L’Albania salentina nell’atlante del Pacelli (1803) posseduto a suo tempo da Giuseppe Gigli e il giallo di una nota

di Armando Polito

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Ai lati dell’Atlante sallentino Giuseppe Pacelli (1763-1811) e Giuseppe Gigli  (1862-1921) in due immagini tratte, rispettivamente, da: Elio Dimitri, Un erudito manduriano, Barbieri, Manduria, 1993 e G. B. Arnò, Manduria e Manduriani, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1943

 

Dopo essermi occupato delle torri costiere quali appaiono in una copia dell’Atlante salentino di Giuseppe Pacelli (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/03/le-torri-costiere-del-salento-nelle-mappe-giuseppe-pacelli/), oggi l’attenzione è rivolta alle comunità di lingua albanese trattate dallo stesso autore in un’altra sezione del suo atlante.  Questa volta utilizzerò il manoscritto autografo del 1803 custodito a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti (MS. Rr/5)1.

Di seguito riproduco la carta 1r contenente la dedica e la 2r contenente il frontespizio, trascrivendo ed annotando il testo quando l’ho ritenuto necessario. In blu la mia traduzione.

carta 1r

Ad comptum incomparabilemque Equitem D. Dominicum Salzedo Patricium Hydruntinum Iosephi Canonici Pacelli Disticon

Quem tibi nunc mitto, graphicus Salzede, libellus,/est dulcis est fructus nostrae Amicitiae

Distico di Giuseppe Pacelli per l’elegante ed incomparabile cavaliere Don Domenico Salzedo patrizio otrantino

Il libretto illustrato che ora t’invio, o Salzedo, è il dolce frutto della nostra amicizia.

In basso si leggono due note posteriori corrispondenti ad (a) e (b) aggiunte anch’esse nel frontespizio:

a) Quest’atlante fu ideato e copiato dal Canonico Giuseppe Pacelli di Manduria, mio lontano parente, essendo egli zio o cugino a Maddalena Pacelli, madre di mio padre Salvatore3. Quand’io l’ebbi trovai cancellato il cognome Pacelli, come si vede. A scanso di qualunque equivoco ho scritta questa nota. Manduria 13 giugno 1893 Giuseppe Gigli.

b) Il nome dell’autore, cancellato forse in malafede, fu rimesso al suo posto da me 5/12/09 Cesare Antonio ?

Il compilatore della scheda descrittiva considera della stessa mano le due note e le trascrive puntualmente; solo che la trascrizione della seconda si ferma alla data, proprio in corrispondenza di quella che non può essere altro che una firma e della quale mi pare di leggere abbreviati Cesare (nell’originale Ces) e Antonio (nell’originale Ant), mentre il presunto cognome mi ha posto serie difficoltà, tant’è che ho usato il punto interrogativo.

Nelle due immagini che seguono la comparazione tra il Pacelli riscritto nel frontespizio e quello  che compare nella nota a).

Direi che le differenze sono notevoli (vedi soprattutto la a). La differenza appare ancor più evidente se si compara la grafia della lettera d della prima nota con quella della seconda. Difficile ipotizzare un’evoluzione dovuta ai sedici anni trascorsi tra la stesura della prima nota e quella della seconda. E poi: il Pacelli, se fosse stato l’estensore pure della seconda nota, non avrebbe ritenuto opportuno fare un riferimento, per quanto lapidario, alla prima? Rimane, comunque, il problema della lettura della presunta firma dopo la data nella seconda nota e sarò grato a chiunque, essendoci cimentato col problema, sia giunto a qualche risultato.

In conclusione: per me questa seconda nota non fu scritta e sottoscritta dal Gigli e il compilatore della scheda si è lasciato trarre in inganno da alcune somiglianze grafologiche.

Prima di passare alle carte dell’atlante in cui è trattato l’argomento del titolo, mi pare doveroso dire qualcosa a proposito di Giuseppe Gigli (1862-1921) al di là del filo che lo lega al Pacelli parentalmente, come lui stesso dichiarato nella nota a), territorialmente (nato anche lui a Manduria) e per il comune interesse manifestato per la Terra d’Otranto.

Letterato dai molteplici interessi, la sua produzione spaziò dalla poesia alla saggistica, a parte i contributi sparsi in varie riviste. Mi limiterò a fornire l’elenco delle opere più importanti: Visioni e paesi, Puccini & figli, Ancona, s. d.; Confidenze: poveri versi, Parodi, Taranto, 1884; Fiammelle, Vecchi, Trani, 1885; Foglie al vento, Bellinzaghi, Gallarate, 18854; Antiquus fons, Tipografia Editrice Salentina, 1887; Le perle dell’imperatrice, Tipografia dell’unione cooperativa editrice, Roma, s. d.; Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, Barbera, Firenze, 1893 (ristampa: Filo, Manduria, 1998); Scrittori manduriani, Tipografia salentina del cav. G. Spacciante, Lecce, 1888 (IIa edizione: Spagnolo, Manduria, 1896, ristampata a cura di Walter Tommasino, Filo, Manduria, 2002); Lecce e dintorni e Gallipoli, Otranto e dintorni, due monografie facenti parte della collana Il tallone d’Italia, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo, rispettivamente, 1911 e 19125; Novellieri minori del Cinquecento: Girolamo Parabosco-Sebastiano Erizzo, Giuseppe Laterza & figli, Bari, 1912 (volume curato insieme con Fausto Nicolini); Sigismondo Castromediano, Formiggini, Genova, 1913.
carta 1v

Atlante salentino o sia la provincia di Otranto divisa nelle sue diocesi MDCCCIII

In basso quello che definirei, più che stemma, una sorta di sigillo  in cui spicca un’aquila bicipite, mentre nella corona circolare che la delimita si legge IOSEPHUS CANONICUS PACELLI MANDURIENSIS. Lascio al’altrui competenza specifica la lettura e l’interpretazione del valore simbolico, oltre che dell’aquila (l’autorità imperiale?) degli altri dettagli (il sole in alto e all’interno dello scudo circolare centrale quelle che appaiono come due fabbriche (o due seggi) separate da un fiume (distinzione tra papato e impero?).

Passo ora alle carte riguardanti l’Albania Salentina.         .

carta 17r    

Fra i paesi, che compongono la Diocesi di Taranto, ve ne sono alcuni, ne’m quali gli Abitanti, oltre del linguaggio a tutta la Provincia comune, parlano fra di loro la lingua Albanese, per cui si è dato a questa mappa il Titolo di Albania Sallentina. Sei sono al presente i Paesi di linguaggio Albanese, cioè San Crispiere, Faggiano, Rocca Forzata, San Martino, Monteparano, e San Marzano. La città di Taranto, allorché era Repubblica in tempo della Magna Grecia, fu tanto famosa per la gloria delle sue armi, che non solo colle truppe alleare de’ Lucani, de’ Bruzi, de’ Sanniti, de’ Messapi,de’ Sallentini fece posto ai Romani, de’ quali più volte ne arrestò le conquiste, e venne a patti: ma avea prestato anche prima militari soccorsi ai Stranieri, come agli Epiroti nella conquista della Macedonia, e dell’Isola di Corcira, e ai Lacedemoni contro degli Ateniesi. Roma però, la quale gli ostacoli stessi rendevan più forte, dopo avere o a se associati, o debellati, o interamente distrutti gli eserciti or dell’una, or dell’altra delle vicine Provincie, aspirò ben presto all’impero di tutta l’Italia; e le vicine Repubbliche delle Città Italo-Greche, non ostante che tenevano in piedi poderosissime armate e di terra, e navali, si avvidero di buon’ora, che presto, o tardi sarebbe anche ad esse toccato. di correre l’istessa sorte. Infatti no tardò molto, che l’Esercito Tarantino, e gli Alleati non furono più valevoli ad opporsi da se soli ai Romani, e furono costretti a ricorrere alle forze di que’, ai quali altra volta avevan prestato l’aiuto. Invitarono perciò Pirro, re dell’Epiro, il quale coi suoi Epiroti volò in soccorso di Taranto contro i Romani. Le avventure di tal calata di Pirro  nell’Italia le racconta l’Istoria, a cui rimetto il Lettore. Or mi sembra un delirio l’opinar di taluni, che pretendono attribuire alla gente, che seco menò Pirro in soccorso di Taranto, l’origine de’ Paesi, de’ quali parliamo, e ‘l lor linguaggio Albanese. Essi non vantano un’antichità sì prodigiosa, e sono di origine assai posteriore, surti ne’ tempi bassi. Ad altri Albanesi asunque più a noi vicini, e non a quelli menati da Pirro, è dovuta l’introduzione del lor linguaggio fra noi. Son d’accordo moltissimi, che la lingua Albanese s’introdusse nel Regno dopo la metà del secolo XV, colla venuta che fece nella Puglia il celebre Re d’Albania Giorgio Castrioto, sotto il nome di Scanderbeg, per soccorrere il nostro Re Ferdinando d’Aragona, assediato dentro la Città di Bari, e da cui poi per il soccorso prestato n’ebbe in dono alcune Città, e fra le altre la Città di Trani. E  i naturali della nostra Albania Sallentina a tal’epoca riportano l’introduzione anche fra loro di tal linguaggio. Io non voglio ciò loro contendere; ma non ritrovo memorie, né so, qual rapporto abbia mai avuto lo Scanderbeg, o la dilui gente con i loro Paesi, né tampoco collo Stato di Taranto, allora posseduto da Gio. Antonio del Balzo, sicché per la vicinanza si possa dire, che abbian potuto gli Albanesi di Scanderbeg in questi Paesi annidarsi. Se io mal non mi avviso, credo piuttosto, che l’introduzione della lingua Albanese in questi luoghi debbasi attribuire alla seconda venuta in Regno degli Albanesi, che accadde poco meno d’un Secolo dopo, e propriamente il 1530, quando per sottrarsi dalla tirannia del Turco molte nobili, e ricche Famiglie abbandonando la Patria, dall’Albania nella Puglia

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si trasferirono sotto la protezione del Cattolico Re di Spagna.Tra queste Famiglie di Gentiluomini Albanesi vi fu la Famiglia Basta, da cui uscì il celebre Guerriero, conduttore di eserciti, e valoroso Scrittore di dotte Opere, Giorgio Basta, un ramo della quale Famiglia perché fece compra di alcuni di questi Paesi della nostra odierna Albania Sallentina, come di San Martino, di Monteparano, vi si venne a fissare. E l’istesso Giorgio Basta, che comprò Civitella, oggi distrutta, si crede che in questi Paesi avesse sua spoglia mortale lasciato; d’onde nacque poi l’errore, adottato alla cieca da tutti i Biografi, ed ultimamente dai Traduttori dell’ultimo voluminosissimo Dizionario degli Uomini Illustri, che Giorgio Basta nato fosse in Rocca Forzata, mentre nacque iun Ulpiano nel Monferrato, come nella nostra Bibliografia Sallentina faremo chiaro. Al dominio dunque, ch’ebbe la Famiglia Basta su alcuni Paesi di questa Contrada, e alla dimora che vi fece per molti anni piuttosto, che alla gente menata in Regno da Scanderbeg inclinerei a credere (semprecché non si avessero prove in contrario) doversi attribuire l’introduzione in questi Paesi del linguaggio Albanese.

carta 18v 

                

Riporto dalla mappa (a chi volesse esaminarla personalmente in tutti i dettagli basterà un primo clic col tasto sinistro su di essa e un secondo quando il cursore sarà diventato una lente d’ingrandimento) i toponimi dell’isola alloglotta:

BELVEDERE: oggi contrada di Roccaforzata.

SANTO CRISPIERE: oggi San Crispieri, frazione di Faggiano, da cui dista 2 km, con 300 abitanti.

FAGGIANO: oggi idem

MONTEPARANO: oggi idem

ROCCA FORZATA; oggi Roccaforzata,

SANTO MARTINO: nome di un antico casale tra Roccaforzata e Monteparano: ne fu possessore Raffaele delli Falconi di Lecce fino al 1507, anno in cui passò al comandante albanese Lazzaro Mathes.

SANTO MARZANO: oggi San Marzano di san Giuseppe.

Questa era la situazione agli inizi del XIX secolo. Oggi nei centri sopra indicati sopravvive qualche tradizione del paese d’origine, ma la lingua solo a San Marzano di san Giuseppe. Quanto questo residuo dell’Albanuia salentina riuscirà a sopravvivere o subirà inesorabilmente l’azione catalizzatrice della globalizzazionee ricalcando in questo la Grecìa salentina?

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1 integralmente leggibile e scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000216271&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU

2 Per l’estensore della scheda è un 9.

3 Su Salvatore Gigli così scrive Cosimo De Giorgi in La provincia di Lecce; bozzetti di viaggio, Spacciante, Lecce, 1882, p. 129: Nel 77 vi stabilii un osservatorio termopluviometrico affidandone le cure al mio distintto amico signor Salvatore Gigli, che ha collocato gli strumenti nel suo stabilimento a vapore per la macinazione dei cereali e per la frangitura delle olive a pochi passi dalla città. Nell’immagine che segue, tratta da http://rete.comuni-italiani.it/w/images/Manduria_-_Lapide_a_Salvatore_Gigli_-_Chiesa_Santissima_Croce.jpg, la lapide posta nella chiesa della Santissima Croce.

4 Libro rarissimo, del quale riproduco il frontespizio dall’esemplare rinvenuto in ebay (https://www.ebay.it/itm/GIUSEPPE-GIGLI-poesie-manduria-opera-di-estrema-rarita-sconosciuta-ai-biografi/112763732993?hash=item1a413e0401:g:ZZ4AAOSwTM5Y24Uw)

                                                                                                                                                                                      5   

             

Libri| Pane! …Pace!…Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra

Appuntamenti

Aradeo, 3 Marzo 2017 – ore 19:00

Pane! …Pace!…Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra

A distanza di un secolo dal conflitto che sconvolse la storia europea e mondiale, nuovi studi e ricerche arricchiscono la già prolifica bibliografia esistente. Numerosissime le materie di studio oggetto di recenti pubblicazioni: dalle scelte strategiche e militari sui diversi fronti alle conseguenze politiche di breve e lungo periodo; dai retroscena diplomatici alle ripercussioni sulla psiche dei singoli; dal ruolo dei soldati a quello delle donne, ecc.. Tra i tanti, quest’ultimo aspetto è andato sempre più posizionandosi al centro dell’interesse degli storici, favorendo nell’ultimo ventennio la diffusione di indispensabili studi anche (e soprattutto) di carattere locale.

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Il nuovo libro di Salvatore Coppola, Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra (Giorgiani Editore, Lecce 2017), trattando l’impatto avuto dalla Grande Guerra sulle donne delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, si addentra in un terreno fino ad oggi pressoché inesplorato. Basandosi su una ricca bibliografia di carattere generale e, soprattutto, su un eccezionale patrimonio archivistico, quest’opera, dopo una doverosa introduzione di carattere storico e storiografico, ripercorre in ordine cronologico le manifestazioni di protesta inscenate a partire dal 1916. Manifestazioni legate alla fame, al desiderio di riabbracciare i propri cari al fronte, al bisogno di pane e pace. Tra cause oggettive e soggettive, con periodi di tensione e di ripiegamento, il volume analizza l’evoluzione in Terra d’Otranto di un movimento di lotta e rivendicazione avente per protagoniste le donne.

Tali proteste, il più delle volte lontane dalla politica e dalle organizzazioni partitiche o di categoria, delinearono per le masse popolari femminili un inedito ruolo, fuori dalle tradizionali barriere domestiche. Una nuova prospettiva per le donne salentine (ed italiane in genere) di fatto contenuta nell’immediato dopoguerra e poi totalmente repressa dal fascismo.

 

Sabato 3 marzo, presso la Biblioteca Comunale di Aradeo, Salvatore Coppola presenterà il libro Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra discutendone con Michele Bovino, responsabile della stessa Biblioteca, e con Alessio Palumbo, direttore de Il Delfino e la Mezzaluna.

Giovan Paolo Vernaleone da Galatina

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

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Rosario Moscheo, Giovan Paolo Vernaleone da Galatina

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 141-178.

 

 

ITALIANO

Lo studio di Rosario Moscheo sulla figura di Giovan Paolo Vernaleone riprende e compendia un articolo comparso oltre venti anni fa sulla rivista «Helikon» (R. Moscheo, Matematica, filologia e codici in una lettera inedita della fine del XVI secolo, in «Helikon – Rivista di tradizione e cultura classica dell’Università di Messina », A. XXIII-XXIV, 1993-1994, pp. 159-241), mettendo in evidenza, grazie anche alla pubblicazione in appendice di alcune parti di una lettera indirizzata dallo stesso Vernaleone a Giovanni Vincenzo Pinelli, il ruolo di assoluto primo piano ricoperto dall’umanista galatinese nel contesto scientifico e culturale meridionale di fine cinquecento. Un ruolo che lo mise in contatto, da pari a pari, con grandi figure dell’epoca quali il matematico gesuita Clavio, il filoso Campanella e altri scienziati e uomini di cultura del tempo.

 

ENGLISH

Rosario Moscheo’s study on the image of Giovanni Paolo Vernaleone resumes and abridges an article appeared more than twenty years ago on the journal «Helikon» emphasizing , thanks to the publication in the appendix of some parts of a letter sent by Vernaleone himself to Giovanni Vincenzo Pinelli, the role of extreme close-up covered by the Galatina humanist in the southern scientific and cultural contest of the late sixteenth-century. A role that allowed him to get in touch, as equals, with big characters of that time as the Jesuit mathematician Clavio, the philosopher Campanella and other scientists and intellectuals of the time.

 

Keyword

Rosario Moscheo, Giovan Paolo Vernaleone, Giovanni Vincenzo Pinelli, Cristoforo Clavio, Tommaso Campanella

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Dalla mòria alla morìa

di Armando Polito

immagine tratta da https://www.facebook.com/Salentocomeeravamo/photos/a.305648509568488.1073741828.305645896235416/1010137312452934/?type=3&theater

Intanto, come e ormai per ogni scritto che si rispetti …, voglio dare al post il sottotitolo Da “pezze e capiddhi” e “ci tene la mòria” all'”usa e getta”, più o meno dove ti trovi … Toltami questa soddisfazione, comincio.

Chi, avendo la mia età, non ricorda il fascino esercitato nella sua adolescenza da quella specie di cartiglio che sui manifesti sanciva per un film vietato ai minori di 14 anni? Poi, col mutare dei costumi, si passò prima ai 16, poi ai 18 anni ed ora, vecchierelli, sorridiamo pensando che oggi quei film potrebbero essere proiettati tranquillamente in un convento senza suscitare scandalo …

Ora, chi legge immagini che su questo scritto non sia un post ma un poster su cui campeggia vietato ai minori di 40 anni. Dico questo non per suscitare malsane curiosità al fine di avere furbescamente qualche lettore in più, ma proprio perché non voglio far perdere tempo a chi ha un’età inferiore a quella dell’amichevole divieto. Come potrebbe, infatti, credere verosimili i due personaggi di cui nel post si parla? Per questo, con quanto segue, mi rivolgo esclusivamente agli ultraquarantenni.

Periodicamente passava per le strade con un carretto tirato da un asinello o con un trabiccolo frutto di un trapianto di solito operato personalmente, che prevedeva il sacrificio di una bicicletta i cui 3/4 posteriori, compresa la parte della trasmissione, venivano saldati ad un telaio sorreggente un un cassone di legno con un asse con la ruota residua della bicicletta ad un’estremità ed un’altra simile rimediata all’altra. I suoi clienti erano esclusivamente donne e l’operazione commerciale che esercitava con loro era basata sul baratto: bottoni, lacci per le scarpe, spilli, merletti in cambio di stracci (pezze) e capelli femminili (capiddhi).

Non molto dissimile (in questo caso il principale sacrificato era un mosquito) il mezzo utilizzato da chi raccoglieva la morchia e l’olio esausto (quello delle fritture, non quello minerale, dato l’esiguo numero dei veicoli a motore in circolazione) in cambio per lo più di recipienti in latta smaltata o in alluminio. A partire dai primi anni ’60 si aggiunsero i contenitori in moplen. Al grido di mòria, ci tene la mòria (morchia, chi ha la morchia) su ogni strada principale e relative traverse le donne si precipitavano ad operare il baratto. Probabilmente per loro le due operazioni non erano solo eventi in grado di dare uno sviluppo concreto alla filosofia allora vigente del non si butta niente, la possibilità di un riconoscimento visibile, tangibile delle loro virtù domestiche ma anche una delle rarissime occasioni per entrare in qualche modo in contatto, più o meno consapevolmente, con l’altro sesso. E se disfarsi di moria e pezze era comodo e pure conveniente, i capiddhi restavano pur sempre una parte, per quamto morta, del proprio corpo che veniva consegnata ad un uomo, per di più sconosciuto …

Torno a mòria per dire che ha il suo corrispondente italiano nel prima nominato morchia, che è da un latino *amùrcula(m), diminutivo di amurca. che è, a sua volta, dal greco ἀμόργη (leggi amorghe) connesso col verbo ἀμέργω che significa spremere (in rapporto a morchia è da intendersi in senso passivo, come ciò che viene depositato dal prodotto dopo la spremitura), Va precisato che tale attività era esercitata da persone del Brindisino (il che spiega il mezzo di locomozione a motore), come dimostra proprio moria, che è la variante brindisina del neretino murga. Facile constatare come moria e murga derivano, a differenza di morchia, direttamente dal latino amurca per aferesi di a– e come, sotto il punto di vista del consonantismo, siano più vicini alla voce greca di quanto non lo sia lo stesso amurca.

A quell’improbabile giovane che, nonostante il mio divieto (!), abbia letto queste quattro righe voglio ricordare che oggi va di moda la locuzione raccolta differenziata della spazzatura e riciclaggio dei materiali (compreso il ricordato moplen, per il quale Giulio Natta e Karl Ziegler vinsero il premio Nobel per la chimica nel 1963. Non potevano immaginare all’epoca quale rischio il pianeta avrebbe corso a causa loro e non si può certo revocare loro il premio visto che il titolo di cavaliere o commendatore continua ad essere esibito da personaggi che non hanno nulla di cavalleresco o di commendevole …

Certo, rispetto a pezze e capiddhi ed a ci tene la moria i tempi sono cambiati e nel frattempo, a parte la plastica, sono arrivati pure i rifiuti speciali non trattati ma direttamente tombati. E al giovane, improbabile lettore, dopo aver ricordato quanto appena detto, mi vergogno di chiedergli se, dopo il fallimento della mia generazione, se la sua sarà in grado di dare spessore concreto, anche con piccoli gesti, a quella coscienza ecologica che fino ad oggi, a livello mondiale, è rimasta solo un fragile e, tutto sommato, ipocrita, sostanzialmente disatteso proposito? La coscienza e la responsabilità personali sono fondamentali, ma il legislatore deve esercitare la sua parte con disposizioni chiare, tempi precisi per una loro seria messa in opera, sanzioni ineluttabili per i trasgressori. Mi chiedo se il CONOE (Consorzio Obbligatorio Nazionale Oli Esausti), costituitosi nel lontano 1998 ed entrato in attività nel 2001 ad oggi assolva o meno adeguatamente alle funzioni per cui fu creato. Resta comunque il fatto che, se per gli oli vegetali o animali esausti il conferimento obbligatorio è previsto solo per il settore della ristorazione, il privato cittadino può assolvere al suo dovere solo laddove ci sono gli appositi contenitori nelle isole ecologiche. Non so cosa succede altrove, ma a Nardò non esistono, per cui il nostro bravo olio esausto finisce nel lavandino o nel terreno; in un caso e nell’altro, pur esausto, ciò che resta della nostra goduria gastronomica sarà capace nella modica quantità di un litro di esaurire la vita, creando in mare (i depuratori, se ci sono e funzionano, non riescono a catturarlo tutto) o nella falda freatica per una superficie pari a quella di un campo di calcio uno strato che impedisce il passaggio dell’ossigeno: in un tragico gioco di parole (un climax1), che coinvolge dialetto e lingua, la mòria (morchia) a causa della nostra mòria [in medicina: atteggiamento fatuo ed euforico quale è quello determinato da lesioni dei lobi frontali; dal greco μωρία (leggi morìa)=stoltezza, pazzia] si trasforma in morìa (elevata mortalità di organismi vegetali o animali dovuta a fattori chimici o ad inquinamento).

E tutto questo lo chiamiamo progresso…, anche se l’arte dovesse stigmatizzare il fenomeno a modo suo; per esempio, con la natura morta (che altro, sennò?) che segue accompagnata dal titolo Olio di frittura su mare

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1 In letteratura è disposizione di vocaboli o concetti in un crescendo di effetti espressivi; in sessuologia è sinonimo di orgasmo. La voce è dal latino tardo climax, a sua volta dal greco κλίμαξ (leggi climax)=scala, da κλίνω (leggi clino)=inclinare, tendere.

 

 

Della fama di Marcantonio Zimara e della fortuna editoriale dei suoi Problemata.

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la 5

Luca Carbone, Della fama di Marcantonio Zimara e della fortuna editoriale dei suoi Problemata. Annotazioni aggiunte alla bibliografia di e su Zimara

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 111-140.

 

ITALIANO

Lo studio originale di Luca Carbone, qui presentato per esteso per la prima volta, tenta di condurci, anche avvalendosi dei lavori di validi ricercatori, attraverso la selva, insieme chiara ed oscura, delle innumerabili, alla lettera, edizioni dei Problemata del celebre filosofo galatinese Marcantonio Zimara. Legati indissolubilmente ai Problemi dello pseudo-Alessandro di Afrodisia e, soprattutto, ad un trattato pseudo-aristotelico, dallo stesso titolo e dalla straordinaria fortuna editoriale, individuato dagli studiosi con la dicitura convenzionale, tratta da Aristotele, Omnes homines. Non solo i centoquattro problemi zimariani, composti prima del 1514,verranno tradotti in tutte le lingue colte europee, ad eccezione forse dello spagnolo, ma saranno riediti persino negli Stati Uniti sino ai primi decenni del ventesimo secolo, sia pure in formati via via più ridotti, mostrando una vitalità editoriale sorprendente durante tutti e quattro i secoli dell’epoca moderna.

 

ENGLISH

Luca Carbones original study presented here in full for the first time, strengthened by studies of excellent researchers,tries to lead us through the innumerable editions of Problemata written by the famous philosopher Marcantonio Zimara from Galatina. The one hundred and four Zimaras problems are inextricably linked to the Problemi by pseudo Alexander of Aphrodisias and especially to a same-titled pseudoaristotelian treatise of extraordinary editorial fortune, identified by scholars as conventional wording taken from Aristotle, Omnes homines. They were composed before 1514 and translated into all European languages with the exception of Spanish but republished in the United States until the first decades of the twentieth century, in increasingly reduced formats, showing a surprising editorial viability during the four centuries of the Modern era

 

Keyword

 

Luca Carbone, Marcantonio Zimara, Problemata, Omnes homines

Parabita. Un insolito dipinto raffigurante Sant’Emidio nella chiesa matrice

Sant'Oronzo

di Giuseppe Fai

Siamo nella Chiesa Matrice di Parabita, nella navata sinistra, presso il terzo altare, dedicato a Sant’Oronzo (figura in alto): qui si trova una piccola tela, che sovrasta la pala raffigurante il titolare dell’altare e che raffigura un Santo Vescovo nell’atto di fermare il crollo di un edificio.

La tela, purtroppo, risulta annerita dal tempo e non è possibile osservarla nei dettagli, considerata anche la collocazione in alto, priva di una fonte di luce naturale.

Parabita, chiesa madre, dipinto di Sant'Emidio
Parabita, chiesa madre, dipinto di Sant’Emidio

 

Nel corso degli anni sono state avanzate due ipotesi circa l’identità del santo raffigurato: la prima intravedeva i santi Giusto e Fortunato, la seconda san Gregorio Armeno.

La prima fu probabilmente concepita collegandola al santo titolare dell’altare: Giusto e Fortunato, infatti, erano, secondo la tradizione, rispettivamente il discepolo di San Paolo che consacrò Sant’Oronzo come primo vescovo di Lecce e il nipote di quest’utimo.

La seconda ipotesi, avanzata pochi anni fa, invece, è certamente collegata all’intercessione del santo armeno durante il terremoto che sconvolse il Salento il 20 febbraio 1743.

Entrambe le ipotesi, tuttavia, sono i contrasto con l’iconografia del santo in questione: i santi Giusto e Fortunato non sono mai raffigurati nell’atto di sostenere il crollo di un edificio, mentre San Gregorio Armeno viene comunemente rappresentato con la barba e con paramenti liturgici orientali.

Il Santo Vescovo qui raffigurato, invece, è imberbe e indossa paramenti legati al rito latino. Per tali ragioni, ci troviamo sicuramente di fronte ad una tela raffigurante Sant’Emidio da Ascoli.

L’iconografia è coincidente con una stampa conservata presso la Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno (figura in basso) e può essere, con essa, raffrontata specularmente.

Sant'Emifdio

Queste stampe commerciali erano molto diffuse tra ‘700 e ‘800 ed erano state realizzate su disegno del pittore romano Luigi Agricola (1750 – 1821) per conto dello stampatore Agapito Franzetti.

Tuttavia, se la tela fosse stata realizzata in riferimento ad un evento sismico, il culto di Sant’Emidio a Parabita risulterebbe alquanto anomalo. Il panorama religioso del tempo offriva, infatti, ben altri intercessori, legati al territorio in questione, primo fra tutti lo stesso San Gregorio Armeno. Questi è ancora oggi protettore della città e della diocesi di Nardò – Gallipoli e Parabita faceva, appunto, parte dell’antica diocesi neretina, che è stata, in un secondo momento, accorpata a quella gallipolina.

Un altro santo invocato era Sant’Oronzo, il cui culto era ben radicato e forte a Parabita già a partire dalla metà del ‘600, il quale, come testimonia una tela conservata presso la Basilica di Santa Croce a Lecce, era stato indicato come intercessore nel terremoto del 1743.

Non esistono notizie dirette in merito alla nostra tela, tuttavia, attraverso le Visite Pastorali dal XVII al XIX secolo, è possibile riscostruire le vicende dell’altare presso cui è custodita.

L’altare di Sant’Oronzo, con questa intitolazione, attestato per la prima volta nella Chiesa Madre di Parabita, nel 1659 apparteneva al Reverendo Capitolo dei sacerdoti di Parabita ed era mantenuto dal medesimo Capitolo e dai devoti; nel 1775 subì un restauro per devozione di un sacerdote del Capitolo, un tale don Silvestro Martignano, che, a sue spese, fece eseguire i lavori.

C’è da chiedersi pertanto se la tela di Sant’Emidio sia stata collocata sull’altare proprio in questo periodo e se la sua committenza possa essere riconducibile al medesimo sacerdote, che potrebbe averla fatta realizzare per semplice devozione personale, per una grazia ricevuta, oppure perché proveniva da una realtà dove c’era una devozione per il santo di Ascoli. Non è neppure da escludere la possibilità che la committenza della tela possa essere attribuita a qualche famiglia del posto, anche se mancano prove al riguardo.

Sta di fatto che nel corso del ‘900 la memoria legata alla tela sembra fosse già venuta meno, perché nessuno ricordava più chi fosse il Santo Vescovo raffigurato.

Occorre comunque menzionare che non lontano da Parabita, a Gallipoli, vi è traccia del culto di Sant’Emidio e sono ancora in corso delle verifiche per accertarne la presenza anche ad Alezio e Seclì. Si tratta dunque di un’area ben circoscritta in cui questo culto sembra essere attecchito, se consideriamo che nel resto della provincia di Lecce non sono al giorno d’oggi segnalati altri casi e Parabita resta, pertanto, l’unica a conservare una raffigurazione su tela del santo di Ascoli.

Naturalmente tutto ciò non vuole escludere ulteriori ipotesi di ricerca, successive ad altre ricerche documentarie o a un restauro, di cui la tela avrebbe bisogno, elementi, questi, che potrebbero definire il preciso periodo di realizzazione e l’autore.

Anche l’altare in cui essa è custodita ha subìto nel corso del tempo delle ridipinture che ne hanno alterato l’aspetto originario, come dimostrano alcuni saggi effettuati, con cui si è verificato che esso doveva avere un effetto marmoreo.

La riscoperta di questo santo, dimenticato e male interpretato nel corso degli anni, è sicuramente una traccia preziosa della storia di questa città e delle sue realtà religiose.

 

Bibliografia

 

Giuseppe Fai, Ipotesi di antichi culti a Parabita, in Progetto Parabita, NuovAlba, anno XVII – numero 2 – Dicembre 2017, Parabita.

Giuseppe Fai, La devozione Mariana nel Salento: il culto della Madonna della Coltura a Parabita (XIV – XIX), 2017, Università del Salento, tesi di laurea.

Siti web  

https://santemidionelmondo.wordpress.com/

 

 

La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la mezzaluna

Terra d'Otranto, Salento

Nazareno Valente, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 99-108.

 

 

ITALIANO

 

Le fonti antiche greche e latine vengono riesaminate per cogliere le evidenze letterarie riguardanti le denominazioni etniche e geografiche utilizzate per la penisola salentina. Emerge cosi che, almeno sino alla fine del periodo ellenistico, gli autori greci privilegino in maniera esclusiva l’uso di termini di propria matrice e colgano una sostanziale unita etnico-geografica della nostra terra.

Gli autori latini, che si accostano pero al nostro mondo con sostanziale ritardo, evidenziano invece, già a partire da Varrone, di preferire le denominazioni coniate dalla gente del luogo e, pur adoperando una denominazione geografica unica per la penisola, la rappresentano abitata da due diverse etnie.

Il risultato per certi versi inatteso e che proprio la denominazione geografica ora in uso risulta non trovare riscontro alcuno nell’antichità. Nell’ambito delle differenze etniche evidenziate dagli autori latini, si e poi cercato di definire i luoghi d’insediamento dei due diversi gruppi e, anche in questo caso, le conclusioni cui si e pervenuti potrebbero apparire sorprendenti, soprattutto considerate le credenze popolari prevalenti sull’argomento.

 

ENGLISH

The ancient Greek and Latin sources are re-examined to catch the literary facts about the ethnic and geographic names used for the Salentina peninsula. It emerges, at least till the Hellenistic period end, that Greek authors prefer in an exclusive way the use of words by their own origin and catch a substantial ethnic-geographic unity of our land. The Latin authors, who approach our world very late, on the contrary reveal, starting from Varrone, to prefer the names coined by local people and also using a geographic unique name for the peninsula, they represent it as populated by two different ethnic groups.

The result, in a certain sense unexpected is the geographic name now used hasn’t any confirmation in the past. In the field of the ethnic differences revealed by Latin authors, we have tried to define the two different group’s settlements and also in this case we have come at same conclusions that could be astonishing mostly considering the prevalent popular beliefs about this subject.

 

Keyword

 

Nazareno Valente, Penisola Salentina, Sallentini-Calabri, Messapia

Mattarella, la cagnetta di Mesagne, e l’arcivescovo di Brindisi

di Armando Polito

Può sembrare stravagante o poco serio dedicare un post ad un animale associato ad un alto prelato e qualcuno arriverà perfino a pensare ad una qualche velata allusione alla più alta carica dello Stato, ingannato da una superficiale considerazione della punteggiatura del titolo, in cui le due virgole che racchiudono la locuzione cagnetta di Mesagne attribuiscono alla stessa, in base alle regole grammaticali ancora, nonostante la Buona scuola …,  in vigore, una valenza inequivocabilmente appositiva. Va da sé che l’assenza di virgola dopo Mesagne avrebbe, al contrario, convalidato un’allusione che in altri tempi mi avrebbe forse procurato l’accusa di vilipendio …
La genesi di quanto sto per dire è assolutamente casuale, vale a dire legata occasionalmente ad uno studio, che sarà oggetto di un prossimo post, su Gianfrancesco Maia Materdona, un poeta mesagnese del XVII secolo.

L’unica sua biografia è quella lasciataci da Ortensio De Leo (1712-1791), datata 1770, custodita nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” a Brindisi (ms. D/4).

Rimase inedita fino al 1974, quando venne pubblicata da Wanda De Nunzio-Schilardi in Annali della facoltà di Magistero dekk’Università di Bari, v. XIII. Qui riproduco, trascrivo e commento direttamente dal manoscritto originale la parte che ci interessa,

da carta 10r  

Si recò finalmente in Mesagne, e quivi nell’anno 1633 provò il dispiacere di essergli morta la sua Cagnolina Bolognese, tutta biancha,

 

carta 10v

biancha, e a lui molto cara, che fe sepelire entro il pariete di un suo giardino di delizie fuori le Mura, al presente detto dell’Impalata posseduto da quel Marchese con i seguenti versi fatti incidere in una bianca lapide, ma per la maggior parte corrosi dal tempo: CANA CANIS CANO. TEGOR HOC SUB MARMORE NOMEN/MATTARELLA MIHI. FELSINA ME GENUIT./LUSTRUM, ET DIMIDIUM VIXI FIDISSIMA CUSTOS./OBLONGO, ET CRISPO VELLERE DIVES ERAM./PARVULA BLANDA FUI. ITALIAM TRANSVECTA PER ORBEM./ET NUMQUA1 DOMINO DISSOCIATA MEO./HIC TUMULUM LACRIMIS DICAT. QUO, DEPRECOR, IBIS/FAC TANTI MEMORES, HOSPES, AMORIS OPUS./FRANCISCUS MAIA MATERDONA HERUS/POSUIT IDIB(US) IULII/MDCXXXIII  

         

Interrompo la trascrizione qui per tradurre l’epigrafe che è in distici elegiaci: Parlo (io) bianca cagnolina. Sono sepolta sotto questo marmo. mi chiamo Mattarella. Sono nata a Bologna. Ho vissuto fedelissima custode per cinque anni e mezzo. Ero dotata di un pelo lungo e riccio. Sono stata piccolina e affettuosa. Portata per l’Italia e per il mondo, mai mi sono separata dal mio padrone. Egli tra le lacrime mi dedica la tomba. Viandante, ti prego, Dovunque andrai, ti prego, fà che tu ricordi questa testimonianza di tanto amore. Il padrone Francesco Maia Materdona pose il 15 luglio 1633. Faccio notare, perché, cone vedremo fra pochissimo, costituisce la pietra dello scandalo, il gioco di parole, espediente privilegiato della letteratura barocca, CANA (aggettivo femminile singolare=bianca), CANO (prima persona singolare dell’indicativo presente di canere= io canto) e CANIS (sostantivo  maschile o femminile, qui femminile=cagnetta).

Riprendo la trascrizione.       

