Libri| Alla mensa degli angeli. Storie di ceramiche, botteghe e vasai a Nardò

Alla mensa degli angeli: Storie di Ceramiche, Botteghe e vasai a Nardò   tra i secoli ‘500 e ‘800, di Riccardo Viganò, Edizioni Esperidi

Prefazione.

Da quando l’umanista oritano Quinto Mario Corrado, nella sua opera letteraria intitolata De copia latini sermonis, pubblicata postuma, a Venezia nel 1582, con fierezza campanilistica, dedicava alla Città di Nardò e alle ceramiche qui prodotte, il suo famoso elogio[1], molta acqua è passata sotto i ponti e da allora nulla rimane a Nardò della sua tradizione di produzione ceramica pregiata come la Maiolica, nei secoli  addirittura vantata, come anche nella popolazione che abita questo magnifico centro. Neanche il ricordo, niente, neanche una targa su un muro, in quella che una volta veniva chiamata la strada dei “Piattari”. D’altronde ora viene chiamata, come almeno da centosessantadue anni, via Pellettieri.

Nulla si è salvato. Le fornaci, le botteghe, le attrezzature; niente, a malapena gli stabili, ora riconvertiti da botteghe di “lavorar codime di creta”, in B.&.b, osterie, per altro ottime, libreria ed un cinema abbandonato e cadente. Solo una ricerca d’archivio ha fatto si che gli interpreti principali di questa storia escano dall’ombra come fantasmi di quei ceramisti e produttori di ceramiche che, attraverso i secoli, contribuirono a rendere quasi mitizzati gli oggetti da loro prodotti nella città di Nardò. Ombre di un non lontano passato, indispettiti dall’essere stati dimenticati in così breve tempo o, forse, solo desiderosi di essere scovati, ricordati, che tanto hanno fatto, nel loro piccolo, per non essere dimenticati.

L’importanza di questo centro produttivo, in confronto ad altri centri con tradizione e produzioni di livello popolare e a basso costo, è ancora una volta dimostrata da documenti di archivio che evidenziano l’alta qualità dagli oggetti della maiolica in stile “Compendiario” usciti da questi atelier. Difatti, alla fine del XVI secolo, alti prelati, e non solo, spendevano considerevoli somme (dire considerevoli è dire poco) per la realizzazione di “credenze personali” con la loro araldica personale non badando al prezzo. Uno di questi committenti spese ben cento ducati per essi e, se si pensa che una bottega ne valeva quaranta, questa spesa al giorno d’oggi si potrebbe paragonare all’acquisto di una macchina sportiva di lusso. Tali personaggi dimostrano la loro predilezione per questo centro produttivo che per altri centri più affermati della stessa regione, come Laterza.

Tale era l’importanza di queste produzioni, in quel periodo in terra d’Otranto che il nome di “Faenza-e” (maiolica) veniva eguagliato alla città di Nardò. I redattori dei documenti conservati negli archivi, dovendo specificare la diversa provenienza di alcuni manufatti, per indicare quelli prodotti agli atelier neretini usano semplicemente il termine “faenza” come se si desse per scontato che esso fosse sinonimo di un prodotto “made in Nardò”.
Comunque non si può, nel ricostruire la storia di un importante centro produttivo di ceramica di pregio in terra d’Otranto come Nardò, escludere dalla narrazione l’importanza del trasferimento di maestranze qualificate, avvenute in un arco temporale che copre i secoli XV e XVIII. Queste figure sicuramente si attestarono in questo centro, il quale doveva avere da tempo una lunga tradizione nelle produzioni ceramiche. Già nel 1995 l’Archeologo Giovanni Mastronuzzi ipotizzava l’esistenza di un atelier neretino attivo agli inizi del III secolo a.C. Inizialmente queste maestranze estranee al tessuto sociale neretino, si insediarono in questo centro, quasi sicuramente al seguito dei primi Acquaviva, feudatari di Nardò. Con il trascorrere del tempo si fusero con la popolazione locale diventandone un tassello importante, non solo economicamente ma anche socialmente. E quando esse abbandonarono la loro arte, per estinzione della famiglie o perché diventate classi agiate, la fama di questo centro che lentamente si stava estinguendo attirò come uno splendido Faro altre famiglie da altri centri con eguale tradizione. Riattizzandone con le loro fornaci alimentate da legna e nocciolo di olivo, fuoco e fama. Purtroppo saranno queste fiamme ad alimentare gli ultimi bagliori di gloria di queste produzioni, sicuramente sconfitte da quella che fu chiamata Prima Rivoluzione Industriale; l’impiego di una tecnologia avanzata, difatti, sancì, per alcune produzioni di un certo pregio, l’abbandono del tornio per l’adozione dello stampo e ciò permise la produzione in serie, il nuovo prodotto non fu più esclusivamente rivolto a una classe benestante ma divenne accessibile anche ad una fascia di mercato media. Il calo della qualità e il progressivo dislocamento dei centri fornitori di questa materia al di là della regione segnarono la decadenza della ceramica prodotta a Nardò e non solo. I famosi descrittori salentini dell’Ottocento, con l’intento di descrivere le realtà territoriali in modo “esplorativo”, a proposito di Nardò non esitarono difatti a scrivere che ”appena v’è qualche figulo che modella sul tornio delle stoviglie grossolane che ricava con l’argilla” ovvero ne testimoniarono palesemente la decadenza di un’arte antica che tanto lustro aveva dato al Salento.

 

[1] Proxima faventini hodie Neriti fiunt, quae urbs est antiqua salentinorum. Hic non dure haut parum Latinae putem, quibi faventinus aut neretinis, aut vasis coenatum esse dicat . Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, 1581.

Liborio Romano e Sigismondo Castromediano

LIBORIO ROMANO NEI RICORDI DI SIGISMONDO CASTROMEDIANO

(in appendice segue la trascrizione del testo manoscritto del Castromediano)

di Maurizio Nocera

Sulla provenienza del manoscritto

Il 30 settembre 1980, lo storico gallipolino Domenico (Mimì) De Rossi (Gallipoli, 17 agosto 1911 – estate 1981) faceva richiesta alla presidenza della Società di Storia Patria per la Puglia (Bari) della

«costituzione in Gallipoli di una sezione della Società, facendo presente che Gallipoli, antica città marinara, ha un prezioso patrimonio storico-culturale mai finora messo in luce tranne saltuari studi a carattere vario [… Lo scrivente], già iscritto all’albo dei giornalisti, [afferma di avere] cinquant’anni di attività pubblicistica, avendo pubblicato 33 monografie riguardanti il Salento, particolarmente in campo storico-economico».

Questo documento, firmato dallo storico locale e da altri sei giovani studiosi della città, era indirizzato al giudice Donato Palazzo, in quel momento Procuratore della Repubblica per il Tribunale dei Minori di Lecce e Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia che, una volta costituita la sezione gallipolina, divenne il primo Commissario.

Durante gli anni 1978-79, ancor prima di formulare la richiesta ufficiale della costituzione della sezione, il presidente della Società, prof. Francesco Maria De Robertis, interpellato dal De Rossi e da chi qui scrive, ci aveva indicato di coordinarci appunto col giudice Palazzo affinché elaborassimo un progetto di eventi che permettesse sul piano pratico la costituzione della sezione. Così, per circa due anni, Domenico De Rossi e chi qui scrive, ogni settimana (preferibilmente il lunedì mattina) ci recavamo a Lecce, presso il Tribunale dei Minori (sito allora sulla strada per la stazione ferroviaria) per conferire col giudice. Le riunioni duravano non più di mezz’ora. In esse, il presidente Palazzo ci indicava quelli che potevano essere i campi di ricerca, che dovevano avere poi come sbocco un convegno. Alla fine furono selezionati tre campi di lavoro: “Brigantaggio”, che fu affidato a Domenico De Rossi; “Risorgimento salentino” a chi qui scrive; “L’attacco navale e la presa di Gallipoli da parte dei Veneziani nel 1484”. Altra indicazione che ci diede il giudice fu quella di concentrare tutto il materiale a nostra disposizione nei settori di ricerca specifica, per cui le carte sul brigantaggio a De Rossi, quelle sul Risorgimento salentino a me e quelle sulla presa di Gallipoli allo stesso giudice.

A quel tempo, io frequentavo già alcuni grandi storici della Questione meridionale, fra cui Tommaso Fiore (Altamura, 7 marzo 1884 – Bari, 4 giugno 1973) e suo figlio Vittore (Gallipoli, 20 gennaio 1920 – Capurso, 21 febbraio 1999), entrambi autori autorevoli di libri e saggi sul Meridione e sull’annosa questione; il lucano Tommaso Pedio (Potenza, 17 novembre 1917 – Potenza, 30 gennaio 2000), autore del volume Brigantaggio e questione meridionale (Edizioni Levante, Bari 1979); Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003), giornalista de «l’Unità» e presidente del Sindacato Nazionale Scrittori d’Italia, autore del libro Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia (Editori Riuniti, 1969), e soprattutto frequentavo, perché mi è fu pure maestro di storia e di vita, lo storico Franco Molfese (Roma, 1916-2001), vicedirettore della Biblioteca della Camera dei Deputati e autore del famoso libro Storia del brigantaggio dopo l’Unita’ (Feltrinelli, Milano 1964). Soprattutto per Molfese e per De Jaco scrivevo a macchina i loro manoscritti che poi, in bella copia, una volta consegnati, finivano sui banchi della composizione tipografica.

A quel tempo non c’era ancora la fotocopiatrice e, se c’era, bisognava fare chilometri e chilometri di strada per andare a trovarne una, per cui le carte antiche o te le trascrivevi manualmente oppure le prendevi in consegna per lavorarci sopra e successivamente le ridavi al legittimo proprietario. Quindi, sulla base delle indicazioni del giudice Palazzo, io cominciai a convogliare le mie carte (e i libri) sul brigantaggio verso Mimì De Rossi il quale, a sua volta, convogliò quelle sue riguardanti il Risorgimento a me, mentre insieme convogliammo le nostre carte (e i libri) sulla presa di Gallipoli allo stesso Palazzo.

In quegli anni Mimì De Rossi usava andava in giro per paesi e paeselli del Salento a vendere o a donare i suoi libri freschi di stampa (in cambio ovviamente di altri libri o altre carte antiche) presso studi di notai, avvocati, commercialisti, antiche famiglie di nobili in rovina. Spesso ero io che lo accompagnarlo con la mia macchina. Nacque tra di noi una profonda confidenzialità. Non poche carte del suo archivio personale, soprattutto quelle riguardanti il Risorgimento salentino (Bonaventura Mazzarella, Antonietta De Pace, Beniamino Marciano, Sigismondo Castromediano, Nicola Schiavoni Carissimo, Oronzio De Donno, Giuseppe Libertini ed altri ancora), Mimì le consegnò a me affinché elaborassi il progetto del convegno come stabilito dal giudice Palazzo. Ad esse si aggiunsero anche le carte che Aldo Barba, padre di mio cognato Emanuele Mario, eredi del grande medico cerusico, letterato e risorgimentalista gallipolino Emanuele Barba (Gallipoli, 11 agosto 1819 – 7 dicembre 1887), mi consegnò per questa stessa ricerca.

Sfortunatamente, quando la sezione gallipolina della Società di Storia Patria per la Puglia sembrava ormai cosa fatta, Mimì De Rossi venne a mancare nell’estate 1981 e, sia la ricerca sul brigantaggio, sia quella da me condotta sul Risorgimento salentino, s’interruppero. Continuò invece la ricerca del giudice Palazzo, che ebbe il suo epilogo nel Convegno nazionale, organizzato dalla locale sezione della Società di Storia Patria per la Puglia e dal Comune di Gallipoli (sindaco Mario Foscarini) tenutosi, in occasione del quinto centenario dell’evento storico, nella sala poligonale del Castello angioino il 22-23 settembre 1984 col titolo La presa di Gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto.

Subito dopo questo importante evento, anche il giudice Palazzo, divenuto nel frattempo commissario della sezione della Società di Oria, lasciò Gallipoli e la nostra sezione si diede un suo organigramma. La vita del sodalizio continuò ad andare avanti con qualche presentazione di libri e qualche altra ricerca (ricordo, ad es., quella sulla “Fontana greca o ellenistica”), ma non si parlò più di convegni sul Brigantaggio o sul Risorgimento salentino. Accadde così che le carte d’archivio sul brigantaggio, che io avevo dato a Mimì De Rossi, rimasero presso i suoi eredi, mentre le sue presso di me. Per la verità, data la mia stretta vicinanza con la famiglia De Rossi (soprattutto con la moglie Clara e i figli Pina e Fernando), tentai di intavolare il discorso delle “carte”, ma i suoi eredi mi consigliarano di tenerle io e di continuare la ricerca. Poi il tempo è passato e queste carte erano rimaste nel dimenticatoio di una biblioteca come la mia, che oggi si compone di alcune decine di migliaia di volumi e documenti vari.

Così oggi, scartabellando tra queste vecchie carte d’archivio e venendo a conoscenza del 150° anniversario (2017) della morte di Liborio Romano, è riemerso il manoscritto del Castromediano, che mi sono preso la briga di trascriverlo. Sono personalmente contrario a che le carte d’archivio restino sepolte per secoli fino al loro inevitabile deterioramento, quando poi la loro conoscenza può invece aggiungere qualcosa in più alla crescita della coscienza civile, morale e culturale di una comunità umana.

Francamente, una volta trascritto il documento, ho pensato che in esso non ci fossero delle grandi novità sulla vita e l’opera di Liborio Romano. Di lui si sa quasi tutto. Tuttavia l’ho prima mostrato a Giovanni Spano, presidente dell’Associazione culturale “Don Liborio Romano”, quindi l’ho inviato al prof. Giancarlo Vallone, secondo me uno tra i più qualificati storici italiani, per di più grande conoscitore del Romano, il quale mi ha risposto dicendo che «una certa sua valenza, questo documento ce l’ha. Infine ho inviato copia del manoscritto anche al prof. Fabio D’Astore».

 

Ed ora qualche riflessione su Liborio Romano

«Tutti coloro che finora hanno trattato Liborio Romano, lo hanno presentato come un personaggio squallido, camorrista voltagabbana, nel peggiore dei casi, ambiguo, controverso nel migliore dei casi».

Questa affermazione è dell’on. Ernesto Abaterusso, sindaco di Patù nel 1996, che l’ha scritta nella presentazione al libro di Francesco Accogli, Il personaggio Liborio Romano. Precisazioni bio-anagrafiche. Contributo all’epistolario[1].

Questo incipit mi è necessario per dire che di questo straordinario personaggio salentino di Patù sappiamo ormai tutto o quasi tutto. Su se stesso ha scritto in primo luogo direttamente lui, poi suo fratello Giuseppe, ancora qualche altro suo parente. Immenso l’elenco di scrittori o sedicenti tali borbonici, neoborbonici, conservatori, reazionari, antipopolari che, secondo di come gira il tempo o la situazione politica, si sono dichiarati di centro, di destra, qualora anche di sinistra, ma di una sinistra tanto strana da sconfinare (o meglio confinare) con il limite del conservatorismo reazionario Otto/Novecentesco. Alcuni di questi scrittori o sedicenti tali hanno scritto di Liborio Romano, del brigantaggio ed anche della camorra napoletana unicamente per fare cassa e per vanagloriarsi. Sono rari gli storici veri che hanno saputo affrontare il personaggio con serietà e con una messe di studi dai quali è emerso un giudizio sereno molto vicino alla realtà storica. Oltre ai citati Molfese, i due Fiore, Pedio, De Jaco e qualche altro, mi riferisco al prof. Giancarlo Vallone, il quale ha dedicato più di un libro (fondamentali i volumi Dalla setta al Governo: Liborio Romano, Napoli, Jovene 2005, e la sua curatela al volume dello stesso Romano, Scritti politici minori, «Studi Salentini» Editore, Lecce 2005). Vallone ha apportato un contributo di conoscenza ineludibile per chi voglia sapere di e su Liborio Romano.

Si è detto e scritto che Liborio Romano fu Ministro di polizia e che in quanto tale fece accordi con la camorra per il passaggio dei poteri da Casa Borbone a Garibaldi prima e, successivamente, a Casa Savoia. Questa storia degli accordi tra Stato e settori malavitosi va letta attentamente. Oggi abbiamo un libro in più per conoscerne tali intrecci. Mi riferisco soprattutto alle pagine emergenti dall’importante Processo conoscitivo a Liborio Romano, statista o trasformista?, tenutosi a Patù il 17 luglio 2011, patrocinato dall’Associazione Culturale “don Liborio Romano” (presidente Giovanni Spano), dal Comune di Patù (sindaco Francesco De Nuccio), dalla Società di Storia Patria per Puglia di Lecce, e col tribunale giudicante composto dal Dr. Franco Losavio (già consigliere Corte d’Appello di Lecce e Taranto), prof. Mario Spedicato (presidente Società Storia Patria Lecce), prof. Vittorio Zacchino (storico); l’Accusa rappresentata dal prof. Mario De Marco (storico e pubblicista) e dal prof. Luigi Montonato (storico e politologo); la Difesa fu tenuta invece dal dr. prof. Salvatore Coppola (avvocato e storico) e dal prof. Fabio D’Astore (docente Università del Salento).

Dalla lettura del processo, pubblicato poi come libro (“…giudicate sui fatti”. Liborio Romano e l’Unità d’Italia, Edizioni Panico, Galatina, 2012), si evince chiaramente che

«Liborio Romano [fu] una delle figure più incombenti della storiografia risorgimentale, patriota, giurista, politico, personaggio ambivalente» (Zacchino, p. 14); che

«La salvezza di Napoli e il trapasso incruento del Regno delle Due Sicilie dai Borbone ai Savoia, comunque li si voglia considerare, furono operazioni coraggiose, temerarie, chiaramente funzionali all’Unificazione e alla nascita della nazione italiana» (Zacchino, p. 15); che

«Romano […] autorevole protagonista del Risorgimento, e soprattutto tenace propugnatore dell’autonomia del Mezzogiorno, nel più vasto ambito unitario, e perciò co-artefice dell’unificazione nazionale» (Zacchino, p. 16);

«a Liborio Romano, il più discusso personaggio dell’Ottocento Meridionale, è dovuto il titolo di padre della patria unificata, di strenuo difensore delle autonomie del Mezzogiorno, di protagonista del Risorgimento» (Zacchino, p. 33).

L’accusa, affidata nel processo a De Marco e a Montonato, non è affatto tenera nei confronti del Nostro anzi, leggendo i testi, ho avuto la sensazione che si sia esagerato un po’ in quanto a supposti tradimenti politici e a rapporti con la malavita. Mi si dirà: è questa la funzione dell’accusa. Molto convincente invece mi è apparsa la difesa, affidata a Coppola e a D’Astore, i quali hanno difeso a spada tratta il loro assistito. Alla fine del dibattimento, il verbale del processo, a firma del segretario prof. Walter Cassiano, fa giustizia di quanto detto, scritto e letto a premessa del Dispositivo della sentenza per il procedimento penale storico a carico di: Romano Liborio (Patù 1793).

Concordo solo parzialmente con la sentenza, che assolve l’avvocato Liborio Romano dall’imputazione di tradimento, mentre lo condanna a mesi sei per avere egli coinvolto alcuni capi camorristi nell’organizzazione della Guardia Nazionale napoletana. Ricordo a me stesso e a chi mi legge che il Romano, prima di diventare Ministro di polizia era stato avvocato e, come si sa, nel foro di Napoli, la sua stella forense brillava, anche nella difesa per questo tipo di persone associate nel delinquere. L’Italia, si è sempre detto, è la patria del diritto, per cui don Liborio sapeva il fatto suo. D’altronde è egli stesso che ha scritto che, per quanto riguarda la questione camorra, si trattò solo di una misura necessaria e molto limitata nel tempo (appena un paio di giorni) mirante a cercare di contenere le manifestazioni di piazza e salvaguardare l’ordine pubblico. Non dimentichiamo che l’obiettivo di quel momento storico era la più grande rivoluzione politica dell’800: l’unità della patria Italia, per la quale, sin dal tempo di Virgilio, cioè 2000 anni fa, i differenti popoli della penisola anelavano. Non per nulla, nella storia dell’umanità e delle rivoluzioni politiche, c’è stato un tale Machiavelli, che disse e scrisse «il fine giustifica i mezzi».

Su Liborio Romano si sono dette e scritte tante altre cose, moltissime false e comunque distorcenti. Nessuno, però, almeno finora, ha voluto approfondire il suo operato relativo appunto all’ordine pubblico. Le manifestazioni di piazza a Napoli sono state sempre qualcosa di straordinaria importanza. Nessuno può dimenticare cosa accadde in città nel 1799 con l’istaurazione della Repubblica Partenopea. Ci furono migliaia di morti prima e dopo quel fatidico gennaio. In quella vicenda la Puglia e il Salento perdettero il fior fiore della loro più alta intellighenzia giuridico-letteraria. Ancora nel 1821 e nel 1848 ci furono altre insurrezioni, e tutte rivolte sempre a un unico obiettivo: la democratizzazione del regno delle Due Sicilie come fase transitoria verso l’Unità d’Italia.

Anche nel 1859 e nel 1860 Napoli era divenuta una polveriera, pronta a scoppiare da un momento all’altro. Ma, come si sa, non accadde nulla di tanto drammatico. Quindi ci si chiede: perché, in quell’eccezionale momento, la rivoluzione politica, che pure ci fu, non comportò l’insurrezione e la guerra civile? Semplicemente perché lì, nella capitale del regno delle Due Sicilie, si trovava ad operare un uomo, un avvocato, un politico, un ministro degli Interni e di polizia di nome Liborio Romano. Nella storia delle rivoluzioni politico-sociali, non è mai accaduto che un rivolgimento di tale portata (la caduta di un regno, quello dei Borbone, con la sostituzione di un altro, quello dei Savoia) si sia compiuto senza spargimento di sangue e, per di più, con il raggiungimento dell’obiettivo primario dell’intero Risorgimento: l’unità della nazione Italia. Persino lo stesso re napoletano – Francesco II di Borbone – e la sua famiglia ebbero salva la vita riparando nella fortezza di Gaeta. Quando mai?, se pensiamo a quanto accadde a Parigi nel 1789, oppure quanto accadde nella stessa Napoli nel 1799. Un esempio per tutti: la rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 non finì forse con la strage dell’intera famiglia dello zar Nicola II?

Quindi, se nella Napoli del 1860, ci fu un passaggio di “consegne” senza spargimento di sangue tra il potere borbonico e quello di Garibaldi prima, successivamente a quello di Casa Savoia, il merito sarà stato pure di qualcuno. Per me, fu merito dello statista Liborio Romano il quale, compiuto questo suo alto dovere di rispetto del popolo napoletano e meridionale tutto, non fu poi tanto riconosciuto né dai suoi avversari politici interni (i soliti opportunisti di sempre) allo stesso ex Regno di Napoli, né (ma questo era scontato) dai “vincitori” savoiardi cavouriani.

La questione del mancato spargimento di sangue a Napoli è stato sempre il motivo di fondo di Giovanni Spano, il quale, in una dichiarazione alla stampa di qualche anno fa, dichiarò:

«il mio obiettivo è stato sempre quello di fare luce su una figura [Liborio Romano] ritenuta controversa, ma che ha avuto la giusta chiave per portare all’Unità d’Italia senza spargimento di sangue. In questi anni ho approfondito molto sull’aspetto caratteriale di Romano, scoprendo che era molto amato dal popolo prima di diventare statista. Il nostro avvocato preferiva difendere gratuitamente i poveri e i napoletani lo chiamavano fraternamente “Don Libò”»[2].

La marginalizzazione del Romano all’interno del primo parlamento italiano (fortemente piemontesizzato) e, soprattutto, la continua e persistente contrarietà alla sua proposta di legge per la costituzione della Guardia nazionale su base unitaria (con l’inserimento di personale militare del Nord e del Sud) furono alla base di quello squilibrio Nord-Sud che noi oggi scontiamo ancora. Qualsiasi proposta in tal senso da lui fatta nel primo governo unitario sia successivamente in parlamento, gli veniva immediatamente respinta dai cavouriani e dai reazionari di ogni risma e specie. D’altronde è quello che abbiamo visto anche alla fine della seconda guerra mondiale quando, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e l’inizio della Resistenza (8 settembre 1943), a combattere la dittatura mussoliniana fondamentalmente furono i partigiani delle Brigate garibaldine.

E cosa accadde poi di quei partigiani, molti dei quali avevano dato la vita per la libertà e la democrazia? In un primo momento, il primo governo antifascista li inserì nelle varie componenti delle Forze armate, ma, appena giunto il 18 aprile 1948 e la “vittoria” (oggi sappiamo con evidenti brogli elettorali) di una sola parte politica, tutti i partigiani, e i patrioti, e le staffette, e chi aveva concretamente collaborato alla caduta della dittatura fascista e alla liberazione dell’Italia dall’occupante nazista, spesso immolandosi la propria vita, furono messi alla porta, cacciati senza neanche un foglio di via. Tutti, e non esagero quando dico tutti. Sapete chi fu a occupare quei posti rimasti vacanti dalla cacciata dei partigiani? Ebbene, furono richiamati gli ex repubblichini di Salò più qualche vecchio arnese dell’ufficialità militarista distintasi sotto il regime. Per questo non è peregrino pensare che la marginalizzazione del Romano fu anche alla base di quel tremendo fenomeno passato alla storia italiana col termine di brigantaggio.

Su tale storia c’è una pagina illuminante dello storico Franco Molfese, che scrive:

«Quando Farini assunse la luogotenenza a Napoli, la dittatura garibaldina era già scossa dalle crescenti “reazioni” e le “reazioni”, e la loro repressione, generavano automaticamente il brigantaggio./ Tuttavia, le “reazioni” dell’autunno 1860 appaiono poca cosa di fronte alla grande “reazione” dell’estate del 1861, che fu la vera matrice del grande brigantaggio, durato fino al 1864, e del brigantaggio in genere, durato fino al 1870. Ora, quando si scatenò la rivolta contadina dell’estate del 1861, i moderati governavano in maniera esclusiva da otto mesi. Come fu possibile che il largo favore borghese e popolare, che nel 1860 aveva salutato l’avanzata garibaldina nelle provincie meridionali e aveva reso possibile l’improvviso crollo della monarchia borbonica, appena un anno più tardi si fosse tramutato in un malcontento che raggiungeva tutti gli strati della società meridionale? La responsabilità di ciò […] è da addebitarsi fondamentalmente alla politica dei moderati (“piemontesi” e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani), che mirarono soltanto a reprimere, a centralizzare, ad addossare carichi alla stremata economia meridionale, e a monopolizzare il potere, respingendo in tal modo all’opposizione anche quella grande maggioranza della media e della piccola borghesia urbana e rurale che seguiva Liborio Romano e che era liberale, in fondo moderata, unitaria ma “autonomista”, non “annessionista”. Il clero venne vessato e spaventato, senza che il suo potere economico venisse sradicato. Ai contadini venne promessa solennemente la ripresa delle operazioni demaniali, e poi non se ne fece nulla. I moderati [piemontesi liberali conservatori più transfughi dell’ex regno delle Due Sicilie] optarono fin dall’inizio per la repressione con la forza dell'”anarchia” nel Mezzogiorno, e al momento critico non ebbero forze militari sufficienti per sventare o, quantomeno, per domare rapidamente la sollevazione contadina a direzione reazionaria. È difficile, perciò, negare che il brigantaggio fu sostanzialmente il risultato negativo di tutta l’azione di governo dei moderati./ Però, un’altra linea per fronteggiare il malcontento contadino esisteva ed era quella espressa, sia pure confusamente, dalle correnti democratico-autonomiste. Quella “linea” si era anche precisata per tempo in un programma realistico (attuabile), quello di Liborio Romano. […] Se i moderati avessero apprezzato ed attuato il programma Romano […] quasi certamente l’esplosione della “reazione” del 1861 sarebbe stata sventata, il brigantaggio già sviluppatosi (ancora poca cosa nell’inverno 1860-61) sarebbe stato spento con molto meno sangue e con minori sforzi e tutto il processo dell’unificazione ne sarebbe risultato meno travagliato»[3].

Sappiamo come sono andate le cose e le conseguenze di quella che molti definiscono l’annessione del Meridione al Nord, oggi la scontiamo ancora. Non è forse vero che, a 160 anni e passa dall’Unità d’Italia, gli squilibri tra Nord e Sud rimangono ancora tutti aperti? E non è forse vero che il Meridione sta pagando il prezzo più alto dell’attuale crisi economico-finanziaria? Certo che sì. Ed è certo pure che indietro non si può andare, che non si può ridividere l’Italia, che non si può dimenticare la storia fatta. Ecco allora che la visione dell’Italia unita che aveva in mente 150 anni fa Liborio Romano ha ancora oggi una sua validità e ad essa occorre necessariamente ritornare, se vogliamo uscire dalla gabbia infernale dello squilibrio Nord-Sud. Oggi, quando noi pensiamo alla patria Italia, all’unità dell’intera penisola, i nostri riferimenti vanno a Garibaldi, a Mazzini, per alcuni momenti possono andare anche a Cavour (che continuiamo a considerare l’opportunista di quel fausto momento) ma, accanto a questi nomi, dobbiamo avere il coraggio di aggiungere il salentino di Patù, Liborio Romano. Anzi, forzando un po’ la storia, si potrebbe scrivere che l’Unità d’Italia (1861) la si deve soprattutto a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Liborio Romano.

 

Infine due parole sul manoscritto di Sigismondo Castromediano

Dalla lettura del testo non ci sono grandi novità, e tuttavia, come dice il prof. Giancarlo Vallone, una sua qualche valenza ce l’ha soprattutto quando, a proposito della grande questione (la Guardia Nazionale) che stava a cuore a Romano, Castromediano scrive:

«Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere l’Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata la sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò salvatore e liberatore della patria».

Nonostante la solidarietà salentina espressa dal duchino di Cavallino al nobile Liborio Romano di Patù, tuttavia le posizioni politiche tra i due rimarranno sempre quelle che conosciamo: Castromediano, deputato di destra legato a Casa Savoia; Liborio Romano, deputato legato al suo popolo meridionale e strenuo oppositore di sinistra alla politica cavouriana. Se allora fossero state approvate le sue proposte di legge, sorrette da una lungimirante visione autonomista-federalista del nuovo Stato unitario italiano, tutte le discrepanze, soprattutto gli squilibri Nord-Sud, che vediamo oggi in questo nostro malridotto paese, già da tempo sarebbero state risolte.

 

ECCO IL TESTO DEL MANOSCRITTO

Nella trascrizione, ho aggiunto solo qualche segno di punteggiatura e le note.

 

LIBORIO ROMANO

di Sigismondo Castromediano

Romano Liborio di Patù. Così è detto oggi questo villaggio sito nell’estrema punta del Capo di Leuca dal tempo dell’invasione francese nei primordi del secolo presente, XIX, mentre dicevasi Pato altra volta, e sarebbe meglio restituirlo alla sua antica dizione.

Nacque Liborio nel 1798 [sic, vero è 1793] e morì nel [spazio lasciato vuoto dal Castromediano, ma 1867]. Fu figliuolo di Alessandro, che discepolo di Mario Pagano[4], poco mancò non fosse come questi condotto sul patibolo nel 1799, e da [Giulia Maglietta].

Giovinetto il Romano lo condussero a Lecce, dove studiò lettere insegnategli dal Barone Berardino [Francesco] Cicala[5], l’autore delle tragedie, e giurisprudenza nello stesso tempo verso la quale sentivasi potentemente inclinato. Recatosi poscia a Napoli si perfezionò in detta dottrina sotto il Gerardi [Francesco][6], il Giunti [G.][7], il Sarno [D.][8], il Parrillo [Felice][9], il quale ultimo non cessò d’amarlo durante tutta [la] sua vita.

Già Liborio, iniziato dal padre medesimo nella setta dei Carbonari, tuttoché avesse (…) appena di anni 21, ottenne per concorso dal Governo insurrezionale del 1820 d’essere eletto professore sostituto nella cattedra di diritto civile e commerciale nell’Università di Napoli. Lo stesso Governo si servì di lui del pari inviandolo suo Commissario in questa provincia collo scopo di raccogliere sotto la bandiera costituzionale da presso innalzata i militi di già sbandati.

Ma i tempi, atteso lo spergiuro di Re Ferdinando I, precipitarono a rovina, quel raggio di libertà venne spento, moltissimi furo i perseguitati, ed al Romano, toltagli la carica di Professore, vennegli imposto sotto la più severa sorveglianza di polizia di restarsene confinato nel proprio paese natale, mai rompesse la cerchia, mai più riandare alla capitale.

Così sen visse Liborio per due anni continui fra le paure e i sospetti, dietro i quali gli fu concesso di recarsi a Lecce, ma non vi esercitasse professione d’avvocato, né potesse uscire da quelle mura. Ivi però la circospezione non valse, che l’Intonti [N.][10], il selvaggio poliziesco ministro dei Borboni, un bel giorno ghermirlo insieme a Gaetano suo fratello e ad Eugenio Romano suo cugino, e insieme ad altri molti concittadini, sotto la scusa d’appartenere a una società segreta, chiamata degli Ellenisti, della quale rimase sempre dubbia l’esistenza nelle nostre contrade, e ligati [legati] e circuiti da gendarmi se li fece portare a Napoli. Qui giunto lo fece bendare negli occhi, e così introdurre nel carcere di S. Maria Apparente, nelle cui segrete lo tenne chiuso da prima per 150 giorni e fuori di queste il resto d’un anno. Dopo uscito di prigione gli fu fatto precetto di restarsene nella capitale sorvegliato dalla polizia, e non ritornare in patria.

Non si sconfortò egli, che giovane ardito era, e tant’oltre si spinse nella palestra giuridica, che tra gli avvocati di quel foro tolse palma d’incontrastata rinomanza, per cui gran numero di studenti corse ad addottrinarsi nel suo studio. Fu per costoro però che gli occorse un’altra sventura. Era il 1837, e fra quei discepoli vi aveva un Geremia Mazza[11], giovane onesto e di retti principi politici, ma che contava la disgrazia d’avere un fratello diverso affetto di lui e occulto cagnotto di polizia, il quale dopo i rovesci del 1848 giunse a sedere direttore della stessa, sotto il fierissimo Ferdinando II. Questo fratello, forse per alcuna confidenza imprudente o casuale di Geremia, adoprossi a sottoporre il Romano a nuove persecuzioni.

Ma l’anno ultimamente pronunziato giunse, e una nuova costituzione del Regno fu giurata dal Regno dianzi nominato. In seno a questi fu proposto Liborio per suo ministro costituzionale, che questi respinse la proposta, e nemmeno per soli quattro voti che gli mancarono poté occupare un posto di deputato al Parlamento d’allora. Perdute da questa terra anche leggerezze di libertà per gli effetti del 15 maggio di quello stesso anno, Liborio nel febbraio del 1850 per odio dell’infame Peccheneda [Gaetano][12] fu sospinto un’altra volta nel carcere di S. Maria Apparente, dove rimase a soffrire due anni continui insieme ad Antonio Scialoja[13], e Giuseppe Vacca[14], il primo Ministro del Regno d’Italia la seconda volta, mentre che scriviamo, e il secondo Senatore, e poscia senza alcuna forza di giudizio, esiliato insieme al suo amico Domenico Giannattasio[15].

Condizione dell’esilio era che il Romano, per cui gli fu richiesto obbligo formale, fu di andarsene in Francia, ma si tenesse lontano da Parigi e da ogni porto di quei mari. Così fu ch’egli prescelse Montpellier per sua residenza, ove stette un anno intiero, dopo il quale rotto il divieto tramutò stanza per un altro anno in quella capitale appunto che gli era stata vietata.

In questo fra tempo moriva sua madre, che prese occasione per chiedere amnistia, e l’ottenne nel 1855. Stavasene a Napoli, e tuttoché guardingo e dedito soltanto alla sua antica professione, la polizia borbonica non cessava di tenerlo d’occhio, e più severamente di prima, quando nel settembre del 1859, in quei giorni in cui le voci, che Napoleone III sarebbe disceso in Lombardia, voci che ridestando le speranze dei napoletani giunti all’estremo di loro oppressione, in quei giorni dico in cui molti liberali alla cieca vennero imprigionati, Liborio ond’evitare la stessa sorte, si diede a latitare insieme al proprio fratello Giuseppe, e coll’assenso del Conte d’Aprile[16], zio del Re, a rifugiarsi nella casina di Posillipo da prima, e dopo nella casa del Ministro plenipotenziario americano.

Ma l’ora fatale della caduta di Casa Borbone in Napoli era suonata dopo le sciagure e le miserie da essa versate a piene mani su queste stanche province. Ferdinando II era morto, ucciso dalla più schifosa delle malattie, gli succedeva un figlio, Francesco II, debole, inesperto, di poco senno, privo di amici, e per giunta d’antipatica e imbecille figura, il quale ereditando i peccati di tutti i suoi, e più atto a vestir la tunica di prete, che il manto dei governi, pronunziossi col proclamare, che avrebbe seguite le tracce del genitore. L’ora fatale suonava, e il Conte di Siracusa[17], fratello del morto Re e zio del nuovo, col consiglio del Romano spingeva il nipote a salvare la dinastia, e sulle vie legali ridonare quella costituzione ai suoi popoli, quella ad oggi tolta con violenza, e delegare suo ministro lo stesso Romano.

Il quale da prima invitato rifiutò, ma richiamato di nuovo ai 27 giugno del 1860, cioè dopo che l’attuazione della repressa costituzione del 1848 si prometteva con atto sovrano, e cioè per reprimere la minacciata sommossa dei napoletani, e attutire le conseguenze terribili d’una bastonata reazionaria, che il Brenier[18], ambasciatore francese ebbe a offrire, assunse l’incarico di reggere la prefettura di polizia, e proprio quando s’era proclamato lo stadio d’assedio.

L’ora in cui Liborio s’accingeva a sedere su d’una scrivania da tanti infami suoi predecessori lordata con ogni sorta di abusi e di violenze, di ferocie e di delitti, era malaugurata, e malagevole l’impresa che assumeva. Momento in cui la plebe da una parte, sospinta dalla propria furia, s’era impossessata di tutti i Commissariati di polizia della città, ne aveva cacciati via quei carnefici che vi avevano dominato colle vesti di funzionari e di cagnotti, cui ben dato s’era dall’universale il nome di feroci, e disarmando e ferendo questi, e in quelli manomettendo carte ed archivi; e dall’altra si formulavano liste di proscrizione della Camerilla [del Borbone], e i lazzari, e i camorristi, i briganti avidamente attendevano un segnale, onde dar mano al saccheggio ed alla strage. Provvidamente però Garibaldi volava in Sicilia sulle ali della vittoria, ed il Romano ridestava [la] sua tempra con tanto coraggio, che deve considerarsi il solo e vero salvatore di quell’ora e di quel momento.

Solo in mezzo al popolo il nuovo Prefetto attraversò le vie della Capitale agitata, e giunto al palazzo di Prefettura lo trova nudo affatto d’ogni occorrente, ma coadiuvato ed aiutato dai suoi amici, seppe allontanare l’ira del saccheggio, dileguando con un suo primo manifesto, e fino ad un certo punto le tristi apprensioni, e ridonando calma, e riconducendo agli usati uffici i napoletani sgominati e perplessi. Non avendo altra forza materiale, si rivolse e si circondò di camorristi della plebe, la sola della quale poteva disporre e da lui ben diretta, rese in quei momenti grandi servigi a lui e al paese.

Il momento precipitava, ed il Romano senza volerlo forse, costretto dalla fatalità, o dalla storica Provvidenza, si mise in carteggio cogli agenti piemontesi e lo stesso Garibaldi[19], e a cospirare contro il Borbone del quale era divenuto Ministro. Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere [l’]Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata [la] sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò Salvatore e liberatore della patria.

Oltre che alleggerì le garanzie richieste dall’esercizio della stampa periodica, fu in quell’ora che ricordossi di quanto sofferto aveva egli stesso, e l’immenso numero dei perseguitati politici nelle immani carceri borboniche, e v’abolì tosto le segrete, l’arbitrio ed il sopruso dei carcerieri, e le legnate, ordinandovi miglioramenti ed ordinamenti umani.

Su venuto il Ministro Spinelli [A.][20], quello che inconscio di sé e del turbine che lo avvolgeva, titubante e privo di ardimento, il 14 luglio, Liborio vi prese parte tenendovi il portafoglio dell’Interno e della stessa Polizia. I partiti politici che dividevano Napoli e coi quali ebbe ad incontrarsi il Romano si componevano di Borbonici puri conservatori ad ogni costa della spietata e vecchia tirannide, di repubblicani col Mazzini[21], o di moderati liberali, costituzionali ed annessionisti all’Italia con Vittorio Emanuele II[22]. V’era un quarto partito dei costituzionali dinastici borbonici e autonomisti, i quali poco condensati, e per niente intesi, e a cui forse senza decisione forte e convinzione perdurevole il Romano apparteneva, e v’era per aumentate la confusione. Quindi è che un biografo, certo non amico di costui, confessa che Liborio non dormiva sopra letto di rose, e a sostenersi facendogli duopo molte astuzie e molte pieghevolezze.

Tra tali difficilissime condizioni, egli incontrava pure una lega col Piemonte, proposta dalla Corte napoletana; la Sicilia invasa da Garibaldi, e la certezza d’essere invaso anche da questi il continente; e il volere degli Italiani, che in quel momento più potente d’ogni altro destino manifestavasi di volere essere nazione unita, libera ed indipendente; volere rappresentato in Napoli da un Comitato detto d’azione, questo colla Repubblica, quello col Re di Savoia.

Un altro minuto e la borbonica dinastia, e Francesco II[23] non sono più per essere, e il Romano non esitò d’avvertirla anche una volta, e suggerirle qualche buon consiglio, il quale se non servisse a salvarla, l’avrebbe fatta cadere con dignità inutilmente. Gli uomini della nazione sovvenendogli dell’esito del 15 maggio del 1848, e lusingati, credevano opportuno ripetere la strage, e non d’altre baionette seguiti, poiché l’esercito intiero sfasciatosi perché vinto già e nella disciplina demoralizzato, se non dalle baionette della Guardia reale, e con il Conte di Trapani[24] alla testa.

Un primo tentativo venne iniziato, ma ben presto represso. Due altri ne successero, capitanati l’uno dal Conte di Aquila[25], zio del Re, che ambiva rovesciare il nipote, ed occuparne il trono, [il] secondo da un de Sanclier [ma de Sauclières Hercule][26], prete e legittimista francese, [i] quali coll’esiliare il Conte, e coll’arresto del prete. Per la quale ultima avventura è da notare, come il Ministro di Francia recassi al Romano, onde impetrare la liberazione del Sanclier [ma de Saunclières E.], e perché detto Ministro dal Romano veniva avvertito essere stato già quegli consegnato al potere giudiziario, esclamò l’ambasciatore – «Dunque volete rinnovare così il 1793?» – Io devo salvare il paese dalle cospirazioni gli fu risposto, quali che fossero i cospiratori, e giustizia deve avere il suo corso.

Avendo fra tanto Garibaldi passato lo Stretto, audacissima ne divenne la rivoluzione napoletana, e fatta più certa d’un esito felice. Garibaldi avansavasi verso la Capitale incontrastato e con la sicurezza d’un vincitore, ed il Romano accortosi dell’istante della catastrofe, avendo scritto un memorandum da essere accettato dai Ministri suoi colleghi, i quali non vollero leggere nemmeno la legge al Re direttamente. Ivi era dipinta netta la situazione; nuda esposta tutta quanta la verità, e vi consigliava il Re ad allontanarsi per poco dalla sua sede, creare una reggenza, e risparmiare così gli errori d’una guerra civile.

Invece il Re appigliossi all’altro consiglio, di formare cioè un ministero di reazionari, il che però non riuscì; ma ogni autorità morale del potere essendo [e]sperita, e resa impotente, e i reazionari credendo poterla restaurare collo stato d’assedio, fecero che questo venisse ordinato dal Re nella Capitale. Invano il ministero si oppose, che il Re a Governatore di Napoli aveva nominato Cutrofiano [d’Aragon R. di][27], essere capace d’ogni violenza, e che nel 27 agosto proce[de]sse avanti con un’ordinanza racchiudente ferocissima legge stataria, ma che il Romano con fermezza ed energiche disposizioni volle radicalmente modificata.

All’arrivo imminente del Garibaldi il Re per nulla pensava, e fu duopo che il Ministero prendesse da sé qualche determinazione, il 29 agosto esortandolo a mettersi a capo delle sue truppe, ma nulla fecendosene il Ministero divenne dimissionario. A tale incontro Francesco II si decise finalmente d’abbandonare la capitale, e ricoverarsi in Gaeta, e prima di dipartirsi ebbe in mente di creare il Romano suo Luogotenente in Napoli, il che non avvenne poscia, prevedendosi il rifiuto che da questi avrebbe ricevuto.

Qui se avesse troncata [la] sua vita politica Liborio Romano sarebbe rimasto sul suo sepolcro tanta gloria per quanta sa compartirne la storia, ma sventuratamente non volle, né seppe, e credendo di poter continuare nella sua popolarità giustamente, ma stranamente, e per cause impossibili a rinnovarsi, in un momento acquistata, ostinassi a continuare. Il prestigio s’era ecclissato, ed accetta il portafoglio di Ministro dell’Interno e di Polizia datogli da Garibaldi. Quest’altro suo Ministero durò soli quattrodici giorni, nel quale si distinse per averlo diviso in Ministero di polizia e in Ministero dell’Interno. Dopo egli cadde, e non cadde per lacci e voleri di alcun suo nemico, com’egli lamenta, o qualche altro vorrebbe far credere, ma cadde perché finito il suo tempo, perché delle cose che gli giravano intorno non aveva concetto sicuro e determinato, perché criteri non aveva saldi, perché incerto e volubile non guardava meta da cogliere.

Dimesso il Romano ebbe offerta da Garibaldi la carica di Presidente della Corte suprema di Giustizia, ch’egli non accettò.

