirà , come da tradizione, lupini, magari sponzati e salati nell’acqua di mare, mentre la Confraternita dell’Immacolata proporrà pittule e vin brulè, il Comitato dei Rioni proporrà patatine fritte normali e a spirale e sarà presente uno stand di carne arrostita, ma non mancherà vino buono e buona birra artigianale.

La musica che farà pulsare il cuore della festa quest’anno sarà quella degli Aprés la Classe già noti al pubblico sponganese per uno strepitoso concerto di una notte bianca rimasta nei ricordi di molti, ma prima del concerto alcuni amici e compagni di cantate renderanno omaggio a Pippina Guida con quei canti che l’hanno vista gioiosa protagonista che sarà pure un momento per ricordare quei Cantori che con lei hanno saputo restituirci un patrimonio di suoni, voci, ricordi, cuore e memoria.

La Pro loco, sempre attenta e partecipe, organizzerà un mercatino dei prodotti artigianali e locali che si prevede interessante e stimolante specie in un periodo che fa pensare ai doni.

Altra attrattiva della serata sarà una percorso multimediale curato da Ada Manfreda che valorizza foto e video provenienti da archivi o da collezioni private, che darà un’idea della festa in tutti i suoi aspetti.

Una ideale prosecuzione delle Panare sarà Il viaggio del Nachiro il 23 e il 24 dicembre, evento teatrale itinerante che ha fatto il giro del Salento e si conclude proprio nel frantoio ipogeo di Palazzo Bacile con Fabio Bacile di Castiglione, medico e scrittore, nachiru d’eccezione, che parlerà dei segreti del frantoio.

E quei giovanotti, ora un po’ attempati, che da trent’anni tirano una panara sul carretto come “somarelli”, pensando che l’esperienza sia faticosa, che possa finire a ogni anno che arriva, alla fine si ritroveranno circondati da altri formidabili giovanotti che sentono come propria l’esperienza, che la rendono viva , godendo del vino buono che sul carretto non manca, gustando le pittule e il brudino, mozzicando alli panini, assaggiando le purpette e vivendo un’esperienza autentica.

Finche dura l’avventura … ce piacere ci nci sta.

panare

Voci e locuzioni infantili neretine: CCICCI, A DDHÌ DDHÀ, AN GALÈ, (A)N GONGA, PEPÈ e ‘MBRU ‘MBRU.

di Armando Polito

Tra le scienze l’etimologia è forse quella più aleatoria poiché la formazione delle parole ha seguito strade contorte, incappata in processi spesso incoerenti, in condizionamenti anche psicologici tutt’altro che facili da ricostruire senza il risschio di incorrere in ipotesi fantasiose sì, suggestive, per qualcuno perfino geniali, ma senza uno straccio di prova a conforto. C’è, poi, al suo interno un settore particolarmente complicato che è quello delle voci gergali e di quelle infantili. Le nostre di oggi appartengono a quest’ultimo gruppo e il lettore non prenda per oro colato quello che dirò e, soprattutto, non abbia paura, soprattutto se ha più anni dei miei che sono tanti ma non tantissimi, di esprimere il suo pensiero nella consapevolezza che qualsiasi suggerimento, anche sbagliato, talora è la scintilla che ci fa fare un passo, per quanto piccolo, se non verso il vero, almeno verso il provvisoriamente certo. A riprova di ciò non posso tacere che questo post probabilmente non sarebbe nato se il concittadino Ennio Giannuzzi  non avesse posto il quesito su Facebook il 6 u. s. chiedendo anche, se l’avessi letto, il mio eventuale intervento. Il destino ha voluto che leggessi il suo post dopo pochi minuti dall’inserzione e mi è parso degno di un rilievo non semplicemente, con tutto il rispetto, facebookiano. Ecco perché per la risposta ho scelto questo blog che ormai da parecchio tempo costituisce la mia palestra quasi quotidiana, che, a differenza delle normali palestre (senza per questo demolire il mens sana in corpore sano), consente il proficuo allenamento della nostra parte più nobile, il cervello.

Mi auguro che, per quanto detto, questa pappardella iniziale non venga considerata un mettere le mani avanti o, peggio, il predicozzo di un insegnante in pensione un po’ o tanto o tutto rincoglionito.

Entro in argomento con una piccola premessa (niente paura, il giorno in cui dovessi candidarmi o accettare una candidatura sarebbe quello più triste della mia vita, perché significherebbe che il processo di rincoglionimento di cui sopra è arrivato al capolinea …): anche se probabilmente le parole create dai primi uomini erano di natura onomatopeica (riproducevano, cioè, i rumori sentiti in natura per significare concetti abbastanza vicini al rumore stesso o agli effetti del fenomeno che l’avevano generato), sarebbe semplicistico a mio avviso attribuire al linguaggio infantile sempre e comunque la stessa genesi di quello dell’umanità fanciulla, anche se l’acquisizione del linguaggio nel bambino è inizialmente di natura imitativa. Probabilmente il cervello di ognuno di noi non è alla nascita una tabula rasa, qualcosa di culturale forse è già impresso a livello genetico e costituisce il sostrato su cui s’innesterà l’apporto della famiglia prima e della scuola dopo. A tal proposito va ricordato che anche il sostrato più fertile è destinato a non dare frutti apprezzabili se i coltivatori (genitori prima ed insegnanti poi) sono poco o per niente all’altezza.

A questo punto, prima di essere mandato al diavolo insieme con il mio ispiratore, entro nel cuore dell’argomento e passo in rassegna le voci ricordate da Ennio proponendo per ognuna la mia riflessione etimologica.

CCICCI (carne) Chiara deformazione, con raddoppiamento della consonante iniziale tipica del nostro dialetto e accorciamento con l’eliminazione dell’ultimo fonema, dell’italiano CICCIA, che ha lo stesso etimo di SALSICCIA.che è da un latino *isicia, a sua volta dal classico insicia, neutro plurale di insicium che significa salsiccia o, in genere, carne insaccata. E proprio la parte finale di insicia rivela l’origine del dialettale salciccia, che probabilmente ha subito l’incrocio con sale. Ricordo che, sempre nel dialetto neretino, carne! è l’interiezione privilegiata per esprimere disappunto rispetto a qualcosa di spiacevole che ci viene prospettato. Quest’interiezione è stata da sempre considerata volgare perché rientra metaforicamente in quella categoria di parole che contengono riferimenti a quello che ci consente di esistere e che pure ancora consideriamo come qualcosa di peccaminoso, se non schifoso: il sesso. Insomma,per farla breve, il neretino carne! corrisponde esattamente all’italiano col cazzo!. Ora è vero  che il dialetto è in disuso e che, quindi, è più probabile che un bambino di oggi apprenda dai genitori non CCICCI ma direttamente il nome commerciale  dell’omogeneizzato firmato che la multinazionale di turno ha approntato (in attesa dei precotti e simili …) per lui nel vasetto dalla forma strana e con l’etichetta dai colori sgargianti che, a detta dello psicologo infantile ammanicato, stimolano tanto la sua intelligenza …

Tuttavia, se oggi dovesse capitarvi di sentire un bambino proferire CICCIA! (attenzione al tono, che è importantissimo!) dopo che gli è stato detto di non continuare a fare qualcosa che non ci aggrada (ma a lui sì …), non sta contestando, purtroppo,  l’omogeneizzato firmato ma sta applicando la metafora di cui sopra. Occhio  a quel bambino! Potrebbe essere un genio precoce …

A DDHÌ DDHÀ. (a passeggio, fuori) Semplice traduzione in dialetto, con aggiunta della preposizione a, dell’italiano LÌ LÀ.

AN GALÈ (sulle spalle) Anche qui traduzione in dialetto dell’italiano IN CALESSE, con soppressione della sillaba finale e sostituzione della preposizione in con an (che è da a+in) Non so quanti padri di oggi sarebbero disposti a fungere da calesse e dubito che il nonno esiliato in un ospizio abbia la voglia di farlo in occasione di una delle rare visite del nipotino, ammesso che la presenza dell’artrite o dell’artrosi glielo consenta, nonostante certe pillole facciano miracoli per almeno dodici ore (almeno così assicura la multinazionale che la produce) …

NGONGA (atto del far saltellare il bambino sulle ginocchia). Se degli etimi precedenti sono sicuro, questo va accettato con beneficio d’inventario. Potrebbe essere trascrizione dell’italiano SUL GINOCCHIO (con sostituzione della preposizione articolata sul con in, per cui la n iniziale di ngonga  sarebbe ciò che rimane di an (lo stesso visto in an galè). Per questo mi pare che la scrittura più corretta sarebbe (A)N GONGA. Ne approfitto per dire che ginocchio è dal latino genùculum, variante di genìculum, a sua volta diminutivo di genu, che è dal greco γόνυ )leggi gòniu).

PEPÈ (dolcetto) L’ho lasciato per ultimo, ma non mi vergogno di confessare che le cartucce erano esaurite da tempo, nel senso che fin dall’inizio è stato l’unico a crearmi difficoltà, tant’è che, essendoci ritornato più volte, non son riuscito a cavare il ragno dal buco, cioè la pepè dall’involucro che la nasconde. Non mi convince nemmeno ciò a cui per la disperazione ho pensato, che, cioè, fosse deformazione del napoletano babà (che è, tal quale, dal francese).

Altro che pepè! Chiudo con l’amaro in bocca e, in attesa che qualcuno ci sveli l’arcano, mi permetto di aggiungere alle voci ricordate da Ennio ‘MBRU ‘MBRU o ‘MBRUÈ (acqua, bere). Credo che questa sì sia voce di origine in qualche modo onomatopeica, anche se la deformazione professionale mi costringerebbe a prendere in considerazione il latino imbre(m), accusativo di imber=pioggia o il greco βροχή (leggi brochè) che ha lo stesso significato o il francese boire=bere (dal latino bìbere) deformato nella sua pronuncia (buàr). Se è così, la grafia più esatta sarebbe ‘MBRU ‘MRU (se da imbrem per aferesi di i-, se dalle altre sempre per aferesi di i- appartenente alla preeposizione in che vi è stata aggiunta).

E con questa annotazione indegnamente poliglotta, anzi politoglotta …, saluto chi mi ha fin qui seguito.

Due tele di Giovanni Papagiorgio a Latiano

di Domenico Ble

Due tele presenti a Latiano, una conservata presso Palazzo Imperiali e l’altra nella sagrestia della chiesa di Sant’Antonio, testimoniamo l’attività del pittore Giovanni Papagiorgio, artista per certi versi ancora nascosto nell’ombra nonostante una prolifera produzione pittorica in diverse aree del Salento.

Notizie sul pittore Giovanni Papagiorgio le riporta Massimo Guastella sottolineando lo scarso numero di fonti biografiche e l’incertezza sull’excursus pittorico ipotizzabile solamente attraverso la numerosa produzione costituita da opere autografe e attribuite.

Il pittore era di origini ateniesi, stando all’iscrizione presente all’interno della tela conservata a Latiano e visse ed operò a Manduria, città in cui aveva sposato Perna Durante.

Guastella sulla formazione pittorica riporta: “non è improbabile che nei primi anni del suo soggiorno in Italia, potesse aver fatto tappa a Roma, guardando ai fatti del tardo manierismo zuccaresco che alle innovazioni naturaliste caravaggesche o classiciste carraccesche. Ma anche Napoli poté essere una sua meta, visto che risiedeva il suocero Gioserio Durante e vi si trasferì il primogenito che portava lo stesso nome come il nono materno[1].

Le opere di Giovanni Papagiorgio sono conservate in diverse chiese del Salento: a Manduria nella Collegiata il Cristo e la Vergine in trono; a Brindisi in Santa Maria degli Angeli il Sant’Antonio da Padova e nella cappella del Forte a Mare una Santa Barbara, un San Francesco ed i Santi Cosmo e Damiano; a Oria nella chiesa di San Francesco la tela raffigurante San Francesco da Durazzo [2].

Forse il Papagiorgio a Manduria fondò una bottega a conduzione familiare, questo perché nella chiesa dell’Immacolata a Manduria è conservata la tela raffigurante la Madonna delle Grazie con i Santi Donato e Liborio, firmata “M. GABRIEL PAPAGIORGIU / MANDURIENS / PINGEBAT”, un’opera di Gabriele Papagiorgio, figlio di Giovanni.

A Palazzo Imperiali è conservata la tela raffigurante l’episodio della Conversione di Paolo. L’opera risale al 1641 ed è di Giovanni Papagiorgio, sulla lapide raffigurata nell’opera è presente la firma: “IOANNES PAPAGEORGIVS ATHENIENSIS FACIEBAT A.D. 1641”.

 

Giovanni Papagiorgio, La conversione di Saul, 1641, Latiano, Palazzo Imperiali
Giovanni Papagiorgio, La conversione di Saul, 1641, Latiano, Palazzo Imperiali

 

particolare nella tela, firma dell’autore “IOANNES PAPAGEORGIVS ATHENIENSIS FACIEFAT. AD 1641”.
particolare nella tela, firma dell’autore “IOANNES PAPAGEORGIVS ATHENIENSIS FACIEFAT. AD 1641”.

 

L’opera è menzionata all’interno dell’inventario di Michele IV Imperiali, redatto nel 1735, come “Conversione di San Paolo[3].

La composizione ruota intorno a Paolo, raffigurato disteso per terra, intorno i soldati sono spaventati per quanto accaduto. Il terrore dell’istante viene espresso attraverso i movimenti dei personaggi: i cavalli imbizzarriti, le braccia dei soldati rivolte verso l’alto.

Nell’opera sono presenti due atmosfere contrapposte: a destra e sinistra la scena è movimentata, mentre al centro è tranquilla, questa calma è evidenziata dagli occhi chiusi di Paolo e dalla luce scendente dallo squarcio di cielo centrale in cui è raffigurato il Cristo. Questa divisione mette in evidenza il momento principale della composizione: la conversione.

In secondo e terzo piano il paesaggio campestre, all’apparenza tranquillo, partecipa all’episodio: in alto nel cielo fra le nuvole di colore grigiastro è raffigurato il Cristo circondato da una luce dorata.

L’altra tela, conservata nella sagrestia della chiesa di Sant’Antonio, raffigura Sant’Antonio da Padova e si tratta di un’attribuzione a Giovanni Papagiorgio, vista la somiglianza con una omonima tela del pittore conservata presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Brindisi. Anch’essa è collocabile alla metà del XVII secolo.

Questa tela un tempo faceva parte della Quadreria Imperiali, infatti l’opera è menzionata all’interno dell’inventario del Principe Michele IV Imperiali come: “…un altro, alto palmi sette e largo palmi quattro, rappresenta S. Antonio de Padoa, con sua cornice negra profilata d’oro” [4].

Nella tela sant’Antonio è raffigurato per intero, con addosso il saio francescano stretto sopra la vita da una sottile corda. Con la mano destra regge un libro su cui è raffigurato in piedi il Bambino Gesù benedicente, nella mano sinistra tiene il giglio.

In secondo piano sulla destra si intravede un alto basamento su cui è posta una colonna, dietro in profondità fa da sfondo un panorama campestre. In alto al centro dei cherubini rivolgono lo sguardo verso il santo.

Giovanni Papagiorgio (attribuito), Sant’Antonio da Padova, XVII sec., Latiano, chiesa di Sant’Antonio
Giovanni Papagiorgio (attribuito), Sant’Antonio da Padova, XVII sec., Latiano, chiesa di Sant’Antonio

 

[1] M. Guastella, Iconografia Sacra a Manduria. Repertorio delle opere pittoriche (secc. XVI – XX), Barbieri Editore, 2002, Manduria, p. 25.

[2] R. Jurlaro, Storia e cultura dei monumenti brindisini, Galatina, 1976, p. 193

[3] A.S.B. Inventario dei beni mobili dell’ecc.mo don Michele Imperiali esistenti nei castelli di Franvilla Fontana, Caselnuovo, Avetrana, Massafra e Carovigno, 1735. Trascrizione a cura di Francesco Ragione.

[4] A.S.B., Inventario dei beni mobili dell’Ecc.mo don Michele Imperiali esistenti nei castelli di Francavilla Fontana, Caselnuovo, Avetrana, Massafra e Carovigno, 1735, vol. 317. Trascrizione a cura di Francesco Ragione.

Libri| Le elezioni del 1913 nel Collegio di Gallipoli

invito elezioni modificato

Riprendendo il filo del discorso introdotto nel lontano 1974 dal prof. Fabio Grassi e in più occasioni ripreso e in parte mitigato tra gli altri da Donno, Mennonna e Palumbo, l’autore affronta con un eccezionale apparato documentale gli esiti delle elezioni politiche del 1913, che con la sconfitta elettorale di Antonio De Viti De Marco innescò una lunga e feroce polemica politica e giornalistica contro l’utilizzo da parte del socialista Stanislao Senape De Pace del simbolo della croce sulla scheda elettorale.

La puntigliosa ricostruzione dei fatti relativi alle lotte politiche nel collegio di Gallipoli e del ruolo della sinistra gallipolina nel processo di emancipazione delle masse contadine, porta l’autore a ripercorrere, su base documentale, la vicenda relativa alla sospensione del non expedit a favore di Antonio De Viti De Marco, tracciandone le interferenze e le complicità tra il Sottoprefetto di Gallipoli ed i Vescovi di Gallipoli e di Nardò, impegnati come in nessuna altra occasione ad impedire l’accesso alla Camera al candidato socialista.

Ne scaturisce una partecipata difesa delle ragioni del gruppo socialista gallipolino, guidato da Stanislao Senape De Pace, contro le numerose complicità delle istituzioni, della stampa nazionale e dei gruppi di potere locale, tesi ad inficiare i risultati elettorali, a supporto del reclamo avanzato presso la Giunta delle elezioni della Camera da Antonio De Viti De Marco. Ricca l’appendice documentaria in gran parte inedita.

 

E. Pindinelli, Le elezioni del 1913 nel Collegio di Gallipoli. La croce di Stanislao Senape De Pace e la sospensione del non expedit a favore di Antonio De Viti De Marco, Tip. CMYK, Alezio 2017-12-12.

Volume di pp. 95, con la trascrizione in appendice di 16 documenti originali e 28 illustrazioni

invito elezioni

Rocco De Vitis a vent’anni dalla scomparsa

Rocco De Vitis a vent’anni dalla scomparsa

Il medico, l’uomo del popolo, l’umanista

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di Luigi Montonato

Ci sono date che restano memorabili nella memoria collettiva di un paese, sì da segnare nelle conversazioni future un riferimento comune, che fanno appartenenza e identità.

La sera di sabato, 21 ottobre 2017, a Supersano, è una di queste date. Il teatro dell’oratorio “Mons. Antonio De Vitis” era piccolo per contenere tanta gente. Persone di tutte le età. Si era lì convenuti per celebrare un uomo di cui ancora gran parte dei supersanesi ha memoria: il medico Rocco De Vitis, scomparso nel 1997, a 86 anni.

Era, questi, uno di quei personaggi come nei nostri paesi se ne vedevano in passato; un medico taumaturgico, un uomo autorevole e carismatico, in cui la gente riponeva fiducia in tutto e per tutto; benestante quanto bastava per non aver bisogno di nulla; generoso e altruista, tanto da poter dare del suo ai singoli e al paese. Il suo nome, don Rocco, non aveva bisogno d’altro per sapere chi fosse.

Chi lo conobbe, tutto questo lo sa. Per chi non lo conobbe, valgono le sue opere e i ricordi-testimonianza degli altri.

La sua figura di medico, di uomo e di letterato è stata rievocata quest’anno nella ricorrenza del ventennale della sua morte, con due volumi collettanei e due manifestazioni pubbliche; promosse dai famigliari sotto l’egida della Sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia, di cui è presidente il prof. Mario Spedicato, curatore anche dei due volumi insieme coi professori Franco De Paola e Maria Antonietta Bondanese e conduttore delle due manifestazioni.

La serata di sabato, per presentare il secondo dei due volumi, Rocco De Vitis medico umanista di Supersano, a cura di Maria Antonietta Bondanese e Mario Spedicato (Giorgiani, 2017), non avrebbe potuto iniziare in modo migliore per far passare il messaggio immediatamente comprensivo della ragione celebrativa. I bambini della Classe IV B della Scuola Primaria, uno accanto all’altro sul palco, si passavano il microfono per declamare in maniera stentorea frasi semplici e significare lo scorrere del tempo, il rapporto fra generazioni, l’importanza della memoria: io i nonni ce l’ho…io non ce l’ho…io ho perfino i bisnonni. I nonni, dunque, come veicoli di memoria collettiva. I nipoti come loro continuatori. La manifestazione come tappa memoriale, a segnare un approdo e, augurabilmente, una ripartenza.

Due volumi, due cerimonie; due, perché Rocco De Vitis non è stato solo un medico rispettato e amato dalla sua gente, ma anche un letterato, un uomo di cultura, forse non sufficientemente considerato in vita per i suoi meriti, che furono notevoli, a detta degli studiosi che della sua opera si sono occupati per la circostanza e non solo.

Fra le altre opere ha lasciato un diario di guerra, testimonianza della sua esperienza bellica come ufficiale medico sul fronte albanese nel corso della seconda guerra mondiale, di cui ha parlato sia nel primo che nel secondo volume Remigio Morelli, professore di Storia e Filosofia. Ma il suo impegno letterario maggiore, che ne fa un personaggio di ampiezza assai più grande di quanto non si possa scorgere da un campanile, è la traduzione delle opere di Virgilio: l’Eneide, le Bucoliche e le Georgiche, di cui hanno parlato autorevoli latinisti, fra cui la prof.ssa Maria Elvira Consoli di Unisalento. Un autentico monumento salentino al grande poeta mantovano. Un’opera imponente che sancisce la sua vocazione poetica, il suo grande amore per la classicità, la solida tenuta linguistica e letteraria.

Già prima dell’estate, all’Università, c’era stata la presentazione del primo dei due volumi, Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico e umanista, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese (Grifo, 2017).

I due volumi non si sovrappongono, uno è complemento dell’altro; ma variamente destinati e perciò anche variamente impostati; fanno parte di un unico progetto. Più orientato sui contenuti letterari, pur nel contesto biografico e ambientale, il primo volume raccoglie interventi sull’opera letteraria di De Vitis, scritti da uomini di scuola e di studio, per proporre il personaggio al mondo della scuola e delle lettere, secondo la regola aurea della comunicazione di adeguare temi e linguaggio al destinatario, in questo caso di settore.

Così il secondo volume, Rocco De Vitis medico umanista di Supersano, raccoglie altri contributi, che insistono sulle stesse tematiche ma più brevi e occasionali rispetto a quelli del precedente, e comprendono anche testimonianze famigliari e paesane, dei nipoti e degli alunni della scuola locale, che conferiscono carattere più massmediale. Il volume si salda tematicamente al primo anche perché riprende i testi dei relatori della sua presentazione, come spiegato in apertura da Mario Spedicato.

Più decisamente popolare è stata la manifestazione supersanese perché, rispetto a quella leccese, rivolta ad un pubblico per certi aspetti più virtuale e lontano, ha coinvolto tutto l’universo del De Vitis, usando temi appropriati e toccando corde sentimentali per raggiungere il pubblico reale, vivo e partecipe. Non solo la drammatizzazione iniziale dei ragazzini della scuola elementare, ma anche la testimonianza del Sen. Luigi Pepe, presidente dell’Ordine dei Medici di Lecce; l’intervento del Sindaco di Supersano, dr. Bruno Corrado, medico anche lui; della rappresentante del Comitato salentino della Dante prof.ssa Francesca Giordano e soprattutto di Maria Rosaria De Vitis, figlia del Nostro, che con piglio accattivante ha ricreato atmosfere paesane e famigliari in gustosa affabulazione. Il mondo di Rocco De Vitis era tutto lì, riproposto nel video “Rocco De Vitis medico e umanista di Supersano”, proiettato nella circostanza. C’erano don Oronzo Cosi e Gino De Vitis, il direttore de “Il nostro Giornale”; i ragazzi del laboratorio teatrale “Colpo di scena” di Supersano, diretto da Giuliana De Iaco, e gli alunni dell’Istituto Comprensivo.

Libro e serata leccesi avevano aperto un percorso celebrativo, completato a Supersano, con due formidabili guide: il prof. Mario Spedicato e la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese, col concorso della Banca Popolare Pugliese, della federazione leccese dell’Ordine dei Medici, del Dipartimento dei Beni Culturali di Unisalento, della Società di Storia Patria di Lecce, dell’Associazione “Salute Donna” e del Comitato salentino della “Dante Alighieri”.

 

manifesto libri M
manifesto libri M

 

Livio de Filippi e una sua poesia in vernacolo leccese

Particolare natività realizzata in cartapesta da MGrazia Presicce, ph MGrazia Presicce
Particolare Natività realizzata in cartapesta da M. Grazia Presicce

 

di Maria Grazia Presicce

No, non ci può essere Natale senza presepe e così, ogni anno, ripeto, come in una litania, il suo allestimento nella nostra casa, anche ora che i nostri figli hanno creato il loro nido altrove.

Non riesco davvero a rinunciare a quel “culto” iniziato quando, da piccina, il mio sguardo lo intese e l’amò nella casa dei nonni, poi in quella dei miei genitori e dopo nella dimora del cuore, mia e di Lucio.

Davvero no, non c’è Natale senza presepe! Quel simbolo, fatto con poco e con niente, che un tempo univa, affratellava e suggellava patti, pace nelle famiglie e amore tra la gente, sarebbe bello che perpetuasse la sua essenza ancora ed ancora…

Abbiamo bisogno di segni che seguitino a portare armonia colore e calore in quest’umanità smarrita che ha perso il senso della semplicità, dell’armonioso essere, diluendosi in una realtà senza respiro che rincorre fantomatici mondi straripanti, atmosfere luccicanti che non rischiarano, colori artefatti vuoti di stupore che attraggono, disorientano e svaporano…

Non resta nulla nell’animo in una realtà caduca, non rimane l’eco gioioso dell’essere a rinfrancare e sussurrare armonie… e non basta lo scambio argentato di una strenna ad avvalorare gesti, a farci sognare e tremare il cuore di pura emozione …ci vuole calore, sincerità che lo avvalori e ci faccia risvegliare, scuotere dentro e destare poi… in un mondo più giusto.

Legata al Presepe vi presento una bella poesia in vernacolo leccese, anzi come dice l’autore, Livio de Filippi[1], in Rusciaro (la parlata di Porta Rusce, antico rione leccese)

 

Lu presepiu

Farina e citu intra na buatta,

giurnali ecchi intra na cascètta,

li chèi,lu serràcchiu, lu marthièddhu,

le taùle, li culùri, lu pennièddhu.

Cu sti stracuènzi sirma se preparàà,

te la Mmaculàta a fatiare ncignà

E nci mentìa lu core e lu cervièddhu

E ddo semàne te scigghi e frantèddhu.

Ma alla fine te tuttu ddhu lavoru,

nnu presèpiu ca era nnu tesoru!:

lu Castièddhu, li monti, le vallate,

Sali e scindi te centumila strate

Lagu, funtàna, rutte e casicèddhe,

Magi, pastori,cu lle pecurèddhe;

e tanti, tanti pupi nci mentìa

ca l’ia ccattàti te Santa Lucìa.

A centru stia nna Rutta, la cchchiù bella,

cu mpisi susu nn’àngelu e nna stella;

Giuseppu e la Matonna ca preànu

Mentre ca lu Figghiu sta spettànu.

E luintiquàttru, a menzanotte santa,

li amici e la famiglia tutta quanta,

secundu la cchù antica tradizione

la case se girànu a processione,

nnanzi a nnanzi, lu cchiù uagnuncèddhu,

ntra lle manu tenìa lu Mammin ièddhu;

sulle candìle ardìanu le fiammèlle,

tutti cantànu: “scendi dalle stelle!”

Poi nnu sunettu o nna puèsia

Nui recitàmmu nnanti lu Messìa

E mentre ca tecìamu ddhe palòre

Ntra llu piettu nni tremulà lu core

E ppe la commusiòne nne parìa

Ca tuttu lu presèpiu se mmuìa:

scendìanu Magi susu li cammelli,

camenànu pastòri paggi, agnelli,

mmassaricu recòtte, addhìne,òe;

ogne pupu parìa ca se sta mmòe.

Le fimmene te casa, ndaffaràte,

purtànu purceddhùzzi e ncarteddhàte

e poi cu vera deùzione

se ngenucchiànu pè l’adoraziòne.

…….

A notte, nui, cuntiènti, intru lu lièttu

Turmìamu e ni sunnàmmu nn’angiolèttu!

 

TRADUZIONE

Il presepe

Farina e aceto dentro un barattolo,/ giornali vecchi in una cassetta, i chiodi, la sega, il martello,/ le tavole, i colori, il pennello./ Con questi attrezzi mio padre si preparava,/ e il giorno dell’Immacolata a lavorare iniziava/ e ci metteva il cuore e il cervello/ e due settimane di sporco e rumore./ Ma alla fine di tutto questo trambusto,/ allestiva un presepe che era un tesoro!:/ il Castello, i monti, le valli,/ salite e discese da centomila strade,/ lago, fontana, rocce, e casette,/ Magi e pastori con le pecorelle;/

E tante, tante statuine ci metteva/ che aveva comperato alla fiera di Santa Lucia:/

Al centro c’era una roccia, la più bella,/ con appesi un Angelo e una stella;/ S.Giuseppe e la Madonna che pregavano/ mentre aspettavano il loro Figlio./ Il ventiquattro, nella santa mezzanotte/ gli amici e tutta la famiglia/ secondo un’antica tradizione/ giravano per casa in processione;/ in prima fila vi era il più piccino/ che tra le mani teneva Gesù Bambino;/ sulle candele ardevano le fiammelle/ tutti cantavano ; “ tu scendi dalle stelle!”/ dopo un sonetto o una poesia / si recitava davanti al Messia/ e mentre pronunziavamo le parole/ nel petto tremolava il cuore / e per la commozione ci sembrava/ che tutto il presepe si muoveva:/ scendevano i re Magi sui cammelli,/ camminavano pastori, paggi, agnelli,/ massai con ricotte, galline, uova/ ogni statuina sembrava si muovesse./ le donne di casa, indaffarate,/ portavano purciddhuzzi e cartiddhate / e dopo con vera e santa devozione/ ci inginocchiavamo per l’adorazione.