Ciò che poi circa la fine del medesimo secolo diede motivo di giusto sdegno allo zelantissimo Arcivescovo di Brindisi Francesco Ramirez Domenicano, il quale essendosi abbattuto nella suddetta iscrizione, ed avendone letto il primo verso domandò que’ suoi Diocesani, qual significato avesse; ed essendo stato informato, che era il sepolcro di un cane, esclamò in sua lingua spagnola: Cuerno, Cuerno, Cuerno, insultando con allusiva derisione il Cana canis cano. Ma simili trasporti di passione debbono esser condonati alla fantasia di un Poeta, giacché si legge, che il gran Petrarca ebbe ancora una gran

  

da carta 11r

 

gran passione verso di un suo Gatto, che indi morto fù fatto inbalzamare, e così tuttora esiste in una stanza in Arquà villa del Padovano, ove sono le memorie dell’istesso Poeta con i seguenti versi: Etruscus gemino vates exarsit amore./Maximus ignis ego, Laura secundus erat./Quid rides? Divinae illi si gratia formae,/me dignum  eximio fecit amore fides./Si numeros, geniumque sacris dedit illa libellis,/causa ego ne saevis muribus esca forent.

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Arcebam sacro vivens a limine mures,/ne Domini exitio scripta deserta darent./Incutio trepidis eadem defuncta pavorem/et viget exanimi in corpore prisca fides.
L’epigrafe per il gatto del Petrarca fu composta in distici elegiaci dal canonico Antonio Quarenghi (1547-1633) ma il testo trascritto nel manoscritto contiene alcuni errori, come mostra quello che ho trascritto dal monumento in basso riprodotto.

 

Etruscus gemino vates exarsit amore./Maximus ignis ego; Laura secundus erat./Quid rides? Divinae illam si gratia formae/me dignam eximio fecit amante fides./Si numeros geniumque sacris dedit illa libellis,/causa ego ne sævis muribus esca forent. 

Arcebam sacro vivens à limine mures,/ne domini exitio scripta diserta forent./Incutio trepidis eadem defuncta pavorem/et viget exanimi in corpore prisca fides. 

(Il poeta toscano arse di un duplice amore. Il fuoco più grande ero io, Laura il secondo. Che ridi? Se la grazia di una divina bellezza rese lei degna di un esimio amante, me la fedeltà. Se lei ispirò agli scritti ritmi e inventiva io fui il motivo per cui non diventassero cibo per i crudeli topi.

Da viva tenevo lontani i topi dalla sacra soglia perché gli scritti del padrone non fossero abbandonati alla rovina. Io stessa da morta incuto paura a loro ansiosi e l’antica fedeltà è viva nel corpo esanime).

 

Oggi sono proprio soddisfatto, perché son riuscito a rievocare due poeti in modo non convenzionale, cioè mettendo in campo non le loro poetiche o avventati confronti o, peggio ancora, improbabili classifiche, ma il comune amore per gli animali, che, poi, è anche il mio. L’amore per la verità, però, e ancor più la voglia di compensare certe crudeli ingiustizie del destino mi obbligano ad informare il lettore che il tumulo della gatta di Arquà in realtà è una realizzazione dovuta agli inizi del XVII secolo a Girolamo Gabrielli, nuovo proprietario dell’immobile, quando questo era già diventato una specie di museo meta di visitatori. Il Petrarca non ci ha lasciato nessun pensiero riguardante i gatti, ma tutto probabilmente è nato da un affresco di autore anonimo del XIV secolo (dunque coevo al grande poeta) visibile nella Sala dei Giganti della Reggia Carrarese a Padova, ove l’animale acciambellato a destra è stato identificato come un gatto, anche se a me sembra, col muso così allungato, più un cane (dettaglio ingrandito).

 

 E pure la poesia ebbe la sua parte di responsabilità nel consacrare quasi definitivamente quello che per me è un autentico equivoco ispirato da intenti, quelli del Gabrielli,  che con locuzione moderna non avrei difficoltà a definire pubblicità ingannevole. La sua parte di responsabilità, poi, ha Alessandro Tassoni ne La Secchia rapita (prima pubblicazione a Parigi nel 1622), VIII, 33, vv. 5-8: Dove giace colui, nelle cui carte/l’alma fronda del Sol lieta verdeggia;/e dove la sua Gatta in secca spoglia/guarda dai topi ancor la dotta soglia. Va detto, però che proprio un comtemporaneo del Tassoni fa riferimento al tema non senza irriverente ironia: Francesco Driuzzo in una canzone inserita in La casa ed il sepolcro del Petrarca in Arquà, Gattei, Venezia, 1827, p. 67 così poetava: S’ei cantò di un’alma bella/le fattezze e i pregi rari,/perché mai nemica stella/sol vi fa di Laura avari/e mostrate contraffatta/questa secca e sozza gatta?/Colei che dal Troian fu in Ilio tratta,/cambiossi in una vil secchia di legno,/e qui per Laura traformossi in gatta./Perché alcun non pensi male/io vo’ dir che questa gatta/fu quel ciuccio d’animale,/che la parte aveva fatta/di cambiarsi in bella donna:/ma vestita poi di gonna,/visto un topo, l’addentò,/ed in gatta ritornò. E a distanza di più di un secolo  Gaetano Rossi con un sonetto inserito in Lagrime in morte di un gatto, s. n., s. l., 1741, p. 92: Vago, e bello non men, che destro, e forte/gatto fra quanti mai formar Natura/seppe; già un tempo mio diletto, e cura,/or mio cordoglio, or vittima di morte./Poiché sì volle la mia cruda sorte,/gli occhi da quel pianeta, ov’hai sicura/sede, ov’hai premio de la tua bravura,/volgi al mio pianto, e a le ,ie guance smorte;/o a quella almeno di messer Petrarca/gatta, ch’ei pianse al Mondo unica e sola,/lieto t’accoppia, e manda in giù la razza./Morranno intanto in mezzo de la piazza/gli assassini appiccati per la gola,/e a te porrem grande Epitafio, ed Arca.

Il pericolo, però, che la favoletta della gatta di Petrarca continui a rinnovarsi è sempre in agguato, se si pensa che Detlef Bluhm autore tedesco nato nel 1954,  per così dire, monotematico2,  in Il gatto che arrestava i malviventi e altre storie, Corbaccio, Milano, 2015, si spinge ad inventare l’esistenza di una lettera scritta dal Petrarca al Boccaccio una settimana prima di morire, nella quale descrive con dovizia di particolari come la fantomatica gatta sia entrata nella sua vita e vi sia rimasta.

A questo punto il lettore si chiederà se a qualcuno non sarà venuto in mente di darle un nome. Eccolo servito. In Mario Scaffidi Abbate, La gatta. Anatomia di un amore, Meligrana, Tropea, 2014, si leggono a p. 9 questa battute: – E se la chiamassimo Sofonisba?-. -Sofonisba?!-. – Perché no? La gatta del Petrarca si chiamava così, l’abbiamo pure vista, non ti ricordi? -. – Sì, seicento anni fa! -. – Np, non più di dieci, o quindici, ad Arquà, nell’ultima casa del Poeta. Imbalsamata -.

Lucidamente ed amaramente, però, già nel 1846 Niccolò Tommaseo in Ricordi sui colli euganei, s. n. s. l., p. 15 scriveva: La tavola di Giotto che ornò la casa del Petrarca, è perita la signoria Carrarese: ma consoliamoci; la gatta del Petrarca non ha abbandonato il suo posto. E molti di coloro che visitano Arquà non per amore del dolce tuo canto, o Poeta, o dell’ameno soggiorno, ma lo visitano perch’altri l’ha visitato; guarderanno più attentamente alla gatta che ai colli, più alla gatta che ai due terzetti del- l’Alfieri, che sono de’ meglio temprati e più antichi versi ch’abbia la moderna poesia; più alla gatta che al nome di Giorgio Bjron, che senza titolo né altra parola sta confuso fra tanti, e dice più d’ogni lode.

Per fortuna, aggiungo io, restano, finché la Terra ruoterà e la nostra razza sopravviverà, pur nel rischio dell’oblio, le opere e, al di là delle invenzioni, le fonti.  E nel chiudere, ripromettendomi a breve, come ho anticipato, di parlare della cospicua produzione del letterato mesagnese, mi piace, consapevole di autoincludermi in un certo senso nel novero dei superficiali stigmatizzati dal Tommaseo, ricordare che qualcosa resta della tomba di Mattarella in quella che fu contrada Impalata a Mesagne, oggi via Maia Materdona, cioè proprio l’epigrafe, murata dopo il civico 32 all’incrocio con Via Solferino.

13

Sarò grato a chiunque invierà un’immagine sostitutiva più leggibile di quella che son riuscito a trarre e ad adattare da Google Maps. Nel frattempo, rubando alla stessa epigrafe immagine e parole finali, invito il viandante che si trovi a passare  su quella via a captare con un po’ di fantasia il disappunto che ancora vi aleggia dell’arciprete Ramirez col suo Cuerno, cuerno, cuerno!, interiezione consona ad un prelato non per il significato letterale dello spagnolo cuerno, che corrisponde al nostro corno, quanto per quello traslato corrispondente al nostro diavolo. E per facilitargli il compito, dopo aver ricordato che  Francesco Ramirez (1648-1715) da Toledo fu arcivescovo di Brindisi dal 1689 al 1697 e di Agrigento dal 1697 fino alla morte e che nella città siciliana fondò il Collegio dei SS. Agostino e Tommaso, riproduco di seguito i due monumenti che ivi gli furono dedicati, uno lapideo, posto nell’ingresso, nel 1722 e uno ligneo, nell’aula di sacra teologia, nel 1726, opera del maestro agrigentino  Onofrio Vicari, recante in cima il suo ritratto ad olio.

 

D(EO)O(PTIMO) M(AXIMO)

iLLUSTR(ISSIM)US ET REVER(ENDISSIM)US D(OMI)NUS S(ACRAE) T(HEOLOGIAE) M(AGISTER) FRA D(OMINUS) FRANCISCUS RAMIREZ/EX ILLUS(TRISSI)MO PRAEDICATORUM ORDINE ARCHIEPISCOPUS BRUNDUSINUS/EPISCOPUS AGRIGENTINUS DOCTRINA ET ELOQUENTIA EXIMIUS INSIGNE HOC/COLLEGIUM SUB SS. AUGUSTINI ET THOMAE AUSPICIIS FUNDAVIT, EREXIT, DOTA/VIT IN EOQ(UE) PUBLICAS CATHEDRAS MATUTINAM SS. CANONUM ET VE/SPERTINAM THEOLOGIAE MORALIS INSTITUIT. ACERRIMUS IMMU/NITATIS ECCLESISTICAE PROPUGNATOR OBIIT ROMAE ANNO DOMINI/MDCCXV AETATIS SUAE 67. COLLEGIUM BENEFACTORI SUO/MONUMENTUM HOC POSUIT DEPUTATIS R(EGIIS) REVER(ENDISSIM)IS DD/ U(TRUSQUE) I(URIS) D(OCTORE) CAN(NONICO) D(OMINO) SALVATORE MARCHESE U(TRIUSQUE) I(URIS) D(OCTORE) ET S(ACRAE) T(HEOLOGIAE) P(ROFESSORE)/CAN(ONICO) D(OMINO) GASPARE SALERNO ET CAN(ONICO) D(OMINO) LAURENTIO/PITACCIOLO/ANNO D(OMI)NI 1722      

(A Dio Ottimo Massimo. L’illustrissimo e reverendissimo signore maestro di sacra teologia Fra Don Franceso Ramirez dell’illustrissimo ordine dei predicatori, arcivescovo di Brindisi, vescovo di Agrigento, esimio per dottrina ed eloquenza, fondò eresse e dotò questo insigne collegio sotto gli auspici dei santi Agostino e Tommaso ed in esso istituì pubbliche cattedre, la mattutina dei sacri canoni, la serale di teologia morale. Acerrimo difensore dell’immunità ecclesiastica, morì a Roma nell’anno del Signore 1715 all’età di 67 anni. Il collegio al suo benefattore pose questo monumento essendo deputati regii i reverendissimi Signori canonico Don Salvatore Marchese dottore in entrambi i diritti, canonico Don Gaspare Salerno dottore di entrambi i diritti e professore di sacra teologia e canonico Don Lorenzo Pitacciolo nell’anno del Signore 1722).

 

In data 28/2/2018 il sig. Emilio Distratis, concretizzando la mia speranza, mi ha fatto pervenire le due foto che seguono (per l’agevole lettura dei dettagli basterà cliccare di sinistro una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente, una seconda). Nella prima foto è possibile leggere ciò che resta dell’iscrizione. Il lettore noterà che essa è racchiusa in una cornice che stilisticamente si ripete sulla parete a poca distanza (dettaglio ingrandito nella seconda foto) a delimitare ciò che io credo fosse la parte del monumento alla cagnetta contenente le sue ceneri (quel tempietto centrale ancora leggibileconferisce al tutto l’aspetto e il significato, pur traslato al mondo animale, del classico larario; e qui il possibile riferimento (quasi una “citazione”) a  quanto si è detto a proposito del Petrarca, diventa suggestivo (vedi a seguire la terza immagine comparativa).

 

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1 Errore per numquam.

2 Basta considerare gli altri titoli pubblicati in traduzione italiana sempre da Corbaccio: Impronte di gatto, Corbaccio (2004); La gatta che amava le acciughe, Corbaccio (2007); Tutto quello che vorreste sapere sui gatti (2014); Gatti di lungo corso (2017); I gatti e le loro donne (2017).

Il Pesce marmo (Pèšce mármuru) e la Cernia bianca a Otranto

di Igor Agostini

Quando in italiano, genericamente, si parla di Cernia, si pensa ad una specie ittica ben precisa: la cosiddetta Cernia bruna, il cui nome scientifico è Epinephelus marginatus (Lowe, 1834), purtroppo oggi sempre più rara a motivo della pressione esercitata da parte della pesca, in tutte le sue forme.

In realtà, però, la Cernia bruna costituisce solo una delle sei specie autoctone di Cernie nei mari italiani e che il Salento, sul versante ionico, possiede ancora tutte.

Fra di esse, v’è la Cernia bianca, che, tuttavia, a motivo del colore della sua pelle, meglio sarebbe denominare Cernia bronzina (dal nome latino, Epinephelus aeneus, Geoffroy Saint-Hilaire, 1809), come ancora faceva, alla fine del secolo scorso, il grande studioso dalmata Pietro Doderlein (1809-1895).

Esemplare giovanile, senza 'scalino'
Esemplare giovanile, senza ‘scalino’

 

Altro esemplare giovanile senza 'scalino'
Altro esemplare giovanile senza ‘scalino’

 

Il suo tratto inconfondibile sono due sottili linee bianche – più visibili nei giovani che negli adulti, ma sempre presenti – che, quasi come solchi, attraversano, partendo dall’occhio, opercolo e preopercolo.

Molto genericamente, nei vari repertori sui pesci del Mediterraneo, si trova indicato, quale nome dialettale per designare questo serranide, quello di ‘Dotto’.

Il che è vero, ma non è tutta la verità, anzi ne è una parte esigua, perché il termine italiano ‘Dotto’, così come la corrispettiva forma dialettale salentina Dòttu (o Ddòttu), possiede una gamma di significati estremamente più ampia e, anzi, seppur parzialmente, persino equivoca.

Rinviando ad un’altra occasione un’indagine a tal proposito, per quel che riguarda questa scheda, basterà dire che in molte località salentine, ed anche ad Otranto, questo nome è talvolta utilizzato per designare anche la Cernia bianca, ma non è riservato esclusivamente ad essa: infatti, il termine ‘Dotto’ è usato molto genericamente, spesso anche da pescatori esperti, per indicare alcune (e, in taluni rari casi, tutte) le specie di Cernia che non siano la Cernia bruna, la sola qualificata propriamente Cèrnia, o Cèrgna (in accordo, d’altronde, con la tradizionale idea che il Dòttu, o Ddòttu sia il maschio della Cernia, certo erroneamente, perché – come è noto agli stessi pescatori – le Cernie sono ermafroditi).

Esemplare adulto, col caratteristico 'scalino'
Esemplare adulto, col caratteristico ‘scalino’
Altro esemplare adulto con 'scalino'
Altro esemplare adulto con ‘scalino’

 

Esistono, invece, nomi molto più precisi per indicare la Cernia bianca: in Salento, i più diffusi (ma per nulla affatto i soli) sono quello gallipolino (ma largamente attestato altrove) di Mozzàcanasse e quello leucano di Spunnanasse: quest’ultimo deriva dall’azione esercitata dalla Cernia bianca all’interno della nassa, da dove, una volta catturata, cerca di uscire, prendendo lo slancio, attraverso colpi violenti esercitati sulla stessa, mediante il capo, particolarmente stondato, soprattutto negli esemplari adulti (donde la regola: ‘Pesce grande nassa piccola, pesce piccolo nassa grande’)[1].

Ma, se con i più vecchi pescatori otrantini parlerete di Spunnanasse, o anche di Mozzàcanasse, sarà estremamente difficile che vi intendano. Questo non perché questo pesce sia, effettivamente, ad Otranto molto più raro che a sud della Palascía (la sua zona di massima concentrazione è, difatti, nella Provincia leccese, da Porto Cesareo sino al Capo di Leuca), ma perché qui il nome che è utilizzato per designarlo è un altro: Pèšce mármuru, italianizzato in Pesce marmo.

Qui e solamente qui, perché il nome di Pesce marmo è conosciuto esclusivamente ad Otranto.

All’origine del termine stanno, senz’altro, i tratti marmorei del corpo, peraltro già rilevati da Doderlein: «Il colore del corpo negli esemplari del nostro Museo è verde-oliva o grigio-verdastro, marmorato di più chiaro e col ventre biancastro».

Ma si faccia attenzione ad una cosa: se a qualcuno dovesse capitare di parlare con i pochi pescatori otrantini che ancora conoscono il nome di Pesce marmo, chiedendo loro di quale pesce si tratti, riceverà un’informazione apparentemente enigmatica, eppure decisiva: che si tratta di un pesce il cui peso va dai sei chili circa sino ai quindici, o poco più.

E quand’era più piccolo – ci si chiederà?

La risposta sarà una non risposta: il Pesce marmo è quello, punto e basta.

Di questo, però, non c’è da stupirsi: la classificazione dialettale segue regole diverse da quella scientifica e distingue talvolta, quali specie a sé, anche pesci che nella classificazione scientifica sono riuniti sotto la medesima specie.

Non si tratta di un errore, bensì solo di una diversa accezione di specie: la specie scientifica non combacia perfettamente con quella della nomenclatura popolare, non tanto ed anzitutto per la classificazione che si porta dietro, ma nel suo stesso concetto, perché per il pescatore sono definitori della specie l’età e l’habitat, spesso considerati interdipendenti (vi è una scienza precisa che oggi studia la correlazione fra classificazione scientifica e popolare, anche se i passi da fare sono tanti: la Folkbiology).

Così, gli esemplari più piccoli di Cernia bianca, se ne verranno mostrate le foto ai pescatori otrantini, saranno designati col nome di Dòttu, forse seguito da qualche aggettivo, posposto al nome, al fine di distinguere la Cernia bianca dagli altri ‘dotti’.

Questo spiega quando, nel corso delle mie indagini, nonostante avessi esibito loro foto di tutte e sei le specie di Cernie, gli ultimi grandi pescatori otrantini non riconoscevano in nessuna di esse il Pesce marmo: il motivo è che avevo con me solo foto di Cernie bianche in stato giovanile.

Ma, oltre a questo, c’è da fare i conti con la rarità del pesce, ad Otranto, cui sopra accennavo, ed anche con una cultura popolare che si sta ormai sgretolando, sulla scia della crisi irreversibile della piccola pesca.

Innumerevoli pescatori del luogo, anche di grande esperienza, che pure ho intervistato, non erano neppure in grado di identificare il Pesce marmo, o perché, con grande onestà, dichiaravano di non averlo mai visto (Angelo Sammarruco), oppure perché, nel tentativo di rispondere, lo confondevano grossolanamente (in un caso, fu identificato con un esemplare estero, raffigurato in foto, di Cernia dorata; in altri, il pesce venne ricondotto addirittura a generi diversi e presentato come appartenente alla ‘famiglia’ dei Dentici o, anche, dei Merluzzi).

L’identità del Pesce marmo mi è stata svelata da Antonio Milo, detto Uccio Capoano, il più anziano pescatore otrantino di nasse, e da Franco Muoio, grande sommozzatore.

È stata la loro precisione, sono stati i ‘no’ con cui Uccio, Franco, ma anche Angelo, respingevano l’identificazione del Pesce marmo con tutti gli esemplari delle sei specie di Cernia presenti nel mio (assicuro, alquanto voluminoso) dossier di foto, che mi hanno spinto a non accontentarmi e, poi, un po’ per fortuna, un po’ per esclusione, un po’ per congettura, ad ipotizzare che il Pesce marmo potesse essere un esemplare adulto di Cernia bianca.

Dalla mia, però, avevo ancora un suggerimento prezioso, trasmessomi da Franco: il dettaglio della testa stondata, che non solo, un giorno, mi richiamò improvvisamente la motivazione alla base della nominazione Spunnanasse a Leuca, ma potei mettere in correlazione con un fenomeno largamente attestato negli Sparidi (in particolare nei Pagri e nei Dentici), per cui, per ragioni con ogni probabilità legate allo sviluppo delle funzioni predatorie, crescendo, la fisionomia tipicamente fusiforme della Cernia bianca si attenua a favore di una forma leggermente più arrotondata e con un caratteristico scalino fra la testa ed il muso: forma che potei verificare puntualmente in esemplari di grossa taglia.

Il nome di Pesce marmo è ormai quasi scomparso: è grazie a Uccio, Franco ed Angelo se queste pagine contribuiranno a sottrarlo dall’estinzione; ed a loro sono dedicate.

 

[1] Nonostante l’affinità del nome, diversa è la spiegazione che sta dietro al termine gallipolino di Mozzàcanasse, a mio avviso estremamente problematico, legato ad una pretesa azione di perforazione esercitata dal pesce dall’esterno delle nasse, allo scopo di mangiar i pesci ivi catturati.

Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Domenico Salamino, Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni

 in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 35-83.

  1. Giustiniano.Belisario. Massimiano

ITALIANO

Città di antica tradizione, di grande importanza strategica e sede episcopale, durante la guerra gotica Taranto subirà molte importanti trasformazioni urbanistiche ad opera del generale Giovanni. A documentarle è Procopio di Cesarea, fondamentale e unica fonte contemporanea agli avvenimenti. In questo contributo si tenta una sua rilettura ampliando l’osservazione al confronto con la scienza militare di età giustinianea e alla luce dell’archeologia. L’obiettivo di questo studio è quello di costruire un approccio interdisciplinare utile all’emersione delle molte questioni suscitate dalle diverse fonti.

 

ENGLISH

A city of ancient tradition, of great strategic importance and episcopal office, during the Gothic War Taranto will undergo many important urban transformations by General Giovanni. Procopio is the only and fundamental source of this event. This contribution attempts to re-read it by expanding observation to military strategy and urban archeology. Study proposes an interdisciplinary approach, useful for analyzing the various historical issues.

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Storia della ricerca e della scoperta della città romana di Genusia

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

Giambattista Sassi, Storia della ricerca e della scoperta della città romana di Genusia

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 85-97.

 Foto 2

ITALIANO

La ricerca archeologica e documentaria realizzata a partire dall’anno 2004 ha provato l’esistenza della città romana Genusia, già attestata da Plinio nella Naturalis Historia, in seno ai confini amministrativi dell’attuale comune di Ginosa, in provincia di Taranto. In particolare l’esecuzione di quattro campagne di scavi archeologici ha consentito di individuare in maniera puntuale il sito nella contrada Madonna Dattoli. Qui sono state indagate e portate alla luce strutture afferenti una

chiesa paleocristiana, un piccolo ninfeo, un acquedotto sotterraneo collegato ad un castellum aquae, due fornaci ed un grande ambiente porticato. Le attestazioni epigrafiche testimoniano la vita del municipium fino ad almeno tutto il IV secolo d.C.; sarà probabilmente nel secolo successivo che avviene l’abbandono dell’abitato romano ed il trasferimento della popolazione all’interno dei villaggi rupestri di Casale e Rivolta.

 

ENGLISH

The archaeological and documentary research made from the 2004 year has proved the existence of the Roman Town Genusia, already certified by Plinio in the Naturalis Historia, within the administrative boundaries of the present town Ginosa in the district of Taranto. In particular the realization of four campaigns of archaeological excavations has allowed to localize precisely the site in the «Madonna Dattoli’s» land. Here have been investigated and brought to light some structures concerning an early Christian church, a little nymphaeum, an underground aqueduct connected to a castellum aquae, two furnaces and a big porticoed environment. The epigraphic certificates testify the life of the municipium up to the fourth century A.D.; it will be in the following century that the desertion of Roman built-up area and the people’s moving to the interland of the rupestrian villages Casale and Rivolta happen.

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Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (5/5)

di Armando Polito

Prima di chiudere con l’Appendice contenente le schede con il nome degli Affumicati e con le informazioni che sono riuscito a reperire,  intendo ringraziare pubblicamente il signor Mimmo Stella per avermi consentito di risolvere un dubbio sorto all’inizio di questo lavoro. La foto di testa, tratta ed adattata da Google Maps mostra la parte iniziale (considerando la numerazione civica) di via Accademia degli Affumicati. Sempre sfruttando la stessa fonte, avevo notato che la parte finale  della stessa via mostrava una colonna con in cima un’immagine, una sorta di medaglione.

Com’è possibile notare, la limitata definizione non consentiva di individuare  senza rischio di equivoci ciò che il medaglione rappresentavam, lasciando in vita il sospetto che, data l’ubicazione, il soggetto potesse essere  proprio lo stemma dell’Accademia, che ho riprodotto nella prima parte di questo lavoro e che qui replico per facilitare al lettore l’esame comparativo.

 

La foto in alta definizione, richiesta tramite un comune amico al sig. Stella e da lui prontamente inviatami con squisita cortesia e di seguito riprodotta, ha detto la parola fine,alla questione.

 

                                           

                                                                      APPENDICE

BISCIOSI

Nell’elenco degli Affumicati compare senza il nome ma con il titolo di baccelliere.

 

BISCIOSI DONATANTONIO

Registrato anche come BISCOSI in alcuni repertori, fu il curatore di Rami di cipresso, overo compositioni funebri in morte della Signora Caterina Ferdinanda. Raccolte dal canonico Donatantonio Bisciosi, e dedicate all’eccellenza del Signor Prencipe di Mesagne, Micheli, Lecce, 1659. Il lettore non si lasci fuorviare da Ferdinanda, che è l’adattamento al femminile del cognome Ferdinando. Caterina, infatti, era figlia del medico mesagnese Diego Ferdinando, figlio, a sua volta,  del più celebre Epifanio. In particolare uno de componimenti è in lode di un pittore, un certo Martucci, esecutore di un ritratto di Caterina qualche mese dopo la sua morte. Del Bisciosi, poi, sono i componimenti  alle pagine 32, 36 e 44. Giacomo Arditi ne La corografia fisica e storica della Probincia di Terra d’Otranto, Stabilimento Tipografico Scipione Ammirato, Lecce, p.  353 ci informa che lasciò inedite le sue prediche quaresimali, molte rime, la versione del Miserere, e un Poema intitolato Concilio Reale contro Messina scritto nel 1676. A proposito di quest’ultima opera aggiungo che il manoscritto autografo è conservato presso la Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi (ms. F/8). Di seguito la carta (1r) con il  frontespizio.

A Mesagne una via è intitolata a Ferdinando Biscosi.

 

BISCIOSI FRANCESCO

        

CARAGLIA  TOMMASO

Arciprete della chiesa collegiata di Mesagne ((Luigi Greco, op. cit., p. 28).

 

FERDINANDO EPIFANIO IUNIOR

Visse dal 1640 al 1717.  Era figlio del medico  Diego e nipote del più famoso  Epifanio senior Di lui resta, manoscritta, l’opera genealogica Delle famiglie meagnesi in quattro volumi, proprietà della famiglia Cavaliere di Mesagne.

 

FERDINANDO GIACOMANTONIO

Fu  cantore della chiesa collegiata di Mesagne (Luigi Greco, Storia di Mesagne in età barocca, v. 3, Schena, Fasano, 2002, p. 28).

 

FERDINANDO GIOVANNI MATTEO

A carta 452v del catasto onciario di Mesagne del 1628 custodito nella Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi  compare un Giovanni Matteo Ferdinando thesoriero.

 

GEOFILO GIUSEPPE

Prima della nascita dell’Accademia degli Affumicati aveva fatto parte di quella dei Confusi. Con questo nome si conoscono due accademie: la prima fondata a Bologna nel 1570, la seconda a Ferrara nel 1623. Per evidenti ragioni cronologiche il nostro dovette far parte di quest’ultima, come si deduce da un riferimento presente nel titolo dell’opera del 1662 tra quelle di seguito elencate, per ciascuna delle quali l’OPAC registra l’esistenza di  due soli esemplari, uno  custodito nella Biblioteca provinciale S. Teresa dei Maschi – De Gemmis a Bari e l’altro nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi.   

Discorso overo sillogismo astrologico dell’anno 1661 fabricato sotto il meridiano della fedelissima citta di Lecce. Intorno la mutazione de’ tempi, pioggie, venti, nevi, grandini, e simili, Micheli, Lecce, 1661.

Breve discorso, overo Entimema astrologico dell’eclisse del sole non creduta visibile nell’Europa formato al meridiano della fedelissima citta di Lecce. Nel quale si discorre del moto teorico de’ luminari, e della stella crinita novamente vista nel cielo, Micheli, Lecce, 1661.

Discorso, overo sillogismo astrologico dell’anno 1662 formato sotto il meridiano della fedelissima citta di Napoli. Intorno la mutazione de’ tempi, pioggie, venti, nevi, grandini, e simili, secondo le naturali, e metereologiche qualità, Micheli, Lecce, 1662.

Astrologico sillogismo dell’anno 1663 formato sotto il meridiano della fedelissima citta di Lecce. Intorno la mutazione de’ tempi, pioggie, venti, nevi, grandini, e simili, secondo le naturali, e metereologiche qualita, Micheli, Lecce, 1663. Nel frontespizio compare il titolo di medico e filosofo.

Discursus mathematicus, sive obseruationes astronomicae de nova stella barbata, et caudata visa in coelo in hydruntino horizonte, Micheli, Lecce, 1665. Nel frontespizio compare il titolo di philosophus ac  medicus messapiensis, mathematicae facultatis professor.

Un suo componimento in onore  di Giuseppe Battista è in Epicedi eroici, poesie di Giuseppe Battista, Eredi di Domenico Barbieri, Bologna, 1669, p. 390. Per Giuseppe Battista (Grottaglie 1610- Napoli 1675 ( vedi Armando Polito,  L’eruzione del Vesuvio del 1631 nella poesia di un salentino e di un napoletano, con una sorpresa finale … in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/.

Nella Vita di Gianfrancesco Maia Materdona di Mesagne, scritta da Ortensio De Leo, manoscritto custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” di Briondisi a c. 1 v. si legge: Medici ancor, e Filosofi di molto grido furono Daniele, e Giuseppe Geofilo …“.  

 

GEOFILO TOMMASO STEFANO

Una generica via Geofilo è intitolata alla famiglia.

 

NOJA GIOVANNI MARIA

 

PALMITELLA GAETANO

In Luigi Greco, op. cit., p. 298 si legge: Di più sotto l’altare del suffragio si conserva il corpo di S Ottavio martire ridotto in fragmenti e stratto dal cemetero della B. Elena dall’eccellentissimo cardinal Carpegna dato in dono al reverendo d. Giuseppe de Torrettis e da questo al reverendo canonico d. Gaetano Palmitella …

Le carte 6r-6v del bollario custodito nella Biblioteca Pubblica “Annibale De Leo” di Brindisi riportano un atto datato 26 narzi 1728 indirizzato da Andrea Maddalena, arcivescovo della sede apostolica di Brindisi, a Domenico di Ruggiero, diacono della terra di Mesagne, ed avente per oggetto la concessione di canonicato con relativa prebenda presso la chiesa collegiata di Mesagne, posseduto dal sacerdote Gaetano Palmitella, per il quale riceve un posto nel coro e voce in capitolo.

 

RESTA FRANCESCO

 

RESTA LUCANTONIO

Per motivi cronologici non può essere l’omonimo (del quale mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/08/mesagne-luca-antonio-resta-vescovo-laffumicato/) , prima arciprete di Mesagne e poi, dal 1565, vescovo di Castro, dal 1578 di Nicotera e dal 1582 fino alla morte, avvenuta nel 1597, di Andria. Fu autore di Directorium visitatorum, ac visitandorum cum praxi, et formula generalis visitationis omnium, & quaruncumque ecclesiarum monasteriorum, regularium, monialium, piorum locorum, & personarum, Facciotti, Roma, 1593 (ristampato presso lo stesso editore nel 1599). A lui, dunque, e non all’omonimo degli Affumicati è stata intitolata via Luca Antonio Resta.

 

RINI FRANCESCO PAOLO

 

RINI NICOLA ORONZO

 

RINI ROMANO

 

RINI VALENTINO

Tesoriere della chiesa collegiata di Mesagne (Luigi Greco, op. cit., p. 32). Aggiungo che potrebbe essere il Dottor Fisico Francesco Valentino Rini ricordato da Serafino Montorio, Zodiaco di Maria, Severini, Napoli, 1715, p. 479, ove, nel parlare della chiesa di Santa Maria in Bettelemme, ovvero della Sanità e dell’annesso convento dei Celestini, si riporta la notizia che abitavano quelli Religiosissimi Padri anticamente in un cantone di detta Terra [Mesagne], ed in quel luogo appunto, che era attaccato alle mura di quella, ove oggi sono le Case del Dottor Fisico  Francesco Valentino Rini. 

Va ricordato che Epifanio Ferdinando senior era nato il 2 novembre 1569 da Matteo e da Camilla Rini.

 

THERIO ORAZIO

Therio sembrerebbe un cognome di origine greca (da θηρίον=belva).

 

VERARDI ORONZO

Un Matteo Oronzo Verardi fu vice-sindaco di Mesagne dal 1716 al 1717 (Luigi Greco, op. cit., v. I, p. 157).

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/ 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/ 

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/ 

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/

 

                                         

Magia contadina: “lu sutazzu”. Una pratica divinatoria ancora in uso in alcune aree del Salento

setaccio

di Gianfranco Mele

 

In ambito magico-popolare vi sono diversi utilizzi del setaccio, uno strumento che assume valenze magiche e sacrali fin dall’antichità.

Uno di questi usi è un chiaro esempio di magia imitativa: trattandosi di uno strumento che separa il buono dallo scarto, che filtra, si riteneva fosse in grado di filtrare i malefici, e per questo motivo veniva appeso dietro alla porta di casa come oggetto apotropaico.

Vi sono anche testimonianze riferite ad un uso magico del setaccio per incantesimi inerenti la pioggia, sia a fini di porre fine alla siccità (anche in questo caso attraverso la magia imitativa: un getto d’acqua versato sul setaccio si divide in gocce e rivoli imitando e perciò augurando lo scrosciare della pioggia), sia a fini di malefizio (nel territorio friulano della Carnia le leggende popolari narrano di streghe che, cavalcando le nuvole, “gettavano la grandine cul drazz[1] (drazz è un termine friulano per indicare il setaccio).

L’utilizzo più frequente del setaccio nell’ambito della magia popolare è tuttavia quello mantico. L’impiego del setaccio in questo ambito è detto Coscinomanzia (da  κόσκινον, = crivello, e μαντεια = divinazione), ed è molto praticato sia dagli antichi greci che dagli antichi romani.[2] Inoltre, un papiro magico greco (PGM IV, 2303) lo definisce come uno dei più antichi simboli dell’arte divinatoria.[3]

Diversi autori dell’antichità ne fanno riferimento, tra cui Teocrito di Siracusa (315-260 a.C.). Nel suo Idillio III, La serenata (un monologo pronunciato da un capraio) si legge:

Anche Agreò, l’indovina con lo staccio che poc’ anzi veniva a spigolare in cerca d’erbe, disse ciò che è vero, che mentre io sono tutto in tuo potere tu non ti fai di me nessun pensiero.[4]

In questo caso, dunque, il pastore si è servito delle arti divinatorie di una indovina, che con il suo setaccio ha confermato al pastore che il suo amore per Amarillide non è contraccambiato.

setaccio1

Un cenno all’ usanza del ricavare profezie dal setaccio o crivello lo fa anche Luciano di Samosata (II sec. d.C.) in un capitolo delle sue Opere intitolato “Alessandro, o il falso profeta”:

…i Paflagoni di là d’Abonotechia, tutti superstiziosi e sciocchi, per modo che se pur veggono uno che menandosi dietro un sonatore di flauto, di timpano o di tamburello, predica la ventura con un crivello, come suol dirsi, tosto tutti gli si affollano intorno a bocca aperta, e lo riguardano come uno degl’immortali.[5]

Ce ne parla anche Lucio Flavio Filostrato (172-247 d.C.) nella sua opera Vita di Apollonio di Tiana:

vi sono delle vecchie che, armate di uno staccio, si presentano ai pastori e ai bovari, affermando di guarire le bestie ammalate per mezzo della divinazione; ed esse pretendono di venire chiamate sapienti, e di esserlo più che gli autentici indovini[6]

In una antica opera di area tedesca, il De furtu (XII sec., riedito nel XIII sec.), si ritrova una dettagliata descrizione della pratica della divinazione col setaccio. Trattasi di un codice contenente testi in latino e in tedesco, riportante una serie di prescrizioni utili a scovare l’autore di un furto. La parte relativa alla mantica con il setaccio recita così:

Sul furto. Prendi un setaccio. Prendi un setaccio e conficcaci in mezzo un fuso. Quindi infila un altro fuso e fai tenere il secondo con le dita contro un altro e chiama dentro tutti quelli che tu sospetti di furto e pronuncia l’incantesimo verso di loro: “chi ha rubato questo è qui dentro”. L’altro dica: “egli non è”. Pronunciare le parole per tre volte, poi dì: “Dio, ora afferra il vero colpevole”. E metti del sale sul setaccio, nel nome del Padre, nel nome del Figlio e nel nome dello Spirito santo, nel nome di tutti i Santi, nel nome della Santa Croce. E pronuncia quindi queste parole a forma di croce.” (seguono nel testo sei simboli di croce e parole illegibili in corrispondenza delle croci sovrascritte) [7]

Della divinazione con il setaccio fa cenno il filosofo cinquecentesco Pomponazzi nel suo De incantationibus [8](un’opera che si distacca dalla letteratura di stampo inquisitoriale in voga nel periodo e che propone una spiegazione fisica della magia).

Una descrizione dettagliata dell’utilizzo del setaccio in ambito magico-oracolare si trova in un’opera attribuita all’esoterista, mago e alchimista cinquecentesco Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim:

Modo di conoscere il nome delle persone colpevoli di qualche delitto occulto, con il mezzo d’un setaccio.

Si mette un crivello da farina in equilibrio sopra una tenaglia, che si prende con due dita; poi si pronunzia il nome delle persone sospette di furto, o di qualche delitto occulto, e si giudica colpevole quella al cui nome il crivello gira e trema. In luogo del crivello, si mette pure (poiché queste divinazioni si praticano tuttora) un setaccio sopra un perno. Per conoscere l’autore di un latrocinio si chiamano per nome le persone sospette, e lo setaccio gira quando si proferisce il nome del ladro.