Dopo la solennità del plebiscito col quale l’Italia si arricchiva delle province meridionali il Conte di Persano [C. Pellion, conte di][28], a nome di Re Vittorio Emanuele II, che trovavasi ad Isola, gli presentava l’incarico di comporre il Consiglio di Luogotenenza, ed egli anche si ricusava. Avesse così sempre proseguito, ma entrata la seconda Luogotenenza in Napoli, dov’era giunto il Principe di Carignano[29], egli accettò l’incarico di comporre il nuovo Consiglio, e nel quale ebbe parte, assumendo a sé il portafoglio dell’Interno, e vi rimase fino al 12 di marzo, giorno nel quale aveva dato le sue dimissioni. E cadde non per forza altrui, ma perché finito aveva il suo tempo.

Durando [la] sua carica giunse pur l’altra ora delle elezioni politiche, e l’agitazione e l’ansia in queste province d’essere rappresentate al parlamento Italiano era grande e premurosa. Più grande fu l’ambizione di Liborio Romano a mostrare al mondo ch’egli fosse eminentemente popolare, e si fece eleggere in più Collegi, e Deputato venne proclamato in quello di Altamura, di Tricase, di Sala, di Campobasso, di Palata, di Atripalda, di Bitonto, ed in Napoli nel quartiere della Vicaria, oltre i ballottaggi degli altri collegi. Fatua luce di sua popolarità che più presto doveva annientarlo. Era compiuto il suo tempo.

Preceduto da non dubbia fama d’aprir guerra al Conte di Cavour[30], potentissimo Ministro che formato aveva l’Italia e d’aprir guerra con certe sue vedute di egemonia del proprio paese, di certe avversioni a quello ch’ei con altri appellava piemontesismo, e non so con quali altre chimere fuor di tempo e di luogo la sua elezione venne oppugnata, come quella avvenuta mentre sedeva egli Consigliere di Luogotenenza; però non tanto oppugnata da non essere finalmente accettato Deputato.

Però ad accedere nell’Aula della Camera il Re meno non poté tanto presto per quanto intendeva, imperò mentre che vi veniva, giunto a Genova, vi venne intrattenuto dalla gotta. Passata questa, Torino lo vide, ma egli senza che fosse andato a visitare l’avversario di sua mente, il Cavour sedé defilato tra i banchi del Centro sinistra nel Parlamento da prima, ottando [optando] nel patrio Collegio di Tricase.

L’ora di parlare in quel consesso egli affrettava, e non vi avesse parlato mai. Io Deputato di destra alla prima parola che profferse tremai per lui, poiché m’accorsi dei visi dei nostri colleghi disposti a manifestargli irrisione, che ogni opinione del nostro concittadino andava scemando. Pareva [il] suo dire la vacua declamazione degli avvocati, cui manca ragione nel difendere il proprio cliente, la voce trascinata e nasale d’un frate al quale non è giunta l’ora di scendere dal pulpito, e pur vi deve rimanere. Fu così che ei cadde per sempre. Fu così che ritirossi dalla pubblica carriera e ritornato a Napoli trascinò infermi i suoi giorni, finché divenuti perigliosi, i medici lo consigliarono a respirare a Patù [l’]aria nativa.

Qui dopo poco tempo che vi stette cessò di vivere in mezzo ai suoi il Romano, ma compianto da pochi e quasi ignorato. Però moriva lasciando sue faccende domestiche assai scompigliate e non ricco come i maligni avevano buccinato, e ricco divenuto nel potere. Fu questa la calunnia più atroce, della quale certi partiti si servirono brutalmente nella rivoluzione italiana per togliere fama ed abbattere gli onesti. Infamia della quale l’Italia a lavarsi può solo scontare coprendola di virtù moltissime.

Molti giornali si occuparono del Romano, lui vivente e nel potere; quelli che lo difendevano con accesissimo calore di parzialità, i contrari con ingiustificabile prevenzione ed odio senza fondamento. Il Romano può rassomigliarsi a colui che favorito dalla sorte, compie una grande impresa per caso, per forza, senza preconcetto divisamento, ma che ottiene gloria e popolarità imprevista, vuol continuare a sedere nel momentaneo suo grado. Ecco perché il Petruccelli [Della Gattina F.][31], questo agre e spudorato ingegno, ma talvolta fine e penetrativo tuttoché non suo avversario, scrisse di lui – «Liborio Romano arrivando alla Camera si assise al centro, poscia emigrò verso la sinistra. Io non so ciò ch’ei voglia, chi sia, ove tenda, se vezzeggi l’unità italiana o l’autonomia napoletana» – E un altro proponeva di scriversi sulla sua scranna di Deputato – «Qui riposa nel sonno parlamentare Liborio Romano, che fu sempre fermo nel non aver fermezza» -.

La presente biografia è stata rilevata con imparzialità da due elementi cozzanti, e ci sian tenuti nel giusto mezzo, onde la verità da una parte non ne venisse offesa, e l’amicizia personale verso un nostro concittadino, cui tutti i Napoletani debbono gratitudine eterna non rimanesse acciecata. Questi elementi sono. I 453 deputati del Presente, e i Deputati dell’Avvenire, opera diretta da Cletto Arrighi[32], volume III, Milano 1865, e delle Memorie politiche di Liborio Romano, pubblicate per cura di Giuseppe Romano suo fratello con note e documenti, Napoli, presso Giuseppe Marghieri[33], 1873.

Oltre le molte memorie forensi messe in istampa da Liborio, e i suoi atti governativi, olre le dette Memorie, vi son pure:

Des principes de l’economie politique puises dans l’economie animal, scritta in Francia nel tempo del suo esilio.

Lettera del 5 maggio 1861, diretta al Ministro d’Italia Conte di Cavour:

Sulle condizioni delle Province Napoletane.

Discorsi parlamentari.

Ferdinando Cito in Terra d’Otranto, senza data o nome di stampatore. Ma fu in Napoli in 1848.

 

[1] . F. ACCOGLI, Op. cit., Edizioni “Il Laboratorio, Parabita, 1996.

[2] Vd. «La Gazzetta del mezzogiorno», 28 giugno 2010, p. VIII.

[3] F. MOLFESE, Op. cit., pp. 402-403.

[4] Mario (Francesco) PAGANO (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799), giurista, filosofo, politico e drammaturgo italiano. Fu uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo italiano e un precursore del positivismo. Personaggio di spicco della Repubblica Napoletana (1799). Soppressa la Repubblica dal Borbone, fu impiccato in Piazza Mercato il 29 ottobre 1799.

[5] Bernardino CICALA (Lecce, 1765-1815), poeta e tragediografo. Nel 1799, aderì alla Repubblica Napoletana. Al ritorno dei Borbone, cominciarono per lui due anni di carcere e di persecuzioni: fu costretto a fuggire fuori dal regno. Tornato in patria con l’arrivo dei Napoleonidi, si stabilì a Lecce, dove morì.

[6] Francesco GERARDI, giurista, nel 1867 tra i fondatori della Camera degli avvocati penali di Napoli.

[7] G. GIUNTI, su questo giurista, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[8] Domenico SARNO, su questo abate, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[9] Felice PARRILLO, giudice della Gran Corte civile di Napoli.

[10] Nicola INTONTI (Ariano Irpino, 9 dicembre 1775 – Napoli, 8 maggio 1839), ministro della polizia nel regno delle Due Sicilie.

[11] Geremia MAZZA, giornalista del «Galluppi», morto nel 1840.

[12] Gaetano PECCHENEDA, direttore del Ministero dell’Interno del Regno delle Due Sicilie nel 1849-51.

[13] Antonio SCIALOJA (San Giovanni a Teduccio, 1 agosto 1817 – Procida, 13 ottobre 1877), economista. Nel 1848 divenne Ministro dell’Agricoltura e del Commercio del regno delle Due Sicilie, nel governo liberale di Carlo Troja. Arrestato dopo la repressione del 1849, fu condannato all’esilio “perpetuo” e quindi costretto a rifugiarsi nel regno di Sardegna. Ritornò a Napoli nel 1860, dopo la spedizione dei Mille, per diventare Ministro delle Finanze nel governo provvisorio di Garibaldi. In seguito fu segretario generale al Ministero dell’Agricoltura nel primo governo Ricasoli del regno d’Italia, consigliere della Corte dei Conti e senatore dal 1862, Ministro delle Finanze nel secondo governo La Marmora e poi nel secondo governo Ricasoli, infine Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Lanza e nel secondo governo Minghetti. Si dimetterà dall’incarico per la mancata approvazione del suo progetto sull’Istruzione elementare obbligatoria. Nel 1876 ebbe l’incarico di razionalizzare le finanze dell’Egitto.

[14] Giuseppe VACCA (Napoli, 6 luglio 1810 – 6 agosto 1876), magistrato, tra l’altro Procuratore presso la Gran Corte criminale di Lecce dopo il novembre 1846 e prima del febbraio 1848, Procuratore generale presso la Suprema Corte di giustizia, poi Corte di Cassazione di Napoli, Segretario generale del Comitato d’azione meridionale (1860), Senatore del Regno d’Italia dal 1861; Ministro di Grazia, Giustizia e Culti (27 settembre 1864-10 agosto 1865).

[15] Domenico GIANNATTASIO, di Salerno, liberale e deputato nel regno delle Due Sicilie.

[16] Conte d’APRILE, in realtà è Luigi di Borbone, conte d’Aquila, uno dei falchi della dinastia borbonica, vicino al Romano forse per traccia massonica. Devo questa precisazione al prof. Giancarlo Vallone, che ringrazio.

[17] Conte di Siracusa, ossia Leopoldo di BORBONE (Palermo, 22 maggio 1813 – Pisa, 4 dicembre 1860), fu un principe membro della Real Casa di Borbone-Due Sicilie, terzo figlio maschio di re Francesco I delle Due Sicilie e della regina Maria Isabella di Borbone-Due Sicilie. Leopoldo, conte di Siracusa, era critico nei confronti dell’operato del re Ferdinando II, suo fratello, come risulta dalle sue lettere alla madre Isabella di Spagna.

[18] BRENIER, ambasciatore di Francia a Napoli durante la fase di transizione e, fin dall’inizio, filo unitario.

[19] Giuseppe GARIBALDI (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882).

[20] Antonio SPINELLI (Capua, 23 marzo 1795 – Napoli, 9 aprile 1884), sovrintendente generale degli archivi e ultimo primo ministro del Regno delle Due Sicilie.

[21] Giuseppe MAZZINI (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872).

[22] Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878).

[23] Francesco II di Borbone, battezzato Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Napoli, 16 gennaio 1836 – Arco, 27 dicembre 1894), ultimo re delle Due Sicilie, salito al trono il 22 maggio 1859 e deposto il 13 febbraio 1861 con la nascita del Regno d’Italia.

[24] Conte di Trapani (Napoli, 13 agosto 1827 – Palermo, 24 settembre 1982).

[25] Conte d’Aquila, ossia Luigi di Borbone-Due Sicilie (Napoli, 19 luglio 1824 – Parigi, 5 marzo 1897).

[26] de Saunclières, ma Hercule DE SAUCLIÈRES, storico del Risorgimento.

[27] CUTROFIANO [d’Aragon R. di Raffaele Fitou d’Aragon (1802-1868), figlio di Pietro e di Maria Anna Filomarino duchessa di Cutrofiano.

[28] Conte Carlo PELLION di Persano (Vercelli, 11 marzo 1806 – Torino, 28 luglio 1883), ammiraglio comandante della flotta italiana nella battaglia di Lissa.

[29] Eugenio di Savoia Principe di Carignano
(Parigi, 14 aprile 1816 – Torino nel 1888), Tenente di vascello, nel gennaio 1861 fu nominato luogotenente delle Provincie Meridionali, con sede a Napoli.
Responsabile di non poche atrocità nella repressione del brigantaggio.

[30] Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di CAVOUR, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – 6 giugno 1861).

[31] Ferdinando PETRUCCELLI DELLA GATTINA (Moliterno, 28 agosto 1815 – Parigi, 29 marzo 1890), giornalista, scrittore e politico. Scrittore liberale, spesso anticonformista, fu un esule del governo borbonico a seguito dei moti del 1848.

[32] Cletto ARRIGHI – Carlo Righetti, vero nome dell’autore divenuto famoso come Cletto Arrighi (Milano, 1828 – 3 novembre 1906) giornalista e scrittore, massimo esponente della scapigliatura.

[33] Giuseppe MARGHIERI, editore napoletano.

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (4/7): S. Maria di Leuca e Otranto

di Armando Polito

S. Maria di Leuca
immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

 

Otranto, iIl castello
tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Otranto#/media/File:Castello_di_otranto,_01.jpg

 

Otranto, la cattedrale
immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Otranto#/media/File:Cattedrale_di_Otranto2.jpg
Otranto, la cripta della cattedrale
immagine tratta da https://www.archilovers.com/projects/132840/cripta-di-otranto.html

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

 

Narrando il Salento| In memoria di A. (la goffa)

In memoria di A. (la goffa)

 di Rocco Boccadamo

 

V’è, nel natio paesello, una stradina, intitolata a un linguista e scrittore del diciannovesimo secolo, N.T., immediatamente posta a portata di mano provenendo, guarda caso, da un’altra via pure recante il nome di uno scrittore, G.P.

Al secondo o terzo numero civico sulla destra, insiste una minuscola abitazione, umile ma dignitosa, in cui vive, oramai da svariati decenni, un’anziana marittimese, sola, nel senso di mai andata a nozze, single, stando al gergo moderno.

Invero, non è a questa donna, già contadina e ora pensionata, compaesana come tante altre, normalmente inserita nell’attuale comunità, che i miei pensieri mirano a rivolgersi mediante l’alleata penna.

Nella fattispecie, l’ispirazione ha per fonte e nido l’intendimento, più del resto, di dare anima all’immagine della casetta in discorso, quale era, come si presentava e che sensazioni conferiva, andando a ritroso nel tempo, nel corso di lunghe lontane stagioni e, specialmente, di rievocare in sintesi, e però cercando in pari tempo di conferirle una sorta di omaggio postumo, la figura femminile all’epoca ivi dimorante.

Si, ancora una donna, nome di battesimo iniziante per A., zia della padrona di casa di adesso e, allo stesso modo, in vita, nubile.

Il suo appellativo anagrafico, accezione propria peraltro comune e diffusa nel luogo, era immancabilmente e perennemente accompagnato dall’epiteto ‘a coffa, scaturito, o da qualcuno inventato, come meglio si voglia, con riferimento alle caratteristiche di stravaganza, particolarità, disordine, vaghezza, approssimazione, precarietà, dei suoi abiti, della stregua di vestirsi – suonerebbe improprio, a ogni modo, parlare d’abbigliamento -, incuranti di orari, stagioni e occasioni.

E, insieme, per il suo diretto modo di porsi, esprimersi, pensare, alquanto atipico, raffazzonato e sconclusionato.

A monte di simili miseri panni complessivi della compaesana A., appare chiaro e palese che si ponessero radici e sorte d’origine ingenerose, che la natura, in altri termini, dovesse essere stata con lei matrigna.   

Ella era venuta al mondo molti lustri prima di me, perciò i miei ricordi, nitidi, risalgono a quando io ero infante e, lei, già pienamente adulta.

Come nota distintiva della sua esistenza, che ricorreva sistematicamente nel suo parlare, rammento l’accenno, segno di evidente desiderio e attesa, all’arrivo, dal vicino mare, di un bastimento, recante a bordo un immaginario capitano o cavaliere, o, semplicemente, un uomo, che l’avrebbe corteggiata e sposata.

Così, i giorni e gli anni di A. scorrevano sotto l’influsso di tale suggestione.

Non mancavano, sulla scia della sua fantastica credenza, gli “amiconi” compaesani che, colposamente, scivolavano a deridere e sbeffeggiare la donna: lei, di primo acchito, si inquietava, ma senza demordere o indulgere ad abbandonare la propria idea-speranza o miraggio.

A questo punto, mi piace soffermarmi sulla particolare circostanza che A., accanto alla vistosa goffaggine esteriore, detenesse e denotasse un’innata basilare dignità.

Per citare, pur in mancanza di risorse o, meglio, sebbene versasse in assoluta povertà, non l’ho scorta, neanche una volta, nell’atto di elemosinare o chiedere, semmai era solita accostarsi, con una certa esitazione, alle persone in cui s’imbatteva oppure agli usci delle case. E stava lì, ferma.

Risultato, puntualmente, spuntava in ogni occasione chi le offrisse una mano, una monetina, un piatto di minestra, un frutto, un indumento, un paio di scarpe usate: briciole di solidarietà, in fondo, e, però, lei si sentiva appagata.

Per il resto, A. s’aggirava fra strade e campi all’aperto e privi di muretti o recinzioni, raccogliendo rametti e cespugli derelitti o di scarto, che, poi, utilizzava per accendere l’annerito camino, in dialetto focalire, di casa, vuoi per scaldare qualche avanzo di vivanda, vuoi per cercare di mitigare il freddo durante il periodo invernale.

Nella sua abitazione, non esisteva un letto vero e proprio, si notava, appena, un rudimentale giaciglio. E, tuttavia, è credibile, di certo così veniva di pensare a me, non solo da bambino ma anche da ragazzo e giovinetto, che la paesana dell’ultima fila dovesse attraversare, di tanto in tanto, le sue notti d’indigenza con il conforto di sogni, magari, con frequenza addirittura maggiore rispetto ai compaesani abbienti.

A., come sopra ricordato, non era nata sotto le ali della fortuna e, però, a dispetto della quotidianità estremamente grama e del mancato attracco del bastimento con il cavaliere che la impalmasse, ha avuto il buon destino di campare a lungo, almeno secondo la media dei suoi tempi.

Quando giunse l’ora della sua dipartita, io avevo lasciato il paese d’origine da qualche decennio. Perciò, non posso che rimembrarla nelle sue sembianze di prima, recentemente ripropostemi e rinfocolate da un’antica sua espressiva fotografia.

In conclusione, A., un essere umano poverissimo, senza niente e, nondimeno, riassunto di un modello di vita semplice all’insegna della dignità, condizione che, oggi, è, purtroppo, assolutamente rara.

Grazie, A.

Giuseppe Mazzini e i Mazziniani salentini

G. Toma, O Roma o morte

 

di Maurizio Nocera

 

Perché ricordare oggi Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872), a 146 anni dalla morte? Semplicemente, almeno questo vale per me, perché sembra che in questo nostro Paese di gambe all’aria e di false notizie propalate a piene mani da ogni parte, ci si sia dimenticati della storia e delle buone maniere anche nelle minime faccende quotidiane. E allora, e questo vale sempre in primo luogo per me, ricordare Mazzini significa ricordare un esempio di buona patria, di buona politica repubblicana, di democrazia concreta, ed anche, perché no?, di buona letteratura, se pensiamo che, sin da giovinetto, egli amò la musica (suonava la chitarra) e lesse Goethe, Alfieri, Leopardi, Foscolo, Shakespeare, Manzoni, altri ancora.

Oggi i suoi scritti hanno ancora un loro valore politico-letterario. Li cito a partire dal primo, che fu Dell’amor patrio di Dante (1926). Mazzini fu giornalista, e il suo primo impiego in quanto tale fu presso «l’Indicatore Genovese» (Genova, 1827-1828, chiuso dalla censura), sul quale, ancora giovanissimo, iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici, fino, successivamente, da uomo maturo, ad arrivare alla fondazione e direzione di importanti periodici come «l’Apostolato Popolare», «Il Nuovo Conciliatore», «L’Educatore», «Le Proscrit. Juornal de la République Universelle», «Il tribuno», «Pensiero e azione», «Roma del popolo». Scrisse importanti opere come Atto di fratellanza della Giovane Europa (1834), Scritti politici inediti (Lugano 1844), Del dovere d’agire (1855); Ai giovani d’Italia (1859); e l’importanti libro Dei doveri dell’uomo. Fede ed avvenire (Lugano, 1860), non a torto ritenuto il primo manifesto di libertà e democrazia dei popoli della nuova epoca, nel quale inserì un appello Agli operai italiani:

«A voi, figli e figlie del popolo, io dedico questo libretto nel quale ho accennato i principii in nome e per virtù dei quali voi compirete, volendo, la vostra missione in Italia: missione di progresso repubblicano per tutti e d’emancipazione per voi. Quei che per favore speciale di circostanze o d’ingegno, possono più facilmente addentrarsi nell’intelletto di quei principii, li spieghino, li commentino agli altri, coll’amore, col quale io pensava, scrivendo, a voi, ai vostri dolori, alle vostre vergini aspirazioni alla nuova vita che – superata l’ingiusta ineguaglianza funesta alle facoltà vostre – infonderete nella Patria Italiana […] Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d’Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’Umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compiersi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli affetti e dei mezzi di molti milioni d’uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll’opera propria a tutta quanta l’Umanità» […] La Patria è una, indivisibile. Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla nazione» (vd. G. Mazzini, I doveri dell’uomo, Sansoni – La Meridiana, Firenze, 1943, pp. 5, 57 e 61).

Va subito detto che se non ci fosse stato Giuseppe Mazzini, e con lui Giuseppe Garibaldi, Liborio Romano e, per alcuni eventi specifici, Cavour (che non amò mai il patriota, anzi fece di tutto per incarcerarlo e persino farlo condannare a morte), mai si sarebbe raggiunta l’Unità d’Italia; unità che significò in primo luogo liberare l’Italia dalla presenza sul suo suolo degli eserciti di altre potenze europee. Per questo suo alto obiettivo politico (Unità nazionale retta da una Repubblica con un governo centrale) fondò e diresse movimenti politici e diversi periodici.

Si pensi alla “Giovine Italia” (1831), alla “Associazione Nazionale Italiana” (1848) e al “Comitato Nazionale Italiano” (1850) e, nello spirito di un sincero internazionalismo patriottico, si spinse a fondare la “Giovine Germania” (1834) e la “Giovine Polonia” (1835) per l’unificazione nazionale di quei paesi, ai quali si deve aggiungere la fondazione della “Giovine Europa” (1866) per l’unificazione dello stesso vecchio continente attraverso un Fronte unito che chiamò “Alleanza Repubblicana Universale”, da cui nacque il “Comitato Centrale Democratico Europeo” (1850). Uno dei capolavori politici di Mazzini, purtroppo sconfitto poi dalla reazione più nera, fu la Repubblica Romana (1849), che diresse per alcuni mesi assieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini (il cosiddetto triumvirato), al quale un contributo notevole apportò Carlo Pisacane.

Inutile aggiungere che per la sua passione politica e per l’Unità d’Italia soffrì il carcere, le percosse, l’esilio (per lunghi anni a Londra) e più volte la condanna a morte in contumacia.

Il 3 giugno 1888, sul periodico dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli – lo «Spartaco» – Victor Hugo, autore francese a noi molto noto, scrisse:

«Pour Mazzini il y a la libertè. Pour Garibaldi il y a la patrie. Pour nous il y a l’Italie».

Nel Salento come pure nella nostra Gallipoli operarono i mazziniani repubblicani, a cominciare da Epaminonda Valentino, (Napoli 1811 – Lecce 1849), fondatore della “Giovine Italia” nell’allora Regno di Napoli e il primo introduttore nella stessa Gallipoli e a Lecce. Epaminonda aveva sposato Rosa de Pace, sorella di Antonietta, il cui solo nome per noi gallipolini è una bandiera. Epaminonda, nel maggio 1848, partecipò ai moti insurrezionali di Napoli e di Lecce, aderì al Circolo patriottico di Terra d’Otranto (fondato il 29 giugno 1848). In seguito alla sua partecipazione ai moti insurrezionali, venne arrestato a Lecce il 30 ottobre 1848, assieme a Sigismondo Castromediano (Cavallino), i fratelli Stampacchia (Lecce), Gaetano Brunetti (Lecce), più altri. Epaminonda fu condannato a morte ma, prima ancora dell’esecuzione, morì nel penitenziario di Lecce nel 1849 tra le braccia del Castromediano. Dell’atroce modo in cui egli mori, lo storico Pier Fausto Palumbo ha scritto:         «Fin dal 29 settembre (1848) una prima vittima fu fatta: nelle braccia del Bortone e del Castromediano era spirato, in carcere [si tratta del carcere dell’Udienza o carcere centrale di Lecce], a soli trentotto anni, Epaminonda Valentino, gallipolino d’elezione per le nozze con Rosa de Pace, fondatore in provincia della “Giovine Italia”» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 165).

Anche Sigismondo Castromediano, che lottò esemplarmente contro il Borbone, nelle sue Memorie scrive una chiara pagina patriottica su questo straordinario napoletano rivoluzionario repubblicano mazziniano, salentino e gallipolino d’elezione:

«Epaminonda lasciava la giovane moglie, Rosa de Pace, e due figlioletti ancora piccini, che amava sino alla follia, e con essi Antonietta sua cognata […] La nuova dolorosa giunse a quelle donne in Gallipoli per via di nostre lettere, e a conforto di loro sventura e a venerata memoria dell’estinto loro inviammo un’iscrizione lapidaria…» (vd. Aspetti e figure del Salento nelle parti inedite delle “Memorie” di Sigismondo Castromediano, a cura di Aldo Vallone, in «Studi Salentini», III-IV, giugno-dicembre 1957, p. 174).

Accanto a Epaminonda c’è da annoverare anche suo figlio Francesco Valentino (Gallipoli, 1835 – Pieve di Ledro, 1866), nipote di Antonietta de Pace. Morì da patriota nelle battaglie risorgimentali, convinto repubblicano, prendendo parte nelle associazioni democratiche e nel giornalismo rivoluzionario di Marsiglia e di Genova. Nel 1866 indossò la camicia rossa garibaldina morendo a Pieve di Ledro, nei pressi di Bezzecca (Trento) nella battaglia contro l’impero austro-ungarico in quella campagna militare che Garibaldi intraprese per la liberazione di Trento e Venezia. Del figlio Francesco, nel commentare la battaglia di Bezecca (24 giugno 1866) riporto quanto scrisse il corrispondente di guerra Augusto Vecchi:

«Il povero Valentino è morto, colpito al petto, gridando “Viva l’Italia”».

E come non ricordare ora Antonietta de Pace (Gallipoli, 2 febbraio 1818 – Capodimonte, 4 aprile 1893), cognata di Epaminonda e zia di Francesco, patriota e rivoluzionaria gallipolina, repubblicana mazziniana fin dalla prima ora, alla cui opera la città di Lecce ha intitolato una via e un istituto scolastico di secondo grado. Dopo la morte del cognato e del nipote, la responsabilità dell’attività cospiratrice nel Salento ricadde proprio su di lei. Così la ricorda Pier Fausto Palumbo:

«Animatori della vasta cospirazione mazziniana, e segretari del Comitato centrale di Napoli, i due salentini Fanelli e Mignogna. Collaboratrice instancabile e preziosa, Antonietta de Pace: ad essa facevano capo i Comitati di Lecce, di Brindisi, di Ostuni, di Taranto; e fu essa, con la madre dei Poerio, la moglie del Settembrini, la figlia di Luigi Leanza, poi moglie di Camillo Monaco, a intrattenere gli ancor più rischiosi rapporti coi galeotti politici di Procida, Santo Stefano, Ventotene, Montesarchio e Montefusco. Le corrispondenze segrete tra Santo Stefano e Napoli passavano per Ventotene, i cui reclusi erano giunti a dare tale fastidio al governo che, per liberarsene, preferì disfarsi dei meno pericolosi (…) La guerra di Crimea, riaccendendo le speranze, si fece leva sui militari, con una società mazziniana tutta particolare per loro. Anche di questa, animatori furono il Mignogna e la de Pace, che vennero arrestati: l’uno si ebbe cinquanta legnate e l’eroica donna fu per quarantasei volte inquisita. Al processo che ne seguì, il Mignogna s’ebbe condanna all’esilio, la de Pace fu assolta [dopo aver scontato 18 mesi di carcere preventivo]» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 167).

È nota la vicenda che vuole la de Pace entrare in Napoli liberata al fianco di Giuseppe Garibaldi. Era il 6 settembre 1860 e da lì, da quella città del Sud, l’Italia iniziava la sua nuova era di paese unito. Oronzo Colangeli, che fu preside per molti anni dell’Istituto Professionale Femminile “Antonietta de Pace” di Lecce, presso il quale anche chi qui scrive ha insegnato per diversi anni, così ricorda la Gallipolina: «Mazziniana convinta e repubblicana, non si scostò mai dalla sua linea ideale pur adattandosi, per un consapevole senso di civile partecipazione al momento storico che attraversava l’Italia […] Con una fede pari a quella degli apostoli del nostro Risorgimento non ebbe incertezze neppure nei momenti più difficili ed oscuri della reazione. Perseguita dalla polizia e dai tribunali borbonici non vacillò, trovando in se stessa le risorse morali per resistere agli inquisitori e risorgere in adamantina coscienza di riaffermata libertà. Esempio purissimo delle migliori tradizioni delle donne italiche che, in tempi dolorosi e di triste servaggio, seppero credere nel radioso avvenire della Patria» (vd. O. Colangeli, in Antonietta de Pace, Patriota Gallipolina, Istituto Professionale Femminile di Stato – Lecce, Editrice Salentina, Galatina 1967, pp. 73-74).

E ancora, come non ricordare Bonaventura Mazzarella (Gallipoli 8 febbraio 1818 – Genova 6 marzo 1882), avvocato e magistrato gallipolino ancor prima dei moti risorgimentali del 1848, repubblicano mazziniano sin dalla prima ora. A Lecce fondò il primo nucleo del Partito d’azione d’ispirazione mazziniana con la costituzione dei primi Comitati collegati ai Circoli. Nel maggio 1848, sempre a Lecce città, uno di questi Comitati prese il nome di Circolo Patriottico Provinciale di Terra d’Otranto, che vide al suo interno il fior fiore della migliore gioventù, fra cui Giuseppe Libertini, Sigismondo Castromediano, Annibale D’Ambrosio, Oronzio De Donno, Alessandro Pino, Nicola Schiavoni, Cesare Braico, Emanuele Barba, altri ancora. Mazzarella fu eletto presidente del Circolo dedicandosi all’organizzazione della Deputazione Provinciale, dalla quale sarebbe nata, dopo l’Unità d’Italia, quella struttura amministrativa che noi oggi conosciamo col nome di Provincia. Il 30 aprile 1849, Bonaventura Mazzarella fu l’unico salentino, assieme ad altri trenta emigrati repubblicani, ad combattere sotto le mura di Roma nella difesa della Repubblica. In tutta la sua vita fu sempre coerente rimanendo repubblicano mazziniano. Passò il resto della sua vita a Genova, dopo essere stato deputato per alcune legislature e, per decenni, consigliere comunale di quella città.

A Gallipoli, tra i repubblicani mazziniani, ci fu anche Eugenio Rossi (Gallipoli 1831-1909), il quale partecipò a tutte le iniziative politiche e militari contro il Borbone e per l’unità nazionale, ad iniziare dal maggio del 1848. Dopo l’Unità d’Italia si arruolò, per mezzo del “Comitato per Roma e Venezia”, presieduto da Emanuele Barba, alla campagna garibaldina di Aspromonte nel 1862, partecipando a tutte le altre campagne che Garibaldi fece fino a Bezzecca. Ritornato in Gallipoli divenne uno dei più ferventi promotori di lotte sociali a favore del popolo, divenendo più volte consigliere comunale ed assessore della città. Fu il fondatore e primo presidente della sezione del Partito socialista di Gallipoli a iniziare dal 1892. Fondò, assieme ad altri suoi compagni, lo «Spartaco», organo dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli e circondario e, più tardi, nel 1900, fondò pure, divenendone direttore, «Il Dovere», organo dell’Unione Dei Partiti Popolari di Gallipoli, espressione delle masse popolari. La sua opera, sociale e politica, è oggi rintracciabile nelle centinaia di lettere, articoli, saggi sul socialismo ecc. che egli ci ha lasciato sullo «Spartaco», su «Il Dovere», e su altri giornali ed opuscoli.

Inoltre va annoverato il nome di Giuseppe Libertini (Lecce 1823-1874), repubblicano mazziniano della prima ora il quale, dopo la morte di Epaminonda Valentino assunse la direzione della “Giovine Italia” salentina. I leccesi gli hanno intitolato una bella piazza e un bel bronzo. Fu avvocato e amico personale di Giuseppe Mazzini, col quale stette per lungo tempo a Londra. Partecipò ai moti insurrezionali del 1848, fondò il Circolo Patriottico di Terra d’Otranto e combatté sulle barricate di Monte Calvario a Napoli il 5 maggio 1848. Fu membro del governo provvisorio garibaldino (settembre 1860) e deputato del Regno d’Italia. Mazzini lo mise alla guida del Partito d’Azione, col compito di far insorgere le province allo sbarco di Garibaldi sul continente, perché

«uomo di pronti ed arditi disegni, che seppe far miracoli, tanto da superare di gran lunga la nostra aspettazione», (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 171).

Del Libertini, un inedito ricordo lo scrive anche Francesco Stampacchia nel 1860:

«Giuseppe Libertini, pur esso salentino e propriamente leccese, figura di primo piano nel Risorgimento nazionale, intimo di Giuseppe Mazzini e con lui operante, già recluso a Ventotene, membro del Comitato Europeo con Kossut ed Herzen, aveva organizzato la insurrezione di Potenza, di Ariano e delle Calabrie, e si trovava in Napoli membro del Governo Provvisorio costituitosi al partire di Francesco II e scioltosi quando fu proclamata la dittatura di Garibaldi. Egli era allora accanto all’eroe, da cui era stato chiamato, e con lui fra gli applausi percorreva le vie della Capitale» (vd. F. Stampacchia, Lecce e Terra d’Otranto un secolo fa, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 308).

Accanto a questi eroi unitari del Risorgimento salentino, non vanno dimenticati Vito Mario Stampacchia senior (Lequile 1788 – Lecce 1875), patriota leccese giacobino, che partecipò ai moti insurrezionali del 1820 e anni successivi; Gioacchino Stampacchia (Lequile 1818 – S. M. Capua Vetere 1904), che fu patriota mazziniano e aderì alla “Giovine Italia”; Salvatore Stampacchia (Lecce 1812-1885), fratello di Gioacchino e figlio di Vito Mario senior, anch’egli patriota risorgimentale. E ancora Gaetano Brunetti (Lecce 1829-1900), avvocato, repubblicano mazziniano della prima ora, che partecipò a tutto il risorgimento italiano.

Accanto a tutti costoro non vanno dimenticati altri personaggi come: Cesare Braico, di Brindisi, garibaldino fra i Mille, il quale combatté nel 1848 sulle barricate a Santa Brigida a Napoli. Successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Per la sua partecipazione ai moti rivoluzionari fu condannato a 25 anni di galera. Soffrì il carcere duro borbonico assieme a Sigismondo Castromediano e a Luigi Settembrini. Dopo 11 anni di carcere fu esiliato dall’Italia. Riparò a Londra dove per bocca dell’altro suo compagno Giuseppe Fanelli ricevette il saluto di Giuseppe Mazzini. Appunto Giuseppe Fanelli, di Martina Franca, anch’egli garibaldino fra i Mille, che partì da Quarto per la Sicilia (famoso il coraggio dimostrato durante la battaglia di Calatafimi), e repubblicano mazziniano della prima ora, difensore della Repubblica Romana del 1849, dove combatté sotto il comando politico di Giuseppe Mazzini. Fu anch’egli uno dei responsabili della “Giovine Italia” in Terra d’Otranto. C’è ancora Vincenzo Carbonelli, di Taranto, anch’egli garibaldino fra i Mille, repubblicano mazziniano della prima ora, partecipò il 15 maggio 1848 ai moti insurrezionali di Napoli, anch’egli difensore della Repubblica Romana e propagatore degli ideali mazziniani in Terra d’Otranto. E infine va ricordato anche il leggendario Nicola Mignogna, di Taranto, garibaldino fra i Mille che, il 5 maggio 1860 fu, assieme a Crispi, Rosolino Pilo e La Massa, tra gli organizzatori della spedizione da Quarto alla volta della Sicilia. Repubblicano mazziniano della prima ora, nel 1836 si era affiliato alla “Giovine Italia” diffondendone gli ideali nelle provincie napoletane. Nel 1848 combatté a Monte Calvario a Napoli, successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Venne processato assieme ad Antonietta de Pace. Lavorò spesso a fianco di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Fino alla fine dei suoi giorni rimase un convinto repubblicano. (Per tutti cfr. Aa. Vv. Lecce e Garibaldi, Capone editore, 1983).

Fin qui i garibaldini, i mazziniani e gli altri patrioti unitari salentini, i cui nomi andrebbero scritti nel Grande Libro della Storia nazionale d’Italia. E tuttavia la storia, che noi sappiamo essere maestra di vita e regolatrice di ogni cosa, non lascia mai nulla di scoperto sulle sue indistinguibili pagine sulle quali è narrata l’evoluzione degli eventi. Tant’è che nel 1945-46, quando i costituenti del secondo dopoguerra si riunirono per gettare le basi di quella che sarebbe divenuta la Carta fondamentale della nuova Italia antinazifascista, la Costituzione, (la forma statuale fu quella repubblicana, scelta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946), non dimenticarono l’insegnamento di Giuseppe Mazzini e dei suoi compagni. Così, nell’impeto gioioso di un’indimenticabile giornata per gli italiani, e nel calore sostenuto dal forte vento della libertà e della democrazia riconquistata, nacque la nostra Costituzione Repubblicana, promulgata il 1° gennaio 1948.

Ecco perché, oggi, in un’Italia continuamente gabbata da ignoranti di Stato, non è sbagliato ritornare a leggere i testi di Giuseppe Mazzini, affinché si riscoprano i valori e le idealità d’un tempo per ritrovare anche il senso e il significato profondo di una vita degna di essere vissuta alla ricerca di un mondo ideale concreto, mondo che fece degna di essere vissuta la vita dei grandi iniziati di tutti i tempi: Socrate, Pitagora, Budda, Confucio, Gesù Cristo, Maometto, Giordano Bruno, Ernesto “Che” Guevara. Forse, ma questo è difficile accertarlo in un momento storico come quello che stiamo vivendo, fra questi grandi della storia dell’umanità, un suo posto l’ha anche Giuseppe Mazzini, indiscutibilmente l’apostolo più significativo del repubblicanesimo moderno.

A Lecce, su una fiancata dell’ex Convitto Palmieri, insiste una bella immagine di Giuseppe Mazzini, sotto la quale, Giovanni Bovio, altro personaggio assai noto ai gallipolini, ha scritto: «Giuseppe Mazzini// pari ai fondatori di civiltà// Maestro».

 

Pubblicato su Anxa

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (3/7): Lecce

di Armando Polito

Piazza S. Oronzo

 

Arco di trionfo

 

La Prefettura

Chiesa dei santi Nicola e Cataldo

Il campanile

 

Il giardino pubblico
Il seminario

Chiesa di S. Croce

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano

di Andrea Erroi

Nel presbiterio della parrocchiale di Presicce campeggia la grande tela nota con il titolo di ”Il Martirio di S. Andrea”, opera del celebre pittore gallipolino Gian Domenico Catalano. Il dipinto proviene dalla vecchia chiesa matrice, che cedette il posto all’attuale, sul finire del ‘700.

Nella parte inferiore sono visibili gli stemmi del vescovo di Ugento, mons. Pedro Guerrero, lo stemma dell’università di Presicce (il cervo che si abbevera alla fonte) e lo stemma dei feudatari dell’epoca, i baroni Cito-Moles.

In prossimità dello stemma dell’università, su di un sasso, il Catalano stilò la data e la firma << IO : DOM.CO CAT.NO GALLIP.NO ME PINGEBAT 1601>>.

L’opera pare sospesa tra il manierismo e un arcaismo compositivo dal sapore popolare, risentendo della pittura spagnola, mediata da Pedro Rubiales, ma anche delle stampe nordiche.

La scena del martirio, che mostra il santo issato sulla croce decussata, è immersa in un paesaggio affollato, dove oltre alle figure di militi e astanti in primo piano, compaiono numerose altre figure, raggruppate in varie azioni, che come in un corto metraggio inscenano i racconti della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1298) o degli Atti di Andrea (III sec.).

Si susseguono una serie di scene collegate con la vita del santo apostolo.

Sull’estremo margine di sinistra, lungo la marina, si colgono alcune figure che presumo rimandino alla “Chiamata dei discepoli”; si intravede una figura col braccio teso, presumibilmente Cristo, che indica in direzione delle due barche, su una delle quali sostano tre figure, una in piedi e due intente a raccogliere le reti, con evidente rimando alla ”pesca miracolosa”.

In alto tra squarci di nubi si intravedono degli angeli che reggono delle palme, simbolo di martirio, in atto di incoronare il discepolo.

Lungo il litorale è raffigurata una folla e degli uomini in acqua nei pressi di una nave sopraffatta dai flutti, che rimanda al miracolo dell’apostolo che risuscita gli annegati in un naufragio.

Sulla collina si scorge un edificio in fiamme ed illustra l’episodio del giovane di Tessalonica, Essuo, nobile e ricco, che all’insaputa dei suoi parenti, si recò da Andrea e si convertì al cristianesimo. I parenti, che lo cercavano, saputo che si trovava a Filippi con l’apostolo, andarono con doni pregandolo che si separasse da lui e rinnegasse la nuova fede, ma egli si rifiutò. Dopo aver radunata una folla, con fascine e fiaccole i parenti incominciarono a dare fuoco alla casa. Quando già le fiamme erano alte, il giovane prese un’ampolla d’acqua, e invocando il nome di Cristo sparse l’acqua dell’ampolla e subito l’incendio si spense. Potrebbe essere stato quest’episodio ad originare l’usanza del grande falò, che caratterizza la vigilia di S. Andrea a Presicce.

Stemma dei Cito – Moles

 

Nel margine destro è raffigurata la resurrezione del giovane di Nicodemia. Negli Atti di Andrea si legge : <<… si stava trasportando un morto su di una barella: il vecchio padre, sostenuto dalle braccia dei servi, solo a stento riusciva a seguire la sepoltura. Ed egli (Andrea) rivolto al morto, disse: – <<In nome di Gesù Cristo, alzati e stai dritto sui tuoi piedi>>. Subito risorse tra lo stupore del popolo.>>

Al centro, in un edificio dalla curiosa architettura, attraverso l’ espediente di un arco, vediamo dei commensali: si tratta di un vescovo, che conversando con una donna bellissima e dal pensiero acutissimo, comincia a dubitare della propria fede e mentre sta per cedere alle sue lusinghe, compare Andrea, nei panni del pellegrino; alla vista dell’apostolo la donna scompare, rivelando che si trattava del demonio.

Nell’altro edificio più grande, alla stessa altezza della crocifissione, sono raffigurate le scene della condanna da parte del proconsole Egea e la fustigazione.

In primo piano, sulla destra vi sono delle figure femminili con dei bambini; erroneamente diversi autori hanno ipotizzato si trattasse della famiglia dei principi Bartirotti, feudatari di Presicce (cosa al quanto improbabile, dato che il principe Bartirotti Piccolomini d’Aragona prenderà in sposa Maria Cito-Moles e si trasferirà a Presicce nel 1622). In realtà si tratta di due donne. E’ narrato l’episodio della donna di Corinto: una donna di nome Calliope, che rimase illecitamente incinta di un assassino. Quando giunse il momento del parto, sopraffatta dai dolori, non riusciva a partorire. Disse allora a sua sorella di invocare Diana, ma la donna, avvertita in sogno, andò dall’apostolo che intervenne prodigiosamente; per questo motivo S. Andrea è considerato anche protettore delle partorienti.

Stemma di Presicce e firma del Catalano

 

Immagini come questa erano un indispensabile ed efficace strumento di comprensione del lungo panegirico che eruditi predicatori tenevano dal pulpito in occasione della festa del santo.

Con molta probabilità, nella sua originaria collocazione, la pregevole tela era più accessibile alla vista dei fedeli, che potevano scorgerne i particolari, leggerne più facilmente i contenuti, che con la ricollocazione settecentesca si fatica ad individuare.

Stemma del vescovo Guerrero

Passeggiando per il centro storico di Martano

In occasione della 4° Edizione del Villaggio Natalizio,  in programma dal 7 al 9 Dicembre nel Palazzo Baronale Comi,  ” Cortili Aperti Martano ” organizza per i giorni 8 e 9 “Passeggiando per il Centro Storico”, una escursione a piedi alla scoperta del bellissimo centro storico, con le sue dimore, palazzi gentilizi ed angoli caratteristici che nascondono storie e sensazioni che meritano di essere vissute.
Inevitabile la visita alla Chiesa Matrice dedicata alla Vergine Maria SS Assunta ed altri luoghi sacri che si incontrano sul percorso.
Il ritrovo sarà presso l’ atrio del palazzo baronale Comi. Gli orari saranno concordati in base al numero dei partecipanti.

Per informazioni e prenotazioni scrivere sulla pagina Fb in privato o chiamare il 329 9177902.

Antonio Guglielmo
Amministratore di Cortili Aperti Martano.

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (2/7): Brindisi

di Armando Polito

Veduta dal mare
Rovine di S. Giovanni

Chiesa del Casale

 

Il bagno penale
Corso Garibaldi
Piazza delle vettovaglie

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la terza  parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia

di Mario Colomba

Quello che cercherò di riportare in queste note non sono nozioni tecniche per impegnative verifiche di stabilità o conoscenze di geometria per il tracciamento di curve e sagome dei diversi tipi di manufatto. Mi limiterò a descrivere, quasi esclusivamente, l’insieme di operazioni che concretamente venivano effettuate dalle maestranze e dai collaboratori, cioè cercherò di rispondere alla domanda spontanea: “come facevano?”.

 

La mano d’opera

L’organizzazione della produzione si fondava sulla composizione della squadra che a sua volta era costituita da un numero costante e fisso di addetti che, come forza lavoro, venivano identificati con una sineddoche in base all’attrezzo principale che utilizzavano (cucchiara, mmannara, ecc.) e che generalmente, salvo il caso di lavorazioni particolari, erano:

– un muratore; detto cucchiara (cazzuola)

– uno o più squadratori; detti ‘mmannara (mannaia)

– un manovale;

– uno o più garzoni.