………………..

La notte, noi, contenti, nel letto,/ dormivamo sognando un angioletto!

L. De Filippi

 

 

[1] Livio De Filippi, “ Lecce Folk, poesie in vernacolo” Unione Tipografica Lecce, Aprile 1979, pag. 157

Ugento: una bolla di consegna di 120 anni fa

di Armando Polito

Il tempo ha il potere di valorizzare documenti che al momento in cui vengono prodotti hanno un valore relativo e nei decenni successivi insignificante, tanto da essere buttati via. Qualche volta, però, capita di trovare nel fondo di un cassetto un oggetto, un disegno, una ricevuta, una foto o uno scritto e di resistere alla tentazione di fare pulizia una volta per tutte presi da una sorta di arcano rispetto del passato, col rischio, nell’epoca dell’usa e getta, di essere considerati dei maniaci. Senza quei maniaci non esisterebbe il collezionismo, che, senza scomodare i musei o gli archivi,  spesso offre la possibilità di integrare la conoscenza della storia o di mettere particolarmente a fuoco certi suoi tasselli. Sarà successo così anche al documento che mi appresto a presentare e che ho rinvenuto su ebay (http://www.ebay.it/itm/Ugento-LE-documento-fabbricante-di-botti-1897/251705725463?hash=item3a9ad49217:g:ElYAAOSwosFUWf0Z), dove alla data in cui scrivo (6 dicembre 1017) è in offerta al prezzo di 8 euro. Lì è presentata come un documento riferito a un fabbricante di botti, ma dal contenuto mi pare si tratti non di botti ma di carri (in salentino traìni). Per quanto riguarda le voci tecniche non presumo di aver dato sempre la definizione corretta e per questo confido nell’eventuale correzione da parte di qualche studioso e, senza andare troppo lontano, nell’aiuto del concittadino generale Enrico Ciarfera, che anni fa sottopose alla mia attenzione un suo pregevole lavoro sull’argomento, frutto di ricerche sul campo, quando era ancora possibile trovare il contadino del caso, cioè il carpentiere specializzato.

Ugento, 5 luglio 1897

Consegnato al signor Colosso

1° un traino co caviglie1 9

2°   raggi2 3 di li stesso traino

3° rote spinolate3 e cantate4

più una meza crocera5 e

una martellina6 e di più

le tavole poste alla litera7

2° lavoro 9 luglio 97

La careta crossa de cavigli8 5 più una (una barrato) la cascia de lasso9

e cantate10 e legne

(di mano diversa) 22 luglio 97 in Ugento (segue, indecifrabile, quella che potrebbe essere la firma del consegnatario).

 

Interessante, infine, è il timbro, anche se fa rabbia il fatto che esso non è perfettamente leggibile anche per la deformazione parziale dovuta forse ad impressione non troppo decisa.

 

Riesco a leggere solo, al massimo ingrandimento utile e dopo adeguata rotazione, procedendo dall’alto verso il basso e con più di un dubbio: MARCHESE (?) BIAGIO (?) FABBRICANTE  Nego(ziante?).La ricorrenza non trascurabile del cognome BIANCO sull’elenco telefonico di Ugento mi fa ben sperare in ulteriori, graditissimi sviluppi …

______

1 Nel vocabolario de Rohlfs cavigghia è registrato col significato di ciascuno dei pezzi onde si compone la circonferenza della ruota. Da profano, però, immaginando che il massimo della compattezza sarebbe dato da un numero di questo elemento pari a quello dei raggi (più avanti si dice che questi ultimi sono tre=

2 Per essere i raggi della ruota) nove pezzi mi sembrano decisamente troppi; a meno che tutte le voci relative alle componenti del carro non s’intendano come pezzi sciolti, non montati.

3 Con i raggi Incuneati (spinula=piccola spina) tra la parte periferica e il mozzo.

4 Fornite di cantu, il cerchio di ferro. Cantu è dal latino chantus con lo stesso significato e, estensivamente, quello di ruota. Canthus, poi, è dal greco κανθός (leggi canthòs), sempre con lo stesso significato, ma partendo da quello base di angolo in genere e angolo dell’occhio in particolare. E così è chiaro da dove derivano i nostri canto e cantone.

5 Struttura di rinforzo della litera (vedi nota 8).

6 Meccanismo frenante a ceppi azionato manualmente. La voce dovrebbe essere in rapporto con la forma che ricorda un martello.

In italiano è martinicca, che è fatto derivare dal nome proprio Martino, senza, però, dare alcuna spiegazione. Credo che si possa tranquillamente ipotizzare che sia una variante di martinicchia (attestato nel Marchigiano), da un latino *martinicula. Martello è dal latino tardo martellus, che suppone un precedente *martus probabile variante del classico martus. E a questo punto potrebbero avere la stessa origine martinetto e martinello, fatti derivare anch’essi da Martino.

7 Corrisponde formalmente all’italiano lettiera; qui è il piano di carico del carro (in neretino littera).

8 Al maschile, contro il caviglie precedente.

9 Cassa dell’asse?

10 Riferito a cavigli come se fosse caviglie?. Per cantate vedi nota 4.

11 Ha tutta l’aria di essere un aggettivo ma non riesco a capirne il significato; idem se fosse un sostantivo.

Tra Napoli e Nardò. La guglia dell’Immacolata

Napoli chiama, Nardò risponde![1]

di Giovanni De Cupertinis

 

Napoli – La guglia dell’Immacolata, che domina la piazza del Gesù Nuovo, è uno dei più affascinanti e intriganti monumenti della città. Quella dell’Immacolata è l’ultima delle guglie di Napoli ad esser stata innalzata, la più ardita da un punto di vista architettonico. Si pone fra l’effimera architettura delle macchine di festa di legno e stucco, che il popolo innalzava ed incendiava con i fuochi d’artificio nelle piazze, e l’arredo urbano, inteso come elemento architettonico-scultoreo, per ornare gli spazi urbani, e deve la sua realizzazione all’impegno di un gesuita, padre Francesco Pepe.

Il tutto ebbe inizio quando il re Carlo III di Borbone propose al padre Francesco Pepe, che sovente riceveva le confessioni, di realizzare un’edicola nella piazza antistante,affinché i passanti potessero venerare la Vergine Immacolata, a cui era molto devoto, anche dall’esterno del tempio[2].

Il gesuita prendendo spunto dal desiderio del sovrano propose allo stesso di realizzare al centro della piazza una magnifica guglia con alla sommità un’immagine dell’Immacolata, sul tipo di quelle che qualche tempo prima erano state già realizzate in onore di San Domenico e di di San Gennaro.

Napoli, Piazza del Gesù
Napoli, Piazza del Gesù

 

Per la progettazione della guglia fu organizzato un vero e proprio concorso pubblico ed i modelli dei vari progetti furono esposti nel Palazzo Reale, affinchè il sovrano potesse sceglierne uno. Alla chiamata di padre Pepe parteciparono in tanti: dall’ Astarita al Gioffredo, da di Fiore al de Rossi. Fu preferito il disegno dell’architetto Giuseppe Genoino o Genovino[3], il quale concepì una “macchina” molto più ricca, fortemente ispirata ai carri del Battaglino, senza trascurare la collocazione alla base della stessa delle statue della famiglia reale. Infatti il progetto originario prevedeva la realizzazione, alla base della guglia, delle statue del Re Carlo e della Regina Amalia, che non si riuscì mai a completare[4].

Da subito il Pepe avviò una raccolta di offerte per erigere la monumentale guglia dell’Immacolata, nella piazza antistante la chiesa. Il re voleva offrire i 100.000 ducati necessari per la realizzazione dell’opera, ma padre Pepe riuscì a convincere il sovrano a limitare la sua offerta alla sola esenzione delle tributi relativi al materiale occorrente la sua costruzione, preferendo che la guglia fosse realizzata con le sole offerte del popolo[5].

La prima pietra fu posta dal marchese di Arienzo Lelio Carafa l’8 febbraio del 1746[6]; la direzione dei lavori venne affidata a Giuseppe di Fiore, coadiuvato dal gesuita Filippo D’Amato persona di fiducia del Pepe[7]. L’obelisco fu eretto da di Fiore in un tempo brevissimo, ma non per questo l’opera si rivelò semplice. Il cantiere incontrò più volte degli ostacoli, prima durante gli scavi, dove si era dovuto provvedere alla deviazione di un corso d’acqua sotterraneo, dopo per le proteste del duca Diego Pignatelli di Monteleone, il quale, temeva che l’alta guglia potesse crollare sul suo palazzo in caso di terremoti[8].

Comunque tutto si risolse nel migliore dei modi ed i lavori proseguirono speditamente. Già nel febbraio del 1748 la struttura era conclusa e si iniziò a mettere mano all’apparato scultoreo, dapprima realizzato a stucco e successivamente in marmo, fatta eccezione per la statua della Vergine Immacolata, da realizzare in rame dorato.

A svolgere il lavoro furono chiamati due grandi artisti come Matteo Bottigliero e Francesco Pagano, che realizzeranno nel primo ordine, proprio sopra il basamento, le statue di sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio, san Francesco Borgia e san Francesco Regis. Nei quattro bassorilievi posti più in alto sono raffigurati i quattro episodi fondamentali della vita della Vergine Maria: la Natività, l’Annunciazione, la Purificazione e la Coronazione della Vergine. Poco più in alto due medaglioni raffiguranti S. Luigi Gonzaga e S. Stanislao Kostka.

L’apparato scultoreo in marmo fu completato sul finire del 1753 e un anno più tardi, a conclusione di tutti i lavori, fu posizionata sulla sommità della guglia la statua dell’Immacolata, in rame dorato.

La guglia fu inaugurata nel dicembre del 1754, con festeggiamenti che durarono tre giorni, dal 6 all’8 con lo sparo di fuochi d’artificio, musica e un continuo suono di campane e con tanti lumi accesi per tre sere sui balconi e finestre della città[9].

Ogni anno la città di Napoli rende omaggio alla Vergine Maria con l’offerta di un fascio di rose alla statua posta sulla sommità della guglia di piazza del Gesù. E’ un rituale consolidato che si ripete ogni 8 dicembre, giorno in cui la Chiesa celebra appunto l’Immacolata Concezione.

 

Nardò – Collocata in posizione baricentrica nella centralissima piazza Salandra, la guglia dell’Immacolata fu eretta nel 1749[10], con il concorso del popolo neritino, come testimonianza di fede e ringraziamento per Io scampato pericolo dal terribile terremoto del 1743, che causò gravissimi danni all’abitato di Nardò[11].

L’opera è realizzata interamente in carparo, fatta eccezione per le quattro statue in pietra leccese collocate all’altezza del primo ordine, raffiguranti S. Anna, S. Gioacchino, S. Giuseppe con bambino e S. Giovanni Battista[12].

Nardo - la Guglia dell'Immacolata
Nardo – la Guglia dell’Immacolata

 

In cima svetta la splendida statua della Vergine Immacolata, realizzata in marmo bianco poggiante su un globo in bardiglio, opera dallo scultore napoletano Matteo Bottigliero che negli stessi anni lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della guglia dell’Immacolata di Napoli[13].

Che il disegno della guglia dell’Immacolata non sia opera di un semplice scalpellino o del lavoro scrupoloso di un mastro muratore qualunque lo si deduce da una attenta analisi stilistica e da un’accurata lettura dell’impianto planimetrico. Quel che stupisce è soprattutto la sapiente concatenazione di forme ed elementi posizionati ad intervalli regolari, che scandiscono l’armoniosamente i cinque ordini della guglia.

Ad oggi non conosciamo il nome dell’architetto, ma senza dubbio la guglia neritina ha i suoi riferimenti nell’obelisco di san Gennaro eretto nel 1660 da Cosimo Fanzago, nel largo antistante la porta laterale del duomo di Napoli, e soprattutto in quello dell’Immacolata che si stava realizzando negli stessi anni (1746-1754) a Piazza del Gesù Nuovo. La storia della guglia neritina mostra forti analogie ed in qualche modo collegata a quella napoletana.

Fu anch’essa realizzata con le oblazioni del popolo su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio che ne commissionò l’opera. Ma a differenza di quella napoletana, la documentazione archivistica riguardo la sua costruzione manca totalmente. Anche le poche notizie in nostro possesso pongono molti dubbi circa la loro attendibilità. Partiamo proprio dalla data del monumento che fino a qualche anno fa era ritenuto, dalla maggior parte degli studiosi, anche sulla scorta di un resoconto scritto del vescovo Luigi Vetta riguardante i festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854[14], di epoca successiva alla guglia napoletana.

Ad allontanare ogni possibilità di individuare una data certa per il monumento fu Francesco Castrignano, che nel 1930 nella sua storia di Nardò̀, senza citare alcuna fonte, scrisse che la guglia era stata eretta nel 1769 sotto il vescovato di Marco Aurelio Petruccelli, su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[15].

Da quel momento il 1769 sarà indicato erroneamente come anno di costruzione della guglia da tutti gli studiosi che si interesseranno dell’argomento[16]. Come accennato prima, l’autore della guglia è ancora ignoto. Tutte le attribuzioni fatte dai vari studiosi non sono supportate da alcuna analisi o prova documentale.

Partiamo proprio da quella che vuole realizzata dal Giovan Bernardino Genoino, architetto gallipolino, autore della cattedrale di S. Agata, la cui morte però è attestata tra il 1653-55, e quindi subito da scartare visto che per ovvie ragioni anagrafiche non poteva essere l’autore della nostra[17]. Quello che colpisce un questa attribuzione è che a nessun studioso sia venuto in mente di evidenziare la singolare omonimia tra architetto gallipolino e Giuseppe Genoino, autore della guglia napoletana. In assenza di documenti, vista la contemporaneità delle due opere alla luce della nuova datazione, sarebbe stato più credibile immaginarlo anche autore della guglia neritina.

nardò piazza

Altro elemento poco chiaro nella vicenda della guglia neritina è proprio l’identità del committente, che a quanto ci riferisce il Castrignanò fu l’abate Francesco Antonio Giulio[18]. Cercando nella storia della diocesi neritina scritta dal Mazzarella dell’ abate Francesco Antonio Giulio non v’è alcuna traccia, di contro ritroviamo l’omonimo l’abate Pasquale Giulio, assai più noto, che fu vicario capitolare del vescovo A. Sanfelice ( 1708-1736) e di quello successivo F. Carafa (1736-1754)[19].

Alla luce di ciò, non è difficile immaginare che quello di datazione non sia stato l’unico errore commesso dal Castrignanò, e che fu l’abate Pasquale Giulio ad occuparsi di raccogliere le oblazioni dei fedeli e commissionare l’opera.

La retrodatazione di circa vent’anni della guglia neritina rispetto all’anno 1769, ci riporta inoltre a considerare con maggiore insistenza che l’idea di realizzare una guglia dedicata all’Immacolata, collocata nella piazza principale della città, risale agli anni del vescovo Sanfelice.

La riprova può essere data dalla presenza nel Corpus sanfeliciano, conservato presso il Museo di Capodimonte, di un disegno preliminare per la guglia dedicata all’Immacolata[20]. Non è da escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata nell’animo del vescovo l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella eretta nel 1731 a Bitonto, come ringraziamento per lo scampato pericolo del terremoto[21]. È quindi probabile che il vescovo diede incarico al fratello architetto per realizzare una guglia da elevarsi nella piazza principale della città, dopo aver completato la piazza su cui ancora oggi affacciano il duomo, l’episcopio e il seminario[22].

Il disegno di Capodimonte evidenzia una struttura con sviluppo verticale che presenta nella parte alta elementi architettonici riconducibili alla guglia di S. Domenico del Fanzago, ma a differenza di quest’ultima è sorretta da un alto basamento di forma ottagonale, recante un evidente stemma vescovile, ai cui lati si distinguono due statue non riconoscibili.

In cima una statua della Vergine poggiata su una sfera di marmo, sorretta a da un grande capitello corinzio, raccordato al resto della guglia tramite quattro eleganti volute tipicamente sanfeliciane. Il progetto immaginato dal Sanfelice non fu realizzato, presumibilmente per la sopraggiunta morte del vescovo nel gennaio 1736, ma il disegno appena descritto, anche se espressione di un primo momento progettuale, contiene tutti gli elementi di quella che da li a qualche anno più tardi fu eretta e inaugurata da un altro vescovo napoletano, monsignor Francesco Carafa. Ultimati i lavori della guglia, nel settembre del 1749 giunse da Napoli la statua di marmo dell’Immacolata da collocare in cima all’obelisco realizzata da Matteo Bottigliero.

Fu ricevuta dal vescovo davanti ad una delle porte della città, benedetta e condotta “in trionfo” per le principali strade cittadine, presenti anche tutte le autorità civili e religiose. Giunti nella pubblica piazza completamente illuminata a festa la statua fu posta vicino alla guglia ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie. La festa durò fino a notte fonda allietata da musiche con continuo sparo di mortaretti e fuochi d’artificio[23]. Non conosciamo il momento in cui la statua fu effettivamente collocata in cima alla “colonna”, ma possiamo immaginare che avvenne nei giorni seguenti.

Ed è così che il popolo neritino, che da sempre ha creduto che la sua guglia dell’Immacolata collocata al centro della piazza principale fosse di molto posteriore a quella napoletana, si ritrova, come una piacevole sorpresa, completata ben cinque anni prima.

Nardò. Piazza Salandra

Anche la città di Nardò, ogni 8 dicembre, rende omaggio alla Vergine Immacolata ponendo ai piedi della statua posta sulla sommità della guglia un omaggio floreale.

Napoli chiama, Nardò risponde! J

 

Note

[1] Il titolo è un libero adattamento della celebre frase di Luigi Necco giornalista sportivo napoletano.

[2] Il re Carlo III e la regina Amalia Walburga di Sassonia si recarono nella chiesa del Gesù per ammirare la statua d’argento dell’Immacolata fatta realizzare da padre Pepe. In quell’occasione il re avvicinatosi al gesuita gli disse: «Padre Pepe, Maria Santissima Immacolata non deve solamente stare a vista dei fedeli, chiusa in chiesa, ma [deve stare] ancor all’aperto e al pubblico», cit. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1915, p. 28.

[3] “…subito diede a farne i disegni, che furono fatti da molti Architetti, cioè da D. Mario Gioffredo da D. Giuseppe Astarita, da D. Giustino Lombardo da D. Ignazio de Blasio da D. Giuseppe Genuino da D. Giuseppe di Fiore Napoletani, e da D. Domenico de Rossi Fiorentino. Se ne fecero ancora dei modelli in piccolo, uno dal Rossi, un altro dal Fiore, ed il terzo dal Fumo, e tutti si presentarono al Re acciocchè scegliesse Egli quello, che più gli piacea e su in fatti scelto per l’appunto quello che presentemente sì vede disegno di D. Giuseppe Genuino; di cui si ha pure una stampa incisa dal Gaultier in due fogli di carta reale”, cfr. P. D’Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III Monarca delle Spagne e delle Indie. Nella stamperia di Pietro Perger Napoli, 1791 p. 225-226;

Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.

[4] L’incisione della guglia dell’Immacolata con le statue dei regnanti, è presente nel volume di Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.

[5] Alta 130 palmi, la guglia costò 80 mila ducati, mentre la statua, con il suo ricco piedistallo di marmi, costò 20 mila ducati. Per entrambe ci furono spontanee oblazioni. Al re Carlo III, che voleva dare il suo contributo, il gesuita dis­se che avrebbe fatto un torto alla Madonna; comunque, accettò la franchigia del ferro, della calce e dei marmi e 600 ducati per la cancellata. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1914, vol. 2., p. 36; P. Degli Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 229.

[6] “Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’immacolata, costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento” Cit. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, “Il Delfino e la mezza luna, Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, maggio 2013 p. 90.

[7] Per padre Pepe era fondamentale che un controllo quotidiano sul cantiere gli venisse garantito da persona di sua provata fiducia sia sul piano professionale che personale: e la figura di fra Filippo d’Amato rispondeva perfettamente a queste esigenze. Fu infatti il gesuita marmoraro che organizzò il cantiere, «approntò tutto, scelse gli operai…» e ogni settimana si presentava al padre Pepe per avere il denaro per pagare le spese. Sta in Gaia Salvatori, Corrado Menzione, Le guglie di Napoli: storia e restauro, Napoli 1985, p. 82.

[8] P. D’Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 226.

[9] U. di Furia, La statua dell’Immacolata sulla guglia e nella chiesa del Gesù Nuovo in “Napoli Nobilissima”, sesta serie, vol. II, ff. V–VI, settembre–dicembre 2011, p. 234.

[10] L’interessantissimo documento ritrovato dal di Furia corregge definitivamente la datazione della guglia di Nardò, che passa dal 1769 al 1749, anticipando di venti anni la sua costruzione. Cfr. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, in Il delfino e la mezzaluna, anno II, n. 1, 2013, p. 89-96.

[11] G. De Cupertinis, Architetti e maestranze del XVIII sec.: il caso di Nardò e di altri centri minori del Salento, in L’arte di fabbricare e i fabbricatori – Donato Giancarlo De Pascalis, 2001, pp. 59-63.

[12] Una delle statue presenti sulla guglia è sempre stata erroneamente attribuita a S. Domenico (F. Castrignanò 1930), ma è evidente che si tratta di S. Gioacchino, marito di S. Anna e padre di Maria.

[13] U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91.

[14] Il Vetta affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”, cit. E. Mazzarella, Le sede vescovile di Nardò, Galatina 1972, p. 306.

[15] F. Castrignanò, La storia di Nardò esposta succintamente, Galatina 1930, p. 118.

[16]L’errore può essere dovuto ad un refuso da parte di Francesco Castrignano, che indicò come anno di costruzione il 1769 invece di 1749.

[17] Nel saggio l’autore scrive: “Mi  è stato detto in Nardò̀ che esso è opera dell’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, autore dell’insigne cattedrale di sant’Agata in Gallipoli stessa; ma non ho trovato in documenti scritti una conferma a questa notizia”. Cfr. G. Palumbo, Guglie di stile barocco nella penisola salentina, in Arte Cristiana, vol. XL, n. 1, gennaio 1953, pp. 18–21.

[18] F. Castrignanò, cit., p. 118.

[19] Ab. Pasquale Giulio, dottore nelle due leggi, licenziato in s. Teologia, nacque a Nardò da famiglia patrizia è compì gli studi nel seminario vescovile. Nel 1722 ricevette dal vescovo Sanfelice alcuni benefici ecclesiastici, e nel 1726 fu nominato canonico della Cattedrale. Resasi vacante la sede vescovile il 1° gennaio del 1736, nonostante fosse tra i più giovani canonici, fu eletto vicario capitolare. Il vescovo successivo Carafa, verso la fine del 1747, lo nomino arcidiacono della cattedrale. Dopo la morte del vescovo fu rieletto per la seconda volta vicario capitolare e nel 1754 indisse la sua prima visita pastorale. Sta in E. Mazzarella, cit., pp. 275-276, 269.

[20] Nel Corpus dei disegni sanfeliciani presso Capodimonte è presente il disegno per una guglia tradizionalmente attribuita come guglia di S. Gennaro, ma è evidente che si tratta di una guglia dedicata all’Immacolata; cfr. G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, in Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Lecce 2003, pp. 61–76.

[21] Epigrafe nel monumento dell’Immacolata a Bitonto in memoria del terremoto del 20 marzo 1731, in G. Pasculli, “La storia di Bitonto”, vol.1, pp.308-309; S. Milillo, La Chiesa e le chiese di Bitonto: chiese di Puglia, Ed. Centro ricerche di storia e arte, 2001, p. 6. Il terremoto del 20 marzo del 1731 interessò la Capitanata e il suo centro amministrativo principale, Foggia, che nella realtà del Regno di Napoli rappresentavano un polo di grande importanza per gli equilibri finanziari, economici e politici dello Stato.

[22] G. De Cupertinis, Il rapporto progetto-cantiere negli edifici neritini di Ferdinando Sanfelice, Atti del convegno “Un vescovo, una città” Antonio Sanfelice e Nardò (1708-1736), Feb 2012, pp. 102-122; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice e il restauro della Cattedrale di Nardò, in Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò, a cura di Daniela De Lorenzis, Marcello Gaballo, Paolo Giuri, Galatina, 2014, pp 165-166; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, cit. pp. 68-75.

[23] L’intera vicenda è tratta da Avvisi, n°42, Napoli 16 settembre 1749, pubblicata integralmente da U. di Furia in Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91-92, e che qui riproponiamo: “…Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico obelisco, in onore della ss. Vergine Immacolata di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa gran Vergine Immacolata, di eccellente scoltura, da mettersi nella cima di detto obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal capitolo, Mansionarj, e clero; coll’intervento ancora degli ordini regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi viva di giubilo, tra le armoniche melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la statua vicino all’obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero scultore Napolitano”.

Il teologo Maritati di Copertino

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di Giovanni Greco

 

Percorrendo via Matteotti, nel centro storico di Copertino, si incrocia via Teologo Maritati. Mi sono sempre chiesto perché di questo studioso di teologia si scelse di omettere il nome. Forse perché fu talmente famoso che bastò ricordarlo ai posteri con il solo titolo accademico. E poiché queste figure operano normalmente nelle università, in seminari o scuole pubbliche ho pensato che di lui potessero esserci anche delle pubblicazioni. Le ho cercate, per quanto mi è stato possibile, ma la ricerca è risultata finora infruttuosa.

Non rimaneva che guardare in altre direzioni per saperne di più su questo copertinese che si guadagnò l’onore della toponomastica cittadina. Il suo nome era Vincenzo Maria e fu il quarto di cinque fratelli, figlio del notaio Lazzaro Domenico e di Serafina Margarito, entrambi originari di Nardò.

Nel 1740 la coppia si trasferì a Copertino dove il notaio rogò fino al 1777. Dal loro matrimonio nacque Giuseppe Tommaso Leonardo che fu battezzato per procura l’11marzo 1758 nella chiesa Matrice di Copertino dall’abate Felice Cicala di Nardò. A somministrare il battesimo fu l’arciprete Cataldi.

Il 30 gennaio 1761 nacque Elisabetta Francesca Salesia Marina e il 13 novembre di due anni dopo venne alla luce, Francesco Saverio Leonardo. Il 31 luglio, don Pietrangelo Tumolo battezzo il Nostro. Padrini furono il reverendo don Giuseppe Margarito, rappresentato per procura dall’abate Salvatore Del Prete di Nardò, giusto atto notarile di Tommaso Trotta del 30 luglio. Il 5 marzo 1770, infine, nacque il quinto fratello, Oronzo Maria. Vincenzo Maria Maritati, fu sacerdote e teologo.

Dal 1° dicembre 1812, all’età di 46 anni, fu il secondo arciprete regio della Collegiata di Copertino, carica che conservò fino alla morte sopraggiunta all’età di 73 anni il 16 febbraio 1839. Fu autore di una lunga serie di “Stati di Anime” di Copertino, dal 1823 al 1830, ricca di puntuali annotazioni sul movimento migratorio del paese e sulle “condizioni civili” della popolazione.

Di questi censimenti (otto anni in tutto), oggi non resta che qualche prospetto conservato presso l’archivio della Curia vescovile di Nardò.

Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

 

L,o scarso numero di riscontri suscitati dalla presentazione di alcune parti della Terra d’Otranto così come sono rappresentate in una carta di alcuni secoli fa1 non mi ha dissuaso dal dedicare a Ugento ed al territorio circostante quella che probabilmente è l’ultima puntata della serie. Come per le altre, la toponomastica fungerà da base per  eventuali ulteriori considerazioni. Per rendere più agevole al lettore la fruizione del tutto ho assegnato e segnato sulla carta un numero per ogni toponimo presente replicandolo in dettaglio. Confido nell’aiuto degli studiosi di storia locale per le identificazioni non corrette, mancate o, eventualmente, errate nella lettura.

1) Ussento, oggi Ugento

 

Il dettaglio ingrandito mostra la cinta muraria con due torri, mentre all’interno della città svettano due chiese, Quella a sinistra per chi guarda dovrebbe essere l’antica chiesa gotica distrutta dall’incursione saracena del 1537, sulla quale poi sorse agli inizi del XVIII secolo la cattedrale di S. Maria Assunta. La rappresentazione mi pare sovrapponibile con la tavola di Ugento2, che di seguito riproduco, a corredo del secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva di Giovan Battista Pacichelli (1641-1695), opera  uscita postuma per i tipi di Parrino a Napoli nel 1703.

 

2) Casato di Amore


Considerando casato come forma oggi obsoleta per caseggiato, rimane Amore. Se il riferimento è a Pietro Giacomo d’Amore che comprò la città di Ugento nel 16433, mi pare doveroso qualche ripensamento sulla datazione della carta (da spostare ulteriormente, dunque, alla metà del XVII secolo), anche se essa dovesse essere considerata come una sorta di aggiornamento di una più antica,

 

3) Falline, oggi Felline

 

4) Torre di Sansone

Presente, per il territorio di Felline, al n. 49 tra le torri di Terra d’Otranto citate in Enrico Bacco, Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie, Carlino e Vitale, Napoli, 1609.

 

5) Casale di Suda dir(uto)

 

6) il grossa ?

 

7) Torre del Porto

8) Porto di Ugento

 

9) Scopulo detto la Barro


10) Scopulo detto lo Fiorlito

 

11) Punta della Volta

(G. B. Rampoldi, Corografia dell’Italia, Fontana, Milano, 1834v. III, p. 504)

 

12) S.to Joanni, oggi Torre S. Giovanni (credo che l’attuale vicinanza alla costa sia dovuta all’erosione)

 

13) Abinienio ?

 

14) lo Vicale?

