Mesagne : Epifanio Ferdinando e un’occasione mancata

di Armando Polito

Su Epifanio Ferdinando (1569-1638) il lettore che lo desidera potrà trovare un’ampia messe di contributi, digitando nome e cognome nell’apposita casella di ricerca. Oggi aggiungo  un piccolo tassello nato, come spesso succede, per puro caso o, se si preferisce, per ispirazione indiretta.

Nel corso di una ricerca sull’etimo di un toponimo brindisino,  che a breve renderò pubblica, se il titolare di questo blog vorrà non tener conto degli epiteti da me usati nei confronti di chi se ne è occupato dal 1745 fino all’anno in corso …, era fatale che, partendo inevitabilmente dalla fonte più antica, la Antiqua Messaprographia del nostro, tuttora rimasta manoscritta, il confronto si estendesse alla Messapographia sive historia Messapiae del figlio Diego (1611-1662), pubblica nel 20201.

Non potevo neppure trascurare la lettura della traduzione, anch’essa tuttora inedita, che dell’opera di Epifanio fece, integrandola con le sue aggiunte, Antonio Mavaro (1725-1812).

 

Probabilmente il Mavaro aveva intenzione di pubblicare la sua opera che, almeno strutturalmente, appare pronta. Essa, infatti, come nella migliore tradizione di quell’epoca, si apre ospitando due componimenti encomiastici, un epigramma in latino in distici elegiaci ed un sonetto, dedicati ad Epifanio dal canonico mesagnese Francesco Roma. Riproduco la carta originale, aggiungendo la trascrizione, la traduzione a fronte dell’epigramma e qualche nota esplicativa.

 

Rimane da spiegare l’occasione sprecata del titolo. Essa è strettamente legata alla ricerca etimo-toponomastica della quale ho detto all’inizio. Se il Mavaro avesse riportato integralmente il testo originale in latino di Epifanio (lo fa solo per il primo capitolo; per il resto la sua traduzione è in realtà un compendio), avrei potuto fare la collazione con l’unica copia finora nota dell’opera del Ferdinando. Ma, per comprendere l’importanza vitale di questo passaggio, fondamentale non solo quando la fonte è manoscritta …, bisognerà leggere il prossimo contributo, sempre se sarà qui ospitato …

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1 Diego Ferdinando, Messapografia ovvero historia di Mesagne, a cura di Domenico Urgesi con la collaborazione di Francesco Scalera, Società storica di Terra d’Otranto, Lecce, 2020.

 

“Lu Schizzu e la Tota”, Giuseppe Petraglione e gli usi nuziali a Salice nel 1900

“Venere dea della bellezza, dell’amore, della fecondità” rappresentata in “I giorni della setti-mana”, Ed. Sborgi, Firenze cartolina policroma non viaggiata inizio ‘900 (coll. privata).

 

di Gilberto Spagnolo

 

Ricordare e onorare personaggi rappresentativi di rilevanti percorsi culturali che hanno lasciato un segno indelebile non solo nei luoghi stessi della memoria, ma anche del sentimento e dell’affetto, certamente significa contribuire in maniera molto significativa alla conoscenza e alla valorizzazione della ricerca e della stessa dimensione culturale. Ne è un esempio eccellente, l’iniziativa della Società di Storia Patria per la Puglia (sez. di Bari, presidente Pasquale Corsi) che recentemente ha promosso, nella collana “Memorie”, la pubblicazione di un nuovo testo intitolato Giuseppe Petraglione. Scritti Pugliesi (1894 – 1945), a cura di Giuseppe Trincucci, con un Ricordo del nipote Giuseppe Attimonelli Petraglione, prefazione di Pasquale Corsi, introduzione di Giuseppe Trincucci (Bari, Pressup. 2022, pp. 371).

Giuseppe Petraglione in un disegno a matita eseguito da M. poli (copertina della raccolta “Scritti Pugliesi” di Giuseppe Trincucci).

 

Il testo è infatti una raccolta di scritti di Giuseppe Petraglione (alcuni anche dispersi in pubblicazioni difficilmente rintracciabili) dedicati alla Puglia nel senso più ampio del termine, raccolta selezionata ed organizzata da Giuseppe Trincucci, presidente della sezione di Lucera della Società (nella sua introduzione ne delinea anche il profilo come studioso) e che ne testimonia il suo grande e non comune impegno culturale e umano.