A questi, in alcuni casi, si aggiungevano degli specialisti come gli scalpellini, per la realizzazione di pezzi scolpiti o scorniciati o in bassorilievo di pietra leccese, oppure, , fino oltre la metà degli anni ‘60 del secolo scorso, posatori di pavimenti e rivestimenti dotati di particolare perizia nella costruzione delle cosiddette cucine economiche, in sostituzione degli antichi focolari domestici.

– Il muratore (cazzuola – cucchiara) era l’operatore principale addetto alla posa in opera dei conci (cuzzetti) che allettava con la malta, disponendoli in file regolari e allineandoli con l’uso di una corda. gli utensili personali che adoperava erano la cazzuola, il martello da muratore, il filo a piombo (lu chiumbu), la corda sottile (firazzulu) ed un metro a stecche ripiegabili.

– lo squadratore (‘mmannara) provvedeva a squadrare i conci con le modalità che vedremo separatamente. nelle fasi di costruzione, lo squadratore componente della squadra, al servizio del muratore, provvedeva al taglio dei conci a misura e alla preparazione di pezzi speciali poiché i conci ordinari da murare erano stati già preparati in precedenza e accatastati nei pilieri.

– Il manovale trasportava a spalla i conci necessari, inerpicandosi anche su scale a pioli, al progredire dell’altezza della muratura.

– I garzoni erano addetti alla preparazione della malta che trasportavano nelle vicinanze del muratore adoperando appositi contenitori metallici troncoconici detti calderine, della capacità di circa 11 litri.

Sia i manovali che gli squadratori erano provvisti di un grembiule di tela bianca (antìle), allacciato alla vita ed esteso fin quasi alle caviglie, che i manovali arrotolavano e ripiegavano sulla spalla prima di appoggiarvi il concio da trasportare.

Più unità produttive (squadre) costituivano la forza lavoro dell’attività di impresa guidata dal maestro.

Tutta l’organizzazione produttiva costituiva un sistema in cui non potevano esistere, se non molto raramente, raccomandazioni (limitate generalmente all’offerta di un’opportunità). Si progrediva per abilità, dimostrata anche indipendentemente dai dati anagrafici.

Soprattutto i manovali provenivano spesso dall’agricoltura. infatti, per i giovani, il trasferimento nell’edilizia rappresentava una speranza di avanzamento sociale per un complesso di motivi:

– il passaggio da un settore a scarso reddito legato alla variabilità degli eventi meteorologici ad un altro che conferiva maggiore dignità e certezza del futuro;

  • tipo di rapporto di lavoro quasi mai padronale ;   – la minore precarietà del rapporto di lavoro, Infatti, ai braccianti agricoli il salario veniva corrisposto giornalmente, esattamente la sera in piazza, dove si sperava di ricevere l’incarico di lavoro per il giorno dopo, mentre il salario dei muratori veniva corrisposto settimanalmente, il sabato sera;C’era chi, partendo da garzone della malta, riusciva a diventare cucchiara (cazzuola) anche a vent’anni e chi restava manovale anche in età relativamente avanzata o chi rimaneva a fare lo squadratore a vita.nell’ambiente di lavoro c’era una sorta di spensieratezza e di infantile licenziosità, mai eccessivamente volgare. Si rideva con poco e non erano infrequenti lazzi ed espressioni pesanti di riferimento sessuale, solo quando il “maestro” era assente. Spesso si manifestavano con il canto di stornelli allusivi e canzoni popolari che venivano scandite dal ritmo delle lavorazioni manuali generalmente poco rumorose.Ritengo che non si possa apprezzare la validità di un manufatto edilizio senza conoscerne le modalità realizzative.I conci venivano squadrati secondo precise tipologie che comprendevano:
  • – i tuttuni o legatore – squadrati solo sulle due teste           e sugli assetti;
  • – le curesce – usati nei paramenti delle murature a due teste;
  • – i purpitagni (perpedagni) – usati nei muri ad una testa;
  • – le appese – inizio delle formate delle volte – conci in parte incastrati nella muratura ed in parte sagomati secondo l’andamento dell’intradosso delle “formate”, caratterizzati da una complicata stereotomia (che veniva realizzata solo da alcuni squadratori specializzati) e che richiedevano una particolare perizia sia nella scelta dei conci più adatti allo scopo che nella determinazione delle forme geometriche di ciascun elemento.
  • – i pezzi scorniciati – per le cornici e cornicioni in tufo.                                                                                                             Tralasciamo le lavorazioni esclusive dei conci in pietra leccese ad opera di scalpellini o addirittura di scultori.

Gallipoli e Taranto in due mappe del XVII secolo

di Armando Polito

Sono le sole due tavole relative alla Terra d’Otranto a corredo di Teatro delle città d’Italia, Nella stamperia di Dominico Amadio, Vicenza, ad istanza di Pietro Bertelli libraro in Padova, 1616, a riprova dell’importanza strategica e commerciale dei due porti rispetto a quello di Brindisi.

p. 216

ll  volume ebbe una successiva edizione per i tipi del figlio di Pietro: Theatro delle città d’Italia, Francesco Bertelli, Padova, 1629.

Per altre mappe antiche di Gallipoli vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/14/gallipoli-in-nove-mappe-antiche/

 

p. 222

Per altre mappe antiche di Taranto vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/26/taranto-comera-circa-500-anni/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/01/taranto-tavola-del-1545/

Libri| Quel Millenovecento69

Il testo, edito da I Libri di Icaro, si presenta come un romanzo di formazione, con al centro le vicende di un adolescente meridionale, Luigi, che compie la sua educazione sentimentale nell’estate del 1969.

“Lu Luigi” percorre i suoi turbamenti adolescenziali, erotici e sessuali, mentre la società si va staccando, anche a sud del Sud, dal piccolo mondo antico maschilista, governato dai patriarcati pubblici, non meno che da silenti matriarcati domestici, per convergere verso il consumismo e la cultura di massa. Attraversando i miti, i tormentoni, i feticci e gli stereotipi di quel tempo, diventa egli stesso specchio di un progresso senza sviluppo. Assistendo alla rottamazione di quello che sarebbe valso la pena conservare e al prevalere di quello che non sarebbe stato giusto approvare, il protagonista si proietta dubbioso verso l’incerto scenario successivo a un Boom che si andava esaurendo, aprendo l’Italia alle crisi socio-economiche e alla sbandata triste realtà degli anni di piombo. Unica, incrollabile e salda certezza, i rapporti personali di amicizia, lealtà, affetto e amore.

Una trama estremamente coinvolgente, che si sviluppa sullo sfondo di un meraviglioso Salento, raccontata con una sana ironia e uno stile unico.

Giuseppe Resta è nato nel 1957 a Galatone, nel Salento, dove vive dopo una lunga parentesi in Toscana. È un architetto progettista, operatore culturale, blogger della prima ora, polemista su Facebook e scrittore “per necessità”. Divulgatore di architettura, storia e arte, si è sempre speso nella difesa e nella valorizzazione del territorio impegnandosi nel sociale. È membro della direzione del sito di storia medievale dell’Università di Bari. Già redattore del «Giornale di Galatone», attualmente, lo è della rivista «A Levante», che lo vede tra i fondatori. Dal 2003 a oggi è stato tutor e formatore per il servizio civile dell’UNPLI. Nello stesso anno ha pubblicato un libro sulla storia dell’Architettura del Palazzo Marchesale di Galatone. Nel 2012 ha presentato l’apprezzato libro di racconti «Scirocchi barocchi».Ha redatto diverse guide storico-turistico-enogastronomiche della sua terra e ha contribuito con saggi e racconti in numerose opere collettive.

I simulacri lignei delle sante martiri e vergini, venerate nelle città di Latiano, Torre Santa Susanna ed Erchie

Busto reliquiario di Santa Lucia

 

di Domenico Ble

 

Il momento principale che riunisce ogni comunità cittadina è senza ombra di dubbio quello della festa patronale. Si tratta di un’occasione di grande coinvolgimento, gli abitanti di ogni comunità cittadina si sentono protagonisti e responsabili della buona riuscita del momento festoso.

Da molti anni, diverse feste patronali pugliesi sono divenute note, anche a livello nazionale, per delle peculiarità folcloristiche ed artigianali. Fra tutte le feste spicca, ad esempio, quella in onore di santa Domenica a Scorrano in provincia di Lecce, divenuta tappa di curiosi e turisti per le famose luminarie.

È importante sottolineare che il cuore di ogni festa patronale è la processione religiosa ossia il momento in cui il simulacro, raffigurante il santo protettore, viene portato in spalla per le vie del paese. L’arte torna ad essere oggetto dominante perché i simulacri, in argento, lignei o in cartapesta, sono veri capolavori dell’arte scultorea.

In questo saggio mi occuperò della devozione nei confronti di tre sante vergini e martiri, omaggiate in tre differenti comunità locali: santa Margherita d’Antiochia a Latiano, santa Susanna a Torre Santa Susanna e santa Lucia a Erchie.

Prima di proseguire nell’analisi dei simulacri, è doveroso accennare alla situazione dell’arte, nel Seicento e Settecento, nel Salento.

Nei territori della grande provincia di Terra d’Otranto, terra di confine rivolta ad Oriente, crocevia di grandi traffici commerciali e di scambi culturali, vi fu in questo periodo in ambito artistico, dal punto di vista pittorico, scultoreo e architettonico, una fusione di molteplici stili, ancora oggi osservabili sulle facciate dei monumenti e nei particolari delle opere mobili.

I contatti artistici non mancarono soprattutto con Napoli, capitale del regno e centro artistico principale del bacino mediterraneo. La committenza presente in Terra d’Otranto e nell’intera Puglia, composta principalmente dai feudatari, dal clero diocesano, dagli ordini sacri e dalle Università, commissionava alle botteghe presenti nella capitale e in provincia la realizzazione di tele, statue, manufatti di vario genere[1]. Fra le richieste, ovviamente rientravano anche le statue lignee, tra cui quelle raffiguranti i santi protettori a cui erano devoti i committenti. Una domanda ulteriormente accresciutasi alla fine del XVII secolo ad opera soprattutto della committenza ecclesiastica[2].

Busto reliquiario di Santa Susanna

 

Fra le varie tipologie di statue, erano molto richiesti i busti-reliquiari[3], i quali potevano essere lignei o di argento ed avevano una funzione devozionale, in quanto i fedeli, attraverso l’ausilio dell’immagine, rivolgevano le loro preghiere alla santa o al santo raffigurati. Allo stesso tempo, svolgevano anche la funzione di contenere le reliquie dei santi: erano questi i motivi per cui tali manufatti assumevano un grande valore artistico e religioso[4].

Santa Susanna è patrona dell’omonima città[5]. La devozione del popolo torrese nei confronti della santa martire, è legata a due episodi a cui è attribuita la sua intercessione per la protezione del popolo: il terremoto del 1743 e il colera del 1837[6]. La tradizione lega comunque il culto, in suo onore ad un episodio ambientato in epoca tardo-romana secondo il quale un soldato romano cristiano realizzò un disegno raffigurante la santa vergine e martire romana su una parete all’interno di una torre presente nel territorio. Non vi sono, tuttavia, fonti scritte che certifichino l’accaduto. L’unica certezza è che a mantenere vivo il culto, fu la presenza di un edificio sacro bizantino, situato poco fuori la città e dedicato a santa Susanna. Tale edificio oggi non è più esistente, tuttavia è bene menzionarlo in quanto dalle mura di questo luogo sacro nacque la città[7].

Santa Margherita d’Antiochia (foto di Vincenzo Doria)

 

Nella chiesa matrice di Torre Santa Susanna, nell’ultima cappella della navata di sinistra, all’interno della teca dell’altare, è conservato il busto-reliquiario ligneo raffigurante la giovane martire romana. In quest’opera la santa è rappresentata con il capo aureolato, rivolto verso l’alto. Con la mano destra tiene la torre, allegoria che ricorda la leggenda da cui deriva il nome della città, e con la mano sinistra la palma del martirio. Indossa un abito in stile seicentesco indorato. Al centro, sul petto, è collocata la piccola teca circolare al cui interno è posta la reliquia.

Nel 1664, in occasione della visita pastorale del vescovo Raffaele Palma,[8] viene riportata la presenza del simulacro all’interno di un armadio collocato nella sagrestia e si fa anche riferimento al colore dorato degli abiti.[9] L’opera potrebbe essere stata realizzata un decennio prima della data in cui la riporta il vescovo nella sua visita pastorale.

Nella vicina città di Erchie sorge il santuario di santa Lucia[10], vergine e martire. Il culto in onore della giovane siracusana ebbe inizio a seguito dello spostamento del corpo da Siracusa a Costantinopoli[11] per volere del generale bizantino Giorgio Maniace. Durante il tragitto, il Maniace e i soldati si fermarono nella foresta oritana, all’interno di una rientranza rocciosa nei pressi del villaggio di Hercle, odierna Erchie. La leggenda vuole che alcuni monaci basiliani che dimoravano lì vicino, visto il corpo della santa siracusana, appena i soldati lasciarono il luogo in cui avevano sostato, decisero di trasformare il posto in luogo di culto e affrescarono le pareti immortalando l’episodio[12]. Ben presto il luogo divenne meta di pellegrinaggio.

A questo luogo è legata un’altra leggenda, quella «della mucca», racconto risalente al XVI secolo. Durante un periodo di grande siccità, si narra, che un vaccaro abitualmente portasse le sue mucche al pascolo proprio vicino alla cappella (grotta). Mentre era nel luogo del pascolo, si accorse dell’allontanamento di una mucca dalla mandria. Questo accade per diversi giorni a seguire, il vaccaro decise di seguire l’animale scoprendo che si allontanava dalla mandria per andare a bere ad una fonte che sgorgava proprio vicino ad un quadro raffigurante santa Lucia. Il popolo di Erchie interpretò questo segno come un prodigio, rinnovò la cappella, collocando il quadro raffigurante la santa sull’altare[13]. Da qui fu poi edificato in epoca moderna l’odierno santuario.

Il simulacro ligneo vede Santa Lucia raffigurata a mezzo busto, con il capo aureolato rivolto verso l’alto. Indossa una semplice veste, con la mano destra regge un vassoio su cui sono poggiati gli occhi, un rimando al martirio ricevuto, mentre con la mano sinistra tiene la palma e un libro. Al centro, sul petto, si trova la piccola edicola in cui è conservata la reliquia.

Alla stessa maniera del busto-reliquiario di santa Susanna, ad esclusione delle mani e del volto, la parte restante è coperta dall’indoratura.

Il simulacro fu realizzato nel 1638, in sostituzione del quadro che era posto sull’altare maggiore e l’indoratura del busto fu effettuata solo dodici anni dopo la realizzazione del simulacro (1650). Questo fu possibile, stando a quanto scrive il Morleo, grazie alla vendita di una chiusura d’olive.[14] L’indoratura del simulacro, caratterizza questa tipologia di statue lignee realizzate per lo più nel XVII e nel XVIII secolo. Questa particolare colorazione veniva adoperata con lo scopo di impreziosire il manufatto, attraverso l’imitazione del metallo[15]. Stando alle fonti, si potrebbe ipotizzare che il simulacro raffigurante santa Lucia sia stato realizzato all’incirca nel primo quarantennio del XVII secolo.

Entrambi i manufatti sono di buona fattura e rievocano per alcuni versi quelli conservati nella chiesa di San Francesco a Manduria, realizzati nell’arco di tempo che va dal 1624 al 1633, e attribuiti a degli intagliatori napoletani[16]. Si potrebbe ipotizzare, che i simulacri di santa Susanna e santa Lucia, siano stati realizzati da autori differenti in quanto la staticità del busto raffigurante santa Susanna è contrapposta alla posa, quasi arcuata verso destra, del simulacro raffigurante santa Lucia. Anche i basamenti sono differenti: quello di santa Lucia è più basso rispetto a quello di santa Susanna che è più massiccio e soprattutto decorato.

A partire dal 1650, nella città di Latiano si venera come patrona Santa Margherita d’Antiochia di Pisidia[17]. Alle origini del culto c’è la famiglia Francone,[18] feudataria di Latiano dal 1511 al 1611[19].

Il nome Margherita ricorreva con grande frequenza all’interno della stessa famiglia e, come riporta lo storico Salvatore Settembrini, a Latiano vi era anche una chiesa intitolata a santa Margherita e posta sotto il patronato dei Francone,[20] i quali affidarono poi l’edificio ai frati domenicani. Agli inizi del Seicento, l’edificio fu demolito e nel 1678 fu edificata al suo posto una nuova chiesa annessa al convento. I frati diedero così un forte impulso alla diffusione del culto in onore della santa.

Nella chiesa madre, all’interno della nicchia posizionata sull’altare di sinistra del transetto, è conservata la statua raffigurante Santa Margherita d’Antiochia tuttora portata in processione ogni 20 di luglio per le vie del paese. Il simulacro vede raffigurata la santa tutta per intero. Questa rivolge lo sguardo verso il cielo, ha il braccio destro in avanti e con la mano sinistra tiene il lembo della veste e la palma. Dal braccio destro pende la catena con la quale tiene legato il diavolo, posizionato in basso ai suoi piedi e raffigurato con dimensioni inferiori e con le fattezze di un arabo. Sempre al braccio destro sono legate delle chiavi, che simboleggiano le chiavi della città di Latiano.

La giovane vergine, schiaccia con il piede sinistro il drago, un rimando figurativo all’animale fantastico che sconfisse in prigione, indossa una veste verde ed è avvolta da un manto rosso. Dietro al capo è posizionata la corona in stile barocco: si tratta di un riferimento alla corona del martirio. L’autore, ancora ignoto, ha raffigurato tutti gli attributi iconografici ad esclusione della croce.

In merito all’anno di realizzazione dell’opera, ipotizzo che possa risalire ai primi dell’Ottocento e questa risulta essere l’ipotesi più valida, in quanto in pieno XIX secolo si assiste in Terra d’Otranto al crescente successo delle statue in cartapesta. Ciò induce a pensare che la realizzazione lignea debba necessariamente essere avvenuta prima dell’affermarsi della cartapesta.[21]

La statua, di grande pregio e raffinatezza, è finemente resa nei minimi particolari, basti osservare il panneggio della veste, le mani, la gestualità e l’espressività del volto, da cui traspare l’emotività. A mio avviso, l’opera è di fattura napoletana, un restauro riporterebbe alla luce le giuste tonalità dei colori.

Come ben sappiamo, il gusto napoletano continuò ad affermarsi in maniera abbondante nel Salento, nel XVIII secolo, a seguito di una crescente richiesta da parte della committenza[22]. Il trionfo della scultura lignea, in area brindisina e tarantina, è confermato dalla presenza di numerose statue lignee, di maestri napoletani. Ad esempio, allo scultore Francesco Del Vecchio, vengono attribuite la Madonna della Fontana, custodita nella chiesa matrice di Francavilla Fontana[23] e l’Immacolata Concezione conservata nella chiesa matrice di Ceglie Messapica.[24] Ai fratelli Gennaro e Michele Trillocco viene attribuita la statua di San Gregorio Magno, conservata nella chiesa della S.S Trinità a Manduria.[25] Giuseppe Picano, realizza l’Immacolata nell’Oratorio del SS. Sacramento di Grottaglie e un’altra Immacolata per la chiesa di San Francesco di Manduria.[26]

Santa Margherita d’Antiochia (Foto di Vincenzo Doria)

[1] d. Pasculli Ferrara, Napoli e la Puglia in Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII secolo, Schena, Fasano 1986, pp. 12-19.

[2] R. Casciaro, Napoli vista da fuori: sculture di età barocca in Terra d’Otranto e oltre in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, De Luca Editori Arte, Roma 2007, p. 57.

[3] p. Leone De Castris, Sculture in legno di primo Seicento in Terra d’Otranto, tra produzione locale e importazioni da Napoli in Sculture di età barocca, cit., p. 23; P. Staffiero, Appunti per lo studio della scultura lignea in Simulacri Sacri. Statue in legno e cartapesta del territorio C.R.S.E.C (a cura di R. Poso), Grafema, Taviano 2000, p. 38.

[4] Dei pregiati esempi di busti reliquiari, validi esemplari non solo per la capitale ma anche per le province, sono quelli conservati nella lipsanoteca della chiesa del Gesù Nuovo di Napoli.

[5] Torre Santa Susanna. Originaria di Roma, la santa visse nel III secolo d.C. Dal punto di vista agiografico è difficile ricostruirne le vicende storiche nonostante le diverse testimonianze presenti. Durante il VI secolo fu composta una passio, in cui si racconta che Susanna era figlia del sacerdote Gabino, cugino dell’imperatore Diocleziano. La giovane fanciulla fu chiesta in sposa per Massimiano, il figlio dell’imperatore. Ella non accettò tale decisione e fu uccisa. (Bibliotheca Sanctorum, Vol. XII, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Città Nuova Editrice, Roma 1969, pp. 78- 79).

[6] Aa. Vv., Santi di casa nostra. La Puglia dei Patroni e delle feste patronali, Schena, Fasano 2000, p. 90.

[7] A. Trinchera, Torre Santa Susanna. Lineamenti Storici, Edizioni del Grifo, Lecce 2005, p. 79; M. Morleo, Torre Santa Susanna. Pagine sparse di storia e arte, Locorotondo, Mesagne 2013, p. 41.

[8] Mons. Raffaele Palma fu vescovo della Diocesi di Oria dal 1650 al 1674.

[9] M. Morleo, Torre Santa Susanna, cit., pp. 201-202.

[10] Santa Lucia, era di Siracusa e visse a cavallo fra III e IV secolo d.C. Nella passio, si racconta che durante un pellegrinaggio al sepolcro della martire Agata a Catania per implorare la guarigione della madre, le apparve la santa che le preannunziò il martirio. Ritornata a Siracusa decise di rinunciare al matrimonio e cominciò a distribuire i suoi beni ai poveri. Fu denunciata in quanto cristiana e dunque le furono afflitte diverse tentazioni affinché rinnegasse la sua fede. Fu torturata e nonostante questo non rinnegò. Alla fine, fu trucidata. (Cfr, Bibliotheca Sanctorum, cit., vol. VIII, pp. 242 – 258.). Jacopo da Varrazze in merito a santa Lucia scrisse: “Lucia deriva da luce. La luce infatti è bella da vedere, dato che come dice Ambrogio, essa è tale che fa risplendere tutte le cose belle. Si diffonde inoltre senza perdere purezza […] Con ciò si intende che la conformità del nome è dovuta al fatto che la beata vergine Lucia brilla della purezza della verginità senza alcuna macchia, infonde la carità senza amore che non sia puro, direttamente si rivolge a Dio, senza mai deviare, e sa seguire fino in fondo la via tracciata dalla volontà divina, senza mai adattarsi nella negligenza…” (J. Da Varrazze, Legenda Aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, p. 34; iconograficamente viene raffigurata con la palma del martirio, la corona in testa e sulla mano mantiene il piatto con sopra gli occhi. Quest’ultimo attributo è per via della leggenda che vuole che alla santa siano stati strappati. Altri simboli associati, anche se con meno frequenza, sono il libro, la lampada, il calice e la spada.

[11] C. V. Morleo, Erchie, dalle origini ad oggi, Italgrafica Edizioni, Oria 1993, p. 165.

[12] Ibidem, 166.

[13] Ibidem, pp. 167-168.

[14] Ibidem, pp. 171-172.

[15] P. Staffiero, Appunti per lo studio, cit., p. 35. Raffaele Casciaro, in merito alla tecnica dell’indoratura, sui busti – reliquiari, ha scritto: “Il persistente successo della scultura dipinta, nonostante gli anatemi delle accademie, si deve indubbiamente all’efficacia devozionale delle statue colorate, che le province continuano a richiedere senza sosta, anche dopo l’estinzione delle dinastie degli scultori napoletani e oltre i limiti temporali della fortuna della cartapesta leccese.” (Cfr. R. Casciaro, Napoli vista da fuori, cit., pp. 49-50).

[16] R. Casciaro-A. Cassiano, Sculture di età barocca, cit., pp. 172-179.

[17] Santa Margherita, o Marina in Oriente, era una giovane di Antiochia di Pisidia, vissuta nel III secolo d.C. Secondo quanto narrato nella passio, Margherita era figlia di un sacerdote pagano e fu cresciuta da una balia cristiana che la educò al cristianesimo. Il padre, appena apprese della fede cristiana della figlia, la cacciò via. Un giorno mentre pascolava il gregge, fu notata dal prefetto Olibrio, che se ne innamorò subito e la reclamò come sposa. Margherita lo rifiutò e consacrò la sua vita alla fede. Il prefetto, la denunciò in quanto cristiana e fu arrestata. Subì diverse torture in prigione, fra cui anche la tentazione del demonio, che secondo la leggenda, gli apparve sotto forma di drago. Mostro che sconfisse con la croce. Le torture non le infliggevano alcun dolore e così le fu tagliato il capo; Bibliotheca Sanctorum, Vol. VIII, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Città Nuova Editrice, Roma 1967, pp. 1150 – 1166. Iconograficamente santa Margherita viene raffigurata con la palma del martirio, la corona sul capo, la croce e il drago.

[18]A. foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Forni Editore, Sala Bolognese, pp. 97- 98: “Nobile ed antica famiglia napoletana, le cui memorie risalgono al tempo de’ Re Angioini. Essa godette nobiltà in Napoli (al Seggio di Montagna), in Mesagne ed in Lecce, ove probabilmente fu importata sul finire del sec. XIV da Andrea Francone che sposò Antonia Lettere. Possedette questa Casa di Marchesato di Salcito; e, in Terra d’Otranto, i Casali di Castrifrancone e Trepuzzi col feudo di Terenzano e metà del feudo di San Donato, in territorio di Oria, sin dal 1396, tutti portati in dote al sudetto Andrea da sua moglie Antonia Letterem e i Casali di Latiano, Lizzano che Claudio Francone, nel 1592 comprò da Marco Antonio de Raho per ducati 29 mila, e Sava (1633). Oliviero su governatore di Lecce nel 1415. La famiglia Francone imparentò con Lettere, dell’Acaya, dell’Antoglietta, Mosco, Maresgallo, de Noha, Sanseverino, Caracciolo, Dentice, Sanfelice e altri. Arma: D’azzurro, spaccato; nel 71 al leopardo d’oro, armato e lampasato di rosso; nel 2. a tre rose di rosso, 1, 2”;

[19] S. Settembrini, Sindaci, notai e famiglie feudatarie di Latiano, Neografica, Latiano 2002, pp. 149-166.

[20] Ibidem, p. 9.

[21] Sull’introduzione e il successo della statuaria in cartapesta nel Salento, ne parla Giuseppe De Simone: “Il XIX secolo fu il secolo in cui la cartapesta leccese, ormai da tempo acquisita una propria identità, si rafforzò e si diffuse moltissimo […] Fu il secolo dei grandi maestri (capiscuola) attorno ai quali si avvicendarono molti discepoli che, a loro volta, divennero bravi statuari, che alimentarono una tradizione viva sino ai giorni nostri.” (G. De Simone, Tesori di carta. Le raffigurazioni in cartapesta nelle chiese antiche di Lecce, Edizioni del Grifo, Lecce 2002, p. 18).

[22] C. Gelao, La scultura in Puglia dal 1734 al 1799 in La Puglia al tempo dei Borbone. Storia e cultura, a cura di C. Gelao, Mario Adda Editore, Bari 2000, pp. 133-147.

[23] G.G. Borrelli, Madonna col Bambino in Sculture di età barocca, cit., pp. 308-311; E. VALCACCIA, Scultura lignea del Settecento a Napoli. Nuovi spunti e proposte, Nicola Longobardi, Castellammare di Stabia 2018, p. 49.

[24] R. Casciaro, Napoli vista da fuori: sculture di età barocca in Terra d’Otranto e oltre, in Sculture di età barocca, cit., pp. 69-70; E. Valcaccia, Scultura lignea del Settecento, cit., p. 57.

[25] Ibidem, p. 60.

[26] C. Gelao, La scultura in Puglia, cit., p. 146.

 

Otranto 1480. Fonti, studi, testi. La parte di Donato Moro

di Cosimo Rizzo

Innumerevoli saggi sono apparsi nel tempo sulla vicenda otrantina del 1480.

Significativi e più puntuali quelli pubblicati nel secolo XX° e quelli apparsi in seguito alla canonizzazione del 12 maggio 2013 dei circa 800 otrantini decapitati dai Turchi il 14 agosto 1480 sul colle della Minerva.

Via via che ci si allontana da questo evento storico di Otranto, caduta in mano ai Turchi, afferma il critico letterario A. Vallone, si perdono insieme la lucidità e le ragioni delle circostanze e dei condizionamenti politico-militari ed anche le dimensioni del reale dramma umano e quotidiano della città e dei suoi abitanti. La fonte più genuina, seppure trepidante e commossa è negli accenni di Antonio De Ferraris, nel De bello idruntino.

Non molto dopo, verità storica e realtà drammatica non solo si vanno diluendo nel tempo, ma anche, rimescolandosi, si tramutano prima in scolastiche esercitazioni e poi, frammiste a queste, in fantasiose leggende.

Nè storici, nè letterati del tempo colgono adeguatamente l’occasione così come il fatto stesso, eccezionale sotto ogni aspetto, avrebbe forse richiesto. Ci sono nel fondo motivazioni storiche di rilievo.

Nel 1670 Francesco Antonio Capano pubblicava: Memorie alla posterità delli gloriosi e costanti confessori di Giesu Christo, che patirono martirio nella città d’Otranto l’anno 1480, editore P. Micheli di Lecce. E’ il primo centone antologico che riunisce brani <<raccolti da varii autori impressi, e manuscritti>>.

Apre la raccolta proprio A. De Ferraris, il Galateo, con un brano estratto da Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nell’anno 1480, tradotto in volgare da G. Michele Marziano, nel 1612, che racconta la presa di Otranto e la sua riconquista nel 1481.

Della presenza nel Salento nel 1480 del Galateo non si è certi; ma egli era ad Otranto l’anno seguente, dopo che nel settembre Alfonso d’Aragona riuscì a riconquistare Otranto.

Dopo questa impresa il padre di Alfonso, Ferdinando I re di Sicilia, scriveva da Bari, l’11 settembre 1481, al papa Sisto IV che era: <<assicurato il mio regno, liberata l’Italia e tutto il mondo cristiano prosciolto dall’imminente pericolo>>.

La testimonianza di un contemporaneo come l’umanista galateano sarebbe stata decisiva e probante, anche se venata dalla partecipazione di un lutto familiare per l’eccidio dell’arcivescovo Stefano Agricoli, suo parente, nel coro della Cattedrale dove, scrive il Galateo nel De situ Iapygiae, <<adorno delle insegne pontificali, fu sgozzato sulla sua stessa sedia dai Turchi che irrompevano nel tempio>>.

Seguono alcuni capitoli tratti dalla Historia de los Martires de la ciudad de Otranto, Napoli, 1631 di Francisco de Araujo. Quindi, con la premessa di una dichiarazione del notaio Angelo Stefanachi che attesta avere egli il 3 aprile 1660 visto aprire l’archivio del capitolo sito nella sacrestia della Chiesa Metropolitana e trovare un volume vecchissimo, manoscritto in folio di 56 pagine, dal titolo: Historia della Città d’Otranto. Come fu presa da’ Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini: fatta per Giovanni Michele Laggetto della medesima città, sono riporta

Su questa storia ancora oggi gravano dubbi e riserve, perchè, andato perduto il manoscritto originale, le varie copie sono ritenute modificate o contraffatte. Comunque nel 1924, a Maglie, presso la Tipografia Messapica fu pubblicata, nella trascrizione di una copia del manoscritto ritenuta autentica, una edizione della Historia, del canonico Luigi Muscari e trent’anni più tardi, una nuova edizione fu compresa in Otranto – Testi e monumenti, (Galatina, Editrice Salentina, 1955, pp.8-89) di Antonio Antonaci.

La seconda parte del volume riporta le <<informazioni>> sui martiri iniziate a raccogliersi tra la fine e l’inizio dei secoli XV e XVI ed altri brani estratti da cronache e storie e si chiude con De reliquiis martyrum hydruntinorum Hierotopochronica enarratio di Pompeo Gualtieri.

Per concludere questo brevissimo excursus storiografico sulla presa di Otranto, cito ancora di Pompeo Gualtieri Relatione de’ Santi Martiri della Città d’Otranto et apparitioni meravigliose, Lecce, P. Micheli, 1677, per sottolineare come l’episodio storico col trascorrere del tempo sia sia confuso con l’agiografia e l’esaltazione martirologica che hanno reso più tormentato e incerto il processo lunghissimo e, va riconosciuto, serio e dibattuto presso i tribunali ecclesiastici per la beatificazione degli ottocento decapitati. Costoro, stando alle non contrastanti cronache, furono gli scampati alla strage dei dodicimila cittadini di ogni età, condizione e sesso, i quali o non poterono riscattarsi per denaro o non vollero abiurare alla fede.

Di questo secolare dibattito A. Antonaci fornisce una raccolta puntuale di documenti e di indagini in I processi nella causa di beatificazione dei Martiri di Otranto, Galatina, Ed. Salentina, 1962.

La grande storiografia settecentesca e quella successiva, ricorda soltanto per inciso o per citazione la <<guerra otrantina>>, relegandola ad avvenimento marginale e locale, non incidente nello scontro che il centro-Europa visse nel corso dei secoli XV – XVI con il colosso islamico.

Nella storiografia degli ultimi anni del secolo XX° si nota positivamente un nuovo e più moderno orientamento. Lo dichiara Alessandro Laporta nella introduzione al volume Otranto 1480, Cavallino, Capone Editore 1980, in cui sono raccolti studi e contributi di valenti studiosi.

“A differenza della tradizione ottocentesca – egli afferma – che ha fatto sempre capo a fonti piuttosto tarde rispetto all’evento otrantino, e le cui uniche eccezioni sono rappresentate dal Laggetto, dal D’Acello, da Vespasiano da Bisticci e dal Marziano, gli studi del nostro secolo, sia pure accettando senza sottoporli, nella maggioranza dei casi, ad alcuna revisione critica, questi autori, hanno piuttosto cercato di recuperare materiali nuovi e principalmente coevi o immediatamente posteriori alla vicenda, con l’intento, anche, di scavalcare l’anno 1539, che per essere stato data del primo processo informativo sulla via della beatificazione dei martiri di Otranto, può aver segnato, in senso negativo, tutta l’intera tradizione successiva”.

I risultati fin a quel momento conseguiti sono piuttosto soddisfacenti, anche se non possono pretendere di essere definitivi, per quanto si sia cercato di arrivare fino al 1980 con un corredo pressocchè completo di materiali. motivo questo per cui non si vorrebbe che tante lodevoli iniziative poste in essere con questo fine, avessero ad esaurirsi con il centenario, ma, stabilizzate, portassero all’acquisto di una sempre maggiore documentazione.

Su questa vicenda otrantina, tra le pubblicazioni criticamente valide dell’ultimo cinquantennio si collocano quelle di tanti valenti studiosi che andrebbero esaminate e approfondite. Basti pensare ad A. Antonaci, A. Vallone, G. Vallone, A. Laporta, V. Zacchino, A. Saracino, P. Ricciardi, F. Cardini, D. Moro e tanti altri.

Mi limito a qualche esempio.

  1. Saracino nel volume Otranto baluardo dell’Occidente Cristiano edito a Roma nel 1981, porta un illuminato contributo sul tanto discusso episodio otrantino.

Un lavoro il suo che rievoca in forma semplice e chiaramente accessibile, ma sulla base di una accurata documentazione, il sacrificio di una città che, col suo martirio, ha di fatto salvato l’Italia dall’invasione e la civiltà cristiana da un dominio che, se realizzato, avrebbe potuto quanto meno modificare il corso della storia. E l’aspetto centrale che Saracino esamina nei diversi momenti dei fatti otrantini e che costituisce il filo conduttore del suo pregevole lavoro, è quello di dimostrare come Otranto rappresenti il primo esempio tipico di un popolo che si ribella alla inefficienza dei capi e che non esita a sacrificarsi fino all’ultimo uomo per la difesa della libertà e della fede.

In Otranto si incentra il momento cruciale della lotta tra due civiltà. Ne sono indice la preparazione accurata della spedizione fatta da Maometto II da un lato e lo sforzo compiuto dal papa Sisto IV dall’altro, per neutralizzare quel tentativo.

In questo senso, la guerra di Otranto va oltre i limiti – già di per sè molto validi – di una storia locale, per inserirsi nel quadro più ampio della storia della civiltà.

Otranto rappresentava – e questo emerge da tutta l’esposizione del Saracino – la testa di ponte ideale, da cui Maometto II contava di partire per la conquista, e soprattutto per la scristianizzazione dell’Italia: era convinto infatti che la sua stessa grandezza doveva nascere dalla conquista della civiltà occidentale, che si poteva realizzare solo attraverso la distruzione del cattolicesimo. Ed avrebbe certamente raggiunto il suo scopo se non avesse trovato nella Fede e nella forza d’animo degli Otrantini quell’ostacolo imprevedibile che, bloccando per quindici giorni le sue forze sulle rive del Canale, permisero a Papa Sisto IV di inviare i suoi appelli accorati a tutti i potentati, e a Ferdinando di Napoli di organizzare le prime difese.

Maometto II puntava alla conquista dell’Italia e quindi di Roma centro del Cristianesimo: e questo considerava il coronamento più alto dei suoi sogni.

Da tenere presente inoltre che il Saracino ha rinvenuto e pubblicato una importante bolla <<Cogimur iubente altissimo>> di Papa Sisto IV, da molti ritenuta perduta, intorno sempre alla guerra d’Otranto del 1480-81, bolla che il Pastor definisce <<nobilissima>>, che tutti i contemporanei tennero in grande considerazione e che lo stesso Saracino non esita a definirla il <<grido di un’anima>>.

Illuminante lo studio di A. Vallone L’eccidio otrantino (1480) tra canoni retorici e invenzione narrativa dal XVIII° secolo ad oggi in Otranto 1480, Galatina, Congedo 1986.

Otranto, afferma questo critico, già città fiorente e poi borgo silenzioso in una estrema provincia frontiera del Sud, resta staccata dalle ridde letterarie e si affida prevalentemente e via via sempre più decisamente dal Seicento in poi ai cantori locali. Anche in questo caso, pur di fronte ad avvenimenti di stragrande rilevanza politico-religiosa, la eccentricità storico-geografica della città è una inesorabile condanna.

I locali agiscono come possono. Le loro opere si muovono con tutti gli impacci di un episodio non solo staccato dagli interessi dei lettori, ma anche lontano nel tempo e peraltro sovrastato da fatti o eterni o compresenti nella coscienza media o aggressivi e suggestivi come cronache correnti. È fervore di fede di monsignori e ambizione di arcadi provinciali a tenere desto l’episodio otrantino.

Può dirsi che la vicenda di Otranto dal Diciottesimo al Ventesimo secolo, attraverso cronache in versi, esercitazioni teatrali ed epiche, rime varie, trova solo nell’età nostra interpreti isolati ma degni, come De Dominicis e Corti, che pur fermi nel rispetto della fede e della pietà, rigenerano l’episodio nella luce della poesia.

Amaramente si può concludere col dire che chi poteva scrivere la vera e genuina storia di Otranto, nel dramma della fede e della morte, non la scrisse e la tenne in seno, nascosta come patrimonio spirituale e umano da trasmettere a voce.

Di fatto la storia lasciata in mano ai conservatori cioè ai maestri di scuola, ne uscì irrimediabilmente contraffatta e sclerotizzata.

Originale nell’impostazione e ricco di riferimenti storico-documentari lo studio di G. Vallone Mito e verità di Stefano Agricoli arcivescovo e martire di Otranto (1480) pubblicato su Archivum historiae pontificiae n. 29, 1991 dove si mette in nevidenza la vera identità storica della figura dell’arcivescovo otrantino martirizzato nell’eccidio.

Insostituibili e punto di riferimento gli studi di D. Moro (Galatina 1924-1997), riuniti nel 2012 in due tomi di un unico volume che a dire del curatore, G. Pisanò, “sono il frutto della sua vita spesa nella ricerca storico-culturale, nella cura filologica di testi legati all’umanesimo meridionale, nella lettura critica delle dinamiche ideologico-formali sottese allo sviluppo dell’età moderna, attività, queste, tutte riconducibili a un filo ideale, a un unico tema, a un preciso e concreto “luogo della storia: Otranto”.

Si tratta di numerosi contributi, fra saggi ed articoli, scritti in un arco di tempo fra il 1971 e il 1996.

Tali studi offrono agli studiosi di storia patria, nazionale ed europea uno strumento completo e complesso per i molteplici risultati ordinati in un quadro unitario e cronologicamente definito.

Tutta la vicenda otrantina è infatti compresa in pagine ricche di documenti e di citazioni bibliografiche indispensabili per chi voglia misurarsi ancora con essa.

Di tale vicenda sono messi in evidenza gli aspetti letterari e civili, le fonti salentine, le registrazioni umanistiche.

Si prenda, ad esempio, la ricerca Otranto nel 1480-81. Due preziose fonti, fra le più antiche, mai fino ad oggi individuate come tali contenute nel primo tomo della pubblicazione citata, per rendersi conto delle direzioni di lavoro e di approfondimento con cui si è mosso il critico.

Faccio questo solo esempio per dimostrare come siano fondamentali gli studi di D. Moro che forniscono elementi sempre più chiarificatori sulla complessa problematica riguardante il tanto discusso episodio idruntino.

Le preziose fonti, pubblicate in Appendice cui si riferisce nel titolo sono: la copia della presa d’Otranto da Turchi ne l’anno 1480 – relazione d’Acello – e la relazione fatta dal segretario Ferdinando a’ Prencipi d’Italia – rifacimento otrantino: la copia è “documento di notevolissimo valore” e sta a monte del Rifacimento.

L’autore fornisce la descrizione del codice contenete la Copia (Cod. 2350 – già XIV.52 – della Biblioteca Casanatense di Roma) e ne indica l’autore – pur con qualche margine di dubbio sulla forma del cognome – in un Giovanni Antonio d’Acello che ne avrebbe avuto l’incarico da Alfonso di Calabria.

Interessante il tessuto linguistico-stilistico della Copia: in questa è riscontrabile “un fondo linguistico che rispecchia la koinè meridionale pienamente attestata alla fine del ‘400; e l’autore esemplifica questa koinè meridionale con una serie di parole e sintagmi tra cui è rilevabile fando come “probabile apporto salentino” e sicilianismi quali defenseriano, moririano accanto a usi ascrivibili al napoletano illustre del secondo ‘400.

Complessivamente si tratta di “un impasto linguistico caratteristico di un’epoca e di un clima culturale che possono assumere occasionalmente anche qualche nuova forma dialettale assorbendola in un ideale di scrittura curiale e cortigiano”; sul fondo del linguaggio cancelleresco del periodo aragonese si introducono filamenti toscani, qualche alterazione notevole (diriopiato per dirupato) o qualche termine di uso amministrativo (dispiaciò per dispacciò: da dispacciare) che andava attestandosi in area italiana.

Anche del Rifacimento il Moro dà la descrizione del manoscritto che lo contiene. Il testo, pur derivando dalla Relazione d’Acello, fu profondamen­te alterato (soppressione degli otto paragrafi iniziali sostituiti dall’autore con una propria narrazione degli avvenimenti otrantini, rielaborazione o modificazione anche notevole a volte dei paragrafi seguenti); la stesa di­gnitosa veste letteraria dell’originale è sopraffatta nel Rifacimento e quella che poteva essere una compendiosa annotazione nella Relazione (l’episodio della morte di Giulio Antonio Acquaviva) si dilata ad ampiezza di rac­conto anche se, nel seguito, spie di una resipiscenza di fedeltà all’originale, riappaiono dei gerundi coniugati al plurale (« fortificandonosi, trovandonosi, ottenendono, vendendonosi ») riscontrati, nella Relazione d’Acello, come appartenenti al napoletano illustre del secondo Quattrocento.

Dovuto alla penna di un « uomo alla buona e poco colto », quale il Moro ipotizza dovesse esserne l’estensore il Rifacimento appare « un’ibrida mescolanza linguistica, caratterizzata qua e là da forme dialettali salentine».

Prestigio del potere regio e degli uomini d’arme, fedeli al sovrano e a Dio, risaltano nella Relazione del d’Acello; protagonista del Rifaci­mento, dalle cui pagine affiora un sotteso agiografismo, è la cittadinanza. Il fervore religioso che percorre il Rifacimento induce a intravvedere nel suo estensore un sacerdote. Il Rifacimento è importante non solo perché consente di ricostruire nei contenuti la Relazione d’Acello, ma soprattutto perché informa sulle vicende interne di Otranto e nel periodo tragico della sua caduta in mano ai Turchi e in quello immediatamente seguente alla liberazione.

Lo stesso documento e l’analisi di alcuni passi dei Successi del Mar­ziano consentono all’autore di portare prove inequivocabili sull’originalità degli stessi Successi che non possono essere assolutamente considerati tra­duzione di un’opera latina del Galateo. Se questo prima era sospetto no­tevole di biografi e studiosi del De Ferrariis, oggi, nel saggio di Donato Moro, la questione è sufficientemente chiarita e i Successi risultano non aver niente a che fare con lo scritto galateano.

Ci sarebbe da domandarsi se il Rifacimento è collocabile oppure no all’epoca (1494-95) cui lo attribuisce Donato Moro. In sostanza tale data­zione riesce persuasiva se si tiene conto di alcune considerazioni che è giusto fare. A parte le condizioni di questo testo e la relativa vicinanza a noi del manoscritto da cui è stato tratto, la collocazione è convincente, in quanto la tradizione martirologica in esso contenuta rappresenta una forma embrionale molto elementare rispetto a quella più complessa e arti­colata che si verrà via via costituendo con l’ Informatio del 1539, con il Marziano poi (1583), con il Laggetto (fine del ‘500).