Chiudo con la documentazione del mutamento della linea di costa avvenuto fino ai nostri giorni attraverso tre immagini: la prima è tratta dalla nostra carta, la seconda da quella dell’Atlante di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni uscito a Napoli per i tipi della Stamperia reale dal 1789 al 1808, la terza da Google Maps.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

2 Vedi pure https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/03/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1414-ugento/

3 Erasmo Ricca, La nobiltà del Regno delle Due Sicilie, v. iV, parte I, de Pascale, Napoli, 1869.

In ricordo di Girolamo Comi

UN PENSIERO PER RICORDARE GIROLAMO COMI /a 50anni dalla sua scomparsa

Maria Grazia Presicce

comi

La scoperta di un luogo, della sua essenza, dell’armonia nel silenzio delle emozioni… Ecco, per me, è stato questo Lucugnano e in particolare la casa di Girolamo Comi, la conoscenza del suo mondo interiore, degli incanti e dei cieli cui affidava i pensieri…

Devo ammettere che ignoravo l’esistenza di Girolamo, del suo paesino, della sua poetica, della sua casa, del suo giardino, ma appena varcata la soglia e salito le scale mi sono sentita attesa…accolta.

Giravo in silenzio nelle sue stanze, poco lontane voci che non coglievo…solitaria mi muovevo quasi in punta di piedi nella penombra, affascinata, rapita dall’armonia che m’accarezzava il cuore…

Ero sola?… Percepivo un’amabile presenza, uno spirito d’armonia

“ Fulgori chiusi in te – non mai svelati / se non come barlume ed apparenza / d’imponderabili aliti d’essenza / gelosi del mistero in cui son nati / […] vagavo inondata da “Serenità di tutta l’anima e dei sensi […] in cui le mie più pure essenze si riassumono.”[1]

Mi accompagnava e quasi teneva per mano lo spirito armonico di chi quello spazio aveva vissuto e colmato di profonde emozioni, d’intimo fervore che respiravo ovunque lo sguardo s’intratteneva a cogliere segni che avevano infuso senso, anima, armonia e calore a chi da quei luoghi si era allontanato e con amore tornato per abbracciare il suolo il tempo l’eternità

[…] Il tempo non passa: traspare/ in inni d’eterna semenza / nei corpi e nell’iride densa/ d’ogni stagione solare; / […] ed irrompe in fulgori dirotti / nella tenebra dell’elemento/ per sfrangiarne il segreto argento/ in corolle di giorni e di notti.[2]

Grazie Girolamo!

index

[1] G. Comi “ Cantico del tempo e del seme”( 1929-1930) pag. 336

[2] Idem “ pag.35

Uno stemma coniugale nella biblioteca di Manduria

DUE SPOSI, UNO SCUDO: ANALISI E ATTRIBUZIONE DELLO STEMMA CONSERVATO NELLA BIBLIOTECA COMUNALE MARCO GATTI DI MANDURIA

di Marcello Semeraro

Manduria

L’araldica intrattiene stretti rapporti con l’antroponimia. Gli studi di Michel Pastoureau sulle armi parlantisono così chiamate quelle armi che contengono figure che richiamano direttamente o indirettamente il nome della famiglia del possessore dello stemma[1] – dimostrano come in questo particolare ambito gli interessi delle due discipline convergano[2].

Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna grazie soprattutto alla diffusione che queste armi ebbero fra i non nobili e le comunità[3].

L’individuazione della natura parlante di uno stemma può talvolta costituire l’unico mezzo che l’araldista ha per riconoscere armi che altrimenti, a causa della lacuna nelle fonti araldiche di un determinato territorio, resterebbero anonime. Istruttivo è il caso dell’esemplare araldico oggetto di questa disamina.

Si tratta di uno stemma litico di grandi dimensioni, privo del suo contesto originario, che giace come pezzo erratico all’ingresso della biblioteca comunale “Marco Gatti” di Manduria (fig. 1).

Non esistono, che io sappia, studi specifici su questa insegna, ma solo descrizioni occasionali e attribuzioni parziali che certamente non aiutano a individuarne committenza, cronologia e provenienza[4]. La presente indagine si propone dunque di colmare questa lacuna, cercando altresì di situare il manufatto nello spazio e nel tempo. Osservando la composizione dello stemma, l’araldista riconosce facilmente all’interno dello scudo ovale e accartocciato[5] un’arma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito[6], due insegne araldiche differenti, appartenenti di due persone sposate. Associazione del blasone del marito (posto a destra, sinistra per chi guarda) con quello del padre della sposa (a sinistra, destra per chi guarda) lo scudo partito rappresenta, sin dal XIII secolo, il procedimento più impiegato per indicare due famiglie unite in matrimonio e mostra, in particolare, come una donna sia stata donata da un uomo a un altro uomo.

Dal punto di vista cronologico, la forma dello scudo[7] e lo stile generale della composizione invitano a datare il manufatto in esame a un periodo compreso fra la seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII.

Nel secondo quarto[8] del partito si riconosce chiaramente l’arma della famiglia Pasanisi[9], dalla quale proviene la sposa: d’azzurro, inquartato da un filetto in croce d’argento: nel 1° e nel 4° un leone d’oro; nel 2° e nel 3° tre anelletti intrecciati del secondo[10].

Se dunque l’identificazione della famiglia di provenienza della moglie non pone problemi, non altrettanto si può dire per quella del marito, rappresentata nella prima parte dello scudo. Il blasone che si vede (troncato: nel 1° tre stelle male ordinate[11]; nel 2° un quadrupede[12] dormiente) costituisce, infatti, un vero e proprio apax che non trova altre attestazioni su stemmari, monumenti o altre testimonianze materiali o narrative.

In casi di questo genere può rivelarsi fruttuoso il ricorso alla genealogia familiare, restringendo ovviamente il campo di ricerca al periodo documentato dalla cronologia dello stemma. Per Manduria, la fonte per eccellenza per questo genere di ricerche è il Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento[13].

Ebbene, fra tutte le famiglie i cui membri, fra seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII, presero in moglie una Pasanisi, solo una può aver portato uno scudo recante un quadrupede rappresentato nell’atto di dormire, posizione, quest’ultima, piuttosto rara nelle armi, tanto da costituire nel caso specifico la chiave di lettura per la decifrazione dell’intero manufatto araldico. Mi riferisco alla famiglia Dormio, di origine mesagnese, definita “nobile” dal Foscarini, diramata a Lecce nel XVII secolo, estinta nel 1883 e titolare di vari feudi in Terra d’Otranto[14].

Sebbene di questa schiatta non sia noto il blasone, l’estrema caratterizzazione della posizione del quadrupede che si vede nel quarto in esame, la sua natura parlante allusiva al cognome (Dormio/animale dormiente) e l’impossibile sovrapposizione con lo stemma di altre casate imparentate con i Pasanisi nel periodo di riferimento contribuiscono a rendere inequivocabile tale l’attribuzione. Dall’esame comparato dei dati provenienti dal Libro Magno e dagli atti notarili emerge che negli anni ottanta del XVI secolo i fratelli Donato Antonio e Alessandro, figli di Francesco Dormio di Mesagne, impalmarono le sorelle Minerva e Pollonia Pasanisi, figlie del notaio Carlo e di Isabella Barbera[15].

Lo stemma partito per alleanza matrimoniale è attribuibile, dunque, a una di queste due coppie. Ci chiediamo, a questo punto, se sia possibile risalire all’edificio sul quale lo stemma era originariamente collocato. Purtroppo la decontestualizzazione del manufatto e l’assenza di informazioni sulle circostanze che ne determinarono il trasferimento in biblioteca non permettono di dare risposte adeguate a questo quesito. Occorre dunque indirizzare la ricerca altrove, segnatamente agli atti notarili.

Una prima verifica effettuata sui regesti dei rogiti del XVI secolo ha offerto, da questo punto di vista, un quadro interessante ma parziale che va necessariamente approfondito attraverso ulteriori e più complete indagini. Le ricerche, in particolare, vanno condotte sia su eventuali beni immobili facenti parte del patrimonio dotale assegnato ai due fratelli mesagnesi, sia su quelli da loro acquisiti per compravendita[16]. Come si vede, il materiale documentario per future e auspicabili investigazioni non manca.

L’attribuzione dello stemma conservato nella biblioteca Marco Gatti pone comunque l’accento sull’importanza dell’araldica come scienza documentaria della storia, in particolare sulla sua utilità nella risoluzione di problemi legati alla committenza e alla cronologia di un determinato manufatto. L’auspicio è che gli storici e gli storici dell’arte ne facciano tesoro!

 

Note

[1] Qualche esempio: una scala per gli Scaligeri, una colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli, un castello per Castiglia, un leone per León, ecc. La relazione parlante che si stabilisce fra le figure dello scudo e il cognome può articolarsi in modo diretto, allusivo o attraverso un gioco di parole.

[2] Cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.

[3] Anche in Terra d’Otranto l’indice di frequenza delle armi parlanti fu particolarmente elevato, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. Cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362.

[4] Vedi, ad esempio, P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253. L’autore assegna genericamente lo stemma alla famiglia Pasanisi, ma, come vedremo più avanti, questa attribuzione è vera solo per la seconda parte dell’arma.

[5] Dietro lo scudo si vedono inoltre dei nastri svolazzanti, aventi una semplice funzione decorativa.

[6] Si dice partito lo scudo diviso in due parti uguali da una linea verticale.

[7] Sull’evoluzione della forma dello scudo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77.

[8] Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché ognuno di essi rappresenti un’arma separata.

[9] Una delle più importanti e antiche famiglie di Manduria, proveniente da Pasano, antico villaggio costiero in agro di Sava e forse originaria dell’area greco-bizantina. Documentata sin dal XIV secolo con Pietro Pasanisio, la casata (tuttora fiorente) annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti, chierici e sindaci e si imparentò con importanti famiglie feudali come i Montefuscolo, i Luzzi e i dell’Antoglietta. Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, pp. 153-154.

[10] Lo stemma inquartato dei Pasanisi, del quale esistono varianti soprattutto nella rappresentazione degli smalti, è stato impropriamente blasonato dallo studioso Nino Palumbo come Pasanisi-Dragonetti (cfr. Araldica civica cit., p. 361), dal nome della diramazione omonima generata agli inizi del Settecento dal matrimonio fra Francesco Antonio Pasanisi e Laudonia Dragonetti. L’esame comparato delle testimonianze araldiche superstiti e della genealogia familiare permette invece di affermare che l’uso dell’inquarto è comune a tutti i rami della famiglia, perlomeno sin dal XVI secolo. Istruttivo è, sotto questo profilo, il caso dell’esemplare Pasanisi che appare nel secondo quarto dello scudo partito oggetto di questo studio. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile fornire una spiegazione certa circa l’origine dell’arma inquartata innalzata dalla storica famiglia manduriana.

[11] Si dice di più figure uguali fra loro e poste a triangolo, ma con la maggior parte di esse verso la punta dello scudo anziché, come invece avviene di norma, verso il capo.

[12] Utilizzo volutamente il termine quadrupede perché non è stato possibile individuarne l’esatta natura. Potrebbe essere un felino o un cane, ma comunque si tratta di un animale non inquadrabile in una specifica tipologia araldica.

[13] Cfr. Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3; G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.

[14] A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, p. 88.

[15] L’atto di costituzione della dote apportata da Minerva a Donato Antonio fu rogato a Casalnuovo dal notaio Felice Pasanisi l’11 novembre 1581. Il dotante fu Isabella Barbera, madre della futura sposa, in quanto vedova del notaio Carlo Pasanisi. Un altro istrumento, rogato dallo stesso notaio il 22 ottobre 1588, riporta invece i capitoli matrimoniali firmati da Francesco Dormio e Isabella Barbera in occasione delle nozze dei rispettivi figli Alessandro e Pollonia, celebrate nella chiesa matrice di Casalnuovo il giorno dopo. Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, pp. 212 (n. 14) e 239 (nn. 31, 32). Grazie al Libro Magno (cfr. cc. 487r e 811r) sappiamo inoltre che Donato Antonio e Minerva ebbero tre figli (Teodoro, Giovanni Giacomo e Artemisia) e che altrettanti ne ebbero Alessandro e Pollonia (Francesco Antonio, Anna e Caterina).

[16] L’1 marzo del 1592 Geronimo delli Fiori, di Casalnuovo, vende a Alessandro e Donato Antonio Dormio una casa dotata di un giardino retrostante e di un luogo aperto davanti, sita nel Borgo della Porta Grande, nel luogo detto avante la Porta Grande, per 110 ducati. Il 3 agosto 1592 Antonio Schiavone, di Casalnuovo, vende a Donato Antonio Dormio 10 pezze di vigna, site in Casalnuovo, in località Piterta, ed un clausorio parietato, con dentro una casa, corte, giardino e 30 tomoli di zafferano, sito nello stesso feudo, alla via della Vetrana, per 190 ducati. Il 20 febbraio 1587 Donato De Ugento vende a Donato Antonio Dormio una casa palacciata, sita intus terram Casalis novi, in Plateam pubblicam dicte terre, per 70 ducati. Cfr. Alfonzetti, Fistetto, I protocolli cit., pp. 264 (n. 55), 271 (n. 109) e 320 (n. 253).

Grottaglie. Ritrovata preziosa croce argentea “de notevole artificio”

STRAORDINARIA SORPRESA A GROTTAGLIE

RITROVATA LA GRANDE E SPLENDIDA CROCE D’ALTARE

DELLA CHIESA MADRE RISALENTE AI PRIMI ANNI DEL CINQUECENTO

 

Definita già nei documenti antichi “bellissima” e “de notevole artificio”, è da considerarsi una preziosa e notevole testimonianza di arte argentaria del territorio pugliese

La presentazione nella Chiesa Madre di Grottaglie domenica 3 dicembre 2017 alle ore 19.00 con relazione di Rosario Quaranta e intervento all’organo rinascimentale del maestro Nunzio Dello Iacovo

 

foto Giovanni Quaranta
La grande Croce argentea di Grottaglie (1520 circa). Il Crocifisso tra la Vergine Santa (a destra) e S. Giovanni Evangelista (a sin.) (foto Giovanni Quaranta)

 

Dopo il recente restauro dell’antichissimo organo rinascimentale (il più antico di Puglia e uno dei più antichi d’Italia) e dopo la ricollocazione nell’abside della Chiesa Madre della grande tela seicentesca dell’Annunciazione, sottratta con un’accorta operazione di recupero e restauro a un progressivo deterioramento, Grottaglie “ritrova” un altro importante pezzo della propria storia e della propria cultura: si tratta della grande croce d’altare d’argento, fatta realizzare per la Chiesa Madre grottagliese nei primi decenni del Cinquecento dall’arciprete Francesco Antonio Sammarco e ritenuta dispersa dopo i lavori condotti negli anni Sessanta del secolo scorso.La ricomparsa di questa preziosa croce conferma ed estende nel tempo l’importanza già evidenziata dalla Collegiata grottagliese all’interno dell’arte argentaria grazie al pregevole ostensorio quattrocentesco di Francesco Caputo (di cui si sono occupati storici e critici) e alle artistiche statue d’argento della Madonna della Mutata (1777) e di San Francesco de Geronimo (1894).Si tratta di una grande croce con anima di legno (cm 155×60) rivestita di lamine argentee artisticamente lavorate.Una sua precisa descrizione viene fatta in un documento del 1557, conservato nell’archivio capitolare, di tutti gli oggetti d’oro e d’argento della propria chiesa: una croce con l’anima in legno e con spuntone in ferro battuto inserito in una base lignea, ricoperta di piastre d’argento lavorato a fogliame indorato. Sulla sua parte anteriore, al centro, mostra Gesù Crocifisso con capelli, barba e panno intorno indorato, con corona di spine e diadema d’argento in testa; nel riquadro sopra la sua testa l’iscrizione J.N.R.J. All’estremità destra S. Giovanni, all’angolo sinistro ugualmente, la Madonna. Nella zona superiore un pellicano col becco dorato che sta in un nido con cinque pulcini indorati. Nella zona inferiore la Maddalena con la sua lunga capigliatura indorata e con le mani che sembrano di bronzo. Sulla parte opposta della croce la Madonna in trono con veste, copricapo, camicia, collare e cintura indorati, con nostro Signore in braccio. Ai quattro angoli i quattro Evangelisti con accanto i quattro animali che li simboleggiano e con le mani sui libri aperti, con veste, capelli e barbe indorati. Una croce ornata tutt’intorno con cinquantacinque “ballotte” d’argento poste in quattro fogliette pure d’argento; sette di queste palle sono più grandi delle altre.

La Maddalena ai piedi della croce (foto: Giovanni Quaranta)
La Maddalena ai piedi della croce (foto: Giovanni Quaranta)

 

Alla descrizione si aggiunge anche un giudizio estetico sulle figure che “sono bellissime de relevo”; insomma un’opera “de notabile artificio”.In una successiva descrizione, fatta nella visita pastorale di Mons. Lelio Brancaccio nel 1577, leggiamo anche che “il pomo della stessa croce è di bronzo in quattro parti, delle quali due sono esagonali, cioè quelle medie; quelle estreme sono rotonde con propria cupola. Nelle due superiori sono scolpite dodici immagini degli Apostoli e tutto il pomo è dorato, e nello stesso pomo sono collegate le insegne della casa e della famiglia de Sammarco con le lettere cioè: D. Franciscus Antonius Sammarcus Archipresbyter”.La croce è inserita in una grande base lignea coeva, intagliata e dorata, con i tre piedi a zampe leonine, esprimente al centro lo stemma del Capitolo. Appare comunque evidente che l’opera ha subito nel tempo diversi interventi di rifacimento e di integrazione. La sua datazione, sulla scorta di documentazione d’archivio, si può ragionevolmente fissare attorno al 1520.

Il pellicano
Il pellicano

 

“Abbiamo ritenuto opportuno – dice con un pizzico di emozione e di soddisfazione D. Eligio Grimaldi, parroco della Chiesa Madre grottagliese – condividere con la nostra comunità, ma anche con gli amanti dell’arte e con gli studiosi, l’importanza del ritrovamento di questo prezioso cimelio di indubbio valore religioso, storico e artistico dedicando allo scopo una serata culturale che contribuirà a conoscere e valorizzare ancor di più i tesori del nostro territorio. Un ritrovamento che provvidenzialmente si aggiunge ai tanti e notevoli elementi artistici della nostra Collegiata”.Sarà così possibile ammirare da vicino questa vera e propria opera d’arte nel corso della manifestazione di domenica 3 dicembre, alle ore 19.00, nella Collegiata di Grottaglie. Ad introdurre sarà lo stesso D. Eligio, cui seguirà la relazione del prof. Rosario Quaranta (Una Croce “bellissima” e “de notevole artificio”) al quale appunto è toccata la ventura di “ritrovare” la croce che giaceva dimenticata in un oscuro deposito della Chiesa Madre e di rintracciare anche l’interessante documentazione storica relativa.

San Luca
San Luca

 

Per l’occasione il maestro Nunzio Dello Iacovo farà risuonare la voce dell’organo rinascimentale con un intermezzo musicale che prevede brani di D. Buxtehude (Preludio e fuga in sol magg. BuxWV 162), J. S. Bach (Finale (Toccata) da Pastorella BWV 590), E. Buondonno (Pastorale su motivi tradizionali napoletani).Appuntamento, perciò, da non perdere domenica 3 dicembre 2017 alle ore 19.00, nella chiesa madre collegiata Maria SS.ma Annunziata sita in piazza Regina Margherita a Grottaglie.INVITO presentazione grande croce del primo Cinquecento Chiesa Madre Grottaglie.ppt

Gallipoli antica: dettagli da due pergamene

di Armando Polito

Ancora oggi negli atti notarili riguardanti un bene immobile vengono indicati i confinanti, nonostante i dati catastali, che oggi possono essere aggiornati in tempo reale, con riferimento a fogli e particelle, li rendano quasi superflui, anche ai fini di una ricostruzione delle vicende patrimoniali di un dato bene. Non così per il passato, poiché i soli dati dei confinanti presenti negli atti rendono laboriosa ogni ricostruzione, essendo stata la memoria dei punti di riferimento cancellata, con gli stessi, dal trascorrere inesorabile del tempo.

Così è per alcuni dettagli topografici, toponomastici ed onomastici della Gallipoli medioevale, il cui ricordo emerge, purtroppo indirettamente per quel che subito dopo dirò, da due pergamene greche facenti parte del gruppo delle 18 custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò e che, prelevate dalla biblioteca del seminario nel 1864, risultano irreperibili.

Fortunatamente ne rimane la trascrizione che aveva fatto in tempo ad operare Francesco Trinchera nel Syllabus Graecarum membranarum, Cataneo, Napoli, 1865. Di entrambe ne riporto il testo trascritto, con la mia traduzione a fronte e qualche nota di commento.

La prima pergamena (pp. 520-521), contiene un atto del 1195 con il quale Pellegrina, vedova di Leone Perdicano, e suo figlio Pietro vendono a Barnaba, preposto del monastero di S. Stefano della fonte, una casa posta nella piazza di Cutzubello.

La seconda pergamena (pp. 526-527) contiene un atto del 1203 con cui Donata figlia del defunto Nicola Cateco dona la parte superiore ed inferiore della sua casa a Iacopo priore del monastero di S. Mauro.

Aggiungo ora qualcosa a quanto già rilevato nelle note.

A proposito della torre (ὀ πῦργος τῆς χώρας), nella prima pergamena, quella più antica, la presenza dell’articolo () e il genitivo (τῆς χώρας) fanno pensare che si tratti della torre unica in zona o dell’unica all’epoca esistente. Nella seconda pergamena in πὔργος τῆς πόλεως l’assenza dell’articolo indurrebbe a pensare che si tratti di una delle torri non più, genericamente, del luogo (τῆς χώρας), ma della città (τῆς πόλεως ).

A proposito dei monasteri di S. Stefano della fonte e di S. Mauro  molto probabilmente la prima pergamena per il primo e la seconda per il secondo costituiscono la testimonianza archivistica più antica. Nelle immagini che seguono (la prima tratta da https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/, la seconda da https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g652005-d10541851-Reviews-L_Abbazia_di_San_Mauro-Sannicola_Province_of_Lecce_Puglia.html#photos;geo=652005&detail=10541851&ff=210368578&albumViewMode=hero&aggregationId=101&albumid=101&baseMediaId=210368578&thumbnailMinWidth=50&cnt=30&offset=-1&filter=7&autoplay=) S. Mauro in una mappa del XVI secolo e com’è oggi.

Per chiudere in bruttezza peggio di quanto mi sia riuscito nell’iniziare e nel proseguire, l’ultima nota ha una valenza un po’ autoreferenziale in quanto coinvolge il mio cognome. Nella prima pergamena si legge che la stessa fu scritta  χειρὶ περεγρίνου πολίτου (per mano di Pellegrino Polite). Se avessi tradotto πολίτου (leggi politu) con Polito e non con Polite non avrei fatto un’operazione corretta; e, contro i miei interessi …,  spiego perché: πολίτου è genitivo;  il nominativo  è πολίτης, che come nome comune significa cittadino. La trascrizione in latino del nominativo avrebbe potuto dare polites o polite, quella dell’accusativo politen e in italiano la traduzione sarebbe stata in entrambi i casi, appunto, Polite. Peccato, perché a quei tempi uno scrivano valeva m0lto più di quanto non valga oggi un insegnante, sia pure in pensione …  

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1 Due  sono state già oggetto d’indagine per il toponimo Nardò in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/24/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-22/.

Ostuni e due suoi figli immeritatamente dimenticati: Pietro Vincenti e Francesco Trinchera (2/2)

di Armando Polito
Se di Pietro Vincenti, del quale mi sono occupato nella precedente puntata, c’era da aspettarsi, com’è stato, l’assenza di qualche incisione che riproducesse le sue sembianze, per Francesco Trinchera senior (1810-1874), invece, posteriore di più di due secoli, sorprende che l’unico suo ritratto restatoci sia probabilmente quello eseguito del fotografo  Giacinto Arena, che di seguito riproduco da un estratto a firma di Pier Francesco Palumbo, in rete all’indirizzo http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Studi%20Salentini/1979/fascicoli/Francesco%20Trinchera%201810%201874.pdf, dove il lettore troverà una messe d’informazioni

Purtroppo la foto non è corredata di nessun dato (e nemmeno l’estratto ne contiene), anche se mostra il nome dell’autore, il fotografo Giacomo Arena (1818-1906), che fu attivo a Napoli dal 1860 circa in poi. Inoltre, da questa data e fino al 1870, il suo nome appare unito con quello dei fratelli D’Alessandri. Molto probabilmente, considerando anche l’apparente età del soggetto ritratto,  la foto dovrebbe essere successiva al 1870. A partire da tale data l’Arena indicò sul rovescio delle sue foto l’anno di esecuzione, ma, per quel che s’è detto, nessun controllo è possibile senza l’originale.

Io mi limiterò a riportare qui i frontespizi delle opere reperibili in rete (il che è più che sufficiente a dare un’idea dello spessore del personaggio) ed alcuni contributi minori contenenti dettagli interessanti che via via presenterò, non senza dare ragione del senior che accompagna il nome del nostro (1810-1874=, che non è presente non solo sulla scheda di Wikipedia dedicata ad Ostuni ma in tutta l’enciclopedia della rete, che, invece registra suo nipote, Francesco Trinchera junior appunto (1841-1923), giornalista e politico. Nella parte finale di questo post il riferimento ad una sua opera sarà il pretesto (tuttavia, come si vedrà, imprenscindibile) per una riflessione di natura campanilistica, meno frivola di quanto l’espressione appena usata potrebbe lasciar credere e per segnalare una delle tante storie italiane in cui è difficile dire quanto abbiano inciso l’incuria, l’impruedenza, l’incompetenza e, probabilmente, anche il malaffare …

Il Menicone  del conte Giulio Perticari colla vita dello stesso scritta per Francesco Trinchera, De Marco, Napoli, 1836

 

 

1837 Scene del cholera di Napoli, De Marco, Napoli, 1837

La pubblicazione contiene, insieme con quelli di altri autori, tre contributi del Trinchera: La pentita (pp. 7-18), L’usuraio e la croce di onore (pp. 67-76) e Torno alla nave (pp. 133-141).  


Elogio funebre per D. Pietro Consigli, arcivecovo di Brindisi ed amministratore della chiesa di Ostuni
, De Marco, Napoli, 1840


Salvatore Aula, Compendio delle antichità romane (traduzione dal latino, aggiunte e note di Francesco Trinchera), Batelli, Napoli, 1850

 

 

Corso di economia politica (2 volumi), Tipografia degli artisti A. Pons. & C., Torino, 1854

 

Della genesi filosofica e storica del diritto internazionale e suoi fondamenti, Stamperia della Regia Università, Napoli, 1963

 

Codice aragonese, v. I Cataneo, Napoli, 1866; v. II, p. I Cataneo, Napoli, 1868; v.II, p. II, Cataneo, Napoli, 1870; v. III, Cavaliere, Napoli, 1874

Della vita e delle opere del conte Luigi Cibrario, Stanperia della Regia Università, Napoli, 1870

 

Degli archivi napolitani, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1872

 

Schema di una storia dell’econonmia politica, (Estratto dal Vol. IX degli Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche), Stamperia della Regia Università, Napoli, 1873

Studi e bibliografie giuridiche, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1874 (seconda edizione)

 

Passo ora ai contributi secondari ma contenenti dettagli di particolare interesse documentario.

Nel v.2, n. 4, a. II, 1837, pp. 33-35, del Poliorama pittoresco il Trinchera pubblicò Egnazia ed Ostuni (frammento di un viaggio), corredato in testa della vista panoramica di Ostuni che di seguito riproduco.

Nel v. III, N. 8 (1838-1839, pp. 84-86 dello stesso periodico comparve delnostroun altro bozzetto di viaggio dedicatoa Brindisi con l’immagine che segue.

E nel n. 42 del 24 maggio 1845 dello stesso periodico venne ospitato il necrologio con cui annunciava la morte del fratello Giuseppe; se si vuole una testimonianza privata (qualcuno di rebbe una condivisione facebookiana ante litteram) ma pur sempre un  indiretto riconoscimento della considerazione in cui il nostro era giustamente tenuto.

Ad onor del vero va detto che Ostuni ha onorato degnamente il suo illustre figlio intitolandogli non solo una via ma anche la biblioteca comunale.

 

Siamo così giunti alla nota finale campanilistica e all’ipotetico malaffare, anche se voglio augurarmi che non sia stata la curiosità suscitata da questa parola ad indurre il lettore a sorbirsi quanto finora esposto.

A tale scopo ho lasciato per ultima una delle più importanti pubblicazioni del Trinchera, cioè il Syllabus Graecarum membranarum, Cataneo, Napoli, 1865.

 

Essa raccoglie la trascrizione di antiche pergamene greche e latine (per quelle greche vi è a fronte la traduzione in latino) custodite negli archivi  della Biblioteca reale di Napoli, dei cenobi di Cassino e di Cava, nonché in quello della curia vescovile di Nardò. E qui, col campanilismo,. cominciano  le dolenti note perché proprio le pergamene greche neretine (diciotto secondo una copia, esistente in archivio, del verbale di prelevamento dalla biblioteca del seminario nel 1864, risultano irreperibili). Due di esse furono trascritte, parziale fortuna nella sfortuna, nel Syllabus e sono particolarmente importanti per quanto riguarda il toponimo Nardò e la sua forma tronca contro la piana del Neretum ovidiano (Metamorfosi, XV, 50) e la proparossitona Νήρητον  (leggi Nèreton) di Tolomeo (Geographia, III, 1, 76).

Ecco il dettaglio (tratto da p. 513) della sottoscrizione della prima pergamena, che è del 1134:


(Scritto dalla mano di me chierico Rabdo  e del notaio   … della città di Nardò …. dodicesima indizione  anno 66421)

Da notare l’assenza di accento in νερετου (letture teoriche possibili: nèretu, nerètu e neretù). Il fenomeno è comune  anche a νοταριου, genitivo, evidente prestito dal nominativo latino notarius, che avrebbe dovuto dare νοταρίου(leggi notarìu)  e ad ἰνδικτιωνος, anche questo genitivo, evidente prestito dal nominativo latino indictio (genitivo indictionis) che avrebbe dovuto dare ἰνδικτιῶνος (leggi indictiònos). Non è ipotizzabile che l’estensore del documento avesse l’abitudine di omettere l’accento (circonflesso nel caso di ἰνδικτιωνος e acuto in quello di νερετου) quando esso coinvolge la penultima sillaba, in quanto esso è presente  in casi consimili nel resto della scrittura; meglio nel resto della trascrizione della scrittura e questo amplifica in misura esponenziale il rammarico per la sua perdita, considerando che la moderna epigrafia e filologia in genere di oggi sono sicuramenrte più  raffinate di quelle ottocentesche e che un controllo sull’originale probabilmente avrebbe diradato più di un dubbio.