Con un altro metodo, si fa così. Prendi un setaccio e sospendilo a un tratto di corda con la quale è stato impiccato un uomo, fissando la corda tutto intorno al setaccio. Sul setaccio scrivi col sangue, nelle Quattro direzioni del mondo, questi caratteri: “Hels, Hels, Hels”. Dopo di ciò, prendi un bacile d’ottone perfettamente pulito e riempilo d’acqua di fonte. Quindi pronunzia queste parole: “Dies mie Jeschet Bene done fet Donnima Metemauz”.

Fai ruotare il setaccio appeso alla corda con la mano sinistra, mentre con la destra muoverai l’acqua del bacile in direzione opposta alla direzione del setaccio, agitandola con un rametto d’alloro. Quando l’acqua si sarà fermata e il setaccio non ruoterà più, osserva fissamente l’acqua e vi vedrai apparire l’aspetto di chi ha commesso il furto. Per poterlo riconoscere più facilmente, fai un segno in una parte del suo volto con la bacchetta del comando: perchè quel segno che tu hai tracciato sull’acqua lo ritroverai sulla persona”.  [9]

setaccio2

Un riferimento alla divinazione con il setaccio appare anche in un’opera di Pietro Aretino: due donne parlano di divinazioni e sortilegi, e l’una dice all’ altra :

… ti insegnerò quello dei paternostri, la malia dell’uovo, e fino a la staccia da cernere la farina, ne la quale si ficca le forbici, con lo scongiuro del san Pietro e del san Pavolo…[10]

Il frate Francesco Maria Guaccio (noto anche come Guazzo o Guaccius), nel suo Compendium maleficarum, un manuale di demonologia e stregoneria edito nel 1608, tratta espressamente e dettagliatamente della coscinomanzia indicandola come pratica di magia divinatoria molto diffusa per individuare ladri o ritrovare oggetti rubati o smarriti, ma anche per praticare sortilegi ad amorem”. [11]

compendium maleficarum

Da un’opera ottocentesca sugli usi degli antichi greci si legge:

“Κοσκινομαντεια, si faceva col mezzo di un un crivello, e si impiegava ordinariamente per iscovrire i ladri, locchè si faceva nel seguente modo. Si attaccava il crivello ad un filo, che lo tenea sospeso o anche si ponevano un paio di forbici, che si tenevano con due dita. Si pregavano in seguito gli dei a volerli bene rischiarare, e si ripetevano i nomi delle persone sospette; e quegli al cui nome il crivello si moveva, o si voltava, si supponeva che fosse il ladro[12]

Una descrizione simile si ritrova in un’opera di fine ‘700, con la specifica dell’impiego di una orazione che accompagna la procedura:

Sospeso il crivello, dopo essersi recitata una formola di parole, si prendea tra due dita solamente e si replicavano i nomi delle parti sospette, e in quel mentre il crivello correa, tremava, o si scuoteva, quello si reputava colpevole del delitto che si questionava[13]

Negli atti relativi ai processi per stregoneria del Tribunale del Santo Officio di Oria è presente una descrizione particolareggiata della pratica del “sutazzu” o “furnaru”:

“Si pigli un fornaro ed in mezzo di dietro detto fornaro si mettano cinque croci con un paio di forbici s’aggiustino al centro di detto fornaro e si dichino le seguenti parole: per intercessionem S.S. Petri et Pauli et S. Antonij Abati ti priego di dirmi la novità, in difetto ti lego siccome S. Giovanni legò l’agnello, e ciò detto se detto fornaro si moverà, era segno di si, se non si moverà è segno di no, e poi si leghi la detta forbice con una fettuccia negra e se si moverà dentro solo detto fornaro era segno di sì, se non, di no.” [14]

Una versione molto rimaneggiata dell’orazione sopra detta, ma con contenuti simili (è presente sempre S. Pietro, insieme a un indecifrabile “San Bò”) la raccolgo di recente in Sava, recitatami da Gabriella Lorusso:

“San Piè, San Bò… timmi sutazzu mia, timmi tutta la verità…”

Questa pratica oracolare difatti è ancora in uso in diversi paesi del Salento, nell’ambito delle credenze tramandate dalla antica cultura contadina. Si tratta, come per altre pratiche trasmesse nell’ambito di un complesso di credenze legate al masciarismo,[15] di saperi esoterici derivati da un paganesimo persistente e che si è adattato, nel tempo, ai mutamenti religiosi nell’ambito del credo collettivo. Per questo motivo, le procedure e le “formule” sono state cristianizzate, ovvero contaminate da elementi della religiosità dominante. Anticamente si credeva che fosse un demone a provocare il movimento del setaccio, e tale demone era invocato da una frase segreta e pronunciata a voce bassa: il demone, insieme alle divinità pagane preposte agli oracoli, e la relativa orazione, sono sostituiti dalle figure e dalle invocazioni dei santi cristiani (San Pietro, San Paolo, S. Antonio ecc.).

setaccio3

La presenza dell’invocazione a S. Pietro e Paolo è una costante in tutta Italia (abbiamo già visto che è citata anche dall’ Aretino) e si ritrova ad esempio, con diverse testimonianze pervenuteci dai processi inquisitori, in Friuli:

Feci girar il tamiso sospeso da un per di forbice, e quello Pietro con un dito sosteneva la forbice et io dicevo: «Per san Pietro e per san Paolo che il tale m’ha rubbato i cola- ri» […]).[16]

Un’altra variante della “formula” pervenutaci dal Friuli è:

Per S. Pietro e per S. Paolo, se i soldi sono qua, va intorno a... “[17] .

Numerosi sono in questa regione gli atti relativi a processi per uso del “tamiso”.[18] Nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine sono conservati diversi atti inerenti processi inquisitori in cui appare l’uso del setaccio : Processo per uso di cibi proibiti, bestemmie e per aver sperimentato il sortilegio del “tamiso” contro Giovanni Gastaldis da Buia, Sec. XVII (1659); Processo per il sortilegio del “tamiso” contro Aurora Brunelleschi abitante a Buttrio, Sec. XVII (1655) ; Processo per il sortilegio del “tamiso” contro Giacoma di Chions, Sec. XVI (1599). [19] Anche nell’inquisizione veneta, si ritrovano processi e condanne per l’uso magico del setaccio, come nel caso di tal Frà Facondo (1705) che “aveva insegnato il sortilegio del tamiso (staccio) per trovare le cose perdute”.[20]

La mantica del setaccio si ritrova in Lombardia tra le tradizioni del bresciano (fa balà el creel, fai ballare il crivello) [21] e in un passo del Faust di Goethe (nel quale si propone una ulteriore variante delle pratiche su descritte: il setaccio viene sempre usato come strumento divinatorio per conoscere l’autore di un furto, ma è utilizzato come una sorta di filtro attraverso cui guardare):

Mefistofele: A che serve questo staccio? Il Gatto Mammone (staccandolo dal muro): Se tu fossi un ladro, ti potrei conoscer subito. Corre dalla Gatta Mammona e la fa guardare attraverso lo staccio Guarda nello staccio! Il ladro lo conosci e non puoi dirne il nome?[22]

setaccio4

Diverse sono le interpretazioni legate ai setacci con i quali si faceva ritrarre la regina Elisabetta I d’ Inghilterra: alcuni lo hanno voluto identificare come simbolo della castità, altri hanno evidenziato l’intento esoterico della regina, notoriamente dedita alla magia,[23]descrivendo l’immagine come simboleggiante la raccolta dell’intelligenza delle menti degli uomini attraverso il vaglio.[24] Essendo tuttavia addentrata la regina nell’ambito delle pratiche occulte, è verosimile che si dedicasse anche ad applicazioni di magia pratica e dunque al rituale divinatorio del setaccio.

setaccio5

In ambito simbolico, il setaccio, presente anche nel sistema geroglifico egizio con il significato di un mezzo che permette di ottenere la selezione di forze convenienti, è interpretato anche come lavoro alchemico di vaglio, depurazione, perfezionamento e realizzazione. [25]

 

Note

[1]        Valentino Roiatti, Il lato magico del setaccio, IL FRIULI (website), 2006 http://www.ilfriuli.it/articolo/archivio/il_lato_magico_del_setaccio/29/81654

[2]            Salvatore Costanza, La divinazione greco-romana: dizionario delle mantiche : metodi, testi e protagonisti Forum Ed., 2009, pag. 70; AA.VV., Dizionario Larousse della civiltà greca, Gremese Ed., 2007, pag. 82

[3]    Cit. in Folklore antico e moderno

[4]    Teocrito, Idilli, III, v. 31

[5]    Luciano di Samosata, Opere, XXXI “Alessandro, o il falso profeta” (Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, vol. secondo, pag. 82, Liberliber)

[6]    Filostrato Vita di Apollonio 6,11

[7]            Eleonora Cianci, De furtu. Il più antico incantesimo di area tedesca per riconoscere il ladro: eredità e contesto culturale in: Itinerari 4, 2014, pp. 213-214

[8]    Luca Cremonesi, la filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi Gilgamesh Edizioni, 2012

[9]    Jorg Sabellicus (a cura di): E.C. Agrippa Il secondo libro del comando o l’arte di evocare gli spiriti, Edizioni Mediterranee, Roma, 2007

[10]  Pietro Aretino, Sei giornate, Ragionamento della Nanna e della Antonia, Giornata Terza, 1534

[11]  Francesco Maria Guaccio, Compendium maleficarum, Milano, 1608

[12]  John Robinson, Antichità greche ovvero quadro de’ costumi, usi, ed istituzioni de’ greci trad. ital. a cura di Gaetano Maria Monforte, Tip. Porcelli, Napoli, 1823, pp. 119-120

[13]  Giuseppe Maria Secondo, Ciclopedia ovvero Dizionario Universale delle Arti e delle Scienze, Tomo III, Napoli, 1748, pag. 188

[14]  Atti Curia di Oria, Denuncia di Giovanni Greco contro A. Galante e M. Farina, cit. da M.A. Epifani, Stregatura, pag. 76

[15]  Gianfranco Mele, Elementi di magia popolare nel mondo contadino del Salento e della Puglia https://www.academia.edu/13789091/ELEMENTI_DI_MAGIA_POPOLARE_NEL_MONDO_CONTADINO_DEL_SALENTO_E_DELLA_PUGLIA

[16]  Dario Visintin, L’attività dell’inquisitore fra Giulio Missini in Friuli, 1645-1653: l’efficienza della normalità, Università di Trieste, 2008, pag. 100

[17]          A.A.V.V., Lares, Vol. 35-36, L. Olschki Ed., 1969, pag. 349

[18]  Cfr. Benvenuto Castellarin, I Processi dell’Inquisizione nella Bassa Friulana: 1568-1781, la Bassa Ed., 1997, pag. 326 ; A.A.V.V. Atti: Classe di scienze morali, lettere ed arti, Volume 161, l’ Istituto, 2003, pag. 139

[19]  Archivio Curia Arcivescovile di Udine, Elenco processi inquisizione, http://www.torviscosa.org/Elenco-processi-inquisizione.53.0.html

[20]  Vincenzo Bellandi, Documenti e aneddoti di storia veneziana tratti dall’ archivi de’ frari, Firenze, Libraio Editore, 1902

[21]          Leonardo Urbinati, Fa’ bala el creel… ovvero l’antica arte magica della coschinomanzia, «Civiltà bresciana» (1992) 4,4, pp. 67-74

[22]          J. W. Goethe, Faust. Introduzione, traduzione e note a cura di Franco Fortini. Mondadori, Milano 1994, I, 2416-2421, pp. 199-200

[23]          Gli interessi di Elisabetta per la magia e l’occultismo sono noti anche attraverso la figura di John Dee, astronomo, matematico, mago e negromante, che fu suo consigliere e personaggio cardine del suo regno. Per approfondimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/John_Dee

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[24]  http://www.storiamito.it/elisabettaI_magia.asp

[25]  Jean EduardoCirlot, Il Libro dei Simboli, Armenia, 2004, pp. 397-398

Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Salvatore Coppola, Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto, in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 7-33

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ITALIANO

Pochi eventi nella storia recente hanno avuto un impatto così dirompente come il primo conflitto mondiale.

Eccezionali mutamenti dal punto di vista politico, diplomatico, culturale, economico, sociale si concretizzarono in questo periodo e si svilupparono negli anni a seguire. Tra le numerose tematiche indagate dalla storiografia, il ruolo delle donne negli anni di belligeranza è andato assumendo in questi anni un posto di assoluto rilievo. Il presente saggio, sulla scia delle nuove prospettive storiche «dal basso», studia l’impatto avuto dalla guerra sulla donna salentina puntando l’attenzione sulla nuova partecipazione attiva non solo alla vita lavorativa, ma anche alle proteste ed alle rivendicazioni legate al carovita, ai sussidi, all’operato delle autorità. Un protagonismo che colse in parte impreparate le classi dirigenti e che di fatto costituì la prima tappa per un processo di sindacalizzazione e politicizzazione che andò concretizzandosi nei decenni successivi.

 

ENGLISH

Few events in the recent history have had a so devastating impact as the First World War.

Exceptional changes from the political, diplomatic, cultural, economic, social point of view took shape in that period and developped in the following years. Among the numerous topics investigated by historiography the women’s role in the war years has assumed a place of absolute prominence. This essay, in the wake of the «from below» latest historical perspectives, studies the war impact on the Salentina woman focusing on the new active participation in the working life and also in the protests and in the claiming connected to the cost-of-living, to the grants, to the authorities’ conduct. A lime-light that caught partly off-guard the ruling classes and that established the first stage of an unionization and politicization process that concretized in the following decades.

 

Keyword

Salvatore Coppola, Grande Guerra Salento, proteste donne Terra d’Otranto.

Storia di Mesagne [frammenti] – 1596 circa, di Cataldantonio Mannarino

E’ stato presentato ieri sera il volume, come da programma allegato

 

a cura di Domenico Urgesi

Cataldo Antonio Mannarino

nacque a Taranto nel 1568, da un’importante famiglia, la quale, secondo il contemporaneo medico-filosofo Epifanio Ferdinando (il vecchio), si trasferì a Mesagne negli anni della sua infanzia. Trascorse la giovinezza in questa città, poi si trasferì a Napoli e si laureò in medicina. A Napoli fu introdotto nell’Accademia degli Oziosi dal poeta e amico mesagnese Gianfrancesco Maia Materdona.

Nel 1592, ventiquattrenne, si sposò con la nobile Porfida De Rossi, in Mesagne, territorio la cui feudalità era stata comprata (nel 1591) da Giannantonio Albricci I, nobile commerciante di antica schiatta lombarda.

Nel settembre del 1594 avvenne l’attacco dei turchi a Taranto; Mannarino partecipò alla difesa della sua città natale ed alle trattative di pace; in quell’occasione ebbe confidenza con vari feudatari accorsi a difesa della città, tra cui Alberto I Acquaviva d’Aragona, don Carlo d’Avalos, gli Albricci, Michele Imperiale e molti altri piccoli signorotti e cavalieri (tra cui Pietro Resta di Mesagne).

L’evento gli ispirò l’opera Glorie di guerrieri, e d’amanti in nuova impresa nella città di Taranto succedute, che nel 1596 pubblicò a Napoli. Nella stessa occasione conobbe Giovanni Lorenzo Albricci (figlio di Giannantonio) e lo ammirò per il suo coraggio.

Nel 1596 scrisse buona parte dell’inedito manoscritto, tramandato come “Storia di Mesagne”, che ora viene pubblicato integralmente per la prima volta.

Il manoscritto, dedicato in gran parte proprio al capostipite Albricci I, rimase inedito, forse per la morte dell’Albricci (avvenuta nel 1596); una parte di esso è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli; ed è quella contenuta in questo volume.

Il Mannarino era già noto ai suoi tempi, per opere letterarie e teatrali che ebbero ampia circolazione:

-Glorie di guerrieri e d’amanti… (Napoli, 1596); esso costituisce una preziosa testimonianza della precoce diffusione del culto di Torquato Tasso in area meridionale.

-Il pastor costante (Bari, 1606), dramma pastorale ambientato nei territori dell’antica città di Taranto. Poiché il libro conteneva molti errori e imprecisioni, l’Autore ripubblicò l’opera nel 1610 a Venezia col nuovo titolo Erminia.

La Susanna, tragedia sacra (Venezia, 1610), incentrata sulla figura della vergine martirizzata sotto Diocleziano. La tragedia fu effettivamente rappresentata nella cittadina di Torre Santa Susanna ed ebbe un’altra rappresentazione a Ruvo di Puglia.

-Le Rime (Napoli, 1617), un compatto canzoniere, organizzato secondo lo stile delle sillogi tardocinquecentesche e del primo Seicento, con interessanti riferimenti a fatti e persone reali.

-La Prefatio alle Centum historiae seu Observationes et casus medici (Venezia, 1621) di Epifanio Ferdinando.

Negli anni successivi alla morte della moglie, avvenuta nel 1614, prese i voti ecclesiastici e fu suddiacono della Collegiata di Mesagne; continuò ad esercitare la professione medica. Si spense nel 1621.

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Un nuovo numero doppio per “Il Delfino e la Mezzaluna”

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La Fondazione Terra d’Otranto inaugura l’attività editoriale del 2018 con il nuovo numero de Il Delfino e la Mezzaluna. Un numero doppio, di circa 450 pagine (formato A/4, copertina a colori, fotocomposto ed impaginato dalla Tipografia Biesse di Nardò) che prosegue, nel segno della continuità ma con alcune piccole novità, l’opera avviata nel 2012.

Come di consueto (in questo, appunto, la continuità) i contributi raccolti spaziano dalla storia dell’arte alla letteratura, dall’archeologia alla zoologia, dalla storia antica a quella contemporanea, ecc. I saggi, organizzati secondo nuove sezioni tematiche che rappresentano la principale novità editoriale, sono l’espressione del lavoro sia di autori da anni coinvolti nelle attività della Fondazione sia di “nuove” firme. Ecco dunque cosa potrete leggere in questo numero:

 

Sezione I – Storia

Coppola S., Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto

Salamino D., Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni della transizione

Sassi G., Storia della ricerca e della scoperta della città romana di Genusia

Valente N., La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

 

Sezione II – Personaggi

Carbone L., Della fama di Marcantonio Zimara e della fortuna editoriale dei suoi Problemata. Annotazioni aggiunte alla bibliografia di e su Zimara

Moscheo R., Giovan Paolo Vernaleone da Galatina

 

Sezione III – Natura, Ambiente e Paesaggi

Landriscina S., Le specchie di Calone e Cerrate: storia degli studi e nuove acquisizioni sul contesto topografico

Protopapa F., Il geco salentino

Palumbo A., S. Isidoro: non solo spiaggia ma anche Sarparea e spundurate. Storia e biodiversità da conoscere, proteggere, raccontare

 

Sezione IV – Letteratura

Di Seclì A., Ugo Orlando. Poesie

Presicce A., Su The castle of Otranto, primo romanzo gotico

Rizzo C., Luigi Ruggeri alla fine di un mondo

 

Sezione V – Arte

Ble Domenico, L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

Bolognese A., L’ovale della Madonna Immacolata di Liborio Riccio: cronaca di un restauro

Caringella M., Una proposta per Catalano nella collegiata di Grottaglie e una notula sul D’Orlando

Di Furia U., Una rara presenza pugliese dei fratelli Sarnelli: la Madonna col Bambino tra san Pietro martire e san Giacinto nella chiesa madre di Corigliano d’Otranto

Palumbo A., Tra reale e fantastico: intervista all’artista Daniele Minosi

Quaranta R., La grande tela dell’Annunciazione della collegiata di Grottaglie. Un restauro e una riscoperta

 

Sezione VI – Spigolature di Terra d’Otranto

Antonazzo L., Per la storia del santuario di santa Marina a Ruggiano

Corvaglia G. – Pedone B. – Rizzo R.C. – Tarantino G., I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano

Giacovelli D., Spicilegium Castianense I

Musio S., L’Università Civica e lo stemma di Tricase

Polito A. – Gaballo M., Leonardo Prato: l’arco a Lecce e il monumento funebre a Venezia

Semeraro M., Note di araldica: lo stemma della principessa di Francavilla Irene Delfina di Simiana

Valente N., Gli antichi toponimi dell’isola di Sant’Andrea

 

A tutti gli autori e a chi, a vario titolo, ha contribuito alla realizzazione dell’opera (dai fotografi Maurizio Biasco (di cui è la foto di copertina), Khalil Forssane, Emilio Nicolì, Lino Rosponi e Foto Tasco di Brindisi ai consulenti linguistici Maria Costanza Baglivo ed Elena Serio) va il nostro più sentito ringraziamento.

 

La rivista, come noto, ha un suo codice ISSN ed è registrata al Tribunale di Lecce. Fuori dal commercio e riservata ai soci della Fondazione nonché alle principali biblioteche provinciali, regionali e nazionali, può essere richiesta inviando una mail a ildelfinoelamezzaluna@gmail.com riportando l’indirizzo di spedizione ed allegando copia di un versamento di 22 euro per ciascuna copia desiderata, quale rimborso per le spese di stampa e di spedizione. Il bollettino o il bonifico dovranno essere intestati alla Fondazione Terra d’Otranto, cc postale 1003008339/ IBAN IT30G0760116000001003008339.

 

Marcello Gaballo – Presidente della Fondazione Terra d’Otranto

Alessio Palumbo – Direttore de Il Delfino e la Mezzaluna

Santa Margherita in un dipinto a Latiano

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di Domenico Ble

Al centro è raffigurata santa Margherita d’Antiochia e stringe nella mano destra la palma, simbolo del martirio, mentre con la sinistra regge la croce, strumento con la quale squarciò il ventre del drago mentre era prigioniera. L’essere demoniaco è calpestato dai piedi della santa, con le fauci spalancate ed a lei rivolto in sembianze terrificanti.

La martire antiochena è ritratta a figura intera assumendo  una posa leggermente arcuata, che genera movimento. Lo sguardo fiero e vittorioso domina il drago, sovrastando la forza della bestia con la sua fede; rimarca la lotta e la tensione il mantello rosso che svolazza alle sue spalle.

In secondo piano fa da sfondo un paesaggio campestre, che a sinistra rappresenta il martirio da lei subito, come raccontato nel passio scritto da Teotimo, in cui si narra che la santa fu decapitata fuori dalle mura della città, qui sintetizzata in un tratto di mura urbiche delimitanti un centro abitato con i suoi campanili ed edifici.

La tela è conservata a Latiano nella chiesa del SS. Rosario, sul secondo altare della parete sinistra.

La martire ha un legame antico e particolare con la città di Latiano, che nel 1650 la elesse a patrona e protettrice[1]. Per sua intercessione, in occasione del  funesto terremoto che colpì la Terra d’Otranto il 20 febbraio 1743, la città ne uscì indenne.

In merito al dipinto si potrebbe ipotizzare che fosse quello che un tempo era conservato nella chiesa matrice, opera di Saverio Lillo, come riportato dal vescovo Alessandro Maria Kalefati nella visita pastorale del 1785: “…in navicula septentrionali, sub quarto arcu…Tela depicta… exhibens Martirium eisdem Virginis. Tela depicta ab Xaverio Lyllo Ruffanensi.[2].

Proprio qui vi è un’altra tela del medesimo artista, una Immacolata Concezione con san Filippo Neri. Confrontandola con la quella raffigurante Santa Margherita d’Antiochia si notano delle analogie: le due donne sono raffigurate in primo piano ed hanno la stessa posa, la cromia, ma anche il panneggio delle vesti e il volto tondeggiante le accomunano.

Da qui si potrebbe ipotizzare che la tela della santa, già citata da Mons. Kalefati ed un tempo conservata nella Matrice, potrebbe corrispondere a quella oggi presente nella chiesa del SS. del Rosario.

Una ulteriore ricerca approfondita potrebbe svelare la vera paternità pittorica.

 

[1] S. SETTEMBRINI, Santa Margherita, vergine e martire protettrice di Latiano, Neografica, Latiano, 1995, p. 12

[2] A.V.O., Santa Visita Pastorale di Mons. Alessandro Maria Kalefati, 1785, Archivio Vescovile Oria, Visite pastorali, coll. prov. Trascrizione a cura di Salvatore Settembrini.

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (4/5)

di Armando Polito

 

carta 329v

ben anche nell’Europa tutta tanto dilatata, ed estesa. Il metodico regolamento che vien’osservato, ed il grande vantaggio ed utile che tutto dì dalle Nazioni tutte vien ricavato nelle reciproche conferenze tenute. Inutile ben anche e superfluo dell’introduzzione dell’Accademie seguite ne’ tempi di mezzo, e specialmente di quella57 in tempo dell’imperadore Carlo Magno … 

 

carta 331v

… L’altra che chiamata fà degl’Oscuri, coll’impresa del Sole, che nascosto tròà le nubi vedeasi col motto Et latet, et lucet58, e colle altre che si tralasciano. Quei Accademici Messapi nell’erezzione dell’Accademia da essi fissata, vollero farsi in qualche maniera imitare nel titolo che doveano darli, quello di sopra rapportato degl’Oscuri, assumendo esui quello degl’Affumicati; e per l’impresa, espressero un’acceso fuoco, sopra di cui vedonsi alcule legna di Quercia, dalle quali tramandato ne viene il fumo, col motto Explorat Robora. Virgil. Georg. et P.o Aeneid. Riflettendosi da me sopra59l’enunciato simbolo, e motto, s’hà pensato, che quei dotti Accademici avessero voluto significare che non poco delle di loro forze fidavansi, facendone di quelle la prova, e che forsi60 avessero anche avuto presente, e di mira l’altro verso dello stesso Virgilio nella Georgica 175 lib. I, cioè Suspensis focis explorat robora fumus           

 

carta 332r

sopra di cui da un interprete61 dotto fu ivi notato62 che “Probet an sint optima quod ex eo noscitur, si fumo siccata, rimas non contrahant63“. Dalisto Narsete Pastore Arcade, che scrisse la Vita del Chiarissimo Benedetto Buommattei, che trovasi inserita nella sua nota opera della Lingua Toscana64, nel principio di quella và rapportando li vari onori datili, e trà quei, quello d’essere stato ascritto in varie Accademie, e trà queste in65 quella di Firenze, detta degl’Instancabili, ove il Gran Duca era solito intervenire, nella quale dice il citato Autoreche il Buommattei66 che volle prendere il nome di AFFUMICATO, di cui67 spiegar volendosene spiegare il simbolo disse che dal Fumo nascea il suo operare, riferendo il Fumo alla Gloria che ne ritraea, accoppiata questa ad una lodevole ambizione, che in se stesso concepito avea. Dal nome, dunque68, d’AFFUMICATO dal Buommattei assunto, dedurre io ne voglio, che avendo quei dotti Accademici Messapici nell’erezzione della di loro Accademia avendo anch’essi assunto il titolo degl’Affumicati, collo stesso vollero parimenti dar ad intendere69, il Fumo alla Gloria riferendo, che anche70 per ciò alla stessa gloria drizzati aveano li li loro desideri, e che à quella spiravano; ma qualunque ne fosse stato mai l’oggetto, stimo intanto proprio esporre alla veduta del Lettore l’impronrta della testé descritta Accademia, coi nomi, simboli e motti, che quei Accademici che la componeano assunsero, ricavati dagl’originali atti, che, come di sopra hò detto, sono in mio potere, per esserne nella maggiore intelligenza.      

 

carta 333v

Mi convien’inperò71  premettere, che avendosi da me data alla descritta Impresa dell’Accademia di Mesagne quella dilucidazione, che più m’è sembrata propria72 al di lei simbolo, e convenendomi parimente73 dilucidare le Imprese, simboli, e motti assunti da quei Accademici, che la componeano, che anche saranno qui dietro rapportati, e non essendo stati74 alcuni di quelli,75 espressati con quella chiarezza propria,per ciò76 alla cieca  così si và più tosto77 à far da indovino, che da interprete; per cui giustamente il di sopra citato Scrittore Mons. de Francheville nella detta sua opera Le Siecle de Louis XIV tom. 2 CAP. XXIV parlando di un tal punto degl’Emblemi scrisse, che quando queste non rappresentano e non indicano ciocché la leggenda, ò sia il motto voglia significare, e questo non abbia un senso molto chiaro, e determinato, potendosi in più maniere spiegare, che in tal caso non merita d’essere dilucidato, e spiegato in modo alcuno; eccone le parole: Quand le corps ne78 represente pas ce que la légende signifie, et cette légende n’a pas un sens assez clair, et  assez déterminé, ce qu’on peut expliquer de plusieurs maniéres, ne merite d’ȇtre expliqué d’aucune …79, ed indi soggiunse: Les devises sont par rapport aux inscription, ce que sont des mascarades en comparaison des cérémonies augustes80, indi qualora il Lettore non resterà sodisfatto da quelle dilucidazioni, che le darò, in tal caso ne farà la mia difesa il testé citato scrittore Francese.  

 

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/wp-admin/post.php?post=94691&action=edit

____________

57 di quella aggiunto nell’interrigo.

58 E si nasconde e risplende.

59 sopra aggiunto nell’interrigo.

60 Sic.

61 interprete aggiunto nell’interrigo.

62 ivi notato aggiunto nell’interrigo in sostituzione di scritto cancellato.

63 Proverebbe se [i pezzi di legno] sono ottimi, poiché lo si sa da cio, se seccati dal fumo non presentano fenditure.  Non è dato sapere chi sia questo dotto, anche se la frase compare tra le esplicative del lemma explorare nelle edizioni settecentesche del Calepino.

64 Benedetto Buommattei visse dal 1581 al 1647. Scrisse Modi di consecrar le vergini, Pinelli, Venezia, 1622 e della lingua toscana, Pignoni, Firenze, 1643.. L’edizione di quest’ultima opera cui si riferisce il manoscritto è quella uscita per i tipi della Società tipografica de’ classici italiani a Milano nel 1807, dove la vita del Buommatei scritta da Dalisto Narsete occupa le pp. 1-92 del volume I. Il pezzo citato è a p. 54 e suona così: E perché dal fumo nasce il mio operare, meritatamente mi pare di potere aver gloria da questo nome AFFUMICATO. Quanto a Dalisto Narsete dall’edizione della vita del Buommattei uscita per i tipi di Guiducci e Franchi a Firenze nel 1741 a p. XXXXXXII (sic!) si legge: Dalisto Narseate, pseudonimo dell’abate Giovanni Battista Casotti.

65 e trà queste aggiunto nell’interrigo in sostituzione di parole cancellate.

66 Segue un che cancellato.

67 Segue parola cancellata.

68 dunque aggiunto nell’interrigo.

69 parimenti dar ad intendere sovrascitto a parole cancellate.

70 anche seguito da parola cancellata.

71 in barrato.

72 Segue essere cancellato.

73 Segue dei cancellato.

74 stati aggiunto nell’interrigo.

75 Segue parola cancellata.

76 Segue parola cancellata.

77 tosto aggiunto nell’interrigo.

78 Segue parola cancellata.

79 Questa citazione risulta replicata nella nota (A) di carta 348r.

80 I motti sono in rapporto alle iscrizioni ciò che sono le buffonate delle auguste cerimonie. 

L’iconografia araldica del portale della Collegiata di Manduria: ipotesi e indirizzi di ricerca

di Marcello Semeraro

 

In due articoli apparsi recentemente sulle pagine web di ManduriaOggi, lo studioso Giuseppe Pio Capogrosso ha avanzato alcune ipotesi di lettura sulla decorazione araldica presente sul magnifico portale rinascimentale della chiesa Matrice di Manduria, realizzato, com’è noto, da Raimondo da Francavilla nel 1532 (fig. 1).

Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso
Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso

 

Si tratta, lo ricordiamo, di un insieme formato da quattro stemmi litici disposti a coppie ai lati del portale, due sopra e due sotto. La coppia superiore, collocata alla base delle colonnine della sovrapporta, è costituita da due scudi sagomati con forme diverse; quella inferiore, visibile sotto i capitelli delle paraste, è invece composta da due scudi gemelli appesi a chiodi mediante guiggie. Ques’ultima coppia non pone particolari problemi interpretativi: si tratta della più antica raffigurazione a noi nota dell’arma dell’Universitas di Casalnuovo (oggi Manduria), recante il solo albero di mandorlo sradicato[1] (figg. 2 e 3).

Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Fig. 3 - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 3 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Più problematica risulta, invece, la lettura della coppia di stemmi sovrastanti, caratterizzata, come si vede nelle illustrazioni (figg. 4 e 5), da abrasioni di notevole entità che ne rendono difficile l’immediata decifrazione.

Fig. 4 - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 4 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Figg. 5 e 5a - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Figg. 5 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Figg. 5 e 5a - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Figg. 5a – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Capogrosso ha identificato correttamente la prima di queste due armi (quella di sinistra, fig. 4), riconoscendo in essa uno stemma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito, le insegne araldiche di Roberto Bonifacio (signore di Casalnuovo, fra alterne vicende, dal 1522 al 1536) e della moglie Lucrezia Cicara[2] (figg. 6 e 7).

Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 7 - Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»
Fig. 7 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»

 

Per il secondo stemma lo studioso manduriano propone, invece, un’ipotesi di lettura che a nostro avviso risulta priva di fondamento. A detta del Capogrosso, l’insegna riprodurrebbe «il simbolo araldico della chiesa parrocchiale SS. Trinità (all’epoca eretta in Arcipretura, ma non ancora in Collegiata, sebbene fosse già servita, per il culto, collegialmente) rappresentato così come più tardi comparirà miniato nel Librone Magno delle famiglie mandurine».

Tuttavia, un’osservazione attenta del contenuto blasonico dello scudo, condotta anche mediante l’ausilio di foto ad alta risoluzione, smentisce l’ipotesi di attribuzione proposta dall’autore manduriano. Malgrado le vistose abrasioni, nella parte sinistra (destra per chi guarda) dello scudo si intravedono chiaramente gli scaglioni e il volatile, vale a dire le figure araldiche dell’arma Cicara (figg. 5 e 5a).

Ciò significa che il partito d’alleanza coniugale Bonifacio/Cicara è rappresentato anche nel secondo scudo della coppia superiore[3]. In effetti, la disposizione delle armi sul portale suggerisce un ordine funzionale alla rappresentazione di una gerarchia di poteri: sopra gli stemmi dei feudatari (arma di dominio), sotto quelli della locale Universitas (arma di comunità).

Ricordando che in contesti simili la ripetizione delle stesse armi all’interno dello stesso scudo è una costante legata essenzialmente a ragioni di simmetria, osserviamo, tuttavia, che il secondo scudo della coppia superiore presenta una foggia diversa rispetto al primo e appare scolpito su una lastra rettangolare che risulta decisamente fuori contesto. Entrambi gli scudi, inoltre, sono applicati alla base delle colonnine mediante staffe metalliche, particolare che li distingue nettamente dagli stemmi sottostanti, che invece appaiono scolpiti direttamente sulle paraste e costituiscono parte integrante della ricca iconografia presente sul portale del 1532.

Come spiegare, dunque, tutte queste anomalie? L’ipotesi più probabile, allo stato attuale delle ricerche, è quella di una collocazione successiva dei due stemmi superiori rispetto a quelli inferiori. È possibile, in particolare, che l’applicazione degli attuali scudi sulle colonnine della sovrapporta sia avvenuta utilizzando manufatti originariamente collocati altrove, reimpiegati, forse, per sostituire una precedente coppia di scudi gemelli Bonifacio/Cicara gravemente danneggiati o magari rimossi sotto i colpi della damnatio memoriae che colpì la figura di Giovanni Bernardino Bonifacio (*1517 †1597), figlio e successore di Roberto, sospettato di eresia e fuggito in modo rocambolesco nel 1557, con la conseguente confisca dei feudi di Oria, Casalnuovo e Francavilla.

Non è nemmeno da escludere che gli stemmi Bonifacio/Cicara appartengano allo stesso Giovanni Bernardino e che la damnatio memoriae abbia colpito proprio le sue insegne[4]. Nel testamento firmato il 16 gennaio 1534, Roberto Bonifacio dichiara il figlio erede universale, disponendo altresì che «se habbia finche vivera a cognominare del cognome nostro de Bonifatio, et Cicaro, cognome de la signora marchesa mia consorte». Quest’ultima circostanza può aver fornito a Giovanni Bernardino l’occasione per combinare all’interno di uno scudo partito le armi paterne con quelle materne, traducendo in tal modo araldicamente la volontà espressa dal padre di mantenere sempre vivi i cognomi Bonifacio e Cicara: ne avrebbe avuto, del resto, tutto il diritto.

Il fatto è che dell’arma usata dall’illustre umanista napoletano non resta oggi più alcuna traccia visibile. Mancano, infatti, altre attestazioni su monumenti, stemmari o altri manufatti con cui poter fare un raffronto, per cui la nostra resta solo una mera ipotesi, da prendere con le dovute cautele[5].

Come abbiamo già ricordato poc’anzi, quella con l’albero di mandorlo rappresentato a radici nude costituisce la più antica raffigurazione dell’arma civica di Manduria-Casalnuovo giunta fino a noi.

Si tratta di una testimonianza di notevole importanza perché documenta come agli inizi del Cinquecento l’Università di Casalnuovo – i cui primi statuti risalgono agli anni 1463-64, durante il periodo aragonese – fosse già dotata di una personalità giuridica e di un assetto politico-amministrativo tali da giustificare l’uso di un stemma. Quest’ultimo, infatti, trovava posto su tutta una serie di supporti (sigilli, monumenti, altri manufatti) atti a rendere visibili certi diritti e certe prerogative dell’amministrazione locale, separati, e a volte anzi contrapposti, a quelli dello Stato rappresentato dalla Corona e dal feudatario.

La presenza degli emblemi della municipalità sul portale rinascimentale voluto da Raimondo da Francavilla potrebbe allora essere messa in relazione con la funzione pubblica che la chiesa Matrice ebbe già nel Cinquecento come sede del Consiglio municipale[6], il che spiegherebbe anche l’eventuale presenza, ab origine o comunque entro il 1557, di un apparato araldico istituzionale composto da quattro armi, due del feudatario (sopra) e due dell’Università casalnovetana (sotto).

Un’altra ipotesi tira in ballo il giuspatronato detenuto dall’Universitas sulla stessa vhiesa Madre[7] e in tal caso gli stemmi ne rappresenterebbero il signum.

È innegabile, comunque sia, il fascino esercitato da questi documenti figurati che rappresentano visivamente i primi passi dell’autonomia amministrativa di Manduria-Casalnuovo nel senso moderno del termine.

L’iconografia complessiva del portale della chiesa Matrice attende ancora di essere debitamente studiata: l’auspicio è che la nostra ricerca, passibile di ulteriori sviluppi, rappresenti un primo passo in questa direzione.

 

BIBLIOGRAFIA

T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15.

P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.

G. Delille, Famiglia e potere locale: una prospettiva mediterranea, Bari 2011.

F. Filo Schiavoni, M. Annoscia, …Tra i segni di tanta vita e di tanta storia: Manduria in immagini e documenti fra 800 e 900, Manduria 1994.