Sarebbe infatti assai azzardato pensare ad un confezionamento otran­tino posteriore a questi scritti e documenti in epoca cioè in cui in Otranto nessuno avrebbe osato mettere in discussione punti ormai acquisiti allo schema agiografico (data della decapitazione avvenuta di domenica, cadaveri trovati intatti dopo tredici mesi, fatti miracolosi, ecc.).

L’abbondantissima messe di informazioni, le sottili congetture, il lumeggiamento dei documenti esaminati, la valori zzazione del secondo rimasto ignoto o trascurato per tanto tempo, rendono lo studio di Donato Moro un fondamentale punto di passaggio per chi vorrà riprendere l’argomento. Se si tiene conto poi che all’indagine propriamente storica si aggiunge quella lingustica dei testi il1ustrati (specie del primo) – ed è questo, nell’insieme del saggio, un momento di notevole forza – s·i vedrà come sia possibile ri f ondare su basi nuove e con mezzi scientifici, i nserendole in una prospett iva di ricerca storica tout -court, quelle ricerche di « storia locale un tempo pales ra di orecchianti o di spravveduti, quanto bene intenzionati, ricercatori .

Ben a ragione lo storico Mario Spedicato ha osservato che questa “rinnovata attenzione alle fonti e l’allargamento dello sguardo alla dimensione nazionale ed internazionale rappresentano risultati storiografici dei quali la ricerca di settore più accreditata non ha potuto fare a meno di poter ulteriormente avanzare nella conoscenza”.

pubblicato su Anxa, sett.-ott. 2018, pp. 6-9

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (1/7): Ostuni e Carovigno

di Armando Polito

Se l’amicizia reale si nutre anche di vicinanza fisica in omaggio al vecchio detto lontano dagli occhi, lontano dal cuore, quella virtuale, paradossalmente, sganciata in un certo senso dal tempo e dallo spazio, purché basata su comuni interessi e, pur nella diversità di alcune opinioni (da quelle religiose a quelle politiche), nel rispetto (che non significa accettazione) dell’altrui modo, qualunque esso sia (purché non delinquenziale …)  di interpretare la vita, può nutrirsi anche della segnalazione di un semplice link.

Per essere concreto: questa serie di contributi non ci sarebbe stata se l’amico, virtuale, napoletano Aniello Langella, titolare di un interessantissimo sito che invito tutti a visitare (http://www.vesuvioweb.com/it/), non mi avesse fornito, come già successo altre volte, la possibilità di entrare in contatto digitale con il testo da cui io ho solo tratto le immagini relative alla nostra terra  Il testo in questione è L’Italia descritta e illustrata Visione cinematografica 3000 fototipie, Sonzogno, Milano, 1909. Si tratta della seconda edizione; la prima era uscita nel 1908, preceduta nel 1907 da un‘edizione speciale per gli abbonati del secolo. Delle 1000 pagine di cui il volume consta, quelle dalla p. 839 alla p. 854.

Laddove ho potuto, per certezza dell’identificazione e facilità di reperimento del materiale necessario, ho accoppiato ad ogni immagine antica la corrispondente contemporanea.

Ricerche di questo tipo vivono dell’apporto di appassionati e studiosi locali: per questo io, che sono di Nardò, sarò grato a chiunque vorrà integrare questo contributo con foto che attestanti lo stato attuale dei luoghi.

OSTUNI: la concattedrale

 

CAROVIGNO: Il castello

 

 

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò (3/3: OCCA ARDUTA-UECCHIU TI PESCE)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

OCCA ARDÚTA Stomatite. Occa è dal latino bucca(m)=guancia, poi bocca, con aferesi di b– e passaggio –u->-o-; ardùta è participio passato di ardìre=ardere, dal latino ardère; la voce dialettale, a parte il passaggio –ì->-è- si è mantenuta più fedele, per quanto riguarda l’accento, alla voce originaria latina più dell’italiano àrdere. Vedi anche mpoddhe an bocca.

OLA Nevo congenito, voglia. La variante del Leccese (Aradeo e Cutrofiano) cula consente agevolmente di individuare l’etimo nel latino gula(m)=gola e le varianti vola del Brindisino (Brindisi, Mesagne, Ceglie Messapico, Oria, Ostuni) e vula del Leccese (Alessano, Lucugnano, Martano, Patù, Ruffano, Tiggiano e Tricase) attestano la forma intermedia da cui, per aferesi di v– è nata ola. Vale la pena ricordare che secondo la credenza popolare, la ola (di vino, di caffé, etc. etc.) era la conseguenza della relativa voglia, rimasta insoddisfatta, della gestante. Anche se la scienza ufficiale ha sempre riso di questa circostanza, il fenomeno non è inquadrabile in quella sfera indistinta dei rapporti tra soma e psiche che è alla base delle cosiddette malattie psicosomatiche? Se è così, c’è da aspettarsi una drastica diminuzione del verificarsi del fenomeno, così come è avvenuto, ormai da tempo fino alla totale scomparsa, delle tarantolate?

Naevus cerasus (voglia di ciliegia) e Naevus araneus (voglia di ragno). Da William James Erasmus Wilson, Portraits of diseases of the skin, op. cit. Due esempi, di nevi dovuti, secondo la ricordata credenza popolare il primo ad una voglia alimentare, il secondo alla puntura di un ragno.

 

PANERÍZZU Panereccio o patereccio. Dal basso latino panarìtiu(m), a sua volta dal classico paronýchia (o paronýchia)  greco paronuchìa composto da parà=presso e onux=unghia. Il passaggio dell’originaria –r– greca ad –n– nella voce del basso latino potrebbe essere l’indizio di un incrocio antichissimo con pane, la cui conferma potrebbe essere ravvisata nella terapia che prevedeva, oltre agli empiastri di foglie di malva fresche o secche tenuti in loco per almeno un’ora, anche l’applicazione di pane bagnato.

PANNA Cloasma gravidico. La voce corrisponde all’italiano panna nel significato traslato di pellicola, da panno, perché copre il latte come un panno, che, a sua volta è dal latino pannu(m).

PELLE SCARDE SCARDE Psoriasi. Scarda nel dialetto neretino indica la squama del pesce ed è dal germanico skarda=spaccatura. Per la geminazione nella locuzione del plurale di scarda vedi mpoddhe mpoddhe.

Da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.

 

PIÁCA ‘MBIRMINÓSA Piaga infetta. ‘Mbirminòsa corrisponde all’italiano verminòsa [dal latino verminòsu(m)=corrotto, dal latino tardo vèrmine(m), dal classico vermis] con aggiunta in testa della preposizione in (che ha poi subito l’aferesi di i-) e passaggio v>b, il che ha comportato pure  il passaggio n>m.  

PITÍTA Pipita. Più fedele della voce italiana nell’etimo, che è il latino pituìta(m).  

PITUCCHI Pediculosi del capo. Il plurale del parassita per indicare per sineddoche (parte per il tutto)  l’inconveniente; come l’italiano pidocchio, dal latino tardo pedùculum, diminutivo del classico pedis=pidocchio.

PRUTICÉDDHU Gelone; la voce è una forma diminutiva da prutìre, corrrispondente all’italiano prùdere, da un latino *prùdere, dal classico prurìre. Da notare come la voce neretina appare come un incrocio del classico prurìre, del quale ha conservato l’accento, e di* prùdere, del quale ha assunto la dentale –d– (passata poi a –t-) al posto della –r– presente nella voce classica.  Terapia: immersione della parte interessata nell’ acqua di risulta dei rrupìni (lupini) e della rrupinèlla (lupinella) o in quella di mare; qualcuno rimediava pure bagnando con la propria urina o applicandovi le foglie bollite della sòrula (sorbo) o della lazzalòra (lazzeruolo) oppure strofinandovi le foglie del chiàpparu (cappero) raccolte con la mano sinistra (!).

PRUTÍTU Prurito. Participio passato sostantivato di prutìre, per il quale vedi pruticèddhu.

PUÉRRU Verruca. Come l’italiano porro, dal latino porru(m) di origine preindoeuropea, che, però, indicava solo l’ortaggio. Terapia: si era soliti ungere la verruca col latte ti fica (lattice di fico) ricavato dal frutto non maturo o dalle foglie o  applicarvici una buccia di pomodoro, che si teneva in loco per due o tre giorni con apposita fasciatura; chi aveva più stomaco vi strofinava una cozza nuta (Tandonia Sowerby, Férussac, 1823),  specie di lumaca senza guscio.

Da Max Leidesdorf, Lehrbuch der psychischen Kraukheiten, F. Enke, Erlangen, 1865

 

PUNGITÓRA Puntura di ape o di vespa. Stesso etimo dell’obsoleta voce italiana pungitura, che è da pungere, a sua volta dal latino pùngere. Terapia: prima di tutto estrazione del pungiglione, poi strofinamento della parte con uno spicchio d’aglio o applicazione di  un impasto formato da terra rossa e saliva.

RRANFATÚRA Graffio da unghia. Da rranfàre, a sua volta da ranfa=grinfia, che trova il corrispondente italiano nella voce di basso uso ranfia (zampa artigliata di un animale), dal longobardo *rampf.

(R)RAPPULISCIAMIÉNTU Atrofia cutanea senile. Da rappulisciàre, forma verbale incoativa con infisso –isc– da ràppulu=ruga, diminutivo dell’osoleto italiano rappa=ruga, grinza, a sua volta  dal gotico *rappa=rogna.

RASCIÚLU Orzaiolo. La voce italiana è dal latino tardo hordèolu(m), diminutivo del classico hòrdeum=orzo, per la forma simile a un chicco d’orzo, forse con influsso del tardo varìola=vaiuolo; la voce neretina ha seguito la seguente trafila: hordèolu(m)>*horadèolu(m) (epentesi di –a-)>*radèolu(m) (aferesi di ho-) *radìolu(m) (passaggio –e->-i-)>*radjòlu(m)(passaggio –i->j– e diastole)>*rasciòl(um) (passaggio –dj->-sci-)>rasciùlu (passaggio –o>-u-).

RIU Escoriazione in cui il sangue, coagulandosi, ha già formato la crosta. Per il Rohlfs corrisponde all’italiano letterario rio=malvagio, sfavorevole e ha, naturalmente la stessa etimologia: dal latino reu(m)=colpevole. Appare più probabile, tuttavia, che derivi dal latino rivu(m)=ruscello (dal verbo greco reo=scorrere), pur con riferimento alla fase della fuoruscita del sangue.

ROSSA Rosolia. L’uso di un aggettivo in forma sostantivata legato al sintomo più appariscente della malattia conferisce alla voce quel carattere allusivo che in italiano, per esempio, c’é in la bionda=la birra e in le bionde=le sigarette.

Da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.
Da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.

 

Orticaria, scabbia, scarlattina, rosolia; da Friedrich Eduard Bilz, La nouvelle médication naturelle, Bilz, Parigi, 1898

 

(R)RUSSICAMIÉNTU Eritema da calore. Da rrussicàre, forma verbale frequentativa, con infisso –ic-,  da russu=rosso, dal latino russu(m). Vedi anche mpiccicacchiamièntu.

RUGNA Scabbia umana. Come il corrispondente italiano rogna, da un latino  *rònea(m), variante di arànea= ragnatela. Era difusa la convinzione che la malattia potesse essere causata per aver mangiato troppi rrupìni (lupini). Terapia: unguento di olio d’oliva e trattamento con lo zolfo abitualmente usato per irrorare la vigna.

Da Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, Longman, Hurst, Rees, Orme and Brown, Londra, 1817

 

SCANDÍA Rossore che appare all’improvviso in volto; la voce è da s– (dal latino ex=fuori) e dal verbo candère=essere infuocato.

SCRASCIATÚRA Graffio. Da scràscia=rovo, secondo il Rohlfs  ”da una base preromanica *scaràgia o *scràja”. In realtà va detto che scaragia comparirebbe in un testo latino (traduzione di un originale etrusco)  che Curzio Inghirami dice di avere rinvenuto a Scornello presso Volterra il 9 ottobre 1635 (Etruscarum antiquitatum fragmenta, Francoforte, 1637, pag. 177): Publicam pecuniam, aut sacram si quis abstulerit scaragia morte damnabitur  [Se qualcuno avrà sottratto denaro pubblico o sacro sia condannato a morte col rovo (?)]. Il punto interrogativo posto accanto a rovo in  traduzione era doveroso e perchè non siamo a conoscenza di simile supplizio nel mondo etrusco e perché il testo di cui ci dà notizia l’Inghirami è andato perduto, il che rende impossibile anche datarlo. Nella migliore delle ipotesi potrebbe il traduttore dall’etrusco aver operato una semplice trascrizione in caratteri latini (anche perché si tratta di una locuzione tecnica) e perciò scaragia potrebbe essere di origine etrusca. Poi, come se non bastasse, non è da negare assolutamente, vista la congruenza semantica e fonetica, un rapporto con l’albanese škjer o škjir=strappare (G. Rohlfs, Nuovi scavi linguistici in Magna Grecia, Palermo, 1972, pag. 139. Per finire, la nostra voce è apparsa, pur nella variante del caso, in altro distretto territoriale: scraja=scheggia (Giuseppe Cremonese, Vocabolario del dialetto agnonese, Bastone, Agnone, 1893, pag. 109; Agnona è una frazione di Carro, comune in provincia di La Spezia). Per il graffio procurato da un’unghia vedi rranfatùra. 

SCUCCULÁTU Affetto da alopecia. Da s– (dal latino ex) estrattiva e còccalu=cranio, dal greco kòkkalos=pinolo, diminutivo di kokkos=chicco, dal quale è il latino coccu(m)=nocciolo del frutto.

 

Ferdinand von Hebra, Atlas der Hautkrankheiten, Imprimerie impériale, 1858-1866, Vienna, 1858-1866

 

SENGA AN FACCE Cicatrice del volto. Senga è deverbale da signàre (dal latino signàre, da signum=segno), con metatesi –gn->-ng– forse per influsso del francese seing=scrittura.

SÉRCHIE Ragadi del seno. Secondo il Rohlfs sèrchia è dal latino saetula(m)=setola; secondo il Garrisi “forse da un incrocio tra i latini saetula e siliqua”. Considerando che silìqua è il baccello dei legumi non si capisce cosa c’entrino quest’ultimo e il precedente saetula. Si propone, perciò, la derivazione deverbale dal latino sarculàre=sarchiare (le ragadi possono essere ben considerate come una sarchiatura del capezzolo). Le sèrchie erano quasi sempre una controindicazione all’ allattamento per il vivo dolore che suscitavano nella donna con la suzione. Si cercava di farle cicatrizzare con il solito olio di oliva o con appositi medicinali. Qualcuno era solito trattare la parte con acqua in cui erano stati bolliti dei semi di mela cotogna.

(S)SANGULITTAMIÉNTU Esito di ferite multiple da taglio. Da ssangulittàre, da *sangulentàre, a sua volta dal latino medioevale sangulèntus, variante di sanguinolèntus; trafila: *sangulentàre>*sangulettàre (assimilazione –nt->-tt-)>*sangulittàre (passaggio –e->-i-)>ssangulittàre (raddoppiamento espressivo di s-).

Terapia: strofinamento sulla ferita della corteccia rossa del tralcio di vite o del baccello della fava verde, il succo di uva (meglio se acerba),  un pizzico di cenere, il velo della cipolla, la linfa del ficodindia, lu llippu1 ti lu lampasciòne (la vischiosità del muscari comosum) o la polpa fresca della pastanàca (carota); piu’ frequente era l’uso di porre la buccia del pomodoro o qualche goccia di aceto o, addirittura, la lingatera (ragnatela), di cui erano ben note le qualita’ emostatiche, mentre gli anziani esperti ricorrevano al seme pulvurulento della irsìcula2, un fungo bianco rotondeggiante, che si dice avesse la capacità di bloccare l’ emorragia e di far guarire piu’ in fretta la ferita;  altra pianta adoperata per bloccare le emorragie era l’erva ti tàgghiu (vulneraria).

SPINNATU Affetto da calvizie. Corrisponde all’italiano spennato, da spennàre, a sua volta da s– estrattiva (dal latino ex=lontano da) e penna [dal latino pinna(m)]. Terapia (particolarmente usata per la caduta stagionale dei capelli): strofinamento sul cuoio capelluto di alcune foglie di ortica cantarìnula (ortica) appena raccolta o lu ‘mpiastru (l’empiastro) ottenuto facendo bollire per dieci minuti foglie e steli della pianta; Si poteva anche usare l’ infuso di bucce di marange (arance amare), ottenuto facendole bollire con la lisciva, con cui si risciacquavano poi i capelli.

STAMPE STAMPE Pitiriasi. Da stampa con la stessa etimologia della voce italiana (da stampàre, a sua volta dal franco *stampon=pestare). Sulla geminazione della voce di base vedi mpoddhe mpoddhe.

Da Thomas Bateman, Delineations … op. cit.

 

TIGNA Tigna. Come si vede, è l’unica voce che coincide con la forma italiana, anche perchè la fonetica d’origine [latino tìnea(m)=tarlo] non lasciava scampo.

UÉCCHIU TI PESCE Tipo di callo caratterizzato da un’ipercheratosi centrale e una zona circostante di eritema che trae il nome dalla somiglianza con l’occhio del pesce. Terapia: uno spicchio d’aglio pestato e tenuto fermo sul callo con un cerotto per due o tre giorni; qualcuno, prima di applicarlo, lo metteva a bagno nell’ olio di oliva caldo.

__________

1 Dal latino lippu(m)=cisposità, connesso con il greco λίπος (lipos)=grasso; lampascione è dal latino medioevale lampagione(m), attestato anche nella variante lampadione(m).

2 Stesso etimo di issica (vedi), di cui è diminutivo; il fungo ha l’aspetto di un piccolo otre; trafila per irsìcula, partendo dal latino : vesica>vesìcula (diminutivo del precedente)>*vessìcula>*essìcula>ersìcula (dissimilazione)>irsìcula.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/04/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-1-3-bruscatura-fuecu-ti-santantoni/

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/09/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-2-3-gnuricamientu-nfucamientu-tii-facce/

 

 

Esposizione personale di Daniele Bianco a Lecce

Daniele Bianco, artista che vive e lavora a Nardò, presenta la sua prima personale a Lecce presso la galleria Labirinti artistici.

Bianco ama esprimersi attraverso il disegno, tecnica privilegiata ancora più della pittura, perché spesso la pittura non può prescindere dal disegno, e in questa occasione Bianco presenta una serie di disegni preparatori per dipinti, che possono essere considerate anche opere finite, e due dipinti.
Nell’arte di Daniele Bianco si ritrova la parte più visionaria e immaginifica della terra salentina, il mare, il barocco, sempre ricorrente, le affascinanti torri che costellano le nostre coste, i simboli, come gli orologi che spesso ritroviamo accanto agli ulivi o a rovine barocche, a simboleggiare il mistero del tempo che scorre, finanche l’ ironia che si cela dietro un linguaggio a volte fumettistico.
La personale di Daniele Bianco è visitabile dall’ 11 al 24 novembre 2018 presso la galleria Labirinti artistici, via Bonifacio 26, Lecce. 

Da Lecce a New York: sei sete su cartone della fine del XVII secolo al Metropolitan Museum of art

di Armando Polito

 

Le ho trovate casualmente in Internet Archive e ho subito pensato che sarebbe stato opportuno divulgarne l’esistenza. Hanno, in base alla scheda che le accompagna, tutte dimensioni diverse (per ogni singola immagine le riporterò in calce alla stessa con l’indirizzo da cui è stata tratta) provengono da Mme. d’ Oliviera, Coudert Brothers (until 1888; to MMA). Le sete, dunque. passarono al museo nel 1888. Non potevo esimermi dal tentare di saperne di più anzitutto di Madame d’Oliviera. Riporto nella mia traduzione (in nota il testo originale) quanto si legge in Emily Wortis Leider, California’s daughter. Gertrude Atherton and her times, Standford University Press, 1991, p. 169: A Rouen sulla cima di una collina alla periferia della città ha trovato la strada per una pensione gestita da Madame d’Oliviera. Altri pensionanti, com’è successo, erano un gruppo di letterati inglesi che aveva persuaso a non affittare mai una casa ad una donna. Gertrude1 insisteva potersi superare la loro obiezione e provvedere a correggerla. Gli inglesi, infatti, erano intimi di Oscar Wilde. È rimasto anonimo in Adventures of a Novelist, ma Reggie Turner2 e Robert Ross3 sono tra loro. Entrambi erano stati con Wilde al tempo del suo arresto ed erano immediatamente fuggiti in Francia; sono rimasti di nuovo con lui dopo il suo rilascio da Reading Gaol4. Reggie Turner aveva “un piccolo reddito che lo liberava dalla necessità di lavorared egli amava l’arte, la letteratura ed il viaggio. Molti dei suoi amici erano luci accecanti nel mondo letterario.” (Adventures p. 277), tra loro quel genio della parodia, Max Beerbohm. Gertrude aveva scritto una recensione de L’ipocrita felice di The Happy Hypocrite per Vanity Fair, che gli aveva fatto piacere. Turner scriveva a Beerbohm da Rouen: Ecco un’autrice di romanzi che soggiorna qui, la signora di nome Gertrude Atherton e lei in persona ha recensito il tuo L’ipocrita felice, … una critica che ti ha fatto tanto piacere. Fortunatamente per me lei rimane nella sua stanza tutto il giorno tranne ai pasti. lei sembra gentile e mostra 35 anni [lei aveva quasi quarant’anni ma entrambi lo scopriremo dopo. È vedova ed ha una figlia in California- È vedova … e ha una figlia in California.5

La dimestichezza di Madame d’Oliviera, grazie alla gestione della pensione a Rouen, con esponenti di spicco del mondo letterario dell’epoca ed in particolare con l’americana Gertrude Atherton getta un po’ di luce sul Coudert Brothers (until 1888; to MMA). Essendo Coudert Brothers uno studio legale newyorkese attivo fin dal 1853, lo scarno dato di provenienza contenuto nella scheda non consente, tuttavia, di capire con chiarezza quante e quali delle sei sete siano passate al museo da madame d’Oliviera e quante e quali dal predetto studio legale e, ad ogni modo, rimangono scoperti due secoli di storia, in altre parole rimangono sconosciuti la vita delle opere in questione dalla fine del XVII secolo fino al 1888 e il percorso completo che le portò da Lecce a New York. Sarebbe interessante reperire altre notizie su questa manifattura non solo per quanto riguarda l’aspetto tecnico di esecuzione (per un profano come me immaginare che tutto nasce da fili di seta cuciti su cartone è come pensare ad una sorta di miracolo) ma anche l’importanza economica che all’epoca tale manifattura aveva e che avrebbe continuato ad avere anche al tempo di Madame d’Oliviera; indicativo a tal riguardo mi pare il fatto che in Annali del Ministero di industria, agricoltura e commercio, anno 1877 vol. 89, Eredi Botta, Roma, p. 132 il regolamento di pubblica mediazione della Camera di commercio di Bari prevedeva per la seta su cartone la percentuale più alta (2,50%).

Le prime due sete hanno come tema la Sacra famiglia.

27.9 x 37.5 cm
https://ia800503.us.archive.org/9/items/mma_the_holy_family_212596/212596.jpg

 

44.5 x 61 cm
https://ia800308.us.archive.org/18/items/mma_the_holy_family_212587/212587.jpg

 

La terza ha come tema un paesaggio e potrebbe essere intitolata vista sul fiume.

43.2 x 59.1 cm
https://archive.org/details/mma_riverview_with_figures_and_bridge_212593

 

La quarta e la quinta sono due scene di caccia, rispettivamente al leone e allo struzzo.

47 x 72.4 cm
https://archive.org/details/mma_lion_hunt_america_212590

 

46.4 x 72.4 cm
https://ia800306.us.archive.org/6/items/mma_ostrich_hunt_africa_212592/212592.jpg

 

La sesta ed ultima  rappresenta un paesaggio rurale.

44.5 x 61 cm
https://archive.org/details/mma_rural_scene_212604

 

________________

1 Gertrude Atherton (1857-1948),  scrittrice californiana.

2 Reggie Turner (1869-1838), scrittore inglese.

3 (1869-1918), critico letterario e giornalista canadese.

4 Carcere inglese nella contea di Berkshire.

5 In Rouen.on the crest of a hill on the outskirts of town, she found her way to a boarding house run by a Madamed’Oliviera. Madame’s otjer boarders, as it happened, were a group of literary Englishmen who had persuaded her never to rent a oom to a woman. Gertrude insisted that she could overcome their objections, and she proved correct. The Englishmen were, in fact, intimates of Oscar Wilde. They remain unnamed in Adventures of a Novelist, but Reggie Turner and Robert Ross were among them. Both had been with  Wilde at the time of his arrest and had immediately fled to France: they again stood by him after his release from Reading Gaol. Reggie Turner had “a small income which relieved him of the necessity of work, and he loved art, literature and travel. Many of his friends were blinding lights in the literary world” (Adventures, p. 277), among them that genius of parody, Max Beerbohm. Gertrude had written a review of Beerbohm’s The Happy Hypocrite for Vanity Fair which had pleased him. Turner wrote to Beerbohm from Rouen: There it an American novelist staying here, Mrs. Gertrude Atherton by name, and she in the person who reviewed your Happy Hypocrite, … a criticism which gave you so much pleasure. Fortunately for me she keeps to her room all day except at meals. She seems nice and 35 [she was almost 40] but I shall find out both later. She is a widow … and has a daughter in California.

Nel Capo di Leuca| Zia Valeria e… dintorni

di Rocco Boccadamo

Secondo consuetudine ormai ultradecennale, domenica, 4 novembre 2018, data coincidente con il centesimo anniversario della fine della Grande Guerra, ho partecipato alla Messa nell’ex cattedrale di Castro, Perla del Salento.

Nella circostanza, meglio dire nella specifica ricorrenza di quel giorno, mi ha favorevolmente colpito una grande tovaglia bianca collocata a copertura dell’altare e recante, sulla superficie tesa di fronte ai fedeli, la seguente frase, a caratteri ben visibili finemente ricamati a mano: Onore ai caduti della 1^ guerra mondiale.

Non c’è che dire, anche nella Casa di Dio un segno di sensibilità verso la Storia.

 

°   °   °

Nei paraggi della mia villetta del mare, esiste un fondo agricolo, purtroppo da tempo incolto, denominato “Aria ‘u Margiotta” (dal cognome di un antico proprietario, il maestro elementare marittimese don Peppino Margiotta, ormai da molti decenni passato a miglior vita).
Il terreno è recintato da un muro di tufi di media altezza, in buono stato di conservazione.
Cosa è successo?

All’interno del fondo devono esistere, verosimilmente, alcune piante, nate spontaneamente, di campanelle color viola.

Ora, il rametto di una di esse è riuscito ad attraversare il sottile interstizio fra un tufo e l’altro, dando vita, fuori dalla recinzione e quindi alla vista dei passanti sulla strada adiacente, ad alcune verdi foglioline e a due bellissime campanelle.

Prodigi della natura.

 

°   °   °

Stamani, come mi capita sempre di fare quando mia moglie vola, per brevi periodi, dai figli e nipotini, ho compiuto un giro nel supermercato vicino a casa, per una serie di minuti acquisti e approvvigionamenti.

Spuntata ed esaurita la relativa nota, mi sono portato in corrispondenza di una delle casse ai fini del pagamento e, ivi, mentre mi accingevo, con l’abbozzo di una prima flessione, a trasferire buste, sacchetti e prodotti, dall’apposito contenitore poggiato a terra, sul ripiano scorrevole verso il registratore contabile, si è verificato un singolare episodio, tanto inedito e insolito, quando indicativo per il mio sentire.

La cliente posizionata in fila alla cassa dietro di me, per la precisione, una signora non giovanissima bensì nella terza età, notando, forse, il mio movimento non propriamente da atleta con muscolatura scattante ed elastica, si è gentilmente e premurosamente offerta – in parte, poi, attuando in concreto l’azione, nonostante i miei ringraziamenti e, in certo qual modo, un cedimento di pudica ritrosia – di effettuare l’operazione di trasbordo merce.

Mi ha dato da pensare, tale accadimento di cronaca spicciola e, in particolare, lungo il cammino di ritorno alla mia abitazione, mi ha conferito lo spunto per pormi un interrogativo, anch’esso di poco conto e, però, rivelatore e sintomatico, per lo meno quanto l’occorso in sé: “Ma io, che coltivo il vezzo di definirmi così, posso ancora chiamarmi e, soprattutto, sono realmente, un ragazzo di ieri? Oppure, si tratta di mera illusione?”.

Sia come sia, non intendo rinunciare a tale, se si vuole bizzarra, autodefinizione e, non fosse altro nel mio intimo, sono determinato ad andare avanti a oltranza, aggrappato a detto ancoraggio e riferimento ideale.

°   °   °

Non mi riesce granché, oggi, di assegnare, alle mie note, un canovaccio di ragionata scorrevolezza, pertinenza e logicità; di ciò, chiedo venia ai potenziali lettori, prendendo, soltanto, la licenza di addurre, a mia scusante, la circostanza che, da circa un anno, mai m’era incolto prima durante i quattro lustri passati, verso in regime di separazione con la penna e la scrittura.

Stato di cose che, man mano che l’arco del “distacco” è andato allungandosi, si è trasformato, in seno alla mia coscienza, in una sorta di patimento e di rimorso morale, come da astinenza.

Questo, credo di poterlo affermare senza finire fuori tema, a dimostrazione che l’esercizio di adoperarsi, aprirsi ed esporsi all’indirizzo degli altri – ossia a dire degli spettatori/interpreti che, insieme con gli elementi e fattori specifici della natura, formano il vero e autentico piccolo grande mondo che circonda ciascuno di noi – mediante frasi e pensieri comunicativi, non importa se di livello e rango umile o elevato,  è valido a sostenere, accompagnare, allargare e, perché no, anche impreziosire, il comune e genuino solco  del nostro percorso esistenziale, del nostro stesso essere, con tutte le variegate sfaccettature, nel suo insieme.

°   °   °

I miei nonni materni, Lucia e Giacomo, erano circondati da sei figli, di cui due maschi e quattro femmine.

Di queste ultime, la più grande, Immacolata, che si sarebbe poi identificata in mia madre, era venuta al mondo tredici anni prima dell’arrivo della più piccola, Valeria.

Tra dette due sorelle, intercorrevano perciò, ovviamente, sentimenti di genuino e intenso affetto, ma anche un certo senso di distacco, tant’è che, ancora adesso, a oltre mezzo secolo dalla scomparsa della mia genitrice, non passa inosservato che zia Valeria parli di lei con rispetto e deferenza: “Immacolata era la mia sorella grande, bastava un suo sguardo per capire, fare o no una determinata cosa, comportarsi bene”.

Valeria era stata battezzata con quell’appellativo, non tanto, com’era allora prassi, per ricordare o rendere omaggio al nome di una famigliare o parente, quanto per devozione verso l’omonima Santa, martire al pari del consorte S. Vitale, protettore di Marittima, anche perchè era nata il 28 aprile, esattamente nel giorno, secondo il Martirologio Romano, della commemorazione dei suddetti Santi.

Valeria, insieme con la sorella appena maggiore Raffaela e i due fratelli, fu presto avviata, già in parallelo alla frequenza delle Elementari, ai lavori agricoli, in aiuto e supporto ai genitori.

Nota di colore e autentico distintivo del legame fra le menzionate ziette e il nipote Rocco, in occasione, ossia a dire all’atto, della venuta al mondo, in casa, delle mie sorelline, prima Rita e dopo Teresa, io, com’era usanza, fui in entrambe le circostanze condotto nell’abitazione dei nonni materni, restandovi a dormire, infilato nel letto a una piazza e mezzo condiviso dalle due giovani donne.

In seguito, man mano che crescevo, perfettamente a conoscenza e aggiornato sui diversi lavori stagionali in campagna, raggiungevo spesso le zie in discorso nei giardini o fondicelli, di proprietà dei nonni o condotti a mezzadria, per dar loro una mano in talune incombenze: ad esempio, attingere l’acqua dal pozzo mediante una carrucola e una coppia di contenitori a forma di barchette, chiamati tragni, e versarla negli annaffiatoi o secchi con cui le giovani bagnavano le piante e gli ortaggi coltivati in due giardini, detti, rispettivamente, “delle signurine” (in quanto di proprietà di due sorelle marittimesi benestanti e non coniugate) e “della riciddra” (argilla), per richiamo alla natura del terreno (appunto, argillosa) che caratterizzava quell’area agricola.

Oppure, mi recavo al “Laricu” (largo), altro terreno, dotato di un ampio capannone, dove nonni e zii coltivavano il tabacco; lì, io collaboravo, sia nella raccolta, di buon mattino, delle preziose foglie, sia, anzi soprattutto, nell’infilzarle, una dietro l’altra, per mezzo di una piccola lancia (cuceddra, in gergo dialettale), formando in tal modo infinite serie d’insiemi sostenuti da fili di spago, posti, poi, a essiccare sotto il sole.

Lavori nei campi, amicizie paesane, pure sparuti e casti amorini, secondo i limiti e i canoni di quelle lontane stagioni, per zia Valeria, la quale era una ragazza di piacevole aspetto, anzi assai carina, di temperamento estroverso e d’innata gentilezza, volto e occhi di solito illuminati dal sorriso.

E, così, un paio di fidanzati (ziti) marittimesi, con i quali però i legami non divennero definitivi, sino a quando la sua aggraziata figura non fu “scoperta”, o adocchiata, in occasione della festa patronale di S. Vitale (erano, in tale circostanza, tradizionali e immancabili le sfilate o gli “strusci” delle ragazze in attesa di maritarsi lungo la via principale del paese, sotto le luci vivide delle luminarie (apparati, in dialetto).

 “Scoperta”, dicevo, da parte e per opera di un giovane forestiero, il quale, una volta scattato il colpo di fulmine, in breve volgere di tempo, decise di andare a casa di zia Valeria per “dichiararsi”.

Si chiamava, Toto (Salvatore) P., era nativo della vicina località di Ortelle, ma, da svariati anni, si trovava arruolato volontario nella Marina Militare, imbarcato sui sommergibili e, all’epoca, già nei ruoli dei sottufficiali con il grado di Secondo Capo.

Da subito, il “fidanzato” diede, invero, l’impressione di essere un giovane a modo e, insieme, il che non guastava, un buon partito. In particolare, si dimostrò profondamente innamorato, letteralmente preso da zia Valeria.

Nel corso del fidanzamento, condizione, per la verità, protrattasi non per molti anni, ebbe a verificarsi un episodio che lasciò il segno fra meraviglia e ammirazione.

In concomitanza con un Natale, credo, Toto, ritornato a casa in licenza, recò in regalo alla fidanzata un elegante cappotto confezionato (appare inimmaginabile, serbo davanti agli occhi i colori e la fantasia della stoffa), da lui sicuramente scorto e scelto in qualche vetrina di Taranto, luogo, dove prestava servizio. Un dono affatto comune, posto che, all’epoca, i regali nel campo dell’abbigliamento consistevano in una determinata metratura di tessuto, in seguito affidata, dal/dalla donatario/a, per la confezione, a un sarto o una sarta del paese.

Correva il periodo di Natale, dicevo sopra, con Valeria che si girava e rigirava fra mani e braccia, si provava, indossandolo a riprese infinite, quel capo, manifestando una gioia da settimo cielo, quasi si sentisse, insomma, con un altro riferimento proverbiale, felice come una Pasqua, per voler dire al massimo livello.

Abbastanza presto, in confronto alle consuetudini locali, i due “colombi”, i quali, del resto, vivevano fisicamente distanti, concordarono e fissarono la data delle nozze, marzo o aprile del 1954.

Favolosa si presentava nelle sue doti di semplicità e bellezza, esaltate dall’abito bianco, zia Valeria, all’altezza pure lo sposo, con indosso, a sua volta, l’elegante divisa militare da cerimonia.

Io contavo solo tredici anni, ma ero in grado di registrare l’intera scena con la precisione e l’abilità di un provetto regista cinematografico.

Dopo il rito religioso nella chiesa parrocchiale di Marittima, protagonisti e invitati, inclusi, ovviamente, i parenti e gli ospiti del neo-marito, via, tutti insieme, a raggiungere la casa degli sposi (il fabbricu nuovo, si diceva in dialetto) a Ortelle.

Anche il rinfresco restò impresso fra gli astanti, non ricalcava i soliti “complimenti” alla buona e spartani (qualche bicchierino di liquori fatti in casa e uno/due dolcetti ordinati a Nena Maroccia) serviti durante i comuni matrimoni marittimesi, ma consisteva in un ricevimento di qualità con una serie di portate gustose, oggi si parlerebbe di catering, commissionato al miglior bar pasticceria di Poggiardo.

Il giorno dopo, i freschi coniugi partirono per il viaggio di nozze (pure questa iniziativa non era comune e diffusa ma rara), nel corso del quale, rammenta il testimone tredicenne, transitarono anche per la località laziale di Alatri, con l’intento di dare un saluto e consegnare i confetti al mio fratello maggiore Antonio, che stava lì, in un convitto dei Padri Scolopi, a frequentare il Ginnasio.

Al ritorno dal viaggio, pur esistendo il fabbricu nuovo di proprietà a Ortelle, prestando, zio Toto, servizio a Taranto, la coppia si trasferì in quella città, in un appartamento in affitto in via Regina Elena, nei pressi della chiesa di S. Francesco di Paola.

Feci in tempo, io, all’età di diciannove anni e mezzo, intraprendendo, a mia volta, l’attività lavorativa giusto nel capoluogo ionico, a render loro visita, intanto che la famiglia, nel breve intervallo trascorso, si era allargata con ben tre figli: R. (figlio), R. (figlia), dai nomi uguali a quelli dei nonni paterni e L. (figlio), il cui appellativo ricordava la nonna materna Lucia, da poco mancata.

Un particolare indicativo: in quegli anni, come prima indicato, i bambini non nascevano in ospedale o in clinica, bensì nell’abitazione dei genitori, nel loro “letto grande” e la puerpera era assistita semplicemente dalla levatrice e, specialmente, dalle donne di famiglia già sposate, perciò zia Valeria, non avendo a Taranto alcun parente, nel dare alla luce i figli, per tutte le tre volte, si spostò sistematicamente a Ortelle.

A un certo punto, ragioni collegate al servizio di zio Toto imposero il trasferimento dell’intero nucleo famigliare ad Augusta, nel sud della Sicilia, e lì, vedi ancora una volta il filo che tiene vivi e lega gli autentici sentimenti affettivi, io e mia moglie Annunziata, sposi nell’aprile 1964, ci recammo in visita, durante il nostro viaggio di nozze.

Non molto tempo dopo, per ovviare ai pesanti e talora ardui spostamenti, zio Toto lasciò la Marina Militare, ottenendo, contestualmente, un impiego civile, sempre in seno all’amministrazione statale, a Como.

Una volta sistematisi lì, lo stesso zio Toto (purtroppo, deceduto quindici anni addietro), zia Valeria e i figli non hanno più lasciato la città lariana.

Tuttavia, Como, in barba alla sua posizione geografica a ridosso del confine, non ebbe a rivelarsi, almeno per me e la mia famiglia, una lontana America, atteso che, pure a noi, per colpa o merito del bancario Rocco, toccò, nel 1978, di andare a risiedere in Lombardia, a Monza, in pratica a due passi dalla casa degli zii.

Ci vedevamo spesso da loro, colpiva, all’ingresso dell’abitazione, in bella mostra, la sciabola da ufficiale del primogenito nostro cugino R., segno di continuità ideale e generazionale, nell’intimo e nel sano orgoglio di zio Toto, memore della medesima “arma” a lui assegnata in dotazione, quando, da militare, aveva conseguito l’avanzamento da Secondo Capo a Maresciallo di Marina.

Zia Valeria e zio Toto hanno così avuto modo di seguire la crescita dei miei figli, Pier Paolo, Imma e Daniele; accadeva, addirittura, che Annunziata ed io, dovendo in qualche circostanza assentarci brevemente da Monza, affidassimo loro i nostri più piccoli, Imma e Daniele, che, ancora adesso, rimembrano le lunghe partite a carte con i gentili e premurosi pro-zii.

Guarda ancora caso, mentre io ero impegnato a Monza, il terzo dei cugini, L., conseguì la maturità; al che, traendo anche spunto dalle buone votazioni da lui riportate, mi offrii di indirizzarlo per l’eventuale assunzione nella mia stessa banca, il che avvenne, in breve volgere di tempo, presso la filiale di Como.

L’ultima volta che mi sono recato sulle rive del Lario risale al giorno delle esequie di zio Toto.

Da allora, zia Valeria, ha inevitabilmente dovuto rinunziare agli annuali viaggi a Ortelle e a Marittima, d’estate, con la Fiat 850 del marito. Intanto, andava vie più avanzando l’età e le sopravveniva, ovviamente, qualche acciacco.

Sono rimasti, con saltuarietà, i contatti telefonici, gli auguri per Natale e Pasqua, l’invio puntuale, alla zia, dei miei libri, da lei letteralmente divorati con estremo piacere, nella contentezza di rivivere luoghi, posti, vicende, volti e racconti, in parte famigliari, conservati nella mente e nel cuore.

Nel dicembre 2017, l’ultimo dei cugini, L., il collega bancario, alla vigilia del cinquantanovesimo compleanno, ha deciso di compiere l’importante passo del matrimonio e, suo più recente atto di rilievo, con decorrenza 1° ottobre 2018, ha scelto di porre fine all’attività lavorativa, scivolando anticipatamente in quiescenza.

In detta, fresca occasione, il cugino ha inteso fare un regalo, graditissimo, a me, a mia moglie e a mia sorella Teresa, una sorpresa completamente inaspettata, scendendo per alcuni giorni a Ortelle e, si capisce, a Marittima, insieme con la moglie Valentyna e la madre, la cara zia Valeria.

Al che, noi salentini ci siamo immediatamente fiondati nel “nido” di Ortelle, l’antico fabbricu degli sposi sulla strada provinciale, che, abitualmente vuoto e silente, agli inizi del mese appena trascorso, per un improvviso prodigio, si presentava con la porta d’ingresso dischiusa.

È scattato un tuffo interiore nello scorgere, dopo tanto tempo, la figura di zia Valeria, insieme con la coppia di famigliari, con il suo solito sorriso e i tratti dolci e immutati – tranne, beninteso, taluni fisiologici aggiornamenti – rispetto alle stagioni lontane.

Portamento eccezionalmente eretto ove si consideri che ha superato gli ottantotto e, come partecipatoci, che le è pure toccato, a più riprese, di affrontare una sequenza di problemi di salute affatto marginali.

Per buona sorte, tali malanni hanno lasciato una sola traccia indicativa e tangibile, ossia a dire saltuari vuoti nella memoria, si, precisamente saltuari, nel senso che, dopo qualche pausa di obnubilazione su eventi e/o figure di persone, le visioni e i ricordi della zia si rifanno nitidi e i discorsi e ragionamenti collegati riecheggiano puntuali e in completa aderenza e attinenza.

In pochi minuti, intrecci intensi di sguardi e parole, quasi un rincorrersi di domande e di risposte. Emozione e commozione, accentuate dall’esserci ritrovati fra quelle pareti, già scenario di un mitico sposalizio.

Dopo il saluto a Ortelle, ho fortemente desiderato che, il giorno successivo, i parenti comaschi fossero ospiti a pranzo nella mia villetta alla “Pasturizza” di Marittima e, in tal modo, sono proseguiti i discorsi e le rievocazioni su stati di cose attuali e, specialmente, su occorsi passati, a completamento del grosso, affettuoso regalo – tengo a sottolineare ancora – da parte degli ospiti giunti da lontano e finalmente rivisti.

Così, che m’è venuto spontaneo di contraccambiare. Nell’arco del pomeriggio e sino al tramonto, ho fatto dunque accomodare i parenti sulla mia autovettura, intraprendendo, in loro compagnia, un percorso di rivisitazione di luoghi e rivitalizzazione di eventi e rimembranze

Il giro è invero iniziato sotto forma di un salto all’indietro di tre quarti di secolo, attraverso, cioè, una veloce visita alla marittimese Anita, coetanea e compagna delle Elementari di zia Valeria: e, qui, colpivano i sorrisi radiosi di due ragazzine di ieri.

Quindi, una serie di sopralluoghi su siti e posti che furono testimoni degli anni giovanili e degli impegni della zia nei lavori agricoli: il fondo dell’Aria, i Munti, il giardino delle Signurine e quello della riciddra, la Marina ‘u civile, il Serrito, dove si prendevano anche i bagni di mare, l’Acquaviva, Torre di Capo Lupo.

Il giro si è concluso con una sosta nella dimora comune di tutti i marittimesi, ombreggiata da cipressi secolari, e la sfilata al cospetto di tanti volti occhieggianti da fotografie impresse su lastre marmoree e/o di comune pietra leccese.

Fra le figure che non ci sono più, mi limito a citare unicamente quelle di mia madre e della nonna Lucia; quest’ultima, genitrice, come annotato in altro capoverso, sia di Immacolata che di Valeria, anche nell’effige del camposanto appare contraddistinta dai suoi capelli bianchi e ricci che rimandano quasi fedelmente alla chioma attuale della sua vivente figlia piccola.

Un’esistenza normale, ordinata e lineare e, però, piena, quella della zia, cui, è chiaro, è espressamente e nominativamente dedicata questa narrazione.

Allo stato, ella va completando il proprio percorso attorniata, oltre che dai figli, anche da cinque nipoti già grandi e, ormai bisnonna, anche da una pronipote.

Nell’atto di accomiatarci (a quel punto, affiorano i suoi menzionati saltuari vuoti di memoria), Valeria mi ha rivolto un interrogativo confidenziale, esclusivo e, insieme, estremamente affettuoso: “Ma, Rocco, dimmi un po’, tu sei figlio di Immacolata, la mia sorella grande, non è vero?”.

E, io, gli occhi accennanti a divenire per un attimo lucidi, mi sono portato dentro, custodendole gelosamente, le sue parole. 