Giuseppe Petraglione (Lecce 13 luglio 1872 – Bari 4 giugno 1947), insegnante ed educatore nella scuola di intere generazioni (fece parte anche del Consiglio superiore della Pubblica istruzione e condusse “memorabili battaglie per lo sviluppo della scuola”) è stato soprattutto un raffinato letterato e ricercatore di notevole valore, perché ha dato un contributo di alto livello scientifico per circa cinquant’anni alla cultura non solo pugliese, ma anche in generale italiana. Insegnante e ricercatore storico, come si rileva dal profilo del Trincucci, fu infatti autore (in particolare e in sintesi) di importanti studi demo-antropologici della sua terra d’origine, il Salento, e come bibliofilo, fu anche molto attento ai problemi relativi alla nascita della stampa nella sua provincia, dibattuti con altri studiosi salentini (come Bernardini e Foscarini). Fondò con Michele Gervasio la rivista Japigia, curando per anni la preziosa rubrica Bollettino Bibliografico dedicato alla Puglia. Nel 1943, dopo la morte di Gennaro Maria Monti (altro importante studioso) divenne poi presidente della Deputazione di Storia Patria per le Puglie.

“La morte lo colse (scrive Trincucci nell’introduzione) il 4 giugno 1947 dopo aver concluso la sua intensa vita, dedicata alla scuola e alla cultura italiana. Continuò fino alla fine il suo lavoro di studioso, conservando l’impegno per la salvaguardia dell’identità della Deputazione per la Storia Patria per le Puglie. La morte non poteva coglierlo in ozio stupido”.

Cartolina postale del periodico “Terra d’Otranto” inviata a Giuseppe Petraglione l’11.12.1922 (coll. privata).

 

Un personaggio straordinario, dunque, al quale la Puglia deve indubbiamente molto, e questo libro ne rappresenta certamente “il recupero più completo della sua personalità” (Pasquale Corsi). Il testo, come si può notare, è molto importante per diverse ragioni; una in particolare, in questa sede, ci interessa più di tutte e la sottoponiamo ai nostri.

Va detto anzitutto che nell’unitarietà della raccolta una “cospicua percentuale di questi suoi scritti si inserisce nel filone delle tradizioni popolari del Salento”. Questi studi iniziano con un articolo sugli Usi Nuziali nella Terra d’Otranto e precisamente con un lavoro relativo alla comunità di Salice Salentino.

Salice Salentino, Via Roma, cartolina viaggiata il 25.5. 1956 (coll. privata).

 

L’articolo fu accolto nel 1900 nel prestigioso Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (Palermo, maggio 1900) fondato dopo il 1880 ad opera di Giuseppe Pitrè e da lui diretto assieme a Salvatore Salomone Marino (1882-1909).

Un articolo perciò quasi impossibile da trovare in originale, ma che i cittadini di Salice, e in generale gli studiosi del Salento, hanno già avuto la possibilità di leggere perché nel 1985 fu riproposto integralmente a cura di Enzo Panareo nel “Quaderno di Ricerca – Costumi e Storia del Salento”1.

Lo studioso Petraglione, in questo suo lavoro, descrive con prosa asciutta ed incisiva e con ricchezza di particolari usi nuziali e tradizioni che ormai sicuramente non esistono più (e che anche i più anziani difficilmente potranno ricordare), beneficiando dell’ospitalità del sacerdote Federico De Nisi, forse un parente di quel Giovanni De Nisi autore di Salice Terrae Idrunti (Storia aneddotica dal X al XX secolo) pubblicato nel 1968 a Ostia.

Tante cose da allora sono scomparse o cambiate e “gli usi nuziali” sono stati sostituiti da altre “modalità” molto più appariscenti caratterizzate certamente dall’aumentato benessere economico.

La domanda che comunque sorge spontanea è perché nella vasta Terra d’Otranto proprio a Salice il Petraglione comincia, come dichiara lui stesso, a esplorare gli usi e i costumi del popolo salentino, recandosi sul luogo di persona, forse invitato dallo stesso sacerdote Federico de Nisi con cui probabilmente aveva un rapporto di amicizia. Un settore questo ancora “incontaminato” dalla ricerca e che gli studiosi locali avevano trascurato, dedicandovi scarsa attenzione.

Prezioso è l’ampio campionario dei termini dialettali (oggi quasi del tutto scomparsi) che si susseguono nella narrazione dei particolari e molteplici usi (parlamentu, zzita, puddhica, quartuddhu, schizzu, tota, cannillini, ecc.).