Non pone problemi, invece, il dettaglio (tratto da p. 531) della seconda pergamena che è del 1227.

(Il giudice Leone da Nardò richiesto per il presente contratto sottoscrisse testimoniando)

Qui compare νερετοῦ  (leggi neretù), sempre genitivo, che suppone un nominativo νερετός (leggi neretòs) o νερετόν (leggi neretòn), da cui sarebbe derivato Nardò, forma, dunque, greca bizantina che avrebbe avuto la prevalenza  sulla latina.

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1 Dalla creazione del mondo, avvenuta, secondo la tradizione bizantina, nel 5509 a. C.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/20/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-12/

 

 

Wikipedia ed il toponimo Salento. Ovvero all’ombra dei copia ed incolla

di Nazareno Valente

salento

 

A prenderla in maniera scherzosa, verrebbe da dire che disquisire sul Salento comporta la stessa difficoltà di quando si parla del sesso degli angeli.

Quale zona essa effettivamente sia o sia stata, quali città comprenda, quale sia l’origine della sua denominazione geografica, qualsiasi quesito si ponga finisce per scatenare dibattiti senza fine in cui può pure capitare che le opinioni siano in numero maggiore degli interlocutori.

Limitando il campo d’azione, e senza avere la pretesa di risolvere l’irrisolvibile in poche battute, vediamo di riprendere il discorso sui contenuti presenti in Wikipedia esaminando proprio cosa sia lì riportato per il toponimo1 che individua la nostra terra.

L’enciclopedia in linea affronta la questione nella scheda dedicata appunto al Salento2 premettendo in maniera corretta che «il toponimo Salento ha origini incerte».

La disamina considera inizialmente la versione leggendaria che, veniamo a sapere, si basa sul «nome del Re Sale, un mitico re dei Messapi» il cui nipote, Malennio, «avrebbe fondato Sybar (primo nome della località costiera Roca, che significa Città del Sole), nonché Lyppiae (l’attuale Lecce) e Rudiae».

Passa poi alle possibili spiegazioni scientifiche del termine riportando tre diverse ipotesi.

La prima, ricavata da uno studio di Mario Cosmai3, farebbe derivare il coronimo da salum «inteso come “terra circondata dal mare”: i Romani, infatti, indicavano con Sallentini gli abitanti delle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al Golfo di Taranto». E, per meglio precisarne il pensiero, si ricopia il brano del saggio in cui si afferma che: «Salento in messapico significa “mare”: ce lo conferma Plinio che dice “Salentinos a salo dicto” (cfr. il greco hals, halòs e il latino salum, mare)».

La seconda si rifà ad un autore greco, Strabone, che, a detta del compilatore della scheda, farebbe provenire il termine «dal nome dei coloni cretesi che qui si stabilirono, chiamati Salenti in quanto originari dalla città di Salenzia».

L’ultima è di un autore latino, Marco Terenzio Varrone, il quale lo desume da «un’alleanza stipulata “in salo”, ovvero in mare, fra i tre gruppi etnici che popolarono il territorio: Cretesi, Illiri e Locresi».

Lasciando da parte la leggenda, perché in quanto tale poco discutibile da un punto di vista storico, esaminiamo le altre teorie presentate.

Innanzitutto va rilevato il piglio forse troppo schematico con cui le informazioni sono state messe insieme, così da dare la sensazione che esse siano state raccolte qua e là alla rinfusa, senza un ben definito criterio di selezione e senza un qualsivoglia approfondimento critico. Soprattutto disorganica appare la trascrizione del pensiero di Cosmai che, così com’è riportato, risulta confuso e, per certi versi, incomprensibile.

In questa ipotesi sono infatti vari i punti che destano perplessità.

Dalle fonti narrative antiche non risulta, ad esempio, che i Romani identificassero i Sallentini con «gli abitanti delle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al Golfo di Taranto», per cui l’asserzione non è suffragata da nessuna prova documentale.

Non si capisce poi quale significato l’autore effettivamente assegni al vocabolo sălum, dapprima letto come “terra circondata dal mare” e, in seguito, come “mare”.

La frase, Salentinos a salo dicto, per altro scorretta perché il verbo dovrebbe concordare con Salentinos e non con salo, non è attribuibile a Plinio ma semmai, nella forma corretta (Salentinos a salo dictos), a Verrio4.

Ma ciò che più conta, poiché la voce sălum è comunemente tradotta con alto mare, e che il termine greco, (σάλος, salos), da cui trae origine rinvia al movimento impetuoso tipico del mare aperto, non si comprende quale nesso vi possa essere tra l’affermazione erroneamente attribuita a Plinio e le paludi acquitrinose tarantine, considerato che non vi è legame logico possibile tra l’alto mare (sălum) ed una zona paludosa. Anzi il moto ondoso che il mare aperto implica è del tutto in antitesi con la calma piatta che un acquitrino usualmente presuppone.

In definitiva le argomentazioni di Cosmai, quanto meno nella forma presentata su Wikipedia5, prestano il fianco a più d’una sostanziale critica, perché poco documentate ed, a volte, sconfessate dalle stesse fonti portate a sostegno.

La seconda tesi proposta, basata su una presunta affermazione di Strabone, è una vera e propria invenzione; temo riesumata, dopo anni e anni di giusto oblio, proprio dalla rete. Infatti il geografo pontico non ha mai parlato nella sua opera di questi fantomatici Salenti, originari della ancor più immaginaria città cretese di Salenzia e colonizzatori delle nostre contrade. Strabone si è limitato ad affermare sull’argomento le seguenti testuali parole: dicono che i Salentini siano coloni dei Cretesi («Τοὺς δὲ Σαλεντίνους Κρητῶν ἀποίκους φασίν»6), senza menzionare né i Salenti, né tantomeno Sallenzia.

In effetti, la bufala era già nota nei secoli scorsi tant’è che risulta scoperta, e stigmatizzata anche in malo modo, in uno scritto7 di Girolamo Marciano, un letterato vissuto tra il XVI e XVII secolo. «Un certo scrittore moderno in una sua descrizione del sito della Japigia dice che questi popoli furono detti Salentini da’ Salenti venuti da Salenzia»8, scrive piccato Marciano, per poi concludere «e senza rossore alcuno afferma ciò aver detto Tucidide e Strabone»9.

Ora, dal momento che il manoscritto di Marciano fu stampato solo nel XIX secolo e che in sede di stampa furono fatte aggiunte da Tommaso Albanese, non è dato di sapere chi abbia in effetti bacchettato lo scrittore moderno, se proprio Marciano oppure Albanese. Chiunque sia stato, non s’è preoccupato però di svelarne il nome che rimane, pertanto, a me sconosciuto. Certo è, che se la fake news è stata riesumata e poi riciclata su Wikipedia, qualche traccia dovrebbe pur aver lasciato in internet, anche se i miei tentativi per rintracciarla sono risultati del tutto vani.

Confesso che mi piacerebbe soddisfare questa piccola curiosità, che rivelerebbe pure l’autore dell’aspro rimprovero, per cui mi consento di lanciare un appello ai lettori invitandoli ad adoperare il loro talento di navigatori del web per risalire all’ideatore dei Salenti e della immaginosa notizia che, a distanza di tanto tempo, trova ancora fedeli seguaci.

L’ultima ipotesi — almeno quella — risulta invece confermata dalle fonti.

Nei commenti alle Bucoliche di Virgilio, lo Pseudo-Probo10 riporta infatti un frammento in cui Varrone narra la triplice origine Cretese, Illirica e Locrese dei Salentini e giustifica tale nome con la circostanza che il patto d’amicizia fu stipulato in alto mare («Salentini dicti quod in salo amicitiam fecerint»).

Da sottolineare, però, che così si spiega l’etnico (Salentini) ma non si ricava l’origine del coronimo (Salento), per cui la domanda iniziale rimane in ogni caso inevasa. Potremmo in questa sede cercare di formulare una risposta, tuttavia la questione è alquanto intricata e poco abbordabile in modo schematico. Per questo si ritiene più utile rinviare ad altro articolo, del resto già predisposto ed ormai prossimo alla pubblicazione11, che tratta l’argomento in maniera specifica.

In conclusione, Wikipedia compie in poche righe un bel po’ di sviste, riportando riferimenti in parte fasulli ed in parte errati o imprecisi, senza in aggiunta neppure riuscire a dare risposta al quesito inizialmente posto sull’origine del termine Salento.

Curioso infine il dover constatare che una teoria più è fantasiosa e più trova facile diffusione. Basterebbe infatti lanciare una ricerca con una stringa impostata con il falso passo di Strabone, per scoprire che un consistente numero di siti si è appropriato dell’informazione e, quel che è peggio, la divulga così com’è ritenendola del tutto corretta.

Non ci si sorprenda però troppo: i copia ed incolla passivi possono produrre effetti ancor più straordinari. Come meglio vedremo la prossima volta.

 

Note

1 Nel prosieguo si utilizzerà in alternativa al termine toponimo il vocabolo coronimo che, pur di minore uso, è più appropriato ad indicare il nome di un’area geografica.

2 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Toponimo (20.11.2017).

3 M. Cosmai, Antichi toponimi di Puglia e Basilicata, Levante, Bari 1991.

4 Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. II, Londra 1826, pp. 807-808.

5 Non avendo trovato il testo di Cosmai né in commercio, né nelle biblioteche regionali, ho potuto contare solo sulla versione fornita da Wikipedia.

6 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 5.

7 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli 1855, Stamperia dell’Iride.

8 G. Marciano, Cit., p. 63.

9 G. Marciano, Cit., p. 63.

10 Varrone, Antiquitates rerum humanarum,III fr.VI Mirsch, Apud ps –probo (I secolo d.C. – …), in Vergilii Bucolica, VI 31.

11 N. Valente, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno 5, n. 6, Nardò 2017.

 

Ostuni e due suoi figli immeritatamente dimenticati: Pietro Vincenti e Francesco Trinchera (1/2)

di Armando Polito

Non è raro trovare nelle schede di Wikipedia relative a paesi e città una sezione dedicata alle persone legate per qualche motivo al luogo. Così, per quanto riguarda Ostuni (https://it.wikipedia.org/wiki/Ostuni), è riportato il quartetto che segue.

Se è motivo di vanto citare Umberto Veronesi come cittadino onorario e come figli della città Ludovico Pepe e Giovanni Semerano, se qualcuno può cogliere un frivolo compiacimento, legato ai valori dominanti nella nostra epoca nella citazione di Andrea Iaia, io, senza aver nulla contro quest’ultimo, mi mostro scandalizzato per l’assenza dei nomi di Pietro Vincenti e di Francesco Trinchera. Non credo che ciò sia dipeso dalla cronologia (come se questa fosse un criterio di merito per il ricordo) perché se per assurdo ciò potrebbe valere per il Vincenti che visse tra il XVI ed il XVII secolo sarebbe ingiustificabile per il Trinchera, che visse dal 1810 al 1874), vista la presenza del Pepe che morì nel 1901. Peccato, perché la scheda è nelle altre sezioni ben compilata, ma queste due  lacune mi sembrano veramente intollerabili. Lascio a chi ne ha tempo e voglia il compito dell’integrazione, che potrà sfruttare, sia pur sinteticamente per motivi facilmente comprensibili, questo post.

Comincio da Pietro Vincenti (nella foto che segue la freccia evidenzia la targa viaria a lui dedicata).

Fu un famoso giurista e archivista della Real Zecca, funzione che quasi sicuramente non è estranea all’accuratezza ed al rigore che contraddistinguono le sue opere, di ognuna delle quali di seguito riporto il titolo e il frontespizio.
Historia della famiglia Cantelma, Sottile, Napoli, 1604

 

Teatro de gli huomini illustri, che furono Protonotarii nel Regno di Napoli, Sottile, Napoli, 1607

 

Teatro de gli Huomini illustri, che furono grand’Ammiragli  nel Regno di Napoli, Roncagliolo, Napoli, 1618

La parte finale  (pp. 83-108)  del testo di Felice Di Gennaro Historia della famiglia Gennara o’ Ianara dell’illustrissimo Seggio di Porto nella inclita,  fidelissima città di Napoli, cavata dalli regij archivij, antichissime inscrittioni & trattamenti de varij cronisti, Roncagliolo, Napoli, 1623 è una vera e propria appendice documentaria a firma del Vincenti.

 

Nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale  De Leo” di Brindisi è custodito un manoscritto del XVIII secolo  (ms_B/3), copia redatta per conto della famiglia De Leo dall’originale che si conserva presso l’archivio del comune di Ostuni, riguardante benefici e giuspatronati che il Vincenti trasse dall’archivio della Real Zecca. Fu pubblicato da Ludovico Pepe in Il libro rosso della città di Ostuni, Scuola Tipografica editrice Bartolo Longo, Pompei, 1888. In questo manoscritto a carta 45r si trova in aggiunta all’edizione del Pepe un privilegio, secondo me mutilo della parte finale, di Federico II in favore della città di Ostuni.

Cristo vince, Cristo regna X. Federico col favore della clemenza divina imperatore sempre augusto e re di Sicilia, considerando la pura fedeltà e la sincera devozione che tutto il popolo di Ostuni manifestò ai nostri predecessori di e a noi ininterrottamente, con l’innata benignità della nostra maestà accogliamo nel nostro demanio la predetta città di Ostuni volendo per il resto tenere ed avere in perpetuo la stessa città nel demanio nostro e dei nostri eredi; concediamo anche che il popolo di Ostuni goda di quella libertà nei trappetti da possedere tra i beni stabili e tutti quelli mobili che la nostra città di Monopoli è solita avere presso la costa. E il popolo del mare non conosce esperienza perché sulle galee alla nostra maestà possa …    

Chiudo con una nota (è proprio il caso di dire …) leggera augurando all’omonimo (chi potrebbe affermare che non sia discendente del nostro?) musicista ostunese1 una longevità maggiore di quella goduta dal giurista-archivista, in modo che fra duecento anni sia intitolata pure a lui una via, magari periferica, e che la scheda citata di Wikipedia veda, lui vivente, la dovuta, duplice integrazione …

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/24/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-22/

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1 https://sites.google.com/pietrovincenti.com/musica/italiano/bio

Il nuovo film di Giovanni Brancale, «Terre rosse», sul brigantaggio lucano

Le-Terre-Rosse

di Michele Eugenio Di Carlo*

È del tutto evidente agli specialisti che il cinema muto degli inizi del Novecento abbia avuto una inclinazione unicamente celebrativa dell’Italia liberale al potere sin dall’unificazione.

La prova più evidente di questa tendenza quasi pedagogica è il film «La presa di Roma» di Filoteo Alberini, che nel 1905 celebra Crispi e la monarchia sabauda con una rievocazione agiografica che sconfina nel fantastico e nel mitologico. È l’epoca in cui la letteratura risorgimentale si evolve nella sua trascrizione cinematografica.

Su questo periodo, in cui la Destra liberale torna al potere prima con Zanardelli poi con Giolitti, Roberto Balzani, docente di Storia contemporanea dell’Università di Bologna, chiarisce che l’uso propagandistico e celebrativo dell’iconografia risorgimentale ha l’effetto di addomesticare il risorgimento in una visione priva di asperità e polemiche.

Fulvio Orsitto, senza mezzi termini, considera la seconda fase della cinematografia, quella definita «fascista», un periodo storico in cui «la ricostruzione della storia patria si svolge in modo funzionale agli interessi di un regime che intende essere considerato la logica conclusione del processo risorgimentale».

È un risorgimento manipolato strumentalmente al fine di nazionalizzare le masse, dato che non sfugge all’intellettualità fascista come il cinema sia un potente mezzo di comunicazione, piegabile ad uso propagandistico, e che il potere può efficacemente utilizzare per indottrinare e ideologizzare le masse.

Emblematica di questa maniera romantica e fantastica di rappresentare il Risorgimento è il film «1860», diretto da Alessandro Blasetti nel 1934.

Il pericolo concreto e in atto, avvertito dal filosofo tedesco Walter Benjamin, era che la storia e le tradizioni potessero diventare lo strumento della classe dominante, mentre compito dello storico era proprio quello di sottrarre la storia a questo tipo di manipolazione. Un ammonimento che sembra oggi più che mai attuale.

La vera svolta nella cinematografia italiana sull’unificazione d’Italia avviene agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, quando ancora reggeva una visione istituzionalizzata e acritica del processo unitario italiano, suggerita dalle tendenze culturali e ideologiche dei governi democristiani al potere nel Secondo dopoguerra.

Nel 1952 il regista Pietro Germi con il film «Il brigante di Tacca del Lupo» esce dalla retorica a sfondo celebrativo e parla apertamente di un processo unitario nato da una conquista militare dai mille interessi e dai pochi ideali, concretizzatasi dopo una lunga e violenta guerra civile combattuta da militari ritenuti stranieri in un territorio ostile.

Secondo Simone Castaldi, docente di Letteratura moderna e contemporanea e Cinema alla Hofstra University, nonostante la pressante censura democristiana dei primi anni ’50, Germi ha «il coraggio di presentare la lotta contro i briganti non come un’operazione di polizia, ma come una vera e propria guerra civile favorita sia dall’opportunismo dei notabili locali che dalla prepotenza del potere militare sabaudo. Sul fatto che alle radici di questo conflitto risieda non un processo di unificazione ma uno di annessione Germi non lascia dubbi».

Il film di Giovanni Brancale, «Le terre rosse», prodotto dalla Estravagofilm, girato nell’area del Vulture in Basilicata, tra Monticchio, Rionero e Sant’Arcangelo, si inserisce nel filone revisionistico iniziato da Germi nel 1952. È il racconto di una terra umiliata e offesa, che il lucano Rocco Scotellaro con «Contadini del Sud[1]» del 1954, aveva raccontato con una profonda indagine sociologica sul mondo contadino, seguito dal rionerese Vincenzo Buccino con «La mala sorte[2]» del 1963, narrazione di oppressioni, sopraffazioni e violenze nella società di Rionero in Vulture, immutata nonostante l’unità d’Italia.

Il film è tratto dal romanzo «Il rinnegato» scritto dal padre dello regista lucano, lo scrittore Giuseppe Brancale (1925-1979), e ne riproduce fedelmente la realtà storica descritta con l’attenzione rivolta ai vinti, quei briganti che nessuno volle considerare come uomini e donne umiliati e oppressi che cercarono di far sopravvivere le proprie famiglie. Il romanzo si snoda in un percorso temporale che inizia nel 1860 e termina nel 1887 in un piccolo centro della Valle dell’Agri, Migalli, dove un giovane garibaldino fa i conti con la dura realtà sociale ed economica, rimuginando sul fallimento dei suoi ideali risorgimentali.

È il dipinto di una Basilicata dove possiamo ritrovare le sorgenti di un’ identità culturale che nessun velo, per quanto spesso, potrà cancellare.

 

* Socio ordinario della Società di Storia patria per la Puglia

 

[1] R. SCOTELLARO, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1954. Rocco Scotellaro (Tricarico, 1923 – Portici, 1953), poeta, profondo conoscitore delle drammatiche condizioni contadine, sindaco di Tricarico a 23 anni, arrestato per motivi politici e assolto nel 1950, lascia la politica per dedicarsi all’attività letteraria. Contadini del Sud è un’indagine sociologica attraverso la quale diversi protagonisti raccontano la propria storia di appartenenza al mondo contadino lucano: L’autore vi ripropone le dinamiche sociali tipiche di una cultura in trasformazione. Furono Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria ad interessarsi alla pubblicazione delle opere di Scotellaro che, poco dopo la scomparsa, vinse il Premio Campiello e il Premio San Pellegrino.

[2] V. BUCCINO, La mala sorte, Padova, Rebellato Editore, 1963. Del romanzo di Vincenzo Buccino (Rionero in Vulture, 1929 – Forlì, 2005), dall’ampia valenza storica, politica e sociologica, ambientato nel paese natale dell’autore, Rionero in vulture, il celebre meridionalista Tommaso Fiore ha scritto: «Il romanzo La mala sorte è una vigorosa pittura delle tristi condizioni sociali della sua terra, tradizionalmente arretrata […] Però, quel che più impressiona, è la pittura, parte a parte, della decadenza sociale, dell’oppressione a mezzo dell’imbroglio di legulei, delle sopraffazioni scolastiche e, insomma, della tradizionale violenza di chi, in un modo o nell’altro, domina a ragione e a torto…».

Il Salento delle 28 albe di Nespoli

Paolo Nespoli

di Ermanno Inguscio

                            

Nell’attività spaziale dell’astronauta Paolo Nespoli, cultore esperto di fotografia, compaiono anche spettacolari foto della penisola salentina, di Taranto e del Gargano, che di recente sono state da lui postate sui principali social. Da cinque mesi, e fino al 14 dicembre, egli volteggia in orbita attorno alla Terra, alla velocità di 27.500 Km orari, per la missione VITA con il collega russo Sergey Ryazanisky e l’americano Randy Bresnick. Ventotto albe sul Pianeta, in un solo giorno degli umani, per i tre ospiti della missione spaziale internazionale (ISS). La giornata dell’astronauta milanese, che ben conosce il Salento, oltre all’impegno scientifico della missione, è fatta di diverse emozioni ad ogni alba e di foto mozzafiato scattate dalla cupola della Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Dall’alto i problemi sembrano più piccoli, sembra dire l’esperto astronauta anche con il titolo del suo libro. Egli è stato scelto per espletare duecento esperimenti programmati da USA e UE ed altri undici dell’ESA, sempre in condizioni di microgravità. Egli, infatti, astronauta un po’ per merito della scrittrice italoamericana Oriana Fallaci, che in Libano gli aveva suggerito di partecipare alle selezioni aerospaziali, oggi sessantenne, servirà all’ESA per capire gli effetti sui muscoli in assenza di gravità, sugli occhi e testare un giubbotto riempito d’acqua utile per la discesa dell’uomo su Marte. Partito con i colleghi dalla base russa di Baikonur, dopo quaranta giorni di dura permanenza nel deserto kazako, da mesi vive nei tre moduli ASI-NASA, chiamati Leonardo, Raffaello e Donatello, per compiere tutto il semestrale programma di esperimenti, dopo il primo del 2007 (Missione Esperia, una settimana) e quello del 2010 (Missione Magistra, come ingegnere di volo per 159 giorni nello spazio). Importanti con lui nello spazio gli esperimenti di medicina, chimica e fisiologia. Saranno studiati gli effetti antiossidanti nanotecnologici per contrastare i danni dello stress ossidativo in condizioni di prolungata microgravità; sarà approfondito lo studio dei marcatori di stress e come contrastare la perdita di massa ossea nel corpo umano; un grande aiuto vi sarà nella ricerca sulle patologie di tipo tumorale e nervoso e nelle malattie autoimmuni.

con Paolo Nespoli
con Paolo Nespoli

 

Ma l’astronauta italiano, alla sua terza missione spaziale, conosce bene la nostra terra per esserci stato più volte come nel 2008, quando chi scrive, a Maglie e a Poggiardo, ne ha apprezzato le doti di scienza ed umanità insieme a salentini come l’ingegnere aerospaziale Federica Inguscio, oggi responsabile, a Maranello, del settore materiali compositi e fibre di carbonio nella Formula Uno del Cavallino Ferrari. A lei, all’epoca studentessa presso il Politecnico di Milano, Nespoli, nell’incipit del contatto, rimarcò :”Anche tu studi lo spazio e sei tra quei pazzi che, come me ami conoscerne le leggi e violarne i segreti a vantaggio dell’umanità?” Ancora oggi, a qualche passaggio (specie notturno) della navicella sul Salento addormentato tra lo Jonio e l’Adriatico, Nespoli continua a concentrarsi sul suo prezioso lavoro, twittando ogni tanto con i suoi tantissimi amici. E Federica Inguscio, dopo la recente vittoria della Ferrari di Vettel a Interlagos nel Gran Premio di F1 in Brasile, continua a pensare alla bontà del consiglio dato a Nespoli dalla scrittrice Oriana Fallaci a concepire l’idea di fare l’astronauta, dopo esserle stato “angelo”, ma anche personaggio in Insciallah, per i servizi giornalistici dell’Europeo negli insidiosi sobborghi di Beiruth. Nespoli, invece, ad ognuna delle ventotto albe ammirate dalla “cupola” dell’ISS, rivà col pensiero alla Fallaci, sua seconda madre “aerospaziale”.

Lu trappitu (il trappeto/trapeto), ovvero quando il dialetto detta legge

di Armando Polito

Le immagini di testa sono volutamente senza didascalia e per scoprire la ragione bisognerà giungere alla fine, non senza aver letto quello che c’è prima …

In Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, XX, XXII e CXXXVI, trapetum (sostantivo di genere neutro) è l’intera macchina; in  Varrone  (II-I secolo a. C.), De agri cultura, I, 55, trapeta (sostantivo di genere femminile) è la mole di pietra durissima; in Columella (I secolo d. C. ), De re rustica, XII, 50, trapetum  è la pesante trave usata per spremere le olive.

Ecco il lemma TRAPETUM e la variante TRAPITUM come sono registrati nel glossario del Du Cange (la traduzione a fronte è mia).

Preciso che il verbo greco τρἐπω interviene sì, ma in seconda  battuta  perché  *τραπητόν (la voce  non è attestata, ma molto probabilmente  è originaria della Magna Grecia) è da  τραπέω, che significa pigiare l’uva, a sua volta da τρἐπω.

Non è necessario essere filologi quanto meno per intuire che trapetum è il padre dell’attuale trapeto, di cui i vocabolari riportano anche la variante trappeto (che credo sia quella più usata), la cui origine meridionale è nella geminazione di p in un precedente trappetum presente in molte scritture a partire dal XV secolo), a sua volta dal trapetum riportato dal Du Cange. Va da sè che il neretino trappitu è da  trappitum, a sua volta da trapitum.

Trappitum in particolare è attestato in un un atto del 15 febbraio 1428 (Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1964, p. 75), in cui Filippo Sambiasi di Nardò, ordinato l’inventario dei suoi beni, fa testamento lasciando, fra l’altro, trappitum unum turchiacum (un trappeto con torchio).

Sempre per Nardò è attestata la variante tarpetum (senza la geminazione della p ma con metatesi tra->tar-) in un atto del 31 dicembre 1427 (Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò, Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, p. 88: … terciam partem unius tarpeti cum toto apparatu, sit(i)Licii, vicinio ecclesie Sancti Iohannis de  Vetere, iuxta domos Nucii Drimi et Ponagrani  … (la terza parte di un trappeto con tutta l’attrezzatura, sito in Lecce nel vicinio della chiesa di S. Giovanni de Vetere, presso le case di Nuccio Drimo e Penagrano).

E la voce doveva essere  molto diffuso in area meridionale se era già in un atto siciliano del 9 agosto 1351 conservato nell’Archivio di Stato di Palermo (spez. 26 N), sia pur con riferimento alla lavorazione della canna da zucchero: trappitum pulveris zuccari. Nei documenti medioevali raccolti nel Codice diplomatico barese ricorrono tarpetum e tarpitum.  Il che non esclude che la nascita di ognuna delle voci fin qui riportate  sia anteriore, e di molto.

La cronologia dell’uso, pur con tutti i limiti fisiologicamente connessi con tale tipo d’indagine, sembrerebbe, comunque, corroborare l’evoluzione fin qui delineata.

Per quanto riguarda l’italiano, fino alla metà del XVII secolo ricorre trapeto. A titolo d’esempio cito la prima quartina del sonetto LXIII in Leporeambi nominali alle donne et accademie italiane, s. n., s. d. di Ludovico Leporeo (1582-1655): Milla saggia qual dea de l’oliveto/m’ha il cor unto in un punto e m’ha ferito,/e nel suo torchio rigido contrito/con la mola crudel del suo trapeto. Ricordo inoltre che la voce ricorre ripetutamente anche nella locuzione trapeto da cavalli in Giovanni Battista Ramusio, Delle navigationi et viaggi, v.III, Giunti, 1606

La più antica testimonianza di trappeto che ho rinvenuto  appartiene a Onofrio Pugliesi Sbernia, Aritmetica, Bossio, Palermo, 1670. Successivamente a tale data trappetum diventa la forma usata quasi in maniera esclusiva. La pronunzia dialettale sembra aver preso il sopravvento sulla forma filologicamente corretta e non escluderei la spinta decisiva del fattore economico e a tal basti pensare al ruolo di protagonisti  che la Puglia e il Salento in particolare avrebbero avuto in tutta Europa nella produzione e nel commercio dell’olio.  Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia …

Una sintetica storia, invece, con l’occhio rivolto alla tecnologia, è rappresentata visivamente dalle tre immagini di testa che vanno dal I secolo d. C. (Boscoreale, Villa della Pisanella; immagine tratta da https://viaggiart.com/it/boscoreale/luoghi/museo/antiquarium-nazionale-di-boscoreale_13994.html)

ai nostri giorni (immagine tratta da http://www.arsolea.it/wordpress/wp-content/uploads/2012/02/ars18.jpg)

passando per il frantoio ipogeo di di Santa Maria a Cerrate (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Trappeto_(frantoio)#/media/File:Frantoio_Ipogeo.jpg).

