Lecce e una sua veduta cinquecentesca (3/4)

di Armando Polito

Bisogna riconoscere che ne valse la pena perché la nostra cinquecentina si colloca certamente al vertice della produzione editoriale dell’epoca in virtù della composizione, dell’apparato di tavole su cui mi sono soffermato, delle numerose immagini minori frammiste al testo e imitanti le miniature.

E i tipografi, infatti, non erano certo degli sconosciuti o alle prime armi, ma tra i più noti ed attivi a Venezia nella prima metà del XVI secolo: i fratelli Giovanni Antonio, Stefano e Pietro  De Sabbio (Il loro cognome era Nicolini, Sabbio Chiese, in provincia di Brescia,  il luogo d’origine).

Sotto i loro tipi passarono edizioni scarne e spartane, come altre molto raffinate, il che s’intuisce legato alla capacità economica del committente. Lo documento con la serie di frontespizi (ognuno col suo colophon) che seguono e che scandiscono pure, con il cambiare della marca editoriale, le tappe dell’attività dei fratelli tipografi.

Francesco Lucio Durantino, De optima reipublicae gubernatione, 1522

Una salamandra attorcigliata al fusto di un cavolo (alla base si legge BRASICA; brassica è il nome latino del cavolo, quello scientico brassica oleracea). Nel cartiglio avvolto anch’esso al fusto si legge IO(ANNES) ANT(ONIUS) ET FRATRES DE SABIO. La stessa marca, ma senza il cartiglio, ricorre in un volume del 1531 che sarà presentato più avanti.

Comedia chiamata Floriana, 1523

 

Aristotele, Περὶ ζώων γενέσεως, 1526

 

Dioscoride Pedanio, De medicinali materia, 1527

Federico Crisogono, De modo collegiandi, pronosticandi et curandi febres, necnon De humana felicitate, ac denique De fluxu et refluxu maris lucubrationes nuperrime in lucem edite, 1528

S. Bonaventura da Bagnorea, Stimulo de amore, 1531

Pietro Barozzi, De modo bene moriendi, 1531

Si ripete, ma senza il cartiglio, la stessa marca del volume del 1522.

Iacopo Sadoleto, De liberis recte instituendis, 1533

Bartolomeo Ricci, Apparatus latinae locutionis ex M.T. Cicerone, Caesare, Sallustio, Terentio, Plauto, ad Herennium, Asconio, Celso, ac De re rustica, 1533

Bartolomeo Spina, Regola del felice vivere de li Christiani del stato secolare …, 1533

Jean de Campen, Commentariolus in duas quidem D. Pauli, sed argumenti eiusdem, epistolas, alteram ad Romanos, alteram ad Galatas, 1534

Antonio Maria da Siena, Cieco errore, 1539

Leonardo Tuchs, Methodus seu ratio compendiaria, 1543

Ortensio Landi, Ragionamenti familiari di diversi autori, non meno dotti, che faceti, All’insegna del pozzo, 1550

 

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/28/lecce-sua-veduta-cinquecentesca-14/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/03/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-2-4/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/14/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-4-4/

Il santuario di Santa Marina a Ruggiano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Luciano Antonazzo, Per la storia del santuario di Santa Marina a Ruggiano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 345-367

 

 

ITALIANO

Sorto presumibilmente in età medievale nella piccola frazione di Salve denominata Ruggiano, il santuario di Santa Marina divenne in età moderna meta di consistenti pellegrinaggi, soprattutto grazie alle virtù miracolose per la cura del cosiddetto «male d’arcu» attribuite alla santa. In questo saggio, lo studio dei diversi interventi di restauro, ampliamento e ristrutturazione susseguitisi nei secoli, diventa l’occasione per un dettagliato excursus su un’interessante vicenda processuale che vide coinvolti, tra il 1738 ed il 1747, l’allora vescovo della diocesi di Ugento, mons. Arcangelo Maria Ciccarelli e l’arciprete Teodoro Fenizzi, da più parti accusato di lucrare sulle ricche elemosine destinate dai fedeli al santuario.

 

ENGLISH

Risen presumably in the medieval age in the little hamlet of Salve, named Ruggiano, the sanctuary of Santa Marina, became in the modern age, the goal of considerable pilgrimages, chiefly thanks to the miraculous virtues ascribed to the saint, for the cure of the so-called «male d’arcu». In this essay, the study of the many restoration repairs, extension and reorganization that ensued in the centuries, becomes the occasion for a detailed excursus about an important trial event that saw involved between 1738 and 1747, at that time the diocesan bishop of Ugento, mons. Arcangelo Maria Ciccarelli and the archpriest Teodoro Fersini, accused from all sides of gain on the rich alms assigned to the sanctuary by the believers.

 

Keyword

Luciano Antonazzo, Salve, Ruggiano, Santa Marina, male d’arcu

Le pergamene ritrovate. San Pietro in Bevagna in tre documenti di età normanna

di Nicola Morrone

 

Da tempo ci dedichiamo allo studio delle vicende storiche riguardanti la chiesa di San Pietro in Bevagna, presso Manduria (TA). Le nostre ricerche, iniziate nel 2003, hanno avuto come finalità immediata la stesura di una tesi di laurea sull’argomento, discussa nel 2005. Esse sono poi proseguite per tutto il quindicennio successivo, concretizzandosi in una serie di contributi pubblicati su varie riviste di storia locale.

Di recente, abbiamo avuto la fortuna di rinvenire le copie fotografiche di tre importanti documenti medievali riguardanti la chiesa, dei quali pareva non essere rimasta traccia.

Si tratta di tre documenti di età normanna (secc. XI-XII), regolarmente citati, e talora anche trascritti, dagli storici (non solo locali) che si sono occupati dell’argomento, anche in tempi recenti[1].

Non ricostruiremo in questa sede la storia della chiesa di San Pietro in Bevagna, già tracciata, nelle linee essenziali, da vari studiosi (anche se, soprattutto in relazione all’età medievale e moderna, sono ancora da compiere organiche ricerche d’archivio). Ci occuperemo invece di approfondire la “storia” di queste pergamene, scandita da poche, ma significative vicende.

 

Una storia travagliata

I documenti di cui trattasi fanno riferimento alla donazione, da parte del duca Ruggero Borsa (1060-1111) di alcune chiese con le relative pertinenze, al monastero benedettino di San Lorenzo di Aversa (CE). Tra le chiese donate al cenobio aversano, compare anche quella di San Pietro in Bevagna, con il vicino casale di Felline. Tale donazione fu formalizzata nel 1092 , e poi confermata nel 1102.

Tali vicende sono testimoniate da tre atti, cioè due del 1092 (donazione) e uno del 1102 (conferma). Lasciamo ai paleografi e ai diplomatisti lo studio dettagliato delle riproduzioni fotografiche (due delle quali, purtroppo, leggibili con difficoltà). Ci limitiamo a ribadire che si tratta di documenti fondamentali per comprendere la storia della chiesa di San Pietro in Bevagna, poiché fanno riferimento ad un momento decisivo: quello dell’ingresso della chiesa e delle sue pertinenze nell’orbita benedettina.

Le tre pergamene ebbero verosimilmente la loro primitiva collocazione nell’archivio (tabularium) del monastero di San Lorenzo di Aversa, cioè dell’ente cui il duca normanno aveva donato i beni[2]. I monaci dovettero conservare con cura gli atti, poiché essi attestavano i relativi diritti di possesso, fino a tutto il sec. XVIII.

Chiesa di San Lorenzo di Aversa.Leone stiloforo (sec. XI) (ph. Nicola Morrone)

 

All’inizio del sec. XIX, il monastero aversano, al pari di tante altre fondazione benedettine possidenti, fu soppresso dai napoleonidi[3]. Come logica conseguenza dei provvedimenti soppressivi, lo Stato acquisì i fabbricati , le proprietà fondiarie e i beni mobili delle case monastiche, sottraendo dalla confisca esclusivamente gli edifici sacri e la suppellettile strettamente indispensabile al culto.

Tra i beni confiscati vi furono i patrimoni archivistici delle case religiose, di cui era spesso parte integrante, per i monasteri di più antica fondazione, il fondo pergamenaceo. Così, anche le pergamene del soppresso monastero di San Lorenzo d’Aversa entrarono nella disponibilità dello Stato, che decise poi di farle confluire, insieme ad un’enorme quantità di documenti consimili, in un apposito fondo del neonato Archivio Generale del Regno di Napoli [4].

Il testo delle membrane fu in seguito trascritto e pubblicato da un gruppo di archivisti napoletani in un’opera di fondamentale importanza, cioè i Regii Neapolitani archivi monumenta edita ac illustrata[5] (RNAM).

Da quest’opera gli eruditi ricavarono dati di estremo interesse per la ricostruzione della storia dei monasteri dell’Italia Meridionale. Le pergamene originali, trascritte e pubblicate nei RNAM, rimasero depositate nell’Archivio Generale del Regno fino al 1943, quando vennero materialmente distrutte in seguito all’incendio appiccato al deposito archivistico di San Paolo Belsito (NA) dalle truppe tedesche in ritirata. Si persero così per sempre le pergamene dei monasteri soppressi dell’Italia Meridionale, tra le quali, naturalmente, anche i tre documenti oggetto del nostro studio, riguardanti la chiesa di San Pietro in Bevagna.

Fortunatamente, nel 1905 lo studioso tedesco Richard Salomon, nell’ambito delle ricerche per la stesura della sua tesi di dottorato (poi pubblicata[6]) aveva personalmente acquisito copia fotografica degli originali di varie pergamene di età normanna, conservandone in questo modo traccia concreta. Lo studioso conferì poi le riproduzioni all’ Istituto storico Germanico di Roma, presso cui le stesse sono ancora consultabili.[7]

Monastero di San Lorenzo di Aversa (ph Nicola Morrone)

 

I documenti

Come già precisato,due delle tre fotografie da noi rinvenute presso l’Archivio dell’Istituto Storico Germanico di Roma fanno riferimento all’atto di donazione della chiesa di San Pietro in Bevagna (e di varie altre chiese con le loro pertinenze) al Monastero di San Lorenzo di Aversa, da parte del duca Ruggero Borsa. Orbene, le due fotografie fanno riferimento ad uno stesso atto (del 1092), di cui furono evidentemente realizzati almeno due esemplari, uno ufficiale provvisto di sigillo (poi rimosso) ed una copia , sprovvista di sigillo.

La terza foto fa invece riferimento all’atto del 1102 , con cui lo stesso duca Ruggero Borsa conferma al Monastero di San Lorenzo di Aversa le proprietà precedentemente donate. Naturalmente, non ci spingiamo oltre nella descrizione dei documenti, il cui esame, a partire dalle riproduzioni fotografiche, spetta appunto a paleografi e diplomatisti, restando in attesa della loro edizione[8].

 

La pergamena del 1102

Con tale atto, il duca Ruggero Borsa conferma al monastero di San Lorenzo di Aversa il possesso di alcune chiese con beni stabili . Tra queste, anche la chiesa di San Pietro in Bevagna, con il casale di Felline[9].

Copia della pergamena
(© Istituto Storico Germanico in Roma. Riproduzione vietata)

 

rigo 6 della predetta pergamena: “et sanctum petrum de babagnia”
(© Istituto Storico Germanico in Roma. Riproduzione vietata)

 

 

Conclusioni

La storia della chiesa di San Pietro in Bevagna, che già conosciamo nelle linee principali, va ulteriormente approfondita con puntuali ricerche d’archivio, che possano fare luce, oltre che sugli avvenimenti d’età altomedievale (per la conoscenza dei quali un utile contributo potrà venire dalla ricerca archeologica) anche su quelli d’età bassomedievale e moderna.

Una ricognizione presso l’Archivio Vescovile di Aversa, che conserva un fondo specifico relativo al Monastero di San Lorenzo, da cui dipese per sette secoli la chiesa di Bevagna, potrà riservare altre sorprese. Per il momento , forniamo un ulteriore, modesto contributo alla riscoperta di una realtà, che è stata oggetto dei nostri studi per quasi un ventennio.

 

 

Note

[1] Per una bibliografia aggiornata sulla chiesa di San Pietro in Bevagna, cfr.E. Dimitri, Saggio Bibliografico su San Pietro in Bevagna, in G. Lunardi-B. Tragni, San Pietro in Bevagna nella storia e nella tradizione (Manduria 1993) pp.135-142, e successiva ristampa (Manduria 2004), pp.145-147. Da ultimo, si segnalano i lavori di E. Musardo Talò, San Pietro in Bevagna, un bene culturale da salvare (Manduria 2011) e G. Selvaggi (a cura di), San Pietro in Bevagna. Fedeli in pellegrinaggio (Manduria 2015). I nostri contributi giornalisti sull’argomento sono stati pubblicati sul sito della Fondazione terra d’Otranto (www.fondazioneterradotranto.it) cui rimandiamo il lettore.

[2] Cfr.P.F. Kher, Regesta Pontificum Romanorum (Berlino 1935) vol.VIII, pp.287-289.

[3] Ciò avvenne con legge del 13 Febbraio 1807.

[4] L’Archivio Generale del Regno di Napoli fu istituito dal Re Gioacchino Murat nel 1808. Sulle vicende riguardanti gli archivi dei monasteri soppressi, cfr, Regii Neapolitani Archivi Monumenta, 2 edizione (Atella 2011), pp. 8-11 e 14-18.

[5] Il primo volume dei RNAM (con documenti a partire dall’anno 703) fu pubblicato nel 1845. Il sesto ed ultimo volume (con documenti fino all’anno 1130) uscì nel 1861. Per una rapida storia dei RNAM, cfr. ibidem, pp.11-14.

[6] Cfr. R. Salomon, Studien zur normannisch-italischèn Diplomatik: Die Herzogsurkunden fiir Bari, Diss.Berlin 1907.

[7] Le fotografie sono conservate nell’Archivio dell’Istituto Storico Germanico>Photosammlung R.Salomon> Umschlag n.3> photo n.3,4; 3,5; 3,6-7.Si ringrazia il Dott.Andreas Rehberg per averne consentito l’acquisizione e la pubblicazione, con autorizzazione del 3/4/2018.

[8] I documenti relativi ai primi duchi normanni d’Italia (1046-1087) sono stati editi da L.R. Menager, in Recueil des actes des ducs normands d’Italie (Bari 1980). Si attende l’edizione delle pergamene normanne del periodo successivo.

[9] Il testo è trascritto in RNAM, vol.VI, pp.275-276; in A.P. Coco, ibidem, pp.184-186; in RNAM (2 edizione), vol.V, doc.508 (con traduzione a fronte).

La grande tela dell’Annunciazione della collegiata di Grottaglie

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Rosario Quaranta, La grande tela dell’Annunciazione della collegiata di Grottaglie. Un restauro e una riscoperta

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 313-341.

 

 

ITALIANO

Nell’abside della chiesa madre di Grottaglie è tornata a campeggiare, dopo lungo restauro, una grande tela semicircolare (670 x 430 cm), realizzata nel 1674 e raffigurante l’Annunciazione della Vergine, titolare del tempio. Il saggio prende in considerazione le motivazioni e le vicende che portarono alla sua realizzazione, grazie alla precisa documentazione storica reperita nel locale archivio capitolare. La tela venne realizzata a seguito della scomunica fulminata nel 1674 dall’arcivescovo di Taranto sugli occupanti del territorio della cosiddetta Foresta Tarantina di proprietà della Mensa arcivescovile. Il dipinto, che occupa interamente la calotta absidale e non porta alcuna firma, rappresenta il segno concreto di pentimento di quanti si erano resi colpevoli del misfatto, per ottenere l’assoluzione dalla severa censura ecclesiastica. L’autore ipotizza che a realizzare l’opera sia stato un abile pittore pugliese o salentino non estraneo alle suggestioni della scuola napoletana. A conforto di questa ipotesi si adduce il fatto che tutto si svolse in pochi mesi e che nel paese non mancano altre testimonianze pittoriche d’impronta napoletana favorite, ad esempio, dalla presenza della nobile famiglia napoletana dei Cicinelli.

 

ENGLISH

A large semi-circular canvas (670×430) painted in 1674, is back to her place in the apse of the Mother Church of Grottaglie after a long restoration. It depicts the Annunciation of the Virgin, patron of the temple. The essay takes into account the reasons and the events that led to its creation, thanks to precise historical documentations found in the local Capitular archives. The panting was created in consequence of the excommunication in 1674 by the Archbishop of Taranto on occupants of the territory of the so-called Tarantina Forest, part of the Archbishop’s revenue. The painting that occupies the apsidal calotte and doesn’t carry any signature, represents the concrete sign of repentance of those who were guilty of the misdeed in order to obtain absolution by the severe ecclesiastical censure. The author hypothesizes that the creator of the work could be an accomplished painter from Apulia or Salento no stranger to the suggestions of the Neapolitan school. To support this hypothesis is notable the fact that all took place within a few months. Moreover, in the country are present other pictorial testimonies Neapolitan style that were favoured by the noble family of Cicinelli.

 

Keyword

Rosario Quaranta, Grottaglie, Annunciazione della Vergine, Cicinelli

Crùsciulu

di Armando Polito

(immagine tratta da https://www.giardinaggio.it/giardino/singolepiante/arbutus/arbutus.asp)

È il nome neretino del corbezzolo, col quale, tutto sommato, non condivide la difficoltà di giungere ad un etimo definitivo. Per corbezzolo, infatti, sono state formulate innumerevoli proposte che qui non riporto per non tediare il lettore e farlo giungere svogliato, se non già stanco, al nostro crùsciulu. Dico preliminarmente che nel Dizionario leccese-italiano di Antonio Garrisi (consultabile in http://www.antoniogarrisiopere.it/31_000_DizioLecceItali_FrameSet.html) al lemma rùsciulu viene riportato coome etimo il latino rubeus incrociato con rugius e con (corn)eolus. Quest’etimo mi appare decisamente bastardo ed uso questo vocabolo con un pizzico di ironia perché la voce sarebbe frutto non di un solo incrocio, ma, addirittura di due, ipotizzati non in modo disgiuntivo o, se preferite, alternativo; come se non bastasse, poi rugius, riportato come voce non ricostruita, cioè senza asterisco, non è attestato. Anche sul piano semantico l’etimo del Garrisi convince poco, perchè anche i frutti del corniolo (il corneolus (corniolo) del secondo incrocio sono rossi come quelli del corbezzolo e, dunque, non c’era nessun bisogno del rugius del primo incrocio.

(immagine tratta da https://www.euganeamente.it/il-corniolo/)

Eppure sarebbe bastato consultare il dizionario del Rohlfs, che in questo campo rimane ancora come una sorta di Bibbia. Oltre al neretino (e pure leccese) crùsciulu vi si trovano registrate anche le varianti di altre località del Salento: rìsciulu, crìsciulu, frùsciulu, rùsciulu e rùssulu. Ho lasciato questa voce per ultima  perchè al suo lemma (dal quale si rinvia a quello delle altre varianti) il Rohlfs propone come etimo un latino *russulus=un po’ rosso. Qualcuno dirà che si tratta della solita voce ricostruita induttivamente; per fugare ogni dubbio dirò che non c’era neppure bisogno che il Rohlfs scomodasse il latino, sia pure ricostruito, *rùssulus diminutivo di russus, perché il dialetto neretino conosce il russulieddhu (un fungo, commestibilissimo, dal caratteristico colore rosso tenue), doppio diminutivo di russu=rosso (trafila: russu>*rùssulu>russulieddhu).

Rispetto a rùssulu in rìsciulu e rùsciulu, a parte la normalità del differente vocalismo, il passaggio –ss->-sc– trova giustificazione nella stessa evoluzione che si nota in frùsciu rispetto a flusso e probabilmente prorio quest’ultima voce, in una sorta di incrocio inconsapevole (cioè di natura esclusivamente fonetica) potrebbe spiegare la f– di frùsciulu. Infine in crìsciulu e crùsciulu la c– potrebbe essere di natura espressiva (e non frutto di incrocio con parola di problematica individuazione) analogamente a quanto avvenuto in cruffulare (=russare), che è da un precedente ruffulare, forma iterativa con assimilazione –nn-<-nf– dell’italiano ronfare.

Chiudo ricordando che crùsciulu a Nardò è usato anche nel senso traslato di stupido, con probabile riferimento al carattere selvatico e alla conseguente scarsa importanza economica dell’arbusto. Sarò grato a chiunque vorrà dire la sua, anche a costo, prove alla mano, di aver fatto la figura del crùsciulu, inconveniente, d’altra parte in cui tutti possiamo sempre incorrere, come, per giunta sul tema, mi è capitato tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/24/che-figura-di-corbezzolo/) …

 

L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento

cantiere edile

di Mario Colomba

Nella terminologia corrente dialettale il termine che indicava il cantiere era fatìa (fatica) che esprimeva esaurientemente l’attività prevalente che vi si svolgeva.

Sul luogo di lavoro la struttura organizzativa era fortemente gerarchizzata in rapporto alle specifiche competenze tecniche dei vari addetti, tra i quali si sviluppava un clima di competizione molto leale rivolta a conseguire quel desiderato avanzamento di grado corrispondente alle capacità via via effettivamente raggiunte.

La gerarchia da rispettare era così importante che i vari gradi di competenza professionale superavano anche il rispetto dell’età anagrafica.

Il rispetto di tale gerarchia era rappresentato, per esempio, dalla priorità con cui veniva servita dall’acquaiolo, sul posto di lavoro, la brocca di acqua da bere (prima alla cucchiara, poi alla mannara, quindi al manovale, ecc.) o lo stesso ordine con cui, il sabato sera, i lavoratori venivano chiamati dal datore di lavoro per percepire il salario settimanale.

L’entità della retribuzione del lavoro era fortemente condizionata dalle disponibilità di una committenza pubblica e privata, caratterizzata da endemiche ristrettezze strutturali o, spesso, da eventi atmosferici avversi, vere e proprie calamità, che compromettevano l’intera produzione di un’annata agraria (come ad es. le brinate primaverili che distruggevano i germogli della vite) e che condizionavano tutte le attività produttive della collettività. Per questo, a parte poche qualificate eccezioni, il salario giornaliero rasentava il livello di minima sussistenza. Il capo famiglia anche se qualificato, difficilmente era in grado di sostenere da solo l’onere del sostentamento di una famiglia a volte numerosa. Per questo, spesso la moglie era costretta a procurarsi lavori complementari (sarta, ricamatrice, magliaia, ecc) ed i figli venivano avviati al lavoro anche in età scolare.

In questa situazione il lavoro rappresentava l’unica possibilità di soddisfare, almeno a livello minimo, i bisogni propri e dei propri familiari e quindi l’unica possibilità di fisica sopravvivenza. da qui scaturiva l’impegno e l’interesse con cui venivano svolte le varie mansioni richieste dal ciclo lavorativo (garzone, squadratore, manovale, muratore, ecc.). pertanto, la diligenza, la cura dei particolari, la precisione, la velocità di esecuzione e l’accettazione dei rapporti gerarchici venivano recepiti come elementi indispensabili non solo per assicurarsi gli alimenti, che costituivano, com’è naturale, i mezzi di sostentamento, ma anche per avere una prospettiva di avanzamento sociale e per superare una condizione che, almeno per i garzoni ed i manovali, era molto prossima alla schiavitù di epoca romana.