S. Fischetti, Novità archivistiche su Manduria-Casalnovo: emblema civico e inediti, in «Cenacolo», Rivista storica di Taranto, n. s. XV (XXVII), 2003, pp. 89-114.

G. Jacovelli, Manduria nel Cinquecento, Galatina 1974.

N. Morrone, Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo, disponibile al seguente indirizzo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/17/nuovi-documenti-sul-rapporto-tra-giovanni-bernardino-bonifacio-e-luniversita-di-casalnuovo/.

O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980.

N. Palumbo, Nobilitas mandurina, Manduria 1989.

M. Pastoureau, Traité dhéraldique, Picard, Paris 20085.

A. Savorelli, Araldica e araldica comunale. Una sintesi storica, in «Estudos de Heráldica Medieval», coordenação de M. de Lurdes Rosa e M. Metelo de Seixas, Lisboa, IEM-CLEGH-Caminhos Romanos, 2012, pp. 254-273.

L. Tarentini, Manduria sacra, ovvero Storia di tutte le chiese e cappelle distrutte ed esistenti dei monasteri e congregazioni laicali dalla loro fondazione fino al presente, Manduria 1899, rist. anast. Manduria 1999.

M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.

 

[1] Riteniamo che Casalnuovo, come molti altri centri minori, si sia dotata di uno stemma civico fra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI. Il Cinquecento, in particolare, è il periodo della definizione dell’emblema civico casalnovetano, che si stabilizzerà solo a partire dal secolo successivo. Ci riproponiamo di parlarne più diffusamente in un apposito articolo di prossima pubblicazione.

[2] Altri due esemplari recanti il partito Bonifacio/Cicara si trovano scolpiti al lati del basamento del monumento sepolcrale dedicato ad Andrea Bonifacio (figlio di Roberto e Lucrezia, morto nel 1515, all’età di sette anni), situato nella chiesa dei Santi Severino e Sossio di Napoli. Il sito Nobili napoletani ne fornisce una riproduzione fotografica al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Bonifacio.htm.

[3] Dall’analisi degli ornamenti esterni emerge, inoltre, che gli scudi della coppia superiore avevano in origine il medesimo timbro, ovvero una corona composta da un semplice cerchio, probabilmente decorato con gemme, che appare ancora integro nel primo scudo e frammentario nel secondo: un altro particolare che accomuna i due manufatti.

[4] E in tal caso bisognerebbe spostare il terminus post quem per la datazione della collocazione degli stemmi superiori al 1536, data della morte del padre Roberto.

[5] Sebbene non se ne conoscano esempi, Giovanni Berardino fece sicuramente uso di uno stemma, come dimostra la testimonianza de visu fornita dallo storico oritano Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685), contenuta in una pagina del manoscritto Historia Dell’antichità d’Oria. L’Albanese ricorda come ancora ai suoi tempi le armi del marchese di Oria decorassero gli stalli del coro della chiesa di San Francesco d’Assisi, stalli che lo stesso Bonifacio commissionò e dei quali, ahimè, si è persa oggi ogni traccia. Cfr. D. T. ALBANESE, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, c. 311v.

[6] Dall’inizio del XVI secolo fino alla fine del XVIII tutti i Consigli municipali di Casalnuovo erano composti da un sindaco e da quattro auditori (assessori), scelti fra i nobili viventi, e da otto eletti, scelti fra i popolari. I membri del Consiglio erano responsabili, sui loro beni patrimoniali, dell’amministrazione della loro carica.

[7] L’Università aveva l’obbligo di provvedere alla manutenzione della chiesa e ad altre spese necessarie al suo funzionamento.

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (3/5)

di Armando Polito

 

carta 342r

stimò proprio di far dire all’istesso Temistocle quasi le medesime espressioni, tendenti alla di lui vita, ed al termine di quella, perché dovranno improprie ed inverisimili riputarsi nella bocca del divisato Accademico, facendo egli stesso elogi alle sue proprie virtù?

XVI Il vagabondo, col motto Qua ducitur32, assunse per il suo Emblema una nube. Dal citato Capaccio vien rapportata la Nube nel numero XXXVI de’ suoi Apologi, ma tutt’altro volle egli colla stessa simbolizzare, che ciocché si ebbe in mira dall’Accademico, che volle intitolarsi Il vagabondo, il quale coll’esposto motto Qua ducitur, altro forse non volle dar ad intendere, ch’egli correa à seconda de’ venti, come la Nube ivi figurata; Qual mai però ne fosse stato il senso figurato, ò sia metaforico, ci vorrebbe un Edipo per indovinarlo.

XVII L’ozioso col motto Nil boni.33 Equivale il contenuto all’Emblema, ed al simbolo esposto nel numero e nella figura XII, colla varietà però che in quella vien’espressato un pezzo di legno inservibile, e soltanto atto per il fuoco; in questa un’animale, di cui non n’apparisce la specie, per essere stato nel suo originale malamente ed informemente designato; mù di qualunque genere, ò specie fosse, certo è però che l’accademico detto L’ozioso, che per suo emblema il volle assumere, altro non volle collo stesso significare, che la mancanza delle proprie sue forze, per poter colle stesse contribuire all’utile, e vantaggio di quella Accademia, di cui egli n’era membro.

XVIII Il tempestoso, col motto Spumat dum premitur.34 Assunse quell’Accademico per sua Impresa due navi in mezzo ad un tempestoso mare, che vengono agitate, e spinte, or quà, or là dai flutti di quello. Il lodato Andrea Alciati nell’emblema quarantatrè, rapporta una nave agitata da una gran tempesta, da cui ne spera la prossima calma, alludendo collo stesso alla pace, e quiete ch’egli sperava dover avvenire alla Repubblica di Milano, sua padria,

 

carta 343v

colla concordia che dovea seguire trà l’Imperadore Carlo V e Francesco I Rè di Francia; onde all’anzidetto Emblema unì il motto Spes proxima35, dicendo ne’ susseguenti versi: 

Innumeris agitur Respublica nostra procellis,

et spes venturae sola salutis adest,

non secus ac Navis medio circum equore venti,

quam rapiunt, salsis iamque satiscit36 aquis.

Quod si Helenae adveniunt lucentia sidera fratres,

amissos animos spes bona restituit.37 

Ogn’un conosce, che se bene [segue parola cancellata] lìemblema dell’Accademico, detto Il tempestoso, quasi corrisponda à quello dell’Alciati, pure diverso ne viene ad essere il di lui chiarimento, anche attenta la diversità dei motti. Di questo se n’è di sopra rapportato il senso letterale, ed allegorico, di quello solamente il letterale; onde incerto rendendosi il metaforico, altro non potrebbe dirsi, di aver voluto quell’Accademico manifestare colli divisati emblema, e motto, la sua natura, colla simiglianza di quella nave in un mar tempestoso, le di cui onde dalla medesima premute, caggionano la schiuma.

XIX Il languido, col motto Halitu reviviscam.38 Per lo scioglimento di un tal’emblema, veramente v’è di bisogno di un Edipo per più raggioni. Vien ivi rappresentato un’animalucio, di cui non n’apparisce la minima chiarezza, per potersene conoscere il genere, e la specie; onde venendo à mancare il senso letterale, viene in conseguenza anche à mancare il metaforico, ed allegorico. La mancanza proviene dall’originale, in cui malamente, e senza l’arte fù quella specie di animale designata, onde confesso ingenuamente di non saperne dello stesso il significato, e dirò con S. Agostino, citato da S. Tomaso: Non est  rubescendum homini confiteri se nescire, quod nescit, ne dum se scire mentitur, nunquam scire mereatur.39 Una tal confessione intendo ripetere per gli altri emblemi, de’ quali al lettore non sembrarà

 

carta 344r

propria la dilucidazione, come sopra data40 [seguono sei righe cancellate]. L’assunto, che quasi senza d’esaminar pria le mie debolissime forze, hò voluto intraprendere, è provenuto [queste due ultime parole nell’interrigo] dall’occasione dell’Accademia in questa mia Padria di Mesagne eretta. Mi si potrebbe addurre [queste quattro parole sovrascritte nell’interrigo e oltre il margine destro del foglio in sostituzione di due parole cancellata, la cui agevole lettura è con quel-)] la nobile dottrina di Seneca,la quale dovrebbe essere impressa nella mente, e memoria d’ogni Scrittore, e cioè Quid stultius quam quae non didiceris, nolle etiam à malis addiscere?41 Mà il difetto sarà supplito dal compatimento del Savio Lettore42…                 

Il testo prosegue con l’esaltazione della funzione educativa per la gioventù assolta dalle accademie.

 

carta 348r (è collocata subito prima della carta 337r, della quale replica in gran parte il contenuto). Perciò trascrivo solo la parte iniziale, poiché la nota (B) serve solo ad aggiungere a margine il n. III (tal quale quello di carta 337r) che qui risulta saltato nel testo principale.

 

Nell’AGGIUNTA da me fatta sopra il CAP. XXI e nella fine della medesima a carta 271 feci parola dell’Accademia che si43 trovava formata in Mesagne, di Regio Assenso munita nell’anno 1671, detta GLI AFFUMIGATI, del di cui titolo44 ne fù fatta quella dilucidazione, che à me parve la più propria, e confacente riguardo all’Emblema, e simbolo ivi rapportati, de’ quali mi riserverò in questo luogo portarne l’Impronta, con quella degli Accademici, che in quel tempo la componevano, con li di loro rispettivi motti, come qui dietro è stato adempito, solo restandomi da darvi quella interpretazione, che à me sembrerà più adattabile a quei di loro simboli, e motti. Ad alcuni45 di quelli, per altro [segue parola cancellata], perché non bene pressati, non mi è riuscito la medesima in mdo alcuno dare, per non ingannarmi. (A) Eccone intanto ciocche m’è sembrato di dire giusta l’ordine de’ numeri in quelli segnato.

(A) (A) Un chiaro scrittore francese (Mons. de Francheville46 nella sua erudita opera Le siecle de Louis XIV tomo 2 cap. XXIV47) parlando degli emblemi così a tal proposito ne scrisse: Quand le corps ne represente pas ce que la légende signifie, et cette légende n’a pas un sens assez clair, et  assez déterminé, ce qu’on peut expliquer de plusieurs maniéres, ne merite d’ȇtre expliqué d’aucune.48   

Riporto di seguito l’aggiunta al cap. XXI.

 

carta 326r

 

DELL’ACCADEMIA DEGL’AFFUMIGATI

Pria dell’anno 1670 v’era in Mesagne, fuor d’ogni dubbio, un’Assemblea, ò sia un’unione di Uomini Letterati,che trà essi loro conferendo sopra quelle materie letterarie, e che in quei tempi conosceansi sufficienti per istruzzzione della gioventù, ne faceano indi delle stesse la raccolta; assocoando in quella di loro Assemblea Letteraria anche Soggetti forastieri. Ad una tal unione, impropeiamente venne dato il titolo di Accademia.

 

carta 327r

Che una tale impropria Accademia ci fosse stata si rileva chiaramente da talune dotte composizioni date alla stampa nell’anno 1659, col titolo RAMI DI CIPRESSO, colle quali vollero attestare il di loro grato animo à Diego Ferdinandi per la morte seguita di Caterina di lui figlia. E volendosi dal Ferdinandi dimostrare quanto le di loro composizioni tendenti49 alla fortezza dell’animo, confortato l’aveano50 con una dotta ode che compose51, Agli Signori Accademici di Mesagne drizzò, fingendo nella stessa d’esserli una Diva apparsa, che nella Fortezza conformar lo volea, la quale trà gli altri esempi che l’addusse, per poterli imitare, dicea52” Di Pericle la fama (sono le parole che sieguono dall’originale trascritte)/D’Anassagora ancor odi le voci/ l’emulo di Platone/il più vecchio Catone/la gran Madre de’ Gracchi ecco ti chiama./Di questi Eroi alta Fortezza ammira,/a tal virtude aspira/tu che à più salda, e più verace fede/dell’Immortalità sei vero erede/” cet. Pensando indi quei Letterati Cittadini, che quelle Unioni, ed Assemblee, più tosto Combricole riputar poteansi, e che impropriamente il nome d’Accademia dato se li foss; per ciò con somma avvedutezza ne diedero le di loro suppliche nel Supremo Consiglio del Collaterale, per la di lei53 erezzione, domandando per l’effetto suddetto il Real Beneplacito, ed assenso, nella maniera seguente.  “Eccellentissimo Signore, molti Gentiluomini Dottori, di Legge Civile, Canonica, di Medicina, Professori di Filosofia, di Teologia, e di altre Scienze supplicando dicono à Vostra Eccellenza come desiderano eriggere un’Accademia in Mesagne, loro Padria, provincia di Lecce54, con tutte le sollennità che in quella si ricercano, nella quale professaranno la Rettorica, con fondament0 di belle lettere, e specialmente il modo in verso in quattro                  

 

carta 328r

quattro idiomi, cioè Greco, Latino, Italiano, e Spagnolo, acciò esercitandosi in essi, e spinti dalla virtuosa emulazione, siano di sollievo a giovani futuri, e di profitto agli presenti in quella saranno. Però supplicano Vostra Eccellenza degnarsi concederli il suo Beneplacito per detta Accademia erigendasotto il titolo degl’ AFFUMICATI55, che lo riceveranno a grazia ut Deus”. La providenza data nel dì 16 Aprile dell’anno 1671 dai Reggenti di quel Collaterale fù di Liceat. Ed essendosi in seguito devenuto alla formazione delle Regole.furono queste in dodici Capi divise, e distinte; fù prefisso il numero degli Uffiziali, che quella nuova Accademia contener dovea,distinti coi titoli di Principe56, di Censori, di Segretario, Ricevitori, Bidelli, cet.  Nel dì 21 Giugno del sopradetto anno 1671, dall’Arciprete dell’Insigne Collegiata di Mesagne don Angelo Spoti ne fù fatta entro della stessa la sollenne apertura della divisata Accademia, ed essendosi indi proceduto all’elezzione degl’Uffiziali della medesima, restarono detti per il Principe il dottor Gian Matteo Ferdinandi, Tesoriere della detta Collegiata; per Censore della Lingua Latina il Canonico don Francesco Roma, e della volgare il nominato Arciprete Spoti; per Segretario il dottor Giuseppe Giofilo, come dagl’atti della detta elezzione e dag’atti in seguito formati per le susseguenti adunanze tenute, hò io rilevato, e che in mio potere sono. Inutile e superfluo sarebbe, se io ridir volessi, e ripetere ciocché da molti Autori, pur troppo chiari per la di loro vasta erudizione è stato scritto toccante la propria, ed antichissima origine dell’Accademia, la sua etimologia, li progressi, ed aumenti avuti, e come sin’à tempi nostri stessi abbia non solo nella nostra Italia, mà

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/           

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/wp-admin/post.php?post=94691&action=edit

__________________

32 Per dove viene condotto.

33 Nulla di buono.

34 Spumeggia mentre è pressato.

35 La speranza è vicinissima.

36 Errore per fatiscit.

37 Il nostro stato è agitato da innumerevoli tempeste e c’è la sola speranza di una futura salvezza, non diversamente da una nave che i venti assalgono da tutte le parti in mezzo al mare e già è in difficoltà nelle acque salate. Perché se sopraggiungono i lucenti astri fratelli di Elena [nome di una stella presEnte in Plinio, Naturalis historia, II, 101], la buona speranza rincuora gli animi smarriti.

38 Con un soffio rivivrò.

39 Non dev’essere per l’uomo motivo di vergogna il confessare di non sapere ciò che non sa, affinché,non meriti di non sapere mai mentre mentendo dice di sapere.

40 Seguono alcune righe cancellate,

41 Che c’è di più stolto del non aver appreso,  del non volere anche apprendere dalle venture?

42 -to del Savio lettore aggiunto nell’interrigo.

43 Aggiunto nell’interrigo.

44 di e titolo aggiunti nell’interrigo.

45 Ad alcuni aggiunto nell’interrigo.

46 Joseph Du Fresne de Francheville (1704-1781). In realtà l’autore dell’opera subito dopo ricordata è Voltaire e Joseph Du Fresne de Francheville, che era consigliere del re e membro dell’Accademia reale di scienze e belle lettere di Prussia, ne curò la pubblicazione per i tipi di C. F. Henning a Berlino nel 1751.

47 In realtà il capitolo è il XXV.

48 Quando l’oggetto non rappresenta quello che il motto significa e questo motto non ha un senso assai chiaro e assai determinato, ma che può essere spiegato in vari modi, non merita di essere spiegato da qualcuno.

49 tendenti aggiunto nell’interrigo.

50 l’aveano aggiunto nell’interrigo.

51 compose aggiunto nell’interrigo.

52 dicea aggiunto nell’interrigo in sostituzione di un dire che si legge nel rigo sottostante con la sillaba finale cancellata.

53 di lei aggiunto nell’interrigo.

54 La provincia di Brindisi, alla quale Mesagne attualmente appartiene, fu istituita nel 1927.

55 Altrove sempre AFFUMIGATI.

56 Non ci sono precisazioni sulle sue funzioni, ma è agevole immaginare che corrispondessero a quelle che nell’Arcadia saranno esercitate dal custode, che, eletto a scrutinio segreto, per quattro anni  presiedeva le assemblee, nominava un colleggio di  dodici vicecustodi (la metà di loro veniva sostituita ogni anno), due sottocustodi con funzioni di cancellieri e un vicario o protocustode col compito di sostituirlo in sua assenza.

 

 

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (2/5)

di Armando Polito

Alla carta 336v bianca segue la 337r, dove inizia il commento ai dati delle carte precedenti.

I L’offuscato,col motto Post nubila Phoebus11. Volle forse quel dotto Accademico colle Nuvole, che dileguate vengono dal Sole, ivi espressate, alludere all’utile e vantaggio di quella Accademia, la12 quale  faceva dileguare l’ignoranza, che in quel tempo eravi.

II L’oscuro, col motto Prope micabit.13 Contiene l’emblema una lucerna ardente; coll’espressato motto si volle alludere come da quell’Accademia, ed assemblea di quell’illuminati soggetti, che la componeano, ne ricevea maggior luce, ed utile chi l’era vicino, e più d’appresso. (B)14         

III L’oppresso, col motto Latior dum premor15. Non se li può à quel simbolo da me dare veruna interpretazione dà che dello stesso non se ne distingue il contenuto.

IV L’imperfetto, col motto Labore perfectio.16 Si volle nella figura ivi espressata d’una Ruota attinente all’arte di un Vasaio, sopra di cui vedesi unvaso di creta alludere [parola aggiunta nell’interrigo] come colla fatiga, e collo studio si puoi pervenire all’intelligenza di quelle scienze che imperfettamente si sanno, alludendosi [segue una parola cancellata] anche all’utile, e vantaggio, che ne deriva dalla frequenza delle assemblee accademiche.

V Il volubile, col motto Motus est vita viventi.17 Che colla Banderuola posta sopra di una torre,s’abbia voluto simbolizzare il moto e la volubilità, si capisce benissimo, non che il motto espressato, che viene ad essere uniforma à quanto fù scritto dal Romano Oratore I.Tusc. Cap. 23: Quod animatum est, id motu cietur interiori; mà qual mai ne fosse stato l’oggetto, ed à qual cosa quelle parole, debbansi riferire, ingenuamente confesso di non capirlo.     

 

carta 338r

VI L’irresoluto, col motto Non nisi igne18. La figura che ivi si vede sembra un lambicco, da cui colla forza del fuoco vien tratto lo spirito del liquore contenuto in quel vaso. Si volle nello stesso simbolizzare che in quelle Accademiche assemblee tutto ciòcche diceasi, e proponeasi, veniva con ogni esattezza, e scrutinio esaminato, e discusso, adattandosi al noto proverbio Passar per lambicco.

VII L’indeterminato col motto Quo me vertam nescio.19 La figura ivi espressata di un’uomo in piedi sopra una strada; vedonsi li quattro principali venti che dai quattro lati della medesima gahliardamente soffiano. Con quell’emblema chi non vede, che s’abbia voluto alludere alla forza delle raggioni, che da quei Accademici adduceansi sopra dei problemi, che da quel Principe venivano loro proposti per lo scioglimento? Le quali essendo tutte egualmente forti, e convincenti per ciò indeterminato trovavasi a quali di quelle dovea appigliarsi? (A) 

VIII Il variabile col motto Alieno vultu.20 Vedesi in questa impresa uno specchio. Alcuni dotti scrittori, che sopra l’Imprese anno parlato, sono stati di sentimento, che le medesime esser debbono non troppo chiare, ne troppo oscure, essendo stato il fine, per cui introdotte furono, di significare con diletto, e vivamente di una cosa: onde l’oscurità  quando è poco, può con faciltà aiutare l’intelletto; così all’incontro quando è molta, lo stanca, e caggiona più tosto noia, ed essendo così dovrebbe dirsi più tosto Enimma, che altro non significa,che parlar oscuro, come dottamente ne scrisse Monsignor Paolo Aresi vescovo di Tortona, nella sua Opera dell’Imprese sacre l. 121, e rapportando quanto fù scritto dal Bargagli, sopra l’Impresa continente certi mazzi di carte, poste nelle fiamme, attorno alle quali leggevasi il motto ARDORIS ROGUS22, e che per potersene esprimere il proprio significato disse il citato Bargagli, che bisognava di scrivere sopra quelle

(A) il Ch. And[rea] Alciati nell’Emblema V[III]23 volendo additarsi la natur[a] di coloro che, irresoluti eD indeterminati quasi sempre sono a qual partito appigliarsi, quell’Emblema egli l’esprimè alla figura del trivio di mercurio sopra di cui il dotto Claudio Averroe spiegando e dilucidando la parola “In trivio” dice: Ii dicuntur versati in trivio, qui in deliberando de re aliqua, sunt suspensi et anxii.24 Onde più uniforme sarebbesi da quell’Accademico il divisato Emblema, sempre che con quell’espresso altro non s’avesse voluto indicare.      

 

carta 339v

carte gettate al fuoco la nota, cioé Lettere di Amore, per poterle distinguere da altre carte, e scritture, che altre cose contener poteano. Quanto di sopra hò notato, potrebbe adattarsi all’impresa, poco prima addotta, dello specchio, col motto alieno vultu, che l’Accademico volle nominarsi il Variabile; si capisce benissimo che abbia voluto addattarsi allo specchio, il quale se bene on se stesso non sia egli variabile, varia però à noi trasmette l’imagine dgli oggetti che se li presentano successivamente, avendone voluto dedurre la sua incostanza, e varietà nella scelta delle raggioni, che in quell’Accademia venivano proposte sopra dei problemi. Ma per le parole Alieno vultu? Potrebbe più giustamente quel motto riferirsi ad una maschera, che al divisato specchio.

IX L’immaturo col motto Omnia cum tempore.25 Vien’in quella impronta simbolizzato un pomo acerbo. Si sà che ohni frutto immaturo, rendesi col tempo maturo. Si volle collo stesso alludere à alcuni Neofiti, li quali ammessi in quell’Accademia, aveano l’audacia di entrare nelle discussioni, ed arringhi, che nella medesima teneansi.  Si potrebbe parimenti quel motto riferire à quelle questioni problematiche, le quali non ben digerite, ed immature, indi col tempo dilucidate venivano. 

X L’inaridito col motto Combusta reviviscunt.26 Vedesi l’albero della Palma, in parte abbrugiato, ed in parte verdeggiante. Si vollero simbolizzare con l’esposto motto, e colla Impresa della Palma le scienze, che un tempo in Mesagne fiorirono, le quali bene indi poste nell’oblio, e quasi seppellite, pure ritornate alla luce, ed ad una nuova vita, mercè dell’Accademia introdotta, essendo l’albero della Palma caratteristico di Mesagne, facendone la propria Impresa, come nell’esposta MESSAPOGRAPHIA è stato dimostrato; potrebbesi per ciò anche quel simbolo riferire alle di lei vicende passate, cioè alle sofferte destruzioni, ed al risorgimento indi avutone. 

XI Il ventoso col motto Repercussus extollor.27 Un pallone

 

carta 340r

mandato in alto. Il citato Monsignor Aresi nel lib. 2 nelli capitoli X e XIII fece parola del pallone mandato in alto colli rispettivi motti: Per te surgo Concussus surg, che equivagliono à quello di sopra esposto, soggiunguendo il citato scrittore à questo, che fosse stata l’impresa dell’Almirante di Chabod significante Per lo ridire delle azzioni, che si veggono fare alle loro figure, come relevasi dalla pag. 52 loc. cit. 

XII L’inabile col motto Ad fabrilia ineptus.28 Viene nell’emblema espressato un pezzo di legno, posto ak fuoco, volendosi collo stesso significare essere quello inservibile all’Artefice. L’Accademico, che volle dirsi L’inabile, volle per effetto di sua umilt far presente all’assemblea,ed à quei dotti Accademici che la componeano, che sebbene in quella fosse stato annoverato, pure inabile egli riputavasi à poter produrre colle sue forze cosa di buono.

XIII Il simulato col motto Non fidas.29 Espressata vedesi in quella impresa una nave immezzo al mare, che stà in calma. Il di sopra citato Monsignor Aresi nella divisata sua opera, appoggiato sull’autorità del Bargagli, di Giovio, del Ruscelli, e di altri scrittori dice, che due sensi devonsi ritrovare nella dilucidazione delle Imprese, uno letterale, lìaltro metaforico ò allegorico, adducendo l’esempio dell’Impresa del Sole, col motto Non mutuata luce, di cui portandone la dilucidazione dice che il senso letterale sia, che il Sole hà luce da se, e che non la prenda da altri, come la Luna e le Stelle; il metaforico sia, che quel Principe, oer cui quell’Impresa fù fatta, hà la sapienza, e ricchezze da se, e non da altri. Ciò premesso, per lo spiegamento dell’esposto motto, Non fidas, facile rendesi lo scioglimento del senso letterale, giacché ugn’uno sà, non devesi all’incostante mare fidare, non ostante che in una perfettissima forma; mà il senso metaforico ove mai s’asconde? Il nome di quell’Accademico assunto di Simulato, se bene nel senso letterales si riferisca al

 

carta 341v

mare, quando dimostra essere in calma, pure nel senso metaforico, mal si adatta allo stesso Accademico, non dovendosi presumere, che abbia voluto manifestare col medesimo l’interno suo carattere, di essere nell’apparenza quieto, e pacifico, e nel di dentro maligno, onde giustamente potrà dirsi un Enimma.

XIV Segue Il tormentato, col motto Purgatur, non comburitur.30 Ciocchè nel di lui Emblema si vede, abbenché non sia con chiarezza espressato, potrebbe riferirsi all’oro, ò qualche altro metallo simile, che nel crogiuolo, si purifica, ma non s’abbrugia  

XV Il cadente, col motto Lucet et luget.31 Ci rappresenta l’impresa un candeliere colla candela acces. Una simile ne viene rapportata dal Capaccio ne’ suoi Apologi, che viene ad essere la sessanta [segue parola cancellata], volendo con la stessa alludere che Non il morire, il morir male è vergogna, facendovi li seguenti versi:

 

Era già per morir al verde giunta

la candela e morendo

raddoppiava la luce à maggior possa

e fugli detto perché ciò facesse?

Perché (diss’ella) l’onorata morte

ai celesti splendor fà più spedita

e onora al doppio la passata vita.

 

L’immortal Metastasio nella sua drammatica opera del Temistocle, seguendo quanto dal di sopra citato Autore fù scritto, anch’egli fà dire allo stesso Sia luminoso il fine del viver mio,qual moribonda face scintillando s’estingua, cet. Per la dilucidezza intanto del motto Lucet, et luget, credo che possa adattarsi quanto dal sudetto Capaccio fù scritto riguardo all’emblema della candela accesa, che dà luce maggiore [sovrascritto nell’interrigo in sostituzione di parola cancellata] nell’atto di spegnersi [seguono alcune parole cancellate]. Il senso letterale non hà bisogno di altra maggior chiarezza; non così però il metaforico, mentre volendosi questo riferire al medesimo Accademico, che si denominò Il cadente, sembra inverisimile, ch’egli stando già per finir li suoi giorni, avesse voluto far intendere, che più luminoso sarebbe il suo fine. Mà qualunque stata mai fosse la di lui mira, io dico, che se il lodato Metastasio 

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/

Per la terza a parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/           

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/13/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-55/  

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11 Dopo le nubi il sole.

12  la aggiunto nell’interrigo.

13 Brillerà vicino.

14 A differenza di (A) non è una nota ma corrisponde al n. III che è stato collocato, dopo che chi copiava si è accorti di averlo saltato, nel margine sinistro del foglio.

15 Più ampio mentre sono premuto.

16 Con la fatica la perfezione.

17 Il moto è vita per chi vive.

18 Non se non col fuoco.

19 Non so dove io mi diriga.

20 Con volto estraneo.

21 Opera (titolo Emblemata) uscita per i tipi dell’erede di Pacifico Pontio e Battista Viccaglia a Milano nel 1625.

22 Rogo dell’ardore.

23 Anfrea Alciati (1452-1550) fu uno dei maggiori eruditi del secolo XVI; oltre ad Emblemata pubblicò Digestorum libri XII (1527), De formula romani Imperii libri duo (1559) e De plautinorum carminum ratione libellus (1568).

24 Si dice che si trovano in un trivio coloro che nel dover prendere una decisione su qualche cosa sono indecisi e ansiosi.

25 Ogni cosa a suo tempo.

26 Le cose bruciate riverdeggiano.

27 Abbattuto mi risollevo.

28 Inadatto ai lavori manuali.

29 Non fidarti.

30 Si purifica, non si brucia.

31 Risplende e piange.

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (1/5)

di Armando Polito

C’è da meravigliarsi se la superficialità (indotta dalla velocità, non sempre giustificata, cui i tempi attuali quasi obbligano ognuno di noi) connessa con la scarsa considerazione in cui il passato è tenuto da una società totalmente immersa nel presente, indurrà qualcuno, neppure tanto giovane,  imbattutosi nelle indicazione viaria sottostante (immagine tratta ed adattata da GoogleMaps) a manifestare la sua meraviglia esclamando, magari in versi: – Strano, ho percorso tutta questa via, ma non c’è ombra di salumeria! -.

Non m’illudo certo che queste note elimineranno per sempre il rischio e sarebbe già tanto se, veicolate dalla rete, lo riducessero sensibilmente.

Preliminarmente giova ricordare che accademia è dal greco Ἀκαδήμεια  (leggi Acadèmeia), che, secondo Teognide1 e Plutarco2deriverebbe dal nome dell’eroe eponimo Ἀκάδημος (leggi Acàdemos). Originariamente era il nome proprio della scuola filosofica fondata da Platone, poi fu il nome comune indicante un’associazione di studiosi creata per promuovere le lettere, le arti o le scienze oppure una scuola superiore (di indirizzo artistico o militare). L’aggettivo derivato, accademico, indica genericamente un docente universitario ma anche, con accezione negativa, un’esibizione virtuosistica fine a se stessa,

Superfluo far notare il carattere elitario di tale istituzione nelle manifestazioni appena ricordate, per cui, soprattutto in passato, gli adepti erano persone di elevata cultura, provenienti di solito da famiglia di ceto altrettanto elevato, molto spesso nobiliare.

Tra le più famose accademie di cui il lettore conoscerà almeno il nome vanno citate la Crusca (sorta a Firenze nel secolo XVI) e l’Arcadia (sorta a Roma nel 1690). Quest’ultima in particolare ebbe numerosissime diramazioni locali, dette colonie. Quella chiamata Sebezia (dal fiume Sebeto) comprendeva i letterati meridionali, non pochi salentini, e tra questi il neretino Antonio Caraccio.3 Ogni pastore (così si chiamavano i membri dell’Arcadia) assumeva uno pseudonimo, di regola di origine greca; così quello del Caraccio era Lacone Cromizio. Tuttavia già nei secoli precedenti erano sorte accademie locali: per esempio, per Nardò il Tafuric’informa che il duca Belisario Acquaviva provvide a rinnovare l’estinta Accademia del Lauro e che dopo la morte del duca il vescovo Cesare Bovio dette nel 1571 l’incarico di rinnovarla a Scipione Puzzovivo, il quale mutò il nome Accademia del Lauro in Accademia degli Infimi. In questo dettaglio onomastico c’è già la tendenza a quella che potrebbe definirsi dichiarazione di umiltà attraverso l’ironia, quasi un omaggio al ben noto principio socratico. E così, per restare a Nardò,  dal Lauro agli Infimi e da questi, nel 1724, agli Infimi rinnovati. Così era stato per l’Accademia degli Intronati nata a Siena tra il 1525 e il 1527, per quella degli Insensati nata a Perugia nel 1561, per quella degli Oscuri nata a Lucca nel 1585, per quella dei Sepolti a Volterra nel 1597, per quella degli Erranti a Brescia nel 1619 e, ancora a Siena, per quella dei Rozzi nel 1665 (già Congrega dal 1531). Curiosamente …  contraddittoria sembra l’Accademia degli Infecondi, dal momento che fu il nome di due accademie distinte, una fondata a Roma nel 1613, l’altra a Prato nel 1715.

Sull’omonimia, poi, emblematico è il caso dei Trasformati, nome sotto il quale si registrano ben 5 accademie diverse: a Milano intorno al 1550, a Lecce intorno al 1558, a Firenze nel 1578, a Noto intorno al 1672, a Milano nel 1743, sulle fondamenta dell’omonima Accademia milanese del Cinquecento.

Non fa eccezione a Mesagne l’Accademia degli Affumicati riconosciuta ufficialmente nel 1671 ma nata prima di tale data.5 Non sempre delle accademie si hanno notizie dettagliate e la stessa produzione degli associati raramente è stata oggetto di pubblicazione e molto spesso qualche contributo di qualcuno di loro si trova inglobato in raccolte varie, il che non rende agevole, a parte la loro non facile reperibiltà, una ricerca mirata.

Tra l’altro, nonostante la fantasia mostrata dai fondatori nel dare il nome alla loro creatura, era tutt’altro che improbabile che il nome non fosse stato già usato da altri e non sempre, essendo incerta la data di nascita di certe accademie, è possibile stabilirne la priorità d’assunzione e d’uso.

Così è pure per l’Accademia degli Affumicati. Intanto va detto che, a quanto pare, non fu l’unica con quel nome, visto che in Rime degli Ereini di Palermo, Bernabò, Roma, 1734, tomo I, a p. X si legge: In Modica v’ha memoria, che vi fu l’Accademia degli Affumicati fondata intorno al 1673, ch’elesse per impresa un Sciame d’api affumicati presso l’Alveare. L’informazione è ribadita da Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna, Pisarri, 1739, p. 81, mentre a p. 93 dello stesso volume si legge: Fiorivano in questo luogo [Policastro] fin dal secolo scorso gli Affumicati; dell’accademia di Policastro, però aveva già dato notizia  Elia De Amato in Pantopologia calabra, Mosca Napoli, 1725, p. 319: Ex Urbis Accademia, degli Affumigati, vulgò dicta, multi exiere viri …6  Inoltre in Biblioteca Picena, tomo I, Quercetti, Osimo, 1790, a p. 17, a proposito di Francesco Abondanzieri (1708-1763) di Rocca Contrada7 si legge: Ritornato in Padria, promosse ivi gli studi ameni, riassumendo gli esercizi dell’Accademia degli Affumigati, già da molti anni intermessi; insomma, un’accademia marchigiana si aggiunge, con lo stesso nome, alla siciliana ed alla calabrese prima citate.

Degli Affumicati di Mesagne, poi, ben poco sapremmo senza le notizie lasciateci da Antonio Mavaro (1725-1812), giurista e storico locale mesagnese, in un manoscritto (ms. M/4) custodIto nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi8. Ho ritenuto opportuno, perciò, riprodurre e trascrivere le parti testuali riguardanti l’accademia, nonché i disegni,  e di commentare le une e gli altri con note in calce atte a far comprendere anche al lettore comune la vivacità culturale di quell’epoca.

carta 334r

Il motto (Explorat robora) è tratto del verso 175 delle Georgiche di Virgilio (Virg. Georg.), laddove si parla della costruzione dei pezzi dell’aratro. Riporto, per risparmiarmi la descrizione dell’immagine centrale,  i vv. 173-175: Caeditur et tilia ante iugo levis altaque fagus/stivaque, quae currus a tergo torqueat imos,/et suspensa focis explorat robora fumus (Prima vengono tagliati per il giogo il leggero tiglio e l’alto faggio e il manico che da dietro guidi i profondi solchi; e il fumo saggia la solidità dei pezzi sospesi sul focolare).

Per quanto riguarda et I.° Aeneid. (e [libro] I dell’Eneide)va detto intanto che la locuzione explorat robora non è presente nell’Eneide. Tuttavia il verbo explorare ricorre due volte nel libro I dell’Eneide, cioè al v. 779 e al v. 30710 e, dunque, il riferimento è, metaforicamente concettuale, ai due passi relativi.

 

carta 335v   

La tabella che segue sintetizza i dati presenti nella carta precedente. Il lettore troverà notizie sui personaggi di questa tabella e della successiva nell’Appendice che costituirà l’ultima parte di questo lavoro, dove il loro nome comparirà in ordine alfabetico. Sarò grato a chiunque fornirà, a pubblicazione integralmente avvenuta, integrazioni, precisazioni o correzioni.

carta 336r

Eccone la trascrizione in tabella.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/

Per la terzaa parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/       

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/13/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-55/     

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1 992.

2 Theseus, XXXXII, 5.

3 Armando Polito, Antonio Caraccio, l’Arcade di Nardò, in Nardò e i suoi.Studi in onore di Totò Bonuso, a cura di Francesco Gaballo, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2015, pp. 41-66.

4 Giovanni Bernardino Tafuri nel capitolo VIII del libro I della sua opera Dell’origine, sito, ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, e Giovanni Bernardino di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p.p. 468-469. I primi sei capitoli del libro I erano usciti in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, tomo XI, Zane,Venezia, 1735. Il curatore lì alla fine avverte che La continuazione di questo Primo Libro si darà nel Tomo seguente. Il che non avvenne.

5 In Pietro Marti, Movimento intellettuale nel Salento, nel secolo XVII, in Fede: rivista quindicinale d’Arte e di Cultura, anno III, n. 5 (15 marzo 1925) in nota a p. 69 si legge che sorse il 1638, per opera di Giovan Matteo Epifanio, che ne fu più volte Principe.

6 Dall’accademia della città [Policastro], detta volgarmente degli Affumicati, uscirono molti uomini …

7 Oggi Arcevia, in provincia di Ancona.

8 Integralmente leggibile all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209601

9  Vv. 77-78: Aeolus haec contra: – Tuus, o regina, quid optes/explorare labor; mihi iussa capessere fas est – (Eolo in risposta: – O regina, è tua fatica cercare di scoprire ciò che vuoi, mia adempiere gli ordini).

10  Vv. 305-309: At pius Aeneas per noctem plurima volvens,/ut primum lux alma data est, exire locosque/explorare novos, quas vento accesserit oras,/qui teneant (nam inculta videt), hominesne feraene,/quaerere constituit sociisque exacta referre (Ma il pio Enea rimuginando per tutta la notte molti pensieri, non appena fece alba decise di uscire, di esplorare quei luoghi sconosciuti, dove sia approdato spinto dal vento, chi abiti il luogo, infatti lo vede incolto, o uomini o bestie, e di riferire tutto ai compagni).