Lascio al gusto del lettore decidere qual è l’attrezzatura che presenta il disegno più moderno, direi quasi avveniristico, manco fosse stato studiata, con  cospicui investimenti, nella galleria del vento …

Una corsa in littorina

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di Elio Ria

Prendere il treno, anzi la littorina risvegliava in me ricordi di gioventù. Ma, allora il treno era giocoso e tagliava il paesaggio in alcuni tratti, in altri lo riproduceva nella sua semplicità. Era buio del lunedì 13 novembre, ore 18,35.  Dentro il vagone un’aria strana, pochi passeggeri estraniati, una luce di caverna. Si muoveva su una tratta breve con lentezza e  discontinuità. Tre fermate cariche di tempo e di attesa. Stazioni abbruttite e chiuse, come caserme abbandonate con lucchetti e ferraglie, qualche viaggiatore, alberi e fiori dintorno appassiti. Rimaneva qualche bagliore di luci che filtrava nel buio e null’altro. Non avevo magie da deliziare né occhi per musica di panorama.  Ero in un ‘luogo’ che non era più mio, forse di altri, di nessuno, di qualcuno…

Una corsa in littorina

 

Scripta volant, verba manent. Wikipedia, Valerio Levino e Brindisi

 di Nazareno Valente

 Sino all’adozione del telecomando, l’uso del pollice della mano era limitato a poche funzioni di base, prevalente quella di aiutare le altre dita a prendere qualcosa. Da allora s’incominciò a destinarlo allo zapping e, visto che dava buone prove di sé, lo si adoperò in maniera più massiccia per la compilazione e la trasmissione degli sms, con risultati che rasentano la maestria quando si tratta di giovani utilizzatori. Le nuove tecnologie, in definitiva, impongono pure dei mutamenti nell’impiego dei diversi muscoli, oltre che di mentalità, di abitudini e di modi di pensare.

Di pari passo anche l’approccio alle conoscenze si sta modificando: credo lo si debba ad una informazione sempre più rapida e diffusa, che porta all’istante sulla scena degli avvenimenti, e dalla memoria sempre più corta, che brucia tutto in pochi attimi senza consentire, a momenti, neppure il tempo d’accorgersi di cosa sia effettivamente successo.

In questo clima anche i detti popolari vanno modificandosi.

Le parole, sinonimo un tempo di evanescenza perché volavano via con il vento, adesso, memorizzate nei filmati e riproposte in maniera ossessiva, stanno diventando indistruttibili. Al contrario lo scritto, veicolo in passato pressoché unico di conservazione, appare sempre più inconsistente e volatile, essendo oggetto di modifiche, rielaborazioni e cancellazioni.

È quanto di solito avviene in Internet, soprattutto in quella fonte di apprendimento veloce qual è Wikipedia, che ormai costituisce l’enciclopedia di più diffuso accesso, dove con tagli, variazioni e rimozioni sembra si scontrino le diverse correnti di pensiero desiderose di imporre il proprio punto di vista. Almeno questo si evince dall’approfondita ricerca del professor Massimo Marchiori, i cui risultati possono essere consultati sul suo sito Negapedia.org. Di là dalle faide, ciò che se ne può ricavare è, a mio avviso, l’aleatorietà della cosiddetta enciclopedia libera, troppo condizionata da chi è l’anonimo compilatore di turno

Non è per altro questo l’unico tema che spingerebbe ad essere cauti nell’utilizzo d’uno strumento che, riassumendo in sé certo tutti i pregi della rete ma, nel contempo, pure tutti i suoi peggiori difetti, meriterebbe un approccio critico e non di accettazione incondizionata, come spesso avviene. Per accreditare in un qualche modo queste mie perplessità, affronterò la questione limitando l’esame ad un argomento d’interesse comune – le antichità del nostro Salento – per il quale fornirò esempi di imprecisioni, di informazioni distorte e, addirittura, di vere e proprie bufale (o, dette con linguaggio moderno, fake news) che, per evitare giudizi frettolosi, verranno distribuiti in più interventi.

In questo primo incontro esamineremo la scheda dedicata da Wikipedia a Marco Valerio Levino1, un personaggio storico talmente legato alla colonia latina di Brindisi da meritare la dedica di una via cittadina.

In generale essa appare formalmente ben costruita, in quanto fornisce per tutti gli avvenimenti – elencati però senza curare i necessari collegamenti – gli appropriati riferimenti alle fonti letterarie antiche. Le carenze non riguardano però i fatti, quanto i contesti in cui essi vengono situati.

Siamo negli anni in cui Annibale ha invaso l’Italia ed ha inferto dure sconfitte ai romani. Una soprattutto, quella di Canne (216 a.C.), ha fatto vacillare l’Urbe la cui disfatta per alcuni mesi è sembrata prossima. Passato il primo momento di sconcerto, Roma si sta riorganizzando, ed è proprio qui che Valerio Levino entra in scena.

L’autore della scheda ce lo presenta come «un politico e generale romano», il che è vero però, forse, meritevole della precisazione che in quel periodo le due carriere non erano distinte, com’è attualmente, ma al contrario un tutt’uno. Chi voleva infatti aspirare alle cariche pubbliche, doveva prima fare un determinato numero di campagne militari o di anni di servizio militare, e chi accedeva alle più alte magistrature diveniva di conseguenza titolare anche dell’imperium militiae, vale a dire del comando supremo dell’esercito in tempo di guerra. Di fatto, se non si faceva politica, non si poteva diventare generali; se si era generali, lo si era perché contestualmente statisti di alto rango. Basta scorrere le diverse schede di Wikipedia stessa riguardanti i principali personaggi romani dell’epoca per ricavare che praticamente tutti, avendo rivestito le magistrature maggiori, erano al tempo stesso politici e capi militari.

Ritroviamo poi che Levino «era praetor peregrinorum (si occupava, cioè, degli affari riguardanti gli stranieri presenti a Roma)» e, detto in questo modo, sembra che il pretore peregrino fosse una specie di dottore commercialista che aiutava gli stranieri nei loro affari a Roma. Nulla di tutto ciò.

Occorre premettere che la pretura, istituita nel 367 a.C., era una magistratura a cui venne principalmente affidato il potere, che i romani denominavano iurisdictio, con cui dirimere i contenzioni che sorgevano tra cittadini romani Il pretore, chiamato urbanus perché amministrava la giustizia a Roma, aveva infatti l’incarico, quando si verificava una lite, di appurare che la pretesa del denunciante meritasse tutela giuridica, di individuare conseguentemente il principio di diritto applicabile alla specifica controversia (ius dicere2) ed infine, al termine di questa fase (in iure), di nominare con il consenso delle parti un giudice (iudicem dicebat). Il giudice, che era un privato cittadino, verificava a questo punto i fatti dichiarati dalle parti, raccoglieva le prove e pronunciava la sentenza sulla base dei termini giuridici fissati dal pretore.

In seguito, divenuta Roma una città in cui confluivano genti di diversa nazionalità e non essendo quell’unico pretore più sufficiente ad occuparsi di tutte le vertenze («non sufficiente eo praetore»3), fu creato nel 242 a.C. un altro pretore, chiamato peregrino per il fatto che amministrava per lo più il diritto tra gli stranieri («creatus est et alius praetor, qui peregrinus appellatus est ab eo, quod plerumque inter peregrinos ius dicebat»4). Dal pronome indefinito utilizzato (plerumque), discende che il pretore peregrino, oltre ad impostare i termini delle controversie tra stranieri (inter peregrinos), amministrava anche quelli tra stranieri e cittadini romani (inter peregrinos et cives), vale a dire, in definitiva, quelli in cui fosse coinvolto almeno uno straniero. Non gli era in aggiunta neppure preclusa la competenza sui contenziosi tra romani (inter cives) e, quindi, agiva in analogia e con gli stessi poteri del pretore urbano.

L’istituzione di questa carica conseguì anche dal fatto che al diritto romano era estraneo il principio della territorialità della legge, per cui non poteva applicarsi agli stranieri l’ordinamento riservato ai romani (ius civile) e, di conseguenza, dovevano elaborarsi norme specifiche5 per risolvere eventuali conflitti sorti con i peregrini basandosi per lo più sul complesso delle norme giuridiche comuni a tutti i popoli (ius gentium). Tranne questa possibilità concessa al pretore peregrino di avvalersi di una procedura più snella – che con il passare del tempo finì per essere sostanzialmente adottata anche dal pretore urbano – non c’era altra differenza sostanziale, tant’è che era il sorteggio a stabilire quale dei pretori eletti dovesse esercitare il potere di “esporre il diritto” inter cives e chi inter peregrinos et cives.

Qualche anno dopo, nel 227 a.C., si decise di creare due nuovi pretori con il compito di governare le due prime province istituite, vale a dire la Sicilia e la Sardegna. Ai tempi di Levino venivano pertanto eletti quattro pretori che per il 215 a.C. furono appunto il nostro Marco Valerio Levino, Appio Claudio Pulcro, Quinto Fulvio Flacco e Quinto Mucio Scevola («praetores inde creati M. Valerius Laevinus iterum, Ap. Claudius Pulcher, Q. Fulvius Flaccus, Q. Mucius Scaevola»6). Alle idi di marzo, quando essi entrarono in carica, a Valerio Levino toccò in sorte la giurisdizione peregrina; a Fulvio Flacco quella urbana; a Claudio Pulcro andò la pretura della Sicilia e a Mucio Scevola quella della Sardegna («Praetores Q. Fulvius Flaccus… urbanam, M. Valerius Laevinus peregrinam sortem in iuris dictione habuit; Ap. Claudius Pulcher Siciliam, Q. Mucius Scaevola Sardiniam sortiti sunt»7).

Ma in quel particolare momento risultava preminente contrastare lo strapotere cartaginese nella penisola e, quindi, impiegare le principali risorse nella guerra in atto. Levino non poté così esercitare la pretura peregrina perché destinato in Apulia per presidiarla con milizie provenienti dalla Sicilia («Valerium praetorem in Apuliam ire placuit… cum ex Sicilia legiones venissent, iis potissimum uti ad regionis eius presidium… »8)

Anche Wikipedia annota l’utilizzo di Levino in attività militari motivandolo con il «periodo di grande crisi per la Repubblica» e facendoci però in aggiunta sapere che «tutti i magistrati civili ricevettero comandi militari». Quest’ultima affermazione denota indubbie lacune nelle conoscenze dell’impianto costituzionale romano ed è alquanto sorprendente.

A rigor di termini, la pretura non può infatti dirsi una magistratura civile – e basterebbe considerare i pretori, mandati, come già riportato, a governare le province ed a guidare le legioni lì destinate, per rendersene conto. Il pretore aveva sì, come nei casi di quello urbano e peregrino, prevalenti funzioni giusdicenti ma risultava anche collega, benché dotato di minore autorità, dei consoli (conlega minor) e, di conseguenza, quando costoro erano lontani da Roma, era incaricato della loro sostituzione (imperium domi). In aggiunta era anche titolare dell’imperium militiae e quindi legittimato a comandare l’esercito ed ad assumere tutte le competenze derivanti da questo potere.

Il coinvolgimento nelle attività militare rientrava in conclusione nelle specifiche prerogative della carica, e non era certo conseguente ad un fatto estemporaneo come la semplicistica conclusione a cui perviene l’enciclopedia libera lascerebbe far credere. Sintomatico in tal senso il passo di Livio che, nel narrare il fatto, afferma che neppure ai pretori eletti per esporre il diritto fu concessa l’esenzione del governo militare («ne praetoribus quidem qui ad ius dicendum creati erant vacatio a belli administratione data est»9). Chiarendo così in maniera inequivocabile che alla carica spettavano compiti di carattere militare, dai quali i pretori urbano e peregrino erano comunemente esentati.

Se poi, per semplificare, dovessimo considerare i pretori magistrati civili, dovremmo ritenere tali anche le altre magistrature dell’ordinamento romano, e, da quel tutti usato nella scheda, finiremmo per desumere che anche agli edili ed ai questori sia stato assegnato il comando militare. Cosa che, neppure in quel particolare frangente, è avvenuta.

Gli equivoci sulla figura del pretore peregrino si ampliano analizzando la scheda specifica che Wikipedia pubblica per il pretore romano. In questa10 è infatti possibile leggere che il pretore peregrino si occupava «di amministrare la giustizia nelle campagne». Come dire peregrinus contrapposto ad urbanus e, quindi, se questi stava in città, quello errava nelle campagne.

A parte il fatto che non si capisce perché il pretore peregrino dovesse amministrare la giustizia nelle campagne, quando la gran parte (se non la quasi totalità) degli affari svolti anche dagli stranieri avveniva nell’Urbe, questa visione sembra cozzare con le fonti che non hanno mai indicato differenze sui luoghi in cui i pretori svolgevano le loro funzioni. Al contrario, il pretore urbano e quello peregrino amministravano la giustizia a Roma. Lo riferisce a chiare lettere Livio quando ci riporta che i pretori stabilirono vicino alla pubblica piscina il luogo in cui fissare i tribunali dove, per quell’anno, avrebbero detto il dirittoPraetores quorum iuris dictio erat tribunalia ad Piscinam publicam posuerunt… ibique eo anno ius dictum est»11).

Come in altri casi analoghi, questa versione, proposta da Wikipedia sui presunti luoghi di campagna in cui il pretore peregrino amministrava la giustizia, riecheggia un’ipotesi superata, rinvenuta magari in uno dei tanti vecchi testi la cui copia digitale è disponibile in rete. Ed è un chiaro sintomo di come, con un copia e incolla acritico, si finisca per riportare in vita teorie poco attendibili che il mondo scientifico ha ormai abbandonato da tempo12.

Tornando al nostro Levino, Livio ci fa sapere che gli furono affidate anche 25 navi con le quali pattugliare il litorale tra Brindisi e Taranto («et viginti quinque naves datae quibus oram maritimam inter Brundisium ac Tarentum tutari posset»13. Infatti, temendo colpi di mano da parte di Filippo V di Macedonia che nel frattempo s’era alleato con Annibale, il console Tiberio Sempronio Gracco lo aveva mandato a Brindisi per difendere la costa salentina («Brundisium… misit tuerique oram agri Sallentini»14).

L’anno successivo, nel 214 a.C., Levino non poteva essere nuovamente eletto pretore tuttavia, poiché il suo apporto era necessario, gli fu prorogato l’imperium militiae. Era questa una procedura adottata per consentire a chi aveva incarichi militari di portare a termine le azioni belliche che superavano il limite annuale della carica. In questi casi, l’ordinamento romano prevedeva infatti la possibilità di ricorrere alle promagistrature con cui si prorogavano le funzioni militari ai magistrati in scadenza15. E quindi Levino, pur non rivestendo più la carica di magistrato, poté, in forza della prorogatio imperii, continuare le operazioni militari come propretore16.

In quell’anno talmente difficile per Roma la proroga riguardò tutti quelli che guidavano reparti militari, i quali rimasero così nelle rispettive zone d’influenza («Prorogatum deinde imperium omnibus qui ad exercitus erant iussique in provinciis manere»17). Lo stesso capitò a Levino che si vide rinnovato il comando della flotta di stanza a Brindisi, sempre con l’incarico di vigilare su ogni manovra del re macedone Filippo («M. Valerius ad Brundisium orae maritimae, intentus adversus omnes motus Philippi Macedonum regis»18).

Levino diventò quindi di casa a Brindisi19 al punto da eccitare le fantasie dei più noti cronisti brindisini che confezionarono una vicenda epica di cui non si ha alcun riscontro nelle fonti narrative antiche.

Iniziò Giovanni Maria Moricino20 e, naturalmente, gli andò dietro Andrea Della Monaca21 che, com’è noto, ricopiò quasi fedelmente il suo manoscritto. Anche il canonico Pasquale Camassa (figura n. 1) — per il quale, serve ricordarlo, noi brindisini nutriamo una più che giustificata riconoscenza per quanto egli ha fatto per preservare dalla distruzione più d’un nostro monumento storico e per lo sviluppo culturale della nostra città — riprese, sia pure in maniera più succinta, lo stesso racconto. Papa Pascalinu, come affettuosamente viene ricordato in città, nutriva un amore incondizionato per Brindisi, e ciò lo portava già di per sé ad abbellire la ricca storia cittadina con qualche piccola creazione. Qui usò anche la fantasia altrui riportando l’episodio nel suo libro sulla storia di Brindisi22, il cui intento di sfruttare nel migliore dei modi la fortuna di cui godevano in quel particolare periodo le passate glorie dell’impero romano è del tutto evidente sin dal titolo e dal riferimento contenuto sulla copertina (figura n. 2).

velente

Nel caso specifico il tutto prendeva spunto da un passo di Livio.

Lo storico patavino narra di come Annibale, sulla scia dei successi ottenuti, tenti di attirare nella propria orbita le città salentine. Quando non riesce a farlo con le blandizie o con la forza, lo stratega cartaginese utilizza sotterfugi contando sulla eventuale presenza di quinte colonne nelle comunità. L’espediente gli riesce, ma non del tutto, a Taranto dove, grazie all’aiuto di tredici cospiratori quasi tutti giovani nobili («tredecim fere nobiles iuvenes Tarentini coniuraverunt»23), prende la città, senza però essere in grado di espugnare la rocca, in cui si trincerano i resti del presidio romano ed i tarantini rimasti a loro fedeli. Per questo ripiega su Brindisi sperando di poterla avere per tradimento («ad Brundisium flexit iter, prodi id oppidum ratus»24).

Qui s’inserisce papa Pascalinu per narrare che il propretore Valerio Levino, saputo dell’approssimarsi dell’esercito punico, «raccolti i cittadini a parlamento, ricordò ad essi il grande valore, di cui diedero saggio nella sfortunata giornata di Canne»25 e, tanto per rincarare la dose, anche «l’intrepido coraggio dei brindisini sopravvissuti a quell’orrenda carneficina»26. Rincuorò i timorosi, caso mai ve ne fossero stati, e ricordò che Brindisi, diversamente da Taranto, «si era sempre e costantemente serbata fedele a Roma»27 tanto che «alcuni dei suoi concittadini erano stati dalla Repubblica chiamati ad alte ed onorifiche cariche e magistrature»28. Naturalmente le parole di Levino non potevano che fare breccia nei saldi cuori dei brindisini i quali si prepararono alla difesa con simile ardore che Annibale «desisté dall’impresa»29.

Nella realtà, Brindisi non aveva nessuna necessità di essere stimolata a resistere, vivendo una situazione completamente diversa da quella della città ionica. La politica romana ne favoriva in tutti i modi il porto, il che incrementava in maniera considerevole le attività economiche facendola divenire ricca e rinomata. La condizione di colonia latina le consentiva inoltre di fruire, oltre alla più ampia autonomia interna, anche dei privilegi che il diritto latino comportava. Alla fin fine, i Brindisini avevano tutto l’interesse a stare con l’Urbe lasciando cadere ogni tentativo di Annibale che, peraltro, era uno stratega troppo navigato per sperare, anche lontanamente, di poterla prendere con la forza. Si può pertanto ritenere che i Romani contassero sulla fedeltà di Brindisi, mentre dei Tarantini diffidavano, sospettando da tempo che potessero ribellarsi da un momento all’altro («Cum Tarentinorum defectio iam diu… in suspicione Romanis esset»30).

Significativo infine che la manovra cartaginese per impossessarsi di Brindisi venga liquidata da Livio con poche ed essenziali parole: anche qui Annibale sprecò tempo inutilmente («Ibi quoque cum frustra tereret tempus»31). Lo storico patavino non fa invece alcun cenno all’accorato discorso fatto da Levino, per il semplice motivo che questi si trovava da tutt’altra parte, ed in tutt’altre faccende affaccendato. Annibale decide appunto di ripiegare su Brindisi, subito dopo la battaglia di Herdonea. Siamo di conseguenza nel 212 a.C., allorquando Valerio Levino, propretore in Grecia («imperium… Graecia M. Valerio»32), è già da tempo lontano da Brindisi e di fatto impossibilitato a pungolare lo spirito guerriero dei brindisini.

Come dire che ci troviamo di fronte ad una vera e propria fake news da cui anche i compilatori di Wikipedia, non tenendone conto, hanno preso giustamente le distanze.

Ma ci sono occasioni in cui le bufale storiche non risparmiano neppure l’enciclopedia più letta al mondo. Come vedremo nella prossima puntata.

 

Note

1 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Valerio_Levino (13.11.2017).

2 Dire il diritto nel senso di esporre (o mostrare) il diritto.

3 Pomponio (… – II secolo d.C.), in Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, D.I.2.2.28.

4 Pomponio, Cit., D.I.2.2.28.

5 Il complesso di norme introdotte a seguito di questa attività del pretore peregrino composero lo ius honorarium.

6 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 24, 4.

7 Livio, Cit., XXIII 30, 18.

8 Livio, Cit., XXIII 32, 16.

9 Livio, Cit., XXIII 32, 15.

10 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Pretore_(storia_romana) (13.11.2017).

11Livio, Cit., XXIII 32, 4.

12 Sembrerà strano ma anche la più fantasiosa teoria trova i suoi adepti, a volte del tutto insospettabili.

13 Livio, Cit., XXIII 32, 17.

14 Livio, Cit., XXIII 48, 3.

15 Il ricorso alle promagistrature (propretore e proconsole) iniziò ad essere imponente proprio in occasione della seconda guerra punica; dal secolo successivo la prorogatio imperii fu utilizzata soprattutto per la prosecuzione di azioni militari nelle province. Ai tempi di Silla, quando il consolato e la pretura mantennero solo l’imperium domi, divenendo di fatto magistrature esclusivamente urbane, solo i promagistrati potevano essere a capo delle milizie e governare le province.

16 Il prefisso pro ritengo sia da intendersi nel senso di “a titolo di” o “in qualità di” e non in quello che comunemente diamo in lingua italiano di “al posto di” o “in sostituzione di”.

17Livio, Cit., XXIV 10, 3.

18 Livio, Cit., XXIII 10, 4.

19 Citata più volte da Livio come centro d’azione della flotta guidata dal propretore Levino (livio, Cit., XXIV11,3 e livio, Cit., XXIV 20, 12).

20 G. M. Moricino, Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/12, 1760-1761, 104r/107r.

21 A. della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Lecce 1674, Pietro Micheli, pp. 199/206.

22 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.

23 Livio, Cit., XXV 8, 3.

24 Livio, Cit., XXV 22, 14.

25 P. Camassa, Cit., p. 24.

26 P. Camassa, Cit., p. 24.

27 P. Camassa, Cit., p. 25.

28 P. Camassa, Cit., p. 25.

29 P. Camassa, Cit., p. 25.

30 Livio, Cit., XXV 7, 10.

31 Livio, Cit., XXV 22, 15.

32 Livio, Cit., XXV 3, 6.

 

In un moderno oleificio

di Maria Grazia Presicce

disegno a matita di Maria Grazia Presicce
disegno a matita dell’autrice

 

Siamo in novembre, periodo di raccolta e molitura delle olive.  Da tempo, desideravo entrare in un oleificio moderno mentre era in funzione per tornare in una realtà che mi è appartenuta da bambina e poter gustare ancora quel mondo e perdermi negli effluvi del luogo, almeno…così immaginavo!

vecchio frantoio a Borgagne
vecchio frantoio a Borgagne (foto dell’autrice)

 

Quest’opportunità è avvenuta per caso e così un mattino, dopo aver comprato dell’olio nello spaccio dell’Oleificio trovando aperto il frantoio, non ho resistito alla voglia di entrare e lasciarmi inondare dalle essenze di quell’atmosfera a me cara. Dapprima ho spiato titubante poi, visto che intorno non c’era anima viva, mi sono addentrata…s’intuiva, comunque che c’era qualcuno: la luce nell’ufficio era accesa.

Nell’ampio e alto stanzone, su un lato del muro, enormi cassoni di olive erano impilati mentre, nei pressi la porta dell’ufficio, stazionavano due cassoni colmi di turgide e nere olive sicuramente scaricate da poco. Sulla superficie. Infatti, alcuni rametti di ulivo verdi rallegravano il nero del raccolto e ne denotavano la freschezza.

foto dell’autrice

 

Continuavo a guardarmi intorno. Sulla sinistra, da un’ampia porta, si stagliavano, in bella mostra, una fila di alti e lucenti serbatoi e tutt’intorno, numerosi bidoni di plastica con appeso un cartellino, parevano in attesa…

foto dell’autrice

Immobile osservavo e provavo a percepire profumi ed essenze quando, finalmente, un signore mi viene incontro – scusate l’intromissione, …volevo semplicemente cogliere le antiche fragranze…mi piaceva immergermi negli antichi profumi …sa, i miei nonni avevano un antico frantoio e lì dentro le sensazioni, il calore, le fragranze si percepivano e quasi le toccavi e t’inondavano silenti…

Mi lascia parlare, poi ci presentiamo. Potremmo avere la stessa età – Eh sì cara signora, quei luoghi, quegli odori non esistono più. Come vedi, qui ora non ci sono “essenze” … è tutto diverso. Una volta, il frantoio, aveva un’anima e calore e colore e cuore… adesso è tutto automatizzato e i profumi sono incapsulati nelle macchine addette alla produzione…è tutto veloce…si fa in fretta, non c’è tempo per penetrarne gli aromi.

Ci guardiamo. Nello sguardo c’è tutto. – Venga! Venga a vedere cos’è oggi il frantoio…

Ci spostiamo. M’introduce in un vasto e aperto ambiente occupato, su ambo i lati, da due marchingegni luccicanti, fissi alla base, che si dispiegano per quasi tutta la lunghezza del locale. Qui il rumore diffuso dei macchinari sovrasta la voce. E’ freddo l’ambiente, non c’è colore, né calore, né profumo…

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foto dell’autrice

Pur essendoci olive nelle casse e altre olive inghiottite e maciullate dai robot lucenti, non c’è quell’aroma di olio mosto…

Pochi uomini all’interno dell’oleificio; solo due o tre…e bastavano per azionare, revisionare e sorvegliare quegli androidi che, immobili, svolgevano e producevano…

Mi soffermo e ripenso alla fatica di un tempo e rivedo i fisculi pieni di poltiglia di olive e le presse mosse dalle braccia degli uomini che, a turno, s’affaccendavano a spingere e risento il ticchettio dei perni e avverto il colare dell’olio nel tino sotto il canaletto della pressa…

Quanta fatica! E non solo dell’uomo, anche delle bestie… il cavallo che, nel vecchio frantoio dei nonni, girava bendato la grossa macina di pietra…e poi le donne che, nel vento, nel sole, nella pioggia, nel freddo coglievano le olive una ad una. …Vero, altri tempi però…

immagine tratta da http://www.presepioelettronico.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=4508
immagine tratta da http://www.presepioelettronico.it/forum/topic.asp?TOPIC_ID=4508

 

-Di qua, di qua…- l’operatore solerte mi precede mentre continua a spiegare le moderne fasi di lavorazione – qui, in questa vasca sommersa, si versano le olive raccolte e sporche di foglie di terra, di pietruzze e quel nastro convettore poi, le incanala in quella macchina selezionandole, scartando pietre e foglie, convogliandole, rapidamente, in un’altra vasca che le lava.

E davvero non mi pare vero! Sotto i miei occhi, per magia, quelle olive che avevo visto sporche di tutto, si ripulivano e i rimasugli si raccoglievano in contenitore, mentre, più su, le olive sporche di terra si docciavano prima di essere centrifugate riducendosi in una poltiglia densa, lucida e nerastra.

foto dell’autrice

 

Non c’era sosta nel marchingegno. Il ciclo continuava su un rullo mobile che divideva l’olio dal residuo acquoso e finalmente, da un tubo d’acciaio, l’olio, giallo e lucente, fluiva in un bidone di plastica bianca, simile a quelli che sostavano vicino ai serbatoi del primo stanzone.

Guardavo l’olio colare copioso, ma…ancora quel tipico odore di olio mosto non lo coglievo e allora – posso assaggiare? – Allungo un dito e l’ho intingo e finalmente gusto, però… manca qualcosa…e il mio cuore a percepirlo.

foto dell’autrice

 

Manca l’armonioso afflato dell’uomo che quelle olive ha raccolto e portato a macinare…manca la trepida attesa e poi l’assaggio nel luogo del “parto” e della nascita di quel filo d’olio che, una volta, colava sul pane nell’istante che veniva alla luce per essere gustato e valutarne la preziosa bontà…

Proprio così…quel luogo risultava anonimo, mancava la dedizione, il cuore della gente. La molitura delle olive, un tempo era una cerimonia e ogni fase si viveva, penetrava nell’animo e quando, in un unico piatto di olio mosto, la gente che vi lavorava inzuppava il pezzetto di pane, la fragranza penetrava nel cuore e si spandeva sul viso …

E’ vero, ora è tutto semplificato, è vero oggigiorno il lavoro costa meno fatica e va bene così, ma secondo me, nel moderno vivere, c’è un po’ troppa superficialità…

Copertino e un suo figlio marinista: Giuseppe Domenichi Fapane

di Armando Polito

Se, dato il suo cognome …, fosse stato anche un fornaio, del copertinese, probabilmente, sarebbe rimasta più longeva memoria. Eppure, come vedremo, ai suoi tempi godette di una certa considerazione, anche se non ci è dato sapere se, per restare al gioco di parola iniziale, anche lui fu vittima dell’antico adagio Carmina non dant panem1 (La poesia non dà pane). A beneficio dei lettori più giovani, figli della Buona scuola, dico solo (nell’illusione che almeno i più curiosi cedano una volta tanto alla tentazione di usare il loro smartphone per un fine meno banale del solito … ) che marinista non è un titolo onorifico assunto in giovane età in virtù di un cospicuo numero di giorni di lezioni disertate e che non vale neppure come frequentatore assiduo di marine (anche se non è da escludere che almeno una volta il Fapane abbia fatto il bagno nelle acque di S. Isidoro …).

Lasciando da parte le correnti (marine e letterarie …), essere socio di un’accademia nel XVII secolo era per un letterato un fatto scontato come lo è oggi per tanti aderenti a sodalizi più o meno culturali, con la differenza che allora non era certo il pagamento della tassa d’iscrizione la condizione per farne parte.

Molti letterati, poi, aderirono contemporaneamente a più di un’accademia e credo che l’accoglimento della loro domanda costituisse e costituisca  la prova del prestigio di cui godevano.

Giuseppe fu socio dell’accademia neretina degli Infimi, sorta fin dal 1577 sulle ceneri di quella dell’Alloro2, e di quella sorrentina dei Ripercossi, in cui ebbe il nome accademico di Furibondo3. Non sempre le accademia pubblicavano i propri atti, raramente i contributi dei loro soci e lo studioso che voglia conoscerne, almeno parzialmente, la produzione, deve operare ricerche non facili in pubblicazioni collettanee.

Per fortuna le cose stanno diversamente per il copertinese che inserì i suoi contributi all’accademia sorrentina alle pp. 307-310 del penultimo dei sei volumi della sua raccolta di epigrammi dal titolo Castaliae stillulae ducentae quae primum rivulum permissi conficiunt uscita dal 1654 al 16714.

In Antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia letteraria, Roma, 2007, a p. 91 nota 7 si legge che il Fapane fu autore anche del poema eroico La Beotica, o vero le Beotiche Acclamazioni, Napoli, Mollo, 1667; nonostante le precise indicazioni bibliografiche di questo testo non son riuscito a trovare alcun riscontro nei repertori, OPAC compresa.5 Quest’ultima, invece, del nostro, oltre alla Castaliae stillulae, registra anche, Iberi fulminis scintilla brevia poemata, Pietro Micheli, Lecce, 1654 (il fulminis della scheda, ovviamente, va corretto in fluminis). Superfluo aggiungere che tutti i testi citati sono rarissimi.

Non avrebbe senso ridurre questo post alle poche informazioni fin qui fornite senza presentare qualche assaggio del poeta copertinese.

Comincio con il primo della serie dei suoi contributi accademici pubblicati nel quinto volume delle Castaliae stillulae con, di mio, la traduzione e qualche nota. All’argomento segue un componimento formato da cinque distici elegiaci.

Ad problema in Academia Repercussorum Surrentina vulgatum. Cur in sepulchris maiorum Canis sub pedibus insculpebatur.

Parca ferox tumulat veterum tot corpora Avorum;

gaudet et in tumbis consociare feras.

Cur canis ad tumulum? Vivit nam fama superstes

et bona Virtutis non cinefacta manent.

Inclyta gesta vigent; perimunt non fata vigorem,

quem tibi defuncto dat generosus Honor.

Hinc Canis, Aegyptus facie disculpsit Anubim,

qui bene Mercurius fronte, latrator erat.

Cura igitur Virtutis opus, si marmora curas;

namque tuo vigilat nomine Fama volans.   

 

(Per un problema diffuso nell’accademia sorrentina dei Ripercossi. Perché nei sepolcri degli antenati era scolpito un cane ai piedi.

La feroce Parca seppellisce tanti corpi di vecchi avi e le piace associare animali. Perché il cane presso una sepoltura. In fatti la fama sopravvive ed i beni del valore non restano ridotti in cenere. Le gesta illustri sini piene di vita, il destino non ne annientano il vigore che a te defunto conferisce il generoso onore. Da qui l’Egitto rappresentò Anubi con l’aspetto di cane; colui che opportunamente era Mercurio nell’aspetto era un abbaiatore. Cura dunque l’esercizio della virtù, se hai cura dei monumenti; infatti la fama che vola resta sveglia per la tua reputazione).

 

Oggi, in tempi in cui i concetti di economia e perfino certa ecologia … coincidono largamente con quelli di finanza e profitto subito e per pochi,  fa sorridere più di qualcuno il problema risolto dal copertinese, ma siamo noi in difetto ed è già qualcosa conoscere il sostrato culturale messo in campo dal copertinese, sia pur sintetizzato in due soli passaggi, il primo egizio, il secondo romano. Anubi e Mercurio sono accomunati dall’essere cinocefali, dall’avere, cioè la testa di cane. In entrambi i casi l’uomo-cane (ovvero la divinità con fattezze miste di uomo e di cane) ha la valenza simbolica di tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Statuetta lignea di Anubi risalente al VII secolo a. C. conservata nel Walters Art Museum a Baltimora
Statuetta lignea di Anubi risalente al VII secolo a. C. conservata nel Walters Art Museum a Baltimora
Mercurio Cinocefalo e Arpocrate; tavola tratta da Pietro Santi Bartoli, Museum Odescalchum sive thesaurus antiquarum gemmarum, tomo II, Salomoni, Roma, 1752.
Mercurio Cinocefalo e Arpocrate; tavola tratta da Pietro Santi Bartoli, Museum Odescalchum sive thesaurus antiquarum gemmarum, tomo II, Salomoni, Roma, 1752.

 

Arpocrate era una divinità egizia, figlio di Iside ed Osiride. Anch’esso venne adottato dalla religione greca e romana rappresentando il dio del silenzio, con un dito alla bocca e con un mantello (qui mancante) ricoperto di occhi e di orecchi.

La testimonianza figurativa più suggestiva del gemellaggio Anubi/Mercurio è nell’Hermanubis custodito nei Musei Vaticani (immagine seguente).

Non è azzardato supporre che questo fosse lo sviluppo in chiave religiosa dello sbigottimento provocato dalla mostruosità; non a caso monstrum in latino ha il significato base di portento, prodigio ed è deverbale da monere che significa avvertire, ammonire. Come tanti altri dettagli pagani anche questa scelta rappresentativa passò nel Cristianesimo; basti pensare al san Cristoforo cinocefalo di tanti affreschi bizantini.

San Cristoforo Cinocefalo in affresco custodito nel Museo bizantino e cristiano di Atene
San Cristoforo Cinocefalo in affresco custodito nel Museo bizantino e cristiano di Atene

 

Tornando ora al nostro Giuseppe, va sottolineata la sobrietà stilistica della sua composizione che ben poco concede alle astrusità concettuali (in primis metafore ardita ed in alcuni casi di non immediata comprensione) tanto in voga nella produzione letteraria barocca.

Il 9 marzo del 1675 moriva il letterato grottagliese Giuseppe Battista, per il quale rinvio al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/. Qui mi limito a ricordare che in occasione del triste evento venne pubblicata a Napoli per i tipi di Ludovico Cavallo una raccolta di poesie commemorative dal titolo  Musarum lessus in obitu Iosephi Baptistae, della quale il copertinese fu il curatore nonché l’autore di alcuni componimenti. Di questo volume l’OPAC registra l’esistenza di un solo esemplare custodito presso la Biblioteca Calasanziana a Campi Salentina.

Che la stima fra i due fosse reciproca lo testimoniano due sonetti che il Battista inserì a p.389 di Epicedi eroici, Bologna, Erede di Domenico Barbieri, 1669 e che di seguito riproduco. Il primo è del copertinese, il cui nome  in alcuni repertori è riportato, e qui così si legge, come Giuseppe Domenichi; il secondo, in risposta, del grottagliese.

Ora metto in atto il consueto espediente, cioè la trascrizione, per poter commentare il tutto nelle note  aggiunte.

Il Battista denota in questa risposta, come nelle altre alle poesie della stessa raccolta dedicategli da altri poeti, grande abilità formale e grande facilità di versificazione: utilizza le stesse rime e quasi sempre le stesse parole-rima (uniche eccezioni, per queste ultime, irsuta, canori, rossori e Pegaso. Da notare ancora che nel Battista ricorrono (fenomeno assente nel sonetto del Fapane) ferètro e Pegàso; ciò va considerato, vista l’abilità dell’autore,  come una sottigliezza formale, una vezzosa eleganza e non un espediente per rientrare nei canoni metrici.

Costituiscono poi un’ulteriore testimonianza della reciproca stima due lettere (che qui per brevità non rioroduco) indirizzate dal Battista al Fapane, inserite alle pp. 137 e 161 dell’epistolario del grottagliese pubblicato postumo da suo nipote Simon Antonio per i tipi di Combi e La Noù a Venezia nel 1578.

Ancora: in Notizie di Nobiltà. Lettere di Giuseppe Campanile accademico Umorista e Ozioso, Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1672 (le pagine non sono tutte numerate) del copertinese6 compaiono i contributi che seguono.

Alla fine della dedica della sua opera a Bartolomeo di Capua l’autore riporta, quasi ad avallo della stessa un componimento del copertinese in distici elegiaci. Il Campanile non l’avrebbe pubblicato, insieme con quello in italiani che vedremo più in là se fosse stato scritto da uno qualunque e, d’altra parte, il nostro non lo avrebbe scritto, a sua volta, per uno qualunque. Basti ricordare gli altri titoli del Campanile (visse dal 1630 al 1674): Parte prima delle poesie, Cavallo, Napoli, 1648; Lettera storica, e iuridica, s.n., s. l., 1666; Dialoghi morali dove si detestano le usanze non buone, di questo corrotto Secolo, Agostino di Tomasi, Napoli, 1666; Prose varie, Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1666. Siccome, poi, è meglio abbondare che essere in difetto, ecco prima il suo ritratto a corredo di Notizie di nobiltà.

Quam bene Palladia Phoebique ex arbore germen/praecingit vultus, vir venerande, tuos!/Nam sacra cum teneas Pimplei culmina montis,/teque libenter foveat casta Minerva sinu/iure quidem ingenii tibi sculpsit honores/arbore cum gemina pictor in aere sagax. Antonius Martina

(Quanto bene il germoglio dell’albero di Pallade [l’ulivo] e di Febo [l’alloro] cinge il tuo volto, uomo venerando! Infatti tenendo tu le sacre vette del monte Pimpla e volentieri accogliendoti in seno la casta Minerva, a buon diritto il perspicace pittore incise per te nel rame gli onori gemelli dell’ingegno insieme con i due alberi. Antonio Martina).

A destra, fuori dall’ovale del ritratto e della specie di cartiglio inferiore, si legge il monogramma FP, le cui difficoltà di scioglimento fanno restare sconosciuto il nome dell’incisore, mentre Antonio Martina è l’autore dei versi elogiativi ma nulla sono riuscito a trovare su di lui.

Ecco il primo pezzo del copertinese da Notizie di nobiltà.

ILLUSTRISSIMO, ET EXCELLENTIS. DOMINO BARTHOLOMAEO de Capua, Altavillae Magno Comiti, cui Ioseph Campanile Historias Familiarum dicat, Ioseph Domenichi.

Historias Ioseph texit: priscique triumphos/temporis; et nostrae stemmata Parthenopes./Haec nulli poterat scriptor monumenta dicare,/quam tibi, qui Heroum vincere facta soles./Tu calami et gladii superasti nomine famam;/tu calamo, et gladio tempora clarificas./Hinc Campanilis, pennam dat iure columba;/ut tua7 gesta sones; ut sua scripta canas.

(All’illustrissimo ed eccellentissimo don Bartolomeo di Capua, gran conte di Altavilla, al quale Giuseppe Campanile dedica le Storie di famiglie. Giuseppe Domenichi.

Giuseppe ha intessuto le storie e i trionfi del tempo antico e i titoli nobiliari della nostra Partenope. A nessuno poteva dedicare queste testimonianze se non a te, che sei solito superare le gesta degli eroi. Tu con la tua rinomanza nelle lettere e nelle armi hai superato la fama, tu con la penna e con la spada glorifichi i tempi. Perciò a buon diritto, o Campanile, la colomba dà la penna, affinché tu faccia risuonare le sue gesta e canti i suoi scritti)

A distanza di qualche pagina di questa sorta di dedica alla dedica si legge questo sonetto.

Ancora più avanti (questa volta la pagina reca il n. 133) è riportato l’epigramma in distici elegiaci che il Fapane dedicò a Matteo Cosentini (1632-1702) per la sua elezione a vescovo d’Anglona e Tursi da parte del papa Clemente IX nel 1667.

(L’infula8 che per te, presule, risplende sulla fronte non decora i capelli ma ne è stata decorata. La tua nobiltà è abbastanza nota, abbastanza noto il tuo corredo di virtù ed abbastanza noti i beni del tuo animo. La tua benefica famiglia ha partorito leoni sotto i monti9 e la pianta di Delfi10 ti rende dorata la chioma. Dunque quale sarà ora per te sarà per te il titolo di presule? Come per averlo meritato sei eccellente cosi lo meriti per essere stato eccellente).

Come testimonianza finale del prestigio goduto dal copertinese riporto tre documenti. Il primo è una lettera del 4 marzo 1669 custodita nella Biblioteca Universitaria Genovese ((Ms.E.IV.14) inviata dal poeta marinista Antonio Muscettola (1628-1679) ad Angelico Aprosio (1607-1681) per ringraziarlo dell’invio di un pacco di libri contenente, fra gli altri, la quinta stilla del Domenichi.

 

Il secondo documento è un sonetto a lui dedicato da Baldassarre Pisani, altro marinista, nelle sue Poesie liriche, Pezzana, Venezia, 1676, p. 77.

Due sonetti sono in Tommaso di S. Agostino, Strada franca al cielo per il peccatore, Mollo, Napoli, 1677

L’ultimo documento è un sonetto-invito di Pietro Casaburi Urries nel suo Le sirene: poesie liriche, Novello De Bonis, Napoli, 1676 v.II, p. 104. Al di là della formalità non solo stilistica che contraddistingue la letteratura di quell’epoca il Casaburi, che in altri componimenti elogia nomi che ho già anuto occasione di citare in questo lavoro (Giuseppe Battista, Antonio Muscettola) avrebbe rivolto il suo invito proprio al copertinese, se non avesse sentito, oltre che ammirazione (Tu, ch’Arpa hai sì chiara) per lui anche una certa affinità spirituale?

 

Giunto al momento di chiudere, pongo a me stesso ad al lettore la seguente domanda: un personaggio di tale spessore non avrebbe meritato, e da tempo, almeno l’intitolazione di una via?

_______________

1 La paternità del desolante adagio latino (del quale, attribuendo a poesia il significato estensivo di arte, la politica ha fatto il suo stendardo) è ignota, anche se in rete e precisamente all’indirizzo http://www.film-review.it/forum/showthread.php?p=2811 viene attribuita criminalmente ad Orazio. Molto probabilmente non è di origine dotta, sarà nata nell’ambiente goliardico  e già in una lettera sa Londra indirizzata al nipote in data 3 giugno 1775 Giuseppe Baretti riportava lo stesso adagio con l’integrazione sed aliquando famem (ma talora fame).

2 Archivio storico per le province mapoletane, anno III, fascicolo I, Stabilimento tipografico Giannini, Napoli, 1878, p. 294.

3 Archivio storico per le province mapoletane, op. cit., p. 310.

4 Il primo volume per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1654; il secondo per i tipi di Luca Antonio Fusco a Napoli nel 1658, il terzo per i tipi di Paolo Frambotti a Padova nel 1659; il quarto per i tipi degli Eredi di Paolo Vigna a Parma nel 1662; il quinto per i tipi di Sermantelli a Firenze nel 1667 e il sesto per i tipi di Ambrogio De Vincentiis a Genova nel 1671.

5 Nicolò Toppi nella sua Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 1678, a p. 394 a proposito di Giuseppe Domenichi (prima, a p. 172, Giuseppe Domenico Fapano) scrive: Tiene prossime da stamparsi I Tronchi di Parnasso, Foresta di poesie Italiane.La Staffetta Capricciosa.Lo Spoglio Poetico, et Istorico. Syrenum Petra Satyricon con molte altre Opere d’eruditione, così Latine, come Toscane. Chissà se almeno uno di questi manoscritti giace ancora da qualche parte.

6 Ma anche di altri letterati salentini, come Gregorio Messere di Mesagne (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/) e il già ricordato Giuseppe Battista.

7 Errore per sua.

8 Nella religione greca e romana era una fascia di lana, simbolo della consacrazione agli dei, che i sacerdoti cingevano attorno al capo e che ornava anche quello delle vittime; qui sta ad indicare ciascuno dei due nastri che pendono dalla mitra vescovile.
9 Subito dopo l’epigramma del nostro il Campanile aggiunge quanto segue.

10 È l’alloro (nell’antichità greco-romana e nel mondo umanistico la sua corona veniva attribuita come simbolo di sapienza, di gloria poetica o di eccellenza atletica), sacro ad Apollo, che a Delfi aveva il suo oracolo.

11 Oltre che essere stato strenuo difensore di Giambattista Marino contro Tommaso Stigliani in molte opere pubblicate con vari pseudonimi, ebbe fittissimi rapporti epistolari con moltissimi esponenti della cultura dell’epoca in tutta Europa e fu il fondatore nel 1648 nella natia Ventimiglia della biblioteca che porta il suo nome.

Il mio San Martino di tanti anni fa

Albert Anker – Passeggiata scolaresca

 

di Alfredo Romano

Qui a Civita Castellana la festa di San Martino non dice nulla: un giorno come un altro. Ma io fremo a questa indifferenza, provo fastidio che il giorno in cui si stappano le botti per dare incominciamento al vino nuovo qui nessuno se ne curi. E ritorno ai giorni della mia infanzia, quando una botte di tre quintali faceva bella mostra di sé in cucina e mio padre se la guardava e se la guardava in attesa del fatidico 11 novembre, data in cui ogni anno si ripeteva il miracolo del mosto trasformato in vino.  E in paese l’aria era di festa, quasi come il giorno di Natale. A tavola apparivano le prime verdure di stagione: le cicore cu quiddhi beddhi schiattuni, li fenucchi ca nduràvanu te anice e che erano la base per i primi assaggi di quel mitico rosato ricavato da uve negramaro che s’attestava come minimo sui 13 gradi. E mio padre non sbagliava mai a fare il vino, collaborava anche mia madre al buon risultato, ed era una gara con i vicini di casa a chi faceva quello più buono. Possedevamo mezzo ettaro di vigna in colonìa in località Rumatizze sulla via per Galatina, la stessa zona dove oggi si trovano le vigne dei Vallone, oggi produttori di eccellenti vini. Benché bambini, mio padre ci coinvolgeva in quel rito del primo assaggio e, sebbene in quantità modica, ci faceva degustare quel vino frutto dei suoi saperi e delle sue fatiche. A distanza di tanti anni, mi porto sempre appresso quell’aria di festa del giorno di San Martino e mi rammarico che qui non possa condividerla con nessuno. In ogni caso, sulla mia tavola non è mai mancato un buon bicchiere di vino, quasi un rito, e mi chiedo sempre: ma come ci si può cibare senza quel prezioso nettare un tempo così caro anche agli dèi? Per non dire del carattere simbolico che riveste nella tradizione cristiana?
Una volta, in Turchia, disponendo di poche lire turche, dovetti scegliere tra mangiare senza vino oppure bere vino senza mangiare: scelsi quest’ultima soluzione. Oh, sarei stato triste tutta la sera altrimenti!

Le scuole elementari di Collemeto

Ma ci fu un San Martino di quando avevo otto anni che me lo ricorderò per tutta la vita. Facevo la seconda elementare. La sera della festa papà aveva invitato degli amici a cena e io e mia madre facevamo la spola tra la cucina e la sala da pranzo servendo il vino ai commensali spillato dalla botte. Insomma fiumi di vino, tanto che mia madre storceva un po’ il naso: «Ca cu banu sse mbriàcanu a casa loru!».

La mattina dopo mi alzai regolarmente per andare a scuola. Mamma mi preparò per colazione una fetta di pane con vino e zucchero, come era d’uso allora. Ma, passando in cucina, la visione della botte ebbe per me l’effetto di una folgorazione. Sarà che la sera prima il chiasso e l’allegria di papà e dei suoi amici mi avevano bellamente impressionato, sarà per qualche altro motivo, sta di fatto che, di nascosto da mia madre, presi un bicchiere, ci spillai il vino dentro e lo bevvi tutto d’un fiato. Non contento, me ne feci un altro: forse volevo emulare papà e i suoi amici della sera prima, chissà. Sta di fatto che, come niente fosse, mi avviai con la mia cartella di cartone a tracolla in direzione della scuola che distava da casa 150 m.
C’è da premettere che da due settimane circa, agli inizi delle lezioni, in classe si svolgeva sempre lo stesso rito. Si dà il caso che la signorina Ada, la bella maestrina che veniva da Lecce, arrivava a scuola a bordo di una fiammante Seicento bianca accompagnata da Enrico, un fusto di fidanzato con tanto di baffi. Questi aveva l’abitudine di entrare in classe con la maestrina (a quei tempi non era cosa strana) e più o meno per un quarto d’ora si divertiva a interrogare noi poveri ragazzi sulle tabelline e altri vari quesiti di aritmetica. Ma se non rispondevi subito, se titubavi con quel solito eeeh… eeeh… non riusciva a godersela. Quando arrivava il mio turno, però, gli rispondevo di botto senza neppure fargli finire la domanda.
«6×9?»  «54».
«Tre dozzine?» «36».
«Cinque dozzine?» «60».
Ecco, con le dozzine se la spassava di più. Sicché, dopo qualche giorno, diventai il suo trastullo, e, appena metteva piede in classe, per prima cosa ordinava: «Si alzi il grande Alfredo! » E io lesto in piedi con le braccia ben stese lungo i fianchi e lo sguardo fisso a mo’ di statua.
Ma quella mattina che mi recavo a scuola, ragazzino di otto anni, con ben due bicchieri di vino in corpo di quel buon rosato di uve negramaro di almeno 13 gradi, era proprio un’altra mattina. Il colore della mia faccia tendeva al rosso porpora e l’incedere era alquanto incerto. Posso solo ricordare che mi recavo a scuola tranquillo tranquillo e chi mi osservava aveva l’impressione di trovarsi di fronte alla faccia di un beato nelle grazie del Signore, tipo san Domenico Savio o, se si vuole, san Giuseppe, il nostro santo dei voli, in estasi a bocca aperta.
Non appena il fusto di fidanzato coi baffi fece ingresso in aula con la bella maestrina, subito ordinò:
«Si alzi il grande Alfredo!». Stavolta non mi levai dal banco di scatto, non allungai le braccia tese sui fianchi, né proiettai lo sguardo su un punto fisso a mo’ di statua.
«Quattro dozzine?».
«Eeeh… eeeh…».
«Beh?, grande Alfredo!… Ma… ».
«Eeeh… eeeh…».
Il fusto di fidanzato coi baffi non credeva ai suoi occhi e volle avvicinarsi per vedere se ero effettivamente io, il grande Alfredo, o chissà chi. Ma, a un passo da me, fu inondato da un effluvio non certo misterioso e, ancora più sconcertante, la mia faccia, piuttosto paonazza, propendeva a un sorriso da ebete. Si abbassò allora per ispezionarmi a un palmo dal naso e, per tutta risposta, mi esibii in un rutto così irrispettoso, che tutta la classe, la maestrina in specie, si voltò a fissarmi incredula.
«Enrico, ma me voi ddici cce sta ssuccete a llu vagnone? Cce, nu’ stae bonu?» chiese la maestrina con apprensione.
«None, Ada, a cquai su’ cose serie: lu vagnone mbriacu vae! Tene nu fiezzu ca nu’ mbòju tte ticu!».
«Madonna mia! L’Alfredo? None, nu’ è pussibile!»
E la maestrina, sgomenta, s’approssimò per rendersi conto di persona. A quel punto, io, ostentando sempre la mia faccia da ebete, quasi per vantarmi biascicai ridendo:
«Signora, m’àggiu bivutu do’ bicchieri te vinu stamatina!».  Svelai così candidamente l’origine del fattaccio.
«Eh, non è più il grande Alfredo!» sentenziò Enrico, il fusto di fidanzato coi baffi nello sgomento generale.
Si può immaginare il trambusto a seguire, con mia madre che, chiamata al riguardo, incredula anche lei, non mi risparmiò la giusta razione di botte e io che non capivo cosa avessi fatto di male, anzi mi giustificavo col dire che la sera prima ia vistu li cristiani a casa nòscia ca s’ìanu sculati na otte te vinu! E allora percé a mie mazzate e a quiddhi none?

E così, da allora, io non fui più il grande Alfredo e il fusto di fidanzato coi baffi non ebbe più piacere di trastullarsi con me, né tanto meno coi miei compagni. Finì col non fare più ingresso in classe con la sua fidanzata: niente più dozzine, né tabelline, né altri strani quesiti da cruciverba.
Con la maestrina che veniva da Lecce ci sentiamo al telefono ogni tanto. Il suo Enrico non c’è più da tanti anni e la maestrina Ada è rimasta sola. Era un uomo brillante e suonava anche il pianoforte. Molti anni più tardi, una volta che andai a trovare a Lecce la mia maestrina, si offrì di cantarmi Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. Nel  tempo, ci siamo scritti tante lettere con la maestrina e lei è sempre stata orgogliosa di me. A volte, però, anche al telefono, non manca di mettere il dito nella piaga:

«Alfredo, ma lo bevi sempre il vino?».
«Certo, cara maestra, il vino è la mia passione».
«Ah, brutto fetente!»

Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato

di Armando Polito

Una delle via più lunghe ed importanti di Mesagne è intitolata a Luca Antonio Resta. L’omonimia è sempre in agguato e il trascorrere inesorabile del tempo rende sempre più complicato evitare equivoci, soprattutto quando sono coinvolti personaggi del passato sì, ma cronologicamente non così distanti l’uno dall’altro. E la situazione si complica ulteriormente se si pensa al vezzo, molto diffuso, direi comunemente usuale e quasi obbligato, in passato di dare al neonato  lo stesso nome del nonno o, addirittura, del padre. Intanto, però, una prima possibilità di equivoco va eliminata per chi non abbia notato l’iniziale maiuscola di Affumicato, il che esclude qualsiasi amore o, perché no?, odio del vescovo per un particolare tipo di salame o di formaggio. …

Probabilmente a Mesagne i Luca Antonio Resta succedutisi nel tempo sono stati una miriade, ma due di loro si distinsero a tal punto che la memoria del loro nome non rimase nascosta  tra le pieghe di atti notarili o di registri di nascita e di morte. Sotto questo punto di vista, poi, Mesagne appare più favorita rispetto ad altre realtà territoriali. perché un suo figlio illustre, Epifanio Ferdinando junior1,  scrisse l’opera genealogica Delle famiglie mesagnesi in quattro volumi. Il manoscritto, di proprietà della famiglia Cavaliere di Mesagne, costituisce un’autentica miniera per gli studiosi di storia locale. Non ho avuto il privilegio di averne tra le mani neppure una, sia pur parziale, riproduzione digitale e, quindi , non posso andare al di là dell’affermazione generica che sicuramente i due Luca Antonio erano parenti.

Posso, invece, sfruttando altre fonti, collocarli cronologicamente. Comincio dal più anziano, prima arciprete della Collegiata di Mesagne e poi, dal 1565, vescovo di Castro, dal 1578 di Nicotera e dal 1582 fino alla morte, avvenuta nel 1597, di Andria. Al periodo andriese risalgono le opere che di lui ci restano. La prima è Constitutiones editae in diocesana synodo andriensi, Desa, Copertino, 1584

Da notare nel frontespizio lo stemma vescovile del quale dirò tra poco.

Fu autore inoltre di Directorium visitatorum, ac visitandorum cum praxi, et formula generalis visitationis omnium, & quaruncumque ecclesiarum monasteriorum, regularium, monialium, piorum locorum, & personarum, Facciotti, Roma, 1593.2

Di seguito il frontespizio recante lo stemma degli Aldobrandini, essendo l’opera dedicata al papa  Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini (1536-1605).

Al testo dell’imprimatur concesso dal papa e sottoscritto da Vestrius Barbianus segue l’immagine di Luca Antonio, che deve riferirsi, giocoforza, al periodo andriese, cui, d’altra parte, fanno esplicito riferimento il frontespizio e l’imprimatur.

L’immagine precedente ricalca nel dettaglio dello stemma) quella di una lastra collocata nell’episcopio di Andria (di seguito nella foto di S. De Tommaso tratta da http://www.andriarte.it/ChiesaMonache/documenti/Monastero-OrdinationiEtCostitutioni_LAResta1593.html), commemorativa della ricostruzione fatta dal vescovo nel 1582 (anche se sulla lastra si legge, incredibilmente, 1532) del vecchio monastero delle suore  benedettine.

LUCAS ANT(ONIUS) )RESTA/MESSAPIEN(SIS) DEC(ANUS) DOCT(OR)/EP(ISCOP)US ANDRIEN(SIS) A fUNDA(MENTIS) EREXIT/1532 (Luca Antonio Resta dottore decano di Mesagne, vescovo di Andria eresse dalle fondamenta 1532

Nello scudo qui compare il motto CHARITAS, mentre nella stampa si legge CARITAS. E qui s’innesca una polemica antica che già vide contrapposti, pressoché contemporaneamente, due pezzi grossi dell’epoca: il Vico e il Muratori. Il primo nel De constantia philologiae usa charitas in unione a patriae (amor di patria) e nel De constantia philosophiae per la ben nota virtù teologale. In una nota del De uno universi iuris principio et fine uni usa la locuzione caritas sapientis (la manchevolezza del sapiente) e ancora nel De constantia philologiae usa frugis caritas (la mancanza del raccolto); in entrambi i casi è evidente come caritas sia connesso con il verbo carere=mancare3 e come i precedenti charitas vengano connessi con il greco χάρις (leggi charis)=benevolenza.

Contro l’opinione del Vico vi è Il Caritas del suo contemporaneo Ludovico Antonio Muratori ricorrente  nelle citazioni in latino presenti in Della carità cristiana, Soliani, Modena, 1723. Proprio nella prefazione ai lettori il Muratori giustifica la sua scelta e ribadisce la derivazione dal latino  carus, essendo la a di caritas lunga, mentre quella del greco χάρις è breve.

Le ragioni addotte dal Muratori mi appaiono filologicamente ineccepibili e, oltretutto, il passaggio carus>caritas è di una linearità esemplare, associandosi nella tecnica di formazione a fecundus>fecunditas, humilis>humilitas, etc. etc. Altrettanto non si può dire di χάρις>charitas perché, essendo χαριτ– il tema di χάρις (che deriva da *χάριτς con normalissima caduta della dentale davanti al sigma), pure in latino avremmo dovuto avere non charitas ma charis (da *charits), come miles è da *milits.

Non è da escludere, come ipotizzava il Muratori, che la possibilità di equivoco tra caritas=mancanza  (deverbale da carere) e caritas=benevolenza (deaggettivale da carus) abbia indotto all’aggiunta di h nel secondo per una sorta d’influsso paretimologico di χάρις.

Questa epentesi di h sembrerebbe abbastanza datata e nel glossario del Du Cange mi appare sintomatico che al lemma CHARITAS si rinvii a CARITAS, assunto, dunque, come principale). Mi pare particolarmente interessante CARITAS 5, che riporto in formato immagine con la mia tradizione a fronte.

Quanto riportato rende plausibile credere che la confusione, prima concettuale (carità diventa, addirittura il corrispettivo di un donativo con paradossale inversione delle parti: i monaci danno, non ricevono la carità) e poi grafica, risalga all’epoca medioevale. in cui dev’essersi sviluppata in ambienti non molto i acculturati l’epentesi paretimologica di cui ho detto. D’altra parte il processo inverso ha coinvolto charta, che è dal greco χάρτης (leggi chartes) con innumerevoli attestazioni medioevali di carta.