Tuttavia, l’atmosfera che regnava in un cantiere era di profonda collaborazione e di amichevole solidarietà tra i vari addetti e spesso, i normali rapporti di amicizia costituivano la premessa di successivi vincoli di parentela. Prevaleva un forte senso di responsabilità per esempio del manovale che doveva affrettarsi a disporre i conci sul muro in corso di costruzione, in numero sufficiente perché il muratore (cucchiara) non ne restasse mai sprovvisto, fino alla conclusione del corso (linea ); oppure notevole era la responsabilità dei garzoni addetti a preparare e alimentare la malta che, d’inverno, quando la tufina bagnata era difficile da setacciare, si affannavano a raspare dal terreno i detriti tufacei che man mano si accumulavano al piede dei banchi (anchi) dove operavano gli squadratori.

ricevuta per soggiorno di lavoratori marmisti nell’albergo De Monte a Nardò nei primi anni del 1900 nella cattedrale di Nardò (archivio Fondazione Terra d’Otranto)

 

Il lavoro di squadra era fondamentale anche per alleviare le pesanti fatiche che ricordavano la schiavitù dei secoli passati. vale la pena, per questo, ricordare con quale spirito di collaborazione e solidarietà venivano messi in opera i pezzi di scala cioè i gradini di una scala diritta tipica delle case a schiera del ‘900. I pezzi di scala erano dei conci monolitici delle dimensioni di m. 1.10×0.30×0.20-0.25 e perciò del peso di circa kg.100. I primi 5 o 6 gradini venivano collocati, appoggiandoli per cm. 5 per parte, negli alloggiamenti dei due muri longitudinali che limitavano il vano scale, da due operatori, uno per ciascuna testata, a mano a mano che procedevano le murature in elevato. Ogni gradino successivo al sesto non poteva più essere collocato da operatori che agivano dal piano pavimento e perciò, il pezzo doveva essere trasportato, su per la scala in costruzione, fino al sito di appoggio. Per lo scopo, il pezzo di scala del peso di circa kg. 100 veniva caricato allineandolo alla colonna vertebrale del manovale che si disponeva carponi “a muscia” e che, mentre i compagni di lavoro tenevano in equilibrio il pezzo, avanzava gattoni fino all’ultimo gradino già messo in opera, dove ruotava orizzontalmente di 90° consentendo così ai due muratori (uno per ogni testa) di sollevare il concio, liberando il manovale, e alloggiandolo definitivamente sugli appoggi a dente di sega predisposti.

Il lavoro, anche se pesante, veniva svolto generalmente in un clima giocoso, in cui si incrociavano i discorsi di carattere privato, familiare e personale con battute salaci ed epiteti affibbiati però senza malanimo, che contribuivano a sdrammatizzare ed alleggerire il peso della quotidiana routine.

(da Mario Colomba: Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900, per gentile concessione dell’Autore).

Mario Colomba

Sullo stesso Autore vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/12/libri-larte-del-costruire-nardo-dintorni/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/15/95063/

Intervista all’artista Daniele Minosi

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Alessio Palumbo – Daniele Minosi, Tra reale e fantastico. Intervista all’artista Daniele Minosi

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 305-312.

 

ITALIANO

Intervista all’artista Daniele Minosi. Pittore e scultore originario di Maglie, oramai affermato sia in Italia che all’estero, Minosi ha saputo creare uno stile unico, capace di fondere la rappresentazione realistica (ma non fotografica) di oggetti, persone e paesaggi, con tocchi fumettistici e fantastici. L’intervista, dopo aver ripercorso le tappe salienti della formazione e della maturazione delle peculiarità stilistiche dell’artista magliese, si sofferma sulle principali tecniche utilizzate e sul pensiero che si trova alla base delle opere stesse.

 

ENGLISH

An interview to the artist Daniele Minosi. Painter and sculptor from Maglie, by that time popular in Italy and abroad, Minosi could create a unique style, able to merge the realistic (but not photographic) representation of objects, people and landscapes with comics and imaginary pieces. The interview after having gone over the main features of the formation and the maturation of the Magliese artist’s stylistic peculiarities, dwells on the main used techniques and on the thought that is on the base of the works themselves.

 

Keyword

Daniele Minosi, Maglie, Austera, Scarpette rosse, Fumo lento

Lecce e una sua veduta cinquecentesca (2/4)

di Armando Polito

Continuo ora con la descrizione del resto del volume. Al frontespizio seguono venti facciate di testo non numerate (le indicherò virtualmente, per distinguerle dalle altre) con numeri romani: nel nostro caso da I a XXiX. La facciata XXXr contiene l’immagine di seguito riprodotta.

Seguono quattro facciate non numerate ma che chiamerò virtualmente 1r-2v perché subito dopo compare sul retto della pagina il n. 3. Da qui in poi la numerazione compare solo sul retto di ogni pagina, ma, essendo evidente che il criterio di numerazione seguito è una via di mezzo tra la numerazione dei manoscritti (retto e verso di ogni carta) e quella moderna, userò carta seguito da r o da v per consentire al lettore di capire su quale facciata si trova il dettaglio preso in esame. A carta 76r termina la prima sezione del volume e incontriamo un primo colophon.

Explicit Psalterium.

Venetiis per Ioannem Antonium et fratres de  Sabio. Ad instantiam magistri Donati Sommarini et Franciscusde Ferrariis sociis de Licio. Anno Domini MDXXVI

Finisce il salterio.

Venezia, per (i tipi di) Giovanni Antonio De Sabio e fratelli. Su istanza di mastro Donato Sommarino e Francesco De Ferrariis soci di Lecce. Nell’anno del Signore 1526.

 

Sorprendono non poco in questo colophon, a differenza degli altri, alcuni gravissimi errori grammaticali: Franciscus per Francisci e sociis per sociorum).

La seconda parte inizia con pagine non numerate, la prima delle quali (la indico virtualmente come carta 76v) contenente la tavola che segue.

Dopo cinque pagine di testo, sempre non numerate (virtualmente da carta 77r fino a carta 79v). segue ancora una pagina di testo non numerata che indicherò come carta 1r-1v virtuale perché la successiva reca il n. 2 (quindi carta 2r). Da questa la numerazione prosegue regolarmente con testo fino a carta 216r. A seguire la virtuale 216v occupata dalla tavola di seguito riprodotta e della quale mi sono già occupato in .https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/01/buona-pasqua-2018-con-tre-tavole-leccesi-del-1527/

Segue una pagina di testo non numerata (virtualmente carta 217 r e carta 217v) e poi la numerazione riprende da pagina 218 (carta 218r) fino a pagina 236 (carta 236 r). Nella pagina successiva non numerata (carta 236v) c’è un’altra tavola.

Segue una pagina di testo non numerata (virtualmente carta 237r e carta 237v) e poi la numerazione riprende da p. 238 (carta 238r) fino a p. 600 (carta 600v). qui termina la seconda parte del volume con in calce un secondo colophon.

Finis

Impressus Venetiis per Ioannem Antonium et fratres de Sabio. Anno Domini 1527 mense octobris.

Fine.

Stampato a Venezia da Giovanni Antonio e fratelli De Sabbio. Nell’anno del Signore 1527, nel mese di ottobre.

 

Segue pagina di testo non numerata (virtualmente carta 1r e carta1v), poi la numerazione riprende da p. 2 (carta 2r) fino alla fine con p. 42 (carta 42v) con in calce un terzo ed ultimo colophon preceduto da una sorta di doppia dedica che ci rivela il nome del compilatore (l’abate Bartolomeo Cerasino) e di colui (Francesco De Ferrariis, socio, come recita il frontespizio, del libraio Donato Sommerino, entrambi  leccesI) che avanzò la richiesta di stamparlo a Giovanni Antonio De Sabbio e fratelli.

Venerandis Canonicis presbiteris ac Clericis Liciensibus Abbas Bartholomaeus Cerasinus aeternam in Christo salutem.

Habetis fratres charisssimi mihi observandi Breviarium Liciense ex antiquo ecclesiae ritu numquam alias impressum hactenus quidem incuria et squallore quodam vetustatis obsitum ac totum fere depravatum; omissis historiarum, semonum, omeliarum et capitulorum auctoribus, rubricisque et aliis suo loco necessariis, nunc autem non parvo pro meis viribus labore instauratum ac reformatum; si quod autem bene dictum ac ordinatum offenderitis ei a quo hoc bonum gratias agite. Rogo vim tantum atque obsecro ut in vestris orationibus ipsius Abbatis Bartholomaei humilissimi fratris vestri qui se charitati vestrae suppliciter obnixeque commendat pro sui laboris mercede meminisse dignemini apud deum, cui soli laus, honor et gloria. Amen. Franciscus de Ferrariis.

Venetiis per Ioannem Antonium et fratres de Sabbio ad instantiam Magistri Donati Sommorini Bibliopolae Liciensis Anno MDXXVI.

Ai venerandi canonici, preti e chierici leccesi l’abate Bartolomeo Cerasino1 (augura) l’eterna salvezza in Cristo.

Fratelli carissimi degni di ogni rispetto da parte mia, avete il breviario leccese secondo l’antico rito, mai altrove stampato, fino ad ora certamente avviluppato dall’incuria e da un certi squallore di vetustà e quasi tutto corrotto dall’omissione degli autori dei sermoni, delle storie, delle omelie, dei capitoli e delle rubriche e delle altre cose necessarie al loro posto: ora invece con non poca fatica per le mie forze rinnovato e riformato. Se però lo offenderete dopo che è stato benedetto ed ordinato chiedete la grazia a colui dal quale [proviene] questo bene. (Vi) prego solo e (vi) scongiuro che nelle vostre preghiere vi degniate di ricordarvi dello stesso abate Bartolomeo,  umilissimo fratello vostro che si affida supplichevolmente e con tutte le forze alla vostra carità per ricompensa della sua fatica, presso Dio al quale solo (spettano) la lode, l’onore e la gloria. Amen. Francesco De Ferrariis.

(Stampato) a Venezia da Giovanni Antonio De Sabbio e fratelli su richiesta di mastro Donato Sommorino2 libraio leccese nell’anno 1526.

La discrepanza tra la data di questo ed ultimo colophon e del primo (1526) e quella riportata nel secondo e nel frontespizio (1527; per il secondo c’è l’indicazione aggiuntiva del mese di ottobre) spiega anche le stranezze d’impaginazione che ho prima messo in rilievo. A questo punto la conclusione è una sola: vennero prima stampate nel 1526, ma non pubblicate, la prima e la terza parte  e l’anno successivo fu stampata la seconda. Con le tre parti assemblate il volume venne pubblicato nel 1527 e non prima di ottobre.

Si deduce da ciò che il lavoro preparatorio non fu facile e non indifferente anche l’impegno economico, come, d’altra parte, conferma lo stesso De Ferrariis (non parvo pro meis viribus labore).

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/28/lecce-sua-veduta-cinquecentesca-14/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/10/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-3-4/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/14/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-4-4/

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1 Tra i decreti di preambolo per assegnazione di eredità emessi dalla Regia Bagliva di Lecce (busta 43, fascicolo 58)  è registrato per l’anno 1695 un Bartolomeo Cerasino figlio di Diego, entrambi di Lecce. Ciò autorizza ad ipotizzare che pure il nostro Bartolomeo appartenesse alla stessa famiglia o fosse leccese. Nella memoria difensiva Per D. Diego e D. Irene Cerasini contro li fratelli Maresgallo  pubblicata nel 1789 da p. 5 a p. 7 il relatore ricorda un Bartolomeo Cerasini di Lecce morto indebitatissimo nel 1738. E, infine, come dimenticare a Lecce in via Vittorio dei Prioli al numero civixo 42 il cinquecentesco Palazzo Cerasini?

Al di là di Cerasino/Cerasini quanto fin qui detto può essere un indizio dell’appartenenza del nostro abate a questa famiglia e, dunque, della sua origine leccese.

2 Sommerino nel frontespizio.

Un dipinto dei fratelli Sarnelli nella chiesa madre di Corigliano d’Otranto

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

Ugo Di Furia, Una rara presenza pugliese dei fratelli Sarnelli:la Madonna col Bambino tra san Pietro martire e san Giacinto nella chiesa madre di Corigliano d’Otranto

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 285-303.

 

ITALIANO

La Madonna col Bambino fra i santi Pietro martire e Giacinto nella chiesa madre di Corigliano d’Otranto rappresenta, al momento, l’unica opera presente in Puglia attribuibile con certezza ai fratelli Sarnelli, famiglia di pittori napoletani del XVIII secolo. Il quadro, firmato e datato Sarnelli 1730 è anche la più antica testimonianza dell’attività della loro bottega fondata da Gennaro, il maggiore dei tre germani, allievo di Paolo De Matteis, come riferisce Bernardo De Dominici nelle sue Vite, morto precocemente nel 1731 e di cui si conoscono pochissime opere certe. Lunga invece l’attività dei più giovani Antonio e Giovanni che continuarono successivamente, fino agli anni Ottanta, a collaborare spesso fra loro, lavorando sia su tela che su affresco, per chiese e palazzi nobiliari. Particolarmente prolifico fu Antonio di cui possediamo un gran numero di quadri firmati e datati fino agli anni Novanta, sparsi oltre che a Napoli e in Campania, anche in quasi tutte le provincie del Regno.

 

ENGLISH

Currently, the Virgin and the child between Saint martyr Peter and Saint Hyacinth in the Cathedral of Corigliano d’Otranto, represents the only artwork in Apulia attributed with certainty to Sarnelli brothers, family of Neapolitan painters in the 18th century. The painting, signed Sarnelli and dated 1730, is the oldest evidence of the activity of their workshop founded by Gennaro that was the eldest of the three Germans and Paolo De Matteis’ s pupil, as relates Bernardo De Dominici in his works Vite . De Dominici died prematurely in 1731 and his works are few. Antonio and Giovanni’s activity was very long, instead. In fact, they continued to work together until the 1980’s, working both on canvas and on fresco for churches and palaces of noble families. Particularly prolific was Antonio of which we have a large number of paintings signed by himself and dated until the 1990’s. They are scattered in Naples, throughout Campania and in almost all the provinces of the kingdom.

 

Keyword

Ugo Di Furia, Corigliano d’Otranto, Sarnelli, Paolo De Matteis

Buona Pasqua! … con tre tavole “leccesi” del 1527

di Armando Polito

Le ho tratte dal Breviarium Liciense1, una cinquecentina custodita nella Biblioteca Innocenzo XII di Lecce e il lettore interessato ne troverà la versione digitalizzata, integralmente leggibile e scaricabile da  http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AUBOE037128. Di essa mi sono recentemente occupato nella prima parte di un altro contributo, dove il lettore interessato troverà ulteriori informazioni al link https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/28/lecce-sua-veduta-cinquecentesca-14/

Vere e proprie tavole sono la prima e la terza, mentre la seconda, comprendente testo e figure, si ispira ai manoscritti miniati, dei quali il volume ricalca l’impaginazione retto/verso oltre ad altre caratteristiche grafiche.

p. 216v  

La struttura compositiva di questa Pietà sembra riecheggiare quella di Giovanni Bellini (1433 circa-1516) conservata nella pinacoteca di Brera a Milano e riprodotta nell’immagine che segue.

 

p. 217r

In questa tavola il riquadro in basso a destra sembra riecheggiare uno studio di Raffaello (1483-1520) per la pala Baglioni custodito nel Louvre a Parigi nel Cabinet des dessins (n. 3865). ripsodotto nell’immagine che segue.

 

p. 236v

Per quest’ultima tavola, che credo raffiguri il miracolo della Pentecoste, non son riuscito a trovare alcun modello cui  l’ignoto incisore potrebbe essersi ispirato. Poiché anche per le tavole precedenti ho riportato solo le mie impressioni, frutto immaturo di giocosa curiosità. sarei felice se qualcuno in possesso di quella competenza specifica che io non ho, sia pur turandosi il naso o abbozzando un pietoso sorriso per quanto ho osato scrivere, approfondisse questo aspetto.

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1 Il titolo completo è Breviarium Liciense ex antiquo ecclesiae ritu nuper correctum et reformatum nunquam alias impressum novis quibusdam additis officiis: tabulis: atque rubricis suo loco necessariis: iuncto etiam foliorum numero ad quodvis facile inveniendum pro maiori orantium clericorum facilitate atque devotione (Breviario leccese secondo l’antico rito della chiesa recentemente corretto e riformato mai altra volta stampato con l’aggiunta al loro posto di certi nuovi servizi, tavole e rubriche necessari al loro posto, aggiunto anche un numero di fogli per trovare facilmente qualsiasi cosa per maggiore facilità e devozione dei chierici preganti).

 

La casa editrice Milella di Lecce

di Maria Grazia Presicce*

*La foto di testa è tratta da Dino Levante,  Antonio Milella: storia di un editore del sud, Edizioni Milella, Lecce,2007; le altre sono tutte dell’autrice.

 A. Milella Storia di un Editore del Sud

Entrare in una vecchia tipografia è affacciarsi in un’atmosfera d’altri tempi. Fu questa l’emozione che mi colse quando entrai, la prima volta, nell’antica Tipografia della casa Editrice Milella a Lecce, chiusa ormai da anni e, in quell’occasione, riaperta per dare il via a un nuovo cammino.

Tanti Libri mi guardavano…erano distribuiti un po’ ovunque: scaffali, tavoli ma, soprattutto, sistemati in blocchi sul pavimento e adibiti a panche su cui accomodarsi.

Potevi anche sfogliarli quei libri poi, portarne qualcuno con te! Mi piacque molto l’idea di quel dono e, a fine conferenza, ne presi alcuni. Erano intatti e avevano quel buon profumo di carta stampata.

Devo ammettere che in un primo momento mi costò imbarazzo usare quel cumulo di libri, di pensieri stampati come sgabello; mi pareva un oltraggio al libro, al suo autore, alla casa Editrice. Era come violare e profanare l’antico lavoro manuale della casa editrice Milella che quel libro aveva creato.

Mi guardavo attorno…banconi, a ridosso del muro, strani e scuri macchinari riposti negli angoli per fare spazio, caselle con centinaia di piastrine metalliche annerite se ne stavano inermi ad osservare lo strano trambusto di quella serata.

Incuriosita presi alcune piastrine, c’erano impresse delle lettere, ogni pezzo un carattere…un frammento di parola che sarebbe andato poi a comporre, parola dopo parola, il libro.

Quanto lavoro, quanta manualità, quanta pazienza, quanto si faticava un tempo per realizzare il libro!
Nella vecchia tipografia Milella, tra macchinari e migliaia di libri stampati, puoi ritrovare e ricostruire la storia e il pregevole percorso dell’università del Salento sin dalle sue origini; la tipografia, infatti, è sorta quasi in concomitanza con l’università a Lecce (1956). Sono, infatti, in maggioranza libri di testo universitari che hanno formato docenti per le scuole del territorio salentino e non solo.

 

La storia di quest’antica Casa Editrice inizia nel 1952 grazie ad Antonio Milella1, all’epoca ancora studente universitario a Bari. In quel periodo, pur essendo il Salento emarginato dagli avvenimenti culturali nazionali, dal punto di vista letterario poteva vantare nomi di rilievo grazie a Bodin2 e Comi3.

Questa nuova attività che accompagnò lo sviluppo culturale del territorio regionale e nazionale, nacque, in un primo tempo, come Libreria Milella” in via Palmieri 30 a Lecce, per la vendita di libri per le scuole Elementari, Medie e Superiori e, solo in seguito, anche di testi universitari, professionali e di cultura varia. Ai suoi Clienti la Libreria si presentò in un modo davvero innovativo: i libri “si aprirono” al pubblico! Infatti, non si presentavano più chiusi in vetrine, ma mentre una parte era sistemata su scaffalature, altri testi erano poggiati su tavoli in modo da attrarre il cliente e, dandogli fiducia, permettergli di sfogliare il libro prima dell’acquisto.

[…]  tra libraio e cliente si stabilisce una silenziosa quanto profonda intesa, come un invisibile fluido, che è frutto, in molti casi, di un comune senso di apprezzamento estetico.[…]4

Grazie  a quest’innovazione e, alla serietà e diligenza dei titolari, la libreria Milella s’impose sul territorio leccese con grande apprezzamento dei docenti delle scuole e dell’università.  Tale successo consentì l’espansione delle vendite e di conseguenza un vantaggio economico che permise, dopo poco, l’apertura di una seconda libreria in viale Taranto, nei pressi  dell’università.

La sede della Libreria Milella, in via Palmieri, col tempo e grazie alla dedizione dei coniugi Milella, Antonio e Rossa5, divenne anche “salotto” e centro culturale in cui si svolsero importanti discussioni e incontri letterari con famosi personaggi del periodo tra cui: Carlo Cassola6, Giorgio Saviane7, Enzo Vittorio Alfieri8, Gina Lagorio9, Michele Prisco10, Luciano Anceschi11, Enzo Siciliano12, Vittore Branca13, Mario Pomilio14 ed altri.

Non retrobottega ma “ pensatoio”

[…] Milella ci aveva fatto passare in un ambiente interno la cui caratteristica non era rappresentata dalle “montagne” di libri disposte su alti scaffali, ma dalla presenza di un tavolo-scrivania e da alcune sedie di fattura diversa, proprio al centro del locale. L’apparente disordine e della suppellettile lasciava chiaramente intendere che alcune persone lo avevano frequentato di recente.[…] “ qui si riunisce spesso un gruppo di amici, […]15

[…] lo scopo delle riunioni mi precisò, erano di contenuto critico- letterario o finalizzate allo scopo di commentare e intendere le circolari del Ministero in ordine agli incarichi d’insegnamento […]16

L’idea di trasformare la libreria Milella in Casa Editrice era, però, il sogno nel cassetto di Antonio e Rossa sua moglie, progetto spronato anche da Fabrizio Colamussi17 un letterato, amico e frequentatore del salotto-libreria, che visse quel periodo di trasformazione culturale leccese.

[…] fu lui a sollecitare la creazione di una Casa editrice che in quegli anni non c’era qui a Lecce. Fu, quindi un buon profeta e tra i pochi ad avere fortemente voluto la presenza di un editore “leccese”.[…]18

Al settimo anno di attività libraria il sogno accarezzato da Antonio e Rossa, ossia la creazione di una casa Editrice Milella a Lecce divenne realtà e, una sera, durante il solito raduno nel suo salotto-libreria, fu proprio Antonio Milella a scartare il primo pacco di libri appena stampati e presentare il volume agli amici. Il primo libro edito dalla casa Editrice Milella fu “Il Manuale di disegno geometrico” dell’architetto leccese Orazio Antonaci.