Estate 1942 al Serritu
La protagonista, oggi

Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò (2/3: GNURICAMIENTU-‘NFUCAMIENTU TII FACCE)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

GNURICAMIÉNTU Cianosi. GnuricamIèntu è da gnuricàre=annerire, a sua volta dal latino nigricàre=esser nero, da niger=fosco  

GNURICAMIÉNTU TI SOLE Abbronzatura ed elastosi solare. Per l’etimo di gnuricamièntu vedi il lemma precedente. Terapia: empiastro di prezzemolo. Si coglie l’occasione per ricordare che a natura, fra i tanti rimedi, fornisce anche quelli utili per la pulizia delle pelle, che dai nostri avi la si voleva bianca e lucida, comu queddha ti li signure, ritenendo la pelle scura e abbronzata un segno di popolanità e propria delle contadine. Le nostre nonne raccoglievano la linfa della vigna ancora verde in un vasetto ben pulito, per spalmarlo poi, in modiche quantità, sulle macchie della pelle esposta a lungo al sole cocente; I chicchi ancora verdi dell’ orzo, stemperati nel latte, danno un liquido lattiginoso che veniva utilizzato per togliere le impurita’ delle pelle, rendendola cosi’ piu’ lucente; la lanuggine che riveste la parte interna del baccello delle fave verdi veniva sfregata ogni sera sul viso per ravvivarne il colorito e qualcuno otteneva lo stesso risultato col succo fresco delle minuncèddhe (cocomeri). Ancora: la farina di fave e quattro semi freddi mischiati col latte tiepido rendevano piu’ chiara la pelle, togliendo quelle antiestetiche macchie che si formano dopo l’ esposizione al sole; un ultimo cosmetico si otteneva nel seguente modo: si raccoglieva ed essiccava la pianta della malva in tutte le sue parti e si faceva bollire col decotto di lengua ti cane o lengua ti pècura (piantaggine); col liquido ottenuto si detergeva la pelle macchiata dal sole, che così diventava piu’ chiara e lucida.

GNURICATÚRA Ecchimosi. Per l’etimo vedi gnuricamièntu. Terapia: empiastro di prezzemolo.

INTISCIAMIÉNTU Eczema da freddo. Da intisciàre che corrisponde, con slittamento semantico attivo (screpolare col vento) all’italiano di basso uso venteggiare=tirare vento. Terapia: frizioni serotine con olio d’oliva e cera.

ISSÍCA Vescica, classico esito dei sistemi correttivi di una volta che prevedevano l’uso della curèscia (corregia, cintura dei pantaloni) o, peggio ancora, della ugghina (nerbo di bue), forma aggettivale dal latino medioevale bùbula=bue. Issica, rispetto al corrispondente italiano vescica presenta maggiore fedeltà fonetica, a parte la geminazione di –s-, al latino vesica.

MBRIÁCULA il Rohlfs registra la voce per Squinzano (Le) e Lizzano (Ta) col significato di “infiammazione, gonfiore del dito, giradito”, per San Cesario di Lecce (Le) con quello di neo, voglia e, nel plurale mbriàcule, probabilmente per Brindisi, come testimonianza letteraria tratta dal Libro di Sydrac (codice del XV secolo) nel significato di “vescicole sulla pelle, così dette perché curate dal popolo con zaffi imbevuti di vino”; lo studioso, inoltre, invita ad un confronto “con il calabrese mbriàca, mbriàcula=giradito, dal latino tardo ebriàcus=ubriaco”. Va aggiunto che mbriàcula è, perciò, diminutivo femminile di mbriàcu=ubriaco, corrispondente all’italiano di basso uso imbriàco, che è dal citato latino ebriàcus attraverso la trafila ebriàcu(m)>*ebbriacu(m) (geminazione di –r-)>*embriàcu(m) (dissimilazione –bb>-mb-)>imbriàco (passaggio e->i– e regolarizzazione della desinenza); da quest’ultimo, poi, per aferesi di i– è nato il neretino mbriàcu.

MILUNGIÁNA Bernoccolo. Corrisponde all’italiano melanzana (dall’arabo badinjan, con influsso di mela), in palese uso metaforico. Terapia: simile a quella della cilona (vedi).

MINNÉDDHA Fibroma pendulo. Diminutivo di menna=mammella, voce per la quale il Rohlfs invita ad un confronto “con il siciliano e calabrese minna” (variante, fra l’altro, presente nel Leccese),“ di origine onomatopeica”. Non è da escludere, invece, il legame con la radice indoeuropea men– collegata all’idea di sporgenza, alla base, fra gli altri  del latino mèntula=pene (da cui il salentino mènchia) e adminìculum= puntello (da cui il neritino minnìcculu=capezzolo). Terapia: asportazione domestica che ne prevedeva la recisione tramite rapido strozzamento del peduncolo utilizzando un filo di cotone molto resistente.

 ‘MPICICACCHIAMIÉNTU Eritema da calore. Da ‘mpicicacchiàre, forma semanticamente riduttiva (come, in italiano, bruciacchiare da bruciare) di ‘mpicicàre=rendere nero come la pece, sporcare, composto da in=dentro e *picicàre, verbo denominale con infisso iterativo –ic– da pice (a Nardò pece), dal latino pix=pece, a sua volta dal greco pissa con lo stesso significato.

MPODDHA Bolla più o meno piccola sulla pelle, provocata dalla puntura di un insetto o dallo sfregamento ripetuto della mano contro un oggetto (chi prova ad usare per la prima volta una zappa per un certo periodo di tempo inevitabilmente incorrerà in questo inconveniente). Il Rohlfs non propone nessun etimo, ma c’è da credere che lo abbia fatto per l’assoluta corrispondenza all’italiano ampolla [dal latino ampùlla(m), diminutivo di àmphora, a sua volta dal greco amforèus=anfora, voce composta da amfì=da ambo le parti, intorno e fero=porto (non sapremmo decidere se con riferimento alla sua natura di contenitore privilegiato nello spostamento di merci o alle due anse)]. Da notare nella voce neretina la caduta di a– per aferesi (in tal caso andrebbe più correttamente scritta ‘mpoddha) o più probabilmente per deglutazione perchè scambiata come componente di articolo (*l’ampoddha>la mpoddha>mpoddha).

MPODDHE AN BOCCA Stomatite. Per mpoddhe vedi mpoddha. E’ usata anche la locuzione occa ardùta (vedi).

MPODDHE MPODDHE Pemfigo. Vedi mpoddha; da notare come la geminazione della voce serva ad indicare la pluralità di elementi che compongono il fenomeno, come succede in italiano negli aggettivi per una delle formazioni del superlativo (esempio: lento lento).

‘MPURAGNAMIÉNTU Follicolite purulenta. Da mpuragnìre, da un latino *impuraneàre (formato da in=dentro e *puràneus=purulento, dal classico pus/puris=marciume), da cui *impuragnàre che, a sua volta, con aferesi di i– e cambio di coniugazione con passaggio –a->-i– attraverso una forma intermedia *mpuragnère, ha dato ‘mpuragnìre.

MURÍDDHU Morbillo. Dal latino medioevale morbìllu(m)=piccolo morbo, diminutivo del classico morbus=morbo, con sincope di –b– attraverso una forma intermedia murvìddhu (attestata ad Aradeo).

Esantemi: rosolia, morbillo, scarlattina, erisipela; da Pierre François Olive Rayer, Traité des maladies de la peau, Baillière, Parigi, 1835

 

MURTICÉDDHA Pelle d’oca. Diminutivo di morte (come botticella da botte). La voce era usata per lo più nell’espressione è ppassata la murticèddha (alla lettera è passata la piccola morte) ad indicare l’effetto (la pelle d’oca) di uno spavento non proprio mortale ma nemmeno tanto leggero. Il neretino per indicare la stessa senzazione usa anche la locuzione sta mmi rrìzzicanu li carni=mi si stanno arricciando le carni; rrizzicàre è da rizzu=riccio, probabilmente dal nome dell’animale terrestre o marino, che è dal latino errìciu(m), a sua volta da er/eris.

NECA Candidosi orale o stomatite da Candida. Da nèvica, con sincope di –vi-.

NEU Nevo o neo. Come l’italiano nevo, dal latino naevu(m), con sincope di –v– intervocalica nella voce dialettale e nella corrispondente italiana neo.   

‘NFUCAMIÉNTU TI FACCE Rossore cutaneo da ipertensione. ‘Nfucamièntu è da ‘nfucare, a sua volta da un latino *infocàre (con sostituzione, rispetto al classico offocàre, di ob con in=dentro), con aferesi di i– e passaggio –o->-u-.

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/04/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-1-3-bruscatura-fuecu-ti-santantoni/

 

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/15/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-3-3-occa-arduta-uecchiu-ti-pesce/

Il noce tra leggenda, magia e medicina in Terra d’Otranto e altrove


di Gianfranco Mele

  

La pianta del Noce è circondata di miti, leggende e attribuzioni magiche; il riferimento più popolare è certamente quello che lo vede albero prediletto dai sabba delle streghe.

Nelle testimonianze raccolte intorno al fenomeno della stregoneria in Terra d’ Otranto emergono come in altre regioni gli incontri sotto l’albero del noce: è il caso, ad esempio, di quanto documentato negli archivi della Curia di Oria. Grazia Gallero, di Francavilla Fontana, viene iniziata come masciàra da Cinzia la Napoletana detta la pignatara. Nella sua deposizione del 1679, racconta i particolari della iniziazione: dopo essersi unte con l’unguento, Grazia e Cinzia insieme a compagne e compagni masciàri si recano, avvolte da una suggestiva atmosfera evocata dagli effetti dell’unzione dell’unguento, al Ballo (questo il termine con il quale masciàre e masciàri salentini denominavano il cosiddetto sabba). In questo caso, la congrega si dà appuntamento ad un crocevia in Francavilla, “nei pressi dell’Hospitale de Buonfratelli”, per poi recarsi verso un non meglio identificato “Noce di Sobrino”:

Et all’ hora cavalcò ciascheduna di noi, come ancora l’ huomini sopradetti asini negri, et ogn’uno sopra il suo, li quali animali ci portarono per aria, et in poco tempo conforme mi parse tutti arrivassimo in un luoco, che mi disse la napoletana chiamarsi la noce di Sobrino, dove ci era oscuro e doppo comparse una certa luce com’un fuoco, che non faceva luce chiara, ma era bastante a poter conoscere le persone, e vedere quanto si faceva in detto luoco, nel quale viddi una quantità di genere d’huomini, e donne tutti ignudi colli capelli sciolti le donne particolarmente, e viddi e conobbi di nuovo li soprannominati compagni, colli quali eramo partiti di questa terra di Francavilla à cavallo in detti asini negri, et in mezzo stava come in un tribunale seduta una brutta forma d’huomo, con diversi altri intorno in piedi, che mi parvero fatti come le figure delli demonij depinti nel quadro, e chiesa di Sant’Antonio Abbate di questa Terra, e la detta Cinzia mi disse, che quello che sedeva in mezzo era il più grande diavolo e che quell’altri brutti fatti erano tutti diavoli”. [1]

Dalla deposizione di Narda Mingolla del 1722, sempre presso il Tribunale del Santo Officio di Oria, emergono le descrizioni del volo, dell’unguento e del Ballo nei pressi di un albero di noce che in questo caso è quello di Benevento:

Ogni settimana il Giovedi sera e il Martedi veniva il Demonio in forma di Gentiluomo a trovarla per portarla alli Balli, essa si spogliava nuda, e si ungeva con un unguento la pianta delle mani, e delli piedi, e diceva: Demonio adesso è il tempo di portarci sotto la noce di Benevento […] e si metteva a cavallo e volava fino ad un luoco e vedeva visibile il Diavolo. Nel luoco dove andavamo trovavamo tanta gente huomini e donne ballando e giocando et il Diavolo stava sedendo in trono, e noi arrivati li dicevamo buona sera, e ci mettevamo a ballare”. [2]

Nonostante le evidenti distanze geografiche, il Noce di Benevento ricorre nelle registrazioni di testimonianze di svariate località italiane: ad esempio la deposizione di una tal strega Matteuccia processata nel 1428 a Todi riporta che Lucifero, “sotto forma di capro o di mosca“, la trasportava al noce di Benevento o in altri luoghi.[3]

Difficile stabilire se la località di Benevento fosse introdotta da forzature degli inquisitori nelle registrazioni delle deposizioni, o se realmente le persone processate dichiarassero di essersi recate presso il mitico noce campano, immaginario o vero che fosse il loro viaggio verso il magico albero. E’ anche possibile che “Noce di Benevento” fosse genericamente appellato ogni albero di noce sotto il quale si svolgevano gli incontri, a memoria del più noto noce beneventano (la leggenda del noce di Benevento ha origini in tempi remoti, pare risalga addirittura alla tradizione del culto di Diana e/o divinità similari: si narra che nel VII secolo il vescovo Barbato lo fece sradicare nel tentativo di porre fine a pratiche pagane che là continuavano a svolgersi in onore di una qualche dea lunare, ma un altro noce rispuntò nel medesimo sito, e sopravvisse sino al XVII secolo). Di fatto, come già si è accennato, non sempre e non solo il noce di Benevento era considerato luogo prediletto, ma ogni albero di noce situato più o meno in prossimità delle residenze degli appartenenti alle congreghe. Ad esempio, si narra degli incontri di masciàri e masciàre salentini sotto un “Noce del Mulino a Vento” situato in agro di Uggiano La Chiesa[4], ricorre più volte nelle testimonianze del Santo Officio di Oria il “Noce di Sobrino”, altre volte si fa riferimento genericamente ad alberi di noce situati nelle vicinanze dei paesi di provenienza degli “adepti”, o in luoghi non meglio specificati. In alcuni casi il “ballo” avviene semplicemente al crocevia dove la congrega si era dato appuntamento. Il noce ritorna però come luogo privilegiato per le cerimonie stregonesche di ogni parte d’Italia, ed è così che a Roma ci si riuniva in un luogo nel quale anticamente c’era un grande albero di noce, poi sradicato e al posto del quale fu costruita una chiesa per esorcizzare le presenze demoniache del luogo, a Bologna erano individuati diversi alberi di noce sotto i quali si davano appuntamento le streghe, e in Valdinievole si parlava di un noce sotto il quale le streghe andavano a dormire.

Una serie di orazioni stregonesche raccolte tra Soleto, Lecce, Nardò, Otranto e altri paesi salentini, legate al tema del volo magico e del convegno notturno, testimoniano la presenza del noce come luogo prediletto per gi incontri masciàri.[5] Come si può notare, trattasi di varianti della più nota “Unguento, unguento, mandame alla noce de Benevento, supra acqua et supra vento, et supra omne maltempo”:

– “te subbra a parìti, te sotta le scrasce, finca a lu noce te Minimientu” ;

– “te subbra alli scuerpi, te subbra a parìti, sutta lu nuce lu jentu me ‘nnuce” ;

– “de subbra alli scuerpi, de subbra alli parìti, de sutta allu nuce me mina lu jentu” ;

– “sopra acqua sopra vento sopra il noce del mulino a vento, tu che fai la rota rotonda…” ;

– “Sutta l’acqua e sutta lu jentu sutta lu nuce de lu mulinu a jentu

Il mito del noce come luogo prediletto da spiriti, dèmoni e masciàri sopravvive nella tradizione contadina fino ai giorni nostri: l’anziano Noè Giuggia, intervistato da Maurizio Nocera, racconta di una strana e inquietante figura che vien fuori da sotto un albero di noce.[6]

Il frutto del noce a guscio trivalve (detto “a croci” a Grottaglie, “a triangulettu” a Manduria) era utilizzato come amuleto contro il malocchio e come simbolo augurale di fecondità (per questo motivo gli innamorati se lo scambiavano).[7]Li nuci a tre cerchi portanu furtuna”, è un detto leccese.

Il Cattabiani nella sua corposa ricerca su miti, simboli e leggende di fiori e piante ci fornisce altre informazioni rispetto alla noce trivalve:

Nella terra d’Otranto le donne la tenevano in tasca per difendersi dal malocchio e dalle malattie. E guai a romperla per mangiarla! Nei racconti popolari di quella zona era considerata un talismano: bastava gettarne una a terra per far apparire pianure cosparse di rosai, montagne che toccavano le stelle, mari infiniti.[8]

La noce comune, schiacciata, era utilizzata nel territorio salentino per divinazioni (“apri la nuce ca iti la sorte”, “apri il frutto del noce e vedrai la sorte”, interpretata come cattiva se il gheriglio era annerito, buona se era chiaro).[9] Questa usanza dalla quale è ricavato il succitato detto salentino, è ricorrente in diversi luoghi: ad esempio, in Belgio, le ragazze interrogavano le noci durante la festa di san Michele Arcangelo, il 29 settembre, per sapere se si sarebbero sposate.[10]

Il manduriano Michele Greco ci racconta, nella sua opera “Superstizioni, medicamenti popolari, tarantismo” di come i contadini salentini erano convinti che riposare sotto l’ombra del noce fosse dannoso alla salute:

si raccontano dei casi di alcuni che, addormentatisi sotto questi alberi, o non si sono rialzati più o si sono ritrovati dopo il sonno pallidi e smunti come cadaveri e son rimasti malaticci per tutta la vita”.[11]

Nell’ambito della medicina popolare, le foglie di noce erano utilizzate dai nostri contadini come emostatici: usavano fasciarsi con queste le ferite.[12]

L’ “acqua di noce” era un distillato di noci a diversi stadi di maturazione, indicato per gotta, malaria, renella, diarrea, mal di denti, piaghe, epilessia.[13]

Un trattato medico del XIV secolo riporta un impiastro contro il morso dei cani rabbiosi a base di noci, cipolla e sale.

Nella sua opera “Ricettario delle streghe”, il tossicologo Enrico Malizia raccoglie una selezione di antiche ricette da formulari, manoscritti magici e testi esoterici che vanno dal 1400 agli inizi del 1800. Tra le ricette riportate dal Malizia, è presente un elettuario afrodisiaco in cui sono presenti noci ammollite per un giorno nel miele insieme a vari altri ingredienti (foglie di verbena, radici di eringio, conserva di zenzero, decotto in latte di testicoli di gallo, filtrato di pigne di pino di mare macerate nel latte, torta di mandorle, noci ammollite per un giorno nel miele, semi di cipolla). I componenti solidi vanno tritati e fatti sedimentare in un boccale di vetro scuro; quindi va mescolato il tutto e dopo dieci giorni va aggiunto sciroppo di conserva di corteccia di cedro. Un bicchierino dopo i pasti.[14]

Un elettuario per stimolare gli impulsi sessuali è composto di: noci macerate in miele, conserva di satirione, conserva di cedro, pigna macerata in miele, pistacchi fritti per breve tempo in burro, decotto di carne di tartaruga al mughetto, cinnamomo. Mescolare fino ad amalgamare, e aggiungere sciroppo di eringio. Conservare in un vaso di coccio chiuso con pelle di pecora rovesciata. Dopo venti giorni assumerne un cucchiaino a ogni tramonto.[15]

Una ricetta del ‘500 mirata a provocare “il massimo piacere nell’amplesso sessuale“, impiega un olio con il quale ungere i genitali ricavato da noci bollite in olio comune.[16]

Secondo la teoria della segnatura (antichissima credenza secondo la quale parti di una pianta somiglianti ad organi umani servono a curare quegli organi), il mallo verde del frutto di noce assomiglia alla bile dunque la sua essenza può essere impiegata per far uscire la bile, mentre il sale preparato con mallo verde di noce è utile a consumarla. Siccome il gheriglio della noce ricorda invece in modo impressionante il cervello, l’essenza fatta con questo e pestata con il vino rinforza la testa e il cervello. [17]

In ambito mitologico, il noce è legato a Giove, Diana-Artemide, e alla divinità pelasgica Ker, dalla quale Artemide eredita attributi e l’appellativo di “Artemide Cariatide”. Karya in greco antico sta per noce, e il noce è detto “Karya Basilica” (noce regale), da qui anche Iovis glans (ghianda di Giove) e l’attuale nome botanico Juglans regia (Juglans è contrazione di Iovis-glans). Caria è anche una fanciulla trasformata da Dioniso in noce. Il tempio di Artemide Cariatide in Laconia era caratterizzato da colonne scolpite in legno di noce.[18]

Note

[1]Archivio Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie in Francavilla Fontana ai tempi di Monsignor C. Cozzolino, Denuncia contro Nicodemo Salinaro, anno 1679, f. 29 (cit. in M.A. Epifani, Stregatura, Besa Editrice, 2000)

[2]Archivio Curia di Oria, Denuncia di Tommaso Camassa in data 21 settembre 1722 contro Narda Mingolla, perchè posseduta da demonio, f f. 9-10 (cit. in M.A. Epifani, Stregatura, Besa Editrice, 2000)

[3]Gianluca Toro, Sotto tutte le brume sopra tutti i rovi, Nautilus Ed., 2005, pag. 46

[4]Antonio Mele Melanton, Il salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica terra d’Otranto.3 Fondazione Terra d’Otranto, sito web, marzo 2013

[5]Gianfranco Mele, Maurizio Nocera, La Magia nel Salento, Fondo Verri Edizioni, 2018, pp. 70-71

[6]Gianfranco Mele, Maurizio Nocera, op. cit., pp. 162-165

[7]Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, Fave e favelle. Le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, Centro Studi Salentini, Lecce, 2012, pag. 331

[8]Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, rist. 2017, pag. 413

[9]Domenico Nardone et al., op. cit., pp. 331-332

[10]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 412

[11]Michele Greco, Superstizioni medicamenti popolari tarantismo, manoscritto, 1912, ried. a stampa Filo Editore, 2001, pag. 70

[12]Michele Greco, op. cit., pag. 88

[13]Nardone et al., op. cit., pag. 332

[14] Enrico Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Mediterranee, 2003, pp. 153-154

[15] Enrico Malizia, op. cit., pp. 154-155

[16] Salvatore Pezzella, Magia delle Erbe, Vol.2, Edizioni Mediterranee, 1993, pag. 103

[17] Alessandro Boella, Antonella Galli (a cura di), Giovanni Tritemio, Il Libro delle Meraviglie, la Lepre Edizioni, 2012, pag. 164

[18]Alfredo Cattabiani, op. cit., pp. 408-412; vedi anche George Hersey, Il significato nascosto della letteratura classica, Mondadori, 2001, pp. 75-77

 

Libri| Rocco De Vitis, medico umanista di Supersano

di Paolo Vincenti

A pochi mesi di distanza dal libro “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, (“Quaderni de L’Idomeneo”, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, Grifo Editore, 2017), esce nello stesso anno 2017 “Rocco De Vitis, medico umanista di Supersano”, a cura di Maria Antonietta Bondanese e Mario Spedicato, per la collana “Cultura e Storia” della Società Storia Patria per la Puglia, sezione Lecce (Giorgiani Editore).

Il libro si pone in continuità con il precedente, ma se quello aveva focalizzato l’attenzione sull’attività di traduttore del dottore De Vitis e quindi più specificamente sulla sua opera, con interventi mirati da parte di valenti professionisti del settore, quest’ultimo privilegia l’uomo De Vitis, ossia a dire la dimensione privata, attraverso contributi da parte di amici, famigliari, colleghi, e insomma tutti coloro che hanno conosciuto il medico nella sua vita quotidiana. Ma si tratta di dimensioni diverse della stessa storia, come scrive nella Presentazione del libro lo stesso Mario Spedicato, e la storia di De Vitis si intreccia con la storia del suo paese, Supersano, che si intreccia a sua volta con la storia del Paese, e scriverne dunque permette di riannodare i fili, ricomporre la trama di quella temperie socio culturale nella quale si colloca la biografia umana e intellettuale di De Vitis. Un libro, questo, che è diretta emanazione di quell’altro, germinazione dovuta alla troppo abbondante mole di scritti che erano pervenuti nella sua redazione. Un libro che nasce dall’esigenza, fortemente sentita dalla famiglia De Vitis, di non mandare perduti tutti quei meteriali che, sia pure alcuni di essi eterogenei e senza i criteri di scientificità che caratterizzano le pubblicazioni universitarie, risultano vieppiù meritevoli di attenzione. Questi contributi, vari per stile, ispirazione e tematica, ma tutti accomunati da un medesimo sentimento nei confronti del dottore De Vitis, sono stati riuniti a compaginare un volume, tributo di affetto e gratitudine per un personaggio come Rocco De Vitis, 1911-1997, medico e traduttore dei classici, che ha davvero lasciato un segno del proprio passaggio.

“Cultore della poesia virgiliana e fine interprete dell’Eneide, egli ha elaborato con ammirevole accuratezza due traduzioni dell’intero poema, pubblicate rispettivamente nel 1982 e nel 1987, con un prezioso ed utile corredo di tavole e letture esplicative”, come scrive la prof.ssa Maria Elvira Consoli nel suo intervento nel libro.

“Il poema è, per certo, funzionale agli scopi politici e propagandistici di Ottaviano Augusto, invece più sinceramente autentica, in quanto  scevra da secondi fini, risulta l’interpretazione che ne ha fornito Rocco De Vitis con la propria traduzione e l’accorto inserimento di letture, come quella del Panareo, chiarificatrici della Stimmung ideologica della prima metà del’900.” Per questo, nella comunità supersanese, il medico umanista vive ancora, alto modello di riferimento, personaggio esemplare e preclaro potremmo dire, nel ricordo di amici e parenti. Non a caso nel libro sono stati inseriti gli interventi dei relatori alla presentazione del volume “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista”.

In effetti, l’intento di questo secondo libro, proprio come spiega Gigi Montonato nella sua relazione, è “il tramandare ai posteri, come disse Tacito nell’incipit dell’Agricola, imprese e qualità morali degli uomini illustri. Con questi libri, la Società di Storia Patria per la Puglia intende consegnare alla posterità chi con ogni forma di produzione, letteraria artistica scientifica, si è speso, fuori o dentro la professione abituale, per lasciare un buon ricordo di sé attraverso le sue opere. L’oraziano “Non omnis moriar” è il desiderio, confessato o meno, di sopravvivere grazie ad esse. E’, in un certo senso, l’anelito, del tutto laico, di ogni uomo di lettere, di arti, di scienza e di ricerca; quella che il filosofo polacco Andrzej Nowicki, un profondo studioso di Giulio Cesare Vanini e della filosofia italiana del Rinascimento, chiamava “filosofia dell’uomo e delle opere umane”, risalendo al dantesco “come l’uom s’etterna” (Inf., XV, 85).

Raccogliere quell’anelito e dargli corpo con un libro, che sia guida alle sue opere ma nel contempo anche ricordo del suo essere stato, è compito di chi appartiene alla stessa categoria umana, una risposta di solidarietà, a volte anche di pietas e di giustizia, siccome non sempre in vita si dà il giusto riconoscimento ad uomini pur meritevoli.”

Il libro si apre nella prima sezione, “Il dottore De Vitis e l’antica Supralzanum”, con l’intervento di Gino De Vitis, che traccia il profilo biografico di Rocco De Vitis. Gino De Vitis, benemerito operatore culturale, direttore per quarant’anni del foglio supersanese “il Nostro Giornale” (che ha da poco passato le consegne proprio a Maria Bondanese nella direzione), ha certamente titolo per biografare il medico, non solo per esserne stato amico e parente, ma anche per avere ospitato tanti e tanti suoi interventi sul Giornale. Il secondo pezzo è “Un medico umanista”, di Florio Santini, contributo già apparso in “Il Leccio”, nel 1994. Poi, un dotto intervento di Don Oronzo Cosi, Parroco di Supersano, “La cultura come palestra dell’anima”, e quindi il lungo e documentatissimo intervento di Remigio Morelli sull’esperienza del dottore De Vitis sul fronte nella Seconda Guerra Mondiale.

Ancora, un intervento di Michele De Vitis su politica e società; seguono il contributo di Antonio Errico, già apparso su “Il Quotidiano” nel 1987 e la rivista “Caffebuda” nel 1988, e quello di Giorgio Barba, già apparso su “Il Leccio” nel 1995. Il libro è corredato da un apparato fotografico davvero importante, foto della vita del dottor De Vitis e disegni tratti dalle sue opere si alternano alle pagine del libro, creando un maggiore motivo di interesse per il lettore. Luigi Bardoscia si occupa della “eredità intellettuale, morale e culturale di Rocco De Vitis”, mentre Gianpaolo G.Mastropasqua offre un contributo fra letteratura e medicina, tratto dal suo libro “Partita per silenzio e orchestra” (Ed.Lietocolle 2015).

È uno dei più interessanti il saggio di carattere sociologico di Gianfranco Esposito, “L’attualità del pensiero di Rocco De Vitis”. Inizia a questo punto una serie di articoli che riguardano il territorio di Supersano e le sue ricchezze paesaggistiche e culturali. “Supralzanum, Supersano” di Maria Bondanese, che è tratto da un testo già edito dalla stessa, “Supersano. Arte e Tradizione, Scoperta e Conoscenza”, Taurisano, Centro Stampa, 2014, sulla antichissima storia di Supersano; Francesco Tarantino parla dell’albero della manna presente nella campagna di Supersano, delle Vore e del lago di Sombrino, anche attraverso le narrazioni di Rocco De Vitis, e del Bosco di Belvedere, attraverso la pubblicazione di Maria Bondanese, con bellissime foto storiche e contemporanee.

Molto denso il saggio di Stefano Tanisi e Stefano Cortese sul complesso della Cripta e della Madonna della Coelimanna a Supersano, come bibliograficamente dettagliato è quello di Paolo Vincenti sul Mubo, vale a dire il Museo del Bosco. Antonio Elia parla della Chiesetta di San Giuseppe e delle sue opere litiche da lui realizzate per conto del dottor De Vitis. “Memore della cappelletta sul fronte sul monte Golico, che al fronte vedeva ogni sera avvolta dai bagliori dei mortai e delle bombe a mano, agli inizi degli anni Ottanta, edifica la chiesetta di San Giuseppe sulla Serra di Supersano, impreziosita dai dipinti murali di Ezio Sanapo e dalle sculture di Antonio Elia, e che dona poi, assieme al terreno adiacente, alla Parrocchia di Supersano”, scrive Maria Bondanese.

A questo punto, si apre la seconda sezione del libro, intitolata con dei versi tratti dall’Antico Testamento, “Morì lasciando molti rimpianti di sé”. Qui trovano spazio un intervento di Don Gerardo Antonazzo, già Parroco di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo, un altro lungo scritto della Bondanese “L’umanesimo cristiano del dottor Rocco De Vitis”, un breve ricordo di Nello Borrelli ed anche di Francesco Tarantini che sottolineano la poliedricità del medico umanista; ancora sul “personaggio” Don Rocco si intrattengono amici come Vittorio Antonazzo, Raffaele Garzia ed anche la figlia Maria Rosaria con “Arriverderci papà”, un pezzo pubblicato su “Il Nostro Giornale” nel 1997. Maria Rosaria apre in effetti la serie dei “familiaria”, che ricordano l’uomo Don Rocco. Wanda, l’altra figlia, con “Dolce nostalgia”, la nuora Nuzza Marini (moglie del figlio Roberto) che dialoga con la prof.ssa Cristina Martinelli, la nipote Paola Bray con “Seneca al telefono”, un’altra nipote Adriana Malorgio con “Zio Rocco…sul filo dei ricordi”, Rosaria Petracca con “don Roccu”, Roberto Bondanese (fratello di Maria) con “So’ rumaste sotte a bbotte mbressiunate” e poi un articolo firmato da tutti i nipoti, Francesco e Chiara Lecci, Giuseppe, Valeria, Antonio e Vincenzo De Vitis, “Carpent tua poma nepotes”.

Scrive Alessandro Laporta, dopo aver passato in rassegna esempi illustri di medici del passato che unirono alla professione l’attività storica ed erudita, come Cosimo De Giorgi, “De Vitis anche lui è un fenomeno, da questo punto di vista, cioè riuscire a conciliare l’esercizio serio della professione di medico con l’hobby, con la passione, con l’amore per la letteratura. Entrambi sono, in un certo senso, allievi, discendenti di un’altra grande figura che è stata chiamata in causa questa sera: cioè Antonio De Ferraris Galateo, che rimane sicuramente un punto di riferimento […] De Vitis è un poeta sommo non solo per il suo libro che contiene poesie, ma per la sua traduzione dell’Eneide, delle Georgiche e Bucoliche, cioè un medico che pensa di prendere un testo poetico della difficoltà di Virgilio e farne una versione poetica, se non è poeta lui ditemi chi è poeta nella nostra letteratura. Io vedo in queste figure non solo una continuità ma una grande passione per l’esercizio letterario, una grande passione per la grande poesia…”.

Nella sezione terza, “Rocco De Vitis e il mondo della scuola”, interventi di insegnanti e alunni dell’istituto Comprensivo scolastico di Supersano e nella quarta sezione, come già detto, gli interventi sul volume “Quando Ippocrate corteggia la Musa”, tenuti in occasione della presentazione presso l’ex Monastero degli Olivetani il 4 maggio 2017, nell’ordine: Luigi Montonato, Eugenio Imbriani, Alessandro Laporta, Maria Elvira Consoli, Maria Bondanese.

Il libro si conclude con l’Indice analitico e l’Indice dei volumi pubblicati nella collana “Cultura e Storia”.

 

Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò (1/3: BRUSCATURA-FUECU TI SANT’ANTONI)*

di Marcello Gaballo e Armando Polito

* Estratto da Il delfino e la mezzaluna, Fondazione Terra d’Otrnto IV nn. 4-5, agosto 2016, pp. 179-193

Da Jean Louis Alibert, Clinique de l’hôpital Saint-Louis ou traité complet des maladies de la peau, Cormon et Blanc, Paris, 1833

 

Premessa

Sono state raccolte le voci e le locuzioni dialettali riferentisi, direttamente o indirettamente, all’argomento indicato nel titolo e, dopo aver a lungo riflettuto, si è deciso, anziché inserirle in una struttura narrativa certamente più accattivante ma più dispersiva e certamente non adatta alla consultazione tipica di un dizionario,  di riportarle in ordine alfabetico unendo ad ogni lemma il corrispondente nome scientifico e/o comune e le relative osservazioni di natura filologica1 e altra. Il che non impedirà al lettore di cogliervi, anche attraverso le terapie anticamente praticate il ricordo della civiltà contadina e dello stretto contatto, diremmo partecipe, affettuoso, diretto ma pieno di rispetto, in qualche caso poetico, nella varietà delle ardite metafore, tra l’uomo e la natura, cosa che raramente è dato di ravvisare nella coeva terminologia scientifica. Di quella dei nostri giorni (pur con il dovuto rispetto per gli evidenti e perciò innegabili, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, progressi della medicina ufficiale) si preferisce non dire…

BRUSCATÚRA Eczema o dermatite.  Da bruscàre, voce per la quale il Rohlfs propone solo un confronto “col toscano bruscàre=abbrustolire”, voce che è da un latino *brusicàre, da *brusiàre probabilmente di origine preindoeuropea; tuttavia, una certa incongruenza semantica (la dermatite non si spinge, di regola, fino all’”abbrustolimento” della pelle) induce a ipotizzare l’etimo da brusca (spazzola per strigliare il cavallo), dal latino tardo bruscu(m)=pungitopo, a sua volta dal classico ruscus. Il toponimo Brusca, indicante una masseria in territorio di Nardò, potrebbe avere la stessa etimologia, connessa con la diffusione in zona dell’arbusto prima indicato, utilizzato per la strigliatura dei cavalli.

Eczema rubrum, da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, Longman, Londra, 1817

 

BRUSCIATÚRA Ustione. Corrisponde all’italiano bruciatura, da bruciare e questo da un latino brusiàre, probabilmente di origine preindoeuropea. Terapia: applicazione della polpa della patata cruda (l’amido del tubero procurava sollievo) o di un empiastro di farina e vino, o di un unguento di olio di oliva e zolfo in polvere abitualmente usato per la vigna, o col sapone fatto in casa, o con un balsamo formato da cera gialla, olio e tuorlo d’uovo; qualcuno bagnava la parte con l’acqua di calce, cioè l’acqua in cui era sedimentata la calce viva. Ancora oggi qualcuno usa spalmare del dentifricio (magari alla menta, per avere la sensazione di freschezza).

Opération après brûlure de la face et du cou (Operazione dopo l’ustione della faccia e del collo), da London medical gazette, Longman, Rees, Orme, Londra, 1848

 

CADDHU Ipercheratosi o callosità. Come l’italiano callo, dal latino callu(m). Per un particolare tipo di callo e per la terapia in generale vedi uècchiu ti pesce.

CANIGGHIÓLA Forfora. Diminutivo di canìgghia=crusca, da un latino *canìlia=cose da cani, neutro plurale sostantivato da *canìlis, dal classico canis=cane; evidente la somiglianza tra la forfora e la crusca, già evidente per i latini per i quali furfur (per lo più usato al plurale) significava forfora oppure crusca.

CARÁNDULA Linfadenite. Deformazione della voce italiana di basso uso glàndula [dal latino glàndula(m), da glans/glandis=ghianda] che è la madre di ghiàndola.Trafila: glàndula>*galàndula (epentesi di –a– come in cancarèna rispetto all’italiano cancrena)>caràndula (passaggi g->c– e l->-r-).

CESTA Cisti. Come la voce italiana, dal latino medioevale cystis/cýstidis=vescica, a sua volta dal greco kustis; in più la terminazione in –a dovuta, più che a regolarizzazione della desinenza, ad un probabile incrocio con cesta [dal latino cista(m), a sua volta dal greco kiste)]; dopo l’incrocio, per evitare confusioni, per indicare il cesto il dialetto ha usato solo cistu [dal latino medioevale cistu(m), dal classico già citato cista], mentre l’italiano ha sviluppato cesta e cesto.

CILÓNA Lipoma, tartaruga. Il corrispondente italiano formale sembrerebbe essere chelone (tartaruga marina), dal latino scientifico Chelòne, dal greco chelòne=tartaruga, da x¡luw (chèlus), con lo stesso significato, forse connesso con kele=tumore. tutto ciò induce a pensare che la voce salentina sia direttamente dal greco chelòne, con  influsso di kele per quanto riguarda l’assenza di aspirazione (cilòna e non chilòna) e, forse, per il significato di lipoma che potrebbe essere stato traslato solo parzialmente per metafora da quello di tartaruga. Terapia: contenimento mediante una moneta mantenuta premuta con bendaggio.

Lipoma pedicolato del tessuto sottocutaneo della gamba e della parte profonda dell’avambraccio; da Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.

 

CRANIÉDDHI Follicolite. Corrisponde all’italiano granello (cranièddhu a Vernole indica il seme dell’uva), diminutivo di grano, dal latino granu(m). Manifestazione meno evidente dello stesso disturbo è quella dei friulìti (vedi). 

ERME SOTTA PELLE Vitiligine. Basta la traduzione italiana: verme sotto pelle.

Da Larousse médical illustré, Larousse, Parigi, 1924

 

FAU Ascesso. Corrisponde, per analogia di forma, con particolare riferimento all’ascesso multiplo, ed etimo all’italiano favo, dal latino favu(m); nella voce dialettale è avvenuta la consueta sincope di –v- intervocalica. Terapia: empiastro di lampascione (muscari comosum) o di fiori e foglie di malva.

Da Pierre Louis Alphée Cazenave, Traité des maladies du cuir chevelu, J. B. Baillière, Parigi, 1850

 

FOCA Orticaria conseguente al contatto con i parassiti del grano. Il Rohlfs invita ad un confronto col “calabrese fucìda=macchia rossa di scottatura  sulle gambe, che risulta da un incrocio del greco foìs=macchia di scottatura col latino focus”. Si ritiene che l’incrocio non valga per la voce neretina che sarebbe direttamente dal latino medioevale foca2, dal classico focus. L’intenso prurito con cui si accompagna veniva sedato con impacchi caldi oppure con bagno in acqua in cui erano state immerse foglie di malva; qualcuno ungeva olio d’ oliva o cospargeva con una lozione ottenuta facendo bollire della cenere di legna in acqua di cisterna.

FREE ALLI MUSI Herpes simplex labialis. Per free vedi friulìti.

FREE TI PILU Mastite. Per free vedi friulìti. Si riteneva causata dalla presenza di qualche pelo nei condotti del latte, tale da impedirne la normale fuoriuscita. In entrambi i casi si ricorreva ad una cura con empiastri di finocchio e cavolo sulla mammella.

FRIULÍTI Follicolite meno evidente dei cranièddhi (vedi). Il Rohlfs non propone nessun etimo, il Garrisi, piuttosto confusamente,  un “incrocio tra latIno fricatus e leccese free e freculare + suffisso diminutivo -ulu”. Si ritiene, dopo aver detto che, inequivocabilmente, –iti è il suffisso tipico delle infiammazioni, che la voce abbia il suo nucleo nel latino febris=febbre; da un diminutivo *febrìola con l’aggiunta del suffisso –iti si passa a febrioliti, da questo, seguendo per febri– il normale sviluppo dialettale [free, da febre(m)>fevre(m)> freve (metatesi a distanza)>free (sincope di –v– intervocalica)] *freeolìti>*freolìti>friulìti.

FRÚNCHIU Foruncolo. Stesso etimo del corrispondente italiano: dal latino furùnculu(m)=tralcio secondario, gemma,  poi foruncolo, diminutivo di fur =ladro (la gemma “sottrae” nutrimento alla pianta, il foruncolo all’organismo); trafila furùnculu(m)>*frùnculu(m) (sincope della prima u)>*frunclu(m) (ancora sincope della terza u originaria diventata nel frattempo seconda)>frùnchiu (passaggio –clu>-chiu).

FUÉCU TI SANT’ANTONI Herpes zoster. La locuzione dialettale (che corrisponde alla popolare italiana Fuoco di Sant’Antonio) è legata secondo alcuni alla tradizione per cui Sant’Antonio era considerato come colui che combatteva il demonio che appariva sotto forma di serpente. Il nome scientifico, infatti, è, per Herpes, dal latino herpes in cui, oltre che erpete, indicava anche (in Plinio) un animale da identificare probabilmente con una specie di serpente; herpes, a sua volta è dal greco herpes con gli stessi significati già indicati per la voce latina, anzi il suo collegamento col verbo serpo=io striscio convaliderebbe l’ipotesi dell’identificazione dell’animale col serpente (la malattia è vista come una sorta di serpente di fuoco che si annida nell’organismo), confermando, ancora una volta, nella locuzione dialettale la commistione di elementi naturalistici e fideistici e, dunque, un livello, più profondo rispetto a quello della scientifica. La seconda parte, zoster, è dal greco zostèr=cintura, zona, fascia. C’è da dire che secondo altri la denominazione è dovuta alla confusione antica della malattia con il più grave ergotismo (intossicazione causata dalla presenza di segale cornuta nelle farine alimentari): nel Nord Europa, dove il pane veniva fatto con la segale, spesso si contraeva questa malattia, dovuta al fungo (ergot) che infettava la segale; tra gli effetti di questa intossicazione vi erano anche le allucinazioni e questo portava la gente a mettere in relazione la malattia con il demonio o con forze maligne, non essendo conosciuta al tempo la causa di queste alterazioni; i malati, recandosi in pellegrinaggio verso i santuari di Sant’Antonio in Italia, man mano che scendevano verso Sud cambiavano alimentazione mangiando pane di grano, e ciò attenuava o eliminava i sintomi dell’intossicazione. Tale effetto veniva attribuito ad un miracolo ad opera di Sant’Antonio. Non a caso l’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne venne istituito nel 1095  a seguito del voto fatto dal nobile Gastone, che aveva avuto un figlio guarito dall’ergotismo, per grazia ricevuta al santuario di Saint Antoine Abbaye, vicino a Vienne, dove all’inizio del millennio un nobile francese, Jocelin de Chateau Neuf, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, aveva portato le spoglie di Antonio abate, avute in dono, pare, dall’imperatore di Costantinopoli. Gli Antoniani all’inizio usavano contro la malattia cospargere le parti malate di vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie; successivamente (esaurimento delle reliquie?…), quando fu loro concesso il diritto di allevare maiali che circolavano liberamente nelle città e nei luoghi ove sorgevano i loro conventi, disposizione che risultava necessaria dal momento che i maiali girando in villaggi e città provocavano numerosi danni. L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini i quali, ad opera compiuta ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.  L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. Proprio a causa del simbolo del maiale, S. Antonio divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo.Terapia: applicazione di empiastri di malva sulle parti interessate. Sull’ antica origine “sacrale” del nome della malattia vale la pena spendere ancora qualche parola: È la malattia alla quale Plinio (I secolo d. C.) ha dedicato il numero maggiore di passi della sua Naturalis historia con la proposta di un numero notevole di differenti terapie, il che è un indizio, se non della sua frequenza e gravità anche ai suoi tempi, certamente della difficoltà di trattarla. Pure a livello di nomenclatura si alterna il singolare ignis sacer (fuoco sacro) (23 ricorrenze) o (con inversione delle componenti) sacer ignis (sacro fuoco) (1 ricorrenza) al plurale ignes sacri (fuochi sacri) (15 ricorrenze) o sacri ignes (sacri fuochi) (2 ricorrenze). Nel brano XXVI,74 (riportato più estesamente in basso) è contenuta in pratica l’etimologia della attuale denominazione scientifica (Herpes zoster): Ignis sacri plura sunt genera, inter quae medium hominem ambiens, qui zoster vocatur, et enecat, si cinxit (Molti sono i tipi di fuoco sacro, tra i quali quello, chiamato zoster, che circonda l’uomo a metà e lo ammazza pure, una volta che lo ha cinto). Il passo, secondo noi, è molto importante perché rappresenta la cerniera tra il concetto di cintura (zoster)  e quello di una  specie di serpente che abbiamo presunto nella prima parte del lavoro alla voce in questione. Va ricordato, infatti, che negli affreschi di Pompei la divinità più raffigurata è il serpente agatodemone (voce greca che alla lettera significa buon demone), protettore del focolare e simbolo di fertilità e che lo stesso Plinio usa la voce herpes nel brano che segue: XXX, 39 Herpes quoque animal a Graecis vocatur, quo praecipue sanantur quaecumque serpunt (Erpes è pure chiamato dai Greci un animale col quale soprattutto si sanano tutte le malattie che serpeggiano): l’animale in questione è  preceduto nel brano dal nome di altri animali (cosses=tarli e terreni=lombrichi) qualificati come vermium genera (specie di vermi), dalle coclearum terrena (lumache di terra) e seguito dal draco (specie di serpente, spesso tenuto come animale domestico). Tutti gli animali citati sono accomunati, in ordine crescente si dimensioni, dall’idea dello strisciare e il misterioso herpes appare come una cosa di mezzo tra un verme (cosses) ed un serpente (draco).  A proposito del serpente, poi, va detto che è abbastanza frequente nel mondo classico la doppia valenza sacrale  favorevole o nefasta dello stesso animale e questa ambiguità verrà ereditata dal mondo cristiano trovando amplissima testimonianza nei bestiari medioevali.