Questa volta, perciò,  non condivido le argomentazioni dell’amico professor Federico La Sala, che pure sento il dovere di citare rinviando il lettore al link http://www.ildialogo.org/filosofia/interventi_1360186035.htm.

Infine c’è da notare che tutti i vocabolari, nessuno escluso4, nonché gli studi etimologici, continuano imperterriti a recare il lemma carità derivato da carus.

Tornando alla pubblicazione del nostro, lo stemma che campeggia in alto a sinistra nel ritratto risulta replicato all’inizio della seconda parte. Nello scudo si notano nell’ordine: una croce maltes5, una stella a otto punte ed un’armatura, oltre al CHARITAS di cui si è estesamente detto.

Il Directorium visitatorum … ebbe un’edizione postuma per gli stessi tipi e col titolo Praxis visitatorum ac visitandorum … nel 1599.

Passo ora all’altro Luca Antonio, all’Affumicato. Riprendendo quanto detto all’inizio sull’iniziale maiuscola e per non rendere troppo seriosa la trattazione, dico che non si hanno notizie di sue malattie curate coi suffumigi e tanto meno di morte dovuta ad intossicazione da fumo di tabacco o sviluppato da qualche incendio. Affumicato è semplicemente perché faceva parte dell’accademia mesagnese degli Affumicati, riconosciuta ufficialmente nel 1671 ma nata certamente prima di tale data.6

Sull’accademia uscirà a breve un post più corposo;  di questo anticipo qui ciò che riguarda il nostro dicendo anzitutto che sull’accademia ben poco sapremmo senza le notizie lasciateci da Antonio Mavaro (1725-1812), giurista e storico locale mesagnese, in un manoscritto (ms. M/4) custodIto nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. Lì il Mavaro, fra l’altro, riporta l’elenco dei 19 soci, dei quali riproduce, da un manoscritto più antico in suo possesso secondo quanto dichiara, anche l’emblema, il motto e lo pseudonimo assunto dal socio in seno all’accademia, non mancando di fornire la sua interpretazione di questi tre dati.

Ecco quanto si riferisce al nostro (dettaglio tratto dalla carta 336r) che nell’elenco compare al n. XIV:

Apprendiamo, così, che il nostro era detto Il tormentato e che il suo motto era Purgatur non comburitur (Viene purificato, non bruciato). Quanto all’emblema il Mavaro a carta 341v così si esprime.

XIV Siegue il Tormentato, col motto Purgatur, non comburitur. Ciocché nel di lui emblema si vede, abbenché  non sia con chiarezza espressato, potrebbe riferirsi all’oro, ò qualche altro metallo simile, che nel crogiuolo si purifica, ma non s’abbrugia).

La conferma dell’interpretazione data dal Mavaro dell’emblema viene dal fatto che il concetto e i vocaboli fondamentali della relativa locuzione erano ben radicati nella cultura del XVII secolo. Un esempio per tutti in Elogium de laudibus, et prerogativis sacrorum liliorum in stemmate Regis Gallorum existentium, Apud Stephanum Colineum, Parisiis, 1608, p. 126: Et iterum aurum in igne positum non comburitur, sed probatur, et purgatur (E d’altra parte l’oro posto sul fuoco non viene bruciato ma viene temprato e viene purificato).

Molto probabilmente, a sua volta è lo sviluppo dell’in fornace ardet palea et purgatur aurum (Nella fornace la paglia viene bruciata, l’oro viene purificato) di Agostino nel suo commento al Salmo 61.

Per dovere di completezza debbo aggiungere che nell’elenco del Mavaro compare un altro rappresentante della famiglia Resta e precisamente al n. XII Francesco detto L’inabile, con il motto Ad fabrilia ineptus (Non adatto a lavori manuali) e per emblema un pezzo di legno inservibile posto sul fuoco.

Ecco quanto al proposito scrive il Mavaro a carta 340r.

(XII L’inabile col motto Ad fabrilia ineptus. Viene nell’emblema espressato un pezzo di legno, posto ak fuoco, volendosi collo stesso significare essere quello inservibile all’Artefice. L’Accademico, che volle dirsi L’inabile, volle per effetto di sua umiltà far presente all’assemblea,ed à quei dotti Accademici che la componeano, che sebbene in quella fosse stato annoverato, pure inabile egli riputavasi à poter produrre colle sue forze cosa di buono.)

Giunto a questo punto, rischio di sbagliare se dico che il Luca Antonio della via è il vescovo (del quale ci resta una pubblicazione e pure il ritratto) e non l’Affumicato, del quale, senza il Mavaro, nulla ci sarebbe pervenuto?

 

Su segnalazione di Vincenzo Zito (vedi in calce il relativo commento) aggiungo il frontespizio dell’opera non citata, nonché una tavola che all’interno si ripete due volte.

Nell’ovale DEXTRA SECUNDET URBEM QUAM LAEVA SUFFULCIT (La destra favorisca la città che la destra siostiene) e nel cartiglio interno S, RICCARDUS  EP(ISCOP)US ANDRIENSIS (S. Riccardo vescovo di Andria)

_________________

1 Per restare nel tema dell’omonimia …, era figlio del medico  Diego e nipote di Epifanio, il più famoso dei Ferdinando.

2 Mi sono limitato a riportare i dati essenziali, quelli che, conosciuti, sanciscono,  piaccia o no, lo spessore storico di qualsiasi personaggio. Per altri dettagli secondari rinvio a Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, tomo III, parte IV, Severini, Napoli, 1755, pp. 82-84.

3 Cfr. Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12: Obsidio erat nihilominus et frumenti cum summa caritate inopia (C’era non di meno l’assedio e disagio con l’estrema mancanza di frumento). Ne approfitto per ricordare che connesso con carere è pure l’aggettivo carus=caro (in base ad un’elementare regola psicologica ci è più caro ciò che ci manca e in base all’altrettanto elementare principio economico del rapporto inverso tra offerta e domanda, per cui il prezzo è più caro quando il bene non è molto richiesto.

4 C’è da dire, però, che ne conosco uno, illustre, che nel tempo se n’è lavato le mani. È quello della Crusca che nella prima e seconda edizione (1612 e 1623) fa derivare carità da charitas, nella terza (1691) si limita a citare come sinonimo il greco ἀγάπη (leggi agape) in cui l’assenza di coincidenze fonetiche con il presunto charitas e con χάρις la rileverebbe il più superficiale dei lettori. Il lavaggio si completa con la quarta e con la quinta edizione (1729-1738 e 1863-1923) nelle quali non c’è ombra di proposta etimologica.

5 Allusiva, insieme con la stella ad otto punte,  alle benemerenze acquisite nella difesa della cristianità da qualche antenato. Leggo in Mario Vinci, Lucantonio Resta, in I Mesagnesi, a cura di Marcello Ignone, Tipografia Neografica, Mesagne, 1998, p. 131: La sua famiglia, originaria dalla Dalmazia, si stabilì dapprima a Ragusa (dove troviamo il ramo dei Resta di Ragusa) e successivamente alcuni di loro si trasferirono in Mesagne nei primi del 1500 con Mariano Resta. Mariano de Resta arriva in Mesagne nella II metà del XV sec. al seguito di Castriota Scanderbeg).

6 In Pietro Marti, Movimento intellettuale nel Salento, nel secolo XVII, in Fede: rivista quindicinale d’Arte e di Cultura, anno III, n. 5 (15 marzo 1925) in nota a p. 69 si legge che sorse il 1638, per opera di Giovan Matteo Epifanio, che ne fu più volte Principe.

 

 

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (5/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

STRETTO DI GALLIPOLI

“1) La Serpe dritta su di un altare, ed alla destra il Sole, col motto Jones Xhutidae Chaldaeorum colonia1 2) Ercole colle spoglie del Leone, coll’arco impugnato, e la faretra, col motto Jones Leuternii, et Morgetes2; 3) Ercole nudo stante, a destra la clava, alla sinistra una Cornucopia colla spoglia del Leone. Una piccola vittoria alata lo incorona, col motto Jones Kalii, et Salentini.34

 

 

 

 

Ecco le fonti: Strabone, op. cit., VI, 3: Πολίχνιον καὶ τοῦτο, ἐν ᾧ δείκνυται πηγὴ δυσώδους ὕδατος. Μυθεύουσι δ᾽ ὅτι τοὺς περιλειφθέντας τῶν γιγάντων ἐν τῇ κατὰ Καμπανίαν Φλέγρᾳ Λευτερνίους καλουμένους Ἡρακλῆς ἐξελάσειε, καταφυγόντες δὲ δεῦρο ὑπὸ γῆς περισταλεῖεν, ἐκ δὲ ἰχώρων τοιοῦτον ἴσχοι ῥεῦμα ἡ πηγή· διὰ τοῦτο δὲ καὶ τὴν παραλίαν ταύτην Λευτερνίαν προσαγορεύουσιν  [Anche questa (Leuca) è una piccola città, nella quale si mostra una fonte di acqua puzzolente. Raccontano che Ercole cacciò dei  giganti quelli sopravvissuti a Flegra in Campania, chiamati Leuterni ed essi rifugiatisi qui sotto terra scomparvero; la fonte deriva siffatto flusso dal (loro) sangue marcio; per questo chiamano Leuternia anche questo litorale); VI, 1: Ἀντίοχος δὲ τὸ παλαιὸν ἅπαντα τὸν τόπον τοῦτον οἰκῆσαί φησι Σικελοὺς καὶ Μόργητας, διᾶραι δ᾽ εἰς τὴν Σικελίαν ὕστερον ἐκβληθέντας ὑπὸ τῶν Οἰνωτρῶν. Φασὶ δέ τινες καὶ τὸ Μοργάντιον ἐντεῦθεν τὴν προσηγορίαν ἀπὸ τῶν Μοργήτων ἔχειν. (Antioco dice che anticamente tutto questo luogo [nei pressi di Reggio di Calabria] lo abitarono anticamente i Siculi e i Morgeti, che essi successivamente scacciati dagli Enotri passarono in Sicilia. Alcuni dicono che lì Morganzio prende il nome dai Morgeti).

Dionigi d’Alicarnasso, I, 12: Ἀντίοχος δὲ ὁ Συρακούσιος, συγγραφεὺς πάνυ ἀρχαῖος, ἐν Ἰταλίας οἰκισμῷ τοὺς παλαιοτάτους οἰκήτορας διεξιὼν, ὡς ἕκαστοί τι μέρος αὐτῆς κατεῖχον, Οἰνώτρους λέγει πρώτους τῶν μνημονευομένων ἐν αὐτῇ κατοικῆσαι, εἰπὼν ὧδε· Ἀντίοχος Ξενοφάνεος τάδε συνέγραψε περὶ  b  Ἰταλίης ἐκ τῶν ἀρχαίων λόγων τὰ πιστότατα καὶ σαφέστατα· τὴν γῆν ταύτην, ἥτις νῦν Ἰταλίη καλεῖται, τὸ παλαιὸν εἶχον Οἴνωτροι. Ἔπειτα διεξελθὼν ὃν τρόπον ἐπολιτεύοντο, καὶ ὡς βασιλεὺς ἐν αὐτοῖς Ἰταλὸς ἀνὰ χρόνον ἐγένετο, ἀφ᾽ οὗ μετωνομάσθησαν Ἰταλοί, τούτου δὲ τὴν ἀρχὴν Μόργης διεδέξατο, ἀφ᾽ οὗ Μόργητες ἐκλήθησαν, καὶ ὡς Σικελὸς ἐπιξενωθεὶς Μόργητι ἰδίαν πράττων ἀρχὴν διέστησε τὸ ἔθνος, ἐπιφέρει ταυτί: Οὕτω δὲ Σικελοὶ καὶ Μόργητες ἐγένοντο καὶ Ἰταλίητες ἐόντες Οἴνωτροι (Antioco di Siracusa, scrittore molto antico, esponendo dettagliatamente i più antichi abitanti nella colonizzazione dell’Italia e come ciascuno ne occupava una parte, dice che tra quelli ricordati vi abitarono per primi gli Enotri, esprimendosi così: “Antioco figlio di Senofane compilò sull’Italia queste notizie, le più credibili da dagli antichi scritti; gli Enotri anticamente abitavano questa terra che ora si chiama Italia”. Poi, discorrendo del modo in cui la governavano, anche come Italo un tempo  vi diventasse tra loro re, dal quale furono chiamati Itali, come poi prese il suo potere Morgete dal quale furono chiamati Morgeti e come Sicelo ospite presso Morgete esercitando un potere privato divise il popolo; e aggiunge questo: “Così essendo Enotri divennero e Siculi e Morgeti e Italici”).

Licofrone (IV secolo a. C.), Alessandra, vv. 984-987: Πόλιν δ’ὁμοίαν Ἰλίῳ δυσδαίμονες/δείμαντες, ἀλγυνοῦσι Λαφρίαν κόρην/Σάλπιγγα, δῃώσαντες ἐν ναῷ θεᾶς/τοὺς πρόσθ’ἕδεθλον Ξουθίδας ᾠκηκότας./Γλήναις δ’ἄγαλμα ταῖς ἀναιμάκτοις μύσει,/στυγὴν Ἀχαιῶν εἰς Ἰάονας βλάβην/λεῦσσον, φόνον τ’ἔμφυλον ἀγραύλον λύκων … (Infelici, dopo aver costruito una città simile a Troia, daranno dolore alla vergine Lafria5, la Trombettiera6, uccidendo nel tempio della dea gli Xutidi che abitavano davanti al santuario. La statua abbasserà le palpebre sugli occhi esangui vedendo l’odioso massacro degli Achei sugli Ioni, la strage di consanguinei, atto feroce di lupi …). Dal passo di Licofrone, ambientato a Siri, colonia della Magna Grecia, si deduce l’identità tra Ioni e Xutidi (discendenti di Xuto figlio di Elleno e Orseide e fratello di Eolo).

 

Chiudiamo con una curiosità, quasi sicuramente una mezza bufala, riportata parola per parola allo stesso modo in svariati siti in rete, per cui è impossibile individuare, ammesso che ne valga la pena, anche per l’assenza in molti della data dell’inserimento, da dove è partita: la propaganda borbonica lo fece colorare di nero, in modo che ricordasse un obelisco marmoreo, ma la prima pioggia cancellò ogni traccia del colore. Peccato che nei giornali dell’epoca, da noi consultati tempo fa per altre ricerche, tale ghiotta notizia non compare; e non parliamo di una pubblicazione “ufficiale” o, se preferite “di regime” quale il Giornale di Intendenza della Provincia di Terra d’Otranto, che usciva a Lecce ed i cui numeri fino al 1861 sono custoditi nell’Archivio di Stato della città. Abbiamo detto mezza bufala con riferimento a prima pioggia perché in Palmieri7 si legge: È in forma d’obelisco a quattro facce e in pietra leccese, dipinta ai primi tempi ad olio a colore di pietra del Vesuvio.

Ci piace congedarci da chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui parafrasando un famoso esametro enniano con uno nostro, consapevoli che certo non passerà, come quello, alla storia:

NOS SALENTINI QUI FUIMUS ANTE CRETENSES (Noi Salentini che prima fummo Cretesi).

E speriamo che da lassù il Castromediano e il Vacca, riferendosi solo a noi autori, non ci giudichino, più che Cretesi, cretini, pur consapevolissimi e (e chi più di loro?) del diverso etimo …

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

 

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1 Gli Ioni discendenti di Xuto, colonia dei Caldei. Xuto, personaggio della mitologia greca, padre di Ione (da cui gli Ioni) e Acheo. “Basterà per intender bene il senso del motto analogo al primo emblema di questo Distretto il ricordarsi dell’origine di sopra esposta degli antichi Giapigi. Dessi furono, come si à già detto, i discendenti di Japhet, e propriamente di Javan di lui figlio, i quali furono anche chiamati Xhutidae, perchè Jone fu figlio di Xhuto. La religione di questi nostri primi coloni fu diretta solamente al culto del Sole, e d’Igea figlia di Esculapio, e Dea della salute. Da ciò nacque, che il primo periodo dell’antica storia di questo Distretto venne dai nostri maggiori simboleggiato coll’adorazione del Serpente, e del Sole” (op. cit., pagg. 14-15).

2 Gli Ioni Leuterni e Morgeti. “Dietro la venuta di questi primi popoli Orientali, poichè accadde ancora nel promontorio Salentino l’eccidio dei Giganti, e Lestrigoni, detti Leuternii, e Morgetes, fatto da Ercole Libico, il quale gl’inseguì sino a questo luogo dai Campi Flegrei, da ciò appunto è nata l’idea del loro secondo emblema” (op. cit. ,pag. 15).

3 Gli Ioni Kalii e Salentini. “L’ultimo e più fiorente stato di questa parte della nostra Penisola appartiene al periodo del governo dell’antica Dinastia Cretese sotto Licio Idomeneo; ed è perciò, che fu assunto da cotesti popoli l’emblema di Ercole nudo stante, col motto, Jones Kalii, et Salentini. La Cornucopia, la clava, la spoglia del Leone, e la vittoria alata alludono al natale, ed alle imprese di Ercole, dal quale si gloriavano di discendere i Cretesi Tarantini” (op. cit. pag. 15).

4 Luigi Cepolla, op. cit. pag. 5.

5 Epiteto di Atena.

6 Altro epiteto di Atena ad Argo.

7 Op. cit., p. 306.

Un basilisco cinquecentesco a pochi passi dalla chiesa Matrice di Manduria*

di Marcello Semeraro

La corretta attribuzione di uno stemma anonimo costituisce spesso, in mancanza di altri dati, un elemento decisivo in grado di illuminare il “contesto” su cui esso in origine era collocato. È il caso dell’esemplare murato sulla parete esterna dell’edificio ubicato fra vico Campanile e via Marco Gatti n° 5, a due passi dalla chiesa matrice di Manduria, attualmente adibito a casa canonica (fig. 1).

Fig. 1 - Manduria, edificio di via Marco Gatti n° 5, stemma (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 1 – Manduria, edificio di via Marco Gatti n° 5, stemma (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Benché il manufatto in questione si presenti in uno stato di conservazione precario, con vistose abrasioni che ne compromettono la chiara leggibilità, è stato possibile, attraverso l’analisi araldica, risalire perlomeno alla famiglia titolare dello stemma, che è già un bel risultato per chi si occupa di ricerche storiche locali, tanto più che sulle origini dell’edificio su cui è apposta l’insegna le fonti storiografiche sembrano tacere. L’arma in argomento è contenuta in uno scudo col capo sagomato a tre punte; dalla punta centrale spuntano una decorazione fogliacea e un anello sostenuto da un gancio reggi-scudo (fig. 2).

Fig. 2 - Manduria, via Marco Gatti n° 5, particolare dello stemma murato (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 2 – Manduria, via Marco Gatti n° 5, particolare dello stemma murato (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Due cartocci ornano il lato sinistro (destro per chi guarda) e la punta dello scudo, mentre dietro di esso appaiono nastri svolazzanti e accollanti. L’intera composizione è racchiusa da una cornice modanata, la cui decorazione originaria risulta tuttavia abrasa. All’interno dello scudo campeggia un basilisco, il mostruoso gallo serpentiforme con il corpo intriso di veleno, capace di uccidere con il solo sguardo[1] (fig. 3).

Fig. 3 - Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. È sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). È il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63r.
Fig. 3 – Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. È sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). È il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63r.

 

Considerato dai bestiari medievali il “re dei serpenti”, il basilisco è tuttavia una figura piuttosto rara nelle armi, che per via della sua natura ibrida viene non di rado confusa con il gallo o il drago. Cronologicamente parlando, il manufatto sembra avere fattezze stilistiche riconducibili al XVI secolo, datazione deducibile sia dalla forma primitiva del cartoccio, sia dallo stile generale dell’intero decoro araldico[2].

Fra le famiglie nobili e notabili di Manduria solo una può aver innalzato uno stemma come questo: i Basile[3], il cui scudo raffigura proprio un basilisco e non un gallo, come erroneamente ha sostenuto lo studioso Bruno Perretti[4]. La presenza di questa creatura mitologica nell’arma in esame si spiega facilmente se si considera la relazione parlante che la figura intrattiene con il cognome: basilisco/Basile[5].

La famiglia è documentata a Casalnuovo sin dalla seconda metà del XV secolo e viene indicata anche come Basili, Di/De Basili o De Basiliis/De Basilijs negli atti notarili, nel Libro dei Battezzati del XVI secolo e nel Librone Magno[6]. Diramatasi anche in Oria, annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti e chierici, come Don Pietro De Basiliis, secondo arciprete di Manduria (1556-1575).

Individuata la committenza dello stemma nella famiglia Basile, resta da spiegare la natura dell’edificio che lo ospita nel periodo in cui fu murato il manufatto araldico. Le poche notizie riportate dalla storiografia locale non aiutano in tal senso, giacché documentano solo i passaggi di proprietà a cui fu sottoposto l’immobile a partire dal XVIII secolo[7].

Occorre dunque interrogare le fonti storiche dirette. Un primo esame condotto sulla regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi del XVI secolo[8], sul Librone Magno[9] e su altri documenti d’archivio (visite pastorali e relazioni delle proprietà capitolari), sebbene non abbia sciolto l’enigma, ha comunque fornito dei dati interessanti che andrebbero approfonditi attraverso successive ricerche. Queste fonti documentano le vicende di una famiglia agiata, imparentata con alcune fra le maggiori famiglie manduriane (come i Pasanisi e i Rosea), titolare di beni immobili e fondiari (alcuni dei quali lasciati al Capitolo della chiesa matrice[10]), nonché di giuspatronati su varie cappelle[11].

L’apposizione dello stemma familiare – segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo decorativo – si rivela dunque compatibile con lo status sociale e patrimoniale acquisito dalla famiglia nel corso del Cinquecento. Lascio volentieri agli studiosi di storia manduriana la possibilità di sviluppare una pista di ricerca che potrebbe rivelarsi di sicuro interesse per la conoscenza di un tassello dimenticato della storia e dell’architettura locali.

 

*Un ringraziamento particolare va all’artista manduriana Paola Lagamba, che ha sottoposto alla mia attenzione l’esemplare oggetto di questa breve disamina, e a Giuseppe D’Angeli, per le foto che gentilmente mi ha fornito.

[1] Cfr. M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012, pp. 47, 152, 158, 192-193, 195, 241, 249-250.

[2] Sull’evoluzione della forma dello scudo nel XVI secolo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77; S. TIBERINI, Araldica e storia sociale: possibili esempi perugini tra medioevo ed età moderna, in “Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria”, CXI (2014), pp. 293-303.

[3] Con questo nome si conoscono varie famiglie, non è chiaro se semplicemente omonime o discendenti da un medesimo ceppo. Per i Basile di Napoli cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, suppl. 1°, Milano 1935, pp. 302-305; cfr. anche la voce presente nel sito Nobili Napoletani, al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Basile.htm. Recentemente, proprio su queste pagine, mi sono occupato della famiglia Basile di Francavilla e del suo stemma scolpito sulla facciata dell’omonimo palazzo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/04/lo-stemma-del-palazzo-basile-francavilla-fontana-un-curioso-caso arma-parlante/.

[4] Cfr. B. Perretti, Manduria: architettura, arte, società, Manduria 2005, p. 118.

[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono una o più raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome della famiglia: una scala per gli Scaligeri, una Colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli ecc. La relazione parlante può annodarsi anche soltando con una parte del nome, come avviene nello stemma Basile oggetto di questo studio o in quello della città svizzera di Basilea, nel quale il basilisco che allude al nome (basilisk/Basel) viene impiegato come ornamento esterno dello scudo. Si calcola che circa un 20/25% degli stemmi europei sia classificabile come parlante. Cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 82.

[6] Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, p. 44.

[7] Cfr. Perretti, Manduria: architettura cit., p. 118.

[8] Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, alle voci De Basiliis/De Basilijs.

[9] Cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, cc. 27r e 28v.

[10] Cfr. L. Tarentini, Manduria sacra, ovvero Storia di tutte le chiese e cappelle distrutte ed esistenti dei monasteri e congregazioni laicali dalla loro fondazione fino al presente, Manduria 1899, rist. anast. Manduria 1999, p. 17.

[11] ADO, Visita pastorale Mons. Lucio Fornari, 1603-1604, b. 2, consultata in copia fotostatica presso la Biblioteca diocesana di Oria.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (4/5)

Marcello Gaballo e Armando Polito

DISTRETTO DI BRINDISI

1) “Il Desco e la statua di Bacco con corona convivale, col motto Brundusini Cretenses1; 2) Amore colla cetra, e col motto Brundusini sub Partheniis Tarentinis2 3) Il Delfino, che indossa Taras colla cetra in mano, e col motto Brundusini sub Romanis.34

 

La fonte utilizzata è  Strabone, Geographia, VI, 3, 6: Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος λέγεται γὰρ ἀμφοτέρωςοὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν. Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων, ὅμως δ᾽ ἐκπεσόντα αὐτὸν ἐκ τοῦ Τάραντος ἐδέξαντο οἱ Βρεντεσῖνοι, καὶ τελευτήσαντα ἠξίωσαν λαμπρᾶς ταφῆς (Dicono che abitarono Brindisi i Cretesi, quelli giunti con Teseo da Cnosso o quelli che si erano allontanati insieme con Iapige dalla Sicilia (si racconta infatti in entrambi i modi); dicono che questi non vi rimasero ma partirono per la Bottiea. Successivamente la città governata da un re perse molto del suo territorio ad opera degli Spartani [venuti] con Falanto, ma i Brindisini lo accolsero ugualmente quando fu cacciato da Taranto e dopo la morte lo onorarono di una splendida tomba).

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189. 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/

 

 

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1 I Brindisini Cretesi. “…doveva quindi naturalmente avvenire, che la vittoria portasse al vincitore non solamente il vantaggio dell’acquisto delle proprietà reali de’ vinti, ma quello ancora delle loro persone. Quindi l’origine de’ servi addetti alla gleba…Questa specie di servi aveva però alcune leggi favorevoli  alla loro libertà…nella cui esecuzione si dovevano pure osservare alcune pubbliche solennità dopo un certo tempo di servitù definito dalle leggi….di tal genere fu…la nostra famosa Brunda, o Brendais, ossia il convito dei nostri antichi servi indigeni addetti all’agricoltura sotto il dominio de’ Cretesi…Il luogo dunque destinato alla festività…fu la maremma di Brindisi…si è espresso il convito detto Brunda nella lingua Messapia coll’antico Sigma, perchè questa figura si ebbero tutti i Deschi dell’antichità. Si è sormontato ancor questo simbolo colla figura di Bacco, avente nella destra una corona convivale, dappoichè si sà, ch’egli era Conviviorum Deus” (Luigi Cepolla, op. cit., pagg. 11-12).

2 I Brindisini sotto i Parteni di Taranto.”Il lusso,che nella maggior floridezza della repubblica Tarantina s’introdusse in ogni parte del di lei stato fu causa, ch’ella fosse stata sin dall’ora tacciata di mollezza, e di ogni genere d’intemperanza. La città di Brindisi, e di Oria, come quelle che obbedivano ai Tarantini, presero anche a gareggiare con loro nella mollezza, e nel lusso. Quindi è, che gli Oritani assunsero anche per loro emblema Amore colla cetra: questo medesimo emblema fu comune ancora alla Città di Brindisi sino all’epoca de’ Romani” (Luigi Cepolla, op. cit. pagg. 12-13).

3 I Brindisini sotto i Romani. “In tal’epoca [dei Romani] la Città di Brindisi continuò a servirsi dell’istesso originario emblema dei Tarantini Achei, cioè, del Delfino, che indossa [=porta sul dorso] Taras, perchè i Cretesi lo conservarono anch’essi sotto il dominio deì medesimi Achei; e ne scambiò ella solamente nelle mani di Taras il tridente con la cetra per alludere al secondo periodo della sua storia antica, nella quale ebbe essa questo emblema”(Luigi Cepolla, op. cit., pag. 14).

4 Luigi Cepolla, op. cit., pag. 4.

Un dipinto di Paolo De Maio a Latiano

(Fig.1 ) Paolo De Maio, Circoncisione di Nostro Signore, 1751, Latiano, Chiesa del Santissimo Rosario. (Foto concessa da Federica D’Ambrosio)
(Fig.1 ) Paolo De Maio, Circoncisione di Nostro Signore, 1751, Latiano, Chiesa del Santissimo Rosario. (Foto concessa da Federica D’Ambrosio)

 

di Domenico Ble

Una tela del pittore Paolo De Maio, raffigurante la Circoncisione di Nostro Signore, è conservata nella chiesa del Santissimo Rosario a Latiano, edificio, un tempo annesso al convento dei padri Domenicani, edificato alla seconda metà del Cinquecento, rimaneggiata nei secoli successivi.

Gerardo Cappellutti nel suo saggio storico intitolato: l’Ordine Domenicano in Puglia, certifica la presenza dell’ordine domenicano a Latiano ancora nel 1678, riportando: “…La Chiesa ed il Convento che fa corpo con essa si trova sulla strada che va a S. Vito dei Normanni e di là immette nella grande arteria adriatica. Sul portale della facciata, sotto lo stemma dell’Ordine, è scritto a lettere ben visibili: Margaritae semper caritas A. D. MDCLXXVIII…” [1].

Riguardo alla tela non vi è documentazione specifica che certifichi la committenza, ma si può cautamente presumere che siano stati i padri domenicani, presenti nell’annesso convento e titolari della chiesa, a richiedere la pala, su richiesta dell’Arciconfraternita del Santissimo Rosario. Nell’ambito di uno studio sui beni culturali di Latiano compiuto nel 1993, l’opera viene per la prima volta fotografata e attribuita a Paolo De Majo, grazie alla scoperta dell’incisione PAULUS DE MAJO 1751 posta in basso a sinistra nel quadro[2].

Paolo De Maio raffigura la scena sacra della Circoncisione (fig.1), una tradizione ebraica rivolta ai primogeniti di sesso maschile, poiché ogni primo figlio maschio doveva essere consacrato al Signore, il pittore ferma l’evento nel momento in cui sta per avvenire l’azione.