[…] “ Signori, – annunciò egli con voce solenne ma che voleva essere velata di modestia – ho il piacere di presentarvi il primo volume edito dalla Ditta Milella. Come vedete ho attraversato anch’io il Rubicone. Spero di avere fortuna e, se necessario, il vostro supporto e i vostri suggerimenti.”[…]19

In questo modo l’Editrice Milella diete avvio alla nuova attività tipografica divenendo nel tempo importante punto di riferimento nel mondo della cultura e degli studi universitari

Con l’università, in seguito, l’editrice Milella avviò la produzione di saggistica con contributi anche di studiosi operanti al di fuori dell’Università di Lecce e con centri culturali di Roma, Firenze, Genova, Bari, e Napoli.

L’aumento delle pubblicazioni e la diversità di argomenti portarono la casa editrice ad un riordino dell’editoria disciplinandola in “collane”.

[…] la critica più attenta avvertì l’importanza della iniziativa e fu più attratta dalla collana “ Studi e Testi” diretta da Mario Marti20 e Aldo Vallone21, comprendente una trentina di volumi degli stessi direttori responsabili, […] e numerosi altri autori […] non si può tralasciare la “Collana dell’Istituto di Filosofia”, “dell’Università Gabriele D’annunzio di Chieti” diretta da De Vitis. Infine “Contemporanea”, “Educazione linguistica”, “ Filosofia della scienza”, “ Filosofi e pedagogisti”, “Nuovi orizzonti”, “ L’uomo e la città”[…]22

Tramite l’Editrice Milella gli studiosi leccesi ebbero modo di farsi conoscere in ambito nazionale. Tra i poeti e scrittori salentini di quel periodo ricordiamo Girolamo Comi, Vittorio Bodini, Aldo Vallone.

Merito di Antonio Milella fu anche la pubblicazione della rivista salentina “L’albero” di risonanza nazionale fondata nel 1949 da Girolamo Comi e in seguito ripresa da Donato Valli e Oreste Magrì23. Seguirono altre riviste letterarie: “ Sigma” diretta da Lorenzo Mondo24, “Symbolon” diretta da Giovanni Manetti25, “ L’ombra largo” fondata da Romano Luperini26, “Idee” rivista filosofica diretta da Roggerone.

Nel 1991, per vari motivi, ci fu una svolta per l’Editrice Milella e da azienda individuale divenne società “ Lecce Spazio Vivo” grazie all’intervento di Don Gaetano Quarta27 cui Antonio Milella si era rivolto come amico in quei frangenti.

[…] Con la sua solita semplicità, una mattina è venuto a trovarmi nella sede della “ Lithiostrotos28” ti ricordi Antonio” e con la sua semplicità, come se stesse a prendersi un caffè, mi disse: ” Senti Don Gaetano, io mi trovo in questa situazione; può darmi una mano perché questa ricchezza, questa miniera, questo patrimonio, non corra il rischio di potersi perdere?” La cosa mi convinse ed in un certo senso anche mi allettò; e in un certo senso mi compiacqui di questa fiducia. […]29

Don Gaetano prese a cuore la proposta dell’amico e provò a chiedere l’aiuto di persone facoltose per poterla realizzare, ma questo ebbe esito negativo. Il sant’uomo, però, non si perse d’animo e

[…] proprio secondo la parabola del Vangelo, gli invitati non erano venuti alle nozze, e allora cominciai a uscire per vicoli, andai a cercare ciechi, storpi, poveri e con un gruppo di persone che non hanno disponibilità economiche molto forti, per convinzione nella validità dell’impresa,per affetto ed amicizia nei confronti del carissimo Antonio ci siamo avventurati in questa impresa, […] Ed ecco perché alla società […] abbiamo voluto dare il nome significativo “ Lecce Spazio Vivo” era un messaggio in cui noi volevamo, in qualche modo, collegarci con tutto l’humus della cultura, il clima culturale di questa nostra città di Lecce,le sue tradizioni, le sue capacità, possibilità […]30

La nuova società “ Lecce Spazio vivo”, ex Editrice Milella, cominciò il suo nuovo percorso o, per meglio dire, lo proseguì in maniera diversa, pur ricalcandone le orme, per diventare davvero uno “spazio vivo” aperto ad una coralità di voci competenti che potessero portare contributi secondo le proprie peculiarità, in modo da consentire e agevolare il cammino così bene intrapreso da Antonio e Rossa.

[…] e per fortuna ancor oggi continua, anche fuori del nostro Salento della nostra geografia meridionale, […] per le edizioni Milella noi abbiamo continuamente conferma perché ci arrivano richieste ordini, non solo da tutta Italia, […] che altamente ci onora perché il professor Milella ha costruito questa sua Casa Editrice con saggezza, con generosità, con sapienza, con coraggio […]31

il 7 Giugno 2002 l’Amministrazione provinciale di Lecce a Lucugnano, durante la manifestazione “ Le identità e la differenza: Salento incontro con le culture” a cura del Centro studi Girolamo Comi, è stata consegnata ad Antonio Milella una targa d’argento con questa motivazione “ Ad Antonio Milella rifondatore e patriarca dell’editoria leccese in proiezione dell’universo” .

Ancora oggi l’Editrice Milella accompagna con le sue pubblicazioni la crescita culturale del territorio regionale e nazionale coinvolgendo studiosi e prediligendo la multidisciplinarità delle scienze umane e non solo Umanistiche.

I locali della vecchia Tipografia della Casa Editrice Salentina (Milella) in via Sozy Carafa (LE), dopo quasi settant’anni di chiusura e silenzio, sono divenuti “ Associazione Vecchio Stampo” punto di riferimento di Lecce e provincia per la promozione  della cultura letteraria, europea, salentina, del lavoro e della comunità:  questa denominazione testimonia la traccia lasciata in questo luogo dalla stampa e dai libri pubblicati dall’Editrice Milella.

Nel suo interno si custodiscono gelosamente i vecchi testi stampati e le macchine tipografiche che, rimesse in funzione, continuano ad occupare il loro posto pronte ad offrire emozioni a grandi e piccini che vogliano visitare il luogo e scoprire le antiche tecniche di stampa di un libro.

[…] E questo grazie a quello che Antonio (e io aggiungo Rossa) ha fatto, al quale siamo riconoscenti, di cui apprezziamo l’opera e nei confronti del quale ci sentiamo ancora nel dovere di doverci impegnare nella fedeltà e nella continuità. Grazie!32

 

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[1] Nato a Lecce 1 gennaio 1924.

2 Vittorio Bodini (Bari, 6 gennaio 1914 – Roma, 19 dicembre 1970) è stato un poeta e traduttore italiano di letteratura spagnola.

3 Girolamo Comi (Casamassella LE, 23 novembre 1890 – Lucugnano, LE, 3 aprile 1968) è stato un poeta  italiano.

4 Dino Levante, Antonio Milella: storia di un Editore del sud”, Editrice Milella, Lecce, 2007, pag. 18.

5 Rossa Martina (Lecce 2 gennaio 1924 – Lecce 23 settembre 2001).

6 Carlo Cassola (Roma, 17 marzo 1917 – Montecarlo, 29 gennaio 1987) è stato uno scrittore e saggista italiano.

7 Giorgio Saviane (Castelfranco Veneto, 16 febbraio 1916 – Firenze, 18 dicembre 2000) è stato uno scrittore italiano.

8 Vittorio Enzo Alfieri (Parma, 1 maggio 1906 – Pejo, 27 luglio 1997) è stato un filosofo italiano, accademico, liberale, allievo di Benedetto Croce.

9 Gina Lagorio (Bra, 18 giugno 1922 – Milano, 17 luglio 2005) è stata una scrittrice e saggista italiana che ha fatto parte della “Generazione degli anni trenta”.

10 Michele Prisco (Torre Annunziata, 18 gennaio 1920 – Napoli, 19 novembre 2003) è stato uno scrittore e giornalista italiano.

[1]1 Luciano Anceschi (Milano, 20 febbraio 1911 – Bologna, 2 maggio 1995) è stato un filosofo, critico letterario e saggista italiano.

[1]2 Enzo Siciliano (Roma, 27 maggio 1934 – Roma, 9 giugno 2006) è stato uno scrittore, critico letterario e drammaturgo italiano.

[1]3 Vìttore Branca (Savona, 9 luglio 1913 – Venezia, 28 maggio 2004) è stato un filologo, critico letterario e accademico italiano. Branca è stato professore emerito di letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Padova.

[1]4 Mario Pomilio (Orsogna, 14 gennaio 1921 – Napoli, 3 aprile 1990) è stato uno scrittore, saggista e giornalista italiano.

[1]5 Dino Levante, idem, pag.21.

[1]6 Dino Levante idem.

[1]7 Fabrizio Colamussi (Piazza Armerina, 1889 – Lecce, 20 gennaio 1955) è stato un letterato e poeta italiano. Nacque, in una nobile e antica famiglia pugliese.

[1]8 Dino Levante “Storia di un editore del Sud “ Alessandro Laporta intervento letto il 7 giugno 2002 nel Palazzo  Comi a Lucugnano ( Tricase) , pag.63.

19 Dino Levante, idem pag. 22.

20 Letterato, accademico e rettore (Cutrofiano (LE) , 19 maggio 1914 – Lecce, 4 febbraio 2015).

2[1] Docente nei licei, preside ,provveditore agli studi e ispettore del Ministero della pubblica istruzione.

22 Dino Levante idem pag. 24.

23 Critico letterario, filologo, linguista ispanista e comparatista italiano. (Maglie LE, 10 febbraio 1913 – Firenze, 15 febbraio 1998).

24 Critico letterario, scrittore e giornalista italiano (Torino, 6 febbraio 1931).

25 Professore ordinario di Semiotica (M-FIL/05) presso l’Università di Siena ( 1949).

26  Critico letterario, scrittore e politico italiano. ( Lucca 1940).

27 Religioso, docente universitario, studioso, autore (Monteroni di Lecce 5 dicembre 1934 – Grottaglie 3 ottobre 2003).

28 Centro culturale fondato da don Gaetano Quarta.

29 Dino Levante “Antonio Milella: Storia di un editore del Sud” pag.57, “ A guadagnarci era la cultura” Intervento di Don Gaetano Quarta letto a Lucugnano ( Tricase) nel Palazzo di G. Comi il 7 giugno 2002.

30 Idem, pag. 58.

31 Idem, pag. 58.

32 Dino Levante,  “A guadagnarci era la cultura” Intervento di Don Gaetano Quarta letto a Lucugnano (Tricase) nel Palazzo di G. Comi il 7 giugno 2002, pag. 59.

 

 

 

Lecce e una sua veduta cinquecentesca (1/4)

di Armando Polito

Preliminarmente è doveroso precisare che le vedute di città che spesso corredano i testi antichi vanno accettate con beneficio d’inventario, cioè non è da credere ciecamente che esse costituiscano sempre una rappresentazione fedele dello stato dei luoghi all’epoca in cui vennero realizzate, anche perché spesso alcuni dettagli (case, campanili, etc. etc.) sembrano ricalcare modelli stereotipi e non seguire un intento realistico.

Credo che questo valga anche per l’immagine che segue, che è poi il frontespizio di un volume custodito nella Biblioteca Innocenzo XII di Lecce dal titolo Breviarium Liciense ex antiquo ecclesiae ritu nuper correctum et reformatum nunquam alias impressum novis quibusdam additis officiis: tabulis: atque rubricis suo loco necessariis: iuncto etiam foliorum numero ad quodvis facile inveniendum pro maiori orantium clericorum facilitate atque devotione (Breviario leccese secondo l’antico rito della chiesa recentemente corretto e riformato mai altra volta stampato con l’aggiunta al loro posto di certi nuovi servizi, tavole e rubriche necessari al loro posto, aggiunto anche un numero di fogli per trovare facilmente qualsiasi cosa per maggiore facilità e devozione dei chierici preganti).1

Il volume è prezioso non solo per il suo valore antiquario, trattandosi di una cinquecentina2, ma anche per i motivi che saranno detti alla fine.

Nel frontespizio, oltre al titolo prima trascritto, si legge, all’interno dell’immagine SANCTA ERINA D(I) LICII e in basso Ad instantiam Francisci De Ferrariis et magistri Donati Sommerini bibliopolae sociorum Liciensium. 1527 (Su richiesta di Francesco de Ferrariis e di mastro Donato Sommerino venditore di libri, soci leccesi, 1527).

L’immagine mostra la città di Lecce con le sue mura e a sinistra S. Irene, sua protettrice fino al 1656, che regge nella destra, accostata al petto, una lampada votiva ed appoggia la destra sulla cima del campanile del duomo3. Questo, che sarebbe stato ricostruito tra il 1661 e il 1682 per volere del vescovo Luigi Pappacoda su progetto di Giuseppe Zimbalo, mostra i due livelli  superiori movimentati ciascuno da un’ampia bifora.  Ai piedi di S. Irene si vede una chiesa la cui copertura ricorda quella di S.Maria della Porta, che, però, stando all’Infantino, fu  ampliata nel 15674.

Tornando al campanile, va notato che appare come una via di mezzo tra come si vede in una tavola della prima metà del XVII secolo5

e come si ammira oggi.

Di seguito il dettaglio in sequenza comparativa.

Pare scontato che la santa appoggi la mano sul campanile del duomo, che è il punto più elevato della città in duplice senso, quello materiale o fisico o paesaggistico o laico e quello spirituale o religioso. Tuttavia io non escluderei nella rappresentazione un riferimento a quanto sul campanile si legge in Antonio Beatillo, Historia della vita, morte, miracoli, e Traslatione di Santa Irene da Tessalonica, Vergine, e Martire, Longo, Napoli, 1609, pp. 299-301: … volendo un Vescovo di LECCE per nome Formoso nell’anno del Salvatore mille cento, e quattordeci,.fare à sue spese per ornamento  della città. e per accrescimento maggiore di divotione ne’ suoi Leccesi, un Vescovato nuovo ion honor della  Beatissima  Vergine nostra Signora, come tosto lo mandò ad effetto, il Conte della stessa città, ch’era all’hora un certo Goffredo, vi eresse dalla parte di fuori à man sinistra, in luogo de’ campanili ordinari, una torre molto alta, e di bellissima prospettiva. E perche il suo intento fù di far questa torre à memoria, et honore della Santa vergine IRENE, s’informò à pieno, con mandar gente sin là, del modo com’era quell’altra, che in Tessalonica il Rè Licinio edificò alla Santa nell’anno sesto dell’età sua. Et havendo trovato, che quella havea cinque appartamenti l’un sopra l’altro con una real corona di belle fabbriche nel più sublime luogo delle stanze, fece egli, che la sua torre, qual fabbrico nel Vescovato Leccese, fosse se non di quella grandezza, almeno dell’istessa forma, e figura. Ma che avvenne? Da lì à cento, e sedeci anni, cioè nel mille ducento, e trenta, havendo il Vescono di all’hora, che Roberto si domandava, scoverta per certa occasione la Chiesa per levarne il tetto, che gli stava di sopra, cascò repentinamente il Vescovato di Formoso con tutta la torre, che il Conte Goffredo vi havea fatto per le campane. Spiacque al buon Prelato la disgratia, ma non per questo si perdè d’animo; anzi confidato nell’aiuto divino, e nella liberale benignità de’ Leccesi, cominciò subito a rifar la sua Chiesa da’ fondamenti con fabriche assai più sode di quel ch’erano l’altre di prima, e ridusse per l’essatta sua diligenza tra poco tempo à perfettione quel Vescovato, che ancor hoggi stà in piedi. E perche gli fù insinuato da’ divoti di Santa IRENE protettrice della città, che il Campanile antico era stato tanti anni prima dal buon conte Goffredo eretto à somiglianza della Torre di Tessalonica in memoria, et honore della loro Padrona, in un tratto lo fè Roberto rifare per l’istessa caggione della medesima grandezza, e figura. Di ciò prese tanto contento il popolo di LECCE, c’havendo fino à quel tempo fatto per insegna ò arme, che vogliam dire, della città un albero di Quercia, ò Elce che sia, con una Lupa di sotto, si risolse mutarla, e per l’avvenire, in luogo delle cose già dette, far nel suo feudo una torre simile in tutto à quella del Vescovato. Ma perche le cose di questa vita patiscon sempre mutationi, e vicende, havendo non sò che tuoni, ò saette, che nel decimosesto secolo della nostra salute vi cascarono, data occasione, che si buttasse à terra buona parte della torre del Duomo, i Leccesi ancora ripigliaron di nuovo l’insegna antiche della Lupa, e della Quercia, non già perche havessero lasciata la divotione della loro antica protettrice, ma perche in altro modo non le sarebbero stati ammessi da’ padroni, et officiali del Regno quei privileggi antichi della Lupa, e della Quercia.       

Per la seconda parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/03/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-2-4/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/10/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-3-4/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/14/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-4-4/

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1 Integralmente leggibile e scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AUBOE037128.

2 L’OPAC (http://opac.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/scheda.jsp?bid=IT%5CICCU%5CNAPE%5C007851) non registra il nostro esemplare ma un altro con nel titolo Psalterium invece di Breviarium; impossibilitato a controllare, ipotizzo che l’errore sia atato indotto dal colophon che è in calce alla prima parte contenente, appunto, il salterio) custodito nella Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” a Lecce. L’ICCU (http://edit16.iccu.sbn.it/scripts/iccu_ext.dll?fn=10&i=53093)  registra la presenza di tre soli esemplari custoditi, rispettivamente, nella Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” a Lecce (è quello dell’OPAC), nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio a Bologna e nella Biblioteca Angelica a Roma.

3 Nella scheda descrittiva in  http://www.internetculturale.it/opencms/opencms/it/viewItemMag.jsp?case=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AUBOE037128&hits=0 leggo che la chiesa rapprerentata è quell di S. Irene, che, però, all’epoca in cui il volume uscì non esisteva, essendo la sua costruzione iniziata nel 1591.

4 Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra, Micheli, Lecce, 1634, p. 71.

5 Giulio Cesare Infantino, op. cit.

Fede e tradizione nella settimana santa a Tutino

di Fabrizio Cazzato


La Settimana Santa è una delle ricorrenze dell’Anno Liturgico più sentita e celebrata nelle varie parrocchie e chiese confraternali della nostra città di Tricase. Il momento più suggestivo delle celebrazioni religiose esterne si ha nel corso della giornata del Venerdì Santo, con la processione dei Misteri avviata dalla chiesa di San Domenico; anche il Venerdì antecedente la Domenica delle Palme, quello denominato di Passione o dei Dolori, vede la comunità di Tutino recarsi in silenzioso raccoglimento con la statua dell’Addolorata alla chiesetta extraurbana della Pietà.

Grazie alla solerte organizzazione delle nostre Confraternite si può constatare una fattiva partecipazione ai santi riti degli iscritti ai pii sodalizi e dell’intero popolo tricasino.

Le sei Confraternite attive di Tricase contano ormai, rispetto al passato, pochi aderenti, per lo più anziani e il cambio generazionale è molto lento e faticoso. Tuttavia queste aggregazioni laicali cercano in tutti i modi di testimoniare la fede guardando al futuro, resistono alla globalizzazione culturale presente e non dimenticano il passato con le loro tradizioni e la loro storia plurisecolare.

Alcune di esse, fondate verso il XV secolo, quindi prima della Controriforma del Concilio di Trento (1545-1563), sono scomparse e forse riaffiorate nei secoli successivi.

La confraternita più antica di Tricase (e della Diocesi di Ugento) è la Congregazione laicale dell’Immacolata e San Nicolò di Tutino, già presente  nel “500 di cui il testo redatto  delle regole ai confratelli nel 1649 risulta essere il più antico che si possa conoscere delle Diocesi dell’estremo Salento.

Essa ebbe anche una forte azione moralizzatrice della sua attività religiosa, devozionale e penitenziale, espressa attraverso la preziosa rappresentazione della Passione di Cristo, raffigurata in ventiquattro formelle del bellissimo affresco recentemente restaurato, consistenti nella recitazione visiva dei testi evangelici della Passione di Gesù.

Questo tipo di devozione personal-popolare, che solitamente si svolgeva negli oratori confraternali, fu via via sostituite da vere e proprie performance recitative (tragedie), fino a giungere alle processioni con le statue raffiguranti i vari personaggi della Passione, Gesù Cristo e l’Addolorata.

Quest’ultima è la protagonista assoluta del Venerdì Santo. Con il lungo velo poggiato sulla testa e il suo voluminoso abito nero, sfila nel suo incedere lento tra le orazioni dei fedeli, per le vie della nostra città.
Sarebbe opportuno osservare con degna nota la statua “ a manichino “ dell’Addolorata conservata nella chiesa di San Gaetano di Tutino (sede della Venerabile Confraternita dell’Immacolata e san Nicolò), la quale appartiene alla vasta produzione della statuaria processionale pugliese e che ricalca in un certo modo i ricami a caratteri profani delle madonne vestite della Catalogna e dell’Andalusia spagnola.

Tale genere di statuaria è conosciuta col termine di “Madonna vestita” (tra queste ricordiamo la statua della Madonna Immacolata in S. Angelo e le statue della Madonna del Rosario e dell’Addolorata in San Domenico), in quanto leggera e maneggevole, destinata all’uso processionale e che veniva generalmente portata dalle donne.

Il più diffuso modello del genere è la statua della Madonna (ma ci sono anche statue di santi), realizzata in legno o cartapesta per quanto riguarda testa, braccia e mani, mentre il corpo è un semplice “manichino vestito”.

In prossimità dei riti pasquali, la statua viene sottoposta al rito della vestizione; l’evento commovente è un rituale privato e quasi segreto, privilegio di poche consorelle (e in alcuni casi di una sola). Le donne si riuniscono intorno alla statua spogliandola, togliendole l’abito giornaliero, facendole indossare (a partire dalla biancheria intima) gli abiti solenni e sontuosi della cerimonia.

L’abito  finemente ricamato in filo d’oro e pietre preziose dell’Addolorata di Tutino, indossato in occasione dei riti della Settimana Santa appartiene alla tipica tradizione sartoriale della manifattura salentina ottocentesca. Venne realizzato da tal Teresina da Taranto agli inizi del ‘900 e commissionato per devozione di Addolorata Alfarano.
Amorevolmente custodito dalla Confraternita l’abito della Vergine, in raso di seta nera, è costituito da un’ampia gonna e da un corpino; su di esso si sviluppa un ricamo in oro eseguito con punto steso e punto lamellare con disegni floreali a racemi e volute, di chiaro rimando alle forme rinascimentali. Sul petto è mostrato in evidenza un cuore trafitto da una spada in gemme rosse.