Da William James Erasmus Wilson, Portraits of diseases of the skin, Churcill, Londra, 1855

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/09/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-2-3-gnuricamientu-nfucamientu-tii-facce/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/15/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-3-3-occa-arduta-uecchiu-ti-pesce/

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1 Laddove sono citati il Rohlfs e il Garrisi, le relative etimologie sono state riportate, rispettivamente, dal Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 e dal Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990; in assenza di indicazione la proposta etimologica  e l’eventuale trafila è da intendersi autonoma.

2 Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 531: “FOCA 2 pro Focus. Vide in Camba 3” (Foca 2 per Focus. Vedi in Camba 3). A Camba 3 (op. cit. , pag.39):”Brassiatorum officina, seu locus ubi cerevisia coquitur et conficitur, qui vulgo Brasseriam vel Braxatoriam nuncupamus” [(Laboratorio di birrai o luogo dove si cuoce e prepara la birra, che popolarmente chiamiamo Birreria o Birratoria (chiedo scusa per Birratoria,  espediente per superare l’intraducibilità di Braxatoriam dopo essermi giocato con Brasseriam Birreria Brasseriam)]. Non ci sarebbe da meravigliarsi se l’attuale significato della  voce neretina fosse stato mediato proprio dalla fabbricazione della birra ottenuta, come si sa, per fermentazione del malto e di altri cerali aromatizzati col luppolo, ingredienti che molto probabilmente erano ben noti nel nostro territorio.

 

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista

di Paolo Vincenti

Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017). Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bell’intervento di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”. Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus. Sucessivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.

Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico. Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere altrimenti, essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra. Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese.

Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), nel maggio 1997.

Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente. Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto.

Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del territorio, Supersano e il basso Salento. Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano.

I contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città.

Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline. Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio. Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale.

Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude.

Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.

Lorenzo Scupoli (1530-1610) di Otranto e il suo best seller senza tempo

di Armando Polito

Strano mondo il nostro, che si è inventato il disco d’oro per i cantanti che vendono 25.000 copie, di platino per chi ne vende 50.000 e di diamante per chi raggiunge le 500.000. Come se non bastasse il disco, d’oro c’è pure il pallone e, per chiudere adeguatamente, pure la pensione che in moltissimi casi è il riconoscimento di un impegno politico diretto (a rappresentare il più delle volte interessi personali o di consorteria) o indiretto, cioè legato a funzioni o cariche rivestite su designazione politica. Nessun libro, nemmeno di cartone, invece, per i letterati che abbiano venduto un certo numero di copie, anche se il successo di vendita, come succede pure con i prodotti alimentari  o con quelli igienici, non è necessariamente prova di qualità. A dire il vero esiste il Libro d’oro della nobiltà italiana, sul quale, per non perdere tempo, evito di fare riflessioni più o meno in linea con quelle già fatte per le pensioni d’oro.

Ad ogni modo, se esistesse un libro d’oro come lo intendo io, da tale onorificenza non andrebbe escluso Lorenzo Scupoli, degno di fare compagnia agli autori classici che, anche per le stampe e le ristampe, possono essere considerati senza tempo.

Il libro d’oro in questione sarebbe il suo Il combattimento spirituale, opera di edificazione in cui addita gli strumenti per raggiungere la perfezione interiore. Pensando ai nostri tempi così proni all’immagine e alle apparenze c’è da chiedersi quale successo ancor più grande avrebbe riscosso quest’opera se l’autore vi avesse inserito qualche suggerimento per apparire più belli esteriormente …

E, a proposito d’immagine, ecco le poche testimonianze iconografiche che son riuscito a trovare del nostro.

La più datata è una tavola presente in un’edizione de Il combattimento spirituale uscita per i tipi della Stamperia Reale a Parigi nel 1660 con dedica a papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi, già vescovo di Nardò. Prima della tavola presento il frontespizio.

 

Nel dettaglio in basso a sinistra l nomi del disegnatore e dell’incisore:

N. Loyre delin(eavit) Aig(idius) Rousselet sculp(sit) [N. Loyre disegnò, Egidio Rousselet incise]

Il Rousselet era nato a Parigi nel  1614 e vi morì nel 1686. Non è dato sapere a quali fonti il disegnatore si ispirò per il dettaglio del volto del nostro che di seguito riproduco ingrandito.

SI direbbe che ad esso si rifacciano i successivi ritratti.1

Il primo è a corredo della biografia dello Scupoli a firma di di Domenico De Angelis nel suo  Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, 1713, v. II, pp. 7-18.

Laurentio Scupulo Hydruntino Congr(egationis) ge(neralis) Cleric(o) Regular(i)/Dominicus de Angelis D(ONO) d(EDIT) d(edicavit) [A Lorenzo Scupoli chierico regolare della Congregazione generale Domenico De Angelisin dono diede (e) dedicò]

Il secondo è a corredo di Certamen spirituale (traduzione in latino de Il combattimento spirituale), Rieger, Augusta, 1781

Vera Effigies Venerabilis P(atris) Laurentii Scupuli/Hydruntini Clerici Regularis, qui obiit Neapoli/A(nn)o MDCX [Vera immagine del venerabile padre Lorenzo Scupoli chierico regolare di Otranto, che morì a Napoli nell’anno 1610]

Nel margine inferiore a sinistra Gottfrid Eichler delineavit (disegnò Goffredo Eichler)

e a destra Tobias Lobeck sculp(sit) [Tobia Lobeck incise]

La famiglia Eichler, tedesca, annoverò parecchie generazioni di pittori. Quello della tavola dovrebbe essere Matteo Goffredo (1748-1809 in Pietro Zane, Enciclopedia mertodica critico-ragionata delle belle arti, parte I, v, VIII, Tipografia ducale, Parma, 1821). Nella citata enciclopedia (parte I, v. XII, Tipografia ducale, Parma, 1822) Tobia Lobeck è riportato come attivo nel 1744.

Il terzo è a corredo della biografia del nostro a firma di A. Mazzarella da Cerreto in Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, Gervasi, tomo V, Napoli, 1818.

 

Non mi rimane a questo punto, a dimostrazione dell’assunto iniziale, che riportare le varie edizioni distinte per secolo, comprese le numerose traduzioni (evidenziate con sottolineatura) in latino(, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, inglese e lituano, che attestano lo spessore internazionale dell’opera.

XVI

Gioliti, Venezia, 1589, 1591 e 1593

Ventura, Bergamo, 1593

  1. n., Venezia, 1594

Zanni, Cremona, 1594

Facciotto, Roma, 1594

Sermantelli, Firenze, 1596

Brea, Messina,1598

Sermartelli, Firenze, 1598

Muzio, Roma, 1598

Gioliti, Venezia, 1599

Bordone-Locarno, Milano, 1599

 

XVII

Sermartelli, Firenze, 1600

Belpiero, Cremona, 1603

Longo, Napoli, 1605

Giunti e Ciotti, Venezia, 1609

Stamperia reale, Parigi, 1609 e 1660

Lefuel, Parigi, 1610 (Le combat spirituel)

Gargano-Nucci, Napoli, 1610

Orlandi & Decio Cirillo, Palermo, 1615

Cochi, Bologna, 1607e  1615

Ciotti, Venezia, 1617

Belleri, Douai, 1625 (Pugna spiritualis, Tractatus vere’ aureus: de perfectione vitae christianae, traduzione in latino di Lorich Josocus). Questa traduzione in latino fu ristampata da Martin a Parigi nel 1662.

Combi, Venezia, 1634

Tesor del Monte, Colonia, 1642

De Rossi, Verona, 1652

Costantini, Venezia-Perugia, 1656-1657

Mascardi, Roma, 1657

Le Petit.Parigi, 1657 (Le combat spirituel, traduzione in francese)

Guillaume de Luyne, Parigi, 1658 (Le combat spirituel, traduzione in francese)

Marcher, Parigi, 1658 (dedicato ad Alessandro VII)  traduzione in francese di Olimpo Masotti seguita, pagina per pagina, dal testo  quello originale in italiano)

Stamperia reale, Parigi, 1660

Martin, Parigi, 1662 (Pugna spiritualis. Tractatus vere aureus de perfectione, vitae Christianae, traduzione in latino di Lorich Jodocus. Questa traduzione in latino era stata già stampata da Belleri a Douai nel 1625.  

Stamperia reale, Parigi 1663

Strauber, Vagnon, 1663 e 1667 (Certamen spirituale, traduzione in latino di Carlo Antonio Meazza)

Pezzana, Venezia, 1664

Ignatio de’ Lazari, Roma, 1664-1665

Pezzana, Venezia, 1671

Miloco, Venezia, 1675

Bertier, Parigi, 1676 (Le combat spirituel, traduzopne in francese)

Costa, Lisbona, , 1677 (Combat spiritual, traduzione in spagnolo di Camillo Sanseverino)

Carteron, Lione, 1680, 1681 e 1688 (Le combat spirituel. traduzione in francesae si Olimpo Masotti)

Curti, Venezia, 1681

Tizzoni, Roma, 1682

Vannacci, Roma, 1684-1685

Carteron, Lione, , 1689 (Le combat spirituel, traduzione in francese  di Olimpio Masotti)

Longhi, Bologna, 1694

Noethen, Comia, 1692 (Certamen spirituale, traduzione in latino di Cralo Antonio Meazza)

Pezzana, Venezia, 1695

Villette, Parigi, 1696 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Alexis Du Buc)

Besson, Lione, 1696 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)

Uannacci,Roma, 1698

Osmont, Parigi, 1698 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Alexis du Buc)

 

XVIII

De Rossi, Roma, 1700

Rossetti, Parma, 1701

Louisa, Venezia, 1703

Pezzana, Venezia, 1703 e 1718

Noethen, Colonia, 1707 (Certamen spirituale, traduzione d Carlo Antonio Meazza)i

Marelli, Milano, 1710

Sibert, Lione, 1711 (Le combat spirituel, traduzione in francese di  di Alexis du Buc)

Eredi Perri, 1713, Roma

Louisa, Ceneda, 1713

Pezzana, Venezia, 1714 e 1722

Schilgen, Vienna, 1722 (Combate espiritual, traduzione in spagnolo di Damian Gonzalez del Cueto)

Comino, Padova, 1724

Salvioni, Roma, 1725

Pezzana, Venezia, 1728

Pezzana, Venezia, 1735

Zempel, Roma, 1736

Comino, Padova, 1737

Pisarri, Bologna, 1739

Salvioni, Roma, 1740

Pezzana, Venezia, 1741

Eredi del Ferri, Roma,1742

Accademia reale, Lisbona (Combate espiritual. traduzione in portoghese di Thomas Begueman)

Remondini, Bassano, 1745, 1746, 1751 , 1763 e 1770

Tevernini, Venezia, 1747 e 1756

Pezzana, Venezia, 1748

Marelli, Milano, 1749

Comino, Padova, 1724

Borsi, Parma, 1756

Ponzone,Torino, 1757

Pezzana, Venezia, 1741 e 1761

Roselli, Napoli, 1759

Occhi, Venezia, 1748 e 1761

Ricca, Torino, 1765

Cstellano-Manfredi, Napoli, 1765

De Trattner, Vienna, 1765 (Le combat spirituel, traduzione in francese diJean Brignon)

Barbiellini, Roma, 1769

Remondini, Venezia, 1770

Pezzana, Venezia, 1773, 1775 e 1776

Brocas, Parigi, 1774 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean Brignon)

  1. G. Le Mercier, Parigi, 1775 (Le combat spirituel, traduzione di Jean Brignon)

Floteront, Nizza, 1776

Peyrasso e Scotto, Pinerolo, 1779

Rieger, Augusta, 1781 (Certamen spirituale, traduzione in latino)

Davico, Torino, 1785

Gatti, Venezia, 1789

Irlandelli, Venezia, 1795

 

XIX

 Haydock, Manchester, 1801 (The spiritual combat, traduzione in inglese)

Pezzana, Venezia, 1807

Rusand, Lione, 1808 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)

Destefanis, Milano, 1814

Molinari, Venezia, 1816

Eymery, Parigi, 1818 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon

Pickering & C., Dublino, 1818 (The combact spiritual, traduzione in inglese)

Boget, Lione, 1820 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)

  1. n., Parigi, 1820 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)

Petit, Besançon, 1820 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)

Molinari, Venezia, 1824

Giordano, Napoli, 1825

Montarsolo, Besançon, 1829 (Le combat spirituel, traduzione in francese di di Jean. Brignon

Molinari, Venezia, 1830

Pogliani, Milano, 1830

Dozio, Milano, 1830-1831

Marietti, Milano, 1832

Marietti, Torino, 1833, 1868, 1870, 1880, 1884 e 1890

Fratelli Perisse Parigi, 1835 e 1868 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean  Brignon)

Marietti, Trento, 1835 e 1836

Rousseau, Gand, 1836 (Le combat spirituel, traduzione in francese)

Borel e Bompard, Napoli, 1837

Salviucci, Roma, 1837

  1. n., Napoli, 1837

Stamperia fiiantropica, Napoli, 1837 e 1844

Grazzini, Firenze, 1840

Pirotta, Milano, 1840

Pélagaud e Lesne, Lione. 1840 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean Brignon)

Marietti, Torino, 1843, 1868, 1870 e 1890

Richardson and son, Derby, 1843 (The spiritual combat, traduzione in inglese)

Gilberti, Brescia, 1844

Burns, Lonfra, 1846 (The spiritual combat, traduzione in inglese)

Eredi Botta, Torino, 1851

Gilberti, Brescia, 1851

Festa, Napoli, 1852

Argenio, Napoli, 1853

Oliva, Milano, 1857

Battezzati-Frisiani, Milano, 1857

Frizierio, Verona, 1859

Lyon ; Paris : Perisse freres, 1856 e Mame, Tours,  1857 (Le combat spirituel, traduzione in ftsncese di Jean Brignon)

Le Clere, Parigi, 1860 (Le combat spirituel, traduzione in francese)

Dessain, Mechliniae, 1862 (Pugna spiritualis, traduzione in latino di Olimpio Masotti)

Rossi-Romano, Torino, 1865

Cramoisy, Parigi, 1666 (Combate espirituale, traduzione in spagnolo di Camillo Sanseberino)

Bertola, Piacenza, 1875

Rivingtons, Londra, 1876 (The spiritual combat, traduzione in inglese)

Mame e figli, Tours, 1880 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean Brignon)

Roma, S.C. di Prop. Fide, 1881

Guigoni, Milano, 1886

Calleja, Madrid, 1899 (Combate espiritual, traduzione in spagnolo di Damian Gonzalez Cueto9

 

XX

Marietti, Torino, 1900

Marietti, Torino, 1904

Ghirlanda, Milano, 1906

Kavas, 1908 (Dvasiškoji kova, traduzione in lituano di Antanas Šmulkštys)

Madella, Sesto S. Giovanni, 1912

Marietti. Roma-Torino, 1909, 1916, 1920, 1926 e 1932

Pia società San Paolo,Alba, 1927 e 1930

Pia società San Paolo, Messina, 1935

Roma, Pia Società San Paolo, 1939

S.E.I., Torino, 1941

Marietti, Torino, 1944 e 1948

S.A.S., s. l., 1943

The Newman Press, Usa, 1950 (The spiritual combat, traduzione in inglese)

Edizioni Paoline, Pescara, 1960

Bertoncello, Cittadella, 1974

Mowbrays, Londra-Oxford, 1978 (The spiritual combat, traduzione in inglese di E. Kadloubovsky e G. E. H. Palmer )

Rusconi, Milano, 1985

Edizioni Paoline, Torino, 1992

San Pablo, Madris, 1996 (Combate espiritual, traduzione in spagnolo di Jpsé A.Pérez Sanchez)

Banca Antoniana popolare veneta, Padova, 1997

 

XXI

San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994, 2000 e 2005

Ignatius Press, Spiritual combat revisited, San Francisco, 2003

Amicizia cristiana, Chieti, 2007

San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013 e 2015

Scriptoria Books, s. l., 2014 (The spiritual combat, traduzione in inglese)

Le vie della cristianità, EPUB, 2016

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1 In rete ne sono sono reperibili numerosi, purtroppo senza indicazione della fonte. Il più curioso, comunque, rimane quello utiilizzato per la celebrazione del quarto centenario della morte (di seguito lo riproduco da http://www.musicaimmagine.it/lorenzo_scupoli_interna.php?id=1), chiaramente derivato dalla tavola dell’edizione parigina del 1660, con aggiunta della berretta.

 

Nardò. Ultimazione lavori nella chiesa di Santa Teresa

Lunedì 29 ottobre 2018, alle ore 18, nella chiesa di Santa Teresa (Corso Garibaldi) S. E. Mons. Fernando Filograna celebrerà la S. Messa in ringraziamento per l’ultimazione dei lavori di rifacimento dell’impianto elettrico.

Concelebreranno il padre spirituale Mons. Giuliano Santantonio, Don Tommaso Tamborrini e Don Giuseppe Casciaro, già padri spirituali della Confraternita del SS.mo Sacramento. Durante la celebrazione saranno eseguiti canti del coro della Cattedrale di Nardò, diretto da Anna Laterza.

Ricostruzione del palazzo Sambiasi, del monastero e della chiesa di Santa Teresa

 

Dopo la S. Messa, alle ore 19 circa, seguirà “Serata barocca”, un momento musicale offerto dall’Associazione “Seraphicus”.

I canti e le musiche di J.S. Bach, P. Nenna saranno eseguite da:

– Davide Poggiolini, basso; – Emanuele Balsamo, tenore; – Bianca Scategni, contralto; – Federica Scevola, contralto; – Annalaura Cazzato, soprano

– Chiara Rucco, flauto; – Tommaso Reho, pianoforte

 

Martedì 30 ottobre, ore 20.00, nella stessa chiesa di Santa Teresa, la Confraternita del SS.mo Sacramento e l’Associazione Seraphicus invitano al concerto

                                                     Armonie del ‘900

Musiche di Debussy, Granados, Ibert, Rachmaninov

Emanuele Balsamo, Christian Greco, Giorgio Manni, Sara Metafune – pianoforte

Daniele Zazzaro, chitarra; Andrea Carrozzo, sax

Ingresso libero

 

Per le notizie sulla chiesa leggi qui:

Giornate FAI di Primavera. Nardò e la chiesa di Santa Teresa

Dialetti salentini: pisùlu

di Armando Polito

Dopo pèsule, di cui mi sono recentemente occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/10/18/dialetti-salentini-pesule/, era fatale dedicare l’attenzione a pisùlu, perché si tratta di voce completamente di versa, non solo per l’accento che dovrebbe subito mettere in guardia.

Pisùlu è un paracarro in pietra viva collocato in coppia ai due lati di un portone o, da solo, all’angolo di una via. Oggi a Nardò, quando non siano stati eliminati o sostituiti da altri moderni di forma diversa, degli originali sopravvivono pochi esemplari nel centro storico.

Nardò, via De Pandi

Nardò, corso Giuseppe Garibaldi

Nel Presicce la voce è assente.

Nel Rholfs:

Nel Garrisi:

Indipendentemente dal fatto che convenzionalmente quando non vi è accento la parola deve intendersi piana, qui pesùlu non ha nulla a che fare, come mostra chiaramente la stessa definizione, col vocabolo oggi sotto esame. La variante neretina è pisùlu, ma è quella di Galatina (pezùlu) che consente di raffrontarlo con il neogreco πεζούλι (leggi pizùli) che significa blocco di pietra e a Creta indica un basso muro posto davanti alla casa. La voce neogreca è connessa con la classica πέζα (leggi peza) della quale appare come un diminutivo: πέζα che può significare, caviglia, sbarra di timone, orlo, sponda, a sua volta, è connessa con πούς (leggi pus), genitivo ποδός (leggi podòs), che significa piede. Per questo e ancor più per quanto dirò appare totalmente errato l’etimo proposto per questa voce dal Garrisi, anche perché pessulus significa catenaccio e da questo significato dev’essere partito per inventarsi il posto a difesa. Non rimprovero nulla. Nel campo dell’etimologia in particolare ritengo doveroso usare spesso il punto interrogativo, l’avverbio probabilmente e il modo condizionale. Il Garrisi sembra ignorarli non solo in questo lemma ma in tutto il suo dizionario. Essendo molto curioso, però, mi son chiesto, dopo aver individuato il padre di posto a difesa nel significato di catenaccio che pèssulus (la penultima sillaba è breve, quindi va pronunciato in base all’accento che ho appena finito di aggiungere; su questo tornerò a breve) ha in Terenzio1 (II secolo a. C.).

Nel latino medioevale (Glossario del Du Cange):

(1 PESSULUM, Come sopra peslum per gli abitanti di Grenoble volgarmente lou peslou, copertura appesa alla casa, qualsiasi piccola costruzione al di fuori di un muro, sporgente sulla via. Sentenza di Giovanni arcivescovo di Vienna anno 1228 tomo I Storia del delfinato pag. 142: Vogliamo e ordiniamo, tenuto il consiglio dei sapienti, che tutte le costruzioni che sono ed erano al di fuori dei muri presso il santo romano e nelle cappelle e nei posti di cambio sono sotto la giurisdizione del detto baiulo e dei suoi successori in perpetuo. Vedi pestillum e pessile.

2 PESSULUM per pessulus. Glossario latino-francese dal codice regio 7692. pessulum, chiavistello. Vedi sopra clingere 1).

Da notare come il Du Cange ha riportato pessulum in due lemmi distinti, il che significa che non attribuiva loro lo stesso etimo.

Prima di continuare riporto le voci citate nei pezzi precedenti, ad eccezione di Pestillum, per il quale vedi la nota n. 2.

(PESLUM.Archivio di Vendôme anno 1076 carta 321: Ascelino Cotardo ha mantenuto una casa quasi appendice (che volgarmente chiamano peslum, al muro della chiesa, dove riponga i suoi viveri e il vino che ivi abbia messo insieme. [vedi pessulum]).

Rimprovero al Du Cange il rinvio generico a pessulum quando sarebbe stato opportuno essere meno vaghi e rimandare a PESSULUM 1. Alla luce di quanto finora argomentato giungerei alle seguenti conclusioni:

1) Pessulum2 si legge pèssulum, come il pèssulus plautino (del quale lo stesso Du Cange sostiene essere variante di genere maschile).

2) pessulum1 si legge pessùlum, non ha nulla da spartire, etimologicamente parlando, con pessulum2 ed è probabilmente la trascrizione della voce  neogreca prima citata.

(PESSILE o PESSILIS sembra lo stesso che Pessulum ln Gregorio di Turon libro VIII della storia colonna 391: I parenti insieme si avventano contro questi (Guerpino) e lo uccidono dopo averlo circondato nella casa pensile. Questa variante [pessilem] preferisce l’ultima edizione dal codice manoscritto Colbert. Altre leggevano pensilem domum o pensilem domus. Vedi domus pensilis)

(DOMUS PENSILIS Eucherio di Lione nell’episola aò prete Filone: Questo tuttavia chiedo dallo stesso nostro fratello. che apprestasse per noi la casa pensile che gli ordinammo fosse fatta e le lastre. Columella libro 12 disse magazzino pensile un deposito alto e sollevato. Caneram pendente  [camera sospesa] disse Sidonio libro 2 epistola 2. Κρεμάστους περιβόλους [muri sospesi] Palladio in S. Crisostomo cap. 13. Κρέμαστον κῆπον [Manuel Chrysoloras in giardino pensile] in una lettera pubblicata dopo le Origini di Costantiniopoli di Cosino p. 127. Pensiles horti [giardini pensili] aun tempo memorabili a Tebe egizia. In verità domos pensiles [case sospese] chiamò quelle che sono state costruite sui ponti chiamò l’autore della vita di S. Leobino vescovo di Chartres n. 15 su Parigi: Il fuoco cominciò a bruciare le case sospese che erano stete costruite sul ponte)

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1 Heautontimorumenos, atto II, scena ii: Anus foribus obdit pessulum, ad lanam redIt (La vecchia mette il catenaccio alla porta, ritorna a lavorare la lana).

2

(PESTILLUM, per pistillum, strumento col quale si fa a pezzi, si sminuzza qualcosa; pestello per gli italiani, pestle per gli inglesi, Glossario greco-latino: ἀλετρίβανος, pestillum alias pestillus, col quale viene sminuzzato il sale; cylindrus per Senatore libro 12 epistola 24: Nel condurre le saline poi il compito è: invece degli aratri, invece delle falci usate i cilindri. Viene inteso anche come palo di legno: glossario latino-francese: pilus, poil o pestoil. Pilus è quello chesminuzza; pilus è il  capello in fronte. Parimenti: Pistillu, pesteil. Glossario arabo-latino: pessulum, pestum, pestilum. Giovanni di Hocsem in Enrico di Gueldre vescovo Liegi. cap. III: Avendo offeso per venire in soccorso del suo maestro un laico col colpo di un psetello, che è uno di quei bastoni proibiti nella legge di Lione. La storia di Garin: Davanti a lui in guardia vide stare un pestello, col quale soleva punire chi gli era dgradito, etc. [Il romanzo della rosa manoscritto: E vide gelosia che veniva tenendo nella sua mano un pestello. Cronaca di Bertrando del Guesclin manoscritto: L’uno tiene un palo, l’altro una forca aguzza di lance, di pali dei quali qualcuno ricurvo. Altrove: L’uno porta un pestello, l’altro un mortaio.

PESTALLUM Con lo stesso significato. Archivio di Compiègne; Due mortai con i loro pestelli. Pestail in Lettere di condono anno 1390 registro regio carta 174: Tanto s’accrebbe il dibattito che Ingrant prese un pestello e un manico di marra.

PESTELLUM In inventario anno 1342, dall’archivio di S. Vittore di Marsiglia: Un mortaio e un pestello).

Ho relegato in nota PESTILLUM e connessi perché deverbali da pistare (da cui l’italiano pestare). frequentativo di pìnsere=pigiare e quindi non aventi nulla in comune con gli altri del Du Cange, che sono tutti deverbali da pèndere=pesare,. a sua volta connesso con pendère=pendere.

Dialetti salentini: pèsule

di Armando Polito

Pèsule è la variante di Nardò e tutto ciò che dirò vale anche per quella di Lecce (pìsuli) e di Scorrano (pìsule).

Pèsule nell’uso ricorre raddoppiata nella locuzione pèsule pèsule in frasi del tipo pigghiamu stu saccu pèsule pèsule (prendiamo questo sacco sollevandolo di peso). Nonostante l’azione comporti l’uso della forza, la locuzione contiene quasi ula raccomandazione di farlo con circospezione, direi con delicatezza che non esclude la rapidità d’esecuzione, impressione intensificata dalla parola sdrucciola.   Si tratta, come vedremo, di un aggettivo con funzione avverbiale, com’è successo all’italiano piano, soprattutto nella locuzione piano piano. La voce nel Rholfs1 è presente nel lemma pìsuli:

Apparentemente non c’è proposta etimologica, ma, tenendo conto del fatto che ciò avviene abitualmente quando uno dei sinonimi usato nella definizione è il perfetto corrispondente italiano, va considerato il pèsolo più volte ricorrente, anche se non collocato in prima posizione, come, invece, mi sarei aspettato. Pèsolo è voce ormai obsoleta dal latino pènsile(m), su cui a breve tornerò.

Nel Garrisi2:

Non ho mai incontrato in nessuno dei dizionari consultati nella mia vita il ricorso massiccio al fenomeno dell’incrocio come avviene in questo del Garrisi, in cui, fra l’altro non trovano ospitalità il punto interrogativo, né l’asterisco (segno distintivo delle voci ricostruite), né gli avverbi forse o probabilmente, né, per i verbi, il modo condizionale.

Rilevo anzitutto che pisum in latino significa pisello ed è la trascrizione del greco πἱσον (leggi pison) con lo stesso significato. Lascio al lettore giudicare quale rapporto potrebbe esserci tra il pisello e pìsuli. Nelle intenzioni del Garrisi, però, pisum dovrebbe essere voce latina volgare invece del classico pensum; perciò un bell’asterisco avrebbe dovuto precedere sia pisum che il suo diminutivo pisulum.

Si salva, invece, la voce latina pensilis=pensile, pendente, sospeso (deverbale da pèndere3=pesare), dal cui accusativo pensile(m) deriva il nostro pèsule; la perdita di n è dovuta ad incrocio, questa volta sì, con l’italiano peso (che è da pensum, a sua volta da pèndere3).

 Nel Presicce4:

Il pisu proposto dal Presicce (come l’italiano peso dal già ricordato pensum anch’esso deverbale dal citato pèndère) suppone, come già nel Garrisi,  un diminutivo *pìsulu(m)=piccolo peso, che non appare congruente dal punto di vista semantico e nemmeno fonetico, perché ci saremmo aspettato pìsulu (come l’italiano pèsolo) e non pìsule, la cui terminazione, invece, è perfettamente giustificata da pènsile(m).

Spero di essere riuscito a rappresentare efficacemente quanto fin qui detto nel diagramma che segue.

 

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1 Gerard Rholfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 AntonioGarrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990.

3 Pèndere (terza coniugazione) ha il suo gemello, difettivo di alcune forme e che segue la seconda coniugazione, in pendère=pendere.

4 Giuseppe Presicce, Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/a_1.html)

5 Nei mulini, per lo scorrimento dell’acqua. In dialetto neretino il dislivello è detto, con vocabolo derivante sempre dalla radice di  pèndere/pendère, pindìnu.

Giovanni Vincenzo Piccino, sacerdote e poeta leccese del XVII secolo

di Armando Polito

Nell’immagine, tratta ed adattata da Google Maps, ho segnato con la freccia nera l’inizio di via G. Piccini a Lecce. Scorrendo la via dall’inizio alla fine e viceversa ho rilevato la totale inesistenza di qualsiasi tabella viaria, tanto meno con sommaria indicazione (magari il  solo secolo) relativa al personaggio al quale questa via è intitolata. Mi riterrò ampiamente ripagato del tempo dedicato a questo post non da qualche lode, diarroica o stitica che sia, ma, oltre che da fondate osservazioni critiche,  dalla conferma che il G. Piccini della via è proprio il nostro Giovanni Vincenzo Piccino. Io ho solo il sospetto che le cose stiano così e ne dirò le ragioni alla fine (così chi è interessato dovrà leggere il tutto per capirci qualcosa …). Probabilmente essendo la via in questione periferica, il nome le sarà stato assegnato in epoca più o meno relativamente recente, attingendo alla riserva di cittadini leccesi del passato, illustri sì, ma non tanto da aver meritato o da meritare l’sssegnazione di una via più centrale. Se esiste un registro dei verbali della commissione preposta alla toponomastica, un controllo in quelli dell’ultimo cinquantennio potrebbe diradare la nebbia.

Ma ora è tempo di entrare nel cuore dell’argomento.. Confesso che, se non fosse stato per la segnalazione fattami da Fabio Ria nel suo commento ad un mio post di qualche giorno fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/09/26/dialetti-salentini-spurdacchiamientu/#comment-128428), del poeta appena nominato nel titolo avrei continuato ad ignorarne l’esistenza. Domenico De Angelis nel Catalogo degli Autori che si conterranno nella Prima Parte dell’Istoria de’ Scrittori Salentini posto in coda alla prima parte del suo Le vite de’ letterati salentini, Firenze, s. n., 1710 registra per Lecce Giovanni Vincenzo Piccinno. Si tratta senz’altro del nostro, il cui cognome, come vedremo, compare nel frontespizio di una sua opera nella forma Piccini. L’opera annunziata dal De Angelis non uscì e, quindi, non sapremo mai se in essa avrebbe incluso anche le notizie biografiche che, ammesso che ne avesse, già dovevano essere scarne, visto che ne Le vite … quella del Piccino non compare.

Di lui non fa menzione neppure Giovanni Bernardino Tafuri in Storia degli scrittori nati nel regno di Napoli uscita a Napoli in vari volumi per editori diversi dal 1744 al 1770. Risulta assente pure nella raccolta curata da Domenico Martuscelli Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli uscita in diversi volumi per i tipi di Nicola Gervasi a Napoli dal 1814 al 1822.

Ecco, invece, la scheda a lui relativa come appare in Nicolò Toppi, Biblioteca napoletana, Buliifon, Napoli, 1678, p. 171.

Quella registrata dal Toppi (1607-1681) è la prima pubblicazione del nostro e non c’è da meravigliarsi, con gli strumenti all’epoca disponibili, che manchino le successive. A me, invece, sfruttando la rete, è consentito oggi non solo di citarle ma di riportarne pure i frontespizi (ad eccezione di una risultata irreperibile). SI tratta di libri molto rari, come dimostra l’esiguo numero di esemplari custoditi in pochissime biblioteche. Procederò in ordine cronologico e, opera per opera, mi soffermerò sulle eventuali informazioni interne utili per la ricostruzione di qualche dettaglio biografico.

1)  Ghirlanda di dodici rosari, Baglioni, Venezia, 1609 (due soli esemplari custoditi l’uno, mutilo, nella Biblioteca comunale Fratelli Carnacini a Roncofreddo (FC), l’altro nella Biblioteca Universitaria Alessandrina a Roma.

All’nizio vi è la dedica All’illustrissima Signora la Signora Donna Caterina Acquaviva d’Aragona Contessa di Conversano e Duchessa delle Noci1. All’inizio uno dei pochissimi dettagli biografici: La servitù, e l’obbligo che ‘l Signor Massentio mio fratello tiene con Vostra Signoria Illustrissima m’han più volte sospinto … Scrissi io questi Rosari per mio essercitio mio, e delle Religiose dell’ordine di San Francesco, che nel Monasterio di S. Matteo della mia patria santamente vivono, essendo parecchi anni stato loro Padre spirituale.  In calce: Di Lecce. Il dì che la Vergine Maria andò à visitare Elisabetta. 1608.

Il fratello Massenzio potrebbe essere individuato in quel Massenzio Piccinno (ancora per Piccino?) medico leccese di cui parla il De Angelis in Le vite …, op. cit. p. 222 nella biografia di Epifanio Ferdinando di Mesagne, che era uno dei più famosi medici del regno del XVII secolo

La cronologia non si oppone a ritenere che sia lo stesso personaggio designato da Cesare Prato nel suo testamento2, redatto il 6 aprile 1632 ed aperto dopo la morte dal notaio Giovanni Domenico Salviati il 22 giugno 1635, in cui nominava erede universale l’Ospedale dello Spirito Santo di Lecce e affidava l’amministrazione dell’eredità ad un collegio composto da Leonardo e Giovanni Filippo Prato, Pomponio Guarino, Nicolò Bello, Cesare De Leone, Carlo Lisgara e Massenzio Piccinno. Quest’ultimo compare già come amministratore dell’ospedale e col titolo di artis medicinae doctor in un altro atto del 2 maggio 1596.3  Ad integrazione della testimonianza del De Angelis va ricordato il primo dei titoli (di seguito li riporto tutti) di una miscellanea che Massenzio Piccino pubblicò per i tipi di Longhi a Napoli nel 1628:  Antithesis veteris, et recentis medicinae, seu de usu medicamenti expurgantis in febribus. Ejusdem apologia pro Iacobo Bonauentura Clementis VII pontificis  maximi medico Adversus Marium Zuccarum medicum neapolitanum. De victu Parthenopeo (Contrasto tra la vecchia e la recente medicina o sull’uso di medicamento purgativo nelle febbri. Difesa dello stesso a favore di Iacopo Bonaventura medico del pontefice massimo Clemente VII contro Mario Zuccaro medico napoletano. Il vitto partenopeo). Come autore di questo testo è riportato Massenzio Piccino in Salvatore De Renzi, Storia della medicina un Italia, Tipografia del Filiatre-Sebezio, Napoli, 1846, v. IV, p. 478.

A Massenzio Piccinni è intitolata a Lecce una via, anch’essa periferica, evidenziata dalla freccia nella foto che segue, anch’essa tratta ed adattata da Google Maps. A questo punto Piccinni va aggiunto come variante ai già visti Piccino e Piccinno.

Va rilevato che la Ghirlanda appare come la versione religiosa di un filone laico dal quale sembra aver mediato il titolo. Qualche esempio: Stefano Guazzi, Eredi di Girolamo Bartoli, Ghirlanda della Contessa Angela Bianca Beccaria contesta di Madrigali di diversi Autori, Genova, 1545; Domenico Carrega, La ghirlanda di Pallora, Deuchino, Venezia, 1613; Giovanni Rhò, Ghirlanda di eruditi fiori, Ferroni, Bologna, 1647; Tomasso Martinelli, Ghirlanda di Pindo, Monti, Bologna, 1664.

2) Sacro settenario della b. sempre vergine Maria madre di Dio, che contiene sette spirituali esercitij nelle sette festività, Erede di Damian Zenato, Venezia, 1619 (1 esemplare nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

Purtroppo di questo libro in rete c’è solo la digitalizzazione del frontespizio e della pagina iniziale del testo vero e proprio. La lettura della dedica, che sicuramente c’è, avrebbe consentito, forse di assumere qualche altra notizia. Sfruttando il solo frontespizio e tenendo nel dovuto conto le omonimie sempre in agguato, la dedicataria potrebbe essere quell’Aurelia Marescalla di Arnesano che redasse il suo testamento nel 1662, secondo quanto si legge in Gino Giovanni Chirizzi, Arnesano: Vita religiosa e vita popolare di una comunità meridionale (secc. XVI-XX), Congedo, Galatina, 1881, p. 41. Ricordo che i Marescallo (per Marescalla vale quanto si dirà più avanti per Piccina) di Lecce acquistarono il feudo di Arnesano nel 1613.

Anche questo testo si colloca in un collaudato filone per il quale è sufficiente citare Giovanni Paolo Eustachio, Sacro settenario raccolto dalle sante scritture, Carlino, Napoli, 1579 e Carlo Sezza, Settenarii sacri overo meditationi pie. Mascardi, Roma, 1666.

3) La Maddalena ravveduta, Ginammi, Venezia, 1624 (3 esemplari:  Biblioteca Estense Universitaria Modena; Biblioteca Nazionale Centrale, Roma; Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia)

Si tratta del titolo segnalatomi da Fabio Ria e dal quale tutto è partito. Il libro si apre con la consueta dedica all’Illustre Signora e Nipote amatissima, per cui abbiamo la certezza che si tratta di quell’Agnesa Piccina che compare nel frontespizio e che Piccina è un vezzoso adattamento nel genere (come precedentemente per Marescalla) dell’originario cognome, fenomeno ricorrente fino a poco tempo fa pure dalle nostre parti nella lingua popolare. A tal proposito vedi pure nel libro successivo Marescalla.La parte finale della dedica così recita: Priego Dio, che con occhio favorevole riguardi la sterilità di V. S. illustre, e faccia lieti d’un figliolo maschio lei, e ‘l Signor Giulio Cesare Vitale suo consorte; a cui bacio la mano. Di Lecce il dì d’Ogni Santi 1623. Di V. s. Illustre Carissimo Zio. Su Giulio Cesare Vitale tornerò al momento di presentare l’ultima pubblicazione del Piccino. Faccio presente che il tema trattato in quest’opera del Piccino risulta essere estremamente inflazionato, come mostrano i titoli che seguono e che sono solo parte di una serie sterminata: Paolo Silvio, La Maddalena penitente, Carlino & Vitale, Napoli, 1609; Felice Servidio, La Maddalena penitente, Zanobi Pignoni, Firenze, 1616; Benedetto Cinquanta, La Maddalena convertita, Como, Milano,1616; Giovanni Battista Andreini, La Maddalena, Antonio & Ludovico Ossanna: Mantova, 1617; Vincenzo Della Rena, La Maddalena pentita, Zeffi, Pisa, 1627; Giuseppe De Lauro, Madalena romita, Manelfi, Roma, 1645; Ignazio Cumbo, La Maddalena liberata, Baglioni, Venezia, 1673.

4) In Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata fino all’anno MDCCLV, Pasquali, Venezia, 1755, p. 601 è presente la seguente scheda.

A conferma dell’alternanza della forma Piccino/Piccini di cui ho detto all’inizio, ecco come lo stesso titolo appare in Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Agnelli, Milano, 1743, v.

Tuttavia va precisato che la più antica segnalazione di tale titolo è in Libri stampati da Marco Ginammi, che si trova, con chiara finalità pubblicitaria.  alla fine di il Ministro di Stato con il vero uso della politica moderna del Signor De Silhon trasportato dal francese per Mutio Ziccatta, Ginammi, Venezia, 1639. Da notare il dettaglio relativo al formato (8) contro quello dell’Allacci (4), probabilmente meno affidabile perché il libro contiene aggiunte successive all’Allacci e perché sembra strano che lo stesso editore abbia deciso di adottare due formati diversi per testi similari per contenuto. Il sospetto di errore diventa certezza perché nell’elenco di pubblicazioni dell’editore Ginammi in coda a La Maddalena ravveduta compare 8 e non 4.

Chi legge, non avendo visto la riproduzione del frontespizio, avrà già capito che l’unica opera irreperibile è proprio questa. Almeno un esemplare, però, sarà esistito fino al 1894, visti i riferimenti all’autore ed all’opera nonché la citazione di ampi brani brani in Costantino Nigra e Delfino Orsi, Rappresentazioni popolari in Piemonte. Il Natale in Canavese, L. Roux & C., Torino-Roma, 1894.

p. 28

pp. 44-45

p. 47

p. 69

p. 95

p. 103

. Come le precedenti anche quest’opera fa parte di un filone diffusissimo nel secolo XVII (due soli titoli tra i tanti: Giovanni Battista Calamai, Il parto della Vergine, Cecconcelli, Firenze, 1623; Marco Antonio Perillo, Il parto della Vergine, Roncagliolo, Napoli, 1624) e che ha il suo antesignano nel De partu Virginis di Jacopo Sannazzaro pubblicato nel 1526.

5) La mirra parte prima, Ginami, Venezia, s. d. (un solo esemplare ciascunai: Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini Lecce e Biblioteca Comunale di Massafra (1 esemplare).

 

Da notare nel frontespizio di entrambi i volumi Piccini per Piccino (ne ho già detto) e l’editore Ginami invece di Ginammi che compare nelle altre opere.

Il primo volume si apre, come anticipato nel frontespizio, con la dedica in versi (un sonetto) All’Eterna Maestà di Giesu Christo crocifisso; segue un avviso dell’editore (Lo stampatore a chi legge) particolarmente importante perché ci informa che avea già disegnato l’Autore di porre non senza intollerabile fatica in fronte di ciascun oensiero una sentenza latina della divina Scrittura, in modo tanto acconcio, che con molta vaghezza ne spiccava la rima in quella guisa, che fa la gemma incastrata in oro; ma non essendo piaciuto a superiori questo congiungimento di Scrittura in lingua latina, e di concerto spiegato in rima Toscana, e veggendo l’Autore che i pensieri venivano à perdere quella grazia, e leggiadria, che risultava da’ detti latini se fossero trasportati in lingua volgare, s’è risoluto di mortificarsi … Patienza…

Non sapremo mai se al trauma subito sia dovuto il fatto che del nostro autore non ci è rimasto nulla in latino, neppure un epigramma, nonostante in quei tempi costituisse quasi una moda diffusa tra i letterati.

All’avviso dell’editore, prima del testo vero e proprio, segue un componimento elogiativo di Giulio Cesare Vitale, avvocaro leccese che, come abbiamo detto, aveva sposato sua nipote Agnesa.4

Si tratta di una prassi normale per l’epoca, un po’ quello che oggi si chiama presentazione, questa in prosa, quella in versi (nel nostro caso in italiano, ma sovente in latino o, addirittura, in greco); anzi fa meraviglia che sia stato qui ospitato il solo Vitale, visto che in altri autori un buon numero delle pagine iniziali dell’opera sono riservate ad un numero talora cospicuo di “presentatori”. Non è detto che tutti conoscessero di persona l’autore, ma nel nostro caso ne abbiamo la certezza e, considerato il rapporto di parentela, sia pure acquisito, con l’autore l’elogio appare un fatto di famiglia, oltre che, direi in dialetto neretino, fattu  ‘ccasa (senza le caratteristiche positive cui tale etichetta allude …). Il Vitale, però, si sarebbe dovuto impegnare meglio per l’occasione, anche perché dà prova migliore (anche se non esaltante …) negli altri componimenti che di lui ci sono rimasti: tre sonetti sono in Varii componimenti volgari, e latini, in lode dell’illustre Signor Don Francesco Lanario et Aragona, hora Duca di Carpignano, Cavaliero ell’habito di Calatrava, e del Consiglio di Guerra di Sua Maestà Cattolica ne’ Stati di Fiandra, Governator Generale della Provintia di Terra d’Otranto, c on la potestà ad modum belli, raccolti da Giulio Cesare Grandi, Gentil’huomo di Lecce, Patritio, et Senator Romano, Cirillo, Palermo, 1621, pp. 38-39.

E ancora: in Eustachio D’Afflitto, Memorie degli scrittori del regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli,  1782 a p. 207 si legge che un suo epigramma si trova alla fine di Discorso intorno al Tancredi, Poema eroico del signor Ascanio Grandi, al molto illustre Signor Giovanni Filippo Prato, Lecce, per Pietro Micheli, 1634, opera del Giovanni Pietro D’Alessandro; peccato che essa risulta irreperibile. Probabilmente, però,date le precedenti prove poetiche non abbiamo perso granché per quanto riguarda il Vitale.