 

 

 

 

Vincenzo Corrado di Oria: chapeau allo chef!

di Armando Polito

Fosse vissuto oggi, avrebbe certamente monopolizzato l’attenzione dei mass-media ed in televisione vedremmo a tutte le ore lui e solo lui, e non solo in programmi di interesse culinario. Per l’occasione ci sorbiremmo certamente con maggiore piacere l’obbligata presentazione dell’immancabile libro appena uscito e, nonostante la serie imponente di titoli che ci ha lasciato, probabilmente ci annoieremmo di meno …

Invece Vincenzo Corrado nacque ad Oria nel 1736 e fu un uomo di grande cultura: anzitutto letterato e filosofo e poi (oggi sarebbe stato ricordato solo per questo …) gastronomo e tra i maggiori cuochi del suo tempo. Non sappiamo se aiutato dal patrimonio genetico o dalla sua stessa cucina salutare quanto geniale, mori centenario a Napoli nel 1836.1

Questo post ha un taglio esclusivamente bibliografico e per il resto si rinvia al saggio appena citato in nota 1. Si seguirà, come d’obbligo, l’ordine cronologico e non si perderà l’occasione di segnalare qualche dettaglio interessante rinvenuto in questa o quella pubblicazione, non esclusi i ritratti raggruppati all’inizio,  Nonostante l’elevatissima tiratura di ogni sua pubblicazione, molte sono di difficile reperibilità e nelle schede che seguono ho riportato solo quelle per le quali la rete ha consentito un contatto ravvicinato.2

1)

La prima risale al 1773. Ebbe un successo travolgente ed edizioni successive si ebbero nel 1778, nel 1786, nel 1794, nel 1806.

2)

A cinque anni di distanza (1778) uscì la seconda pubblicazione. Di seguito il frontespizio della seconda edizione uscita nel 1789.

Nell’antiporta il ritratto dell’autore.

Anche quest’opera ebbe grande successo, cui non fu estranea la pregevole composizione tipografica, in cui spicca la tavola finale con il disegno dell’autore, di seguito riprodotto.

Delle numerose edizioni successive va citata quella uscita per i tipi di Giordano a Napoli nel 1820, la cui antiporta reca anch’essa il ritratto del nostro.


Uria me genuit; Vincentius est mihi nomen/Corradus; qui sim sat mea scripta docent.

(Oria mi generò, il mio nome è Vincenzo Corrado; chi sia lo mostrano a sufficienza i miei scritti)

Modellato inequivocabilmente sul celebre epitaffio che Virgilio avrebbe dettato per sé in punto di morte (Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope. Cecini pascua, rura duces=Mantova mi generò, il Salento mi rapì, mi tiene ora Napoli. Cantai i pascoli, i campi, i condottieri) il distico elegiaco del Corrado non ha nulla di funebre, con la presenza dominante dei tre presenti (est, sim, docent), a differenza di quello virgiliano dove dominano i perfetti (genuit, rapuere, cecini).

3)

L’antiporta reca il ritratto dell’autore a quarant’anni.

Nel cartiglio si legge F(RA) VINCENZO CORRADO D’ETÀ SUA D’ANNI XL. La didascalia recita: IL CORRADO ORITAN VINCENZO È QUESTO./MECCANICO IMMORTAL, DI PREGI ONUSTO,/GALANTE IL CUOCO, E ‘L CREDENZIER DI GUSTO/OPRE SON SUE. TI BASTA. INTENDI IL RESTO.

A p. 10 un sonetto dedicatogli dal sacerdote Domenico Maria Pinto, canonico della Cattedrale di Oria, sotto lo pseudonimo si pastore d’Arcadia Frosinio Tueboate: Nato al Salento, sù gli ameni Lidi/del Sebeto, i pensieri, e ‘l piè fermai.3/Scorsi l’Italia4; e ovunque allor girai,/molto distinsi, molto intesi e vidi,/Volli dar gusto a’ Grandi; e tra’ fastidi,/la Scienza del mangiar, lor dimostrai./Pittagorico cibo indi additai,/ed or la cura d’Animai più fidi./Pe ‘l Meccanismo pur, spiccai un raggio/del mio Spirto, ed ardir; e scaltro, e destro/compor giocosi Versi, ebbi il Coraggio./Non sò, se ad altro far, spingermi l’Estro./Son vivo ancor. Per me basta un tal saggio./Che più si vuole alfin? Son io Maestro?

4)

5)

Le pp. 94-107 sono dedicate all’economia della Terra d’Otranto. Da p. 98 riporto la scheda relativa a Nardò: Nardò sta situata in deliziosa pianura, e cinta da fruttiferi giardini, d’annosi uliveti, e da odorosi aranceti, che sono le particolari produzioni dell’agricoltura, e della industria agraria, L’arte di tesser coltre da letto è quella che in Nardò porta più utile, giacché per la loro bellezza son ricercate dalla nazion propria, e dall’estere. Non lungi da Nardò trovasi il porto di Cesaria. Nel suo mare si fa pesca particolarissima di grosse carnute triglie, nelle quali v’è pure il sapore, e la solidità.

Lascio al lettore, non necessariamente residente locale ogni considerazione su quanto è cambiato in due secoli …

6)


Nell’antiporta ancora un ritratto.

7)

Il consueto ritratto dell’antiporta.

 

8)

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1 La parola definitiva sulle date di nascita (1736) e di morte (1836) è stata messa sulla base di inoppugnabili dati archivistici da Luigi Neglia, L’oritano fra Vincenzo Corrado ossia “La scienza del mangiare”, in Studia humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri a cura di Dino Levante, Barbieri Selvaggi Editori, Manduria, 2010, pp. 237-252.

2 Tale è il caso di Del cibo pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ nobili, e de’ letterati, Raimondi, Napoli, 1781; Norma di educazione e governo per bachi da seta, Migliaccio, Napoli, 1789; Poesie giocose per commensali, s. n., Napoli, 1790; Trattato delle patate per uso di cibo e lettera sul giulebbe d’uva, Orsino, Napoli, 1798; Scuola di generale agricoltura, e pastorizia adattata alle varie provincie del Regno di Napoli, Orsino, Napoli, 1804; Raccolta di poesie baccanali per commensali e le varie imbadigioni della mensa, secondo i mesi dell’anno, Stamperia del Corriere, Napoli, 1811; l complimento pel primo dì dell’anno, Stamperia del Giornale delle Due Sicilie, Napoli, 1817; La scienza del ben vivere pe’ figliuoli educandi, Balatresi, Firenze, 1824; I pranzi giornalieri variati, ed imbanditi in 672 vivande secondo i prodotti delle stagioni, Corrado, Napoli, 1832.

3 A Napoli, dove si era trasferito da giovane  e dove nel 1775 era diventato monaco della congregazione dei Celestini.

4 Allude al viaggio che compì in visita ai monasteri al seguito di D. Cherubino Brancone, padre generale dell’Ordine.

Copertino. Alcune vicende intorno alla colonna di S. Sebastiano

copertino

di Giovanni Greco

A distanza di trent’anni dall’abbattimento della porta del Malassiso, Giovanni Nicolaci (fratello uterino di Giuseppe Trono che insieme ad altri aveva acquistato e poi abbattuto il convento di San Francesco intra moenia), avanzò al Comune la richiesta di voler costruire a proprie spese una colonna per ricollocarvi la statua di San Sebastiano, attribuita allo scultore copertinese, Ambrogio Martinelli, originariamente situata sulla sommità della porta omonima e parcheggiata nel frattempo nella chiesa dei Domenicani. Accertato che la colonna, tre metri di base e dieci di altezza non avrebbe creato intralcio alla circolazione, sul finire del 1924 il Comune deliberò a favore della costruzione.

Ma l’iniziativa divenne subito oggetto di scontro fra la popolazione locale che si divise tra favorevoli e contrari.

Il 27 febbraio 1925, a lavori già iniziati, un gruppo di copertinesi inviò al prefetto di Lecce una vibrante protesta. Ne riportiamo uno stralcio. “Trent’anni e più or sono si sentì la necessità di abbattere la porta di S. Sebastiano (Malassiso). Fu un respiro per questa nostra cittadinanza che di giorno in giorno si estendeva specie al di là della porta suddetta […] Ad opera di un ricco ignorante si è voluto costruire una colonna in cemento armato per collocarvi la statua di S. Sebastiano […]. I lavori sono iniziati. V. S. Ill.ma non può immaginare lo sconcio che è per verificarsi […] volendo innalzare un mausoleo cosi ingombrante. Eppure vi è la piazza in uno dei lati della stessa non verrebbe nessun fastidio […]. Dove ora si cerca di piantarla non solo storpia e deturpa una via, ma è fonte di grave pericolo per i veicoli di qualsiasi genere”.

Quindi, invocano l’intervento delle autorità locali, della prefettura e del Genio civile. Dal canto loro i sostenitori dell’iniziativa, venuti a conoscenza della protesta passarono al contrattacco e in 219 sottoscrissero la loro accorata lettera al prefetto affermando che “non vi è altro posto più adatto del prescelto per speciale ubicazione del paese, storia, tradizioni, volontà e concorso di popolo. L’asserzione che possa nuocere al transito è ridicola perché la colonna avrà d’ambo i lati strade di metri 6.60 ciascuna”.

Il prefetto, dopo aver assunte informazioni dal sindaco, stabilì di inviare un ingegnere del Genio Civile il quale, al termine dell’apposita perizia affermò che la struttura era tecnicamente solida, che non vi sarebbe stato alcun pericolo per la incolumità pubblica e che il traffico non ne avrebbe sofferto. La querelle era chiusa. I lavori potevano completarsi.

Il mese di luglio del 1925 sulla colonna, ingabbiata da una fitta impalcatura di legno, con l’ausilio di funi e carrucole venne issata la statua di S. Sebastiano. Per ricordare ai posteri il suo gesto il filantropo Nicolaci fece incidere la seguente epigrafe:

A/San Sebastiano/Giovanni Nicolaci/esaudendo fervido voto di popolo/questo monumento/eresse/a.d. MCMXXV.

Wikipedia: quando, invece dei nostri, fa arrivare i Sallenzini ed i Maeci

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di Nazareno Valente

Le vicende storiche più sono lontane dal nostro tempo e più presentano vuoti che vanno colmati; la ricostruzione storica, laddove manchino prove dirette dei fatti, non può che essere di natura prevalentemente indiziaria ma ciò non toglie che essa debba essere coerente con i contesti trattati e mai arbitraria. La qual cosa, spiace dirlo, avviene sempre meno spesso da quando la cosiddetta rivoluzione digitale mette a supporto dei cronisti una massa d’informazioni in buona parte obsolete1 che, proprio per questo, andrebbero lette con spirito critico, piuttosto che essere assunte passivamente con banali operazioni di copia ed incolla. In questo contesto, Wikipedia, che sulle antichità rappresenta un perfetto collage di ciò che è presente in rete e che, in aggiunta, semplifica al massimo le situazioni di svolgimento dei fatti, finisce per costituire, oltre che un contenitore di stranezze2, anche un possibile volano per la creazione di ulteriori fake news dall’effetto a volte spassoso.

Si pensi, ad esempio, a quella frase fasulla attribuita all’incolpevole Strabone, tirato in campo per darle una patina di scientificità, che faceva risalire il toponimo Salento «dal nome dei coloni cretesi che qui si stabilirono, chiamati Salenti in quanto originari dalla città di Salenzia»3. Ripresa come fosse vera, e dopo vari passaggi di mano, ha generato un popolo almeno a prima vista sconosciuto: i Sallenzini, «stanziato sulla costa ionica»4 e identificato con «i greci di Taranto»5.

Pertanto, secondo questa ipotesi di Perri, i greci di Taranto, che la storiografia ufficiale ritiene concorde Lacedemoni, dovrebbero invece ritenersi originari della città cretese di Salenzia, e quindi Cretesi. Ora, anche dando per possibile l’esistenza di questa immaginaria Salenzia (o Sallenzia) cretese, appare ugualmente stravagante che dei Lacedemoni possano essersi scoperti d’incanto originari d’una città diversa da Sparta.

Se poi si considera che questa fantasiosa cittadina cretese era abitata, sempre a detta del suo sconosciuto inventore, dai Salenti, si deve desumere che essa sia la trascrizione del presunto toponimo Salentia e che, pertanto, sia stata riportata come Salenzia seguendo la pronuncia scolastica che trasforma in zi il suono ti seguito da vocale.

Ma, come noto, tale cambiamento di consonante (assibilazione) non avviene6 quando il nesso ti non è seguito da vocale, tanto è vero che lo stesso artefice della bufala, attenendosi a tale regola, parla di Salenti, e non di Salenzi.

Sicché l’unica conclusione possibile è che il termine Sallenzini, coniato sulla base d’una immaginaria Salenzia e d’un ancor più immaginoso popolo Cretese, i Salenti, appare improponibile anche da un punto di vista linguistico.

Pur tuttavia Perri riterrebbe che «in origine i Salentini fossero solo gli abitanti ionici di Taranto e dintorni (quei Sallenzini appunto)…»7, come dire in definitiva che i Lacedemoni sono diventati, grazie ad una panzana, Salenti i quali, a loro volta, per una inesistente regola della fonologia, si sono mutati in Sallenzini, termine divenuto infine etimo dell’attuale etnico Salentini. Tutto ciò malgrado le fonti storiche e letterarie8 diano per scontato che i greci di Taranto fossero d’origine Lacedemone e non avessero niente a che fare con i Salentini, e meno che mai, per una banale questione linguistica, con gli inesistenti Sallenzini.

Sperando che nel frattempo qualcuno non sia invogliato a coniare il termine Venezi, in luogo di Veneti, oppure Arezini, al posto di Aretini, vediamo come un contesto poco definito possa creare interpretazioni ancor più irreali.

L’argomento riguarda le tribù romane che Wikipedia9 tratta con dovizia di fonti, anche epigrafiche, e con l’apporto di un imponente apparato bibliografico di riferimento che resta però nella pratica solo citato e scarsamente utilizzato. Il quadro che ne emerge appare alquanto disorganico: in alcuni punti si entra nei minuti particolari per lo più di colore, cadendo a volte in contraddizione10; in altri si sorvola del tutto su episodi importanti, come sulle innovazioni intervenute durante le censure di Appio Claudio Cieco (312 a.C.) e Quinto Fabio Massimo Rulliano (304 a.C.); in altre si forniscono solo nozioni superficiali, senza neppure definire in maniera compiuta i concetti di base11. Quello che soprattutto manca è un esame approfondito delle funzioni e dei compiti che le tribù svolgevano nel mondo romano del tutto essenziale per la piena comprensione dell’argomento.

Il problema è che il termine tribù in senso moderno richiama alla mente quello di un gruppo etnico che costituisce un organismo sociale ben determinato mentre in senso storico, e soprattutto con riguardo alle antichità romane, fa riferimento a un concetto ben diverso, vale a dire ad una suddivisione amministrativa e territoriale dello stato. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa romana, le tribù rappresentavano infatti le circoscrizioni territoriali entro cui venivano ripartiti i cittadini romani e, già in epoca regia, esse rappresentavano la base su cui effettuare i censimenti, le leve militari e fissare il relativo tributo. Non a caso il termine tributum, che deriva appunto da tribus, indicava la tassazione cui erano soggetti i beni privati in circostanze eccezionali, in particolare per le spese da affrontarsi nel corso d’un conflitto12. In seguito, con la professionalizzazione dell’esercito, le tribù si identificarono sempre più con i distretti elettorali per l’esercizio dei diritti politici. Era questa l’accezione prevalente del termine quando, a seguito della lex Iulia, le comunità salentine acquisirono formalmente nel 90 a.C. la cittadinanza romana.

A quell’epoca le tribù erano 35 (31 rustiche e 4 urbane) ed avevano da tempo perso anche ogni contiguità regionale, sicché le assegnazioni obbedivano a criteri di opportunità politica o a fattori contingenti, e non più territoriali. Brundusium fu così iscritta nella tribù Maecia, che prendeva nome, a detta di Festo13, da Castrum Maecium, un accampamento dei Volsci non lontano da Lanuvio; Lupiae e (forse) Valesium furono assegnate alla Camilia, che traeva nome dal territorio in cui avevano prevalentemente i loro possedimenti in epoca arcaica la gens Camilia; Rudiae, patria di Ennio, Callipolis/Anxa e Veretum alla Fabia (dal territorio dei possedimenti della gens Fabia); Tarentum alla Claudia (dal territorio dei possedimenti della gens Claudia).

In definitiva, l’inserimento in una tribù non aveva implicazioni di carattere etnico ma indicava il distretto in cui, dapprima in base al domicilio e alle proprietà possedute e successivamente, proprio in applicazione della lex Iulia, in base alla comunità d’origine14, ciascun cittadino veniva iscritto per questioni amministrative, fiscali, militari e, soprattutto, per l’esercizio dei diritti politici.

A rigore appare pertanto impreciso l’uso fatto da Wikipedia di alcune espressioni, quali ad esempio: «organizzazione tribale»15, che, senza ulteriori precisazioni, rischiano di creare confusione in chi legge, in quanto richiamano alla mente il concetto attuale che si ha di tribù, e non quello che aveva nella realtà romana.

Malgrado tali manchevolezze, e di là delle effettive colpe dell’enciclopedia in linea, ci vuole un bel po’ di fantasia a ricavarne che le tribù romane fossero delle entità etniche, del tipo di quelle del Nord America legate alle nostre letture giovanili; pur tuttavia si è riusciti anche in questa non facile impresa. In un articolo apparso in rete si può infatti leggere che Roma aggregò la popolazione brindisina «alla “tribù dei Maeci”, nobile, valorosa, guerriera ed ardita»16. Che sarebbe come dire che il seggio elettorale cui siamo iscritti potrebbe diventare all’improvviso una forma associativa di carattere razziale con caratteristiche proprie ben definite.

Mai dire mai: magari, nel futuro, un’appropriata ricerca su Google renderà possibile anche questo miracolo. Alle bufale, come al peggio, sappiamo bene che è difficile porre un limite.

 

Note

1 Sul web trovano in gran parte spazio testi datati e, quindi, ormai superati da più recenti ricerche che, invece, risultano quasi del tutto assenti. Allo stesso modo, risultano del tutto assenti gli studi specialistici soprattutto sulle antichità romane e greche.

2 Link delle puntate precedenti: 1) Scripta volant, verba manent: Wikipedia, Valerio Levino e Brindisi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/15/94063/ 2) Wikipedia ed il toponimo Salento https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/21/94122/ 3) Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi (prima e seconda parte) https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/19/wikipedia-la-cittadinanza-romana-brindisi-ovvero-svilire-la-storia/ https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/29/wikipedia-la-cittadinanza-romana-brindisi-ovvero-svilire-la-storia-2/

3  Tratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Toponimo (14.1.2018).

4 G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, seconda edizione, p. 19.

5 G. Perri, Cit., p. 19.

6 Per non appesantire il testo, semplifico. Infatti ci sono casi in cui neppure ti seguito da vocale dà luogo ad assibilazione, vale a dire al mutamento di una consonante occlusiva in sibilante.

7 G. Perri, Ma noi di Brindisi da quand’è che siamo Salentini? http://www.senzacolonnenews.it/il-blog-di-gianfranco-perri/item/1345-ma-noi-di-brindisi-da-quand-e-che-siamo-salentini.html (14.1.2018).

8 Un ampio esame delle fonti si può trovare in N. Valente, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, n. 6-7, Nardò 2018, in corso di stampa.

9 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Trib%C3%B9_(storia_romana) (14.1.2018).

10 Ad esempio quando si elencano le tribù rurali e si specifica in maniera impropria che «non sopravvisse la corrispondente gens originaria».

11 La stessa definizione di tribù appare alquanto lacunosa.

12 Le entrate fiscali prevedevano il vectigal e il tributum. Nel periodo repubblicano solo i vectigalia, derivanti dai beni demaniali, erano una fonte ordinaria di tassazione, mentre il tributum, per altro non più imposto dal 167 a.C., costituiva una fonte straordinaria.

13 Festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. I, Londra 1826, pp. 368. «Maecia tribus a quodam castro sic appellatur» (Tribù Mecia da un accampamento così chiamato).

14 Vale a dire l’origo Il municipio (o colonia) a cui ciascun individuo apparteneva costituiva infatti la sua origo.

15 https://it.wikipedia.org/wiki/Trib%C3%B9_(storia_romana)#Et%C3%A0_repubblicana (14.1.2018).

16 http://www.brundisium.net/index.php/tap-magno-emiliano-neo-satrapo-per-brindisi/ (14.1.2018).

 

Il possibile ruolo della mandragora nella stregoneria salentina

di Gianfranco Mele

Avvertenza preliminare: la Mandragora autumnalis è una solanacea dagli effetti estremamente pericolosi (vari effetti neurotossici, fino all’arresto cardiaco: si rimanda per info dettagliate su queste caratteristiche alle varie trattazioni sia divulgative che scientifiche di farmacologia e tossicologia, molte delle quali presenti anche in rete). Si sconsiglia perciò vivamente qualsiasi forma di sperimentazione suscitata da curiosità.

Mandragora autumnalis in fiore
Mandragora autumnalis in fiore

 

Introduzione

In Puglia sono documentate e testimoniate presenze di Mandragora autumnalis nella flora spontanea a partire dalle ricerche di botanici e letterati cinquecenteschi. Da una serie di ricognizioni nonché dai testi di botanica locale risultano ancora discrete presenze di stazioni di questa pianta, nonostante una diminuzione rispetto ai secoli passati che è correlabile a diversi fattori ivi compresa la scriteriata abitudine dei diserbi chimici.

E’ ormai un dato accertato il fatto che le varie solanacee psicoattive (Dature, Giusquiamo e Mandragore) abbiano avuto un ruolo nella stregoneria medievale e post-medievale. Gli effetti di queste piante sono di tipo narcotico-allucinogeno o, che dir si voglia, delirogeno, con complicanze che possono portare all’arresto cardiaco, e dunque è sconsigliabile nel modo più assoluto ogni tipo di approccio dettato da curiosità o voglia di sperimentazione. Attraverso una serie di sperimentazioni che a volte costavano care, e quindi innumerevoli tentativi ed errori anche letali, a partire dall’antichità furono stabilite conoscenze approfondite (e poi, via via disperse) di questa tipologia di piante, impiegate sia in medicina (principalmente come anestetici, ma anche, a dosaggi inferiori, come broncodilatatori, antiinfiammatori, ecc.) che nell’ambito della stregoneria allo scopo di ottenere alterazioni degli stati ordinari di coscienza.

 

La Mandragora nella stregoneria salentina

In uno scritto di prossima pubblicazione parlo dettagliatamente della presenza delle varie Solanacee psicoattive nell’esperienza della stregoneria salentina; in questa sede riporterò alcuni passaggi significativi rapportabili al possibile utilizzo specifico della Mandragora.

Solanacee tropaniche di vario genere paiono inequivocabilmente presenti nella composizione di unguenti, polveri e bevande afrodisiache e affatturanti. In un testo del Chiaia si legge di una misteriosa “Erba del trasporto” utilizzata da un masciàro pugliese[1] che potrebbe essere la Mandragora stessa o altra solanacea dagli effetti analoghi, mentre nei resoconti forniti al tribunale del santo Officio della diocesi di Oria tra ‘600 e ‘700, si leggono esperienze significative, benchè, ovviamente, mediate dalla penna dell’ inquisitore. Non sappiamo quali Solanacee in particolare rientrassero nelle varie composizioni (probabilmente tutte quelle di tipo tropanico disponibili e reperibili, vista l’interscambiabilità a livello di proprietà), ma alcuni passi ci suggeriscono la possibile presenza della Mandragora. Li analizziamo a seguire.

Grazia Gallero viene iniziata come masciàra da Cinzia la Napoletana detta la Pignatara. Nella sua deposizione racconta i particolari della iniziazione, e degli incontri con le altre streghe (masciàre e masciàri). Dopo essersi unti con l’unguento, Grazia e compagni masciàri/e si recano al Ballo, avvolti da una suggestiva atmosfera evocata dagli effetti dell’unzione dell’unguento:

Et all’ hora cavalcò ciascheduna di noi, come ancora l’ huomini sopradetti asini negri, et ogn’uno sopra il suo, li quali animali ci portarono per aria, et in poco tempo conforme mi parse tutti arrivassimo in un luoco, che mi disse la napoletana chiamarsi la noce di Sobrino, dove ci era oscuro e doppo comparse una certa luce com’un fuoco, che non faceva luce chiara, ma era bastante a poter conoscere le persone, e vedere quanto si faceva in detto luoco, nel quale viddi una quantità di genere d’huomini, e donne tutti ignudi colli capelli sciolti le donne particolarmente, e viddi e conobbi di nuovo li soprannominati compagni, colli quali eramo partiti di questa terra di Francavilla à cavallo in detti asini negri, et in mezzo stava come in un tribunale seduta una brutta forma d’huomo, con diversi altri intorno in piedi, che mi parvero fatti come le figure delli demonij depinti nel quadro, e chiesa di Sant’Antonio Abbate di questa Terra, e la detta Cinzia mi disse, che quello che sedeva in mezzo era il più grande diavolo e che quell’altri brutti fatti erano tutti diavoli”. [2]

Più volte Grazia descrive il rituale dell’unzione a cui segue la partenza per il Ballo:

Et io mi ungeva col mio unguento et ignuda come di sopra usciva dalla casa dove abitava, e fuori dalla porta d’essa ritrovava il detto Martiniello, sempre in forma di asino negro, sopra del quale cavalcava e mi portava al sopradetto luoco e nell’istesso tempo ci univamo in qualche crocevia colli sopra nominati […] et andavamo al detto luoco di Sobrino, dove retrovavamo la stessa moltitudine di gente come di sopra […] et alle volte vedeva come si diceva la messa, e s’alzava in loco dell’ostia una cosa, che pareva negra, che non conosceva che fosse, e noi inginocchiati l’adoravamo, e viddi ancora alle volte incensare, come ho visto fare nella chiesa, però con una cosa fetente, e prima s’incontrava il più grande, e poi tutti l’altri diavoli, et in questa maniera continuai ad andare, e fare l’istesse cose[3]

Il particolare di questo misterioso oggetto innalzato e utilizzato come sacramento nel convegno, “una cosa che pareva negra, che non conosceva che fosse”, più avanti definita come “una cosa fetente” ci suggerisce l’ipotesi di un oggetto che, se non era un simbolo fallico (ipotesi da non scartare assolutamente)[4], non poteva essere altro che una radice scura, nella fattispecie, appunto, una grossa radice intera di Mandragora che proprio a causa del suo aspetto particolare, inusuale e inquietante aveva evocato in Grazia quelle definizioni.

mandragora6
“Mandragora maschio” e “Mandragora femmina” in una antica stampa

 

Composizione degli unguenti: il possibile ruolo della Mandragora

Nel corso della sua deposizione, a richiesta dell’ inquisitore, Grazia fornisce anche una descrizione della composizione dell’unguento:

Nel fare il detto unguento, conforme m’imparò la detta Cinzia, ci vogliono due cose, cioè oglio di Mastice, e succo di carne di creatura morta senza battesimo, et in mancanza di questo succo di carne d’homini uccisi, e si fa in questa maniera, primo compramo l’oglio di mastice dalla speziaria, e per la strada chiamiamo trè volte il Diavolo, dicendo della crocevia trè volte, Diavolo vieni, Diavolo vieni, Diavolo vieni, doppo c’informamo dove stanno seppelliti le creature senza battesimo e propriamente ce lo viene a dire l’istesso diavolo, e noi andammo al luoco, e per la strada in una crocevia, chiamiamo dell’istessa maniera trè volte il diavolo, il quale comparisce in forma humana, colli piedi di papara e ci accompagna al luoco dove sta seppellita la creatura, e ciò di notte tempo, e da là ci pigliamo quella creatura, la quale poi in una notte vigilia di festa solenne, come di Natale, Epifania, Pascha, Ascensione, et altre simili feste solenni dell’anno, pistamo al mortaro la detta creatura, e ne cavamo il succo, stringendolo dentro una pezza, e fra tanto pistamo, chiamamo trè volte il demonio, come di sopra, il quale viene nell’istessa forma et assiste quando mescolamo l’oglio suddetto col predetto succo, et il detto Demonio colli sue mani lo termina a finire e se ne parte”.[5]

Un passo singolarmente cruento, che tuttavia lascia perplessi e appare stridente per diverse questioni: farmacologicamente, una composizione simile giustifica l’esperienza allucinatoria del volo, delle visioni e quelle dello sdoppiamento descritte sempre in relazione all’unguento stesso? La “creatura morta” viene trattata poi, nella descrizione, si badi bene, esattamente al pari di una radice o un’erba, pestata nel mortaio.[6] Impensabile anche che la donna abbia potuto trattenere un cadavere per un periodo imprecisato sino al giungere del momento utile, la vigilia della festa solenne di cui si parla. Allora, siamo di fronte alla trascrizione letterale di una deposizione, o è possibile che vi sia una alterazione da parte dell’inquisitore o dello scrivano, causata dalla volontà di far apparire quanto più possibile efferati i comportamenti della donna, o anche, semplicemente, da una mal comprensione delle parole della donna stessa, o del senso che lei dava alla sua esposizione dei fatti? Il grasso o il sangue di bambini non battezzati ricorrono spesso, come ingredienti, nelle varie deposizioni fornite da streghe di diverse aree geografiche e a questo proposito il Pierini fa notare che deve trattarsi di forzature operate dagli inquisitori[7] mentre Gianluca Toro è del parere che possa trattarsi di giochi di parole o di elementi evocati in ogni caso a scopo di teatralità.[8]

Anche nella deposizione di Cinzia Maietta, sessantenne, nata a Napoli e sposata a Francavilla Fontana con Antonello Dell’Aglio, è descritta la composizione dell’ unguento facendo riferimento a un “figliolo morto senza battesimo” dissotterrato e pestato al mortaio:

per fare l’oglio andammo unitamente dietro la chiesa di sant’Antonio Abbate, e disseppellimmo uno figliolo morto senza battesimo, dove sapeva la detta Caterina essere sepolto, e per strada chiamammo cinque volte il diavolo, dicendovi, diavolo vieni, che mò è tempo che volemo fare l’oglio e portato in casa il figliolo, andammo insieme alla speziaria per comprare unguento d’armilio, e cinque altre volte si chiamò il demonio, e ritornate in casa con l’unguento, pistammo quel figliolo, e ne cavammo il succo e l’avanzo del corpo del figliolo lo buttammo al fuoco e mentre mescolavamo il succo coll’unguento suddetto si chiamava sempre il demonio, il quale comparve in forma humana, et assertì, e toccò colle mani il pignatino dove havevamo posto l’oglio trè volte girandolo, e dicendone, che ce lo dividessimo per servircene quando veniamo chiamati”. [9]

Il filosofo seicentesco Francis Bacon si sofferma anch’egli sulla questione dell’unguento delle streghe e sui suoi ingredienti, osservando che gli effetti di detto preparato non possono essere ottenuti da composti ottenuti con “grasso di bambini portati fuori dalle loro tombe”, ma che è più probabile che la composizione sia fatta da “medicine soporifere” come: “giusquiamo, cicuta, mandragora, datura, tabacco, oppio, zafferano e foglie di pioppo”.[10]

Occorre ribadire che la descrizione degli unguenti ottenuti dal “grasso dei bambini morti non battezzati” potrebbe anche essere una forzatura introdotta a mò di clichè dagli inquisitori dopo la lettura della varia documentazione a loro disposizione sulla stregoneria: nel caso delle testimonianze di sopra riportate, raccolte dal Santo Officio della Diocesi di Oria, siamo a cavallo tra ‘600 e ‘700 e gli inquisitori hanno a disposizione un’ampia letteratura tra cui il notissimo Malleus maleficarum che recita appunto:

“Le streghe, per istruzione del diavolo, fanno un unguento con le membra dei bambini, sopra tutto di quelli uccisi da loro prima del battesimo, spalmano di questo unguento una seggiola o un pezzo di legno e fatto questo si levano in aria sia di giorno che di notte, visibilmente o anche, se vogliono, invisibilmente…” [11]

Tuttavia, questo ricorrere diffuso, nei processi, di descrizioni di unguenti ottenuti con “grasso di bambini morti e non battezzati”, e “pestati al mortaio”, fa pensare ad una reinterpretazione fuorviante e strumentale, di ricette che impiegano radici notoriamente antropomorfe quali sono appunto le radici di Mandragora. La Mandragora è notoriamente associata ad esseri antropomorfi sotterranei, e anche, in vari casi, ai “bambini morti non battezzati”, e alle anime dannate in genere. La strumentalità può essere anche duplice: da parte degli inquisitori finalizzata a dimostrare le efferatezze delle streghe. Da parte esoterica, utilizzata per intimidire e scoraggiare i profani dagli utilizzi.

La “creatura morta pestata nel mortaio” (trattata effettivamente come un’erba o una radice) dalla quale viene ricavato un “succo”, è una immagine che rievoca suggestivamente la Mandragora, così come, le descrizioni degli effetti e del potenziale dell’unguento ricavatone, ricordano questa pianta o altre simili. Del resto l’identificazione delle Mandragore con i morti sotterrati sembra essere antichissima: Filone di Carpasia (IV secolo d.C.), commentando il Cantico dei cantici, aveva assimilato le Mandragore ai morti sepolti nell’ Ade che attendono la resurrezione. Ma anche Matteo Cantacuzeno (XIV sec.), sempre commentando il Cantico, dice che le Mandragore significano le anime del Limbo e del Purgatorio, perchè queste anime giacciono come le mandragore seppellite nelle viscere della terra.[12] Questo tema sarà ripreso poi anche da commentatori successivi.[13]

Si ritrovano questi paragoni del resto anche nelle credenze popolari: da una ricerca antropologica sulle tradizioni emerge che in alcune zone dell’ Appennino parmense i montanari dicono che la Mandragola “ha un’anima”, “ha le forme di un bambino in fasce, ed è prodotta da un infanticidio commesso sul luogo”.[14]

Per completezza informativa sulla questione unguenti, occorre comunque citare anche la tesi della Murray, la quale ritiene, curiosamente, rispondente a verità l’utilizzo del grasso dei bambini morti, dedicando a questo argomento più di due pagine del suo capitolo descrittivo dei sacrifici. Per la Murray si tratta di atti di magia simpatica e/o sacrificali: l’autrice non considera affatto la componente e la necessaria implicazione psicoattiva dell’unguento. [15]

 

il testo della Murray
il testo della Murray

Ma ritorniamo al Cantico dei Cantici: esso è composto da 8 capitoli contenenti poemi d’amore in forma dialogica tra un uomo (“Salomone”) e una donna (“Sulammita”). Così recita la traduzione di un suo passo:

 “Vieni o mio diletto, andiamo fuori nella campagna: facciamo nostra dimora per le ville. Al mattino alziamoci (per andare) alle vigne; vediamo se la vigna è fiorita; se i fiori van partorendo frutti; se i melagrani sono in fiore; ivi darò a te le mie mammelle. Le mandragore spirano odore: nelle nostre porte (son) tutti i pomi: e i nuovi, e i vecchi, a te, o mio diletto, li ho serbati”.

Matteo Cantacuzeno e altri commentatori, fra cui Girolamo Coppola, un chierico settecentesco, interpretano in chiave allegorica il Cantico, identificando la Sposa ora con la Chiesa, ora con Maria che partorirà il Cristo atteso dalla Chiesa. Questo il commento del Coppola, che a sua volta cita anche il commentario del Cantacuzeno stesso:

“Non fu segnalatissimo il favore di racconsolar l’anime imprigionate nel Limbo, o nel Purgatorio? E quello favore attribuir si deve al suo latte; Misterioso accoppiamento, che fa la Vergine sotto nome di Sposa nelle Sacre canzoni, di mammelle e di mandragore: Mane surgamus ad vineas, dabo tibi ubera mea, mandragora dederunt odorem suum. Figlio, mentre nell’alba della tua vita ti somministrerò le mie poppe, e ti pascerò col mio latte, come da celeste pioggia innaffiate germoglieranno le mandragore nelle nostre campagne, e spiegando i lor fiori, profumeranno con gli odori quell’aria. Ma perchè le mandragore solamente, e non altre piante Signori, il mistero è bellissimo; la Mandragora è una pianta, che nella sua radice seppellita in terra rappresenta (come osservano i semplicisti) la perfetta forma d’un corpo humano; discorre allegramente di queste piante su questo passo Matteo Cantaguzeno, e dice, che le mandragore significano le anime del Limbo, e del Purgatorio, perchè queste come le mandragore seppellite nelle viscere della terra si giacciono: illorum etiam, qui ad inferos descenderunt facit hic mentionem, per hanc herbam, quae in radice humanam refert formam, quaeve radices in terra defossas habet. Et eccovi dichiarato il mistero: le mandragore rinfrescate dal latte della sposa germogliano, e fiorite spargono soavissimi odori per l’aria, perchè il purissimo latte di Maria, somministrato a suo figlio, penetrando, e nel Limbo, e nel Purgatorio, pria rinfrescò con la viva speranza quell’anime, e poscia col sangue del redentore formato dal suo purissimo latte, fè che germogliassero, e fiorissero con fiori, e germogli di gloria: così conclude lo stesso Cantaguzeno: tempus adesse significat ad inferos defossos liberandi, Salvatore eo usque, etiam per mortem descendente[16]

il testo del Coppola
il testo del Coppola

 

Esiste dunque una lunga e antichissima tradizione, anche e specialmente nell’ambito dei commentatori biblici, che identifica le mandragore con i bambini morti e non battezzati (le anime del limbo), e più in generale con i morti seppelliti nella terra, o con le anime del purgatorio. Del resto, sin dall’antichità la Mandragora, pianta dei giardini di Ecate, è rappresentata come un essere sotterraneo antropomorfo, dotato di anima, capace di emettere suoni (il mitologico “urlo” della mandragora estirpata), e persino animabile, nella condizione di Homunculus, una volta dissotterrato tramite procedimenti magici. Da notare, che altre Solanacee tropaniche, in varie parti del globo e in diverse culture, sono relazionate ai morti e agli inferi: è nota la denominazione della Datura stramonium come “erba del diavolo”, la Brugmansia in Perù è chiamata “pianta delle tombe”,[17] gli indiani d’America di diverse tribù utilizzano a livello sciamanico la Datura inoxia per comunicare con i morti,[18] allo stesso modo, in Niger, in alcuni rituali basati sul culto degli spiriti locali, la Datura metel mette in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. [19]

 

 

[1]Luigi Chiaia, Pregiudizi Pugliesi, in: Rassegna pugliese di scienze, lettere, arti, Trani, 1887-88, Ried. a cura di Arnaldo Forni Editore, 1983, pp. 75-76

[2]Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie in Francavilla Fontana ai tempi di Monsignor C. Cozzolino, anno 1679, Denuncia contro Nicodemo Salinaro, f. 29

[3]Ibidem

[4]Nele falloforie, processioni solenni in onore di Dioniso e di Priapo, si portavano in processione giganteschi falli in legno. Secondo Karl Kereny, inoltre, il “cuore” che viene salvato e nascosto da Atena a seguito dello smembramento di Dioniso da parte dei Titani, è una metafora per indicare il pene del dio. Nei riti classici greco-romani si sacrificava un caprone e se ne occultava il fallo. Un simbolo o un oggetto fallico (o anche davvero il fallo asportato ad un caprone) può essere dunque quello sacralmente esibito durante la cerimonia descritta da Grazia Gallero.