Il volto sofferente ed intenso ha un roseo incarnato (sicuramente lucidato a cera) e la sua triste bellezza è segnata da lacrime realizzate in resina, tanto da far brillare i suoi occhi in pasta vitrea; il lungo velo, poggiato sulla testa, nasconde una vera capigliatura legata a treccia. L’abito è completato da un velo in seta nera, realizzato nello stesso periodo, con puntina da piccola frangia in oro, sul quale si distribuiscono alcune stelle ricamate in filo oro a punto lanciato.

Grazie all’impegno e alla dedizione della signora Maria Meraglia,  con la collaborazione della confraternita stessa, in occasione della visita dei “sepolcri” del giovedì santo, è quasi un obbligo per i fedeli sostare in preghiera anche al cospetto della Pietà, allestita nella chiesa di san Gaetano a Tutino (foto in basso).

l’esterno della chiesetta di Tutino innevata (2017) (tutte le foto sono di Fabrizio Cazzato)

Lecce, Brindisi, Taranto, Gallipoli e Otranto in alcune vedute di metà ‘800 circa

di Armando Polito

Le ho tratte dall’Atlante illustrativo ossia raccolta dei principali monumenti italiani antichidel Medio Evo e moderne di alcune vedute pittoriche, volume III, 1845, opera di Attilio Zuccagni-Orlandini. L’opera è integralmente  consultabile e scaricabile al link http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=mag_GEO0019820&mode=all&teca=GeoWeb+-+Marciana. Siccome da qualche giorno a questa parte ho notato che più di un link partente da Europeana o da Internet culturale, prima attivo, ora non lo è più, al lettore appassionato al tema e, nello specifico, a quest’opera, conviene provvedere prima che sia troppo tardi …

Cliccando di sinistro su ciascuna immagine una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento, una seconda, essa sarà visibile  nelle sue dimensioni massime.

LECCE


BRINDISI

TARANTO

GALLIPOLI

OTRANTO 

Liborio Riccio nel museo diocesano di Gallipoli

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Anna Bolognese, L’ovale della Madonna Immacolata di Liborio Riccio: cronaca di un restauro

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 269-273.

 

 

ITALIANO

L’autrice fornisce una sintesi dei lavori di restauro eseguiti su un antico ovale rappresentante la Madonna Immacolata. La tela, conservata presso il museo diocesano di Gallipoli, è opera del pittore gesuita Liborio Riccio, nato a Muro Leccese, formatosi tra Gallipoli e Roma ed operante in Terra d’Otranto nella seconda metà del Settecento.

 

ENGLISH

The author provides a synthesis of the restoration work carried out on an old oval showing the Virgin. The painting, kept in the Gallipoli’ s diocesan museum, is a work of Liborio Riccio, a Jesuit painter, born in Muro Leccese, grown up between Gallipoli and Rome and working in Otranto’s land in the second half of the eighteenth – century.

 

Keyword

Anna Bolognese, Liborio Riccio, Museo Diocesano Gallipoli, Madonna Immacolata

Gian Domenico Catalano nella collegiata di Grottaglie

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Marino Caringella, Una proposta per Catalano nella collegiata di Grottaglie e una notula sul D’Orlando

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 275-283.

 

ITALIANO

a Pentecoste collocata nella collegiata di Grottaglie,rielaborazione della pala del Vasari in Santa Croce a Firenze, è qui ricondotta all’ambito culturale della tarda maniera e attribuita al pittore salentino Gian Domenico Catalano (Gallipoli 1560 ca. – Gallipoli? 1627 ca.). A tal proposito l’autore instaura confronti con altre opere note del maestro gallipolino, restituendo al suo catalogo anche la cosiddetta Madonna della Misericordia di Galatone, già data a Donato Antonio D’Orlando (Nardò 1560 ca. – Racale 1636). Circa il pittore neretino, è palese la dipendenza tra la sua Deposizione di Cristo di Castellaneta e le opere di Giovan Bernardo Lama e dello Stradano. Elementi che rendono la personalità artistica del D’Orlando ben più sfaccettata di quanto la letteratura critica abbia sinora compiutamente delineato.

 

ENGLISH

Pentecost in the collegiate church in Grottaglie, that is a reinterpretation of Vasari’s altarpiece in Santa Croce in Florence, is here influenced by the cultural realms of late Mannerism and attribuited to Gian Domenico Catalano (Gallipoli about 1560 – Gallipoli? about 1627), a painter from Salento. To this end, the author, comparing other works by the master from Gallipoli, ascribes him also the so-called Madonna of Mercy in Galatone, preaviously attributed to Donato Antonio D’Orlando (Nardò about 1560 – Racale 1636). As regards the painter from Nardò, the author identifies a clear influence of the works by Giovan Bernardo Lama and Stradano on his Deposition of Christ in Castellaneta. Such considerations render D’Orlando’s artistic identity more complex than so far drafted by critics.

 

Keyword

Marino Caringella, Pentecoste, Collegiata Grottaglie, Domenico Catalano, Antonio Donato D’Orlando

Giornate FAI di Primavera. Nardò e la chiesa di Santa Teresa

 

La chiesa era di pertinenza del monastero delle Carmelitane Scalze, fondato dalla neritina Suor Teresa di Gesù (1656-1718), al secolo Lidia Adami.

Istituire un nuovo monastero a Nardò fu da subito sua ferrea intenzione, ma la costruzione dell’impresa conobbe diverse interruzioni nonostante ella si applicasse caparbia senza sottrarsi mai ai lavori. L’atteggiamento oppositivo dei concittadini non aiutò, così come il decesso del vescovo Tommaso Brancaccio (1669-1677) che tanto l’aveva sostenuta impugnando la donazione del palazzo di famiglia «mezzo diroccato e distrutto» del nobile Marco Antonio Sambiasi del 1676.

Suor Teresa di Gesù mai rinunciò al suo progetto prezioso e mai cedette alle ostilità manifeste, tanto che nel tempo riuscì ad assecondarne i lavori con l’appoggio di quanti le avevano offerto sostegno. Ultimata la parte inferiore dell’insediamento religioso e pronta a dedicarsi alla costruzione delle celle al piano superiore, chiese ai suoi padri spirituali l’autorizzazione a questuare in numerosi centri di Terra d’Otranto.

Cercò poi di risolvere l’annoso problema dei confinanti, che avrebbero potuto violare la riservatezza della clausura delle sorelle. Congiunto al monastero vi era infatti il palazzo dei baroni Delli Falconi, che dimoravano da oltre un secolo nel loro hospicium, provvisto di giardino e posto sull’attuale via Puzzovivo, alle spalle dunque della chiesa di S. Teresa.

Intorno alla metà del Seicento fu il barone Vitantonio Delli Falconi a cedere alle monache la quota del palazzo a lui spettante.

Il conservatorio tale rimase per circa sette anni prima di esser trasformato in monasterium con l’obbligo della clausura. L’approvazione e il riconoscimento dell’osservanza della regola delle carmelitane scalze per l’insediamento neritino si ebbe il 17 gennaio 1699, grazie alla postulazione del cardinale Giuseppe Renato Imperiali (1651-1737) dei principi di Francavilla che sostennero l’impresa con elargizioni e doni.

Le prime monache furono in numero di dodici e l’anno di noviziato si concluse nel 1700.

La chiesa annessa al monastero, antecedente rispetto all’attuale, consistente in un grande salone a pianterreno, «al piano delle Case donateli dalli Signori Sambiasi. In essa vi erano due altari, dei quali il maggiore dedicato a S. Teresa e l’altro a S. Giovanni della Croce.

ph Lino Rosponi

 

In quarant’anni non si smise mai di lavorare a una nuova sontuosa chiesa di maggiori dimensioni con ingresso sulla via principale e dunque aperta ai fedeli. Iniziata durante l’episcopato di mons. Francesco Carafa (1736-1751), come dimostra lo stemma del presule sulla facciata, non fu mai ultimata a causa del terribile sisma del 1743.

Per rimediare ai danni del sisma le monache dovettero procedere ad alcune operazioni, liberandosi di alcune proprietà o effettuando delle permute, col fine di poter ottenere liquidità per avanzare nella ristrutturazione dei locali in cui risiedevano. Per la chiesa attesero ancora qualche anno perché venisse completata dai fratelli Saverio, Gregorio e Cosimo De Angelis «mastri muratori della città di Nardò», originari di Corigliano d’Otranto, autori anche della progettazione.

Il completamento dell’opera avvenne a più riprese dal 1762 al 1769, sempre per intervento dei fratelli De Angelis che costruirono la bellissima e complessa struttura voltata, il coronamento della preesistente facciata e la scala balaustrata.

Il 10 novembre 1769 venne finalmente consacrata dal vescovo neritino Marco Petruccelli.

In obbedienza al decreto del 7 agosto 1809 di soppressione di ogni ordine religioso nel Regno di Napoli emanato da Gioacchino Murat (1767-1815) e che decretò la chiusura di 120 conventi nella sola Terra d’Otranto, il 29 novembre 1810 il monastero teresiano a Nardò dovette adeguarsi.

In uno dei due giardini dell’edificio è stata costruita l’attuale biblioteca comunale. La chiesa invece fu affidata alla confraternita del Sacramento, che ancora la tiene in cura.

 

ph Lino Rosponi

 

Successivamente al disastro sismico del 1743 i maggiori introiti derivanti dalle offerte dei numerosi benefattori e il discreto numero di fanciulle che decisero di monacarsi, delle quali molte discendenti da prestigiose famiglie di Terra d’Otranto, consentirono di realizzare una nuova e più capiente chiesa da sostituirsi a quella originaria a pianterreno, affiancata all’attuale e a navata unica, che sarebbe rimasta ad uso esclusivo delle claustrali nell’interno del monastero.

L’attuale corpo di fabbrica, risalente alla seconda metà del Settecento, fu realizzato in tufo, con una facciata che si sviluppa in due ordini sovrapposti, con una parte centrale concava e due corpi laterali che avanzano fin quasi a comprendere il convesso scalone antistante l’ingresso.

Quel che colpisce della parte inferiore della facciata è senz’altro il corpo centrale con lo stemma di mons. Carafa, Sulla parte più alta della facciata, sul frontone curvo, è scolpita invece l’insegna carmelitana delle monache, che mostra una croce accompagnata ai lati e in basso da tre stelle.

ph Fabrizio Suppressa

 

Nell’interno della chiesa

Internamente l’edificio religioso presenta un unico ambiente di grandi dimensioni a pianta rettangolare. Lateralmente, sotto grandi arcate, in grande equilibrio con tutto il contesto, trovano posto due cappelle, posizionate una di fronte all’altra.

Il presbiterio, elevato da due gradini, è rettangolare e illuminato da due finestre laterali. In esso domina l’altare maggiore dedicato alla santa titolare, in pietra leccese con mensa. Sopra la mensa campeggia al centro il tabernacolo, unico elemento in marmo presente in chiesa.

Le dorature, riprese nell’ultimo restauro, ne fanno un elemento di grande risalto, che ben si inserisce nella già sontuosa scenografia dello sfondo. Sulla parete frontale, nella parte più alta, un pregevole crocifisso ligneo sembra dominare tutta l’aula. Al di sotto di essa, in una interruzione del cornicione, un tempo trovava posto la grata da cui le monache potevano assistere ai sacri riti pur rimanendo nel loro monastero. Dopo la soppressione dell’ordine, acquisito il monastero da privati, lo spazio fu tamponato e sulla superficie fu realizzata una pittura con angeli genuflessi in adorazione dell’ostensorio eucaristico, adottato come emblema della confraternita che custodisce l’immobile.

ph Fabrizio Suppressa

 

Sempre in senso verticale, sotto il predetto dipinto, vi è la bellissima tela raffigurante l’Estasi di S. Teresa, rettangolare, con cornice di legno intagliato e dorato, di metri 2 x 2,75. La santa, nell’abbandono mistico della visione e quasi tramortita, è ritratta pallidissima e con gli occhi chiusi nell’abito dell’ordine. Di fronte a lei in volo da destra un giovane angelo pronto a colpirla con la freccia del divino amore con la sua punta d’oro. In alto emerge dalle nuvole la Madonna del Monte Carmelo abbracciata teneramente dal divin Figlio, accompagnata da S. Giuseppe, anch’egli a mezzo busto ed emergente dalle nubi, col tipico bastone fiorito.

Sulla parete della nostra chiesa, sempre sul presbiterio, risaltano anche le due nicchie laterali a livello del pavimento e fiancheggianti l’altare, probabilmente ospitanti confessionali per le monache come può ancora vedersi nella chiesa claustrale locale di Santa Chiara. Inquadrate da cornici, particolarmente elaborate nell’ornato della parte superiore, dopo la soppressione furono tamponate. Successivamente trovarono posto le due statue della Madonna del Buon Consiglio (a sinistra) e del Salvatore (a destra), protette da apposite vetrine.

Statua della Madonna del Buon Consiglio (ph Lino Rosponi)

 

Sul lato sinistro, come ancora per il presbiterio della chiesa di Santa Chiara, vi era una grata attraverso la quale le monache potevano ricevere l’Eucarestia durante la Messa. L’apertura, di cui restano tracce di un arco, fu poi trasformata in armadio a muro con ante lignee, speculare all’altro ricavato sulla parete opposta. La mensa, anteposta all’originaria addossata al muro frontale, è posta al centro; rimovibile, è post conciliare ed in evidente contrasto con tutto il resto. Coevo a questa potrebbe essere l’ambone posto a ridosso del presbiterio sotto l’organo.

Collocato in cornu Epistolae, ovvero sul lato destro dell’altare a sinistra dall’ingresso, l’organo è disposto su un elaborato balcone della seconda metà del secolo XVIII, interamente in legno, con parapetto curvilineo.

Al centro dell’organo, sulla parte convessa e più sporgente, è riprodotto lo stemma dei Tafuri, in scudo riccamente ornato e sormontato da corona baronale.

Elaborato anche l’impianto del pulpito contrapposto, a cornu Evangelii, ovvero sul lato destro dall’ingresso, evidentemente coevo per le stringenti similitudini del disegno generale, per i colori e per la ricchezza degli elementi decorativi. Di dimensioni inferiori rispetto alla cantoria, ospita nella parte centrale convessa uno scudo riccamente ornato, lo stemma dell’ordine carmelitano.

Sotto il pulpito, cui si accede tramite una porta nella cappella di destra aperta sulla scala conducente anche al campanile, trova posto una statua dell’Addolorata protetta da una vetrina.

Gli altari laterali, come il maggiore, sono lapidei, realizzati nella seconda metà del XVIII secolo, stilisticamente omogenei per il gusto rocaille e con dimensioni pressoché uguali, tra i sei metri di altezza e oltre quattro di larghezza.

La cappella di destra ospita una tela lobata superiormente raffigurante S. Teresa e S. Giuseppe, datata e firmata da Vincenzo Fato.

Fa pendant con questa la cappella opposta dedicata al dottore della Chiesa S. Giovanni della Croce, sacerdote dei Carmelitani che, su invito di Santa Teresa di Gesù, fu il primo tra i frati ad aggregarsi alla riforma dell’Ordine.

Cantoria con organo (ph Fabrizio Suppressa)

 

Sempre all’interno dell’aula si leggono due iscrizioni, delle quali una dipinta su un ovale con cornice e stuccati e posizionata sulla porta che immette in sacrestia. Ci informa così del barone Vito Antonio Tafuri offertosi di sostenere le spese per il restauro:

L’altra è riportata sulla controfacciata, al di sopra del portone, in un elegante cartiglio con volute ed elementi vegetali a ricordo della consacrazione della chiesa celebrata il 10 novembre 1769 dal vescovo Marco Aurelio Petruccelli:

Quello che caratterizza questa chiesa, rispetto alle altre presenti in città, è senz’altro la fitta trama ornamentale degli stucchi, specie sulla volta, che risulta unica del genere per eleganza compositiva, tanto da renderla una delle più belle pagine nel panorama dello stucco di questo secolo in Terra d’Otranto.

Statua del Salvatore (ph Fabrizio Suppressa)

 

La statuaria nella chiesa di Santa Teresa

Particolare attenzione merita la statua del Redentore collocata nella nicchia frontale, a destra dell’altare maggiore, il cui valore artistico è innegabile in considerazione della pregevole fattura.

In legno policromo, ha subito un ultimo restauro dal maestro Antonio Malecore di Lecce. La plasticità del modellato e l’anatomia curata del corpo non possono escludere di ascriverla a Giacomo Colombo.

Sempre sul presbiterio, sul lato opposto in cui è ubicata la nicchia con la statua di S. Espedito, si trova un altro manufatto in cartapesta policroma che raffigura Santa Lucia, anche questa protetta da vetrina. Sul basamento è visibile la firma della «Premiata Ditta De Pascalis – Lecce», una tra le più rinomate botteghe di cartapesta leccese, con la data «1926».

Nella cappella di sinistra, in una nicchia laterale, trova posto un’altra interessante testimonianza dell’arte della cartapesta leccese, la statua di S. Agata, che si suppone essere di mano diversa rispetto alle altre. La santa è rappresentata a figura intera con il tronco flesso e le braccia tese alle spalle per via delle mani legate tramite corda a una semicolonna.

ph Fabrizio Suppressa

 

A Latiano apre il Polo Museale. La comunità ha un nuovo contenitore di cultura

di Domenico Ble

 

“Come si va a scuola per imparare a leggere, scrivere e far di conto,

si dovrebbe, sin dalla tenera età, frequentare i musei”

(Anonimo)

foto Vincenzo De Fazio

 

L’ex Convento dei Padri Domenicani torna al suo splendore, non solo dal punto di vista artistico e architettonico, ma anche come contenitore di cultura. Finalmente a Latiano apre il Polo Museale, appuntamento che molti latianesi attendevano da diversi anni, la manifestazione di apertura si terrà il 26 marzo 2018, alle ore 18:00.

L’apertura di un museo rappresenta un valore aggiunto per la comunità, sì, è un incremento in più per l’offerta turistica, ma è soprattutto una dimostrazione vera di salvaguardia delle risorse culturali. Non dobbiamo mai dimenticare che in un manufatto artistico conservato, in una tradizione del passato tenuta in vita, risiede la nostra identità.

Il Polo Museale di Latiano nasce dall’unione di tre musei: Museo delle Arti e Tradizioni di Puglia, Museo del Sottosuolo e il Museo della Storia della Farmacia.

Il Museo delle Arti e Tradizioni di Puglia ha una lunga storia, fu fondato nel 1974 con l’obiettivo di conservare le testimonianze demo-etno-antropologiche. Al suo interno è articolato in diversi ambienti: casalingo, agricolo e artigianale; visitandolo si ritorna indietro nel tempo.

Il Museo del Sottosuolo fu fondato nel 1977 dal naturalista e docente universitario di biologia marina Pietro Parenzan. Visitando le quattro sezioni (Biologia, del sottosuolo, Geologia, Paleontologia generale e Paleontologia umana), si compirà un affascinante viaggio alla scoperta della Terra.

Il Museo della Storia della Farmacia si sviluppa intorno al patrimonio privato delle famiglie, farmaciste di generazione, Pepe e Pierri di Taranto. La raccolta è un valido “documento” di testimonianza di questa nobile professione, spesso considerata arte, che ha una storia lunga come quella dell’uomo.

Latiano non giunge impreparata a questo grande appuntamento, già qualche decennio fa, si pensò alla valorizzazione del centro cittadino. Fu creato un percorso artistico culturale che, partendo dalla chiesa di Sant’Antonio, passando per le chiese del SS. Crocifisso e Santa Maria della Neve, Palazzo Imperiali, sede della Pinacoteca Comunale, la Torre del Solise e la Casa del Beato Bartolo Longo, terminava proprio all’ex Convento dei Padri Domenicani. Questo percorso andava a valorizzare le tracce artistico – monumentali.

Il Polo Museale ora va ad arricchire ulteriormente il progetto di valorizzazione dei beni culturali, di Latiano e del territorio salentino tutto.

https://spark.adobe.com/page/tsB7ZC1c5xvLW/

http://www.museilatiano.it/

Arte| La nuova stagione di Marco De Mirto

a colloquio con Alessio Palumbo

 

– Partiamo da dove c’eravamo lasciati con le ultime interviste: le personali Mistico Pagano e Lo specchio convesso; poi Parigi, Miami…e ora? Di cosa ti stai occupando?

Questo è un periodo particolarmente denso dal punto di vista della produzione artistica.

In previsione di alcuni progetti espositivi che si definiranno nel corso di quest’anno, i primi mesi del 2018 mi vedono intento in una nuova stagione dedicata all’elaborazione di alcuni cicli pittorici che, come è mia consuetudine, mi impegneranno per lungo tempo. Il mio modo di procedere, anche se è abbastanza in linea con quanto fatto finora, si arricchisce sempre di nuovi dettagli: possono essere animali, volti umani, elementi inanimati. Il mio è un processo di creazione aperto: per questo motivo, mi risulta difficile entrare nel particolare di ogni dipinto. Non chiudersi in schemi per me è una vera e propria esigenza, ma cerco di declinare in più varianti quello che è l’unico filo rosso della mia pittura, vale a dire il simbolismo. Nel mio caso si avvale di un realismo metafisico, concettuale, con numerosi richiami alle tradizioni mitologiche e religiose, che si intrecciano e vengono sempre elaborate in una chiave trasfigurativa.

 

– Soffermiamoci allora su questa nuova stagione. Quali sono le cifre stilistiche e contenutistiche dei tuoi nuovi lavori? Continuità con il passato o rottura?

Un processo di mutazione è naturalmente presente in ogni nuovo lavoro, anche se magari non a livello consapevole (per l’artista, almeno!) Non posso parlare tuttavia di rottura, la mia cifra stilistica e contenutistica è sempre quella, il superamento di una realtà di superficie, esclusivamente visiva, che cerco invece di “scavare” in ogni senso, attribuendole significati diversi, surreali e onirici, soprattutto. Mi identifico totalmente in questo genere di ricerca. Sono – potrei dire – un purista, non amo inseguire le tendenze, le mode artistiche, pur apprezzando generi in voga come il Lowbrow e il Pop Surrealism. La mia iconografia è variegata e provo a non “auto-omologarmi”, sfuggendo al diktat della riconoscibilità a tutti i costi, che poi si traduce spesso in ripetitività. Ciò non significa, ovviamente, che un artista non possa avere alcuni motivi ricorrenti e identificativi, ma essi non devono porsi in posizione dominante rispetto a tutta la composizione pittorica.

– Il simbolismo ha fino ad oggi pervaso le tue creazioni: soggetti fuori dal tempo e dallo spazio, la cui esistenza può essere concepita solo nei meandri di una fervida immaginazione. A cosa è dovuta tale scelta? Ritieni la “realtà-reale” non efficace dal punto di vista artistico?

La realtà per come è non mi ha mai appassionato. E da questo si comprende come io non faccia abitualmente uso di modelli. Del resto, il vero raffigurato dai pittori realisti è molto più “astratto” – potremmo dire – di quanto pensiamo, ed è molto più astratto anche di tanta pittura che tale, propriamente, viene ritenuta. Perché dico questo? Perché le mie immagini, seppur in apparenza tangibili, di fatto, non esistono: dal momento che, a mio avviso, il vero reale è “invisibile agli occhi”.