Chiudo motivando al dubbio iniziale di natura toponomastica: e se il Piccini che si legge in quest’ultimo frontespizio fosse quello della via con G. che sta per Giovanni e con l’omissione di Vincenzo?

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1 PIù avanti. … moglie dell’Illustrissimo Signor Duca Giulio Acquaviva d’Aragona …; Giulio Antonio (2° Duca di Noci, 19° Conte di Conversano, 11° Conte di San Flaviano e Conte di Castellana dal 1607) e Caterina (6° Duchessa di Nardò, figlia ed erede di Don Belisario II Acquaviva d’Aragona 5° Duca di Nardò e di Donna Porzia Pepe dei Duchi di Seclì) erano cugini. Il loro matrimonio avvenne nel 1598.  Lui morì nel 1623, lei nel 1636.

2 Congregazione di Carità di Lecce, O.P., Ospedale dello Spirito Santo, Actus aperturae testamenti inscriptis conditi per quondam R.dum D. Cesarem Prato, 22/06/1635-III, c. 1, b. 2, fasc. 18

3 Archivio di Stato di Lecce, atti notarili 46/9, notaio Paolo Schipa di Lecce, prot. del 08/06/1596-IX, Arrendamentum Sacri Hospitalis Spiritus Sancti litien., c. 108v.

4 Da Tommaso De Santis, Istoria del tumulto di Napoli in Raccolta di tutti i più rinomati Scrittori dell’Historia Generale del Regno di Napoli, tomo VII, Gravier, Napoli, 1769, la scheda nell’indice a p. 382 e il relativo rinvio a p. 104.

 

 

Da Francesco Gaudioso, Famiglia, proprietà e coscienza religiosa nel Mezzogiorno d’Italia: secoli XVI-XIX, Congedo, , Galatina, 2005, p. 129 apprendiamo che il suo testamento fu chiuso e sigillato il 19 marzo 1648 e aperto e pubblicato il 9 maggio 1656 dopo la morte avvenuta il 3 febbraio di quello stesso anno.

Brindisi: l’epigrafe del mercante e i suoi misteri

di Armando Polito

Per una volta tanto rinuncerò al consueto tono colloquiale e tratterò l’argomento per sezioni, nella speranza di essere il più esauriente e chiaro possibile nel minor tempo e nel minor spazio.

NOTIZIE STORICHE

Datata tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, risulta costituita da due parti rinvenute nel porto di Brindisi, La prima nel 1869, la seconda due anni dopo. È registrata in diverse raccolte (CIL, IX, 60; CLE,  1533 e AE, 2005, 161). Dato il luogo del ritrovamento, non è detto che la sua provenienza o la sua meta finale fosse proprio Brindisi, ma questo è un dettaglio sul quale tornerò alla fine. Va ricordato che la prima registrazione in cataloghi (quella nel tomo nono del CIL uscito nel 1883)  fu merito di Giovanni Tarantini (Brindisi 1805-Brindisi 1889) che la trasmise, insieme con altre al Mommsen.

Ecco la scheda tratta dal citato tomo del CIL:

Tuttavia la sua prima pubblicazione era avvenuta nel Bullettino di corrispondenza archeologica, per l’anno 1872, Salviucci, Roma, 1872, p. 30, a cura di Wilhelm Henzen. Mi piace riportare la parte iniziale del suo contributo perché è una testimonianza dell’autorevolezza e dell’acribia dell’archeologo brindisino pronto a riconoscere di aver tratto conclusioni azzardate (però nessuno ne aveva avanzato altre …) al ritrovamento del primo frammento, ma felice di poter formulare il giudizio definitivo, nonché la conferma che nelle piccole e grandi scoperte poca o tanta fortuna non guasta.

Scrive l’Henzen: Il nostro socio corrispondente, sig. arcidiacono Gio. Tarantini direttore della biblioteca di Brindisi, ci scrisse nell’autunno dell’anno scorso: “Nel 1869, partendo da alcuni dati storici, avventurai un’opinione su di quattro versi latini che aveva trovati incisi su di una mezza tavola di marmo che era stata allora estratta dal fondo di questo porto. La mancanza de’ versi precedenti, che trovar si dovevano nell’altra metà superiore della tavola, rendeva ben difficile l’indovinare chi parlasse in quelli versi. Ora debbo confessare che andai ben lungi dal vero nelle mie conghietture. Non poteva allora certamente augurarmi che un giorno tra i milioni di metri cubici di fango e macerie che si estraevano dal porto, avesse potuto rinvenirsi l’altra mezza lapide. Dopo due anni però è avvenuto quel che era affatto fuori delle mie speranze. In questi giorni esaminando alcuni rottami che fortunatamente non erano stati trasportati per esser gittati in alto mare, ho tosto riconosciuto l’altra mezza lapide che, unita alla prima, misura m. 0,65 di altezza e m. 0,5 di largo, e vi ho letto altri otto versi. Ecco ora tutta intiera l’iscrizione …

 

Segue la datazione, stabilita in base alla scrittura, proposta dall’Henzen in collaborazione col collega G. B. De Rossi, da allora unanimemente accettata e che ho indicato all’inizio. W. Henzen, G. B. De Rossi, Georg Kaibel [in calce alla scheda del CIL a destra si legge: recognovit Kaibel (la emendò Kaibel); chiunque può notare, ad onor del vero, come l’emendatio di Kaibel si limitò all’aggiunta della punteggiatura] e, per finire, Theodor Mommsen: un quartetto di luminari di fronte al quale il Tarantini non solo superò brillantemente l’esame ma che con loro avrebbe potuto metter su un bel quintetto …

Attualmente l’epigrafe è custodita nella città in cui fu rinvenuta nel Museo archeologico Ribezzo

TRASCRIZIONE E TRADUZIONE

1   Si non molestum est, hospes, consiste et lege!

2   Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri,

3   accessi terras complures. Terminus hicc est

4   quem mihi nascenti quondam Parcae cecinere.

5   Hic meas deposui curas omnesque labores.

6   Sidera non timeo hic nec nimbos nec mare saevom

7   nec metuo sumptus ne quaestum vincere possit.

8   Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva:

9   fortuna infracta ter me fessum recreasti;

10 tu digna es quam mortales optent sibi cuncti.

11 Hospes, vive, vale! In sumptum superet tibi semper

12 qua non sprevisti hunc lapidem dignumq(ue) dicasti!

 

Se non ti è di fastidio, o forestiero, fermati e leggi!

Ho corso spesso il grande mare con le navi che volano con le vele,

sono entrato in molte terre. Proprio questo è il punto d’arrivo

che a me che nascevo le Parche un tempo annunziarono.

Qui ho deposto le mie preoccupazioni ed ogni fatica.

Qui non ho paura del clima, né dei temporali, né del mare crudele,

non ho paura neppure che il guadagno non superi le spese.

Fede alimentatrice, santissima dea, rendo a te grazie:

tre volte hai rinfrancato me provato dalla infranta fortuna;

tu sei degna che tutti i mortali  ti desiderino per sé.

Forestiero, vivi e sta’ bene! Ti avanzi sempre qualcosa da spendere,

in quanto non hai disprezzato questa pietra e (le) hai dedicato qualcosa di degno.

OSSERVAZIONI TESTUALI

Va osservata sul piano grammaticale la forma HICC nella linea 3, intermedia tra la normale HIC (che ricorre, come avverbio e non come pronome, alla linea 5) e la rafforzata HICCE.

Sul piano lessicale vanno segnalati alcuni ricalchi letterari, tenendo conto, però, che certi lemmi e certe locuzioni erano di uso corrente.

Linea 1: Si non molestum est, hospes, consiste et lege!

Formula abbastanza frequente,  con alternanza tra hospes (forestiero) e viator (viandante), nelle epigrafi funerarie. Ne fornisco qualche esempio sottolineando la parte che interessa ai fini della trattazione: AE 1996, 00453 (da Lucera): Sic iter hoc felix tibi sit / consiste v(i)ator et me(a) fata / brevi percipe notitia / Propasi fuerat mihi nomen / flore iu(v)entae erepta ex / oc(u)lis morte gravi teneor / nam mihi bis quaternos / aetas compl(e)verat annos / amissa vita lugent ut(e)rque / parens multa queri pos(sis) / si mora grata foret …  (Così questo viaggio ti sia felice, o viandante, e apprendi con poche parole il mio destino. Propasi era stato il mio nome. Mi trovo rapita alla vista dalla pesante morte nel fiore della gioventù. L’età non aveva ancora compiuto per me otto anni. Per la vita perduta piangono entrambi i genitori. Possa tu dolertene molto se la sosta ti fosse gradita …; : CIL II, 3475 (da Cartagena): C(aius) Licinius C(ai) f(ilius) Torax / hospes consiste et Thoracis perlege nomen …(Caio Licinio Torace figlio di Caio. Forestiero, fermati e leggi il nome di Torace …); CIL XI,; RIU-06, 1554a (da Gorsium, in Pannonia): D(is) M(anibus) / tu qui festinas pe/dibus consiste vi/ator et lege quam / [dur]e sit data vita mihi [ … (Agli Dei Mani. Tu, o viandante, che ti affretti ferma il tuo piede e leggi quale dura vita mi è stata data […).

Linea 2: Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri

Ogni possibilità di interpretare magnum mare (grande mare) come equivalente di mare magnum, nesso con il quale (oltre a mare nostrum e a mare internum) i Romani indicavano il Mediterraneo, è esclusa dal fatto che con entrambi i nessi l’esametro sarebbe stato perfetto, per cui, se l’autore avesse voluto alludere al Mediterraneo e non al concetto generico della vastità del mare avrebbe senz’altro usato mare magnum. Di seguito le due possibilità di scansione che dimostrano quanto ho appena finito di dire:

Nāvĭbŭs I vēlĭvŏIlīs II māgnūm mărĕ I saepĕ cŭIcūrrī

Nāvĭbŭs I vēlĭvŏIlīs II mărĕ I māgnūm I saepĕ cŭIcūrrī 

Per quanto riguarda navibus velivolis:

Macrobio (V secolo d. C.) in Saturnalia (VI, 5) ci ha tramandato due frammenti di Ennio (III-II secolo a. C.). Il primo è tratto dal libro XIV degli Annales: … quom procul aspiciunt hostes accedere ventis/navibus velivolis(… quando da lontano scorgono i nemici accostarsi grazie al favore del vento con le navi volanti con le vele) ; il secondo dalla tragedia Andromacha: … rapit ex alto naves velivolas(… ghermisce in alto mare  le navi volanti con le vele …) vele..                                                                                             

Lucrezio (I secolo a. C.), De rerum natura, V, 1442: tum mare velivolis florebat navibus ponti (allora la superficie del mare pullulava di navi volanti con le vele).

Cicerone (I secolo a. C.) nel De divinatione I, 31 riporta un frammento di Ennio (III-II secolo a. C.) dalla tragedia Alexander: Iamque mari magno classis cita/texitur; exitium  examen rapit/adveniet fera velivolantibus/navibus, complebit manus litora (E già per il vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di disgrazie,  arriverà crudele; un esercito su navi volanti con le vele occuperài nostri lidi). Qui, invece dell’aggettivo velivolus/velivola/velivolum è usata la variante deverbale (participio presente di velivolare) velivolans/velivolantis.

Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Epistulae ex Ponto IV, 5, 42: et freta velivolas non habitura rates (e le onde non destinate ad avere le navi che volano con le vele).

Linee 3-4: …. Terminus hicc est/quem mihi nascenti quondam Parcae cecinere

Orazio, Carmen saeculare, vv. 25-28: Vosque, veraces cecinisse Parcae,/ quod semel dictum est stabilisque rerum/terminus servet, bona iam peractis/iungite fata (E voi, Parche veritiere, avete cantato; perché lo stabile confine delle cose conservi ciò che una sola volta fu detto, aggiungete un destino favorevole a ciò che si è compiuto).

Linea 5: Hic meas deposui curas omnesque labores

Virgilio, Georgiche, IV, 531: Nate, licet tristis animo deponere curas (O figlio, è possibile allontanare dall’animo le tristi preoccupazioni); Ovidio, Rimedi d’amore, 259: Nulla incantatas deponent pectora curas (Nessun cuore allontanerà le incantevoli preoccupazioni);  

Linea 6: Sidera non timeo hic nec nimbos nec mare saevom

Da notare anzitutto la forma arcaica saevom invece della classica saevum, a impreziosire il testo di una patina di antica solennità.

Il nesso mare saevum è ricorrente negli autori latini a partire da Livio Andronico (III secolo a. C.) in un frammento della sua traduzione dell’Odissea: Namque nullum peius macerat humanum/quamde mare saevom (E infatti nulla di peggiore logora l’uomo del mare crudele). Da notare come mare saevum (mare crudele) costituisce uno sviluppo del precedente magnum mare (la crudeltà rende ancor più probabili i rischi legati alla vastità).

Linea 8: Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva 

Alma Fides è un nesso tipico della produzione colta:

Ennio, citato da Cicerone, nel De officiis, III, 29: O Fides alma apta pinnis … (O alma fede dotata di ali);

Stazio (I secolo d. C.), Tebaide, XI, 98: Tu mihi perplexis quaesitam erroribus ultro/advehis alma fidem, veterisque exordia fati/detegis, assistas operi, tuaque omina firmes (Tu [rivolto alla notte, qui dettaglio astronomico ma che nell’epigrafe potrebbe essersi trasfigurato nell’idea della morte], alma, mi porti nel groviglio delle incertezze la fede richiesta, sveli le origini del vecchio destino, dai aiuto all’opera e confermi tutti i tuoi presagi).

Silio Italico (I secolo d. C.), Punica, VI, 131-132: in egregio cuius sibi pectore sedem/ceperat alma Fides mentemque amplexa tenebat (… nel suo nobile cuore l’alma fede aveva preso posto per sé e dopo aver avvinto la mente la teneva salda).

Ricorre pure in altre epigrafi funerarie (CIL V, p 623,15; CIL IX, 60; CIL XII, 2115; CIL XIII, 3098; AE 1976, 243; AE 1902, 245; EDCS-42700150; EDCS-33900311; EDCS-30300366; EDCS-38700126; EDCS-30200094 E, in particolare, in riferimento alla mercatura, CIL XI, 382:  … hos non imbelli pretio mercatus honores/sed pretio maius detulit alma fides … ( … l’alma fede non recò questi onori della mercatura a buon prezzo ma cosa maggiore del prezzo). Il nesso, poi, diventerà obbligato a partire dal IV secolo, soprattutto con la letteratura cristiana. 

Linea 9: fortuna infracta ter me fessum recreasti

Difficile dire se il riferimento è l’essere sfuggito tre volte ad un naufragio o al fallimento. Fortuna infracta ricorda vagamente Valerio Massimo (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Factorum et dictorum memorabilium libri,  IV, 7: Accedit huc quod infractae fortunae homines magis amicorum studia desiderant (A questo si aggiunge il fatto che gli uomini dal destino infelice desiderano di più le attenzioni degli amici).

STRUTTURA COMPOSITIVA

il testo dell’epigrafe può essere schematicamente suddiviso in tre sezioni: la prima (riga 1) contenente l’invito a fermarsi e a leggere rivolto al passante, la seconda (righe 2-10) contenente la biografia, la terza (righe 11-12) contenente il congedo e il ringraziamento. Mi pare importante rilevare l’andamento circolare del testo, che si apre e chiude con lo stesso concetto (imperniato nella parola-chiave hospes) declinato al futuro nella prima sezione (invito a fermarsi e a leggere) e al passato/presente nella terza (ringraziamento per essersi fermato e aver letto). Per quanto appena detto non condivido minimamente quanto leggo in Antonio La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Einaudi, Torino, 1979, p. 48: La chiusa è in tono minore, e può essere ritenuta anche non del tutto degna del bellissimo carme. Se qualche appunto va mosso, esso potrebbe riguardare solo la metrica e precisamente la cesura, peraltro obbligara, del verso 9 che crea una frattura tra la preposizione in e il sumptum da essa retto. Può darsi, però, che lo scarso gradimento del finale per La Penna sia dovuto al carattere materialistico di in sumptum superet tibi semper (ti avanzi sempre qualcosa da spendere); faccio notare, però, come tale verso  sia la ripresa di nec metuo sumptus ne quaestum vincere possit (né temo che la spesa possa superare il guadagno), trasformato, ora che la morte lo ha escluso da ogni rischio, in augurioper chi resta.D’altra parte, cosa poteva augurare un mercante condizionato per definizione, per quanto idealista fosse, dalla legge economica della domanda e dell’offerta? E non voglio azzardarmi ad affermare che quel vive et vale sia stato ispirato per contrasto dall’Ego abeo. Male vive et vale (Io me ne vado. Vivi malamente e addio!) con cui Sicofante (il nome è tutto un programma …)  nella scena II dell’atto IV della commedia Trinummus di Plauto (III-II secolo a. C.) liquida bruscamente Carmide, con cui ha un conto economico in sospeso. Più probabile, invece, il calco da Orazio, Satire, II, 5, 109-110 (è Tiresia che parla ad Odisseo): Sed me/imperiosa trahit Proserpina. Vive valeque! (Ma la dominatrice Proserpina mi trascina [nel regno delle ombre]. Vivi e addio!).

STRUTTURA METRICA

È, a parer mio, quella che rende singolare l’epigrafe. Essa consta, infatti, di dodici versi, dei quali il primo è un senario giambico, i rimanenti esametri. È un dato di fatto che la poesia antica risponde a criteri rigidi, non tanto nella struttura dei singoli versi (in cui lo schema prevede alcune varianti) quanto nella loro alternanza. Mi spiego; a livello scolastico: quando si studiava (oggi non so …) l’Eneide con la sua sequenza di esametri, si acquisiva il dato provvisorio che non ci fosse altro modello compositivo; poi lo studio dei cosiddetti poeti elegiaci faceva capire che accanto ai componimenti costituiti da una sequenza di esametri ve n’erano altri formati da distici elegiaci (esametro+pentametro); quando si passava ad Orazio si scopriva che la varietà compositiva coinvolgeva pure altri tipi di verso. Così l’epodo XVI (si capirà dopo perché ho scelto questo) risulta costituito dall’alternarsi di distici costituiti da un esametro e da un senario giambico. Com’è noto, la liberazione della stessa poesia italiana dalle pastoie della rima prima e della metrica (quella tradizionale) poi risale ad un’epoca relativamente recente. L’unicità della nostra iscrizione riguarda proprio la sua struttura (ripeto: inizlale senario giambico seguito da undici esametri, quasi un misto tra la composizione virgiliana (come ho detto tutta in esametri) e quella del canto indicato di Orazio, ma con l’inversione nell’ordine dei primi due versi (lì esametro+senario giambico, qui  senario giambico+esametro). Questo fenomeno di struttura metricamente composita non è delle epigrafi funerarie (ma dubito, per quanto dirò alla fine, che la nostra lo sia) e, a quanto ne so, la nostra, se lo fosse,  ne costituirebbe l’unico esempio, non facendo testo, perché non presente nella metrica classica, la composizione (però tutta in pentametri, dunque da considerare strutturalmente uniforme, anche se tale sequenza mai s’incontra in letteratura) di CIL IV, 9123 (Nihil durare potest tempore perpetuo/cum bene sol nituit redditur Oceano/decrescit Phoebe quae modo plena fuit/ven[to]rum feritas saepe fit aura l[e]vis).

Nella nostra epigrafe al ritmo più serrato del senario giambico contenente l’invito a fermarsi ed a leggere segue quello più disteso degli esametri, adatto al carattere narrativo del contenuto. Faccio notare, ai fini della caratterizzazione funeraria o meno dell’epigrafe, che la formula rituale del primo verso in altre epigrafi senza dubbio funerarie (vedi sopra nel commento a Linea 1) è costantemente un esametro.

Ecco la scansione del nostro verso:

Sῑ nōn I mŏlēIstum ēst, IIIspēs, cōnIsīste ēt I lěgě

Faccio notare che anche questo verso sarebbe stato un perfetto esametro se l’ultimo piede fosse stato non un dibraco o pirrichio (∪ ∪ ) ma uno spondeo (— ∪) oppure  un trocheo (— ∪), applicando, inoltre, la correptio iambica nel secondo piede (∪—>——).

Per il resto segnalo la consueta sinalefe nei versi 1 (molestum est e siste et),   6 (timeo hic), 8 (tibi ago), 9 (fortuna infracta), 10 (digna es), 11(vale In) e 12 (sprevisti hunc), la sinizesi nel verso 5 (meas)2 e la correptio iambica nel verso 2 (Nāvĭbŭs invece di Nāvĭbūs). 

Di seguito la scansione di tutti i versi.

1   Sī nōn I mŏlēIstum ēst,IIIspēs, cōnIsīste ēt I lege!

2   Nāvĭbŭs I vēlĭvŏllīs IIIgnūm mărĕ I saepĕ cŭIcūrrī,

3  āccēsIsī tērIrās II cōmIplūrēs.ITērmĭnŭs I hīcc ēst

4   quēm mĭhĭ I nāscēnIII quōnIdām PārIcae cĕcĭInērē.

5   Hīc mĕăs I dēpŏsŭIī II Irās ōmInēsquĕ lăIbōrēs.

6   Sīdĕră I  nōn tĭmĕo I hīc II nēc I nīmbōs I nēc mărĕ I saevōm

7   nēc mĕtŭIō sūmIptūs III quaestūm I vīncĕrĕ I pōssĭt.

8   Ālmă FĭIdēs, tĭbi ăIII grāItēs, sāncItīssĭmă I dīvă:

9   fōrtūIna īnfrāIctā II tēr I mē fēsIsūm rĕcrĕIāstī;

10 tū dīgna I ēs II quām I  mōrIllēs II ōpItēnt sĭbĭ I cūnctī.

11 Hōspēs, I vīvĕ, văIle! Īn II sūmpItūm sŭpĕIrēt tĭbĭ I sēmpĕr

12 quā nōn I sprēvīIsti hūnc II lăpĭIdēm dīIgnūmq(uĕ) dīIcāstī!

 

CONCLUSIONI

Si riferiscono, più che altro, a quei suoi misteri presenti nel titolo, concetto, invero, scontato quando si studia una testimonianza non solo del passato ma anche del presente, anche se può far sorgere il sospetto che abbia usato quella  voce per assicurarmi qualche lettore in più, espediente gemello dei titoli sparati dei giornali o, peggio ancora, della spettacolarizzazione che contraddistingue tante trasmissioni televisive di carattere scientifico-divulgativo.

Nel nostro caso il mistero principale riguarda, secondo me, la funzione dell’epigrafe.

Escluderei quella funeraria, almeno nell’immediato, non solo per la disomogeneità metrica ma anche, e soprattutto, perché manca il nome del defunto.1 Ho scritto nell’immediato, nel senso che si può ipotizzare che la lastra non fosse stata ancora collocata al suo posto, ma era in fieri, destinata ad essere completata (notevole è nella parte inferiore lo spazio vuoto rimasto) dopo la morte del mercante (nulla vieta che ne fosse lui direttamente il committente). Credo, poi, eccessivamente campanilistico identificare l’hic (qui) della riga 5 come Brindisi, perché la lastra poteva benissimo essere a bordo di una nave naufragata nel porto di Brindisi ma con destinazione diversa e commissionata da un destinatario che sarebbe morto chissà dove. In alternativa, escludendo, questa volta,  non solo nell’immediato la funzione funeraria, si potrebbe pensare che fosse parte di una sorta di monumento al mercante (così come oggi, per restare a Brindisi,  il monumento  al Marinaio d’Italia), degno di trovare ospitalità in qualsiasi porto, non solo a Brindisi. E la funzione celebrativa finirebbe per confondersi con quella turistico-pubblicitaria, rendendo plausibile, anche grazie alla raffinatezza del testo, che per un compito quasi di rappresentanza fosse stata commissionata non da un privato ma da un’istituzione ufficiale.

Bibliografia

Alessandro Franzoi, Saggezza di mercante, in Rivista di cultura classica e medioevale, vol. 46, n° 2 (Luglio-dicembre 2004), pp. 257-263.

_____________

1 Che, invece, compare in epigrafi senza dubbio funerarie e, fra l’altro,  riconducibili alla sfera del commercio.

Podgorica/Doclea (Dalmazia) AE 1993, 01251 C(aius) Utius Sp(uri) f(ilius) testament(o) / fieri iussit sibi et / P(ublio) Utio [f]ratri suo et Clodia(e) / F[au]stae concubinae suae / mult[a per]agratus ego terraque marique / debit[um re]ddidi in patria nunc situs hic iaceo / stat l[apis e]t nomen vestigia nulla (Caiio Uzio figlio di Spuro ordinò che fosse fatto a ricordo di sé, di Publio Uzio suo fratello e di Clodia Fausta sua concubina. Io dopo aver errato a lungo per ierra e per mare resi il dovuto in patria. Ora giaccio posto qui; ci sono la lapide ed il nome, non c’è nessun resto).

Pescara CIL 09, 03337 L(ucio) Cassio Hermo/doro nauclero / qui erat in colleg(io) / Serapis Salon(itano) per / freta per maria tra/iectus saepe per und(as) / qui non debuerat / obitus remanere / in a(e)tern(o) sed mecum / coniunx si vivere / nolueras at Styga / perpetua vel rate / funerea utinam / tecu(m) comitata / fuissem Ulpia Candi/da domu Salon(itana) co(n)i(ugi) / b(ene) m(erenti) p(osuit (All’armatore Lucio Cassio Ermodoro che era nel collegio di Serapide a Salona. Sballottato per gorghi, per mari, spesso tra le onde che non sarebbe dovuto morire in eterno ma con me compagno se tu non avevi voluto vivere. Piuttosto avesse voluto il cielo che io fossi stata accompagnata con te dallo stige o dalla barca funerea! Ulpia Candida di famiglia di Salona pose al marito benemerito).

2 Ma si può considerare pure la presenza di correptio iambica (mĕās>mĕăs). Nella scansione che segue si è privilegiata questa soluzione, non essendo possibile rappresentarle entrambe contemporaneamente. Se si fosse privilegiata la sinizesi nello schema non avremmo avuto mĕăs bisillabo ma unica sillaba lunga).

Filippo Lopez y Royo e il restauro del suo ritratto

di Armando Polito

immagine tratta da https://www.tp24.it/2018/03/09/rubriche/filippo-lopez-royo-vicere-rivoluzione-restaurazione/118497

 

Vi siete mai chiesti cosa penserebbe un personaggio più o meno importante del passato vedendo (per chi crede nell’aldilà forse è possibile …) il suo ritratto eseguito, magari, quando non era più in vita? E la domanda è ancora più intrigante quando a più o meno notevole distanza di anni la propria immagine viene curata dalle offese del tempo ad opera di un proprio discendente?

Quanto appena detto si adatta perfettamente a Filippo Lopez y Royo nato a Monteroni di Lecce nel 1728, duca di Taurisano, vescovo di Nola dal 1768 al 1793, arcivescovo di Palermo e Monreale dal 1793 al 1801 e presidente del regno di Sicilia dal 1795 al 1798. Morì a Napoli nel 1811. I dati appena riportati bastano ed avanzano per farsi un’idea dello spessore anche politico del personaggio. A chi volesse approfondire quest’aspetto, per un primo approccio può tornare utile la scheda presente in http://www.treccani.it/enciclopedia/lopez-y-royo-filippo_%28Dizionario-Biografico%29/.

Nell’immagine che segue, tratta ed elaborata da https://www.deamoneta.com/auctions/view/226/59, lo stemma vescovile di Filippo (lo scudo è quello di famiglia:  Troncato: nel primo d’azzurro a due lupi d’oro passanti l’uno sull’altro; nel secondo di azzurro a cinque gru d’argento con la loro vigilanza d’oro diposte 2, 1, 2).come appare in un documento del 1775.

Del 1770, invece, è lo stemma di Michele (fratello di Filippo), terzo duca di Taurisano posto sul portale del palazzo ducale di Taurisano (immagine tratta da https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g2155146-i38710064-Taurisano_Province_of_Lecce_Puglia.html#38709922).

MICHAEL LOPEZ Y ROYO/TERTIUS DUX/TAURISANI/A(NNO) D(OMINI) 1770

(Michele Lopez y Royo terzo duca di Taurisano nell’anno del Signore 1770)

Do ora seguito al titolo ed introduco i protagonisti. Il primo è un oggetto, cioè il ritratto, riprodotto nell’immagine di testa, che è custodito nel palazzo arcivescovile di Palermo.L a didascalia recita:

EXC(ELLENTISSI)MUS ET REV(ERENDISSI)MUS D(OMINUS) PHILIPPUS LOPEZ Y ROYO EX/DUCIBUS tAURISANI,/ ORDINIS CLERICORUM REGULARIUM,/ORDINIS CONSTATINIANI, HIEROSOLYMITANI ET INSIGNIS/SANCTI IANUARII EQUES, REGNI HUIUS SICILIAE PER TRIEN/NIUM PRAESES, AB EPISCOPATU NOLANO TRANSLATUS AD/HANC METROPOLITANAM ECCLESIAM DIE XX IUNII ANNO MDCCXCIII

(L’eccellentissimo e reverendissimo Don Filippo Lopez y Royo dei duchi di Taurisano, dell’ordine dei chierici regolari, dell’ordine costantiniano, gerosolimitano e insigne cavaliere di S. Gennaro, governatore di questo regno di Sicilia per un triennio, trasferito dall’episcopato nolano a questa chiesa metropolitana il 20 giugno 1793)

Il secondo è una persona, cioè Flaminia Lopez y Royo (nelle immagini che seguono tratte da https://fondazionesambuca.org/it/eventi_progetti/scheda.php?id=91&per=&st=&k=Flaminia-Lopez-Royo-Taurisano-Restauro,%20discendente%20di%20Filippo. È l’autrice del restauro operato nel 2014 in un laboratorio creato appositamente nell’oratorio di San Lorenzo a Palermo.

 

Il cantiere era aperto al pubblico e, anche se qualche malizioso può vederci l’abile sfruttamento della tendenza voyeuristica presente in ognuno di noi (non è cosa di ogni giorno vedere un restauratore alle prese con un oggetto che lo coinvolge emotivamente più di ogni altro,  quasi un chirurgo che abbia per paziente il padre o il nonno), ben vengano simili iniziative certamente più proficue di tante altre spettacolarizzazioni dell’arte …

 

Le chiese di campagna, testimonianze da tutelare, risorse da valorizzare

chiesetta di Tutino innevata (2017) (foto di Fabrizio Cazzato)

Le chiese di campagna

testimonianze da tutelare, risorse da valorizzare

CONCORSO FOTOGRAFICO 2018

PROMOSSO DA ITALIA NOSTRA – SEZIONE SUD SALENTO

 

Nell’ambito della 20a edizione di “IDENTITA’ Salentina-FESTIVAL PER LA CULTURA DEL TERRITORIO “, che si svolgerà dal 4 al 20 ottobre 2018, è indetto il Concorso fotografico a premi denominato “Le chiese di campagna: testimonianze da tutelare, risorse da valorizzare” con cui si intende coinvolgere cittadini, studiosi del territorio e appassionati della fotografia al fine di porre all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni competenti la necessità di tutelare e valorizzare il patrimonio storico, architettonico, paesaggistico e identitario costituito dalle numerosissime chiese rurali presenti nel territorio salentino.

REGOLAMENTO DEL CONCORSO

  • FINALITA’

 

Con tale iniziativa la Sezione Sud Salento di Italia Nostra intende proseguire la propria attività verso la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico-architettonico presente nel paesaggio rurale salentino, specificatamente da quello costituito dalle chiese di campagna presenti in provincia di Lecce, quale testimonianze identitaria ma anche come opportunità per promuoverne il restauro, la conservazione e la valorizzazione di un diffuso e variegato patrimonio a rischio di degrado.

Una documentazione fotografica riservata a questi aspetti può costituire una valida e propositiva integrazione degli studi già avviati dai ricercatori e dai cultori della storia locale ed un utile docu-mentazione sui vari aspetti inerenti tali beni da approfondire e divulgare in appositi convegni, seminari, pubblicazioni e mostre.

 

  • OBIETTIVI

 

Il Concorso ha l’obiettivo di raccogliere immagini fotografiche attuali e storiche rappresentative delle chiese rurali presenti in tutti i Comuni della provincia di Lecce identificando il contesto in cui sono ubicate e documentandone gli aspetti architettonici,artistici e paesaggistici, nonché eventuali detrattori, unitamente ai dati essenzialie agli aspetti correlati alle storie locali.

Le foto pervenute saranno oggetto di esposizione o proiezione nel corso della 20a edizione di IDENTITA’ Salentina e in successive manifestazioni aventi identico carattere e finalità.

 

Scarica qui il bando:

ItaliaNostraSudSalento-RegolamentoConcorsoFotografico2018

ItaliaNostraSudSalento-ProrogaConcorsoFotografico2018

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa

di Paolo Vincenti

Il 4 maggio 2017, nella Sala Chirico degli Olivetani dell’Università del Salento, è stato presentato il volume “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA” dedicato al Dott. Rocco DE VITIS, medico e umanista, per i vent’anni della sua scomparsa. Ha coordinato il Prof. Mario Spedicato, Presidente della sezione di Lecce della Società di Storia Patria; sono intervenuti i proff. Luigi Montonato, Alessandro Laporta, Eugenio Imbriani; ha concluso la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese.

 

Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017).

Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bel contributo di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”.

Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus.

Successivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.

Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico.

Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere, altrimenti essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra.

Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’ inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese. Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), datato maggio 1997. Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente.

Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto. Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del suo territorio, Supersano e il basso Salento.

Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano. In particolare, i contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città. Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline.

Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni più disparate che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio.

Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale. Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude. Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.

Dialetti salentini: spurdacchiamientu

di Armando Polito

Mi piace riportare la definizione della parola e le riflessioni su di essa fatte da Pasquale Chuirivì nel suo Con decenza parlando, Kurumuny, Calimera, 2010, p. 106:

Se la voce fosse stata presente nel Rholfs, recentemente scomodato senza successo per picusia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/09/10/dialetti-salentini-picusia/), mi sarei limitato a riportare fedelmente la sua eventuale proposta etimologica.

Gli altri autori citati nello stesso post (Garrisi, Presicce), però, questa volta dicono, soprattutto il Presicce, la loro.

Comincio dal Garrisi che al lemma sburdacchaiere rimanda a spurdacchiare, così trattato:

Appare evidente come spurdacchiamientu derivi da spurdacchiare, secondo la collaudata tecnica di formazione che ha portato, solo per fare uno degli infiniti  esempi restando nell’ambito dialettale, da sintire a sentimentu.

Il problema, però, è: da dove deriva spurdacchiare? Premetto che la voce dev’essere di formazione relativamente recente, perché per il Rholfs, nel cui vocabolario, come ho detto, non è registrata, sarebbe stato uno scherzo proporre l’etimo che di seguito esplicito.

Forse inconsapevolmente l’amico Pasquale nell’italianizzazione spordacchiamento ha fornito la soluzione del problema. Infatti credo di non sbagliare affermando che il padre di tutto è bordo. Da bordo è nato bordare (cingere con un orlo) e il suo opposto sbordare (privare dell’orlo,  ma anche traboccare).

A questo punto passo alla trafila completa, che contempla passaggi fonetici da manuale: sbordare>*sbordacchiare (come in italiano da ridere a ridacchiare, da spennare a spennacchiare, da vivere a vivacchiare, etc. etc., ma con il suffisso –acchiare che ha quasi totalmente perso la funzione riduttiva che mostra in italiano)>spurdacchiare>spurdacchiamientu.

Ma prima di me tutto ciò l’aveva detto (ne ho preso atto solo nel corso della ricerca quando già avevo formulato la mia ipotesi, lo giuro!) il Presicce al lemma sburdacchiare.

 

Il tutto non vi ricorda, soprattutto tenendo conto della definizione di Pasquale, il recente gioco di parola (Renzi, a modo molto suo …, docet), anima della locuzione sfioreremo il disavanzo, non lo sforeremo? Riuscirà chi ci governa a risolvere i nostri problemi rinunciando a mangiarsi una semplice vocale?

Il Canzoniere Grecanico Salentino

Tutto arriva per chi sa aspettare. Il Canzoniere Grecanico Salentino a Loano al Festival Nazionale della Musica Tradizionale Italiana delle Rigenerazioni

 

di Giuseppe Corvaglia

Tutto arriva per chi sa aspettare, anche il Canzoniere Grecanico Salentino.

Da anni seguo il Festival Nazionale della musica tradizionale italiana e da anni mi aspettavo venisse a questa manifestazione un gruppo di rango della musica popolare salentina.

Quest’anno, il 26 luglio, nel festival dedicato alle RIGENERAZIONI, diretto da Jacopo Tomatis che, dopo 17 anni, riceve il testimone da John Vignola, ecco che partecipa il CGS che è proprio esempio di un gruppo “rigenerato” dalle nuove generazioni: Mauro, figlio di Daniele Durante, ed Emanuele, figlio di Roberto Licci, che hanno rinnovato il gruppo non solo anagraficamente, ma anche musicalmente.

A rendere questo evento particolarmente prezioso e unico è stata la presenza di Roberto Licci (Daniele Durante era assente perché impegnato a Melpignano come Direttore artistico della Notte della Taranta) non come reliquia, ma come parte del gruppo e in quel gruppo scatenato ed entusiasta il vecchio leone si è integrato a meraviglia.

Il pezzo forte era il concerto serale che, opportunamente, è stato spostato in Piazza Italia dal Giardino del Principe, dove tanti spettatori possono stare comodamente seduti, ma non è propriamente adatto per un concerto di musica popolare salentina dove una buona parte di canti, che sono Pizziche, ti induce naturalmente alla danza, nel Salento direbbero ”te scazzica”, ed è una esperienza che se non la danzi, godi solo a metà.

Tuttavia, per gli estimatori, un momento particolarmente interessante è stato l’incontro delle 18,30 sotto le palme dei Giardini Nassiriya dove il giornalista Ciro De Rosa ha condotto protagonisti vecchi e nuovi nel racconto di una vicenda artistica e umana complessa che dura dal 1975, ma è davvero degna di essere conosciuta.

 

Ciro De Rosa,Roberto Licci, Mauro Durante ed Emanuele Licci ai Giardini Nassiriya

Con Roberto Licci si sono ripercorsi gli inizi quando il Nuovo Canzoniere del Salento sente di aver esaurito la propria spinta propulsiva e con Luigi Chiriatti invita alcuni giovani di Calimera, fra cui lo stesso Licci, e nasce il Canzoniere Grecanico Salentino sotto la guida ed anima vera del gruppo: Rina Durante.

Rina Durante

 

È il 1975 tutto quello che accade nella società è permeato di politica. C’è un’attenzione diversa alla cultura ed in particolare alla cultura popolare. Alcune avanguardie culturali riscoprono e recuperano la cultura e le tradizioni popolari e questo recupero passa attraverso una consapevolezza politica tesa a dare dignità ad una cultura considerata fino a quel momento subalterna rispetto alla cultura ufficiale.

Negli anni 50 e 60 un antropologo di rango come Ernesto De Martino, lavorando in equipe con una squadra di esperti, aveva esplorato il fenomeno del tarantismo per affermare che la ragione del disagio e della sofferenza non stava nel morso di un ragnetto o di uno scorpione, quanto nel disagio sociale delle tarantate che in quella esibizione trovavano sollievo e liberazione, seppure temporanea.

Rina Durante, intellettuale a tutto tondo e una delle avanguardie citate, capisce che la musica e i canti popolari sono stati e possono essere un veicolo formidabile per la diffusione di una cultura popolare, di una letteratura e di una poesia, di una arte e di una filosofia, di una saggezza e di un modo di raccontare la storia del popolo che fino a quel momento erano considerate subalterne ma che subalterne non lo erano affatto perché avevano una loro dignità.

Questo ha voluto dire Roberto Licci quando nell’intervista con De Rosa, ha parlato di connotazione politica dei concerti del CGS e il concetto lo si ritrova espresso con chiarezza proprio da Rina Durante in una intervista del 1979, quando dice che il recupero della tradizione e della cultura popolare in quegli anni passava attraverso una presa di coscienza politica.

(https://www.youtube.com/watch?v=SYq8aVceT3Y Canzoniere Grecanico Salentino dal minuto 22; dal minuto 29 intervista a Rina durante; dal minuto 31 una parte di Quannnu Diu fice lu munnu[1] interessante esempio di autoironia dei contadini).

 

Il CGS in Quannu Diu fice lu munnu Da un documentario RAI

 

Sono gli anni del boom economico, dell’alfabetizzazione di massa. La gente che aveva migliorato le sue condizioni spesso cercava di nascondere le proprie origini, radicate nella cultura contadina, quelle origini che ricordavano povertà, stenti e soprusi; voleva sposare il modello del benessere, del progresso, della cultura ufficiale, quello che noi oggi sappiamo essere il consumismo.

Questa realtà la scopriva bene chi si cimentava nella ricerca popolare, che spesso trovava la gente restia a parlare dei tempi andati, ma poteva pure accadere, come riporta efficacemente Roberto Licci, che il pubblico nei concerti prendesse a nocciole e mandorle i cantanti perché non cantavano Yuppi duh, canzone in voga all’epoca, e cantavano “Damme nu ricciu de li toi capelli”.

Pur tuttavia una buona parte della gente voleva riscoprire la cultura delle origini, fatta di canti e componimenti ironici ed autoironici, che strizzavano l’occhio al doppio senso, pieni di una semplice, ma gustosa allegria. Spesso questi canti erano resi più gradevoli con rifacimenti molto simili al liscio e ai ballabili. Non che il risultato fosse disprezzabile, ma se l’intento era quello di prendere coscienza della propria condizione non ci si poteva fermare all’intrattenimento.

Prendiamo per esempio, un canto popolare, riproposto sia da un noto cantante folk come Luigi Paoli (Catarineddhra ncatinata [2]), sia dal CGS (la Ceserina [3]) sono lo stesso canto in origine che parla di due innamorati in catene, ma per il Paoli le catene portata in petto da Caterina e ai polsi dall’innamorato sono catene d’amore; nella Ceserina del CGS la catena sul petto di Ceserina è d’amore, ma le catene dell’innamorato legano i suoi polsi perché lui va in prigione, lontano dalla sua bella e dalla sua vita, tradito da una infame carogna. Il canto è lo stesso, ma mentre Paoli lo edulcora in un canto d’amore il CGS lo ripropone nella sua crudezza che parla di lotte contadine, di repressione, di infamie e di prigione. Particolarmente toccante è il voto che fa il malcapitato: se il governo cambierà girerò tutto il mondo a piedi. (https://www.youtube.com/watch?v=NZ5oLsjzscA Roberto Licci con i Ghetonia)

Licci nel sottolineare la valenza politica e non solo musicale del CGS riporta a un concetto espresso bene da Rina Durante nell’intervista già citata, dove viene spiegato come il gruppo, oltre a riproporre canti popolari nei suoi spettacoli, stimolava in diversi paesi la ricerca della cultura popolare da parte di giovani.

Occorre dire che se il Canzoniere nasce dall’intuizione di Rina Durante, deve però la sua fama a un impianto vocale bellissimo dato dalle voci di Bucci Caldarulo, di Roberto Licci e di Luigi Chiriatti e Rossella Pinto, e deve pure molto al genio musicale di Daniele Durante.

Il CGS negli anni 70: da sinistra B. Caldarulo, R. Licci, D. Durante, R. Pinto, L. Chiriatti (Foto dal web www.stornellisalentini.com)

 

Con lui anche le canzoni popolari, spesso raccolte come prodotti essenziali, acquisiscono una gradevole eleganza. Licci ricorda come qualche purista criticasse l’impianto musicale di Daniele perché a loro dire, usava la chitarra come un clavicembalo. Non credo che questo potesse essere un male, invece a volte la riproposta filologica può anche non essere un bene, specie se interpretata con rigidità.

Oggi il Canzoniere Grecanico Salentino è davvero rigenerato, lo spirito si è adeguato ai tempi, i suoi componenti sono capaci di padroneggiare il nuovo, le opportunità che la tecnologia, il progresso e il mondo offrono; è apprezzato sui palchi dei principali festival di tutto il mondo, dal WOMAD allo Sziget al SXSW Music Festival in Texas, ma sembra ancora attento ai principi che hanno ispirato il gruppo delle origini.

Una cosa straordinaria è che l’artefice di questa rigenerazione, Mauro Durante, che nel 2007 ha ereditato dal padre la conduzione del gruppo, ha saputo coinvolgere l’altro erede, Emanuele Licci e altri valenti musicisti creando un gruppo coeso, sinergico, capace di trasmettere entusiasmo con una musica gradevole, stimolante e coinvolgente.

L’impianto vocale, che era il punto di forza del primo CGS, è ancora il pilastro del gruppo attuale che sull’amalgama delle voci, crea la sua sonorità impreziosendola con strumenti vari che rendono i canti più musicali. Anche le contaminazioni si sposano con la musica tradizionale senza snaturarla anzi arricchendola gradevolmente.

Il Canzoniere Grecanico Salentino da sinistra Emanuele Licci, Alessia Tondo, M. Morabito, G. Paglialunga, Mauro Durante, G. Bianco, Silvia Perrone

 

Così se la magica mistura vocale, adorna della musica degli strumenti, si associa a una energia potente, nessuno riesce a rimanere indifferente e anche chi non si lancia nel vortice delle danze, non può fare a meno di scandire il ritmo con il piede o con il battito delle mani.

I canti non sono più quelli del passato CGS e questa “rigenerazione” si dichiara già con la copertina del CD in una bottiglia di Coca cola usata per conservare la salsa di pomodoro dove la salsa è il segno di un sapere antico, comune a tutte le famiglie, e la Coca cola è il segno della globalizzazione, e questo rinnovamento lo si trova nella produzione del gruppo degli ultimi anni. La musica del nuovo CGS contiene i germi della musica popolare tradizionale, ma si apre a nuove contaminazioni e a nuovi esperimenti, come nel caso di “Taranta” scritta con Ludovico Einaudi (https://www.youtube.com/watch?v=4cG6pbwx_dw ) o di altri brani che nascono dalla collaborazione con musicisti di tutto il mondo.