[5]A.C.O., Denuncia contro Nicodemo Salinaro, cit., f.31

[6]La pratica della pestatura della radice di Mandragora con l’ottenimento del “succo” la si ritrova descritta anche nei Discorsi del Mattioli: “Il succo si cava dalla corteccia delle radici fresche, pestata prima, e poscia stretta per il torchio, il qual fatto condensare al sole,. Si ripone in vaso di terra” (Discorsi di M. Pietro Andrea Mattioli, cap. 78, pag. 604)

[7]Cfr. Pier Luca Pierini, op. cit., pag. 50: Il Pierini commenta che tali improbabili ingredienti “lascerebbero talvolta sconcertati se non si considerassero come frutto evidente di pura fantasia e, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, di forzature e “confessioni spontanee” strappate con le pinze di giudici troppo interessato a stabilirne la “indubbia matrice diabolica”. Non si capisce infatti perchè, come scrive il Wyer in epoca non sospetta (1577), le cosiddette streghe sarebbero dovute ricorrere a crimini inutili oltrechè orrendi, quando potevano utilizzare comunissimo olio quale emolliente”.

[8] Gianluca Toro, Sotto tutte le brume sopra tutti i rovi, cit., pag. 46: “Combinando realtà e fantasia, vi erano poi altri ingredienti anch’essi considerati privi di azione farmacologica. Sono a volte definiti mediante giochi di parole, spesso hanno caratteristiche bizzarre, sinistre e teatrali. Sono ingredienti fantastici, ad azione magica (per magia simpatica), che generano suggestione, senso di orrore, repulsione, sgradevolezza e anche sensazionalismo”. Sempre il Toro, (nelle pp. 79-80 della suddetta opera) riporta e commenta il caso di una strega processata a Todi nel ‘400: “Nel 1428 una certa Matteuccia fu processata a Todi e confessò che l’unguento utilizzato per il volo era composto da grasso di avvoltoio, sangue di nottola e di bambini. In questo modo evocava Lucifero che, sotto forma di capro o di mosca, la trasportava al noce di Benevento o in altri luoghi. Naturalmente, in questo come in altri casi, gli ingredienti efficaci erano altri, come filosofi naturalisti e inquisitori ben sapevano. Questi e simili costituenti riportati in altre ricette avevano probabilmente una funzione magico-simbolica o anche teatrale, richiamando alla mente il mondo cupo della strega, ed erano scelti più per suscitare ribrezzo, paura e senso del mistero che per una vera e propria azione farmacologica.”

[9]A.C.O., cit., Denuncia contro Nicodemo Salinaro, ff. 38-39

[10]F. Bacon, Sylvia Silvarum cit. da G. Toro in Sotto tutte le brume sopra tutti i rovi, Nautilus, 2005, pp. 113- 114

[11]Malleus maleficarum, pag. 196

[12] “Illorum etiam, qui ad inferos descenderant facit hic mentionem. Per hanc herbam, quae in radice humanam refert formam, quaeue radices in terra defossas habet, tempus adesse significat, in inferos defossos, liberandi, Salvatore eo usque, etiam per mortem descendente, et in portis nostris in omnia fructuu genera, prope videlicet, est tempus salutis, quemadmodum & ipse Salvator discipuli in lege, dixit.” (Commentario bizantino al Cantico dei cantici attribuito a Matteo Cantacuzeno, sec. XIV – In Canticum Canticorum Salomonis expositio Matthaei Cantacuzeni)

[13] Cfr. Girolamo Coppola Il Mariale ovvero Maria sempre Vergine Madre dell’ Incarnato verbo, et Signora dell’ Universo, Coronata di priovilegi. Discorsi predicabili di D. Girolamo Coppola, Chierico Regolare, Venezia, 1754, pp. 174-175; Marc’Antonio Sanseverino, Quaresimale del P.D. Marc’Antonio Sanseverino, Napoli, 1664, pag. 12

[14]Vittorio Rugarli, La “città d’ Umbria” e la Mandragola, in Rivista delle Tradizioni Popolari Italiane, I, aprile 1984, pag. 342

[15]Margaret A. Murray, The witch-cult in western Europe, Oxford University press, 1921; ed. italiana: Le Streghe nell’ Europa occidentale, Edizioni della Terra di mezzo, Milano, 2012, pp. 129-131

[16]Girolamo Coppola, op.cit., pp. 174-175

[17]Gilberto Camilla, Le piante sacre. Allucinogeni di origine vegetale, Nautilus, Torino, 2003, pag. 209

[18]Roberto Carcano (a cura di), L’alba delle droghe. Contesti, cultura, rituali, Castelvecchi Ed., Roma, 1997, pag. 64

[19]Vittorio Lanternari, Religione, magia e droga: studi antropologici, Manni Ed., S.Cesario di LE, 2006, pp. 171-172.

 

Sull’argomento cfr. anche:

La Mandragora in Puglia e in Terra d’Otranto

Brindisi: il Seminario* in un disegno di Desprez

di Armando Polito

* Su segnalazione del sig. Gianluca Saponaro, che qui ringrazio, fatta sul profilo  Facebook della fondazione (colgo l’occasione, ancora una volta, per pregare i lettori di postare i commenti anche sul blog della stessa per evitare la loro dispersione) rettifico precisando che la didascalia del Desprez è errata e che la fabbrica rappresentata non è il Seminario ma la corte  d’ingresso di palazzo Montenegro, come mostra eloquentemente, pur nella differenza di qualche dettaglio, la foto che si seguito allego tratta da http://www.brindisiweb.it/monumenti/palazzo_montenegro.asp

Dopo Lecce con piazza S. Oronzo1 tocca a Brindisi essere ricordata per un dettaglio del suo Seminario immortalato da Louis Jean Desprez (1743-1804) in un disegno a penna su carta custodito anch’esso nel Museo Nazionale svedese (numero di inventario: NMH 195/1980), dal cui indirizzo2 ho tratto l’immagine che segue.

Per quanto riguarda, sempre, la Terra d’Otranto, va ricordato che il Desprez dedicò ad essa quattro tavole e precisamente una ciascuna a Gallipoli, Soleto, Squinzano e Brindisi (di seguito nell’ordine) a corredo del terzo volume del Voyage pittoresque à Naples et en Sicile di Jean-Claude Richard de Saint-Non, opera uscita a Parigi dal 1781 al 1786.

Difficile collocare cronologicamente il nostro disegno, anche perché la scheda del museo si limita a riportare che esso fu acquisito nel 1980 da Inga-Britt Wollin di Goteborg. A lei, molto probabilmente, è dovuta l’attribuzione, non è dato sapere in base a quali criteri. Comunque, se essa corrisponde alla realtà,  è legittimo supporre che esso venne realizzato proprio durante il viaggio compiuto in Italia dal Saint-Non e che precedette, verosimilmente di qualche anno, la pubblicazione della sua opera.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/14/lecce-piazza-s-oronzo-un-disegno-della-fine-del-xviii-secolo/

2 http://emp-web-22.zetcom.ch/eMuseumPlus?service=direct/1/ResultLightboxView/result.t1.collection_lightbox.$TspTitleImageLink.link&sp=10&sp=Scollection&sp=SfieldValue&sp=0&sp=1&sp=3&sp=Slightbox_3x4&sp=0&sp=Sdetail&sp=5&sp=F&sp=T&sp=0

 

Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino

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di Giovanni Greco

Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino, a cui si attribuiscono i lavori di quelli di Mola e Barletta nonchè le fortificazioni di Malta, fu anche tra gli architetti che si alternarono nella fabbrica del Castel nuovo di Reggio Calabria.

La sensazionale rivelazione, a firma di Francesca Martorano, direttore del Dipartimento patrimonio, architettura, urbanistica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, consente di allargare ulteriormente gli orizzonti circa la conoscenza di questo architetto militare originario di Francavilla Fontana e naturalizzato copertinese, per anni al servizio di Carlo V.

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particolare dell’ingresso del castello di Copertino

 

Il nome di Evangelista Menga compare tra i progettisti che contribuirono alla ricostruzione del complesso quadro dell’architettura fortificata in Calabria, richiesta dalle grandi incursioni autorizzate dal sultano ottomano. Una rete difensiva che costò enormi sacrifici da parte della popolazione in termini di uomini, mezzi, denaro. Nel XVI secolo, quando anche in territorio calabrese l’attenzione del potere centrale si spostò dalla singola fortificazione al territorio nel suo insieme, diversi ingegneri e architetti inviati dalla Corona Spagnola, si avvicendarono nella rimodellazione di una serie di opere militari. Antonello da Trani, Giovanni Maria Buzziccarino, Gian Giacomo dell’Acaja, Evangelista Menga, Ambrogio Attendolo, Benvenuto Tortelli, Gabrio Cerbellon sono i nomi di coloro di cui esiste ampia documentazione.

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cortile interno del castello di Copertino (ph Khalil Forssane)

 

A Reggio Calabria i documenti ritrovati qualificano il Menga “capomastro”. Ma doveva trattarsi di un capomastro particolare se il 16 gennaio 1547 gli vennero anticipati dalla Regia Corte 600 ducati di salario. In altri documenti viene definito “architettor dela fabbrica”. La cifra che gli veniva corrisposta non era da poco, se la paga usuale per la qualifica di capomastro era di 8 ducati al mese. Altri pagamenti al Menga vengono registrati per tutto il 1547 e fino al maggio dell’anno successivo.

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Provincia di Lecce: l’oasi perduta della sanità

di Armando Polito

immagine tratta da https://www.salento.it/servizi/cartina-stradale-salento
immagine tratta da https://www.salento.it/servizi/cartina-stradale-salento

 

Non vorrei che qualche ricercatore di questa o quella università americana (in Italia, forse, qualcuno l’avrebbe già fatto, se non fosse finito il periodo delle vacche grasse …) si ispirasse a questo post e, affascinato dalle sue risultanze pseudoscientifiche, iniziasse qualche studio piegando ad arte i dati alla conferma di un’ipotesi dalla quale non sa o non gli conviene distaccarsi.

Se avesse un fondo di verità (magari, dico io!) il detto  latino nomina omina (i nomi sono presagi), potremmo dire che la provincia di Lecce è quella che gode di ottima salute con Alessano, Arnesano, Corsano, Montesano Salentino, Taurisano e, lo colloco alla fine per metterne in evidenza la straripante presunta condizione, Supersano.

Usando il metro calcistico e guardando al resto del Salento, dovremmo dire che la provincia di Lecce batte quelle di Taranto e di Brindisi con un tennistico (non si era parlato di metro calcistico?)  6-1 (1=Fasano per Brindisi e Pulsano per Taranto).

Possiamo, allora, noi della provincia di Lecce, dormire sonni tranquilli? Direi proprio di no. Se per un minimo di coerenza dovessimo credere al nomina omina, non dovremmo dimenticare che un numero impressionante di toponimi presenta una terminazione in -ano, in cui a risulta preceduta da vocale o da consonante diversa da s. Per la provincia di Lecce: Andrano, Carmiano, Carpignano Salentino, Casarano, Castrignano dei Greci, Castrignano del Capo, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Gagliano del Capo, Giurdignano, Guagnano, Leverano, Martano, Martignano, Melpignano, Miggiano, Morciano di Leuca, Neviano, Ruffano, Scorrano (con tutto il rispetto: qui si direbbe che si sia arrivati alla sintetica coerenza armonica tra le due componenti …), Sogliano Cavour, Spongano, Squinzano, Surano, Taviano, Tiggiano, Uggiano La Chiesa; per la provincia di Brindisi: Latiano; per la provincia di Taranto: Crispiano, Faggiano, Fragagnano, Leporano, Lizzano, Monteparano e Palagiano. Il fenomeno, con tutta la sua valenza inquietantemente premonitrice, investe, come si vede, soprattutto il territorio di Lecce. Fino ad ora ci si consolava con la filologia, che considerava quasi tutti questi toponimi terminanti in -ano come forme aggettivali da un nome proprio di persona, cioè quello del proprietario di quel territorio, originariamente assegnato con la centuriazione a qualche legionario romano. I filologi chiamano questi toponimi prediali (dal latino praedium=podere, fondo rustico).

Alla luce degli ultimi sviluppi di sfruttamento del territorio  con bieca, cieca e criminale sua svendita e le drammatiche statistiche epidemiologiche relative a certe malattie che solo un imbecille non porrebbe come effetto dell’inquinamento ambientale, penso che siamo già in una fase molto avanzata del passaggio dal prediale al prendiale … e il guaio è che il dettaglio anatomico per il quale quotidianamente i detentori del potere, a tutti i livelli, metaforicamente ci prendono non è più sinonimo di fortuna ma di disgrazia per noi e per coloro che verranno, ammesso che ce la facciano …

E allora, a chi ci crede, non rimane, per consolarsi, che la messe di toponimi che scomodano i santi: per la provincia di Lecce: S. Cesario di Lecce, S. Donato di Lecce, S. Pietro in Lama, S. Cesarea Terme, S. Cassiano; per quella di Brindisi: S. Vito dei Normanni, San Pietro Vernotico, Torre Santa Susanna, San Pancrazio Salentino, San Donaci, Cellino San Marco, San Michele Salentino; per quella di Taranto: San Giorgio Ionico, San Marzano di San Giuseppe (meglio abbondare che essere in difetto …).

Basterà, oppure tra poco saremo soffocati da nuovi insediamenti con toponimi tipo S. Euro, S. Profitto, S. Interesse o, per essere più concreti, San Twinga, Santa Tap o Santa Sarparea?

La Mandragora in Puglia e in Terra d’Otranto

di Gianfranco Mele

 

Avvertenza preliminare: la Mandragora autumnalis è una solanacea dagli effetti estremamente pericolosi (vari effetti neurotossici, fino all’arresto cardiaco: si rimanda per info dettagliate su queste caratteristiche alle varie trattazioni sia divulgative che scientifiche di farmacologia e tossicologia,molte delle quali presenti anche in rete). Si sconsiglia perciò vivamente qualsiasi forma di sperimentazione suscitata da curiosità.

 

Intorno alla fine degli anni ’80, e successivamente nei primi anni del nuovo millennio, mi imbatto casualmente in due imponenti stazioni di Mandragora autumnalis nel territorio tarantino: da qui, e dalla vista dello spettacolo suggestivo che offrono queste piante, inizio ad interessarmi sia della loro presenza e diffusione in area salentina e tarantina, che delle caratteristiche, leggende, aneddoti e miti legati ad esse.

Questo scritto origina da tali motivazioni e perciò comprende 3 diverse questioni: 1) la diffusione della pianta (e una mappatura in itinere) in Terra d’Otranto e più generalmente in Puglia; 2) una serie di osservazioni su alcune caratteristiche attribuite nella mitologia alla pianta; 3) l’eventuale presenza della mandragora nelle leggende locali e nella tradizione “masciàra” della Puglia.

 

Mandragora autumnalis in fiore
Mandragora autumnalis in fiore

 

Diffusione in Puglia dall’antichità ai giorni nostri

Conosciuta sin dall’antichità, sia come veicolo di ebrezza che come medicinale, è utilizzata anche nella medicina di Ippocrate. In quanto pianta endemica della Puglia sicuramente era conosciuta e utilizzata anche nella antichità magno-greca.

Ci son pervenuti frammenti di un’opera di un commediografo magno-greco, Alexis di Thurii, intitolata Mandragorizomene (la donna che fa uso della mandragora): i 5 frammenti che ci restano non darebbero modo di conoscerne il soggetto e l’intreccio, e le opinioni degli studiosi appaiono discordanti: si tratterebbe secondo alcuni di fatti amorosi e pertanto la Mandragora sarebbe usata dalla protagonista come afrodisiaco, secondo altri ci sarebbero riferimenti alla magia, per altri la protagonista si serve della Mandragora per simulare la morte, ad accertare la quale viene cercato un medico che parlasse dorico.

E’ nota la presenza e l’influenza del Pitagorismo in Magna Grecia e in Taranto: è proprio Pitagora, fondatore della omonima scuola nella Crotone magno-greca, a definire la mandragora “Antropomorphon”. Pierio Valeriano, pur ritenendo che il suddetto termine fu utilizzato da Pitagora per definire la forma della radice, riporta alcune interpretazioni di non specificati altri autori, secondo i quali “Antropomorphon” implica una attribuzione mistica da parte dei pitagorici alla pianta e in special modo ai suoi pomi somiglianti a testicoli.[1]

Si può supporre che la mandragora abbia avuto un ruolo nell’orfismo e nel pitagorismo, e difatti nelle Argonautiche Orfiche dell’anonimo autore del V secolo d.C., è descritta come una delle piante del giardino di Ecate, signora delle erbe officinali e magiche. Più in generale, le varie esperienze descrittive di vari riti misterici, compresi i misteri Eleusini (le visioni terrifiche e quelle celestiali, esperienze di sdoppiamento corporeo, ecc.),[2] danno da pensare che ciò che suggerisce Pier Luca Pierini a proposito proprio dei misteri di Eleusi non sia da scartare, ovvero la presenza della Mandragora come principale agente delle alterazioni dello stato ordinario di coscienza.[3]

In questa prospettiva, diversi elementi collimerebbero tra loro, come ad esempio la coincidenza del periodo della comparsa della Mandragora autumnalis con le celebrazioni dei Misteri, l’accoppiata vite/vino-mandragora conosciuta fin dall’antichità, e infine la probabilissima veridicità dell’ipotesi che la stregoneria medievale, caratterizzata da unguenti e preparati allucinogeni a base di solanacee, costituisca la diretta filiazione di una antica tradizione magico-religiosa (rituali e saperi compresi).

Ma veniamo ora alla presenza e diffusione della pianta nella flora spontanea pugliese.

Miniatura dal Dioscoride viennese, codice greco prodotto a Costantinopoli attorno al 512. Vi è raffigurato Dioscoride seduto che allunga la mano per afferrare la mandragora antropomorfa che Euresis gli offre. Un cane morto è legato con una corda al piede destro della pianta
Miniatura dal Dioscoride viennese, codice greco prodotto a Costantinopoli attorno al 512. Vi è raffigurato Dioscoride seduto che allunga la mano per afferrare la mandragora antropomorfa che Euresis gli offre. Un cane morto è legato con una corda al piede destro della pianta

 

In Puglia sono documentate o testimoniate presenze di Mandragora nella flora spontanea, a partire dalle ricerche degli autori cinquecenteschi.

Scrive Andrea Mattioli:

“Nascono le Mandragole per sé stesse in più luoghi per li monti in Italia, e massime in Puglia e nel monte Gargano, il quale chiamano di Sant’ Angelo, onde ci recano le corteccie delle radici, e i Pomi alcuni Erbolaj, che ogni anno vengono a noi…” [4]

Il Medico e letterato Girolamo Marciano (1571-1628) a sua volta documenta la presenza di Mandragore in Terra d’ Otranto, elencando la “Mandragora maschio” e la “Mandragora femmina” tra le piante spontanee che crescono nella “Provincia”. [5]

L’ umanista settecentesco Cataldantonio Carducci, nella sua traduzione e commentario delle Delizie Tarantine del D’Aquino, riferisce della presenza della Mandragora presso i vigneti del monte tarantino Aulone, e di una contaminazione dei vini:

“…. lmperciocchè attenta la grassezza de’ pascoli di Saturo, di cui era parte Aulone, le pecore vi s’ impinguavano, onde provveniva l’ ottima qualità delle lane: ed attento il buon terreno di Aulone, molto confacente a viti, il vin che producea, era rinomatissimo. Ed in quel tenimento v’ è tuttavia il corrotto vocabolo monte Melone, e la pezza di MeIone, per dove forse si estendevano le viti d’Aulone. E v’è pure una ragion naturale circa la bontà de’ suoi vini: mentra questa nasceva, dacchè ritenea la qualità della mandragora, erba ipnotica, o sia soporifera, di che eran pieni que’ suoi vigneti, e che tuttavia alligna in quel terreno; onde nacque quel greco adagio mandragoram bibisse (Erasm. in adag.) che si appropriava a quegli infingardi o neghittosi, cui piace una vita molle e lascìva. Quindi Orazio non per altro riguardo lo disse amicus, mentre il suo vino gustato ch’cra, spirava della languidezza, e conciliava il sonno. Plutarco nel libro de audiendis Poetis ci attesta, che la mandragora nascendo presso alle viti, infonde la sua Virtù nel Vino, e fa più soavemente dormir coloro, che ‘l bevono. E Vaglia I’ esempio di Annibale, al ‘dir di Giulio Frontino Strateg. 2, il quale spedito da’ Cartaginesi a domar lo spirito ribelle degli Afri, sapendo ch’ essi erano troppo dediti al vino, procurò di mischiarvi in quello quantità di mandragora, la quale operando con la sua virtù, gli rese deboli e sonnacchiosi , di modo ch’ egli ne trionfò. Anzi tanto è più bello quell’epiteto amicus, che Orazio attribuisce ad Aulone, quanto ch’ essendo questo luogo, come si è detto, ferace di mandragore, il nome di questa pianta presso gli orientali serba la nozion di amore, ch’ è Dod [6] […]” [7]

Sempre a proposito della mandragora in Taranto, scrive il Giustiniani, riprendendo in parte le tesi del Carducci:

“In tutta quella regione, e in esso colle ancora, vi si vede finanche inoggi nascere abbondantemente la Mandragora, erba ipnotica e soporifora, di cui Plinio molto parla; e se mai sia vero quel che dice Plutarco che una tal’erba nascendo presso le viti infonde la sua virtù nel Vino, e fa che dormono soavemente tutti coloro, che il bevono: mandragora (mi valgo del Xilandro) iuxta vites nascens , suamque in vinum virn diffundens, efficit ut suavius dormiant, qui id biberurnt, ebbero perciò a farvi una ricca piantagione di viti, dalle quali ne raccoglievano poi vino assai in pregio.” [8]

Nella sua opera La flora salentina, il botanico ottocentesco Martino Marinosci, di Martina Franca, riferisce, a proposito di quella che egli identifica come

“Mandragora officinalis, o officinarum Atropa L.”: “ Vi è una varietà a foglie larghe con fiori, e radice bianca, ed un’ altra presso Lecce con radice fosca, foglie strette ondate, fiori porporini” [9]

Ancora, il botanico inglese Henry Groves nella sua opera “Flora della costa meridionale della Terra d’ Otranto” riporta nel 1887 la presenza di Mandragora autumnalis a Leucaspide (Statte, TA) e Gallipoli.[10]

La Mandragora autumnalis è presente nelle attuali checklist della flora salentina.[11] Benchè sia inserita nelle specie di lista rossa, cioè a rischio di estinzione, sono state individuate, anche molto recentemente, diverse stazioni sia dai botanici che da ricercatori indipendenti e appassionati.[12]

Presenze certe sono state rilevate nei pressi di: Tuturano (BR), Porto Cesareo, Otranto e Porto Badisco (LE), Taranto, S. Marzano di S. Giuseppe (TA)[13].

La Mandragora si comporta da pianta “infestante” e dunque laddove è insediata allo stato spontaneo non si trovano mai individui isolati o numericamente esigui, ma stazioni di numerosi esemplari che occupano fette consistenti di suolo in ciascun sito che le ospita. Da verificare, segnalazioni sulla costa tarantina, nei pressi delle gravine massafresi, di Martina Franca, San Giorgio Jonico, e in altre zone della provincia di Taranto e di Lecce.

 

Osservazioni e comparazioni con il mito: odore, luminosità e altro

Osservazioni dirette, ripetute, ci hanno consentito di far caso all’odore dei frutti e ad altri aspetti della pianta come la cosiddetta luminescenza. In una fase intermedia tra quella del frutto verde, acerbo, e la maturazione vera e propria, i frutti emanano un odore particolare, quasi di tipo spermatico. Più il frutto è maturo, più l’odore perde quella caratteristica e si avvicina a quello del marcio. Probabilmente l’associazione della Mandragora con lo sperma, ripetuta in più e diverse leggende, ha a che vedere anche con questa caratteristica del frutto nella sua fase di pre-maturazione: “nasce dallo sperma degli impiccati”, forse perchè ha effettivamente un odore che ricorda e rievoca quello dello sperma. Più in generale la Mandragora è collegata allo sperma anche al di là del tema dell’impiccagione: un nome arabo dei suoi frutti è anche “testicoli del diavolo”, e un appellativo turco, sempre dei frutti, “testicoli di cane”.

Nel mondo arabo è diffuso anche il nome “uova del genio” laddove il termine “uova” deve essere inteso come eufemismo di “testicoli”.

Vedremo in seguito, invece, perchè probabilmente è stabilita una relazione anche con i morti e con le loro anime dannate.[14]

A proposito del mito della luminosità della Mandragora, non abbiamo notato luminescenze o fosforescenze di sorta nei frutti, in nessuna fase della fruttificazione, nonostante osservazioni ripetute. Bouquet nota, a suo dire, una sorta di luminescenza, ma la attribuisce al fenomeno della fosforescenza, tipico di diversi organismi, e tuttavia percepibile, secondo il ricercatore, a occhio nudo anche a distanza di 2 mt. dalla pianta[15]: non abbiamo notato nulla di ciò. Occorre aggiungere che la cosiddetta luminescenza non è univocamente attribuita ai frutti: Le Quellec riporta, a proposito del nome arabo “Lampada del demone” :

“Ibn el Baitar riporta che secondo el-Edrisi “la parte interna della corteccia dello stelo brilla nella notte […] al punto che si potrebbe pensare in fiamme.” [16]

La cosiddetta luminosità è attribuita in questo caso alla brillantezza della corteccia dello stelo e non del frutto: e difatti alla luce della luna piena o di una torcia questo “risalto” di quella parte della pianta, ci risulta.

Altre leggende e interpretazioni investono l’intera pianta di un potere “luminoso” o “ardente”: alcuni antichi erbari affermano che “la pianta brilla nella notte come una lampada”, secondo alcune leggende “la pianta irradia fuoco”, “assomiglia al fuoco”, “è calda”, ma “fuoco e “calore” sono riferiti anche alla potenza del veleno della pianta e ai suoi effetti. Il “calore” è collegato da altri alla canicola estiva (periodo di raccolta della varietà officinarum). [17]

In Garfagnana (prov. di Lucca) son state raccolte delle testimonianze da nativi che affermano che “dove c’è la mandragola c’è il fenomeno del gas, del lumicino[18] e anche qui il fenomeno pare attribuito alla pianta a prescindere dai frutti: “finchè la mandragola non è grande non fa il lumicino[19], e “se vive cento anni fa cento anni di lumicino[20].

Illustrazione dall'opera di Pierre Boaistuau, Histoires prodigieuses,1560: frontespizio del capitolo XXII. Vi è raffigurata la classica scena del cane legato alla mandragora, che è raffigurata però come una pianta fiammeggiante
Illustrazione dall’opera di Pierre Boaistuau, Histoires prodigieuses,1560: frontespizio del capitolo XXII. Vi è raffigurata la classica scena del cane legato alla mandragora, che è raffigurata però come una pianta fiammeggiante

 

Probabilmente nei vari miti sulla luminosità della pianta si intrecciano caratteristiche e percezioni differenti: una osservatrice che scrive per una rivista divulgativa sulle piante, riporta in un articolo la sua personale esperienza osservativa:  “in autunno, si forma un denso ciuffo di fiori imbutiformi a cinque lobi di un azzurro violetto intenso e luminoso”.[21] Questa percezione di una sorta di luminosità del fiore è comune a molti osservatori, e io stesso fui colpito, sin dalla prima volta che vidi un gruppo di piante, da una sorta di risalto vesperale del fiore, che ho ri-percepito a distanza di anni. D’altro canto, l’accostamento ad una lampada potrebbe provenire anche dalla forma suggestiva che assumono frutto e calice nell’insieme, come si può notare in una delle foto qui riportate.

Frutto di mandragora con il suo calice
Frutto di mandragora con il suo calice

 

La comparsa della Mandragora autumnalis in Salento avviene immancabilmente verso metà-fine di agosto, subito dopo le prime piogge, e spesso quasi in concomitanza appaiono i primi fiori. La fruttificazione inizia verso la metà di ottobre.

I miti della pioggia legati a questa pianta, detta in alcune regioni italiane “l’erba che chiama l’acqua” se sfalciata,[22] hanno una ovvia correlazione con il suo riaffacciarsi dopo i primi temporali estivi e con il loro irrobustirsi alle piogge successive[23] .

Un’altra cosa che abbiamo potuto osservare è la presenza di chiocciole sulla pianta: ne sono molto attirate e ne divorano le foglie. Questa osservazione coincide con quanto riportato da altri studi.[24]

Secondo alcuni studiosi “gli uccelli e gli animali dei campi trovano che la carne succosa della Mandragora è irresistibile[25]: questa appetibilità sarebbe, tra l’altro, tipica delle gazze, corvi e altri volatili che si ciberebbero dei frutti. In effetti, in una zona popolata da mandragore e da corvi non siamo riusciti a ritrovare presenza di frutti nelle piante dopo la fioritura, proprio perchè probabilmente i corvi li consumavano poco dopo la loro comparsa sulle piante.

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Cantareus apertus su foglie di Mandragora

 

La leggenda dell’ “urlo” della pianta potrebbe avere origine dal “rumore” che fanno le radici, specie in grossi esemplari, a contatto con la terra e a seguito di una brusca estrazione, laddove il terreno è soffice o è stato “preparato” a poter estrarre la radice intera.[26] abbiamo potuto notare l’identico fenomeno, casualmente, estraendo bruscamente, d’un colpo, un esemplare di Daucus carota (lo sfregamento della radice contro il terreno aveva provocato un rumore, per la verità appena percettibile, ma acutissimo): un informatore siciliano ci riporta, a proposito della Mandragora:

“ho sentito uno pseudo-urlo (del quale posso fornire anche la registrazione), che somiglia molto al rumore del cuoio se strofinato, e altro non è che lo stridere delle radici appena la pianta si tira fuori dal terreno.”

 

La Mandragora nella stregoneria salentina

In uno scritto di prossima pubblicazione parlo dettagliatamente della presenza di Solanacee psicoattive nell’esperienza della stregoneria salentina; in questa sede riporterò alcuni passaggi significativi rapportabili al possibile utilizzo specifico della Mandragora.

Solanacee tropaniche di vario genere paiono inequivocabilmente presenti nella composizione di unguenti, polveri e bevande afrodisiache e affatturanti. In un testo del Chiaia si legge di una misteriosa “Erba del trasporto” utilizzata da un masciàro pugliese[27] che potrebbe essere la Mandragora stessa o altra solanacea dagli effetti analoghi, mentre nei resoconti forniti al tribunale del santo Officio della diocesi di Oria tra ‘600 e ‘700, si leggono esperienze significative, benchè, ovviamente, mediate dalla penna dell’ inquisitore.

Non sappiamo quali Solanacee in particolare rientrassero nelle varie composizioni (probabilmente tutte quelle di tipo tropanico disponibili e reperibili, vista l’interscambiabilità a livello di proprietà), ma alcuni passi ci suggeriscono la possibile presenza della Mandragora. Li analizziamo nell’articolo al seguente link:

http://www.academia.edu/35567465/Il_possibile_ruolo_della_mandragora_nella_stregoneria_salentina

 

Laùri e Mandragore

Il Laùro salentino è un demone prettamente autunnale: le sue apparizioni sono frequenti nelle credenze popolari del Salento e della Puglia e il suo habitat sono le antiche case dei contadini, ma anche i frantoi oleari.[28] E’ spirito domestico, descritto come una sorta di omuncolo nero, o marrone, comunque scuro, con o senza cappello frigio (che a volte è rosso, a volte è nero) o a sonagli.[29] Può avere aspetto umano, aspetto di gatto, di bambino demoniaco, di giullare. Spirito benevolo, ma anche terrifico a seconda delle circostanze e delle simpatie/antipatie o dei meriti e demeriti dell’ospite.

E’ il Lare (spirito degli antenati), ma anche la Larva dei romani (spirito di morti che non hanno ricevuto sacramenti o di morti dannati), è Genius, Incubus, Pan, ha caratteristiche ed aspetto che possono farlo identificare con Ailuros (divinità-gatto) ma anche con Alraune (spirito della mandragora). In questa figura sincretica o forse archetipica del folletto salentino sono riassunti e si sovrappongono i connotati caratteriali e gli aspetti di tutti questi esseri mitologici. E’ il Lare domestico della commedia Aulularia (pentola d’oro) di Plauto, che custodisce il tesoro degli avi della casa.

Il Laùro custodisce tesori e pentole, protegge la casa, può regalare ricchezze (ma anche pentole rotte, per burla), può spaventare. Come l’ Incubus degli antichi romani si poggia sul ventre e toglie il respiro, terrorizza e insegue come Pan, Fauno (divinità della natura, della campagna, dei boschi).

Come gli Incubi romani, può trasmettere sogni cattivi e terrifici o anche cercare di imporre alle donne rapporti sessuali. Emissario degli inferi, può apparire in forma di gatto come alcune divinità egiziane note in mitologia greca con il nome di Ailuros (Ailouros in greco antico significa gatto). Nel nostro folklore è identificato anche come lo spirito di un morto di morte violenta o di un morto bambino non battezzato, come la Larva romana, e come le Larve può perseguitare e terrorizzare.

Nella tradizione germanica Alraune è lo spirito della Mandragora, che terrorizza, fa trovare tesori, ha forma antropomorfa. Ma nella mitologia germanica esiste anche il Kobold, spirito familiare come quello degli antichi romani, più anticamente spirito di una pianta o di un albero. Nel Medioevo in Germania si usava scolpire figure di Coboldi plasmandoli con il legno di un albero, il Buxus sempervirens, o con cera, ma anche con la radice della Mandragora o di altra pianta spacciata per tale. Si pensava che lo spirito del Coboldo vivesse nel materiale utilizzato per la figura. Kobold ha un etimo comune a Kobaloi, spiriti della mitologia greca, piccoli, dotati di un grande fallo, e compagni di Dioniso.

Se mai dovesse essere ricercata una discendenza del mitico folletto salentino da una pianta [30] e dai suoi effetti, la pianta “candidata” a numerosi e sorprendenti elementi in comune con il Laùro è proprio la Mandragora (entrambi sono legati al mondo onirico, spaventano e terrorizzano, ma proteggono anche, possono donare ricchezze e tesori, hanno forma antropomorfa, godono di una interscambiabilità, son considerati spiriti, son paragonati e/o definiti come morti di morte violenta o dannati, e come morti bambini non battezzati). Infine, il Laùro e l’ Homunculus alchemico derivato dalla magica animazione della Mandragora sono fondamentalmente la stessa cosa.
“Mandragora maschio” e “Mandragora femmina” in una antica stampa

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“Mandragora maschio” e “Mandragora femmina” in una antica stampa

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Note

[1]Giovanni Pierio Valeriano, I ieroglifici ouero Commentarii delle occulte significationi de gl’Egitti, Combi, Venezia, 1625, pag. 761

[2]v. Attilio Quattrocchi, I Misteri Eleusini, Accademia Platonica Centro Studi Filosofici http://www.accademiaplatonica.com/i-misteri-eleusini/

[3]Pier Luca Pierini, La Magica Mandragora, Rebis Ed., Viareggio, 1999, pp. 23-33

[4]Pietro Andrea Mattioli, Discorsi, pag. 604, cap. 78, 1544

[5]Girolamo Marciano, Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto pag. 190, Napoli, Stamperia dell’ Iride, 1855 (riedizione a stampa dell’antico manoscritto redatto dal Marciano a cavallo tra ‘500 e ‘600)

[6]a proposito del termine “dod” qui citata dal Carducci come sinonimo di mandragora e di “amore”, si veda G. Toro, La radice di Dio e delle Streghe, pag. 18

[7]Cataldantonio Atenisio Carducci, Le delizie tarantine di Tommaso d’ Aquino, Volume 2°, Annotazioni, Napoli, 1772, Stamperia Raimondiana, pag. 269.

[8]Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del regno di Napoli, Manfredi, 1883, pag. 51

[9]Martino Marinosci, Flora Salentina, vol. II, Tip. Ed. Salentina, Lecce, 1870, pag. 91

[10]Henry Groves, Flora della costa meridionale della terra d’ Otranto, Nuovo Giornale Botanico Italiano, vol. XIX, n. 2, aprile 1887, pag. 174

[11] C. Mele, P. Medagli, R. Accogli, L. Beccarisi, A. Albano & S. Marchiori Flora of Salento (Apulia, Southeastern Italy): an annotated checklist Flora Mediterranea 16, Raimondo Ed., , pag. 219

[12] In un suo recente scritto Samorini riporta di “testimonianze di alcuni conoscenti pugliesi e siciliani i quali mi hanno comunicato che, quando incontrano delle piante di mandragore, ne consumano impunemente i frutti maturi”, ripetendo per ben due volte nel testo questo “dato” con la medesima espressione e mettendo in guardia qua e là nell’articolo rispetto alla sconvenienza di questo atteggiamento (G. Samorini, Odori sensuali: il profumo del frutto di Mandragora, in Erboristeria Domani, mar/apr 2017, 401, CEC Editore, pp. 72-79). Non ci risulta un trend di consumi di frutti di Mandragore in Puglia, e tantomeno di comportamenti d’abuso, anche in considerazione del fatto che si tratta di una pianta difficile da scovare e poco diffusa, benchè affatto presente soltanto in area tarantina come afferma l’ autore suddetto (difatti abbiamo registrato la presenza di poche ma significative stazioni sparse in tutta la Terra d’ Otranto). Ciò che risulta più significativo nella esperienza pugliese è in realtà il fatto che si è creata una rete comunicativa spontanea e di scambio di informazioni composta da ricercatori delle tradizioni, botanici, ecologisti e naturalisti, escursionisti, con al centro delle attenzioni non soltanto la Mandragora o le piante psicoattive, ma tutta la flora spontanea del territorio, i suoi utilizzi nella tradizione, nella alimentazione, nella medicina popolare. Obiettivi condivisi sono lo studio, e lo scambio di informazioni, l’individuazione e la classificazione delle specie presenti nel territorio, la preservazione della flora spontanea, specie quella a rischio di estinzione, e, quando possibile, il suo ripopolamento. A questo proposito, intendo ringraziare Oreste Caroppo, Giuseppe Mascia, Marcello Morelli , il Prof. Piero Medagli con i loro preziosi contributi, e quanti altri hanno preso parte attiva a ricerche, discussioni, scambi di informazioni, escursioni .