– Nonostante il dato anagrafico, nelle tue opere non traspare nulla di “salentino”. Nessun paesaggio, né richiamo ai volti ed alle cose della nostra terra. Le ragioni di tale scelta?

In realtà il legame con il Salento è presente in “profondità”. Quando ho cominciato a interessarmi di pittura, tutto è partito proprio dalla tradizione pittorica del barocco napoletano seicentesco: qui, in Terra d’Otranto, per esempio, era molto attiva la scuola riberiana. Se mai di formazione si può parlare nel mio caso, visto che sono puramente autodidatta, potrei individuarla nell’osservazione di alcune opere sparse qua e là in questa terra. La mia decisione di non servirmi di soggetti tipicamente caratterizzati come “salentini” è dovuta alla mia stessa ricerca iconologica, che si concentra verso luoghi e personaggi atemporali e senza ulteriori connotazioni. Paradossalmente anche nello stesso Salento si respira e si percepisce la medesima sospensione della dimensione del tempo ed è forse proprio questo aspetto che, inconsapevolmente, è entrato nei miei dipinti.

 

 

Sullo stesso Artista vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/11/marco-de-mirto-mistico-pagano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/18/lo-specchio-convesso-viaggio-nellimmaginario-artistico-marco-de-mirto/

L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 immacolata latiano

Domenico Ble, L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 263-267.

 

ITALIANO

Il fenomeno della pittura giordanesca ha avuto una grande importanza e diffusione in Terra d’Otranto tra il XVII e l’inizio del XVIII secolo. La circolazione delle opere del maestro Luca Giordano o degli elaborati dei suoi allievi ha così influenzato la maniera di diversi pittori locali. La pittura giordanesca ha interessato anche Latiano con la tela dell’Immacolata Concezione conservata all’interno dell’omonima chiesa: per anni scarsamente valorizzata e non adeguatamente posta in risalto per il suo valore artistico, in questo articolo viene collocata all’interno di un panorama pittorico ben più ampio. In riferimento al suo artefice si può dunque passare dal generico «autore ignoto» ad un più opportuno «pittore giordanesco».

 

ENGLISH

The phenomenon of the Giordanesca painting has had a great importance and diffusion in Terra d’Otranto between the seventeenth century and the beginning of the eighteenth century. The circulation of Luca Giordano’s works or of his pupils’ papers has influenced the manner of many local painters. The Giordanesca painting has affected also Latiano with the canvas of the Immacolata Concezione (the Virgin) kept in the interior of church with the same name: under-appreciated for years and not enough highlighted for its artistic value, in this essay it is placed on the inside of a much wider pictorial panorama. Referring to its author we can pass from the generic «unknown author» to a more veritable «giordanesco painter».

 

Keyword

Domenico Ble, Luca Giordano, Latiano, Immacolata Concezione

Lupi e lupare nell’Arneo

di Fabrizio Suppressa

Ha destato notevole meraviglia la notizia, apparsa su testate locali e nazionali[1], del ritorno del lupo nel Salento e più in particolare nell’Arneo. È sembrato quasi di tornare indietro nel tempo, quando un anonimo giornalista de “La Provincia di Lecce” il 12 marzo 1911 riportava il seguente dispaccio:

 

“Avetrana, 10 marzo.

Da parecchi giorni due grossi lupi scorazzano in contrada Arneo, facendo una vera strage nelle masserie: cavalli, vacche, pecore, agnelli sono stati addentati o divorati e ogni tentativo per catturarli è riuscito vano. Le masserie più danneggiate sono quelle denominate Cursoli, Donna Menga e Santa Teresa.”[2]

L’occasione è ghiotta per segnalare in queste brevi note uno degli inediti segni di questo passato ancora individuabile nell’Arneo, ovvero una probabile “trappola per lupi” o “lupara” costituita da uno scavo a sezione circolare nella roccia tufacea (parzialmente colmo di terra e vegetazione) del diametro di circa due metri con al centro un pilastro.

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1A – 1B - Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 - foto di Fabrizio Suppressa)
1A – 1B – Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 – foto di Fabrizio Suppressa)

 

Foto aerea con a sinistra la “lupara” di Porto Cesareo e a destra l’enigma di Terenzano (Ugento)
Foto aerea con a sinistra la “lupara” di Porto Cesareo e a destra l’enigma di Terenzano (Ugento)

 

La collocazione del manufatto non è certo delle più felici[3]; è infatti situato a Porto Cesareo, in uno svincolo stradale tra le intersezioni delle provinciali Nardò-Avetrana e Leverano-Porto Cesareo, all’altezza dell’antica masseria Salmenta.

L’identificazione in una trappola per lupi è stata possibile attraverso il raffronto con un’altra opera simile, seppur leggermente più grande, situata ad Ugento in località Terenzano[4]. Qui lo studioso A. Pizzurro, in “Ozan: Ugento dalla preistoria all’età romana” descrive l’“enigmatica costruzione litica” come “Un unicum che non trova altri riscontri nella penisola salentina. Tale costruzione serviva sicuramente da trappola per la cattura di lupi e selvaggina varia e, dato che presenta forti analogie con quanto descritto da Senofonte nel Cinegetico 11,3, non si può escludere a priori un suo impiego come trappola durante le battute di caccia nell’antichità[5].

L’enigma di Terenzano (foto tratta da: http://www.salentoacolory.it/lenigma-del-terenzano/)
L’enigma di Terenzano (foto tratta da: http://www.salentoacolory.it/lenigma-del-terenzano/)

 

Proprio grazie al Cinegetico del Senofonte segnalato dall’autore, è possibile capire il funzionamento della trappola:

“Si scavano pure per la suddetta caccia [al lupo] delle fosse larghe, cupe, e rotonde lasciandovi in mezzo come un cilindro di terra [leggi pietra], di altezza uguale alla medesima fossa, e nella di lui sommità attaccano in tempo di notte una capra, covrendo la cennata fossa con delle ramate, acciò non sia veduta; mentre la fera correndo alla voce della capra per cibarsene, cade e precipita entro detto fosso da cui non potendo per la profondità uscire vi resta e vien presa”[6].

 

Rilievo e ricostruzione grafica della “lupara” di Porto Cesareo (disegno di Fabrizio Suppressa)
Rilievo e ricostruzione grafica della “lupara” di Porto Cesareo (disegno di Fabrizio Suppressa)

 

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5A – 5B - Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 - foto di Fabrizio Suppressa)
5A – 5B – Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 – foto di Fabrizio Suppressa)

 

Forse un tempo la presenza di queste opere era molto più diffusa nell’antica Terra d’Otranto, come è possibile dedurlo dal “Codice di Maria d’Enghien” (1445-46) in cui si legge:

Per che al presente li lupi sono multiplicati: et per loro multiplicatione fanno di gran danno tanto alle bestie de la cità de leze, quanto de li casali vicini, et de la dicta cità de leze: e ordinato per lo dicto capitanio: acciocchè omne persona habia materia de amazare dicti lupi: che quillo chi ammazasse lupo per omne volta havera tari. X. quando fosse ucciso con balestra, et cum cani tari. vij. et in lupara tari. V.”[7]

Dove per “lupara” è lecito ipotizzare che non si intenda il tipo di arma da fuoco tristemente famosa ai giorni nostri, quanto invece questo tipo di trappola, il cui termine è ben diffuso nella letteratura in lingua volgare dell’epoca[8]. Non a caso il compenso stabilito dal codice per questo tipo di cattura – molto meno pericoloso per l’uomo – era decretato in 5 tarì ovvero nella metà rispetto ad un più azzardato scontro frontale con balestra, giustamente risarcito con 10 tarì.

La pratica della ricompensa per l’uccisione di un lupo continuò almeno fino la metà dell’Ottocento, come annota Giustiniano Gorgoni nel suo celebre vocabolario:

Nella provincia di Lecce: lu lupu, mercè i disboscamenti, non si vede più di frequente come nel tempo passato. Pur non si manca di tenere dei forti cani a guardia dell’armento, ai quali si mette un collare armato di punte di ferro. Anche qui, come altrove, l’Amministrazione dava un premio in denaro a colui che uccideva un lupo, o prendeva dei lupicioni (lupo lattante) ed oltre al premio, colui girando per le masserie riceveva dei regali[9].

Similmente è riscontrabile nei documenti dell’archivio storico del Comune di Nardò, dove si legge che il sindaco, dietro ordinanza del prefetto, si obbliga a “pagare a titolo di premio la somma di £. 25,50 a Caramia Giuseppe, vero uccisore della lupa e non già a Mazzeo Giovanni” per la soppressione avvenuta nel 1872 nei pressi della masseria detta “la Grande”[10]. Ed ancora, nelle stesse carte si legge un verbale sull’uccisione di due lupicini (un maschio e una femmina) fatta da Marinaci Vito di Giuseppe, contadino guardiano di boschi, in contrada Arneo nel 1884[11].

In conclusione, è doveroso segnalare che “Lupara” è anche un toponimo ancora vivo nell’Arneo (come anche in Gallipoli e Scorrano), al confine tra i territori di Nardò e Avetrana, tra le masserie Fellicchie e Serra degli Angeli ai margini dell’antico Bosco dell’Arneo e che non mancano sempre nel suddetto comprensorio altri toponimi testimonianti della presenza in passato del lupo, quali ad esempio “Cantalupi” tra Salice Salentino e Veglie e masseria Scorcialupi in Maruggio.

Spero quindi, con queste poche righe che questo sconosciuto, nonché raro, “monumento della civiltà contadina” possa essere, se non valorizzato, almeno riconosciuto e tutelato da eventuali costruzioni o ampliamenti stradali.

 

Note

[1] http://www.ansa.it/puglia/notizie/2017/11/24/dopo-100-anni-lupi-in-salentotracce-dna_af48d1d1-4c37-4d98-9560-44ea7e3d0151.html

http://bari.repubblica.it/cronaca/2017/11/23/news/i_lupi_tornano_in_salento_dopo_un_secolo_in_puglia_segnalati_anche_su_gargano_murge_e_arco_ionico-181924283/

http://www.nationalgeographic.it/natura/animali/2018/01/22/news/salento_individuato_un_nucleo_riproduttivo_di_lupo-3828795/

[2] M. Spedicato, Politica e conflitti sociali nel Salento Post-Fascista, Conte Editore, Lecce 1998, p. 186;

[3] Le coordinate geografiche sono: 40.267870, 17.910096, di seguito il link di Google Maps: https://www.google.it/maps/place/40%C2%B016’04.3%22N+17%C2%B054’36.4%22E/@40.2678935,17.9099803,21z/data=!4m5!3m4!1s0x0:0x0!8m2!3d40.26787!4d17.910096?dcr=0

[4] Le coordinate geografiche sono: 39.910196, 18.105765, di seguito il link di Google Maps: https://www.google.it/maps/place/39%C2%B054’36.7%22N+18%C2%B006’20.8%22E/@39.9101941,18.0882125,6310m/data=!3m2!1e3!4b1!4m6!3m5!1s0x0:0x0!7e2!8m2!3d39.9101957!4d18.1057651?dcr=0

[5] A. Pizzurro, Ozan: Ugento dalla preistoria all’età romana, Edizioni del Grifo, Lecce 2002, p. 27;

[6] F. Testa, Il cinegetico o sia Libriccino intorno alla caccia del greco filosofo ed oratore Senofonte tradotto in italiano, e di annotazioni, e prefazione fornito, Donato Campo, Napoli 1790, p. 130;

[7] M. Pastore, Il codice di Maria d’Enghien, Congedo Editore, Galatina 1979, p. 67

[8] Si veda ad esempio la Novella XXXVIII di Giovanni Sabadino degli Arienti “E per questo, facto secretamente cogliere tutte le persiche, excepto uno piede delle più belle, subito sotto quello fece fare una gran buca a modo de lupara, dove se pigliano li lupi, e aconciarla cum sì cauto modo che persona non se ne sarebbe mai aveduto. E circa tre nocte lui personalmente cum certi suoi famigli fece la guardia per sentire venire el malfactore e cadere ne la lupara. Il quale la terza nocte, venendo in zanche, entrò nel broilo e senza troppo cercare se n’andò al persico che miser Lippo avea salvato: dove non fu prima giunto, che cadde nella lupara; e per essere in zanche, quasi non fu per romperse el collo. Il che sentendo miser Lippo, che vigilava e stava attento, chiamò li famigli, dicendo: — Su presto! pigliate quella caldara de aqua è al foco e venite meco, ché l’è preso el lupo —.” Novella XXXVIII di Giovanni Sabadino degli Arienti, Porretane, dove si narra novelle settanta una etc. Nuovamente stampato, Merchio Sessa, Venezia 1531, p. 110.

[9] G. Gorgoni, Vocabolario agronomico con la scelta di voci arti e mestieri attinenti all’agricoltura e col raffronto delle parole e dei modi di dire del dialetto della provincia di Lecce, Forni Editore, Bologna 1973 (ristampa anastatica dell’edizione edita a Lecce nel 1891), p. 308;

[10] Archivio Storico dei Comune di Nardò (=ASCN), b. 37\232.1;

[11] ASCN, b. 37\232.2;

Note e riflessioni ispirate dalla storia (o leggenda) di S. Giuseppe

 SAN-GIUSEPPE-4

di Eliana Forcignanò

Conosco soltanto per brevi cenni la storia di San Giuseppe che, in fuga con Maria, comincia a vendere frittelle per sfamare la propria moglie. Pare che questi semplici dolci fossero gli antesignani delle nostre zeppole che oggi fan bella mostra nei banchi gaiamente illuminati delle pasticcerie in vista della ricorrenza dedicata ai padri.

Quasi sorrido al pensiero che quell’uomo, già avanti con gli anni, si dedicasse a impastare e cuocere pur di guadagnare qualche soldino, tuttavia, tentare di smentire una leggenda, è violare una visione archetipica del reale che ha elementi sacrali, perché attiene al modo di vivere, pensare e sentire dell’umanità intera. Come osserva L. Zoja, d’altronde, il padre, “increspatura relativamente tarda nella storia dell’umanità” procaccia alle donne e ai nuovi nati la sopravvivenza, né gli compete, in epoche primitive, l’accudimento o la cura della prole. Vi è, senza dubbio, una differenza tra il garantire la sopravvivenza di qualcuno e il prendersene cura, poiché il concetto di cura afferisce al medesimo ambito semantico della coltura: in breve, io mi prendo cura dell’altro coltivandolo, secondo quanto suggerisce il verbo latino “colere” valido per piante, uomini e dei.

Non a caso, il “cultum” che si tributa alla divinità è una devozione coltivata nel tempo e un uomo che coltiva, per quanto ci si sforzi qui di superare gli stereotipi di genere, è evidentemente entrato in contatto con la sua parte femminile, dedita alla cura e all’accudimento, in breve con la propria funzione Anima. Nella visione lacaniana, citata più volte anche da Recalcati, il padre è colui il quale si frappone alla brama smodata e inconscia della Cosa materna da parte del figlio e, attraverso la Legge, educa a un desiderio maggiormente cosciente e aperto al mondo. Anche questa, in fondo, è una forma di cura – nell’accezione del “prendersi cura” – per l’altro, poiché costruire il senso del limite è un modo di porre un figlio o una figlia nella condizione di acquisire consapevolezza del proprio Sé e delle risorse di cui dispone per affrontare l’esistenza. Tornano alla mente Platone e Kant: i filosofi dello Stato ideale, infatti, pongono un limite alla cupidigia, mentre la ragione kantiana postula il noumeno per interrogarsi sulle proprie capacità critiche.

Verrebbe, tuttavia, da chiedersi quale attinenza abbia il concetto di limite con quello di paternità, di là dalle riflessioni pur valide, ma oramai acquisite, sull’imperizia educativa di tanti genitori dei nostri tempi. Oltre i luoghi comuni, oltre le indebite generalizzazioni, la paternità e il limite sono, a mio avviso, legati dal nesso dell’ascolto, perché un padre che non ascolta non è in grado di percepire il travaglio di una vita che faticosamente si apre al mondo e di interrogarsi sul modo più opportuno di accompagnare questo travaglio con un atteggiamento fecondo non solo per il figlio o la figlia, ma anche per se stesso.

Mi si potrebbe obiettare che la mia è un’asserzione generica, che l’ascolto sia importante sempre e dovunque, tuttavia per un padre, o per chi esercita la funzione paterna, ascoltare le domande filiali significa comprendere e, per il sol fatto di comprendere, limitare l’angoscia propria e altrui. E la madre? Non è d’obbligo che anche la madre ascolti? Nessuno lo mette in dubbio, però nella madre vi è un aspetto inconscio e primitivo che, identificazione proiettiva a parte, permette al figlio o alla figlia di essere un unicum, una cosa sola con lei. La madre è terra, corpo, sangue, è quella “Natural mind” (Mente Naturale) della quale Jung parla e con la quale s’instaura un rapporto che è preverbale. Il padre, pur essendo corpo e sangue, non è terra ma cielo, non è humus ma limes, termine che può chiudere uno sguardo o, per fortuna, aprire un orizzonte. Ora, chiusura e apertura sono sempre in relazione a un limite: si chiude rispetto a qualcosa, si apre rispetto a qualcos’altro.

Chi non ricorda la figura del lampionaio matto presente ne “Il piccolo principe” che spegne e accende il suo lampione ogni minuto? L’uomo si comporta così perché il limite del giorno e della notte gli è venuto meno, analogamente un figlio cui venga meno il limite si spegnerà o accenderà senza una regolazione interna, transitando, fuor di metafora, dall’euforia alla depressione. Il padre può contribuire alla regolazione interna attraverso l’ascolto del ritmo al quale il figlio o la figlia danzano in quel caos che è il mondo.

Quasi superfluo dire che non si ascolta soltanto con le orecchie, poiché vi è una parola ascoltante e accogliente che corrisponde alla domanda di senso. E ho appreso che il senso si trova vivendo. Un padre che ascolta, pertanto, è un padre che ha posto una domanda e che chiede a propria volta di essere ascoltato in un orizzonte relazionale che supera la visceralità peculiare del materno.

In breve, è l’orizzonte di una progressiva maturazione che porta con sé l’interiorizzazione della figura paterna in quanto Super-Io, ma, se è lecito, anche in quanto accompagnamento all’Io. “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, scriveva Kant e non sono, forse, il cielo stellato e la legge morale, entrambi aspetti di un Paterno foriero di senso?

14 marzo 2018

 

Lecce: progetto di ampliamento del Collegio dei Gesuti (2 gennaio 1693)

di Armando Polito

È contenuto in una pianta custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia. La riproduco di seguito dal relativo link (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b531066018/f1.item.r=Lecce.zoom) avvertendo il lettore che mi sono ingegnato a ricavarne un’immagine qui fruibile integralmente in alta definizione cliccando di sinistro sulla stessa una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento, una seconda.

In alto a destra in posizione trasversale il dettaglio che qui riproduco opportunamente ruotato per facilitare la lettura del testo:

Prima lo trascrivo: Ideam hanc Collegii Lupiensis approbamus hac die s.a Januarii 1693 Thyrsus Gonzalez e poi lo traduco:  Approviamo questo progetto del Collegio di Lecce in questo secondo giorno di gennaio 1693 Tirso Gonzalez.

Nella scheda informativa (cui si accede dalla schermata comparsa al link segnalato all’inizio cliccando sulla prima icona in alto a destra recante la lettera i) si legge: Appartient à : Recueil … contenant tous les Plans originaux des Maisons, Eglises qui appartenoient à la Société des Jésuites avant leur abolition. [Assistance d’Italie]. [Pièces de grand format]. Tome XIV (Appartiene a: Raccolta … contenente tutte le piante originali delle Case, Chiese che appartenevano alla Società dei Gesuiti prima della loro abolizione. [Assistenza d’Italia]. [Documenti di grande formato].

Il documento è particolarmente importante perché, a differenza di altre piante facenti parte della raccolta, reca l’annotazione dell’avvenuta approvazione di  Tirso González de Santalla, che il 6 luglio 1687 fu eletto tredicesimo generale della Compagnia, carica che ricoprì fino alla morte avvenuta a Roma il 27 ottobre 1705. Il ritratto che segue è da Arnoldo van Westherout, Imagines Praepositorum Generalium Societatis Jesu, Monaldini, Roma, 1751.

Vi si legge

Electus in Congrega(tione) Generali XIII 6 Iulii 1687 obiit 27 Octob(ris) 1705 aetatis Ann(o) LXXXIV  (Eletto nella tredicesima congregazione generale il 6 luglio 1687; morì il 27 ottobre 1705 a 84 anni).

Da notare che nel testo appena indicato nella biografia allegata la data di nascita indicata è il 28 gennaio 1622 (dunque gli 84 anni di vita sono compatibili), mentre l’Enciclopedia Treccani (http://www.treccani.it/enciclopedia/gonzalez-de-santalla-tirso/) registra solo un 1624 integrato in Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Tirso_Gonz%C3%A1lez_de_Santalla) da un 18 gennaio.

Docente di teologia, il González fu protagonista di rapporti conflittuali nell’ordine per la sua avversione al probabilismo. Per questo potè pubblicare solo nel 1694 il Fundamentum theologiae moralis che nel 1676 non aveva avuto dai superiori l’imprimatur.

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino

Venerdì 16 marzo, alle ore 18.30, presso la libreria “I Volatori” a Nardò, si presenterà il volume di Mario Colomba: Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900, già sommariamente presentato

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

Mario Colomba Copertina

Per gentile concessione dell’Autore pubblichiamo uno dei capitoli del libro

L’ambiente di lavoro

di Mario Colomba

Sotto l’aspetto strettamente meccanico, in tutte le attività produttive, vi era un continuo confronto tra la forza di gravità e la forza fisica generata dall’uomo o dagli animali. L’unico aiuto tecnologico era rappresentato dall’uso delle sole macchine semplici conosciute da tempi immemorabili: la leva, la carrucola, il verricello ed il piano inclinato.

Nell’ambiente di lavoro, le varie attività erano regolate dall’esercizio della forza fisica dell’uomo, sapientemente sfruttata, senza superare i limiti delle facoltà fisiche individuali, in equilibrio con l’ambiente naturale e sociale, in una parola con il contesto.

Ma vediamo com’era questo ambiente di lavoro.

Operando una sorta di retrospettiva, il primo aspetto che viene spontaneo osservare è il perfetto equilibrio tra le varie attività umane e l’ambiente naturale.