La scena è ambientata in un luogo chiuso: lo si deduce dall’arco a tutto sesto che s’intravede in alto e dal lucernario che cade dal soffitto; sopra un gradino De Maio inserisce i protagonisti dell’evento. Al centro, seduto, l’anziano sacerdote tiene in braccio il bambino Gesù; intorno sei figure partecipano all’avvenimento. A destra con una veste rosa, coperta da un manto celeste, la Vergine Maria guarda il figlio, un po’ più dietro si vede san Giuseppe identificabile dal bastone. A sinistra due giovani con in mano dei candelabri assistono al rituale; in primo piano due uomini, uno inginocchiato con in mano il coltello pronto ad operare la circoncisione, uno che sorregge un vassoio. Al centro della rappresentazione Gesù bambino con le braccia tese e con lo sguardo rivolto verso la madre.

L’opera è ben calibrata nei toni chiaroscurali: lo sguardo dell’osservatore si dirige al centro della tela verso le braccia del bambino, messo in risalto da una luminosità soprannaturale, attraverso il contrasto chiaroscurale la tela appare piuttosto luminosa , con un particolare risalto per la preziosità delle vesti e la plasticità dei corpi. Si viene a creare così un filo diretto con l’esperienza luministica demuriana a cui Paolo De Maio si avvicina.

(Fig. 2) Paolo De Maio, Circoncisione di Nostro Signore, 1771, Chiesa di San Domenico a Barra, Napoli. (Foto pubblicata sul libro di Mario Alberto Pavone, Paolo De Majo, pittura e devozione a Napoli nel secolo dei Lumi)
(Fig. 2) Paolo De Maio, Circoncisione di Nostro Signore, 1771, Chiesa di San Domenico a Barra, Napoli. (Foto pubblicata sul libro di Mario Alberto Pavone, Paolo De Majo, pittura e devozione a Napoli nel secolo dei Lumi)

 

Nel 1772 realizza un’opera con lo stesso soggetto per la chiesa di San Domenico a Barra (fig. 2); confrontando i due dipinti possiamo notare delle differenze strutturali; partendo dall’impostazione spaziale. Il dipinto di Barra rispetto a quello di Latiano ha un’impostazione prospettica monumentale nello sfondo: anche l’organizzazione scenica delle figure è differente, nella tela di Barra la postura dei personaggi cambia, vi è un maggiore ritmo ascensionale e De Maio vi introduce elementi nuovi: l’angelo con l’incensiere e i drappi che scendono dagli angoli. I puttini non sono più collocati a sinistra ma sopra il capo del sacerdote. I personaggi sono semplici, poveri di ornamenti, da qui si deduce che Paolo De Maio ha del tutto abbandonato lo stile baroccheggiante per aderire in pieno a quello neoclassico. La tela del Santissimo Rosario è sicuramente l’esempio che Paolo segue per la realizzazione di quella di San Domenico a Barra (Napoli).

Quest’opera, viene elaborata in un clima culturale orientato al recupero dello stile e dei canoni classicisti del secolo precedente. La tela, non citata da Bernardo De Dominici nelle sue Vite, né da Mario Alberto Pavone nella monografia su De Maio. L’opera rende tuttavia più chiaro quel passaggio centrale che segna la svolta stilistica e pittorica di Paolo De Maio.

 

[1] Gerardo Cappellutti O. P., L’ordine Domenicano in Puglia, C.E.T.I. Editore in Teramo, 1965, cit. p., 34.

[2] Beni Culturali di Latiano, Le chiese e il patrimonio sacro, Vol. III, Biblioteca Comunale di Latiano, 1993, pp. 54-56.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE

Gerardo Cappellutti O. P., L’ordine Domenicano in Puglia, C.E.T.I. Editore in Teramo, 1965.

Beni Culturali di Latiano, Le chiese e il patrimonio sacro, Vol. III, Biblioteca Comunale di Latiano, 1993.

Mario Alberto Pavone, Paolo De Majo, pittura e devozione a Napoli nel secolo dei Lumi, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1977.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (3/5)

di Armando Polito e Marcello Gaballo

DISTRETTO DI TARANTO

Anche per il distretto di Taranto iniziamo con la descrizione del Cepolla: “1) Il Delfino, che indossa Taras, o Nettuno col tridente, e la Nottola col motto Tarentini Achaei1; 2) L’Aquila colle ali aperte, ed avente negli artigli i fulmini, col motto Tarentini Cretenses2; 3) La clava di Ercole, e l’eroe Falanto a cavallo, col motto Tarentini Parthenii, sive Spartiates3“.4

Come già avvenuto per il distretto di Lecce, non c’è nessun riferimento alla prima iscrizione che si incontra partendo dal basso; da notare l’errore dello scalpellino che ha inciso EH per ET.

 

Per le ultime due sezioni di questo distretto si rimanda alle analoghe del distretto di Lecce.

La commistione tra Achei, Cretesi, Parteni o Spartiati si basa sulle seguenti fonti: Strabone (I secolo a. C.-I d. C.; Antioco da lui citato è del V secolo a. C.), op. cit., VI, 3: Περὶ δὲ τῆς κτίσεως Ἀντίοχος λέγων φησὶν ὅτι τοῦ Μεσσηνιακοῦ πολέμου γενηθέντος οἱ μὴ μετασχόντες Λακεδαιμονίων τῆς στρατείας ἐκρίθησαν δοῦλοι καὶ ὠνομάσθησαν Εἵλωτες, ὅσοις δὲ κατὰ τὴν στρατείαν παῖδες ἐγένοντο, Παρθενίας ἐκάλουν καὶ ἀτίμους ἔκριναν· οἱ δ᾽ οὐκ ἀνασχόμενοι  πολλοὶ δ᾽ ἦσαν)  ἐπεβούλευσαν τοῖς τοῦ δήμου. Αἰσθόμενοι δ᾽ ὑπέπεμψάν τινας, οἳ προσποιήσει φιλίας ἔμελλον ἐξαγγέλλειν τὸν τρόπον τῆς ἐπιβουλῆς. Τούτων δ᾽ ἦν καὶ Φάλανθος, ὅσπερ ἐδόκει προστάτης ὑπάρχειν αὐτῶν, οὐκ ἠρέσκετο δ᾽ ἁπλῶς τοῖς περὶ τῆς βουλῆς ὀνομασθεῖσι. Συνέκειτο μὲν δὴ τοῖς Ὑακινθίοις ἐν τῷ Ἀμυκλαίῳ συντελουμένου τοῦ ἀγῶνος, ἡνίκ᾽ ἂν τὴν κυνῆν περίθηται ὁ Φάλανθος, ποιεῖσθαι τὴν ἐπίθεσιν· γνώριμοι δ᾽ ἦσαν ἀπὸ τῆς κόμης οἱ τοῦ δήμου. Ἐξαγγειλάντων δὲ λάθρᾳ τὰ συγκείμενα τῶν περὶ Φάλανθον καὶ τοῦ ἀγῶνος ἐνεστῶτος, προελθὼν ὁ κῆρυξ εἶπε μὴ περιθέσθαι κυνῆν Φάλανθον. Οἱ δ᾽ αἰσθόμενοι ὡς μεμηνύκασι τὴν ἐπιβουλὴν οἱ μὲν διεδίδρασκον, οἱ δὲ ἱκέτευον. Κελεύσαντες δ᾽ αὐτοὺς θαρρεῖν φυλακῇ παρέδοσαν, τὸν δὲ Φάλανθον ἔπεμψαν εἰς θεοῦ περὶ ἀποικίας· ὁ δ᾽ ἔχρησε “Σατύριόν τοι δῶκα Τάραντά τε πίονα δῆμον οἰκῆσαι, καὶ πῆμα Ἰαπύγεσσι γενέσθαι”. Ἧκον οὖν σὺν Φαλάνθῳ οἱ Παρθενίαι, καὶ ἐδέξαντο αὐτοὺς οἵ τε βάρβαροι καὶ οἱ Κρῆτες οἱ προκατασχόντες τὸν τόπον. Τούτους δ᾽ εἶναί φασι τοὺς μετὰ Μίνω πλεύσαντας εἰς Σικελίαν, καὶ μετὰ τὴν ἐκείνου τελευτὴν τὴν ἐν Καμικοῖς παρὰ Κωκάλῳ συμβᾶσαν ἀπάραντας ἐκ Σικελίας κατὰ δὲ τὸν ἀνάπλουν δεῦρο παρωσθέντας, ὧν τινὰς ὕστερον πεζῇ περιελθόντας τὸν Ἀδρίαν μέχρι Μακεδονίας Βοττιαίους προσαγορευθῆναι. Ἰάπυγας δὲ λεχθῆναι πάντας φασὶ μέχρι τῆς Δαυνίας ἀπὸ Ἰάπυγος, ὃν ἐκ Κρήσσης γυναικὸς Δαιδάλῳ γενέσθαι φασὶ καὶ ἡγήσασθαι τῶν Κρητῶν· Τάραντα δ᾽ ὠνόμασαν ἀπὸ ἥρωός τινος τὴν πόλιν [Parlando della fondazione (di Taranto) Antioco dice che, finita la guerra messenica, quelli degli Spartani che non avevano partecipato alla spedizione (divenuti) schiavi) furono pure chiamati iloti, chiamavano parteni i loro figli nati durante la spedizione e li ritenevano indegni. Questi non sopportandolo, erano molti, cospirarono contro i rappresentanti del popolo. Questi essendosene accorti, mandarono alcuni che fingendo amicizia avevano il compito di trarre informazioni sul complotto. Tra questi (i congiurati) c’era anche Falanto che sembrava essere il loro capo, anche se non era gradito generalmente a tutti i (congiurati) nominati. Si era stabilito che nel corso delle feste in onore di Apollo Giacinzio mentre la gara si svolgeva nell’Amicleo quando Falanto si fosse messo in testa il cappello l’attacco sarebbe stato scatenato. I rappresentanti del popolo erano riconoscibili dalla  erano riconoscibili dalla capigliatura. Avendo i compagni di Flanto rivelato involontariamente il piano e celebrandosi i giochi, un araldo fattosi avanti disse che Falanto non doveva mettersi il cappello. Accortisi che la congiura era stata scoperta, alcuni fuggirono, altri si misero a supplicare. (I rappresentanti del popolo) dopo aver ordinato loro di farsi coraggio li misero sotto custodia e inviarono Falanto al tempio del dio (Apollo) perché lo consultasse circa il suo esilio da commutare in fondazione di una colonia.Egli (il dio) rispose: – Ti concedo Satyrion e il ricco paese di Taranto e di diventare la rovina per gli Iapigi -. I Parteni dunque andarono con Falanto e li accolsero i barbari e i Cretesi che avevano occupato il luogo. Dicono che fossero quelli  che avevano navigato con Minosse alla volta della Sicilia e che, dopo la sua morte sopraggiunta a Camico alla corte di Cocalo, salpati dalla Sicilia, durante il ritorno capitarono qui; che alcuni di loro poi, avendo percorso a piedi la costa adriatica finio alla macedonia furono chiamati Bottiei. (Dicono che) furono chiamati tutti Iapigi fino alla Daunia da Iapige, il quale sarebbe nato a Dedalo da una donna cretese e che egli abbia guidato i Cretesi. Chiamarono la città Taranto da un eroe).

Lo stesso Strabone ci tramanda poco dopo nello stesso capitolo dello stesso libro la testimonianza di un altro storico del V secolo a. C., Eforo:   Οἱ δὲ σταλέντες κατελάβοντο τοὺς Ἀχαιοὺς πολεμοῦντας τοῖς βαρβάροις, μετασχόντες δὲ τῶν κινδύνων κτίζουσι τὴν Τάραντα [Essi (i Parteni) dopo essere partiti (da Sparta per fondare una colonia) trovarono gli Achei che combattevano con i barbari e condividendo i pericoli fondano Taranto).

Le fonti successive a queste non dicono nulla di diverso: Giustino (II secolo d. C.) nell’Epitome delle Storie Filippiche (l’originale è andato perduto) di Pompeo Trogo (I secolo a. C.-I secolo d. C.): III, 4, 10-18: Itaque nec salutatis matribus, e quarum adulterio infamiam collegisse videbantur, ad sedes inquirendas proficiscuntur; diumque et per varios casus iactati tandem in Italiam deferuntur et occupata arce Tarentinorum, expugnatis veteribus incolis, sedem ibi constituunt. Sed post annos plurimos dux eorum Phalantus per seditionem in exilium proturbatus Brundisium se contulit, quo expulsi sedibus suis veteres Tarentini concesserant. His moriens persuadet ut ossa sua postremasque reliquias conterant et tacite spargi in foro Tarentinorum curent; hoc enim modo recuperare illos patriam suam posse Apollinem Delphis cecinisse. Illi arbitrantes eum in ultionem sui civium fata prodidisse praeceptis paruere. Sed oraculi diversa sententia fuerat. Perpetuitatem enim urbis, non amissionem hoc facto promiserat. Ita ducis exulis consilio et hostium  ministerio possessio Tarentina Partheniis in aeternum fundata, ob cuius benefici memoriam Phalanto divinos honores decrevere [E così (i Parteni) senza neppure salutare le madri dal cui adulterio sembravano aver assunto l’infamia, partono per cercare (nuove) sedi; sballottati a lungo e da varie peripezie finalmente sono sospinti in Italia e qui pongono le loro sedi dopo aver espugnato la rocca dei Tarentini e cacciato i vecchi abitanti. Ma dopo parecchi anni il loro capo Falanto colpito da una condanna all’esilio nel corso di una rivolta si portò a Brindisi, dove si erano rifugiati i Tarentini espulsi dalle loro sedi. In punto di morte li convince a ridurre in polvere le sue ossa e gli ultimi resti e a curare che siano in silenzio sparsi nella piazza dei Tarentini; (dice che) Apollo a Delfi aveva vaticinato che essi in questo modo potevano recuperare la patria. Essi, pensando che per vendicarsi dei suoi cittadini avesse ad inganno svelato l’oracolo, obbedirono all’ordine. Ma diverso era stato il responso dell’oracolo. Con quel gesto infatti aveva promesso il possesso perpetuo, non la perdita della città. E così, grazie alla saggezza del capo esule e alla disponibilità dei Tarentini fondato in eterno il possesso di Taranto per i Parteni, a ricordo di questo beneficio decretarono a Falanto onori divini).

Servio (IV secolo a. C.), Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, III, 551): HERCULEI SI VERA EST FAMA TARENTI  fabula talis est: Lacones et Athenienses diu inter se bella tractarunt et, cum utraque pars adfligeretur, Lacones, quibus iuventus deerat, praeceperunt ut virgines cum quibuscumque concuberent. Factum est ita et cum post sedata bella iuventus incertis parentibus nata et patriae erubesceret et sibi esset obproprio, nam partheniatae dicebantur, accepto duce Phalanto, octavo ab Hercule, profecti sunt, delatique ad breve oppidum Calabriae, quod Taras, Neptuni filius, fabricaverat, id auxerunt et prisco nomine appellaverunt Tarentum (SE È VERA LA FAMA DELL’ERCULEA  TARANTO il mito è questo: I Laconi e gli Ateniesi a lungo furono in guerra e poiché entrambe le parti soffrivano, i Laconi ai quali i giovani erano venuti meno, stabilirono che le vergino giacessero con chiunque. Avvenne così che a guerra finita,  essendo la gioventù nata da padri incerti motivo di vergogna per la patria e di disonore a se stessa, infatti erano chiamati parteniati [alla lettera figli di vergini o, più correttamente, di donne non sposate], accolto come capo Falanto, ottavo discendente di Ercole, partirono e, sospinti verso una piccola città della Calabria, che Taras, figlio di Nettuno, aveva edificato, la ingrandirono e la chiamarono Taranto con l’antico nome).

Per completezza va detto che anche gli Spartani entrarono in contatto con i Tarentini secondo Dionigi di Alicarnasso (I secolo a. C.), Antiquitates Romanae, XIX, 3: Λευκίππῳ τῷ Λακεδαιμονίῳ πυνθανομένῳ ὅπου πεπρωμένον αὐτῷ εἴη κατοικεῖν καὶ τοῖς περὶ αὐτόν, ἔχρησεν ὁ θεὸς πλεῖν μὲν εἰς Ἰταλίαν, γῆν δὲ οἰκίζειν, εἰς ἣν ἂν καταχθέντες ἡμέραν καὶ νύκτα μείνωσι. Καταχθέντος δὲ τοῦ στόλου περὶ Καλλίπολιν ἐπίνειόν τι τῶν Ταραντίνων ἀγασθεὶς τοῦ χωρίου τὴν φύσιν ὁ Λεύκιππος πείθει Ταραντίνους συγχωρῆσαί σφισιν ἡμέραν αὐτόθι καὶ νύκτα ἐναυλίσασθαι.  Ὡς δὲ πλείους ἡμέραι διῆλθον, ἀξιούντων αὐτοὺς ἀπιέναι τῶν Ταραντίνων οὐ προσεῖχεν αὐτοῖς τὸν νοῦν ὁ Λεύκιππος, παρ᾽ ἐκείνων εἰληφέναι λέγων τὴν γῆν καθ᾽ ὁμολογίας εἰς ἡμέραν καὶ νύκτα· ἕως δ᾽ ἂν ᾖ τούτων θάτερον, οὐ μεθήσεσθαι τῆς γῆς. Μαθόντες δὴ παρακεκρουσμένους ἑαυτοὺς οἱ Ταραντῖνοι συγχωροῦσιν αὐτοῖς μένειν (Allo spartano Leucippo, che aveva chiesto dove fosse destinato a lui e ai suoi compagni aver la sede, il dio rispose di navigare verso l’Italia, di abitare una terra in cui una volta sbarcati fossero rimasti un giorno e una notte. Sbarcata la spedizione nei pressi di Gallipoli, uno scalo dei Tarantini, Leucippo, estasiato dalla natura del posto, convince i Tarantini a consentire loro di accamparsi lì un giorno e una notte. Dopo che passarono parecchi giorni e i Tarantini gli chiesero di andar via Leucippo non diede loro retta, dicendo di aver ricevuto  da loro la terra secondo l’accordo per giorno e notte: finché ci fosse stato uno di questi, non avrebbe restituito la terra. I Tarantini, avendo capito di essere stati imbrogliati, permisero loro di restare).

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189. 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/

 

 

_____________

1 Tarentini Achaei=I Tarentini Achei. “Sotto il nome di Tarentini Achaei debbono intendersi i primi coloni di questa Città, che furono i Noachidi, ossia i discendenti de’ nipoti di Noè, qual fu Taras, ovvero Tiras figlio di Giapeto. Presso tutt’i popoli primitivi della Grecia venne generalmente consacrato questo nome collettivo di Achaei, che significò nel loro linguaggio Aborigini, o senz’alcun capo, e principio, perciocché eglino si gloriavano di esser solamente indigeni del loro paese. L’emblema quindi, che fu sin dal principio da essi adottato, rappresentò bastantemente la loro origine, non che la fosoca posizione di questa Città da essi prima fondata sotto il nome di Taranto” (L. Cepolla, op. cit., pag. 10).

2 Tarentini Cretenses=I Tarentini Cretesi. “La venuta de’ Cretesi in Taranto nacque dall’aver voluto essi vendicare la morte del loro Re Minos accaduta presso Cocalo Re della Sicilia; e fu perciò, che dopo di aver trucidati gli Achei dominatori di Taranto, i Cretesi vi si stabilirono colle loro genti sino alla venuta della colonia condotta da Falanto Spartano. Ecco perché in una dell’antiche Medaglie di detta Città si osserva l’Aquila colle ali aperte, ed avente negli artigli i fulmini. Questo emblema fu proprio de’ Cretesi, come si è osservato di sopra, perché da loro si adorava Giove, a cui dall’antichità fu consacrata l’Aquila” (L. Cepolla, op. cit., pagg. 10-11).

3 Tarentini Spartiates=I Tarentini Spartiati. “L’ultimo periodo dell’antica storia di questa Città si trova essere stato quello della venuta della colonia di Falanto co’ suoi Parteni, ossia Spartani. Quindi è assai facile di dar la ragione dell’emblema rappresentante l’Eroe Falanto a cavallo, e della clava di Ercole; perciocché gli Eraclidi, da’ quali direttamente procedevano gli Spartani, erano i veri discendenti di Ercole” (L. Cepolla, op. cit., pag. 11).

4 L. Cepolla, op. cit., pag. 4.

 

 

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (2/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

DISTRETTO DI LECCE

1bis

 

Ecco i dettagli citati nell’opuscolo: “1) Minerva progrediente col motto Lycii Japygum ultima colonia1; 2) Il dio Pane, ed il Lupo, col motto Lycii Japygo-Messapii2; 3) L’Aquila, che nasconde la testa tra le nuvole, col motto allusivo Lycii Cretenses et Salentini3″4.

Procederemo ora ad esaminarli uno per uno partendo dal basso e aggiungeremo anche la descrizione di quei dettagli che nell’opuscolo non sono citati.  Faremo così anche con le altre tre facce dedicate agli altri distretti.

“L’Autore vuole ancora, che il pubblico abbia la conoscenza di una sua latina iscrizione, da lui fatta per l’Aguglia medesima, nella quale essa non vedesi scolpita per causa della di lui assenza da Lecce. Egli ben si lusinga di meritarne alcun favorevole suffragio, che vale sempre più di quello, che gli verrebbe dall’opera dello scalpello.

FERDIN. I Siciliarum Regum omnium optumo

  1. F. invicto Augusto

                  Viam hanc Praetoriam,

                                Quod,

Ubi eam fieri concessit, suum etiam sacrum

               nomen commendaverit,

Moxque, ut abs Tarento Neapolim usque

                          sterni jusserat,

Ipsum quoque ad quatuor Salenti regiones

                extendendam permiserit,

Ad perpetuum istius beneficii memoriam servandam,

Qua harum viarum caput occurrit, pyramide

                         a solo excitata,

Cunti5 hujus, populique

Concordibus, gratisque animis consecrarunt.

  1. AE. Chr. MDCCCXXII6

 

Eccone la traduzione linea per linea, nei limiti del possibile:

A Ferdinando I il migliore di tutti i re delle Sicilie,

pio felice invitto Augusto.

Questa via pretoria,

poichè

quando concesse che fosse costruita, anche il suo sacro

nome (le) diede,

e ora, come da Taranto fino a Napoli

aveva disposto che fosse spianata,

che essa pure alle quattro regioni del Salento

venisse estesa permise,

per conservare il perpetuo ricordo di questo beneficio,

dove è posto l’inizio di queste vie, una piramide

essendo stata elevata dal suolo,

tutte le istituzioni e i popoli di questa provincia

consacrarono con animo concorde e grato.

Nell’anno 1822 dell’era di Cristo.

 

Sul monumento, invece, venne incisa quella che all’inizio abbiamo riprodotto e che qui replichiamo.

Traduzione: A Ferdinando I di Borbone molto provvido re del Regno delle Due Sicilie, restauratore della pubblica felicità, poiché diede ordine che la via rotabile da tutti i principi prima intentata, opportunissima per il commercio della provincia otrantina e delle confinanti, fosse spianata e che all’eternità del nome di Augusto fosse consacrata. I cittadini di ogni ordine, gli abitanti del posto ed i vicini, formulati voti augurali per la prosperità del principe e la saldezza della casa augusta, devotissimi alla sua potenza e maestà.

Poiché il Cepolla lamenta che l’iscrizione che aveva preparato non vedesi scolpita, che quella che oggi leggiamo presenta non solo discordanze testuali notevoli ma, soprattutto l’assenza di un dettaglio presente in ogni epigrafe che si rispetti, cioè  la data, bisogna concludere che la stessa fu apposta successivamente all’uscita dell’opuscolo cioè durante o dopo il 1827, a cinque o più anni dalla visita del sovrano (1822), a tre o più dalla sua morte (1 gennaio 1825).  Tutto ciò giustificherebbe l’assenza della data, anche se lo spazio libero del margine inferiore poteva benissimo contenere non una ma due linee, il che non esclude che almeno un rigo sia stato abraso (per vandalismo politico? e quando?), anche perché il dettaglio nella prima immagine anteriore al recente restauro, mostrerebbe, rispetto al secondo successivo al restauro qualche residuo di incisione.

Continuando l’esame della facciata dell’obelisco dedicata al distretto di Lecce incontriamo un’iscrizione non citata nel progetto del Cepolla. È un augurio di buon viaggio per chi è diretto ad Otranto. Alla stessa altezza nelle facce dedicate agli altri distretti leggeremo messaggi analoghi, anche loro, come questo, non citati dal progettista.

 

 

Per questa origine di Lecce dai Lici il Cepolla ha seguito Erodoto (V secolo a. C.) per il quale (Storie, VII, 170): Ὡς δὲ κατὰ Ἰηπυγίην γενέσθαι πλέοντας, ὑπολαβόντα σφέας χειμῶνα μέγαν ἐκβαλεῖν ἐς τὴν γῆν: συναραχθέντων δὲ τῶν πλοίων, οὐδεμίαν γάρ σφι ἔτι κομιδὴν ἐς Κρήτην φαίνεσθαι, ἐνθαῦτα Ὑρίην πόλιν κτίσαντας καταμεῖναί τε καὶ μεταβαλόντας ἀντὶ μὲν Κρητῶν γενέσθαι Ἰήπυγας Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπειρώτας [(Si racconta) che come (i Cretesi) navigando giunsero presso la Iapigia una grande tempesta dopo averli sorpresi li scaraventò a terra; essendosi fracassate le navi non c’era nessuna possibilità per loro di tornare a Creta. Allora, dopo aver fondato la città di Hyrie, restarono passando ad essere, invece di Cretesi, Iapigi Messapi, continentali invece di isolani)].

Per completare il quadro di questa commistione va detto che per Erodoto i Lici provenivano da Creta; op. cit., VII, 92: Λύκιοι δὲ Τερμίλαι ἐκαλέοντο ἐκ Κρήτης γεγονότες, ἐπὶ δὲ Λύκου τοῦ Πανδίονος ἀνδρὸς Ἀθηναίου ἔσχον τὴν ἐπωνυμίην (i Lici originari di Creta si chiamavano Termili ma presero il nome da Lico figlio dell’ateniese Pandione).

Anche se il Cepolla non lo dice espressamente, per lui Lecce è, pure etimologicamente parlando, da Lici). Sull’origine cretese dei Salentini ecco come si esprime Strabone (I secolo a. C.-I d. C.), Geographia, VI, 3: Τοὺς δὲ Σαλεντίνους Κρητῶν ἀποίκους φασίν (Dicono che i Salentini sono coloni dei Cretesi).

Questo dettaglio, insieme col successivo, si ripete, come abbiamo già detto, tal quale sulle altre tre facce. Si è pure detto che nell’opuscolo si parla solo di “uva intrecciata con frondi di ulivo”: le spighe di grano, che nel monumento hanno una rilevanza figurativa pari, come si può agevolmente notare, al ramo d’ulivo e al tralcio d’uva, non compaiono.

Anche questo dettaglio, insieme col precedente, si ripete tal quale sulle altre tre facce, riferendosi ad elementi perfettamente comuni ai quattro distretti.

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/  

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/            

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1 Lycii Japygum ultima colonia= I Lici ultima colonia degli Iapigi. “I discendenti di Giapeto rappresentati generalmente da tutti questi popoli [Siri-Egizi, Babilonesi ed Assiri] devono certamente considerarsi come gli autori dell’origine del loro nome collettivo di Giapigi nella prima epoca della civilizzazione dei nostri aborigeni…restò in fine riconosciuta per ultima colonia de’ cosiddetti Giapigi la Città di Lecce…chiara, ed evidente pruova nell’istessa significazione del primo di lei nome, che fu quello di Sybaris, dappoiché secondo il linguaggio Caldeo significa Figli della divinità del Sole. Quindi è ben agevole comprendere la ragione dell’assunto di loro emblema della Dea Minerva progrediente, poiché in siffatta guisa restò abbastanza definito il carattere della loro origine Achea, essendo stata Minerva la prima condottiera delle principali colonie di tali Genti”. (L. Cepolla, op. cit., pagg. 7-8).

2 Lycii Japygo-Messapii=I Lici Iapigo-Messapi. “Il secondo periodo dell’antica storia di questa Città si rinviene facilmente nella politica, e religiosa riunione dei primitivi Giapigi co’ popoli Messapi, ossia cogli altri nostri primi coloni  Arabo-Egizi, giacchè tanto per l’appunto suona letteralmente il nome Messapus. Imperciocché non vi è dubbio, che il culto del Sole fu proprio dei Babilonesi, e degli Assiri, non che degli Arabo-Fenici, e degli Egizi, i quali adorarono la natura sotto tutt’i rapporti della fisica rappresentazione di tutti i di lei effetti; e da ciò avvenne, che fu da loro immaginato il Dio Pane, il quale colla sua figura rappresentava tutto l’ordine della natura” (L. Cepolla, op. cit., pag. 8).

3 Lycii Cretenses et Salentini=I Lici Cretesi Salentini. “L’ultimo periodo dell’antica storia di questa Città…può bene attribuirsi intieramente al glorioso avvenimento del governo della Dinastia Cretese sopra tutta questa Provincia. Licio Idomeneo, tanto per effetto delle sue armi, che per mezzo del matrimonio che contrasse con Evippa figlia di Malennio Re dei Messapi, fondò il suo trono sopra tutti i popoli di questa Penisola…Meritò quindi a buon diritto codesto sì grande avvenimento di esser consacrato all’immortalità coll’emblema di un’Aquila, che innalza la sua testa sopra le nuvole. Si sa, che l’Aquila è sacra a Giove, il quale nacque in Creta sul Monte Ida, onde i Cretesi assunsero per emblema nazionale il divino Augello. Qui ella figura, che vola, e nasconde la testa nelle nuvole per indicar la sublimità dell’origine del prototipo di siffatto emblema, qual fu Giove, padre degli uomini, e degli Dei” (L. Cepolla, op. cit., pag. 8).

4 L. Cepolla, op. cit., pag. 3.

5 Per Cuncti.

6 L. Cepolla, op. cit., pag. 16.

 

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