[13] Nota curiosa, le Mandragore osservate in S. Marzano in periodo autunnale, non presentavano fioritura né fruttificazione e avevano una conformazione fogliare sensibilmente diversa rispetto alle altre. Questi aspetti han fatto pensare ad un esempio di polimorfismo, ma sarebbe da approfondire quanto riferito in passato dal Marciano e da Marinosci: entrambi identificano 2 specie differenti di Mandragore in Terra d’ Otranto. La “Mandragora maschio” e la “Mandragora femmina” di cui parla il Marciano corrisponderebbero in realtà, rispettivamente, alla attuale distinzione tra Mandragora officinarum e Mandragora autumnalis. Lo stesso Marinosci, come si è riportato di sopra, riferisce di due differenti varietà.

[14]Cfr. Jean Loic De Quellec, La Mandragore: Plantes, sociétés, savoirs, symboles. Matériaux pour une ethnobotanique européenne. Actes du séminaire d’ethnobotanique de Salagon, vol. 3, 2003-2004 : « Les cahiers de Salagon » 11, Musée-conservatoire de Salagon et Les Alpes de lumière, Mane, 2006, pp. 91-92

[15]J. Bouquet, La Mandragore en Afrique du Nord, Bulletin de la Société des Sciences Naturelles de Tunisie, vol. 5, pp. 29-44, 1952

[16]Jean Loic Le Quellec, op. Cit., pag. 88

[17]an Loic Le Quellec, op. Cit., pp. 88-90

[18] Alberto Borghini, Varia Historia – Narrazione, territorio, paesaggio: il folklore come mitologia, Aracne editrice SRL, 2005, pag. 118

[19]Ibid.

[20]Ibid.

[21]Flavia Angotti Mandragora autumnalis, in Giardini & Ambiente, https://www.giardini.biz/piante/erbacee/flavia-angotti/

[22]Cfr. Tiziano Mannoni, Diego Moreno, Maurizio Rossi, APM- Archeologia Postmedievale, 10, 2006 – Pietra scrittura e figura in età postmedievale nelle Alpi e nelle regioni circostanti, All’Insegna del Giglio, 2007, pp. 186-190

[23]Analogo mito si origina rispetto asd un’altra solanacea magica, lo Stramonio, cfr. Vittorio Lanternari, Religione, magia e droga. studi antropologici, Manni Ed., 2006, pag. 171 .

[24]Cfr. Gianluca Toro, La Radice di Dio e delle streghe, Yume Ed., 2014, pag. 75

[25]Alexander Fleisher, Zhenia Fleisher, The fragrance of Biblical Mandrake, Economic Botany, 48 (3): 243-251

[26]Questo fenomeno è stato già decritto da Bouquet ma egli lo attribuisce ad un rumore secco causato dalla radice che si spezza allorquando è estratta in modo non corretto (J. Bouquet, La Mandragore en Afrique du Nord, Bulletin de la Societè des Sciences Naturelles en Tunisie, Vol. 5, pp. 29-44, 1952) ). Al contrario, nella nostra esperienza lo stridio proviene proprio dalla estrazione brusca ma corretta della radice, cavata dal suolo per intero, ed è causato come già detto dallo sfregamento della radice stessa con la terra. Giusta, invece, la successiva osservazione di Bouquet secondo il quale il silenzio e l’atmosfera della notte, in cui avveniva l’estrazione, avrebbero amplificato in modo suggestivo ciò che veniva udito.

[27]Luigi Chiaia, Pregiudizi Pugliesi, in: Rassegna pugliese di scienze, lettere, arti, Trani, 1887-88, Ried. a cura di Arnaldo Forni Editore, 1983, pp. 75-76

[28]Cfr. Gianfranco Mele, Lu Laùru, il nostro demone in La Voce di Manduria, giovedi 2 nov. 2017;

[29]Il “cappuccio dei pazzi”, il berretto a sonagli tipico di folli e giullari, potrebbe rappresentare la stilizzazione di una pianta di mandragora con i suoi frutti.

[30]In un articolo inserito in un sito web salentino denominato “Il Tacco d’ Italia”, dal titolo “Il folletto dell’ Italia meridionale e la papagna”, il Laùro viene riportato forzatamente, attraverso una serie di associazioni e costruzioni fantasiose e improbabili, nonché attraverso una serie di errori descrittivi e interpretativi, nonché etimologici, al Papaver somniferum (cfr. a questo proposito Armando Polito, Il Laùru, ovvero diaboliche etimologie, in Fondazione Terra d’ Otranto, sito web omonimo 10 dic. 2013 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/10/il-lauru-ovvero-diaboliche-etimologie/ ). Si vedano anche:

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

Fatti e misfatti dello spiritello domestico salentino

I dispetti del folletto domestico salentino

 

Coltivazione di ulivi tra Andalusia e Terra d’Otranto in un importante studio accademico

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Transizione socio-ecologica dell’oliveto nel lungo periodo

in Italia e Spagna (1750-2010)[1]

 di Gianpiero Colomba

In questo articolo cerchiamo di spiegare brevemente il livello di multifunzionalità e di produzione dell’oliveto, ovvero la sua resa agronomica, e di ricostruire l’evoluzione di alcuni indicatori biofisici basati sulla proposta metodologica del metabolismo agrario, come per esempio l’indicatore di efficienza energetica “ERoEI” (Energy Returned on Energy Invested)). Lo scopo principale è quello di analizzare le dinamiche di sostenibilità storica della coltivazione dell’oliveto, con l’obiettivo finale di ottenere insegnamenti utili per individuare gestioni efficienti nel presente.

Il contesto storico della ricerca, parte dell’epoca in cui la base energetica era quasi esclusivamente solare e arriva ai giorni nostri, descrivendo la transizione socio-metabolica industriale quando, per la prima volta nell’agricoltura, ebbe luogo l’arrivo a grande scala dei combustibili fossili e dei fertilizzanti chimici.

La maggior parte degli indicatori agronomici e ambientali, si riferiscono alla provincia di Cordova in Andalusia, che oggi rappresenta la regione leader al mondo in quanto a superfici investite a oliveto e alla provincia storica di Terra d’Otranto che lo fu nel XVIII° secolo e gran parte del XIX°.

Abbiamo cercato di dare una risposta al come fu possibile che in Italia si riuscì a “sostenere” un’alta densità di popolazione in un contesto di agricoltura «organica avanzata» (Wrigley, 1988), e in condizioni agro-climatiche simili a quelle spagnole. Per pratiche agrarie migliori o più intensive? O attuando pratiche insostenibili per lungo tempo? Inoltre, quale fu la causa della forte caduta della produttività in Italia agli inizi del XX° secolo?

Analizzando la porzione di terra utile per abitante in Terra d’Otranto nel 1880, si calcola che vi era una disponibilità teorica di 1,3 ettari (superficie territoriale / abitanti), mentre in Cordova di 3,6 ettari per abitante. Mezzo secolo dopo, nel 1930, questa proporzione nella provincia del sud della Spagna era di 2,1 ettari, all’incirca uguale alla quota che si calcola in Terra d’Otranto nel 1809, più di un secolo prima. Analogo discorso se consideriamo la porzione di terra coltivabile per abitante, con 1,0 e 1,9 ettari rispettivamente nel 1880. Si ricorda che il limite per il sostentamento di una comunità in epoca pre-industriale era all’incirca fissato in 1,5 / 2,0 ettari per abitante (Malanima, 1995), per cui in Terra d’Otranto questo limite lo si era superato già a partire dagli inizi del secolo XIX. Completare il sostentamento in queste situazioni richiese evidentemente delle strategie di “risparmio del suolo” (Kander et al., 2014) e l’oliveto ne fu un esempio paradigmatico, soprattutto in Italia.

Per quel che concerne l’efficienza, abbiamo stimato gli input applicati all’oliveto, tanto a livello tradizionale (lavoro umano e animale, concimi, ecc.) come a livello attuale (fertilizzanti, trattamenti, macchinari, ecc.) e gli output (produzione di olive, legna, ecc.) considerando la materia secca e traducendo il tutto in unità di misura energetica (Joule).

Le stime che riguardano il territorio salentino, sono l’analisi di libri contabili privati di fine secolo XVIII e di gran parte del XIX, relativi alla conduzione di alcuni oliveti nel territorio di Poggiardo e Tricase (Le), mentre per l’attualità attraverso interviste a esperti e agronomi condotte nell’anno 2016 sul territorio leccese.

La grande espansione dell’oliveto nel mediterraneo è avvenuta in epoca contemporanea e Italia e Spagna sono stati i paesi di maggiore produzione di olio di oliva nel mondo. Valga un dato per descrivere l’importanza dei due paesi nel contesto mondiale: durante il quinquennio 1903/07, agli inizi quindi del XX° secolo, l’Italia produceva 226.000 tonnellate di olio che equivaleva al 40% della produzione mondiale e la Spagna, secondo produttore, con 189.000 ne produceva il 34%.

Oggigiorno, insieme, questi due paesi producono il 63% della produzione mondiale, con l’Italia che produce il 18% dell’olio mondiale, mentre la Spagna il 45%. Pur tuttavia, i principali risultati della ricerca mostrano che Italia e Spagna hanno avuto specifiche e distinte evoluzioni.

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Nel caso dell’oliveto italiano, si osserva un livello intensivo che possiamo definire impropriamente “industriale” già alla fine del secolo XVIII° e per gran parte del XIX° rispetto allo spagnolo, il quale si poteva considerare con una vocazione più “contadina”. L’oliveto italiano, infatti, dedicava una parte maggiore della sua produzione di olio per il mercato e l’esportazione. Alla fine del secolo XIX° poi, si ebbe un’inversione con l’Italia che risentì maggiormente della crisi di fine secolo rallentando la sua crescita e la sua produttività. In questo stesso periodo, la Spagna iniziò una vera e propria “età di oro” che le permise di superare l’Italia in quanto a superfici e produzioni, diventando paese produttore leader indiscusso. L’importante transizione tra Italia e Spagna, da un punto di vista commerciale e produttivo, si può riassumere in questi numeri: tra i quinquenni 1871/75 e 1901/05, quindi nell’ultimo quarto di XIX° secolo, in Italia le esportazioni di olio caddero da 70.400 tonnellate a 32.200, mentre in Spagna passarono da 23.500 a 43.400.

Il livello produttivo medio nel sud d’Italia a metà del secolo XVIII° (11,3 quintali/ettaro), era maggiore di quello del sud della Spagna (6,0 q./et.). Ipotizziamo quindi che in Italia, all’interno di una “economia organica” e in condizioni agro-climatiche simili, l’oliveto richiedeva un maggior livello di fertilizzazione o più in generale di input esterni, per soddisfare la sua vocazione “industriale”. Successivamente, agli albori dell’era pre-industriale tra il 1880 y 1930, registriamo una rilevante caduta della produttività in Terra d’Otranto pari al 25% (da 13,5 a 10,1 q./et.). La rivoluzione verde, infine, permise un esponenziale aumento delle rese agrarie le quali, in condizioni analoghe in quanto ad accesso a energie fossili tendono a convergere, raggiungendo una produzione pari a circa 34 q./et.. Nell’attualità, per ogni 10 olive prodotte nel mondo 1 arriva da una di queste due province del Mediterraneo.

 

Produzione di olive nell’oliveto specializzato. (Quintali / ettaro / anno).

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L’aumento della quota di suolo dedicata alla coltivazione dell’olivo si comprende, da un lato per la grande domanda di olio che proveniva dall’estero dando luogo quindi a una spiegazione di tipo «monetarista» e dall’altro venne determinata dalla capacità di somministrare una molteplicità di beni fondamentali per le comunità e per il sostentamento familiare, spiegazione quest’ultima, legata alla “multifunzionalità” dell’oliveto.

La legna prodotta rappresentava la fonte più importante di approvvigionamento energetico. Le foglie dell’olivo erano un eccellente alimento per il bestiame; la sansa vergine si usava per fertilizzare, come combustibile, per alimentare il bestiame e, se trattata con solfuro, si usava per ricavarne una supplementare quota di olio; la sansa esausta mescolata con la melassa, era un ottimo alimento per cavalli e maiali; l’acqua di vegetazione si usava come fertilizzante e come disinfettante per le radici delle piante e per la produzione di alcol; e il residuo della “morchia” era utile per la fabbricazione del sapone.

Se consideriamo la legna prodotta con la potatura, secondo una recente stima (Colomba, 2013), intorno al 1870 in Terra d’Otranto, c’era una disponibilità teorica di 3,2 quintali di legna di olivo pro-capite/anno. Se si considera che in Italia la necessità di legna pro-capite/giorno era minore di 1 chilo (Malanima, 1995), stimiamo per il sud d’Italia, con temperature meno rigide, un fabbisogno pari a ca. 3 quintali pro-capite. Tutto ciò ci fa pensare che prima dell’arrivo dei combustibili fossili la legna d’olivo fosse indispensabile da un punto di vista energetico, giacché in Terra d’Otranto era molto scarsa la quota di terra forestale (appena il 16,5% dell’intero territorio provinciale al 1930).

Abbiamo analizzato le possibili cause della crisi produttiva di fine secolo XIX° da un punto di vista energetico e non solo commerciale, studiando le relazioni tra il maggiore livello produttivo verificatosi in Italia tradizionalmente e l’efficienza e quindi la sostenibilità dell’oliveto. Abbiamo stimato innanzitutto la quantità di energia applicata al suolo in epoche distinte. La variabile è stata contabilizzata in ore di lavoro (umano e animale) per ettaro. Per esempio, si è calcolato che intorno al 1750 in Terra d’Otranto si impiegavano, mediamente, 368 ore/ettaro/anno (equivalenti a 345 MJ) per lavorare la terra (questo lavoro spesso includeva anche il sovescio fatto a zappa) e occorrevano 27,6 ore per arare con una coppia di buoi. Inoltre, la raccolta manuale prevedeva un dispendio di 276,2 ore. Nell’attualità si dedicano, in media, appena 2,9 ore di lavoro umano per la gestione del suolo e 96 ore per la raccolta.

Abbiamo quindi calcolato l’indicatore di efficienza energetica, che rapporta output a input come descritto in metodologia.

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Evoluzione storica dell’efficienza dell’oliveto. (ERoEI; Otput/Input).

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La storia descrive una caduta continua di questo indicatore dal secolo XVIII° fino ai giorni nostri. Nel caso italiano è passato da 6,6 a 2,6 (efficienza più bassa) mentre nel caso spagnolo da 9,6 (efficienza più alta) a 3,1. Questo significa che la produzione, seppur in crescita, è aumentata a un ritmo inferiore rispetto agli input esterni, disegnando così un processo continuo di perdita di efficienza.

L’agro-ecosistema di Terra d’Otranto, necessitava tradizionalmente più energia di quello di Cordova, generando così uno svantaggio ecologico in ottica comparativa. Si entrò in una sorta di rendimento decrescente in prospettiva energetica, mentre nel caso di Cordova si aveva un oliveto al quale, aggiungendo poca energia addizionale si ottenevano maggiori ritorni. In Terra d’Otranto bisognava investire maggiori risorse per ottenere la stessa quantità di prodotto. Non fu solo, quindi, una mera questione di mercato e prezzi bassi del prodotto olio con conseguente abbandono di coltivazioni non più redditizie, ma un collasso socio-ecologico mediato da rendimenti decrescenti nel sistema produttivo energetico e di nutrienti.

Infine, la transizione descritta ha generato dei problemi all’agro-ecosistema oliveto che in estrema sintesi si possono descrivere così: caduta di efficienza energetica, recente incremento delle emissioni di CO2 e «sovra-fertilizzazione» di Azoto con la conseguente contaminazione da nitrato. Nell’attualità, infatti, nell’oliveto industrializzato si fertilizza con più N di quello che sarebbe necessario, creando un surplus stimato in circa 74 kg/et. di N nel caso di Terra d’Otranto mentre, al contrario, nel 1880 si stima un deficit di quasi 20 kg/et. Questa importante coltivazione che caratterizza così fortemente il paesaggio ha smesso di essere un serbatoio di carbonio, per diventare un problema per il cambiamento climatico.

 

ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello

 

Nota biografica

Colomba Gianpiero, vive attualmente nella città di Firenze e ha terminato un dottorato di ricerca presso l’Università “Pablo de Olavide” di Siviglia, il cui titolo è: “L’Europa, il mondo mediterraneo e la sua diffusione atlantica. Metodi e teorie per la ricerca storica”. Si è avvalso della direzione di tesi dei professori Manuel González de Molina e Juan Infante Amate.

Dall’inizio del 2011 fa parte del gruppo di lavoro del “Laboratorio di Storia degli Agroecosistemi” dell’Università UPO di Siviglia. Durante questi anni ha illustrato i principali risultati della sua ricerca in vari forum accademici (UGR, Granada 2012; UEX, Badajoz 2013; AHC, Madrid 2013; SISS, Firenze 2017), presentando lavori inerenti alla storia ambientale e al mondo rurale.Il 7 settembre 2017 ha raggiunto il punteggio massimo difendendo la Tesi dal titolo: “La transizione socio-ecologica dell’oliveto nel lungo periodo. Uno studio comparato tra il sud d’Italia e il sud della Spagna. (1750/2010)”. La ricerca descrive la storia della grande espansione dell’oliveto nel Mediterraneo negli ultimi due secoli e mezzo da una prospettiva socio-ecologica.Il contributo di questo lavoro è stato quello di stimare inediti dati riferiti alla storica provincia di Terra d’Otranto (Sud Italia), presentando i dati relativi all’utilizzo del suolo, alla produzione e alla sostenibilità agricola dell’uliveto, attraverso uno studio in cui sono presenti metodologie trans-disciplinari.

Indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

 

[1] Il lavoro di ricerca che qui si riassume è una estrema sintesi di una tesi dottorale presentata presso l’Università “Pablo de Olavide” di Siviglia agli inizi di settembre del 2017 e descrive la storia della coltivazione dell’olivo nel mediterraneo nell’arco degli ultimi due secoli e mezzo, da una prospettiva socio-ecologica.

I dati statistici che si indicano, sono proprie stime le cui fonti primarie sono riportate nella bibliografia della tesi conservata presso gli archivi informatici dell’Università UPO di Siviglia e consultabile su http://www.upo.es/rio.

Ischitella e i suoi ulivi

uliveti

Lo scienziato Michelangelo Manicone polemico con l’abate Giovanni Longano sui boschi di Ischitella

di Michele Eugenio Di Carlo

Sull’agricoltura di Ischitella l’abate Giovanni Longano, molisano di Ripalimosani, si era tenuto sul vago, menzionandone gli uliveti, mentre l’altro grande molisano, Giuseppe Maria Galanti di Santa Croce di Morcone, l’anno seguente, il 1791, vi aveva inserito la coltivazione di carrube.

Longano aveva peraltro sostenuto che le «furiose» cesinazioni eseguite dopo il 1764, pur avendo esteso la produzione cerealicola, avevano provocato persino la mancanza di legna da ardere a disposizione della popolazione[1]. E queste affermazioni non potevano che diventare l’ennesimo pretesto per un’ ulteriore critica all’abate, poiché per il frate di Vico, Michelangelo Manicone, si trattava di un errore imperdonabile: erano i limitrofi vichesi a non avere più legna da ardere. Ad Ischitella, invece, l’autorità pubblica si era opposta vigorosamente a tutti i tentativi di disboscare, in particolare, i preziosi boschi di «Ischio», da cui prendeva persino il nome la cittadina.

Forse risale a questa circostanza del Settecento il fatto che risalendo all’attualità possiamo considerare che Carpino e Ischitella hanno saputo proteggere i loro splendidi faggi e lecci con una riserva naturale biogenetica statale di 300 ettari, attraversata dal torrente Romondato, distesa in direzione del lago di Varano, ricca di una fauna prevalente di caprioli,  gatti selvatici, ghiri, faine, tassi, volpi, lepri, cinghiali.

Secondo l’opinione del frate, intesa a sminuire il valore delle relazioni dell’abate mettendo in dubbio la sua presenza fisica e, quindi, la sua conoscenza diretta del territorio, il «visitatore» Longano era stato «mal servito da’ suoi corrispondenti». Infine, con pungenti e, persino untuose modulazioni dialettiche, tra l’ironico e il sarcastico, aggiungeva:

«Ma pur troppo ciascuno è soggetto a scrivere delle cose poco esatte: ed io credo di rendere un vero servigio a Longano non meno che a’ Leggitori di lui, avvertendolo di quando in quando d’alcuni errori di fatto. Così vi fosse chi lo correggesse anche nel suo Viaggio per lo Contado di Molise! I viaggi di lui allora diverebbon utili»[2].

Non siamo forse già alla stroncatura mirata delle relazioni dell’abate Longano?

Relazioni che avevano l’intento dichiarato di informare i potenti e ben noti componenti del «Supremo Consiglio d’Azienda» – nel 1790, quando viene presentata la relazione sulla Capitanata, erano i Segretari di Stato Carlo De Marco e Giovanni Acton, il Direttore Ferdinando Corradini, i consiglieri Michele Loffredo (principe di Migliano), Filippo Mazzocchi, Giuseppe Palmieri e il cavaliere Cotronchi – delle condizioni sociali ed economiche della provincia a cui il re borbone Ferdinando IV sembrava tenere particolarmente.

Sulla Capitanata, era stato lo stesso abate, nel presentare la sua nota relazione a Napoli il 6 ottobre 1790, a chiarire che si trattava «non già un quadro finito della Provincia, ma si bene un bozzo di quella», dal quale, in ogni caso, sarebbe stato possibile considerare «quanto la natura abbia favorito questa Provincia, e quanto sia grande lo sforzo di chi l’abita nel mettere in valore le sue feracissime terre. Che anzi io porto parere, che praticati alcuni pochi regolamenti, in brievissimo tempo, atteso il vostro glorioso zelo, potrà la Capitanata divenire una delle più prospere Provincie del Regno»[3].

Messa da parte la polemica, resta la constatazione che per una lettura compiuta e minuziosa dello stato dell’agricoltura di Ischitella occorra necessariamente riandare agli scritti di Manicone, poiché non solo tratteggiano in maniera pertinente le attività che vi si svolgevano, ma ne analizzano razionalmente i punti deboli non mancando di individuare, con un atteggiamento efficace, le più ragionevoli soluzioni:

«Lungi da Ischitella un miglio a Nord-Ovest evvi un piano, largo miglia 4 circa e lungo circa sei miglia. Siffatto piano è diviso in tre parti. La più grande è quella che è popolata di alberi di ulivi; la meno grande della prima è destinata alle semine del frumento, delle biade, dei legumi, e del limone; e la parte più piccola è coperta di vigne».

Nella parte terminale di quell’orizzonte incantevole, descritto in maniera tanto mirabile da rendere ancora possibile immaginare nei dettagli quel paesaggio agreste di fine Settecento, e confrontarlo con quello odierno, vi era il «piano di Varano», posto ai limiti del lago omonimo. Gli ischitellani vi coltivavano del grano non sufficiente all’autoconsumo, tanto da essere costretti ad importarlo da Carpino e dal Tavoliere, mentre sarebbe stato auspicabile mettere a coltura i numerosi terreni incolti di quell’area, invece di dedicarsi alla pesca e al gioco[4].

I vigneti di Ischitella non erano tali da soddisfare il fabbisogno di una popolazione di circa 3000 anime, tanto che era Vico a rifornire di vino la cittadina. Le colline situate a nord-ovest dell’abitato, esposte a sud e ricoperte di cespugli e arbusti infruttiferi, presentavano le condizioni pedo-climatiche ottimali per impiantare vigne, invece i vigneti di Ischitella erano situati in vallecole umide e ombrose e producevano un vino «snervatello», poco apprezzato e scarsamente alcolico.

La maggior rendita di Ischitella proveniva dalla produzione di olio che, come gli agrumi, veniva esportato anche all’estero grazie alla marineria di Rodi. Nonostante Manicone lamentasse l’incuria in cui versavano gli ulivi, folti, alti, pieni di rami non fruttiferi rivestiti di licheni e muschi che, impedendo la penetrazione della luce e la circolazione dell’aria, generavano una scarsa fioritura. Mentre sarebbe stato necessario eliminare costantemente polloni e succhioni, tagliare i rami secchi, eliminare con la «slupatura» le carie che si propagavano attraverso le vie linfatiche anche grazie all’umidità e alla scarsa luce.

E lo scienziato, sempre pronto alla battuta, conscio che i suoi enormi meriti non sarebbero stati apprezzati, ribadiva puntigliosamente:

«Tali sono i georgici miei documenti relativamente agli ulivi di qua. So che alcuni de’ proprietarj Ischitellani gli leggeranno, e gli osserveranno; so che molti gli leggeranno senza osservargli; e mi duole assaissimo, che il numero maggiore né gli leggerà, né gli osserverà»[5].

 

[1] LONGANO Francesco, Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata, Napoli, presso Domenico Sangiacomo, 1790.

  1. 52

[2] M. MANICONE, La Fisica Daunica, a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005, p. 94.

[3] F. LONGANO, Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata, presentazione, cit.

[4] M. MANICONE, La Fisica Daunica, a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005, pp. 99-100.

[5] Ivi, p. 103.

Castro ed Otranto in una mappa del 1568

di Armando Polito

Reperibile all’indirizzo https://www.europeana.eu/portal/it/record/2022713/oai_rebae_mcu_es_176657.html?q=OTRANTO, la mappa è registrata col titolo Mapa de las costas del estrecho de Otranto en el mar Adriático y de las islas de Corfú, Fano, Maslera y Mathraki (Mappa delle coste dello stretto di Otranto nel mare Adriatico e delle isole di Corfù, Fano, Maslera e Mathraki) ed è così descritta: AGS. Secretaría de Estado, Legajos, 00540. Se conservaba en un atado y en la carpeta pone: “Flandes 1568. En este maço es algunos designos de plaças fuertes y de alojamientos del campo de su Md. en Flandes…”. Rotulación en italiano.Manuscrito sobre papel. Tinta y colores a la aguada azul y amarillo (Archivio Generale Spagnolo. Segreteria di Stato. Fascicolo 00540. Si conservava in un allegato nella cartella dal titolo: “Fiandre 1568. In questo fascicolo ci sono alcuni disegni di piazzeforti e di alloggiamenti del campo di sua Maestà nelle Fiandre …”. Etichettatura in italiano. Manoscritto su carta; dipinta ad acquerello con colori azzurro e giallo). Per quanto riguarda la provenienza la scheda registra Catálogo Colectivo de la Red de Bibliotecas de los Archivos Estatales (Catalogo collettivo della rete di biblioteche degli archivi statali).

Segue l’ingrandimento della parte inferiore sinistra corrispondente alla Terra d’Otranto.

Osservo anzitutto l’estrema regolarità (si direbbero quasi a stampa) di PONENTE, OTRANTO, PARTE D’ITALIA e C. DI S. MARIA (oggi Capo di S. Maria si Leuca), mentre il corsivo di Castro (oggi tal quale) e di La limina (oggi Laghi Alimini1) sottolinea la loro importanza secondaria rispetto ad Otranto.

Nelle immagini successive ho ulteriormente ingrandito, compatibilmente con la necessità di una lettura sufficiente, i dettagli relativi a Castro e ad Otranto perché, al di là della presumibile sintetica stereotipicità del segno convenzionale, è possibile cogliere fondamentali elementi caratterizzanti2.

Sarebbe, così, per esempio,  ancora più azzardato pretendere di fare un confronto addirittura con carte in scala larga o media, quale può essere, nel nostro caso, la pur coeva mappa di Otranto di Piri Reìs e identificare con la cattedrale il dettaglio in entrambe evidenziato con l’ellisse bianca.

 

Così avevo scritto e si leggeva come ora fino a qualche ora fa, quando con encomiabile tempestività il signor Michele Bonfrate, che qui ringrazio pubblicamente, mi ha fatto notare l’errore (ingiustificabile, neppure mettendo in campo l’ignoranza dell’arabo da parte mia) e inviato l’immagine correttiva che segue. Ho provveduto anche ad aggiungere all’inizio il link prima mancante, lacuna che nelle precedenti letture mi era sfuggita.  

 

 

Meno azzardato mi pare il confronto con un’altra carta, della quale fino a pochi mesi fa ignoravo l’esistenza3. Due delle numerose puntate ad essa dedicate su questo stesso blog riguardano proprio una Castro4 e l’altra Otranto5. Nel lasciare al lettore ogni sforzo  comparativo, mi limito a precisare che, mentre nelle carte nautiche6 i toponimi relativi ai centri più importanti sono, direi di regola, in rosso e gli altri in nero, in queste i toponimi sono in nero mentre i simboli rappresentanti le città sono in rosso, nonostante nella carta del 1568 l’elaborazione a cui l’ho sottoposta ha finito per alterare,soprattutto per il simbolo di Otranto, il colore originario.

 

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1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/16/alimini-appunti-storia-del-toponimo/

2 Nonostante la difficoltà d’identificazione comparativa del singolo fabbricato in rappresentazioni distanti, non solo cronologicamente, di una città, segnalo per Otranto https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/13/le-quattro-piu-antiche-mappe-stampa-otranto-forse-1/

3 Sulle circostanze e sullo studioso che mi ha edotto sulla sua esistenza e stimolato ad occuparmene per la sezione relativa alla Terra d’Otranto vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

4 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

6 Chi ha interesse in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/05/08/la-terra-dotranto-carta-nautica-del-1521/ troverà su tali documenti più di un link e, comunque, nella home page basterà digitare “carta nautica”.

 

Le Sibille, tra teologia e iconografia

copertina sibille

di Alfonso Apostolico*

 

L’ingresso della figura delle Sibille, “creature della mitologia greca e romana, impersonate da vergini dotate di virtù profetiche”1, nella iconografia religiosa cristiana è antico, e ne attraversa la riflessione teologica per più secoli, da Lattanzio (III-IV sec.), a Sant’Agostino (IV-V sec.), Isidoro di Siviglia (VI-VII sec.), Beda il Venerabile (VII-VIII sec.), giusto per identificare un breve percorso significativo. Essi poterono attingere alla tradizione “pagana”, in cui il nome “Sibilla” e le sue caratteristiche partono da Eraclito (VI-V sec a.C.) citato da Plutarco (I-II sec. d.C.), e poi Euripide, Aristofane, Platone, arrivando a Pausania (II sec. d.C.) che dedica alle Sibille un intero capitolo del Libro X della sua “Descrizione della Grecia” sancendo definitivamente l’esistenza di più Sibille operanti in luoghi diversi, anche fuori dalla Grecia continentale. Il mondo romano, come già detto, procede ad una sistemazione ulteriore del tema partendo da Lattanzio (III sec. d.C.) che cita Varrone (I sec. a.C.) e ne riporta l’elenco delle Sibille (giungendo a dieci) con le fonti di riferimento.

sibille

L’occasione per poterne riparlare è la pubblicazione, da parte della “Fondazione Terra d’Otranto”2, del volume “Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille”, di Marcello Gaballo e Armando Polito.

Sibilla Europa, in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole

 

Lavoro notevole, intanto, per la quantità di immagini delle Sibille, suddivise, molto opportunamente, tra quelle presenti nella chiesetta di Santa Maria di Casole (ancorché rovinate dal tempo e dalla incuria degli uomini), quelle presenti nelle opere a stampa (le più significative), quelle utilizzate “nell’arte” (dalle Sibille presenti nelle tarsie marmoree del pavimento del Duomo di Siena, a quelle nel Santuario della Madonna del Castello in Almenno S. Salvatore (BG), a quelle della Chiesa di San Bernardino a Lallio (BG), a quelle della Chiesa di Maria Ss. del Carmine a Contursi Terme (SA) e … ad altre, presenti nella storia dell’arte, nella poesia, con annotazioni circa “curiosità varie” sulla figura delle Sibille.

sibille

Il volume si conclude con la prima pagina di “alcuni libri” della biblioteca del soppresso convento di Santa Maria di Casole, custoditi presso la Biblioteca Comunale “Achille Vergari” di Nardò, e con la Bibliografia3, per approfondimenti indotti dalle stimolanti pagine del volume.

Per la verità, tra i pregi del lavoro prodotto dagli autori (compresi nei meriti della Fondazione Terra d’Otranto per averne promosso e sostenuto la pubblicazione) c’è un aspetto ulteriore che ritengo necessario sottolineare a vantaggio del lettore. Si tratta delle fonti, citate nel testo, anche di quelle a commento delle immagini. Ci troviamo di fronte ai testi originali (in latino e/o greco, riprodotti nelle note con font leggibili e godibili, e alle traduzioni in italiano, realizzate in proprio, presenti nel testo, in modo da renderne scorrevoli la lettura e la comprensione. La qualità dell’insieme è notevole e dimostra dove può portare la competenza e la passione nel ricostruire i messaggi che vengono dal passato, compreso il lavoro relativo alla ricostruzione della etimologia delle parole presenti nei testi riportati. Una chicca per quanti non hanno rinunciato al piacere dell’incontro con autori e testi originali, aiutati da competenti traduzioni in italiano con rimandi alle origini delle parole.

sibille

Un lavoro che occupa ben 321 pagine, e che comprende, al suo interno anche la presentazione delle Sibille presenti all’interno della “Chiesa di Maria Ss. del Carmine a Contursi Terme (XVI-XVII sec.)”. L’inserimento delle Sibille contursane “chiude la serie dei cicli completi” presentati nel volume. Una seconda “coerenza” lega la realtà contursana a quella di Santa Maria di Casole: l’incuria degli uomini4.

Poi c’è il capitolo delle originalità. Nella breve nota di presentazione, gli autori richiamano il lavoro svolto dal prof. Federico La Sala5, che ha realizzato una analisi, del contesto e di merito, sul valore, sulla portata e sul significato degli affreschi presenti nella Chiesa del Carmine a Contursi, esprimendo una lapidaria ed essenziale valutazione:essi rappresentano “nella suggestiva documentata e convincente lettura del prof. La Sala non solo il punto di arrivo del percorso del visitatore ma, con un significato metaforico ben più profondo, quello del viaggio catartico del peccatore”.

Con parole mie, certamente meno autorevoli ma spero comunque utili, è come se al visitatore/credente venisse detto: “te lo hanno anticipato le Sibille (ognuna delle quali ha una sua profezia che anticipa l’avvento); più avanti trovi Elia (il primo dei profeti), insieme a San Giovanni Battista (l’ultimo dei profeti) che rappresentano l’annuncio della venuta di Cristo i quali ti presentano a Maria con cui, mettendoci del tuo, puoi arrivare al cospetto di Dio”6.

Il testo del prof. La Sala presenta ulteriori peculiarità di riflessione filosofiche e storiche che meritano di essere affrontate dai lettori interessati: l’epoca è quella dell’Umanesimo/Rinascimento, c’è il recupero dell’eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale, il recupero, nell’area del sacro, della figura femminile (necessità/opportunità di cui si è ripreso a parlare anche in questo nostro tempo).

 

Note

1 – Marcello Gaballo-Armando Polito – Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille – Fondazione Terra d’Otranto – 2017 – pag. 7.

2 – https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/; https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/

3 – Sul tema, a mio parere, è interessante e degno di attenzione anche il lavoro di:

Giulia Giustiniani – Gli esordi critici di Emile Mâle: la tesi in latino sulle Sibille, disponibile all’indirizzo: https://mefrm.revues.org/1527, a cura di Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge.

4 – http://www.comune.contursiterme.sa.it/index.php?action=index&p=524; http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5375

http://www.ildialogo.org/Allegati/ILMATTINOSalerno26032012.jpg

5 – Federico La Sala – Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica, prefazione di Fulvio Papi, Ripostes, Salerno, 1996 e Nuove Scritture, Milano, 2013.

6 – Questa impostazione, senza le Sibille, è presente anche all’interno della Grotta di San Michele Arcangelo (IX-X sec.), ad Olevano sul Tusciano (SA), anche se il sito ha peculiarità proprie, con affreschi presenti nella parte anteriore dell’antro, e il percorso penitenziale si sviluppava andando verso l’interno della Grotta fino al buio totale.

 

* L’articolo è apparso nel n° 253″ del mensile “Il Saggio” di Eboli (Aprile 2017)

Nardò: una lettera del 1872 e un miracolo d’altri tempi …

di Armando Polito

Chi crede che il servizio postale italiano sia immune dai difetti del passato per quanto riguarda la celerità nella consegna della posta si sbaglia, e di grosso. Basta una rapida indagine in rete per scoprire che perdurano ritardi e smarrimenti, sicché quanto sto per documentare sembra quasi prodigioso.

Si tratta della busta di una lettera spedita da Nardò il 12 ottobre 1872, in vendita su eBay (non riportoil link perché sarebbe pubblicità, sia pure non intenzionale).  L’affrancatura è un Vittorio Emanuele II da 20 cm., la cui emissione risale al 15 aprile 1867. Lo riproduco in un’immagine più grande e chiara tratta da http://www.ibolli.it/php/em-italia-21-Effigie%20di%20Vittorio%20Emanuele%20II%20in%20cornice%20rettangolare.php.

Da notare l’annullo numerale a punti, sistema entrato in vigore il 1° maggio 1866. Sulla corrispondenza era quindi apposto anche il timbro con le indicazioni della data oltre che l’annullo sul francobollo riportante il numero distintivo dell’ufficio, nel nostro caso 1525, chiaramente e integralmente leggibile sulla busta, mentre sul francobollo è leggibile perfettamente solo l’ultima cifra, parzialmente la penultima. La missiva è indirizzata A Sua Eminenza Illu(strissi)ma e R(everendissi)ma Il Cardinale Penitenziere Maggiore Roma.  Si tratta del Cardinale Antonio Maria Panebianco, dell’ordine dei Frati Minori Conventuali, che fu penitenziere maggiore dal 17 gennaio 1867 al 15 ottobre 1877.

Di seguito, tratti da http://www.ibolli.it/php/em-italia-21-Effigie%20di%20Vittorio%20Emanuele%20II%20in%20cornice%20rettangolare.php, il suo stemma ed alcuni ritratti.

Il Fratelli Alessandri che si legge in alto va corretto in Fratelli D’Alessandri. Antonio e Paolo Francesco furono titolari a Roma di uno studio fotografico rinomato anche all’estero. Numerose loro fotografie sono conservate in musei ed archivi di tutto il mondo.

Purtroppo la ricostruzione non è completa, mancando il nome del mittente. Il rammarico è maggiore perché, essendo la missiva partita da Nardò, è molto probabile che esso fosse un concittadino e voglio sperare che, a distanza di tanti anni, nessuno osi sospettare che la mia amarezza sia di tipo gossiparo (inutile cercare questa voce, l’ho creata io sul momento).

Torno alla descrizione del resto della busta: il bollo del terzo inferiore attesta il suo passaggio per Galatone nello stesso giorno, cosa non eclatante, almeno in teoria …, dal momento che i due centri distano tra loro meno di 6 km. Il terzo restante della busta reca tre timbri attestante il primo il passaggio per Foggia il 12, il secondo per Cassino il 13 e l’ultimo l’arrivo a Roma il 14. Non è male, pensando ai nostri,  un miracolo d’altri tempi, tanto più che il 13 ottobre 1872 era domenica?

Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia (seconda parte)

di Nazareno Valente

Il canonico Pasquale Camassa, che noi brindisini amiamo chiamare papa Pascalinu, quando scrisse la sua opera più conosciuta su Brindisi1, non intendeva certo fare un saggio ma piuttosto riprendere le antiche glorie per adeguarle alle mode del tempo, con l’evidente scopo di tirare più acqua possibile al mulino della nostra città. La romanità allora era in auge, anche nel saluto, ed era quello il motivo che Camassa intendeva sfruttare, unitamente ai valori ed ai simboli (ad esempio, fedeltà, missione storica, aquile romane) che facevano audience.

Purtroppo quella che era stata la maggiore grandezza della Brindisi romana, vale a dire l’essere stata una colonia di diritto latino, era in quel periodo poco spendibile perché il termine stesso di colonia evocava uno stato di sudditanza e cantilene in cui lo stivale s’allungava per portare il progresso. Naturalmente c’è una differenza abissale tra le colonie dedotte dai Romani e quelle avviate nel periodo ottocentesco e agli inizi del secolo scorso, tuttavia papa Pascalinu non poteva operare su queste diversità, troppo difficili da cogliere da parte di chi non ha conoscenze specifiche sull’argomento, e preferì giocare su effetti più facilmente comprensibili. Solo che ciò voleva dire incidere sui fatti, piegandoli in maniera ingannevole all’obiettivo che s’era proposto.

ArticoloWikipediaBrindisi2parte

Innanzitutto, tanto per non dare il sapore dei parenti poveri, fa diventare la colonia da latina a romana; poi la dice «formata di cittadini romani, tra cui si noveravano famiglie nobili e consolari»2 e questo perché l’Urbe intende «tenersi amica e affezionata questa città»3. Ora, se si considera che persino i plebei erano restii ad iscriversi alle liste coloniali, anche per destinazioni non troppo lontane da Roma — come, per esempio, nel caso di Anzio — nel timore che fosse una scusa per trasferirli («Ἦν δ´ οὐκ ἀγώνισμα πᾶσι τοῖς πολλοῖς καὶ πένησι Ῥωμαίων ἡ διανομὴ τῆς χώρας ὡς ἀπελαυνομένοις τῆς πατρίδος»4), appare del tutto inverosimile che lo facessero spontaneamente i nobili ed i consolari, in aggiunta rinunciando al potere ed agli onori spettanti al loro rango. D’altra parte lo stesso Camassa, senza volerlo, svela che la sua è una vera e propria invenzione quando, pensando di aggiungere blasone ai coloni arrivati a Brindisi, si contraddice clamorosamente ricordando che essi provengono «in buona parte dalla tribù Palatina»5, vale a dire proprio da una delle quattro tribù urbane composte unicamente da plebei poveri in canna, e quindi la meno aristocratica possibile6.

L’artifizio gli fa anche ipotizzare che i Romani «deducendo a Brindisi una loro colonia, ebbero in animo non di far pesare su questa città i loro diritti di dominatori, ma intesero di collaborare unicamente ai naturali del luogo»7 perché essa «fosse posta in condizione di vedere dal suo magnifico porto spiccare arditamente il volo le aquile romane, e in esso ritornare stringendo tra gli artigli le palme della vittoria»8. In pratica, sembra che i coloni arrivano a Brindisi più per la gloria di questa città che per l’Urbe. In ogni caso, la collaborazione è talmente attiva che nel volgere di pochi anni la città salentina diviene «Municipio, con tutti i diritti annessi alla cittadinanza romana»9 ed il passaggio è talmente repentino da consentire a Camassa di citarla «colonia e municipio romano»10, come se le due diverse configurazioni giuridiche fossero un tutt’uno.

Con piccoli espedienti narrativi papa Pascalinu oscura così il passato di colonia latina, in modo da garantirsi che nessuno dei suoi contemporanei possa equivocare sul termine e sminuire così la romanità della città.

Operazione riuscita perfettamente, se anche alcuni nostri contemporanei si sono lasciati convincere dalla sua tesi, come abbiamo già potuto verificare la volta scorsa su Wikipedia e su scritti recenti di cronisti brindisini. Ironia della sorte, pur non essendoci più in gioco i superiori interessi cittadini, continua ad essere tenuto nascosto o mascherato, quasi fosse una vergogna, ciò che dovrebbe invece essere motivo di vanto.

Ma ritorniamo a quel 5 agosto 244 a.C., giorno in cui i coloni entrarono nella città rifondata con il nome di Brundusium. Nelle loro fila non c’erano nobili o consolari ma certamente un sufficiente gruppo di equites11 romani e latini, magari non di eccelsa schiatta, ed anche parecchi aristocratici brindisini12.

Gli stati d’animo erano probabilmente contrastanti: i Romani che univano, alla tristezza d’essere tanto lontani dalla loro città, la soddisfazione d’avere finalmente una buona proprietà di cui disporre; i maggiorenti brindisini che, all’amarezza del ridimensionamento della loro posizione politica, mescolavano la gioia di rientrare in possesso dei propri possedimenti, sia pure probabilmente in misura ridotta. La formula giuridica imposta era la più favorevole per lo sviluppo della città che, data la posizione strategica, poteva contare sul costante appoggio dell’Urbe e, al tempo stesso, su una formale autonomia. La cittadinanza romana era, invece, per entrambi i gruppi un problema di secondaria importanza: averla o no, a quella distanza dalla città eterna, non comportava concrete differenze.

Dione, nell’epitome di Zonara, afferma che Roma s’era impossessata di Brindisi perché dotata d’un buon porto che costituiva un punto d’arrivo e di sbarco per chi naviga dall’Illiria e dalla Grecia («ὡς εὐλίμενον καὶ προσβολὴ καὶ κάταρσιν ἐκ τῆς Ἰλλυρίδος καὶ τῆς Ἑλλάδος τοιαύτην ἔχον»13) ponendo in chiaro che, almeno inizialmente, non c’era un interesse generale per i commerci adriatici quanto piuttosto la necessità di evitare che la città salentina, lasciata sguarnita, potesse costituire un facile approdo per chi intendesse portar guerra nella penisola italica. È quindi in funzione difensiva, soprattutto per garantirsi dalla minaccia dei pirati illirici e dai sogni di gloria di sovrani tipo Pirro, che viene decisa l’acquisizione di Brindisi e l’invio, successivamente, d’una colonia.

Dei primi anni di vita della colonia il tempo ci ha lasciato solo alcuni frammenti, tra i quali significativo è quello che emerge dall’epigrafe (un elogium) trovata a Brindisi nel 195014. L’elogio fa ritenere che, sino al 230 a.C., Roma s’incaricò di nominare le magistrature della colonia, forse perché desiderava che si creasse una certa coesione tra le varie componenti, prima di consentire che le investiture fossero effettuate localmente. È questo un anno cruciale perché si accentuano le scorrerie degli Illiri e Roma nella primavera del 229 a.C. decide d’intervenire. Polibio ci narra così il primo uso del porto di Brindisi nelle spedizioni per l’Oriente ed è Postumio, uno dei due consoli di quell’anno, ad inaugurare questa lunga tradizione facendo compiere la traversata per Apollonia a ventimila fanti e duemila cavalieri («Ποστόμιος τὰς πεζικὰς διεβίβαζε δυνάμεις ἐκ τοῦ Βρεντεσίου, πεζοὺς μὲν εἰς δισμυρίους, ἱππεῖς δὲ περὶ δισχιλίους»15).

Un’immagine questa ricorrente, che ci consegna la visione ampiamente nota di Brindisi utilizzata quale base militare privilegiata per l’espansione in Oriente, ma che sottolinea al contempo un aspetto spesso taciuto: Roma nel perseguire questo suo obiettivo strategico finisce inevitabilmente per salvaguardare gli interessi mercantili di Brindisi che avrà così la possibilità di prosperare sino a diventare una delle città più rinomate del mondo romano. Si spiega in questo modo anche la fedeltà che la colonia brindisina dimostrerà immutata pure nei frangenti più difficili, come in occasione della guerra annibalica quando le comunità salentine per lo più defezionano consegnandosi al nemico («Ipsorum interim Sallentinorum ignobiles urbes ad eum defecerunt»16).

Questa convergenza di interessi esalta ancor più la situazione di vantaggio che Brindisi fruisce in quanto colonia latina e la rende del tutto impermeabile, checché

ne vogliano credere Wikipedia e taluni cronisti brindisini, a rivendicazioni volte a modificarne l’assetto giuridico. La cittadinanza romana non è un problema per i brindisini neppure per i decenni seguenti, quando in parte del mondo italico inizia invece a prender corpo proprio in concomitanza con le conquiste del ricco Oriente dei cui benefici gli italici intendono essere partecipi. Sino ad allora, interessa per lo più le zone vicine a Roma e coloro che in qualche modo intendono risiedere nell’Urbe.

Se ne intuisce un’avvisaglia in un passo di Livio in cui i delegati di ogni parte del Lazio17, ricevuti in Senato nel 187 a.C., lamentano che i loro concittadini sono emigrati a Roma e si sono fatti lì censire («legatis deinde sociorum Latini nominis, qui toto undique ex Latio frequentes convenerant, senatus datus est»18). Il che implica che, essendo divenuti cittadini romani, di fatto creano dei vuoti nelle comunità d’origine che hanno conseguentemente problemi a fornire il contingente di soldati richiesto dall’Urbe. Analoga lamentela si ripropone dieci anni dopo ed è sempre Livio a farcelo sapere19. In questo caso ci sono inviati del Lazio, Peligni e Sanniti e, quindi, esponenti di cittadine centromeridionali e non dell’estremo sud. In entrambi i casi il Senato decide l’espulsione di chi, in maniera più o meno fraudolenta, ha utilizzato lo ius migrandi per risiedere a Roma ed ottenere così la cittadinanza romana.

In ogni caso, Brindisi ed il resto del Salento non sono sfiorate da questi tentativi che, com’è evidente, coinvolgono città che, trovandosi più prossime a Roma, possono meglio sfruttare gli eventuali privilegi politici derivanti dal possesso della cittadinanza romana. Ciò non toglie però che con il passar del tempo la questione si allarghi coinvolgendo tutti gli strati sociali e le diverse regioni italiche, perché il requisito della cittadinanza inizia a dare evidenti benefici economici e fiscali ai suoi possessori e discrimina in particolar modo le città federate. Infatti dal 167 a.C., grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non è più richiesto20 e, pertanto, i cittadini romani godono dell’immunità finanziaria21 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuano a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che forniscono a Roma. Pur partecipando agli oneri della conquista, gli Italici non ottengono quindi i relativi vantaggi, e ciò non può che esasperarne gli animi.

Che la situazione vada via via incancrenendosi lo si può ricavare dai progetti di legge, che vengono invano messi in discussione nella seconda metà del II secolo a.C. con l’intento di risolvere la questione22, e lo ius adipiscendae civitatis per magistratum con cui si va incontro alle richieste dei notabili delle colonie latine concedendo la cittadinanza romana a chi ha ricoperto una magistratura locale23.

Ma i fatti che aggravano la protesta sono la riforma dell’esercito e la lex Licinia Mucia.

La riforma prevede che per la prima volta i capite censi (i nullatenenti) possano accedere alla carriera militare: una rivoluzione che comporta una vera e propria possibilità di avanzamento sociale ed economico per le classi più umili. Solo che tale occasione è preclusa agli Italici che, pertanto, si vedono esclusi anche da questo ulteriore beneficio.

La legge, che prende nome dai due consoli del 95 a.C., istituisce invece una commissione giudicante (quaestio) incaricata di verificare se tutti gli Italici residenti a Roma lo siano legittimamente e, in caso negativo, decidere l’espulsione ed il loro ritorno nelle città d’origine («de redigendis in suas civitates sociis»24).

Quando poi Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia25ad dandam civitatem Italiae»26), viene ucciso nel 91 a.C. per impedire che il provvedimento sia votato, molte delle città federate concludono di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente senza attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, diviene talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Inizia così la guerra sociale.

Con l’eccezione di Venusia, le colonie latine non aderiscono alla rivolta e preferiscono mantenersi fedeli all’Urbe, in parte perché la situazione dei propri abitanti è decisamente migliore rispetto a quella dei socii; in parte perché le classi dirigenti, accontentate con la concessione dello ius adipiscendae civitatis per magistratum, rappresentano un valido deterrente contro ogni possibile protesta. Brindisi pertanto si schiera con Roma, e questo è un motivo sufficiente per convincere le altre comunità salentine a fare lo stesso. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»27 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede.

ColonieLatinePerArticolo

L’esito della guerra rimase in bilico, finché, su rogatio28 del console Lucio Giulio Cesare, si decise con lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda del 90 a.C. di concedere la cittadinanza romana ai Latini ed agli alleati che o non avevano preso le armi o le avrebbero deposte molto presto («qui arma aut non ceperant aut deposuerant maturius»29). Come giustamente riassume Appiano: con questo atto, il senato rafforzava i legami con chi gli era rimasto fedele, guadagnava alla sua causa gli incerti e indeboliva, con la speranza d’un analogo provvedimento, coloro che avevano rotto il sodalizio ed erano scesi in guerra («καὶ τῇδε τῇ χάριτι ἡ βουλὴ τοὺς μὲν εὔνους εὐνουστέρους ἐποίησε, τοὺς δὲ ἐνδοιάζοντας ἐβεβαιώσατο, τοὺς δὲ πολεμοῦντας ἐλπίδι τινὶ τῶν ὁμοίων πραοτέρους ἐποίησεν»30).

Con le buone (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) o con le cattive (la spietata determinazione di Silla) la rivolta fu sedata e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina ottennero la cittadinanza romana.

La cittadinanza romana fu quindi in linea teorica concessa a Brindisi e alle altre comunità salentine nel ’90, però per la concreta fruizione la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri31, formula rimasta non del tutto chiarita ma che probabilmente implicava che le comunità aderissero preliminarmente alla totalità delle norme municipali o più in generale del diritto romano. Dopo l’accettazione del fundus fieri, su cui ritorneremo tra breve, c’erano un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane. Quando questi adempimenti si siano effettivamente svolti rimane un mistero32: quasi insieme alla guerra sociale era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, per cui era un periodo in cui le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione degli avvenimenti.

Si può pero ipotizzare che il censimento, con cui s’includevano i novi cives, fu fatto con ogni probabilità nell’86 a.C. oppure l’anno successivo, mentre la distribuzione tra le tribù fu oggetto di vari provvedimenti con i quali le due fazioni in lotta tentarono di far prevalere il proprio punto di vista. Pare certo che Silla, volendo contenere il peso politico dei nuovi cittadini, li distribuì in otto, o al massimo dieci, delle trentacinque tribù esistenti33; Mario e Cinna, che invece volevano garantirne i pieni diritti, li ripartirono tra tutte le tribù. E fu questa la decisione definitiva, presa all’inizio dell’83 a.C. o, più presumibilmente, alla fine dell’anno precedente. A questo punto, la data più plausibile per l’effettivo conferimento della cittadinanza romana a Brindisi, e della sua costituzione a municipium, sembrerebbe l’83 a.C., come per le altre città salentine.

Ma c’è un altro aspetto che meriterebbe d’essere analizzato e che viene spesso trascurato, forse perché si dà per scontato ciò che non scontato non è, vale a dire che tutti, pur di ottenere la cittadinanza romana, fossero disposti a rinunciare a qualsiasi cosa. Riconsideriamo pertanto il codicillo del fundus fieri che, come già riportato, qualora non fosse stato accettato, avrebbe precluso l’accesso alla cittadinanza romana, e quindi lasciato la comunità nello stato giuridico precedente.

Per quanto letteralmente indecifrabile, la clausola non pone dubbi interpretativi sul perché le autorità romane intesero inserirla nella lex Iulia. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città italiche che le erano rimaste fedeli. Ma tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Dal punto di vista dell’Urbe, era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità sacrificavano l’autonomia che gli statuti precedenti avevano accordato loro e accettavano, in cambio, di essere inglobati nel territorio romano con la struttura dei municipia.

Tutto ciò era ragionevole per chi, per ottenere la cittadinanza romana, aveva preso le armi; ma lo era anche per gli alleati italici e le colonie latine che, essendosi opposti alla rivolta, avevano di fatto manifestato di preferire le condizioni giuridiche vigenti? Possibile che nessuna di queste comunità abbia espresso il desiderio di rimanere nello stato precedente al conflitto?

Spulciando bene, si scopre che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret »34). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine la clausola fu accettata, non è dato di sapere, sebbene sia facilmente immaginabile che Roma abbia attuato qualche fattiva azione di convincimento. Lo si presume dal successivo passo in cui Cicerone afferma che in conclusione, grazie alla forza della legge e della parola («Postremo haec vis est istius et iuris et verbi»35), anche le due città giunsero alla ratifica.

D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero qualche malumore. Verrebbe così da chiedersi: Brindisi era fra chi mugugnava? oppure si sentì privilegiata a farsi fondo ed a mutare la propria configurazione istituzionale da colonia latina a municipium?

Ragionevolmente non si può pensare che vi sia stato soverchio entusiasmo, anche perché il municipium non era certo il più desiderabile degli assetti giuridici possibili, come troppo spesso si sente argomentare36; al contrario le fonti ci offrono qualche indizio che inducono a credere che Brindisi accettò sì la soluzione ma non certo di buon grado.

Riprendendo il passo di Cicerone della scorsa puntata, quando l’oratore ci narra di aver incontrato la figlia Tulliola nel giorno in cui coincidono casualmente il compleanno della fanciulla e l’anniversario della fondazione della colonia brindisina («ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae»37), scopriamo infatti che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione in municipium, il precedente stato giuridico è ancora ricordato e celebrato.

Altro indizio. Abbiamo già riportato come Silla non fosse molto ben predisposto verso i nuovi cittadini romani che, quindi, temevano che egli volesse rimettere in discussione i diritti politici già concessi da Cinna38 e cercavano coerentemente di non favorirlo. Eppure nell’83 a.C., di ritorno dall’Oriente e con l’intenzione di chiudere il conto con la parte avversa, Silla sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo: riceve un’accoglienza talmente inaspettata che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»39).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo e, soprattutto, quello giurisdizionale che sarebbe passato ai prefetti delegati dal pretore urbano. Senza contare – e non era questione di poco conto – che si vedevamo sottratta la possibilità di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

In effetti c’è motivo per ritenere che una qualche nostalgia per il passato ebbe forse modo di palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

Certo è che in quel lontano 83 a.C., la colonia di diritto latino chiudeva i battenti lasciando spazio al municipium (cives optimo iure) di Brindisi ed i Brindisini diventavano cittadini romani, essendo stati iscritti nella tribù Maecia.

Più o meno nello stesso periodo assumevano la stessa configurazione tutte le città italiche, sicché il territorio a sud della Gallia Cisalpina divenne romano.

 

Note

1 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.

2 P. Camassa, Cit., p. 6.

3 P. Camassa, Cit., p. 6.

4 Dionigi d’Alicarnasso (I secolo a.C.), Antichità romane, IX 59, 2.

5 P. Camassa, Cit., p. 6.

6 Si pensi inoltre che ancora due secoli dopo, quando ormai la zona era pacificata e romanizzata, risultarono per lo più vani i tentativi di ripopolare la Puglia per i guasti inferti da Annibale, perché considerata troppo lontana da Roma.

7 P. Camassa, Cit., p. 8.

8 P. Camassa, Cit., p. 8.

9 P. Camassa, Cit., p. 7.

10 P. Camassa, Cit., p. 8.

11 Non esistono dati sulla colonia brindisina ed è pertanto possibile solo stimarne il quantitativo in base a quelli noti per altre colonie latine dello stesso periodo. In tal senso, si ritiene che i coloni dovessero essere almeno 6.000, di cui circa 200 equites.

12 Anche in questo caso, rinvio per un maggior dettaglio allo studio sulla conquista del Salento e sull’assetto organizzativo della Brindisi romana, che spero di completare per gli inizi della primavera prossima.

13 Dione (II secolo d.C – III secolo d.C.), Storia romana., in zonara (XI secolo d.C – XII secolo d.C.), Epitome, VIII 7, 3.

14 L’epigrafe è conosciuta come l’elogio di Brindisi.

15 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 11, 7.

16 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXV 1, 1.

17 Il passo è variamente inteso dagli storici soprattutto riguardo al fatto se riguardi i Latini in senso stretto oppure anche i socii italici.

18 Livio, Cit., XXXIX 3, 4.

19 Livio, Cit., XLI 8, 6 – 12.

20 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

21 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

22 Il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e successivamente Gaio Sempronio Gracco proposero invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine.

23 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, a.c. clark, 1907, p. 3.

24 Asconio (… – II secolo d.C.), Pro Cornelio, a.c. clark, 1907, p. 68.

25 In quel periodo s’intendeva la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

26 Velleio Patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

27 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (18.12.2017).

28 Proposta.

29 Velleio Patercolo, Cit., II 16, 4.

30 Appiano (I secolo d.C.– II secolo d.C.), Le guerre civili, I 6, 49.

31 Letteralmente, farsi fondo, dove fondo va inteso nel senso di appezzamento di terreno.

32 Si vedano sulla questione: Velleio Patercolo, Cit., II 18, 5-6; Appiano, Cit., I 55-56; Livio, Periochae. LXXVII.

33 Si deve tener presente che ogni tribù esprimeva un solo voto e, quindi, distribuire i nuovi cittadini in un numero limitato di tribù significava ridurre il numero di voti che essi potevano esprimere.

34 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

35 Cicerone, Ibid., VIII 21.

36 Ad esempio, in G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, p. 28, il Municipium è indicato come «la massima delle varie categorie previste».

37 Cicerone, Epistole ad Attico, IV 1, 4.

38 In tal senso, T. Mommsen, Storia di Roma, III, La rivoluzione sino alla morte di Silla, Anonima Edizioni Quattrini, Roma 1936, p. 385.

39 Appiano, Cit., I 9, 79.

 

Per la prima parte si rimanda qui:

Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia cittadina (prima parte)

Integrazioni a proposito di Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

di Luciano Antonazzo

A proposito di quanto riportato in questo sito dal prof. Polito circa il suo post su “Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo”, riporto alcune mie considerazioni ed osservazioni, che vanno a completare

Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

Innanzitutto tengo a precisare che, contrariamente a quanto fin qui sostenuto da tutti gli studiosi locali, l’antica cattedrale gotica di Ugento non fu distrutta dai turchi nel 1537, ma che la stessa, benché danneggiata, sopravisse fino al 1735, anno in cui fu demolita per portare a compimento l’erezione dell’attuale.

Venendo ai toponimi indubbiamente quello di “Casato di Amore” si riferisce ai Marchesi di Ugento, mentre quello che sembra “lo Vicale” è da leggersi “lo Vitale”, chiaro riferimento alla facoltosa famiglia Vitale che, originaria di Otranto, verso il 1670 troviamo diramata in Ugento con l’UID Carlo Vitale.

Il toponimo che sembra “Abinienio” ritengo sia da leggersi “Abiniente”, nome di una nobile famiglia salernitana (denominata anche Abignente) alla quale apparteneva quel Marino che nel 1503 prese parte alla disfida di Barletta. Anche gli Abignente, come i Vitale, sono attestati in Ugento nella seconda metà del XVII secolo e sono menzionati da Giovan Battista Pacichelli (Il Regno di Napoli in prospettiva) tra le famiglie più in vista di Ugento.

Conseguentemente credo che anche il toponimo “il Grossa” faccia riferimento ad una qualche famiglia, ma comunque non di Ugento.

Per quanto riguarda la “Torre di Sansone” credo che corrisponda all’odierna Torre Sinfonò (in epoche precedenti detta anche Sanfono o Sonfono). L’attuale denominazione è a mio avviso dovuta ad una errata lettura della “s” minuscola che nella scrittura e nella stampa dei secoli passati veniva resa come una “f”.

Vengo ai toponimi “Scopulo detto del Barro”, “scopulo detto lo Fiorlito” e “Punta della volta”. I due scogli (dal lat. scopulus-i) di fronte a Torre Mozza[1] fanno parte del complesso di isolotti e bassi fondali che sono conosciuti come Secche di Ugento, denominate localmente “Scoglio di Pirro” in quanto, secondo la tradizione (o la leggenda), vi si incagliarono alcune navi di Pirro col loro carico di uomini, cavalli ed elefanti. E poiché “scopulo detto lo Barro” significa “scoglio detto l’elefante” (dal lat. Barrus-i = elefante) ne consegue che il toponimo potrebbe rimandare a detta tradizione. Non è da escludere però che lo stesso fosse così denominato perché la sua conformazione potrebbe vagamente richiamare la proboscide di un elefante[2].

Per quanto riguarda la “Punta della Volta”, tale toponimo si riferisce alla punta del promontorio di fronte all’isola Fiorlita e non alla stessa, come vorrebbe G. Battista Rampoldi. Così come probabilmente si sbaglia nel sostenere che il promontorio è “ugualmente chiamato della Volta”. A parte il suo testo da nessuna altra parte infatti si rinviene tale nome. Verosimilmente tale denominazione deriva dal fatto che i cavallari che controllavano la costa per prevenire incursioni dei Turchi, giunti all’altezza di questo sperone di scogliera “voltavano”, ossia invertivano il loro percorso. E’ quanto sembra potersi dedurre da alcuni atti notarili del maggio 1678 dai quali risulta che dall’Isola di “Pazze” e fino “alle Tre Fontane” (od. Fontanelle) il controllo della costa era demandato a cavallari di Ugento e che dalle “Tre Fontane” a “Pietra Lagna” il controllo era di spettanza dei cavallari di Presicce. E’ altresì precisato che i “posti” guardati dai cavallari di Ugento erano denominati Nervio e Pazze, mentre quelli di Torre Mozza, guardati dai cavallari di Presicce, erano denominati “della punta della vota[3], fiume grande, Petralagna”.

Tornando all’isola Fiorlita, essa indubbiamente corrisponde all’odierna Giurlita detta anche “Isola della Fanciulla[4] per via di una leggenda che Salvatore Zecca riporta nel suo Portus uxentinus vel salentinus.

Secondo questa leggenda “in tempi remoti” alcuni pescatori doppiando l’isolotto videro “arenato un corpo esanime di fanciulla, avvolta in una tunica bianca” indumento che, assieme ad altri indizi, indusse a ritenerla greca. Dai crostacei annidati nella sua veste si dedusse che il corpo era da molto tempo in mare, ma ciononostante “il suo volto era fresco e sorridente”. I pescatori la portarono a terra e poiché non dava segni di decomposizione, “la esposero all’altrui sguardo, adorandola come una Deità: poi la riportarono nei pressi dell’isola e ve la ancorarono su quei fondali”. In seguito diversi pescatori giurarono che “in qualche notte buia e tempestosa, nel doppiare il pericoloso isolotto, più di una volta avevano notato una tunica bianca garrire al vento, a monito del pericolo cui si andava incontro[5].

La stessa leggenda, con qualche lieve variante, viene riportata anche da Sofia Nicolazzo. Ella riferisce che in una notte del 1800 (!?) i pescatori della marina di Ugento, nel ritirare le loro reti videro galleggiare sull’acqua, illuminato dalla fioca luce delle loro lampade, il corpo di una fanciulla. Addosso “aveva un abito greco, conchiglie attaccate alla sua gonna ed ai suoi calzari dorati: erano documenti inconfondibili del lungo sostare nel fondo marino. Nella spalla sinistra uno squarcio nell’abito con un alone di sangue…”. Credettero che fosse una santa e portatala a terra la adagiarono in un’urna di cristallo e quando uscivano al largo per il loro lavoro si raccomandavano a lei. Nelle notti tempestose vedevano la fanciulla che indicava loro il cammino e ne udivano la voce che, accompagnata dal sibilo del vento, reclamava la restituzione del suo corpo. Fu così che “in un giorno calmo e sereno, i pescatori raccolsero tutti i fiori delle contrade, e adagiata sulla barca la cassa, la coprirono con questa coltre profumata”. I pescatori della barca con la salma a bordo, accompagnati da altre barche a loro volta piene di fiori, giunti sul posto dove il corpo della fanciulla era stato rinvenuto, calarono in mare la cassa di cristallo: “In un primo momento l’urna galleggiò in quell’onda fiorita: poi lentamente sprofondò[6].

Probabilmente deriva da questo particolare rito funebre che deriva la denominazione di Isola Fiorlita: il suo significato è infatti “ isola cosparsa di fiori” (dal lat. flos –is = fiore, e litum da lino, livi, litum, ere = stendere, cospargere).

 

 

[1] In una carta topografica realizzata presso la stamperia di Michele Luigi Mutio (Torino 1665 ca – 1722) sono invece rispettivamente denominati “Scoglio di Bare” e “Fiorlita”, sottinentendosi isola,

[2] Tale scoglio non è oggi più visibile per essere stato sommerso dall’acqua. Di contro sono numerosi i locali e ed i complessi turistici della zona denominati “Scoglio di Pirro”.

[3] Nel dialetto ugentino la stessa era definita “Punta della Ota”, da “utare” o “otare” = girare. (Cfr. S. ZECCA, Portus Uxentinus vel salentinus, Editrice Mariano, Galatina 1963, p. 39.

[4]Proprio come l’isoletta che sta di fronte alla marina di Torre Pali e la cui denominazione a sua volta deriva da una leggenda risalente al 1547.

[5] S. ZECCA, Portus uxentinus vel salentinus, cit. pp. 62-63.

[6] S. NICOLAZZO, Ausentum nell’Ausonia . Favolette-Leggende-Bibliografie, Tip. Marra, Ugento 1978, pp. 102-103.

L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto

Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino
Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino

 

di Marcello Gaballo

Giovanni Greco, storico e giornalista copertinese, il 28 dicembre prossimo, alle ore 19, presso il salone dell’ex Seminario, di fronte alla Cattedrale di Nardò, sarà uno dei due relatori che si alterneranno nella serata dedicata alle opere “ritrovate”, che troveranno degna collocazione nel Museo Diocesano di Nardò.

Il titolo del suo intervento è “L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto”, in considerazione che una delle opere è il Battesimo di Gesù, di recente restaurata dall’Impresa Leopizzi 1750, proveniente dalla chiesa copertinese delle Clarisse.

L’opera pittorica del frate cappuccino, Angelo da Copertino, al secolo Giacomo Maria Tumolo (Copertino 1609 – 1682 ?), oltre ad apparire sintonizzata con l’atmosfera del Seicento, si ricollega al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca, di cui questo frate rimase “contaminato” nel decennio 1658-68, allorchè fu chiamato a Roma da Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per rivestire la carica di conservatore delle pitture vaticane.

Rimasto a lungo ai margini della critica, frà Angelo è stato riscoperto sul finire dell’800 dagli storici locali, che lo annoverarono tra i pittori di pregevoli dipinti.

Studi e ricerche hanno comprovato la sua presenza in diverse comunità di frati cappuccini di Terra d’Otranto, dove lasciò l’impronta della sua pittura in un periodo in cui l’arte era divenuta efficace strumento propagandistico di prestigio.

Attraverso la pittura questo frate-pittore fornì un valido contributo all’evoluzione dell’arte in Terra d’Otranto nel XVII secolo, riprendendo quel repertorio di cui la Chiesa del periodo controriformistico continuò a servirsi per consolidare la fede cristiana.

Senza ombra di dubbio possiamo affermare che la sua sensibilità artistica, nutrita dai colti moduli napoletani e romani, fu talmente alta nel disegno e nelle espressioni cromatiche tanto da offrire risultati pittorici decisamente fuori dei limiti di una produzione artigianale di carattere devozionale, così da dovergli riconoscere un ruolo primario nell’ambito della pittura francescana del suo secolo.

Giovanni Greco, nel suo prezioso lavoro Seicento pittorico sconosciuto: frate Angelo da Copertino (1609-1685)[1], aveva già segnalato numerosi dipinti autografi del religioso: Sant’Antonio di Padova (1636) nella chiesa dei Cappuccini di Ruffano, la prima opera a lui attribuita[2]; la Regina Martirum (1655) nella chiesa matrice di Copertino[3]; la Salus infirmorum (1682) nella chiesa Santa Maria delle Grazie di Copertino[4]; l’Immacolata (1682) nella chiesa San Francesco della Scarpa di Lecce (opera dispersa); il Perdono di Assisi (1684) nella chiesa dei Cappuccini (ora nella chiesa matrice) di Salve.

Privi di firma e data sono: il Sant’Antonio di Padova nella chiesa dei Cappuccini di Tricase; l’Angelo Custode, la Maddalena penitente e il Padreterno nella chiesa dei Cappuccini di Martina Franca; il Perdono di Assisi, l’Angelo Custode e San Michele Arcangelo nella chiesa dei Cappuccini di Nardò; il Perdono di Assisi nella chiesa dei Cappuccini di Alessano; il San Girolamo morente nella cattedrale di Nardò; l’Immacolata e santi nella cattedrale di Gallipoli; la Madonna del Carmine nella chiesa matrice di Melendugno; Sant’Anna e la Sacra Famiglia e la Traditio clavuum nella chiesa matrice di Galatina; San Francesco stimmatizzato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Copertino.

San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)
San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Altri studi hanno assegnato al nostro cappuccino la Trinità nella chiesa di Sant’Oronzo di Campi Salentina[5]; l’Immacolata e santi e Sant’Anna e la Vergine col Bambino nella chiesa matrice di Maglie[6].

Di recente ne ha trattato ampiamente anche Stefano Tanisi, per il quale è da “considerarsi un pittore “popolare”, poiché il suo linguaggio espressivo e compositivo comunicava ai devoti illetterati un’immediata e comprensibile narrazione visiva delle storie sacre. Le immagini, in linea con le finalità dell’arte riformata e, dunque, dell’ambiente cappuccino, del quale fra’ Angelo ne è chiaramente fautore, dovevano avere chiari intenti dottrinali, rispecchiando la dignità e la santità dei modelli, in modo da suscitare nel credente atti di fede e commozione”[7].

Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d'Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)
Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d’Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Lo stesso Tanisi riporta la stima nutrita per il frate dal vescovo di Nardò Antonio Sanfelice (Napoli 1660 – Nardò 1736), che nella visita pastorale del 1710 “rileva il dipinto con le immagini di San Francesco e le anime del Purgatorio collocato sull’altare di San Sebastiano nella matrice di Copertino, segnalando che l’opera è stata “depicta a celebre pictore frate Angelo de Cupertino ordinis capucinorum qui ab anno 1658 usque ad annum 1668 sub pontificatu sanctae memoriae Alexandri VII conservator fuit picturarum vaticani”, e che dunque il pittore, fra il 1658 e il 1668, fu nominato “conservatore delle pitture vaticane”.

Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)

 

Sempre Tanisi arricchisce il profilo scrivendo “nel 1719 il Sanfelice continuava a individuare e lodare diverse opere del pittore francescano: nella matrice di Casarano annota opere di fra’ Angelo, una nella cappella dello Spirito Santo, dipinta dal “celeberrimi Pictoris Cupertinensis, vulgo dicti del Capuccino”, e l’altra nella cappella delle Sante Anime del Purgatorio, che dal “celeberrimo Pictore Cupertinensi depicta est”[8].

E per concludere, lo stesso, nella sua lunga elencazione delle opere attribuite, annota il San Girolamo nella cattedrale di Nardò (sull’altare omonimo, secondo a destra), che il Sanfelice fa riportare nella visita come il dipinto sia “picta manu F. Angeli Capuccini Cupertinensis Pictoris aetate sua excellentissimi”[9].

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[1] In “Studi in onore di Aldo de Bernart”, Galatina 1998, pp. 43-56.

[2] Firmata e datata “Fra Ang. A Cup.no pingebat 1636”.

[3] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertinus Capuccinus A.D. 8bris 1655”.

[4] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertino Ca[ppuci]nus per sua devozione pingebat 1682”.

[5] Cfr. P. A. Vetrugno, Arte e Fede nel Salento del secolo XVII: la Ss. Trinità di Frate Angelo da Copertino, in “Lu Lampiune”, a. XVI, 1, pp. 119-126.

[6] cfr. E. Panarese – M. Cazzato, Guida di Maglie, Galatina 2002, p. 128.

[7] Cfr. S. Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò, in “Il Delfino e la Mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, n°3 (2014).

 

[8] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale chiesa matrice di Casarano, c. 61v.

[9] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale cattedrale di Nardò, c. 59.

Matino: due fogli di via obbligatori del passato

di Armando Polito

Il foglio di via obbligatorio come strumento preventivo per garantire la sicurezza pubblica con il fenomeno dell’immigrazione clandestina sta vivendo, credo, quella che comunemente si dice seconda giovinezza. Non intendo nemmeno sfiorare l’argomento della sua efficacia, anche se i reiterati reati con lo stesso protagonista, di cui le cronache si occupano giornalmente, mi fanno somigliare il foglio di via al tentativo di nascondere la polvere sotto il tappeto più che eliminarla. Non vorrei che l’ultimo verbo usato venisse interpretato strumentalmente, perché la sua carica semantica per me dovrebbe valere non solo nei confronti di colui che, disperato  o meno quanto si vuole, ha scelto di delinquere ma anche del potente che, anziché essere esautorato e sbattuto in galera, viene trasferito, in qualche caso con promozione; nel primo caso turismo delinquenziale di massa, nel secondo di élite …

Il mio interesse, dunque, è solo documentario e  non avendo preso visione, neppure per motivi indiretti …, di un foglio di via dei nostri tempi, non posso fare la comparazione formale con quelli del passato che mi accingo a presentare (il corsivo normale riproduce le parti a stampa, il grassetto le integrazioni a mano). Entrambe le immagini sono state tratte da eBay. Il primo documento  riguarda una donna nativa di Torremaggiore (FG) che alla data di emissione del documento (Torremaggiore, 12/9/1932) aveva 41 anni, com’è annotato nella colonna di sinistra insieme con la statura (1, 56), il colore dei capelli (castani), la fronte (giusta), le sopracciglia (regolari), il naso (regolare), la bocca (giusta), Nel foglio si dichiara che la donna residente a Matino circondario di ——- provincia di Lecce  ha ordine di trsferirsi a Matino  circondario di ——- provincia di Lecce  passando per ———- e di presentarsi all’autorità di P. S.entro gioni due cui dovrà rimettere personalmente il presente. Nella parte alta del documento si legge, scritto a mano, Diffidata ai sensi dell’art. 157 del T. U. delle leggi di P. S.

Il secondo documento, emesso a Lecce in data 15/2/1934  riguarda, invece, un ragazzo di 18 anni (unico dato riportato nella colonna a sinistra). Mentre nel documento precedente FOGLIO DI VIA era integrato con obbligatorio, quisi legge Foglio di via obbligatorio con mezzi. Il ragazzo, nato a Matino provincia di Lecce residente a Matino provincia di Lecce ha ordine di trasferirsi a Matino provincia di Lecce passando per (segue spazio non barrato) e di presentarsi al Podestà entro giorni uno cui dovrà rimettere (segue spazio non barrato) il presente.

Da notare nel primo documento figlio di … , mentre nel secondo si legge figlio die di …. ; nonostante in quest’ultimo fosse previsto appositamente lo spazio per il nome della madre, esso risulta vuoto.

 

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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