Il messaggio è inequivocabile e non parla di omologazione, ma dice che si può andare nel mondo con le proprie gambe e le proprie proposte musicali mantenendo le proprie radici che sono parte integrante della propria identità.

Copertina del CD Canzoniere

 

Un’altra nota di attualità nella tradizione ce l’ha spiegata Mauro Durante con un interessante paragone sulla terapeuticità della pizzica. Nei tempi andati, infatti la terapia si basava su diversi elementi: la musica, i colori, l’acqua (ricordiamo per chi non lo sappia che uno dei passaggi fondamentali della terapia era la visita alla chiesa sconsacrata di San Paolo a Galatina dove i tarantati bevevano un’acqua da un pozzo che era solfurea e li faceva vomitare liberandoli e guarendoli, secondo la credenza, per l’intervento del Santo), ma il percorso terapeutico, guidato dai musici che stimolavano la danza liberatrice, era osservato e sostenuto da tutta la comunità che, discretamente, partecipava emotivamente a quella sofferenza interiore che si manifestava con l’abbandono e l’apatia e per guarire diventava sforzo fisico spossante, obbligato, estenuante e anche umiliante.

Oggi le sofferenze della psiche non mancano, si esprimono diversamente, e la musica coinvolgente, come la pizzica, unisce e può essere una sorta di terapia di gruppo dinamica che con la danza unisce e può curare tante umanità diverse.

Roberto Licci e Mauro Durante ai Giardini Nassiriya (foto G. Corvaglia)

 

Così se il pomeriggio ha offerto un racconto di un quarantennale percorso articolato, fatto di successi, di fatica, di addii e di ritrovamenti, ma soprattutto di musica e di sapienza antica, non è mancata la musica con alcuni brani del repertorio classico, grico con “Aremu rindineddhra”[4] , canto struggente dove un uomo lontano chiede alla rondine che viaggia per il mondo di raccontargli qualcosa della sua terra, che sicuramente avrà visitato, dei suoi genitori, dei suoi amici, e “Damme nu ricciu”, in dialetto salentino, cantato nonostante i tempi stringenti per fare il check dello spettacolo. Dono migliore non ci poteva essere, per chi era andato ai Giardini Nassiriya, di questa canzone d’amore dove l’innamorato chiede alla donna un riccio dei suoi capelli che lo fanno innamorare e che quando si muovono baluginano come il riflesso dell’ oro e poi le chiede la mano sotto una pianta di vite per restare uniti fino alla morte come due uccelli. (qui nella versione dei Ghetonia https://www.youtube.com/watch?v=W-xdpFGS1Mg o nella versione di Antonio Amato https://www.youtube.com/watch?v=0unR40RLjEs )

 

Si è parlato poi di Grecìa Salentina, isola linguistica, dove il griko va scomparendo perdendosene la pratica linguistica sia perché le nuove generazioni non lo parlano, sia perché il continuo rapporto con persone di comunità vicine obbliga all’uso dell’Italiano o del dialetto salentino.

Emanuele Licci ha raccontato di come gli unici posti dove si possa ancora sentire il griko siano le sale d’attesa degli ambulatori medici, frequentati da anziani che ancora parlano il griko quando si relazionano fra di loro.

La sera in piazza Italia c’ era attesa e, invero, non è stata delusa.

Le voci di Mauro Durante, di Alessia Tondo ed Emanuele Licci, i preziosi inserti musicali di Giulio Bianco, zampogna, armonica, basso, flauti e fiati popolari, e di Massimiliano Morabito all’organetto diatonico , le movenze eleganti di Silvia Perrone e la coinvolgente energia di Giancarlo Paglialunga con la sua voce e il suo “tamburieddhu”, hanno subito scaldato la piazza e anche l’evento particolare di questa serata, la partecipazione di Roberto Licci, è stata una bellissima e preziosa parte del concerto.

In questo gruppo, insolitamente rinnovato con l’antico, non si percepiva differenza generazionale e i brani non erano solo gradevoli e coinvolgenti, ma sembravano dire noi siamo questa storia che ora state ascoltando.

Molto significativa la riproposta della “Quistione meridionale”, canto memorabile scritto da Rina Durante con la musica di Daniele Durante, che con molta ironia racconta di come il dibattito sulla questione meridionale non abbia mai portato niente di buono alla gente, ma ha portato sicuramente benefici a chi ci ha speculato e ci specula sopra. (https://www.youtube.com/watch?v=eUNlnFe-rxA )

È una canzone bella ed evocativa per i termini che usa e le immagini che sceglie. Per esempio parlando delle lotte contadine non parla della violenza fisica sui corpi dei contadini, pure molto sentita, ma di una violenza ancora più feroce, come distruggere le biciclette dei braccianti, che non è solo un danno economico, ma un umiliazione perché distrugge un bene che aveva portato benessere e aveva fatto progredire. Un po’ come dire: «Straccione, torna a camminare a piedi», come quando i padroni per punizione sequestravano ai contadini la cintura: non era solo un castigo, un danno, ma una umiliazione.

Insomma una bella serata e un concerto da ricordare che ha saputo coinvolgere il pubblico toccandolo nelle corde dell’intimo, portando gioia per una musica che, uscita dai confini del Salento, diventa sempre più apprezzata grazie anche al lavoro di questo Canzoniere Grecanico Salentino.

 

Nota dell’autore

Per chi vuole inquadrare meglio la storia del Canzoniere Grecanico Salentino consiglio la lettura:

–         dell’articolo di Luigi Chiriatti su Blogfolk Le Ricerche Sulla Musica Tradizionale In Salento – Dalla ricerca come memoria alla ricerca come affermazione del sé  http://www.blogfoolk.com/2013/05/le-ricerche-sulla-musica-tradizionale.html

 

Note al testo

[1] Quannu Diu fice lu munnu è una gustosa rielaborazione di una canzone popolare sceneggiata dal CGS che racconta la creazione immaginaria dove Dio chiama le sue creature per elargire un dono. I preti si prendono mangiare e cantare. I monaci dicono pazienza e il Creatore darà loro pazienza. Gli imbroglioni non potendo avere Mangiare e Cantare né pazienza chiedono almeno le trappole per gli stupidi, gli imbrogli e Dio glieli concede, ma quando arrivano i contadini non resta niente e uno di loro sfugge la frase quasi sempre detta dai nostri padri, il “fazza Diu” che esprime rassegnazione verso le disgrazie e le avversità. Iddio li accontenta e letteralmente fa lui mandandoli a zappare.

 

[2] Catarineddhra ncatinata di Luigi Paoli

O Caterina mia Caterina Cara/ mmienzu allu piettu tou nc’è na catina./

Se tie la porti an piettu, ieu la portu a manu/ e tutti doi ncatenati stamu.

Amore amore crida mò la nuceddhra/ se nu la cazzi nu se pote manciare./

Ieu la cazzai e truvai na carusa beddhra/ de nome se chiamava Catarineddhra.

 

[3] La Ceserina versione del Canzoniere Grecanico Salentino riproposta da Ghetonia

Scinnu de le muntagne caddhripuline/ no sacciu se la trou la Ceserina./

Oh Ceserina mia Ceserina Cara/ mmienzu allu pettu tou nc’è na catena/

Se tie la porti am piettu ieu la portu a manu/ e tutti ddoi ncatinati stamu./

O giudice ci puerti la pinna a manu/ no me la fare longa la mia cundanna/

Ca no aggiu ccisu e mancu aggiu rrubbatu/ pe na nfame carogna stau carciratu/

Ca ci ole Diu cu cancia stu cuvernu/ la terra la caminu parmu parmu

O Ceserina mia, Ceserina cara / le carceri de Lecce no le sapia

Le carceri de Lecce no le sapia/ me l’aje fatte mparare Cesarina mia

Le carceri de Lecce su cruci cruci/ de lu luntanu passane l’amici.

 

[4] Aremu Rindineddha Traduzione in Italiano

Chissà mia rondinella/ da dove stai arrivando/quale mare hai attraversato/con questo bel tempo.

Bianco hai il petto/ nere hai le ali/ il dorso color del mare/e la coda in due hai divisa.

Seduto vicino al mare/ io ti guardo/ un po’ ti levi, un po’ ti abbassi/ un po’ sfiori l’acqua.

Chissà quali paesi/ quali luoghi hai attraversato/ dove hai costruito/ il nido tuo.

Se avessi saputo che passavi/ vicino alla mia terra / quante cose / ti chiederei di dirmi.

Ma tu nulla mi dici /per quanto io ti domandi/ un poco ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.

Ti domanderei di mia madre/ che è tanto amata/ che è da tanto che mi aspetta/che io giunga per vedermi.

Ti domanderei di mio padre/ di tutto il vicinato,/ e, avessi la parola,/ quante cose avresti da dirmi.

Ma tu niente mi dici/ per quanto io ti domandi,/ un po’ ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.

Il dialetto galatinese nell’ultimo libro di Rino Duma

di Paolo Vincenti

“La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo)”, è l’ultima proposta editoriale di Rino Duma, scrittore e attivo operatore culturale galatinese.

L’opera, dalla mole consistente, 569 pagine, con elegante copertina cartonata bianca, pubblicata da Editrice Salentina (2016), è una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli e materiali vari, in dialetto galatinese. Un viaggio letterario, un excursus filologico nella saggezza popolare, nella lingua madre dell’autore e nelle tradizioni ormai in via d’estinzione di una micro realtà municipale, quale Galatina, ricca di arte e di storia.

Alla confluenza con l’era digitale informatica, Duma, facendosi aedo di un tempo perduto, compartecipe cantore della cultura genuina e spontanea del popolo salentino, ha voluto regalare ai suoi lettori ed estimatori questo scrigno di saggezza, divertimento e leggerezza.

La taranta riportata in copertina è opera del maestro Antonio Mele Melanton: una libera interpretazione di uno spaccato sociale che ha caratterizzato in maniera indelebile il passato di questa città, il tarantismo, col suo portato di sofferenza, folklore, cultura. Ancora oggi il nome di Galatina è legato al culto di San Paolo e alle tarante, sebbene il fenomeno sia ormai estinto. Ma Rino Duma, Presidente del Circolo culturale Athena e direttore della rivista “Il filo di Aracne”, da studioso e appassionato ricercatore di memorie patrie, ha voluto riportare all’attenzione dei suoi concittadini, degli anziani e dei giovani, il recupero delle cose di un tempo, nel vecchio “scascione de dialettu”, cioè “trabiccolo di dialetto”, come scrive nella sua Prefazione, perché esso “è l’antica e inalienabile carta d’identità della nostra anima cittadina”.

E lo ha fatto con un corposo volume, una miscellanea, florilegio di brani diversi, raccolti insieme e accomunati dalla lingua usata; lingua che diventa un formidabile strumento di diffusione del sapere, se solo la si consideri non museificata, imbalsamata, cioè immobile, inerte nel suo stanco perpetuarsi o sopravvivere a sé stessa, ma come materia viva, cultura fermentante di un popolo, sua riappropriazione identitaria. Si tratta insomma non di stereotipi, anacronismi, mero divertissement, bensì di letteratura, disimpegnata, ma di sicuro interesse. Il presente repertorio linguistico espressivo assume una doppia valenza: quella di recupero memoriale per chi è agé, e quella di scoperta, riproposizione delle radici, per i più giovani, sol che questi ditteri, modi di dire, aneddoti e tranches de vie siano guardati come strumenti in grado di attivare processi collettivi.

Nel libro sono proposte quattro commedie, ovverosia farse in dialetto galatinese: si comincia con “Reparto Ortopedia” (in tre atti), poi si passa a “Befana miliardaria a Corte Vinella”(tre atti), poi a “La telefunata” (in quattro atti), e quindi “Natale tra vecchie comari” (in due atti), tutte scritte interamente dall’autore. Le poesie sono: “Poveru mmie”, “L’urtima taranta” che è un vero poemetto in dialetto al centro del quale è il mitico animale, “Pizzaca, Taranta beddhra!”, “Vulia cu èggiu”. A contrappuntare i testi, numerose fotografie in bianco e nero davvero pregevoli, che provengono dal patrimonio comune galatinese. Nella seconda parte del libro, viene pubblicata una sezione dedicata ai Modi di dire galatinesi, una ai Proverbi, una alle Filastrocche, Ninnananne, scioglilingua e Indovinelli, e un’altra, gustosissima, ai Soprannomi galatinesi, divisi in ordine alfabetico. A questo punto del libro, Duma propone la coniugazione di alcuni verbi in dialetto e qui la trattazione si fa ancora più divertente, per sfociare poi nella goliardia e nella risata crassa con “Frizzuli dialettali”, e con l’esilarante “Ma cce cazzu!”. Nell’ultima parte del libro, trovano posto una foto dell’indimenticato pasticcere galatinese Andrea Ascalone, scomparso l’anno passato, ed una scheda bio-bibliografica dell’autore.

Questo patrimonio di fiabe e proverbi acquista un enorme significato non solo storiografico ma anche valoriale, e riallaccia i fili consunti di una comunità che vi si ritrova, che si specchia in questo “come eravamo”, con il sorriso nostalgico e bonario dell’uomo della strada ma anche con la riflessione del ricercatore, dello studioso.

Così il libro è in grado di suscitare sentimenti che credevamo relegati nel passato, perché riesce ad accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato”, per citare Walter Benjamin . E tali sentimenti sono profonde scaturigini dell’immaginario collettivo e della enorme ricchezza che è il deposito culturale di un territorio.

S. Maria della Croce (Casaranello), monumento paleocristiano del Salento

Leo Stefàno

S. Maria della Croce (Casaranello)

Oltre un secolo di studi su un monumento paleocristiano del Salento

Edizioni Grifo

 

Casarano, venerdì 28 settembre 2018, ore 18

Scuola Paritaria Internazionale “S. Giovanni Elemosiniere” (Via Cavour, 6)

 

Il volume è una messa a punto storiografica della ricca messe di studi su un monumento, nonostante tutto, ancora misconosciuto del Salento: la chiesa paleocristiana di S. Maria della Croce di Casaranello, che ha attraversato quindici secoli di storia, giungendo pressoché indenne fino a noi.

L’eccezionalità di questa testimonianza storico-artistica emerge se si considera che in Italia, escludendo le capitali imperiali (Roma, Milano e Ravenna), resti di mosaici parietali paleocristiani come quello della chiesa salentina sono rari (il Battistero di S. Giovanni in Fonte a Napoli, la cappella di S. Matrona nella chiesa di S. Prisco a S. Maria di Capua Vetere e il Battistero di Albenga).

Nel lavoro, le fonti sono ampiamente citate con un’approfondita analisi critica; contestualizzate storicamente ed ordinate cronologicamente. Si passano in rassegna non solo i contributi specifici dedicati al monumento, ma anche gli innumerevoli studi che gli riservano semplici citazioni. Sorprenderà constatare quanti autori hanno fatto riferimento alla chiesa: uno per tutti, lo storico delle religioni e mitologo ungherese Károly Kerényi.

Da questa vasta indagine emerge l’ampio spettro di ipotesi formulate sulla chiesa e sulle sue opere d’arte: ciò tuttavia non permette, a tutt’oggi, di avere alcuna certezza definitiva sull’identità originaria del monumento, sulla sua primitiva struttura architettonica, sulla committenza e sulle maestranze che vi operarono.

Grazie all’accuratezza dell’esame delle fonti, molte sono le acquisizioni originali dello studio: per la prima volta si fa luce sulla genesi della leggenda della nascita a Casaranello di papa Bonifacio IX (Pietro Tomacelli). E viene messa in questione anche l’originarietà dello stesso titolo dell’edificio sacro (S. Maria della Croce).

Nell’opera si ricostruisce in dettaglio la vicenda che portò lo storico dell’arte Arthur Haseloff a visitare la chiesa nel 1906, scoprendone la rilevanza e ponendola all’attenzione degli studiosi.

E, a partire da quell’evento, si ripercorre tutta la letteratura prodotta sul monumento. Sfilano in successione le recensioni al testo di Haseloff di insigni bizantinisti come gli “orientalisti” J. Strzygowski e D. Ajnalov, e la replica del “romanista” mons. J. Wilpert; i primi riscontri agli inizi del Novecento in Europa (M. van Berchem-É. Clouzot, Dom H. Leclercq, ecc.) ed in Italia (C. Ricci, M. Salmi, P. Toesca); gli storici dell’arte e gli archeologi del periodo fascista (G. Galassi, S. Bettini, G. De Angelis D’Ossat, R. Bartoccini, C. Cecchelli); gli studi iconografici e iconologici del Secondo Dopoguerra; la scoperta degli affreschi negli anni Cinquanta del Novecento e il saggio di A. Prandi sui cicli agiografici; i restauri degli anni Settanta del Novecento e i nuovi studi (M. Trinci Cecchelli), con i contributi di archeologi (per la prima volta si pubblica un inedito di F. D’Andria) e bizantinisti (A. Jacob); infine, i contributi più recenti sui mosaici, sugli affreschi e sulla struttura architettonica.

Il volume si conclude con una inedita ricostruzione storica, fondata su un’ingente documentazione d’archivio, relativa alla ventennale vicenda dei restauri dei mosaici (1893-1914), facendo luce su aspetti di sicuro interesse, come la sollecitazione iniziale per un intervento venuta dall’archeologo G. Boni; e mettendo in evidenza le tante resistenze, insensibilità, o addirittura ottusità che si dovettero superare, per giungere a salvare dalla rovina, cui sembrava destinata, la preziosa opera d’arte che fortunatamente ancora oggi possiamo ammirare.

 

Leo Stefàno – S. Maria della Croce (Casaranello). Oltre un secolo di studi su un monumento paleocristiano del Salento

Edizioni Grifo, Lecce 2018, pagine 712, ISBN 9788869941467, € 38.00

 

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Leo Stefàno è un cultore di studi di simbologia e storia delle religioni. Tra i suoi interessi principali, un posto di rilievo occupa l’arte paleocristiana. Vive a Casarano.

Dialetti salentini: la sarmenta e la pàmpana

di Armando Polito

Nell’ordine: sarmente, pàmpana ti ua e pàmpana ti fica

Rispondo alla gentile richiesta (come avveniva nei locali notturni di tanti anni fa …) di Marcello Gaballo formulata nel suo commento ad un recente post su strome (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/09/13/dialetti-salentini-strome-e-la-loro-vasta-parentela/) con questo altro post non per darmi arie o per idiota esibizionismo culturale ma solo perché la trattazione non poteva essere condensata in un commento che quando è troppo lungo diventa una sorta di testamento, la cui lettura è gradita solo ai diretti interessati …1

SARMENTALa voce ha il suo corrispondente italiano in sarmento, che è dal latino classico sarmentu(m), a sua volta dal verbo sàrpere, che significa potare la viei. Sarmenta è dal latino medioevale sarmenta. Di seguito in formato immagine e la mia traduzione il lemma com’è trattato nel glossario del Du Cange:

(SARMENTA, invece di sarmentum negli Statuti di Torino anno 1360 cap. 130: Parimenti che nessuna persona da Torino o distretto, importante o meno, porti da Oltrepò pali interi verdi o secchi, né viti o sarmenti, … se non dalla sua vigna. Vedi sotto sermens.)

Aggiungo che sarmenta, femminile singolare, è figlio di sarmenta, neutro plurale di sarmentum. Proprio il valore collettivo ha propiziato (con la desinenza -a del nominativo della prima declinazione il passaggio al genere femminile ed al numero singolare, da cui po, nel latino medioevale il plurale sarmentae (nel testo appena citato sarmentas, accusativo plurale) e nel nostro  dialetto sarmente. Chiudo questa parte ricordando che Schola sarmenti è il nome di una nota azienda vinicola neretina, ai cui vini ho dedicato su questo blog più di un post non per intenti pubblicitari o per chissà quali interessi ma solo per commentare a modo mio il nome dei suoi vini più pregiati2. Ne approfitto per ricordare che per Schola sarmenti la traduzione Scuola del sarmento (per traslato della vite) mi appare riduttiva tenendo conto che il latino schola può significare  trattazione di un argomento scientifico o letterario, lezione, conferenza, dissertazione, discussione, scuola, (il luogo), (in senso figurato) scuola, setta, seguaci di un maestro o di una scuola; ancora: portico in cui si esponevano opere d’arte, galleria, sede di una corporazione, sala d’aspetto nei bagni pubblici (ecco perché nelle scuole il bagno è l’ambiente più caro …), corporazione, collegio. La voce latina, però, non avrebbe assunto questa caterva di significati se non fosse derivata dal greco σχολᾑ (leggi scholè) che significa tempo libero, s’intende dall’impegno politico. e questo non significa non poter discutere di politica (ammesso, per come da tempo siamo messi, che ne valga la pena …) davanti ad una bottiglia di buon vino sincero, almeno quello …

PÀMPANA

Contrariamente a quanto si potrebbe credere pàmpana non è voce esclusivamente dialettale; dirò di più: si tratta di una variante di pàmpino (variante di pàmpino, con cambio di genere, forse per influsso di foglia) ampiamente attestata in poesia e in prosa, come testimoniano (mi sono limitato agli autori più noti) le citazioni che seguono cronologicamente ordinate.

Filenio Gallo3, Rime, A Safira, Egloga pastorale, vv. 445-447: Fuoco che ‘l corpo insieme e l’alma avampane/e da se stesso a tutto el mondo accusasi,/vite di puoco frutto e assai  pampane.

Giovanni Battista Ramusio (1485-1557), Navigazioni e viaggi, VI, 2: … vi si ponevano certe coperte come  pampane di panno o di cottone o d’altra tela …; X, 8:  … né si fa grande questo albero, perché non è altro che un circuito grande di queste foglie; e il forcolo o la schiena, che sta nel mezzo di queste previous hit pampane  è il bordone …

Jacopo Sannazzaro (1457-1530), Arcadia, Ecloga X, vv. 54-55: Quanti greggi et armenti, oimè, digiunano,/per non trovar pastura, e de le pampane/ si van nudrendo, che per terra adunano!

Giacomo Leopardi (1798-1837), Zibaldone di pensieri, Fácciate alla finestra, Luciola,/decco che passa lo ragazzo tua,e porta un canestrello pieno d’ova/mantato colle  pampane  dell’uva.4

Giovanni Pascoli (1855-1912), Odi ed Inni, A riposo, vv. 29-32: E le semente curi, e le floride/viti rassegni, pampane e grappoli/mirando attento, e poi ritrovi/le fila dei nitidi bovi.

Il vecchio, vv. 13-16: E tutto già da monte a valle,/come se un tempio fosse,/risplende… Ma son foglie gialle,/ma son pampane rosse.

Canzoni di re Enzio, Le canzoni del carroccio, XI, Il Papa, vv. 62-64: … Splendono le rosse/pampane intorno, splendono le vesti/rosse e l’argento delle curve mazze.  

Primi poemetti, Il vecchio castagno, vv. 13-15: Le pigne tu, le  pampane  io: le cime/io, tu le rappe. Io do, se tu mi desti./Fin che c’è verde, non mi dar guaime.

A sottolimeare la stretta fratellanza fra pàmpino e pàmpana va ricordato il plurale pàmpani (usato anche dal Pascoli che nelle citazioni precedenti aveva privilegiato pàmpane):

Leon Battista Alberti (1404-1472), Villa:  … e sdegnano e’  pampani  il rapano …

Niccolò Machiavelli (1469-1527), Vita di Castruccio Castracani: … sentì frascheggiare sotto una vite intra e’  pampani

Annibale Caro (1507-1566), Gli amori pastorali di Dafni, Ragionamento secondo : … e certi grappoli d’uva co’ pampani ancora

Giorgio Vasari (1511-1574), Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, cap. I: … dove son dentro molti fanciulli con  pampani et uve

Vincenzo Monti (1754-1828), La Feroniade, II, 487-489: … Giace Mugilla,/e la ricca di  pampani  e d’olivi/petrosa Ecetra …

Alessandro Manzoni (1785-1873)), Promessi sposi, XIII: … anche l’uve nascondevano, per dir così, i  pampani

Scipio Slataper (1888-1915), Il mio Carso: … Le labbra e il mento sono appiccicose di mele stillato, e le mani, la maglia, il manico della roncola, i pampani, le brente, i carri.

Ho già detto che pàmpana è variante di pàmpino,che è dal latino pampinu(m),acusarivo di pàmpinus. Se Abbiamo già visto come sarmentum deriva da sàrpere; e pàmpinum? Il primo ad affrontare, a modo suo ,,,, il problema fu, a quanto ne so, Isidoro di Siviglia (560 circa-636), Etymologiae, XVII, 5, 10: Pampinus est folia cuius subsidio vitis a frigore vel ardore defenditur atque adversus omnem iniuriam munitur. Qui ideo alicubi intercisus est, ut et solem ad maturitatem fructus admittat et umbram faciat. Et dictus pampinus quod de palmite pendeat. 

(Pampino è la foglia con il cui aiuto la vite si difende dal freddo o dal caldo e si premunisce contro ogni offesa. Esso in qualche luogo viene tagliato qua e là in modo che il sole mandi a maturazione il frutto e faccia ombra ed è chiamato pampino poiché pende dal tralcio).

Per Isidoro, dunque, la base è palmes (quod de palmite pendeat) e, anche se non lo dice espressamente.è come se pampinus derivasse da *palpinus.

Nel suo Rideri Dictionarium severiore trutina castigatum, Adam Islip, Londra 1626 John Ryder (1562-1632), vescovo anglicano di Killaloe in Irlanda, ll lemma pampinus, dopo aver citato Isidoro, continua riportando altre proposte etimologiche, che così risssumo:1) da un greco ἄμψοινος  (leggi amfoinos) quod fit circa vinum (poiché si sviluppa intorno al vino). La voce, inesistente in greco, risulta artificiosamente composta da ἀμφἱ (leggi amfì)=intorno+ἄμπελος (leggi àmpelos)=vite, uva, vino; 2) da πόα ἀμφἱ οἵνου (leggi poa amfi òinu), herba circa vitem (erba intorno alla vite); 3) quasi pampelus, ab ἄμπελος (quasi pampelus da ampelos); 4) panpinus quasi pannus vini (pampino quasi panno del vino); 5) simpliciter a pando ut πέταλον (leggi pètalon) πετάω5 (leggi petào) (semplicemente da pando6, come petalo da petao); 6) a πίμπειν (leggi pìmpein) mittere quod emittuntur pampini ex sarmentis, sic stolones a στέλλειν (leggi stèllein) dici possunt (da pìmpein=mandare poiché i pampini sono emessi dai sarmenti, così si può dire che stoloni deriva da stèllein).

Nel Thesaurus linguae Latine compendiarius di Robert Ainsworth e Thomas Morell, Longman,Londra, 1796 si fa derivare pampinus da φυλλάμπελος (leggi fiullàmpelos) o  φυλλάμπελον (leggi fiullàmpelon).   

Di fronte a tal profluvio di proposte la filologia moderna ha deciso, in un certo senso, di non decidere o, se si preferisce di lavarsene le mani. La teoria oggi più accreditata, infatti, è che pampinus appartenga alla categoria di quelle parole definite mediterranee o di origine preindoeuropea; in altri termini antichissime ed autoctone.

Mi piace chiudere questo faticoso percorso con un ricordo personale della mia infanzia. Così davanti ai miei occhi riaffiora la figura di mio nonno Alessandro, appassionato di caccia, mentre avvolge una irduleddha (verdolina) in una pampana di fico e pone il tutto sulla brace, mentre io, avro avuto non più di cinque anni, attendo paziente di consumare quel bocconcino la cui prelibatezza già vibra nell’aria col suo profumo …

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1 Per le altre voci ricordate nel commento segnalo:

(per scìgghiu) https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/12/la-storia-provvisoria-di-scigghiu-disordine/

(per carpìa) https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/27/la-carpia-ovvero-il-sedicente-intellettuale-sfaticato-e-zozzone/

(per inchiùlu) https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/13/inchiu-c/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/30/artetica/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/13/critera-attenzione-allaccento-al-profano-un-semplice-accento-puo-sembrare-un-banale-tanto-piu-nella-cultura-dominante-cui-prevalgono-approssimazione-incompetenza-assenza-pressoche-tot/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/09/nauna-sulla-bonta-delliscrizione-qualche-dubbio-quella-del-vino-nessuna/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/28/artieri/

3 Pseudonimo di Filippo Galli. poeta senese morto nel 1503.

4 Sono i vv. 1-4 di quella che l’autore definisce una delle canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati. (Decembre 1818)

5 In greco esistono πετάννυμι (leggi petànniumi e πεταννύω (leggi petanniùo), entrambi col significato di stendere; πετάω è totalmente inventato.

6 L’infinito è pàndere=stendere.

Ciò che si muove (frustoli di arte contemporanea)

di Paolo Vincenti

 

Ogni artista che operi nell’ambito dell’arte informale è quasi un chimico trovandosi nella necessità di utilizzare e combinare insieme materiali diversi, seguendo i procedimenti dettati dal proprio estro. Certamente Fernando Spano lo è, perché nella sua ricerca pittorica, l’utilizzo dei materiali si coniuga con la dimensione esistenziale dell’arte come intesa da questo poliedrico e affermato artista salentino. Per esempio, utilizza una composizione fra ossidi di ferro e bitume per il ritratto di Lucio Fontana, uno dei tanti che compongono la sua galleria di icone dell’arte. Ma andiamo con ordine. Doveroso, fornire alcuni dati biografici sul pittore. Fernando Spano nasce il 13 Marzo del 1965 a Veglie, vive e lavora a Lecce. Nel 1987 inizia la sua attività, interessandosi prima alla forma tradizionale della pittura, soprattutto alla tecnica dell’affresco, e poi via via spostandosi verso la pittura informale e le tecniche miste, essendo sempre più attratto dalle sperimentazioni chimiche. Questo lo porta verso la prima delle tematiche della sua carriera, ossia la ritrattistica. Il primo grande artista di cui sviluppa il ritratto è Pablo Picasso, verso il quale nutre una vera ossessione, cosa che riporta al concetto di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte secondo il noto saggio di Walter Benjiamin. Infatti, Spano realizza una serie infinita di ritratti, oltre che di Picasso, di Lucio Fontana, di Joseph Beuys, di Jackson Pollock, vere icone per lui nell’ambito artistico.

«Forse la storia si ripete, di sicuro le emozioni si rinnovano ad ogni ritorno, ma si caricano delle sensibilità, dei trascorsi personali, delle conoscenze acquisite, degli imprevisti legami e delle analogie che una rilettura sapiente ci rivela”, scrive Eduardo Pascali (in “Fernando Spano”, Catalogo Mostra Bari, 2001), “A questa consapevolezza del dipanarsi della storia, uguale a se stessa e nello stesso sempre diversa, si richiama il lavoro e l’impegno di Fernando Spano.

L’invito dell’artista è chiaro e semplice: recuperare, da una parte, con gli occhi nuovi e moderni, i maestri, cogliere, d’altra parte, la loro presenza, anche in una prospettiva critica, nella realtà attuale. Realtà che hanno contribuito a modificare con le proposte artistiche, talvolta dirompenti, provocatorie e in anticipo sui tempi dell’uomo comune». Attraverso la riproposizione di questi grandi maestri dell’arte universale, Spano vuole in realtà riaffermare la propria individualità artistica, emblematico in questo senso il titolo della mostra tenuta a Lecce, presso l’ex Conservatorio di Sant’Anna, a cura di Dino Del Vecchio: “Io ci sono”. Il suo, cioè, è un citazionismo la cui matrice è la pop art, quindi non sterile o fine a sé stesso. Dietro al ritratto, v’è la concezione artistica del pittore e proprio la sua anima. “Queste opere non sono un omaggio agli autori, ma rappresentano un momento di ricerca e riflessione sulle potenzialità espresse dal loro contributo all’arte e alla società”, scrive Andrea Fiore in “Fernando Spano. Identità e distruzione”, Catalogo della mostra tenuta a Maglie e Brindisi nel 2017 (Galatina, Editrice Salentina, 2017). A riprova di quanto detto, nel segno della più ardita sperimentazione artistica, poi Spano realizza una serie di lavori in cui prende delle famose opere d’arte e le trasforma attraverso il bitume, seguendo l’esempio di Beuys, quasi mentore per Spano. Un’altra interessante serie di opere è quella intitolata “Velivoli”, in cui vecchi aeroplani di guerra solcano un cielo nuvoloso o nevoso, trasmettendo inquietudine, timore, ansia allo spettatore. “Questo corpus di opere”, scrive ancora Andrea Fiore, “costituisce la serie di lavori indicata come ‘Velivoli’, attraverso la quale Spano si confronta e riflette sulla capacità di distruzione dell’uomo. Come il giovane Beuys – pilota di aeroplani come quelli rappresentati – trova la salvezza nella sua trasformazione in artista-sciamano, così le opere di Spano trovano nel momento della distruzione prima la morte e poi la conseguente rinascita”. A partire dal 1991, Spano partecipa a moltissime mostre personali e collettive. Fra le ultime, citiamo la mostra collettiva presso la Galleria Scaramuzza di Arte contemporanea a Lecce nel 2011, la Mostra personale presso la Galleria Scaramuzza di Lecce del 2013, la Mostra personale presso lo spazio espositivo del “Caffè Cittadino” , a Lecce, 2015, ancora presso la Galleria Scaramuzza Arte Contemporanea, Lecce, 2016, la Mostra personale presso la Fondazione Capece, Maglie, nel 2017, la Mostra personale presso la Galleria San Luca, Brindisi nel 2017, la Mostra personale presso la Fondazione per l’Arte e le Neuroscienze “Francesco Sticchi”, Maglie, nel 2018. Molto interessante il suo ciclo “Monumenta”, in cui vengono presi dei monumenti del passato e reinterpretati attraverso la tecnica mista. Grandi esempi dell’arte classica, greca e romana, oggi non più esistenti, che rivivono nella contemporaneità di un’arte fortemente sperimentale, che riannoda in questo modo i fili fra passato e presente, coniugando in alchemica sintesi tradizione e innovazione. Ancor più interessanti, i cicli “Memorabilia” e “Volti della memoria”: vasi attici, crateri dell’arte appulo-lucana, elementi dell’arte fittile, statue dell’arte greca, che rivivono sulla tela attraverso un’elaborazione visiva che sembra un invito a recuperare la bellezza perduta, oggi che quei fili di cui si diceva prima sembrano essersi del tutto disgregati.

 

E ricollocare i materiali rispetto alla loro destinazione naturale, è quello che fa Gix, nome d’arte di Giovanni Strafella, il quale lavora sui materiali con una ricerca molto avanzata, verso l’informale più arduo. Moltissime le mostre cui ha partecipato, come “Arkè Arco dei Pappi”, Copertino e “Kontemporanea”, Lecce, nel 2004, “Caroli Hotels”, Gallipoli e “Castello – Corigliano D’Otranto” nel 2005,  al Palazzo Baronale Romano, Pisignano, e alla Cappella Santa Anastasia, Copertino, nel 2006, “Arte Spazio”, Treviso, 2006, “B&B Chiesa Greca”, Lecce, nel 2008, “Cantine Aperte “Taurino”, Guagnano, 2009, “La Locanda”, Copertino, “Palazzo Ducale”, Presicce, “Arte alla Torre”, Leverano, 2012, “Shoah”, Stazione FSE , Copertino, 2015, ecc. Un’esplosione di colori, la sua arte, che si esplica nella più totale libertà di intrugliare elementi diversi presi anche dalla nostra tradizione contadina del passato.

A metà fra pittura e scultura, le sue opere, come “Luce nel vuoto”, “Ecocentro”, “Sviluppo lineare”, “Movimento del passato”. Gix è un artista sempre in movimento. “Nell’agire di Gix niente di riflessivo che miri ad un risultato, niente di appagante o di appagato, ma pulsioni al primo stadio, incuranti del seguito di critiche e giudizi che potranno suscitare. Eppure in tanti, ormai, ci fermiamo davanti ad una sua opera alla ricerca di una risposta. Gix pone domande con la fermezza di chi proclama assiomi”, scrive U.V.A, nel catalogo “Gix: ammiratore dell’energia” (Sannicola, s.d.). Giovanni Strafella vive ed opera Copertino, ha anche un sito: www.gixart.it. V’è, nelle sue opere polimateriche, come “Anarchia cosmica”, “Forma plastica”, “Croce rossa”, “Evoluzione”, una vitalità che si trasmette all’esterno e sembra voglia conquistare l’universo. “In tale processo di trasformazione, le forme e le soluzioni formali sono tutte chiamate in causa e non ci stupisce per questo andare di continuo tra una possibile scultura o un’ installazione ed una giacenza orizzontale”, scrive Angela Serafino, nel sito. “Tutto si muove perché il Caos non conosce direzioni uniformi. Coinvolge tutto attorno, lo invade, poi si addolcisce e si commuove per tutta la estensione di cui è capace, dopo aver raccolto di qua e di là le possibilità di esplorazione. Queste estensioni, cariche di passaggi, sono le opere di Strafella”. E Paola Nestola: “Gix, disintegrando e reintegrando la realtà, si libera di una tensione tradotta, più che in espressionismo figurato, in espressionismo astratto”.

Fra i più interessanti artisti dell’ultima generazione è sicuramente Rocco Cardinale, originario di Taranto, che vive ed opera nell’isola di Las Palmas de Gran Canaria. Nato nel 1981, spirito inquieto, ha fatto varie esperienze e sperimentato varie forme di comunicazione. Amante dei fumetti e della musica punk, con una formazione classica alle spalle, ha capitalizzato le sue passioni nella forma artistica a lui più congeniale. La sua creatività si esprime fra pittura e disegno, la sua cifra stilistica è un concentrato di suggestioni diverse. Suggestiva è del vero la mostra “La folla e gli sguardi”, tenutasi presso l’ex Convento dei Teatini, Lecce, nel giugno 2013. Nelle figure rappresentate, tributarie della fumettistica, quello che colpisce sono i tratti somatici, in particolare gli occhi e la bocca, volutamente dilatati, esagerati, distorti. Una folla di sguardi senza nome che ci osservano con fare circospetto, oppure sornione, sottilmente diabolico, sempre inquietante. C’è un po’ sotto traccia l’inquietudine del perturbante, di freudiana memoria.

Cardinale è sicuramente molto vicino alla street art e al writing, anche per motivi anagrafici. L’artista infatti vive il proprio tempo, è immerso nel mondo contemporaneo con la sua multimedialità, gli innumerevoli stimoli, e questo si riflette nell’eterogeneità delle fonti della sua arte visiva. Egli non è legato ad una scuola particolare né ad una temperie storico artistica definita, semmai la sua arte si caratterizza per un nomadismo culturale, come lo ha definito Toti Carpentieri nel catalogo di presentazione della mostra “La folla e gli sguardi” (a cura di Toti Carpentieri, con traduzione in inglese e spagnolo, Galatina, Editrice Salentina, 2013). Precisamente, la sua arte si può definire skate/surf art, una forma di espressione certamente influenzata dall’arte dei murales e dalla musica punk. Figure di uomini e di donne si ammassano nei suoi quadri, realizzati con la tecnica del collage, a riempire tutto lo spazio, con colori particolari dati dalla mina e dall’acrilico utilizzati. A volte, le figure umane si trasformano, divengono figure indefinite, vagamente grottesche. Volti su volti, che rivendicano il loro diritto di esistere e cercano di comunicarci dalle tele un messaggio indecifrabile, forse l’incomunicabilità stessa. Cardinale ha esposto in mostre collettive e personali, come al “Surf cafè” di Taranto nel luglio 2010 e luglio 2011, e presso la Chiesa di Santa Maria della Pace a Lecce, nel dicembre 2011, in occasione della presentazione del libro “Formazione, trasformazione, riformazione. Dialogo emotivo per immagini”, di V.Colapietro e M.E. De Carlo (Franco Angeli Editore, 2011), che riporta in copertina una sua opera. Nel 2015, Cardinale ha esposto all’Agora Gallery di New York, nell’ambito della mostra collettiva “The Manifestation of Milieu”. Insomma, un artista di talento da tenere presente.

 

PAOLO VINCENTI

Libri| Avanti (o) Pop

di Antonio Soleti

Ritorna, con “Avanti (o) Pop”, la penna, graffiante e acuta, di Paolo Vincenti; il volume, che si pone in continuità ideale con “L’osceno del villaggio” ed “Italieni”, raccoglie diversi articoli scritti prevalentemente nel 2017. Anche in questa raccolta, l’autore riprende temi a lui cari, fra cui la TV e gli anni Ottanta, mescolandoli ad argomenti di attualità (la legge sul suicidio assistito, il divieto di indossare il burkini in spiaggia, la cronaca politica italiana…), in una sorta di documentario del nostro tempo: cronista attento e un po’ bizzarro, si guarda intorno e interroga la realtà, ma guarda anche dentro di sè, con felici incursioni nel suo passato di ragazzo cresciuto a “pane e serie televisive”. Ci si trova così davanti ad articoli arguti e briosi sul giornalismo, dal titolo accattivante, come “La patata è buonissima”, “Il meglio del peggio”, “Par condicio”, in cui l’autore riflette sul potere della parola e sulla forza dei media; ma ci si imbatte anche in riflessioni su temi ampiamente conosciuti e che impegnano le nostre coscienze, come, ad esempio, gli articoli sul fine vita o quelli sull’ambiente. Il suo humour emerge, frizzante, quando racconta aspetti di costume di questa società, come in “Tutti al mare”, che, mutuando il titolo da una canzonetta sin troppo famosa, schizza un bozzetto divertito della nostra vita di spiaggia, con il suo parterre di bellezze finte, rifatte, sovrapponibili. Nella sua panoramica, si diverte a sottolineare le incongruenze di personaggi pubblici dello spettacolo e della politica: Emilio Fede, la Raggi, la Boschi… difficile sfuggire ai suoi strali! Ad aprire la maggior parte dei brani sono i versi delle canzoni, non solo quelle del repertorio dei cantautori storici italiani, ma anche quelle di autori comici e disimpegnati, in linea con la leggerezza dei pezzi più ironici e corrosivi. Indispensabile, una nota sul titolo: in questi tempi, infatti, in cui il termine “populismo” viene usato ad ogni piè sospinto, a proposito e a sproposito, lui sceglie un titolo altamente provocatorio. E’ populista Vincenti? No, lo dice chiaramente in un articolo. E’ pop? Evidente è il riferimento al pop e alla società dei consumi, che egli osserva attentamente e della quale racconta già da qualche tempo. Lasciamo ad altro contesto l’approfondimento sul pop; qui fermiamoci alla società di massa, senza identità specifica, per la quale i valori di riferimento sono diventati la mercificazione, la pubblicità, il consumismo, i prodotti in serie. Nel titolo, però, il termine è accostato ad una parola, “Avanti”, che ci rimanda al ben noto inno del partito comunista italiano. Sebbene Vincenti sia ideologicamente lontano da una certa tradizione e scuola di pensiero, proprio questa è l’essenza del pop: accostare ciò che è diverso, assemblare storie e pensieri tra loro inconciliabili, in una sorta di “blob cartaceo”, come da altri critici sono stati definiti i suoi libri. Il gioco di parole ci induce, nel leggere, a sovrapporre i due contesti: un popolo alla riscossa e il pop come celebrazione della società di massa. Resta il dubbio che non vi sia alcuna riscossa possibile. Il riferimento al pop, tuttavia, si coglie soprattutto nella varietà dell’ispirazione, nell’eterogeneità degli scritti, nel melange fra impegno sociale e scherzo, nella scrittura, ricercata con nonchalance. A intervalli irregolari, si trovano delle Saturae: spaccati e frammenti di quotidianità che il Nostro raccoglie e mette insieme, a ricordarci che la realtà politica e sociale in cui siamo immersi è varia, frammentaria, molteplice: il cittadino si trova sballottato fra beghe di politici dallo spessore inesistente e drammi quotidiani. Il titolo scelto per questi pezzi è emblematico perché ci riporta alla prima fonte di ispirazione di Vincenti: la letteratura classica. Satura lanx è infatti un’espressione latina che rimanda alle prime forme di teatro rudimentale, così chiamate dal piatto di primizie che venivano offerte agli dei durante le sacre cerimonie e, in senso traslato, per indicare la varietà di temi e di ispirazione che caratterizzavano queste rappresentazioni, farse, appunto, da “farcio”, ossia “infarcitura”, di motivi comici. E la varietà è quella che rivendica Vincenti ai propri scritti, oltre all’umorismo con cui bersaglia fatti e persone dei nostri tempi. Tempi tristi, sicuramente, in cui è meglio ridere per non piangere. Che fare, allora? Il ritorno ai miti è una strada percorribile; ecco, dunque, un nutrito gruppo di articoli sui miti dell’autore: gli anni Ottanta e i Novanta, le serie TV di quegli anni, le loro sigle, gli autori. Vincenti si sofferma in particolare su questi anni, raccontando le sue emozioni, i suoi ricordi, ci regala persino alcuni frammenti della sua vita privata. Affiora, in questi articoli, una nota lieve, lunga, di nostalgia: i nostri supereroi, quelli dei cartoni animati e delle serie TV, Goldrake, Lady Oscar, L’uomo tigre, Jeeg Robot, Fonzie, erano finzione, invenzione, ma ci hanno lasciato qualcosa a cui aggrapparci e, “quando il gioco si fa duro”, sembra dirci l’autore, ecco che interviene la memoria che “a volte è come un vecchio jukebox, che aspettava solo la monetina per partire”. Troviamo un Vincenti più intimo, nostalgico; ed è proprio con un racconto sulla sua vita di scrittore complesso, in bilico tra desiderio di essere celebrato e insofferenza nei confronti di chi lo critica, “L’apprendistato del letterato”, che chiude la raccolta, senza rinunciare, tuttavia, alla sua ironia pungente, con un finale ad effetto, un vero fulmen in clausula alla Marziale. Fra citazioni colte e sberleffo, fra avvelenato pamphlet e godibile divertissement, ancora una volta, con questa Satura lanx degli anni Duemiladieci, il lettore è servito.

 

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