Una prova di questo equilibrio era, per esempio, la pressoché assenza di rifiuti. Principalmente, si evitavano gli sprechi nell’impiego di tutte le risorse disponibili, come peraltro avveniva nell’ambiente familiare anche per le risorse alimentari. I consumi erano contenuti all’indispensabile. Tutto o quasi veniva riutilizzato: in agricoltura, gli scarti vegetali e i prodotti di risulta delle potature e della rimonda come combustibile, le deiezioni degli animali (e non solo), come concime; si utilizzavano come matite per i muratori gli elettrodi di grafite dell’arco voltaico consumati, che venivano scartati dalle cabine di proiezione dei cinematografi; nell’edilizia, i conci di tufo (cuzzetti) provenienti da demolizioni venivano recuperati, i detriti tufacei ed i conci frantumati venivano impiegati per i riempimenti e per i nuclei delle murature a due teste (muraglie); anche i fabbricati semidiroccati da eventi sismici, nella ricostruzione, non venivano rasi completamente al suolo (come si userebbe oggi con l’uso di mezzi meccanici) ma si conservavano anche i brandelli di murature ancora perfettamente integre, previa rimozione anche di capitelli o pezzi scorniciati se sgrugnati, che venivano sbrigativamente rottamati nella convinzione di essere in grado di riprodurli integralmente ex novo con le stesse ed anche migliori caratteristiche di qualità.

In una sorta di economia circolare ante litteram si tendeva al riuso di tutti i materiali. C’è stato un periodo negli anni ’50, all’inizio dello sviluppo del cemento armato, in cui si raddrizzavano i chiodi usati dai carpentieri per riutilizzarli. Naturalmente, ciò dipendeva anche dal basso costo della mano d’opera rispetto a quello dei materiali.

cantiere Mario Colomba

Spesso, in fase costruttiva, si decideva la dimensione di un vano- porta o vano-finestra in base a quella di un infisso recuperato.

Nel reimpiego di materiali e nella tendenza al risparmio dominava l’arte di arrangiarsi da cui era profondamente caratterizzata la vita quotidiana.

Un esempio particolarmente evidente del diverso rapporto con le risorse ambientali è costituito dalla gestione delle canne.

Prima che si affermassero i nuovi prodotti utilizzati in edilizia per strutture leggere di separazione o di coibentazione, il materiale più usato era l’incannicciato, sia per strutture leggere di contropareti o di divisione che per coibentazione, come nel caso dei tetti. In tal modo e con il loro impiego in agricoltura per la realizzazione di “cannizzi”, utilizzati per deporvi generi alimentari da essiccare al sole o per la fabbricazione delle scope, le canne, che crescevano naturalmente lungo i corsi d’acqua ed i canali di scolo dei campi, venivano periodicamente tagliate ed utilizzate. Ora, invece, bisogna procedere continuamente al taglio ed alla distruzione di queste piante, che vengono ritenute infestanti e che, in mancanza di interventi continui di rimozione, contribuiscono in maniera significativa a contrastare il naturale deflusso delle acque nei canali di scolo dei campi, esaltando quei fenomeni alluvionali ed inondazioni cui il nostro territorio è periodicamente soggetto.

Influiva nelle scelte dei materiali da costruzione anche un altro fattore: quello dei trasporti.

Il prevalente mezzo di trasporto per la movimentazione di merci e materiali era il carro a due ruote trainato da un cavallo o due (valenzino). La velocità di percorrenza del cavallo al passo, era di circa 5 km/h e perciò si utilizzavano normalmente materiali o merci provenienti da siti di riferimento raggiungibili in una o due ore (quelli che definiremmo oggi a km zero), salvo casi particolari. Per evitare perdite di tempo ed il costo del trasporto, a volte, si preferiva interrare sul posto materiali considerati di scarto.

 

A tal proposito mi piace ricordare un evento di cui sono stato testimone in occasione dei lavori di ristrutturazione del Seminario vescovile (quello antico, ubicato in piazza Pio XI , di fronte alla basilica cattedrale).

L’attuale atrio interno circondato dal quadriportico era un piazzale in terra battuta, caratterizzato dalla presenza di qualche albero di mandarino, dal quale si accedeva ai locali interni di piano terra (cappella, refettorio, ecc.) ed a quelli di primo piano attraverso una scala scoperta, a staffa di cavallo, costituita da due rampe curve convergenti al primo pianerottolo scoperto sul cui parapetto era eretta la statua di S. Filippo Neri.

Nel corso dei lavori di ristrutturazione, poiché la scala andava demolita e la statua andava rimossa, per evitare onerosi costi di trasporto, i gradini monolitici, in pietra di Trani o Apricena, finemente bocciardati, vennero riutilizzati sul posto per la costruzione del marciapiede esterno sulla facciata prospiciente piazza PIO XI e la statua di S. Filippo Neri venne letteralmente precipitata (nell’operazione si staccò la testa) e affossata in una buca capiente, scavata al piede del parapetto su cui era collocata in precedenza.

Prima dell’affermarsi dell’uso delle macchine termiche ed elettriche, ogni attività umana era orientata al superamento delle forze della natura (principalmente la forza di gravità) e così, nel corso dei secoli, non era mancato il ricorso a geniali innovazioni tecnologiche che, dall’invenzione della ruota, avevano caratterizzato l’impegno delle intelligenze a creare dispositivi ed utensili per contenere gli sforzi fisici e rendere possibile ciò che naturalmente non lo era.

I laghi Alimini nell’atlante del Pacelli (1803)

di Armando Polito

Già in altre occasioni mi sono occupato sotto il profilo toponomastico dei Laghi Alimini1 ma questa volta voglio proporre sul tema la preziosa testimonianza che Giuseppe Pacelli ci ha lasciato del suo atlante, del quale ho in precedenza riprodotto alcune sezioni2. 

carta 47v

Descrizione della Limini di Otranto. Dalla Città di Otranto partendo, e costeggiando il Mare, verso Settentrione, s’incontra dopo poco più di due miglia un Porto di piccolo ancoraggio, chiamato di Santo Stefano presso presso una Torre del medesimo nome. Quindi dopo poco meno di due altri miglia, si trovan le bocche di un piccolo Lago, che con termine greco (greco essendo stato l’antico l’antico linguaggio di questi luoghi) chiaman la Limine, Limini, o Limina. Questa Limini è lunga da Tramontana a Mezzogiorno, e molto stretta da Levante a Ponente, di cui la parte Settentrionale chiamasi veramente la Limini, e la parte meridionale appellasi le Fontanelle, forsi3 dai molti fonti, che scaturiscono nelle vicinanze della sua riva, e dei quali accoglie le acque. Il suo giro è di circa dodici miglia. Si pescano in esso molte specie di pesci, come nel Mare Piccolo di Taranto. Ed io venni assicurato da alcuni prattici Pescatori, quando in Taranto feci dimora, che alcuni Pesci da Taranto vanno fino alla Limini, passando il Capo di S. Maria, per depositarvi le ova, e alcuni altri dalla Limini passano nel Lago Tarantino, per ingrasciarsi, ove forsi l’invita o la miglior qualità dei pascoli, o la maggiore abbondanza. Tra i pesci migliori della Limini si contano specialmente i Cefali, le Anguille, i Capitoni, dei quali è abbondantissimo. E se da una maggiore attività fossero i pescatori Otrantini animati, quel trafico4 che nel loro Porto vi vengono a fare i Corfioti di pesci salati, che sono appunto Cefali, e delle di loro ovariche, e di Anguille, e Capitoni salati potrebbero anch’essi farlo, e con vantaggio maggiore, ed ivi stesso, e negli altri luoghi della Provincia.

Forse agli inizi del secolo XIX ci poteva pure stare questa tirata d’orecchi del Pacelli ai pescatori di Otranto per il loro scadente spirito d’iniziativa imprenditoriale, tanto scadente da consentire, con l’oro in casa, a quelli di Corfù dI esportare il loro in Terra d’Otranto. Mi chiedo, però, se oggi il sito si sarebbe potuto fregiare, grazie all’ecosistema che ospita, dell’acronimo ZPS (Zona di Protezione Speciale).
Chiudo con un dettaglio del foglio 22 dell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni uscito a Napoli per i tipi della Stamperia Reale dal 1789 al 1808 (dunque coevo a quello del Pacelli)

e, per una rapida comparazione sullo stato attuale del luogo, con un’immagine tratta ed adattata da Google Maps.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/16/alimini-appunti-storia-del-toponimo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/02/castro-ed-otranto-mappa-del-1568/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/03/le-torri-costiere-del-salento-nelle-mappe-giuseppe-pacelli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/03/le-torri-costiere-del-salento-nelle-mappe-giuseppe-pacelli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/07/la-grecia-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803/

3 Forma regolarmente in uso, insieme con forse nei secoli scorsi (entrambe dal latino forsit, ma forsi più direttamente).

4 Forma regolarmente in uso, insieme con traffico, nei secoli scorsi.

Il Sud

Tu non conosci il Sud, le case di calce

da cui uscivamo al sole come numeri

dalla faccia d’un dado.

(Vittorio Bodini)

centro-storico-salentino

di Elio Ria

Sono ad esistere in un altrove che è Sud, ancora il Sud di Bodini, con le case di calce di un tempo e i dadi che non rinunciano alla casualità.

Qui vorrei anch’io morire non di noia. Percorrere le vie polverose della periferia. Studiare le ore di un campanile vecchio che scandisce fatica. Ascoltare dalle donne vestite di nero rosari e ave maria. Sbucciarmi le gambe e non andare in farmacia. Scazzottare con il gruppo (nemico) dell’altro rione e poi fiondarci a nascondino in un campo di grano. Vestire primavera ogni giorno. Correre con scarpe distratte e gambe spelacchiate.

D’estate rincorrere la corriera blu bombata affollata da ragazzi e mamme con le borse piene di angurie. Sudare mare e sabbia.

Qui il mare mi appare ancora oceano e ho un altro cielo sopra il cielo, le nuvole – collane di pioggia, il sole – forza per resistere.

Qui ho libri di ore sparsi sulle torri sorveglianti del silenzio e quiete di destino.

Qui vedo un prete in piazza distrarsi all’ombra di un breviario. Qui Cristo ha sempre la croce.

Qui mi pare meraviglia di ricordo quando ascolto frammenti di canti remoti, vedo feste di piazza, spade che si sfidano, tarante che si mordono e pizziche duellare.

Qui è tutto: nostalgia e meraviglia, dolore e gioia, voglia di vivere per assaporare acqua dolce e salata per un grammo di felicità.

Qui vorrei morire, possibilmente in un giorno di maggio, con il sole tiepido delle prime ore del mattino, nel sonno di un dio.

 

Luigi Ruggeri alla fine di un mondo

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Cosimo Rizzo, Luigi Ruggeri alla fine di un mondo

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 257-260.

Copertina 

 

ITALIANO

La figura del filosofo, sociologo e traduttore Luigi Ruggeri, nella sua veste forse meno nota, quella di poeta, viene qui messa in luce ed indagata attraverso uno dei suoi poemi: Canto e lamento al secolo che muore. L’opera è al contempo un canto d’amore ed una nenia funebre nei confronti di un periodo così complesso e così ricco di contraddizioni. Un secolo martoriato da guerre e da stermini che hanno annichilito l’idea stessa di umanità, ma ricco anche di nuovi valori, di eccezionali pagine artistiche e quindi di speranza. Un secolo da compiangere e da amare.

 

ENGLISH

The figure of the philosopher, sociologist and translator Luigi Ruggeri, in his less knower look of poet, is here pointed out and investigated through one of his poem: Canto e lamento al secolo che muore. The poem is both a love song and a funeral dirge about a period so complex and rich in discrepancies. A century tortured by wars and massacres that have annihilated the idea itself of humanity but also rich in new values, in extraordinary artistic pages and so in hope. A century to be pitied and loved.

 

Keyword

Cosimo Rizzo, Luigi Ruggeri, poesia, Canto e lamento al secolo che muore

Santa Maria del Casale di Brindisi. Le aureole medievali ritrovate

Un “miracolo” a Santa Maria del Casale di Brindisi

Il ritrovamento delle aureole d’argento del XIV secolo

di Giovanni Boraccesi

Inaspettata e quanto mai gradita è la ricomparsa sulla scena artistica pugliese, dopo novantatré anni dalla sparizione, di due preziosissime aureole d’argento in principio sistemate sull’icona della Madonna col Bambino, del tipo Hodeghitria, conservata nella chiesa di Santa Maria del Casale di Brindisi, un edificio eretto dal principe Filippo I d’Angiò di Taranto (1294-1331) tra la fine del Duecento e gli albori del Trecento. Nel 1924 le aureole di questa immagine mariana, un affresco a suo tempo quasi certamente rimosso con la tecnica dello stacco a massello per essere sistemato su un più sontuoso altare marmoreo di gusto barocco e verosimilmente sbriciolatosi nell’ultima rimozione, furono trasferite nel Museo Archeologico di Taranto da dove si persero le tracce.

È stata l’occasione dell’inaugurazione delle nuove sale espositive del castello svevo di Bari, il 3 ottobre scorso alla presenza del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, a portare alla conoscenza del pubblico e alla visione dei visitatori le preziose aureole, nel frattempo finite nella cassaforte della Soprintendenza tarantina. Proprio in una sala del maniero barese, in ragione di un pannello illustrativo, se ne ricostruisce l’incredibile vicenda.

Le aureole brindisine, assieme ad altri perduti elementi anch’essi d’argento come il rotulum e le mani degli effigiati, costituivano una sorta di riza soprammessa alla sacra immagine. Lavorate a sbalzo e a incisione, presentano una ricchezza e varietà di ornati fitomorfi, in particolare foglie e girali, che a suo tempo ebbi modo di confrontare con altri reperti dell’Italia settentrionale, in particolare la Copertura di evangeliario del Tesoro di San Marco a Venezia, ma anche il Reliquiario del Sacro Chiodo, sempre nel Tesoro di San Marco; la cornice di due rilievi della Pala d’oro del duomo di Caorle; il frammento di cornice della Cassetta reliquiario dei Santi Senesio e Teopompo dell’abbazia di Nonantola. Proprio la citata Copertura di evangeliario, elaborata a Tournai tra il 1230 e il 1240 e giunta nella città lagunare già nel XIII secolo, divenne subito notissima e fonte di ispirazione di molti orafi del luogo, che in particolare ne imitarono gli squisiti motivi decorativi.

L’aureola del Bambino, inoltre, si arricchisce di otto identici clipei che racchiudono due pavoni affrontati all’Arbor Vitae, a loro volta circondati da un’iscrizione che solo ora, da una visione diretta del manufatto, si riesce meglio a leggere: A QVI FLOREM TENENT, evidentemente da interpretare come allusione al fiore di giglio di casa d’Angiò, dunque al suo probabile committente Filippo principe di Taranto. Entrambe le aureole si presentano oggi piuttosto malandate, ragion per cui se ne chiede un appropriato intervento di restauro.

Sotto quest’aspetto dei recuperi delle opere d’arte, la Puglia è stata fortunata negli ultimi tempi, visto che grazie al Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 2008 si è rinvenuto a Parigi il Crocifisso in avorio (XII secolo) rubato nel novembre del 1983 dalla cattedrale di Canosa mentre nel 2013 è stata la volta della medievale Stauroteca (reliquiario della Santa Croce) trafugata nel 1977 dalla chiesa di San Leonardo a San Giovanni Rotondo, quest’ultima recuperata a Firenze.

L’analisi delle due aureole brindisine sarà trattata da Giovanni Boraccesi, studioso di oreficeria pugliese. Tale intervento sarà preceduto da una relazione di Giulia Perrino, cultore della materia presso l’Università di Bari, dal titolo I principi di Taranto e la devozione per la Vergine del Casale.

L’intera manifestazione, che si svolgerà il 13 marzo alle ore 17,30 presso il Museo Archeologico “Francesco Ribezzo” di Brindisi, è stata organizzata dalla locale Associazione Amici dei Musei, nella persona della presidente Franca Mariani ed in collaborazione con il Museo stesso.

 invito

Su The castle of Otranto, primo romanzo gotico

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Annalisa Presicce, Su The castle of Otranto, primo romanzo gotico

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 221-256.

 castello di Otranto

 

ITALIANO

Nel 1765 Horace Walpole pubblica The castle of Otranto inaugurando un nuovo approccio alla scrittura e aprendo la strada alla letteratura gotica. Nel presente lavoro si intende fornire una presentazione degli antecedenti storico-culturali alla stesura dell’opera, una breve analisi stilistica che ne sottolinei l’apparato categoriale, una ricostruzione dei riferimenti utili a comprendere la vera o presunta relazione tra la fortezza otrantina reale e quella romanzata, le ragioni della fortuna di un libro che ha reso nota la costruzione aragonese in tutto il mondo, pur nei limiti del fantastico. Le fonti prese in esame sono diverse, letterarie, biografiche, epistolari, architettoniche, artistiche e propriamente storiche; partendo da queste ci si propone di sciogliere dal testo tutto ciò che è riconducibile, dove possibile, a trasposizione diretta di fatti e figure di spicco che hanno interessato il principato di Otranto in passato, passando anche per il filtro documentato delle trattazioni degli storiografi moderni di cui disponeva l’autore. La conclusione approda ad una intrigante verosimiglianza il cui fascino, vivo ancora oggi, ha permesso al castello di resistere al tempo quale emblema incontrastato tra i luoghi dell’orrore restituitici dalla letteratura.

 

ENGLISH

In 1765 Horace Walpole published The castle of Otranto inaugurating a new approach to writing and paving the way for the gothic literature. In the following study we intend to give a presentation of the historic-cultural antecedents to the drawing up of the work, a brief stylistic analysis aimed to point up the categorical apparatus, a reconstruction of the useful references to understand the true or alleged relationship between the real and the fictional fortress in Otranto, the reasons about the fortune of a book which has been making the aragonian castle become famous all over the world, even within the limits of a fantastic styling. The examined sources are different, literary, biographical, epistolary, architectural, artistic and historical properly; starting from here we propose to solve through the text all that is attributable, where possible, to a direct transposition of facts and prominent figures that had been affecting the principality of Otranto in the past, also passing through the documented filter of the modern historical works available to the author. The conclusion leads to a intriguing likelihood whose charm, still alive today, has been enabling the castle to resist the time as a undisputed symbol among the places of horror handed down from literature.

 

Keyword

Annalisa Presicce, Walpole, Otranto, The castle of Otranto

La Grecìa salentina nell’atlante del Pacelli (1803)

di Armando Polito

Dopo essermi occupato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/) dell’isola alloglotta albanese così come appare nell’atlante dell’erudito di Manduria Giuseppe Pacelli, la stessa operazione farò oggi con la Grecìa salentina enucleando la parte relativa dal manoscritto i cui estremi il lettore troverà nel link prima segnalato.

carta 49r    

Descrizione della Grecia Sallentina

Come nella Diocesi di Taranto visono delle Popolazioni, che parlano un linguaggio straniero al comune di tutta la Provincia: così ce ne sono ancora alcun’altre nella Diocesi di Otranto. Quelle di Taranto sono di lingua Albanese, e queste di Otranto di Lingua Greca. Ivi nella Mappa deòò’Albania Sallentina ne osservammo i Paesi, e donde mai avessero potuto un tal linguaggio imparare: qui nella Mappa della Grecia Sallentina faremo l’istesso.  Tredici sono i Paesi, che attualmente parlano il Greco, e sono Soleto, Sogliano, Cutrofiano, Corigliano, Zollino, Sternatia, Martignano, Calimera, Martano, Castrignano (detto perciò Castrignano de’ Greci, a differenza di Castrignano del Capo in diocesi d’Alessano), Mepignano, Cursi, e Cannole. Ma in Soleto, ed in Martano si mantiene maggiormente in vigore, ove al cuni del Popolo né parlano, né intendono altro, che il solo greco; mentre negli altri Paesi va di giorno in giorno degenerandoo la lingua, e più frequentemente del greco parlano l’italiano. L’origine però di tal linguaggio in questi Paesi non lo dobbiamo mica ripetere da tempi della nostra Magna Grecia. Poiché sebbene per la vicinanza a tal Regione ne avesse tutto il Sallento imitato il linguaggio; coll’esser però insieme colla Magna Grecia anche tutta questa Provincia caduta in poter de’ Romani, ne adottò col tempo, lasciata la propria, insieme col costume, e colle leggi, anche la lingua de’ Vincitori. Io assegno per epoca, e credo di non ingannarmi, il tempo, in cui passò ad esser Capitale dello Impero e del Mondo la città di Costantinopoli, per essere divenuta la residenza de’ Cesari. L’invasione, che i Greci Orientali allora fecero della nostra Provincia, fece ritornare fra noi la lingua Greca. Nella nostra Biobiblografia Sallentina ci occuperemo alla lunga di tal punto: e qui solamente osserviamo, che essendo cominciati nella nostra Provincia, a divenir promiscui i due riti latino e greco nella sagra Liturgia; e tanto più che alcune Scuole di Greca letteratura fra noi facevano dello strepito, e ne fomentavano la coltura, fu duopo1 alla fine, che tutte le Chiese del Sallento adottassero totalmente il rito greco, in vigor dell’Editto dell’Imperador Niceforo Foca dell’anno 968, con cui si ordinò che in tutta la Puglia, e nella Calabria in greco i divini uffici si recitassero. Allora fummo tutti di un sol linguaggio, perché era uniforme tanto a quel del Governo, che della Chiesa. Le note vicende quindi accadute, e le invasioni, che fecero in seguito delle Provincie dìItalia straniere selvagge Nazioni, sebbene linguaggio mutar facessero all’Italia tutta, dentro di cui uno particolr ne nacque, qual si fu l’Italiana favella, pur tuttavia serbassi nella nostra Provincia pe ‘l rito Chiesastico il Greco. E ne abbiamo veridiche notizie specialmente della Chiesa di Soleto (antichissima Città per l’origine, e di gloriosa ricordanza, per aver dato il nome di Sallenzia a questa parte di Provincia), in cui da Padre in Figlio per più di un secolo la Famiglia Arcudi occupò la carica di Arciprete Greco nella Chiesa Soletana. Or l’ultimo di tali Arcipreti di rito greco, e primo di rito latino fu il dotto Antonio Arcudi, che morì nel principio del secolo XVI dopo aver pubblicato in Roma per ordine di Papa Clemente VIII il suo Breviario Greco.

 

carta 50v

 

Sul finire dunque del secolo XV dovettero le nostre Chiese abbandonare a poco a poco il greco, adottare il rito latino, e cessare un tale linguaggio in Provincia. Que’ luoghi però, che oggi formano la Grecia Sallentina, sebbene per uniformarsi a tutti i Paesi vicini, usassero anche per la Chiesa il Latino, ritennero però per lor linguaggio il greco, ed insieme coll’Italiano lo serbano tuttora, comecché molto allontanato dalla natia purezza.    
carta 51r                                                                                                                                                                     (per un’agevole lettura della mappa cliccare di sinistro e una seconda volta quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento)

 

Mi congedo dal lettore con le stesse amare considerazioni con cui chiudevo il post sull’Albania salentina; anche il griko, nonostante le lodevoli iniziative locali di sensibilizzazione e conservazione, è destinato a morire, sopraffatto inesorabilmente dall’assalto dei nuovi (ma non tanto …) media, tv in primis, dal pregiudizio imperante secondo cui piccolo non è bello (belle le multinazionali!…) e dalla globalizzazione. Tuttavia debbo rivendicare al Pacelli un primato. La sua ipotesi sull’origine del griko precede di parecchi anni una corposa bibliografia che annovera Griechische volkslieder in Suden von Italien pubblicato nel 1821 da K. Witte sulla rivista  Geselischalter (articolo, però, dedicato al grecanico, cioè al greco di Calabria) e poi, via via,  i contributi di Domenico Comparetti (Saggi dei dialetti greci dell’Italia meridionale, Nistri, Pisa, 1866), Giuseppe Morosi (Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870). Si può dire che gli studi del Morosi costituiscono lo spartiacque  tra due scuole si pensiero che negli anni successivi si sarebbero affrontate non senza virulenza. Per il Morosi l’origine del griko era bizantina. Poi venne Gerard Rohlfs (Scavi linguistici nella Magna Grecia, Collezione meridionale editrice, Roma, 1933)  a ribaltare la teoria del Morosi (che nel frattempo era stata ripresa da Clemente Merlo, Carlo Battisti e Giovanni Alessio e che dopo la guerra sarà ripresa da Oronzo Parlangeli) sostenendo che il griko avesse un’origine molto più antica di quella bizantina, che fosse, cioè, il residuo della colonizzazione della Magna Grecia. La diatriba sulle due teorie si è via via congelata (anche per la morte  dei protagonisti) fino al 1996, anno in cui Franco Fanciullo pubblicò Fra Oriente e Occidente. Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, ETS, Pisa, ETS. Il Fanciullo, originario di Cellino San Marco (questa nota che può sembrare campanilistica vuole essere una sorta di compensazione del fatto che un fenomeno di casa nostra è stato oggetto di indagine da parte di studiosi non locali, se si esclude il Parlangeli, o, addirittura, come nel caso del Rohlfs, stranieri), sulla base anche di principi tratti dalla moderna sociolinguistica, avanza un’ipotesi che rappresenta, in un certo senso,  un compromesso tra i due blocchi precedentemente descritti, giunge, cioè, alla conclusione che l’origine del griko non risale né alla Magna Grecia, né al periodo bizantino, ma al tardo-antico, cioè  imperiale perché, secondo il Fanciullo,  quando i Romani sconfissero definitivamente i Messapi, nel nostro Salento sarebbero arrivati sì i soldati di Roma, ma anche moltissimi greci.

Comunque siano andate le cose e per chiudere con un ulteriore briciolo di campanilismo (so benissimo che questo sentimento non va d’accordo con la neutralità della scienza, ma tant’è: ogni tanto bisogna pur cedere a qualche debolezza …), va almeno riconosciuto che il padre della teoria dell’origine bizantina non fu il lombardo, milanese Morosi ma il salentino, manduriano  Pacelli.

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1 Sic, per d’uopo.

Ugo Orlando da Taurisano alias Mastro Scarpa. Poesie

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 Ugo Orlando

Antonio Di Seclì, Ugo Orlando. Poesie

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 215-219.

 

ITALIANO

Il taurisanese Ugo Orlando è stato, per molti anni, colpevolmente escluso dal novero dei principali poeti dialettali salentini. Facendo riferimento all’antologia Ugo Orlando. Poesie, curata nel 2016 dallo stesso Di Seclì con Antonio Resta per le Edizioni del Grifo, l’autore ripercorre in questo saggio la vita e le opere di Mastro Scarpa (pseudonimo del poeta) focalizzando, accanto alle principali esperienze biografiche, le diverse fasi temporali dell’attività poetica ed i nuclei semantici della sua produzione: il paese natale, l’esistenza umana, la Chiesa e la sua morale, se stesso. Un percorso lungo sessanta anni, fortemente condizionato dalle esperienze di vita (il lavoro, la famiglia in primis), dal contesto geografico (Taurisano) e dalle letture (dagli autori ottocenteschi ai vangeli).

 

ENGLISH

The Taurisanese Ugo Orlando has been, for a lot of years, guiltily excluded from the group of principal Salentini dialectal poets. To mention the anthology Ugo Orlando. Poesie, edited in 2016 by Di Seclì himself with Antonio Resta for Edizioni del Grifo, the author in this essay goes along the Mastro Scarpa’s (poet’s pen-name) work and life again focusing, beside the principal biographic experiences, the different temporal phases of the poetic activity and the semantic kernel of his production: the native town, the human being, the Church and its morality, he himself. A sixty-year period, greatly conditioned by life experiences (work, family in primis), by the geographical context (Taurisano), by the readings (from nineteenth-century authors to Gospels).

 

Keyword

Antonio Di Seclì, Ugo Orlando, Mastro Scarpa, Poesia, Taurisano

Giuseppe Bono da Diso e S. Giuseppe da Copertino

di Armando Polito

Il primo personaggio, del quale mi accingo a parlare,  del titolo molto probabilmente non è noto, neppure di nome,  a nessuno dei circa tremila abitanti1 del piccolo comune salentino  che gli ha dato i natali. Sarei un ipocrita, oltre che uno stupido e presuntuoso, se non confessassi che anche io lo ignoravo totalmente. prima che una fortuita circostanza me lo facesse incontrare.

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse è il caso di dire, prendendo a prestito il famoso verso dantesco. Ma il lettore più acculturato non si faccia illusioni: tra Paolo e Francesca da una parte e me dall’altra non c’è nessun punto di contatto, nonostante al tragico della loro storia d’amore qui si sostituisca il funereo, anzi il funebre …

Non faccio perdere ulteriore tempo e presento il frontespizio (l’intero volume è consultabile e scaricabile da https://books.google.it/books?id=M11JAAAAcAAJ&pg=PP5&dq=la+palma+spiccata+da+sassi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi5697HzL7ZAhWCCewKHdwwDk0Q6AEISTAG#v=onepage&q=la%20palma%20spiccata%20da%20sassi&f=false).

Si direbbe che, se si fosse voluto aggiungere qualcosa, non ci sarebbe stato lo spazio …

Siffatta struttura è la regola per i libri di qualche secolo fa e, se al lettore moderno la kilometricità dello scritto può non essere graficamente gradevole e apparire dispersivo,.per lo studioso è un’autentica fortuna, perché contiene una tal messe d’informazioni che gli consentono di orientarsi prima ancora di iniziare la lettura del testo vero e proprio.

Apprendiamo così che si tratta di un’orazione funebre in onore di Giovanni Federico duca di Brunswick e Luneburg. Interrompo per un sattimo l’analisi del frontespizio per dire che il volume si apre con la dedica ad Ernesto Augusto, fratello del defunto, della cui protezione l’autore (ne anticipo gli estremi traendoli dallo stesso frontespizio: P(adre) F(ra) Gioseppe Bono dà Diso Predicatore Cappuccino, della Provincia di Otranto. in Regno di Napoli) si augura di poter continuare a fruire sperando che il frutto della sua fatica riesca gradito come con tanta umanità si compiaceva il Serenissimo Suo Fratello, nel corso di cinque anni gradirne, e tollerarne l’aridità. E più avanti: A lei più d’ogn’altro era dovere ch’io presentassi et offerisse come picciol tributo della mia servitù questi frutti primaticci di Palma, aspersi non con altri fiori, ché di puri affetti di dincerissima divotione, et d’humilissima osservanza, poiche niuno havrebbe meno abborrito la rusticità della mia penna, se non L’A. S. Serenissima chìè Fratello, e Successore di chi hà si benignamente tolerata la rozzezza dellz mia lingua. Dopo le solite parole di circostanza e prima dell’altrettanto socntata di chiarazione di umiltà con nome del dedicante, si legge: Hannover, 20 Aprile 1680.

Non deve suscitare meraviglia questo servizio, per così dire, in trasferta, fuori d’Italia di un frate. E non è il solo esempio che la terra salentina offre. Poco prima lo stesso aveva fatto Diego Tafuro da Lequile, del qualr ho avuto occasiione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/.

Riprendo l’analisi del frontespizio e, ricordando al lettore il Palme della dedica, dò ragione del titolo vero e  dell’orazione, che è  La palma spiccata da sassi col motto Ex duris gloria. Quel che segue ha una funzione esplicativa e ci fa capire che il titolo prima enucleato non è altro che la descrizione della divisa adottata a suo tempo dal defunto. E qui bisogna precisare che divisa non è da intendersi nel senso strettamente araldico di insegna o stemma di famiglia, poiché quest’ultimo è quello che compare nella parte inferiore del frontespizio stesso.

Qui divisa sta nel senso estremamente generico di simbolo, quello che compare puntualmente nel rovescio delle monete (nel dritto pure costante è la testa del duca) coniate in numerose serie, anche nello stesso anno, da Giovanni Federico durante il periodo del suo ducato (1665-1679). Le immagini che seguono, ad esse relative, sono tratte da https://www.acsearch.info/search.html?similar=1011640.

1669


1675

1677

1679

Costante è pure in tutte la presenza del motto EX DURIS GLORIA (dai sacrifici la gloria), parafrasi del più efficace, per il gioco allitterativo, PER ASPERA AD ASTRA (Attraverso le difficoltà alle stelle). La palma sull’isolotto roccioso appare da sola nella prima moneta nelle altre le fanno compagnia due navi in balia dei flutti. Il significato metaforico dell’insieme motto e immagine è tanto scontato che non è il caso di soffermarsi.

Il resto del frontespizio ci informa che l’orazione e i tre altri discorsi furono composti e recitati dall’autore nella chiesa Ducale di Hannover. Il duca morì il 16 dicembre del 1679 ed il libro avrebbe visto la luce per i tipi di Wolfango Schwendimano stampatore ducale l’anno successivo.

Dopo la dedica di cui ho già detto si legge un messaggio rivolto Al Prudente Lettore, cui segue il ritratto del duca, che, a differenza delle monete, qui appare di 3/4. Guardando attentamente si nota sul petto  quella che sembra essere una curiosa replica. Se è così, direi che qui viene anticipata di secoli, con  una punta di esibizionistica autocelebrazione, una moda che a partire dagli anni ’60 mitizzò definitivamente la figura di Ernesto Guevara, alias el Che.  Più probabile, tuttavia, che si tratti del ritratto di un antenato, magari di suo padre.

Tale dettaglio, è assente nell’incisione di Cornelis Meyssens (1640-1673) risalente al 1668 circa, custodita nel Museum Herrenhausen Palace ad Hannover

ma appare, invece, in un altro [disegnatore Jean Michelin (1623-1695 ), incisore Robert Nanteuil (1623-1678)] a corredo dell’opera  Globi celestis in Tabulas planas redacti descriptio uscita Parigi nel 1674. Appare evidente, al di là della cronologia,  come di questo sia rifacimento quello del libro del Bono.

Subito dopo il ritratto, su cui credo di essermi attardato a sufficienza, inizia il testo dell’orazione funebre con in testa l’immagine che abbiamo già visto nel rovescio delle monete.

Essa poi riappare all’inizio di ognuno dei tre discorsi, tale e quale nel primo (Per il giorno della Gloriosa Ascensione in Cielo di Christo S. N.) e nel secondo (Della Gloriosa Resurrettione di Christo N. S.) e con piccole differenze in qualche dettaglio nel terzo (Per il Martedì di Pasqua).

La parte conclusiva proprio di quest’ultimo discorso recitato nella Chiesa Ducale d’ Hannover in presenza di S. A. S. Giovanni Federico Duca di Brunsvich, Luneburgh, etc. nell’anno 1679 contiene un ricordo di S. Giuseppe da Copertino. Il brano occupa le pp, 113-119 del volume, ma qui riporterò solo la parte iniziale:  E qui confesso il vero, che la gratitudine dovuta al servo di Dio F. Giuseppe da Cupertino mio compatriota, con interne piccjiate, chiama e me, e voi ad immortalare con archi di trionfo il suo nome. Voi, perche essendosi egli interessato con le sue orationi di donare il vostro SERENISSIMO DUCA alla religione cattolica, vi diede d’un ottimo, e perfetto Cattolico il ritratto e l’idea. Né, perche à lui uguale di cittadinanza, e di nome, non senza special privilegio vengo contr’ogni mio merito onorato à servir S. A. SERENISSIMA in quest’hospitio; ma vorrei però per dimostrar tal gratitudine ritrovarmi quel braccio robusto, con cui l’Angelo portò di peso per un capello Abacuch in Babilonia la Reale, per trasportar voi per duecentocinquanta leghe3 all’ultimi confini d’Italia per contemplarlo, ò nel Convento della Grottella in sua, e mia patria, o d’Assisi nell’Umbria, ò di Fossombrono nella Marca, là destinato dalla sacra Congregatione acciò vivendo tra Cappuccini pietra di paragone, dove egli altre volte, essendo stato nella sua gioventù nostro Novizio, imparò l’abbecedario di Cristo, s’esperimentasse wea tutt’oro finissimo di santtà nell’interno, ciò che nell’esterno appariva.  

Ricordo che Giuseppe era morto da sedici anni ed era stato proclamato santo da dodici. La Pasqua del 1679 cadde il 2 aprile, Giovanni Federico sarebbe morto di lì a pochi mesi (16 dicembre, come s’è detto). L’episodio della sua conversione dal luteranesimo al cattolicesimo ad opera del santo dei voli in quel di Assisi, dove il duca  venticinquenne (dunque siamo nel 1650, essendo egli nato nel 1625) si era recato da Roma nel corso di uno dei suoi frequenti viaggi per l’Europa, è riportato estesamente in  Domenico Bernino, Vita del Venerabile Padre Fra Giuseppe da Copertino, Tinassi e Mainardi, Roma, 1722, pp.180-189. Dallo stesso libro4 apprendiamo che nel 1668 il duca sposò Benedetta Enrichetta Filippina, della quale, ormai vedova, il Bernino riporta la testimonianza (p. 194): “Attesta la Serenissima di Bransuvik, ancor viva, mentre questo libro sriviamo, qualmente in quella Corte à tempo del Duca Giovanni Federico suo Marito, Non vi faceva altro, che parlare del Servo di Dio Padre Frà Giuseppe da Copertino, al quale egli conservava una tenerissima divozione, e ne aveva l’Effigie: et à questo riguardo, volendo egli qualche Religioso nè suoi Stati, prescelse li Padri Cappuccini, come che Francescani, frà quali haveva il suo Confessore, e quali mantenne, fin’ che visse. Così un’authentica testimonianza pervenuta a Noi da quelle parti,  insieme con un’ discorso morale del Padre Frà Giuseppe Bono da Diso Predicator’ Cappucino  della Provincia d’Otranto, stampato, e recitato nella Chiesa Cathedrale di Hannover, in presenza del Duca Giovanni Federico nel martedì di Pasqua 1679, cioè nove mesi avanti, che quel Sovrano nel nuovo viaggio d’Italia morisse, in cui nel fine si fà lunga, e degna commemorazione dell’Heroiche virtù del nostro Venerabile Padre Giuseppe, non senza tenerezza di lacrime negli Astanti, frà quali il Primo dava, e riceveva Maestà il medesimo Beneficato Serenissimo Sovrano, Uditore, Testimonio, e Soggetto di quanto in quella Predica si esponeva”.

L’episodio della conversione del duca era troppo eclatante perché non trovasse un posto di rilievo nell’iconografia del santo, oltre che nelle immaginette devozionali o santini, anche nell’arte propriamente detta. Di seguito due espressioni sul tema: la prima è opera di Giuseppe Cades (1750-1799), custodita nella cappella intitolata al santo copertinese nella Chiesa dei SS. XII Apostoli a Roma (foto tratta da http://poloromano.beniculturali.it/index.php?it/457/13-cappella-di-san-giuseppe-da-copertino)

la seconda è un dipinto attribuito da Nuccia Barbone Pugliese a Domenico Antonio Carella e da Stefano Tanisi a Saverio Lillo da Ruffano (1734-1796) custodito nel santuario di Giuseppe a Copertino (foto di Stefano Tanisi tratta da https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/18/il-pittore-del-santo-dei-voli-saverio-lillo-da-ruffano/).

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1 Secondo i dati ISTAT erano 2960 al 31 luglio 2017.

2 La dedica al cardinale Francesco Barberini consente di collocare la data di stampa nel range temporale della sua carica (1623-1679)-

3 La lega era un’unità di misura di distanza variabile tra i 4 e i 5 km a seconda dei luoghi.

4 Integralmente leggibile e consultabile in https://books.google.it/books?id=dI4CChboW_0C&pg=PA186&dq=Giuseppe+bono&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjGs5Ptkq_XAhVJthoKHaw4DH0Q6AEIUzAI#v=onepage&q=Giuseppe%20bono&f=true

Libri| Gli sposi di Monteruga

monteruga

Presentato a Lecce il libro “Gli sposi di Monteruga” di Rocco Boccadamo

 

Venerdì 2 marzo, al Fondo Verri in Lecce, s’è svolta la presentazione dell’ultima opera di Rocco Boccadamo, “Gli sposi di Monteruga”, Spagine Fondo Verri Ediz., dicembre 2017. Rocco, in questi anni, ci ha donato sistematicamente i suoi appunti di viaggio. La sua è una scrittura intimistica e paesaggistica, che ha la sua culla prevalente nei mari adamantini di Marittima e di Castro.

Boccadamo è un narrastorie popolare, giacché, di solito, i protagonisti dei suoi scritti sono pescatori, contadini, muratori, ciabattini. Le sue storie vivide d’amore hanno per primario fulcro quel popolo silenzioso, che fa la storia, nonostante tutto.

La presentazione del libro di Boccadamo, introdotta dal cofondatore del Fondo Verri Piero Rapanà, è stata curata, con l’autore, da Giuliana Coppola, da Eliana Forcignanò e da Mariagrazia Presicce.

In apertura, la scrittrice Giuliana Coppola, che a tanti di noi ha trasmesso il gusto per la lettura e per la poesia, ha insistito sulla cifra precipua della narrazione di Rocco: quella del ricordo. E, in effetti, gli appunti di viaggio di Boccadamo (viaggio nel sogno e nella realtà) sono interamente improntati sulla mansione che ha al centro la memoria. Giuliana ha rammentato opportunamente una frase famosa di Marquez: “La vita non è quella che viene vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Si può serenamente far rinnovellare la quotidianità, le cose, le persone, i luoghi, tramite il medium del racconto. Giuliana s’è giustamente emozionata leggendo, nella raccolta, la vicenda di Vitale, un ragazzo alto 1.55, eroe della Prima Grande Guerra.

Rocco, durante la serata, ha saputo dare una nitida e affettuosa descrizione della madre Immacolata, donna del popolo, devota alla famiglia e alla fatica, morta prematuramente. E sempre nel libro campeggia lucente l’Ariacorte, un quartiere di Marittima, una zolla rosso sangue, emozionante bomboniera della tradizione. Rocco è un narrastorie salentino lineare. C’è chi ha imparato a volergli bene incontrandolo de visu, e c’è chi l’ha conosciuto tramite i suoi scritti. Dai lavori di Boccadamo si sente la vibrante eco di una terra che ha santificato la fatica, la gioia, il dolore.

La giovane filosofa e poetessa Eliana Forcignanò ha citato il suo amato Jung, sostenendo che non bisogna credere a tutto quello che ci si racconta. Il narratore, ovviamente, interpreta una parte di realtà, la sua realtà, nel modo in cui gli appare: Rocco sa far rifiorire i luoghi dell’anima, sa far sbocciare le sue storie adolescenziali, giovanili, mature. Eliana Forcignanò ha insistito su un aspetto di rilevante importanza: quello simbolico. Lo scrittore procede, anche senza volerlo, per simboli. Parliamo e narriamo per simboli, come nel caso del racconto del tabacco.

La scrittura di Rocco è un percorso piano ed empatico, di sentimento, non si scorge bene che col cuore pulsante e con le vene gonfie d’amore. Talvolta, l’essenziale è invisibile agli occhi. L’autore tenta, mediante uno scavo nel sommerso, e un gioco nel manifesto, di far trapelare il conosciuto. La narrazione del ricordo è un lavoro certosino, che esige scandaglio fra i meati più oscuri e più chiari, e una ragione vera di vita. Il ricordo non deve essere mai stantio, ma quando è ben vezzeggiato e nutrito, diventa propulsore di un presente nuovo, inedito.

Rocco Boccadamo ha la capacità di tratteggiare il passato e l’oggi, con una visione pulita, in un eterno presente, che sa preconizzare il futuro. Un ringraziamento di cuore a Rocco per riuscire a risvegliare in noi il gusto della narrazione minimalistica e poetica. Chi legge i racconti di Rocco può notare, senz’altro, che lui arriva  anche ad aprire squarci lirici, riesce a svestire e vestire la Natura con occhi da poeta.

Si è trattato di una proficua serata di genuina cultura, snodatasi con leggerezza fra le pareti particolarmente attagliate e idonee del Fondo Verri, davanti a un folto auditorio e alla presenza, gradita, di Mino, Adele, Marisa, Ornella e Rossana, figli di due coppie di coniugi, marittimesi d’origine e tuttora viventi, che hanno trascorso una lunga parte della loro giovinezza a Monteruga: Floriana e Gino, Elvira ed Emilio (la seconda, sposatasi, con ciò ispirando il titolo della narrazione di Boccadamo, proprio nella chiesetta del Villaggio).

 

(Appunti fedeli sulla manifestazione, ordinati e rielaborati dal poeta e critico letterario Marcello Buttazzo).

 

Maglie: uno scorcio di via Roma sospeso tra più di due secoli

di Armando Polito

Per l’esattezza sono 237 anni che intercorrono tra le due immagini (la seconda, come tutte quelle recenti, è stata tratta ed adattata da Google Maps). La prima, infatti, risale al 1781 ed è una delle tavole inserite nel terzo tomo parte prima del Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile di Jean Claude Richard de Saint-Non. A parte i problemi prospettici che non consentono una sovrapponibilità a fini comparativi, tra le due immagini e la fedeltà descrittiva non assoluta della tavola antica, sono immediatamente leggibili, tuttavia, gli sconvolgimenti che lo scorcio ha subito nel tempo. Per questo non è visibile nella foto recente il duomo col suo campanile, sul quale tornerò dopo, ma lo è la chiesa della Madonna delle Grazie che di seguito presento in prospettiva più favorevole rispetto alla tavola di quanto non sia nella foto precedente.

Stessa operazione per la colonna della Madonna delle Grazie.

Torno, come avevo promesso, al duomo (sia pur smembrato per le stesse ragioni nei due dettagli del campanile e della facciata1) e chiudo.

 

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1 Farà cosa estremamente gradita qualsiasi lettore, locale e non, che vorrà inviare (o dichiarare in commento la sua disponibilità a farlo) sue foto più definite dei dettagli riportati; il suo nome, com’è doveroso, sarà citato all’atto dell’eventuale inserimento delle foto.

S. Isidoro: non solo spiaggia, ma anche Sarparea e spundurate

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

ulivi di Puglia

 

Alessio Palumbo, S. Isidoro: non solo spiaggia, ma anche Sarparea e spundurate. Storia e biodiversità da conoscere, proteggere, raccontare. Intervista ad Emanuela Rossi e Salvatore Inguscio

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 203-212.

 

 

ITALIANO

Un viaggio ideale lungo la costa tra Nardò, Sant’Isidoro e Porto Cesareo, tra spundurate, grotte, boschi di ulivi monumentali, specie autoctone e tanto altro ancora. A far da guida Emanuela Rossi e Salvatore Inguscio, da anni impegnati con Avanguardie in progetti di trekking, escursioni ambientali e visite guidate volti a far conoscere il lato più vero ed autentico del Salento, con costante attenzione ai pericoli che da anni minacciano questo suggestivo lembo di terra tra i due mari.

 

ENGLISH

An ideal journey along the coast among Nardò, Sant’Isidoro and Porto Cesareo, among spundurate, caves, monumental olives woods, autochthonous species and more other things. As guides Emanuela Rossi and Salvatore Inguscio, for years occupied with Avanguardie with projects of trekking, environmental hikes, guided tours aiming at letting people know the most true and authentic aspect of Salento, with a continuous attention to the dangers that for ages have threatened this picturesque strip of land between two seas.

 

Keyword

Emanuela Rossi, Salvatore Inguscio, Nardò, Sant’Isidoro, Porto Cesareo, Spundurate, Sarparea

Una tela raffigurante San Tommaso d’Aquino nella chiesa del Rosario a Latiano

di Domenico Ble

 

A seguito del recente lavoro di restauro possiamo tracciare un primo excursus pittorico della tela raffigurante San Tommaso d’Aquino conservata nella chiesa del SS. Rosario a Latiano.

Diego Oronzo Bianchi (attribuito), San Tommaso d’Aquino, Latiano, chiesa del SS. Rosario
Diego Oronzo Bianchi (attribuito), San Tommaso d’Aquino, Latiano, chiesa del SS. Rosario

 

Nell’opera vediamo il santo raffigurato in ginocchio e con lo sguardo rivolto verso l’alto, in direzione della colomba dello Spirito Santo, dalla quale fuoriescono i raggi luminosi. San Tommaso indossa gli abiti dell’ordine domenicano, veste bianca e mantello nero, nella mano destra tiene la penna, oggetto che ricorda il suo incessante lavoro teologico e con la mano sinistra indica la colomba; è qui raffigurato un momento di grande spiritualità, l’istante in cui l’uomo è travolto dall’ispirazione divina. Del santo, vengono rappresentati tutti gli attributi iconografici: il sole sul petto, la penna, il libro e la colomba dell’ispirazione.

Sotto la nube, su cui è posizionato il santo, si intravede il volto di un uomo barbuto, si tratta della personificazione del maligno. La scena si svolge in un luogo chiuso, lo studio del teologo, e lo si deduce dal tavolo posto in primo piano a destra.

Nella Platea Legale e Giuridica del Venerabile Convento dei Reverendissimi Padri Domenicani di S. Domenico di Latiano, redatta nel 1775 dal Regio Tavolario D. Giuseppe Ranieri Ferrari, nella descrizione della chiesa, è menzionato anche l’altare di san Tommaso d’Aquino [1]; è dunque possibile ipotizzare che questa tela, fosse già posta sull’altare e che a commissionarla fosse stato lo stesso ordine religioso.

Non si conosce l’autore, in quanto non è presente la firma, ma lo stile ricorda quello di Diego Oronzo Bianchi (1683 – 1767) [2], pittore nativo di Manduria, molto rinomato nel XVIII secolo, molto nel Salento; lo confermano le numerose opere presenti nella subregione pugliese.

Nel San Tommaso d’Aquino ritroviamo delle assonanze stilistiche con alcune opere del pittore manduriano; il legame più forte è la presenza del luminismo e dalla plasticità dei corpi, particolari venuti fuori grazie al recente restauro. Tali aspetti in Diego Oronzo Bianchi sono una costante, e tale maestria il pittore l’acquisisce osservando la pittura di Paolo De Matteis. Il celebre maestro campano fu, in un certo senso, per Bianchi il “faro” ispiratore sia a livello tecnico-pittorico che compositivo.

Michele D’Elia da conferma di questa adesione allo stile del De Matteis: “…Bianchi, è uno dei tanti componenti della famiglia di pittori manduriani che da allora in poi, per buona parte del secolo, divulgheranno a loro volta, con esiti non molto brillanti, i modi del De Matteis…” [3].

La fisionomia del santo domenicano ricorda quella del san Giovanni della Croce presente nella tela raffigurante la Madonna e i santi Giovanni della Croce e Teresa conservata nella chiesa del Carmine di Mesagne. Non solo, le è simile anche quella del san Filippo Benizi, raffigurato nella tela in cui è rappresentata la Concessione della Costitutio dell’Ordine dei Servi di Maria a S. Filippo Benizi e S. Giuliana Falconieri, conservata presso la chiesa dello Spirito Santo a Manduria.

Altra assonanza possibile è da farsi con la figura di san Carlo Borromeo presente nella tela raffiguranti i Santi Patroni di Manduria, conservata nella Chiesa Collegiata a Manduria; in tale corrispondenza è uguale anche il panneggio delle vesti.

A Latiano non è insolita la presenza del Bianchi in quanto nella chiesa dell’Immacolata sono presenti quattro sue opere: il Transito di San Giuseppe, l’Addolorata, San Giovanni Evangelista e Maria Maddalena, tutti realizzata prima del 1785 [4]

Ulteriori ricerche in futuro potranno fare ulteriore luce. Per ora, in virtù delle assonanze stilistiche, è possibile avanzare questa prima ipotesi pittorica.

 

[1] (Nella Chiesa del Convento vi sono erette sette Altari, due delle quali, cioè l’Altare del Rosario, e del SS.mo Nome di Gesù sono del Convento, e di queste per gli utensili e feste ne portano il peso le Confraternite. L’Altare maggiore, l’Altare di S. Margherita, e l’Altare di S. Tommaso d’Aquino sono dell’istesso Convento. L’Altare del Patriarca Domenico, e l’Altare di S. Vincenzo sono del Sig. Marchese di Latiano). Platea legale, e giuridica del venerabile conventi de’ RR. PP di S. Domenico di Latiano sotto il titolo di S. Margarita in tempo del priorato del priore e lettore Fra Vincenzo Rispoli di Mesagne. Fatta dal R. Tavolario D. Giuseppe Ranieri Ferrari, delegato della Real Camera come P. pro()ni spedite a d. 16 del mese di settembre 1775.

 

[2] M. GUASTELLA, Iconografia sacra a Manduria. Repertorio delle opere pittoriche (secc. XVI – XX), Barbieri Editore, Manduria, 2002, p. 34.

[3] M. D’ELIA, La pittura del Settecento in Puglia tra Barocco e Rococò, Vol. IV, Electa Editrice, Milano, p. 285.

[4] Le quattro tele vengono menzionate nella visita pastorale del vescovo di Oria, Mons. Alessandro Maria Kalefati, avvenuta nel 1785.

Libri| Il “Cosimo de Giorgi” di Lecce, primo liceo scientifico della Puglia

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Presentazione di Giovanna Caretto

Il Liceo “De Giorgi” non mi annovera tra le migliaia di studenti che dal 1923 si sono formati tra i suoi banchi. Nel lontano 1975, terminata la scuola media, fu mio padre, a suo tempo alunno di questo Liceo, ad orientarmi verso gli studi classici, che allora si addicevano più propriamente alla formazione delle ragazze. Tale scelta, però, non ha fatto vacillare la mia propensione per le discipline scientifiche, avendo conseguito la laurea in Scienze Biologiche con successiva specializzazione in Microbiologia. Nel 1987, vincitrice di concorso a cattedra, iniziò la mia carriera di insegnante di Scienze negli istituti secondari di Lecce e Provincia, passando per il Liceo “De Giorgi” negli anni 2005-2007.

Poiché sotto un’apparenza tranquilla si cela uno spirito curioso, desideroso di mettersi alla prova e sperimentare nuove vie, nel settembre del 2010, vincitrice di concorso dirigenziale, per volere del destino, tornai al prestigioso Liceo “Cosimo De Giorgi” di Lecce come dirigente, prima donna nella lunga serie di presidi-dirigenti avvicendatisi dal 1923 ad oggi.

Il turbinio delle emozioni provate, assumendo la dirigenza del De Giorgi, spaziava dall’intima soddisfazione di essere la dirigente del più antico liceo scientifico dell’intera regione, alla consapevolezza della gravosità dell’incarico. Assumevo la dirigenza di un Liceo, grande per numero di sedi, alunni, docenti, ma soprattutto per le elevate attese formative in esso riposte da genitori e studenti, a me personalmente note, avendolo io stessa scelto per la formazione di mio figlio Lorenzo. Da lavoratrice instancabile e con forte senso del dovere, quale ritengo di essere, mi sono gettata a capofitto nel lavoro per concretizzare la mia visione di scuola, sostenendo la mia ancora acerba esperienza dirigenziale con una grande attenzione ai bisogni delle persone che, a qualsiasi titolo, lavorano o collaborano col Liceo e che, insieme a me, sono attori della vita interna e dell’immagine esterna del De Giorgi. Per mia fortuna la comunità scolastica nel suo complesso mi ha accolto con sostanziale apertura e condivisione, consentendomi di avviare un cambiamento che sapesse coniugare nuovi processi didattici con un solido curricolo formativo, costruendo cioè il futuro delle nuove generazioni sulle esperienze acquisite, imparando il nuovo senza dimenticare il passato, sostanziando e corroborando il presente con la conoscenza del cammino già fatto.

In questo percorso di recupero delle radici, di documentazione del passato per dare forza e identità al presente, si inserisce la volontà di pubblicare il presente volume.

Il caso ha voluto che presso il “De Giorgi”, al mio arrivo, fosse in servizio il prof. Riccardo Carrozzini, architetto, docente distaccato su altri compiti per motivi di salute. Ho apprezzato, da subito, il suo stile pacato e concreto, ho beneficiato della sua competenza professionale e ho condiviso con lui la volontà di ricostruire la storia del Liceo De Giorgi. La sua peculiare situazione personale e professionale (architetto, ex docente, addetto alla biblioteca, ex alunno del Liceo) ha consentito di trovare in una sola persona motivazione, competenza e disponibilità di tempo per la minuziosa ricerca di documenti e la ricostruzione di uno spaccato della vita passata del De Giorgi. Si è perciò dedicato a tale attività con entusiasmo e grande profusione di tempo ed energie, andando ben oltre l’impegno scolastico antimeridiano.

Visti i risultati delle sue ricerche, per amore di documentazione storica ho ritenuto fosse importante non disperdere l’ingente documentazione reperita, in gran parte inedita, che occorreva, però, riunire in un unico testo che potesse ricostruire, pur con alcuni limiti, parte della storia del Liceo De Giorgi. Sicuramente il testo che si dà alla stampa presenta il limite di una visione un po’ personalistica: la ricerca di documenti e la ricostruzione guardano prioritariamente alla storia degli edifici sede del Liceo, al loro inserimento urbanistico e al loro stato di conservazione, purtroppo bisognoso di numerosi interventi. Di tanto Riccardo Carrozzini è ben cosciente, ma ciò non toglie importanza all’inedito lavoro, che a mio giudizio risulta di grande interesse. Documenti, foto, personaggi, nomi, curiosità del passato di questo Liceo, oltre a diventare accessibili a chiunque vorrà leggere il volume, potranno far rivivere ricordi a chi è più avanti negli anni, ma anche, forse, far sorridere i più giovani, in un inevitabile confronto con il presente.

Un piccolo spazio è stato dedicato alla raccolta di testimonianze-ricordi di ex alunni del Liceo, oggi professionisti di valore sparsi per il mondo. Mi scuso da subito con tutti coloro che avrebbero avuto titolo per portare la propria testimonianza e non sono citati, ma questa sezione vuole semplicemente essere una dimostrazione, per gli studenti di oggi, di quanto possano lasciare traccia gli anni trascorsi al Liceo De Giorgi.

Le difficoltà scolastiche, le piccole delusioni, le temporanee incomprensioni, gli inevitabili incidenti di percorso, oggi causa di grandi affanni, domani saranno ricordati con benevolenza. La palestra formativa del Liceo avrà prodotto i suoi frutti se i suoi studenti sapranno vivere una cittadinanza europea da professionisti competenti e se sapranno essere resilienti ai mutamenti della vita (come si usa dire oggi) o, ricordando una frase ben nota del passato, tetragoni ai colpi di ventura.

Sperando che questo lavoro possa essere apprezzato all’interno e all’esterno della comunità scolastica, rivolgo un sentito ringraziamento a Riccardo Carrozzini.

Il famoso matematico Ennio De Giorgi con preside Francesco Resta nel 1963
Il famoso matematico Ennio De Giorgi con preside Francesco Resta nel 1963

 

Dalla Prefazione di Riccardo Carrozzini

Tanti e del tutto imprevedibili sono i casi della vita, che spesso è determinata da fatti che non avremmo mai pensato che potessero accaderci. Perciò anche quello che leggerete ritenetelo frutto di un caso. Questo ha voluto che, in seguito a un brutto evento che ha menomato le mie condizioni fisiche, io abbia potuto scegliere, nel 2007, la scuola dove essere mandato, da docente destinato ad altri compiti per motivi di salute. Ho preferito perciò la mia scuola da alunno, il Liceo scientifico “Cosimo De Giorgi”, e ciò mi ha consentito, nei ritagli di tempo e dedicandoci anche un bel po’ dell’ “altro” tempo, quello “mio”, di ricostruire, almeno parzialmente, la storia della Scuola, che alcuni anni or sono avevo appena abbozzato per il suo sito web. È evidente che volano di tutto il mio lavoro sono stati il fortissimo legame e i tanti ricordi che mi legano a questa Scuola ancora oggi, dopo 50 anni dalla maturità.

Le ricerche compiute e i molti documenti trovati, in buona parte inediti, hanno consentito di mettere insieme una specie di cronaca illustrata, certo non completa, ma spero interessante per chi abbia voglia di leggerla e guardarla. Ho volutamente scelto, da tecnico quale io sono, di approfondire solo quegli aspetti per i quali sentivo di avere mezzi sufficienti, e di riportare in larga prevalenza solo la successione degli eventi, senza esprimere giudizi e lasciando il più possibile parlare i documenti. Spetterà ad altri di occuparsi dei tanti aspetti che ho trascurato, più legati alla didattica, magari in occasione del centenario del Liceo, che cadrà nel 2023.

Fonte principale delle ricerche è stato l’Archivio di Stato di Lecce, terzo deposito della Provincia, che ha fornito la maggior parte delle testimonianze documentali. Ma anche presso l’Archivio Storico della Città di Lecce ho trovato diverse carte interessanti, che hanno permesso sia un veloce esame di carattere urbanistico della porzione di territorio a cavallo del viale De Pietro, dalla Villa comunale al bastione San Francesco, sia di ricostruire la vicenda legata al busto in bronzo di Cosimo De Giorgi, opera di Antonio Bortone, posto davanti all’ingresso della prima sede del Liceo.

I documenti trovati presso l’Archivio storico della Camera di Commercio hanno consentito di ricavare il ruolo che quell’Ente ebbe come finanziatore, insieme alla Provincia e al Comune di Lecce, del Liceo alle origini, e come promotore di una proposta tendente a dare al Liceo stesso una denominazione diversa da quella che poi gli venne assegnata.

La copertina degli Annali dal 1923-24 al 1927-28
La copertina degli Annali dal 1923-24 al 1927-28

 

L’Archivio storico della Scuola conserva, della prima sede (quella presso la villa comunale), poca documentazione; la maggior parte di essa, infatti, ed in particolare tutta la corrispondenza, deve essere andata perduta nel corso del trasferimento da quella sede all’attuale, nel 1957[1]. Cose interessanti ho trovato pure nel faldone dei documenti della Cassa scolastica, e un altro caso della vita ha consentito di identificare l’autore (un importante scultore romano) del busto in marmo di Toto Zaccaria, visibile nell’atrio insieme ad una targa marmorea con iscrizione, entrambi del 1925.

L’Ufficio centro storico della città di Lecce ha consentito, infine, di dire qualcosa sul presente e sul futuro dell’area intorno al Liceo, nel quadro dell’importante recupero complessivo dell’immagine di quella parte di città.

Mi auguro che il testo che sono riuscito a mettere insieme, corredato da numerose immagini, anche d’epoca, e dai più importanti documenti scelti tra quelli reperiti nei diversi archivi, possa risultare interessante anche per i non alunni del “De Giorgi”, visto che una sezione del libro riguarda un’area extramurale abbastanza importante di Lecce. Qua e là, poi, vi sono altre notizie interessanti, poco note o inedite, su situazioni particolari, passate e future, della città.

L’impostazione data a questo lavoro costituisce, probabilmente, una novità per le Scuole del Salento e può perciò costituire un esempio da seguire da parte di altre scuole “storiche” della Provincia.

Il busto in bronzo di Cosimo De Giorgi, opera di Antonio Bortone, fuso nel 1942 per esigenze belliche, davanti alla prima sede del Liceo (a quest’opera è stata dedicata anche la copertina del volume)
Il busto in bronzo di Cosimo De Giorgi, opera di Antonio Bortone, fuso nel 1942 per esigenze belliche, davanti alla prima sede del Liceo (a quest’opera è stata dedicata anche la copertina del volume)

 

Il sapere si accresce solo se condiviso, ha detto Ivan Tresoldi, noto poeta di strada, e ormai da alcuni anni qualcuno lo ha scritto con la vernice spray sulla nuova scala di accesso al Liceo “De Giorgi”. Approvo pienamente e perciò un altro sentito grazie va a tutti coloro che hanno reso possibile, col loro apporto, di qualsiasi genere, la stampa di questo volume e a tutti coloro che vorranno contribuire alla sua diffusione.

Mi scuso, infine, se ho, forse, troppo “personalizzato” alcune parti di questo scritto, ma mi sono sentito (e mi sento tuttora) molto dentro alle cose.

 

Il contenuto di quanto leggerete è il seguente:

  • l’istituzione dei Licei scientifici con la riforma Gentile (1923);
  • la controversia sulla denominazione del Liceo scientifico di Lecce;
  • il busto in bronzo di Cosimo De Giorgi
  • le sedi del Liceo e il contesto:
  1. prima … (brevi considerazioni di tipo urbanistico sull’area extramurale a cavallo di viale De Pietro, già viale Brindisi, già viale d’Italia, dalla fine del XIX secolo)
  2. la Scuola d’Arti e Mestieri
  3. la prima sede del Liceo
    1. i primi lavori di adeguamento
    2. la requisizione
    3. l’ampliamento del 1951
  4. l’atto di vendita del terreno dell’attuale sede centrale
  5. i Vigili del fuoco
  6. la nuova sede, inaugurata nel 1957
  7. dopo il 1965
  8. la Scuola … abusiva (!!!)
  9. De Giorgi forever!;
  10. oggi … e domani;
  • la Cassa scolastica e il busto marmoreo di Toto Zaccaria;
  • gli Annali misteriosi
  • l’altorilievo sulla facciata della sede di viale De Pietro;
  • curiosità;
  • contributi di (e su) ex alunni, ex docenti ed ex presidi;
  • nomi e numeri;
  • conclusioni.
Disegno del progettista ing. Salvatore Erroi per la nuova sede del liceo (1957)
Disegno del progettista ing. Salvatore Erroi per la nuova sede del liceo (1957)

 

[1] Molti dei documenti citati e/o riprodotti sono, perciò, relativi ai rapporti tra la Scuola e l’Amministrazione provinciale, e vengono dall’Archivio di Stato di Lecce.

Il geco salentino

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 geco

Fabio Protopapa, Il geco salentino

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 197-201.

 

ITALIANO

La figura del geco è radicata nella cultura del meridione,tanto da rappresentare oggigiorno un simbolo del Salento.Da tempi immemori, i rettili dominano la macchia mediterranea, nascondendosi tra le pietraie e nutrendosi di piccole prede. La salvaguardia delle tre specie che sopravvivono nel sud Italia è di fondamentale importanza per mantenere un equilibrio stabile e delicato che dura da milioni di anni. Molto spesso questi sfuggenti e timidi animali vengono travolti dalle auto nelle ore notturne. Altre volte vengono uccisi irragionevolmente dall’uomo per scarsa e confusa conoscenza tramandata nel corso dei secoli. Infine, l’utilizzo di insetticidi e diserbanti, insieme ad una antropizzazione galoppante, ha contribuito in maniera significativa alla distruzione dei loro habitat naturali. L’informazione e la giusta empatia possono essere da stimolo per osservare con occhi diversi il geco, contributo essenziale per la futura ingegneria biomedica.

 

ENGLISH

The image of gecko is so rooted in the southern culture that today it is a symbol of Salento. From oblivious times, the reptiles have been dominating the Mediterranean scrub, hiding among heaps of stones and feeding on little pries. The preservation of the three species that survive in the south of Italy is very important to maintain the stable and delicate equilibrium that goes on for millions of years. Very often these slippery and timid animals are run over by cars during the night. Sometimes they are killed unreasonably by men for a limited and vague knowledge handed down over the years. Finally, the use of insecticides and herbicides, with a galloping antropization, has helped in a significant way to destroy their natural habitat. The knowledge and the right empathy can be a stimulus to observe with different eyes the gecko, essential contribution for the future biomedical engineering.

Keyword

 

Fabio Protopapa, geco, tarantula, Askàlabotes, Stellione

Le specchie di Calone e Cerrate

numero de Il delfino e la Mezzaluna

 landriscina

Sabrina Landriscina, Le specchie di Calone e Cerrate: storia degli studi e nuove acquisizioni sul contesto topografico 

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 181-196.

 

ITALIANO

Un esame comparato delle fonti cartografiche, d’archivio e bibliografiche, completato ed arricchito con l’analisi delle foto aeree storiche della zona a nord di Lecce, ha consentito all’autrice di questo saggio di approfondire le conoscenze sino ad oggi possedute sulle specchie di Calone e Cerrate. Due monumenti dalla destinazione discussa oramai completamente scomparsi sotto l’azione congiunta del tempo e (principalmente) dell’uomo.

 

ENGLISH

A comparative examination of cartographic, archive and biographical sources, completed and enriched by aerial historical photos of Lecce northern land, has allowed the author of this essay to study in depth the knowledge had till today about the Calone’s and Cerrate’s «specchie». Two monuments of a controversial purpose by now completely disappeared under the time’s action and particularly the man’s action.

 

Keyword

Sabrina Landriscina, Specchia di Calone, Specchia di Cerrate, topografia Salento

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