Da un matrimonio a Salice anni 50-60 (Archivio Saverio Iacoi).

 

Da un matrimonio a Carmiano primi anni ’60 (coll. privata).

 

La narrazione del Petraglione, divisa in sei parti, inizia infatti con lu Parlamentu ovvero con il giorno in cui le famiglie degli sposi concordano la data del matrimonio, e nello stesso tempo definiscono i propri impegni e interessi. È questo un momento determinante in quanto in tale occasione lo sposo deve fare un regalo “di valore” alla futura sposa che a sua volta ricambia sempre con una camicia di tela piegolinata.

Qualora si verifichi che tra il giorno della richiesta e quello del matrimonio cada la Quaresima, Lu zzitu (ovvero il fidanzato) nella Domenica delle Palme deve offrire alla futura sposa una palma benedetta “finemente lavorata, dalla quale pende un nastrino di color vivace, che reca agli estremi un anello d’oro”. La zzita (la fidanzata) a sua volta deve ricambiare con una puddhica (caratteristica forma di pane casalingo che veniva preparata solo in ricorrenza della Pasqua) portata in un cestino di paglia quartuddhu che deve contenere necessariamente 21 uova (un preciso valore numerico che però simbolicamente il Petraglione non riesce a spiegare).

Da un matrimonio a Novoli primi anni ’50 (coll. G. Metrangolo).

 

“I capitoli matrimoniali” vengono definiti dalle famiglie, senza affidarsi ad un notaio, ma semplicemente a un loro conoscente “che sappia scrivere e far di conto” e in grado perciò di fare l’inventario (lu schizzu) della dote (tota).

Il Petraglione elenca i seguenti oggetti e beni che porta in dote la sposa: il corredo personale, il letto, il cassettone, la cassapanca, due tavole una per uso quotidiano e l’altra per cumparsa, sei sedie, la madia (la mattra)la tavola a madia (la mattrabanca) e gli arredi di metallo per la cucina (ferramenti e rami) cioè: una casseruola (puzzunettu)una padella (fersura)una gratella (riticula), 2 treppiedi (trapieti e triangulu), la catena del fuoco (camastra), la caldaia, la grattugia e un ramajolo (cucchiara per li maccarruni).

Lo sposo invece ha una parte non meno importante perché deve provvedere alle stoviglie, a tre crivelli (sittazzu, ranaru e marcaturu), a ornare il cassettone (nubilire lu cumbò) con chicchere e altri gingilli, agli abiti e agli ori della futura sua moglie. Se lo sposo infine non è un contadino ma è un piccolo proprietario (razzàle) deve obbligatoriamente provvedere alla provvista del grano, dei legumi (cucinato), dell’olio, dei fichi secchi e quant’altro può arricchire la nuova coppia.

Quando le famiglie dei futuri sposi scelgono la data del matrimonio, essa deve essere individuata in autunno dopo la raccolta delle olive. Sprunare lu votu è la cerimonia della promessa nuziale e nella vigilia del giorno in cui deve farsi l’ultima pubblicazione, si svolge la parte più importante del rito ovvero lu ttaccare te la catina (il legare della catena), una cerimonia, come lo stesso Petraglione afferma, molto diffusa (e ancora oggi infatti lo si usa dire) nel territorio circostante. Narra il Petraglione (descrivendo le fasi della cerimonia che in questa parte definirei “regali” nel loro insieme) che “la sposa in abito modesto, siede in mezzo alla casa circondata dai parenti e dagli amici che sfilano uno per uno innanzi a lei.

Prima fra tutti viene la madre dello sposo, e cinge al collo della nuora la catina che ha nel mezzo cinque nodi d’oro e a’ lati due nastrini di velluto nero. Se lo sposo è razzàle il nodo mediano è arricchito da un ciondolo. Alla suocera seguono i parenti e gli amici d’ambo le parti i quali depongono in grembo alla sposa i propri regali, e la baciano in viso.

Col passare del tempo questa grazia primitiva va scomparendo, e al bacio sono ammesse solo le donne. I parenti offrono tutti quanti indistintamente un anello; gli amici un fazzoletto di seta o di cotone secondo i maggiori o minori obblighi che hanno verso le famiglie degli sposi. Lu zzitu regala egli pure alla fidanzata un fazzoletto, e le dà sulla guancia il primo bacio ufficiale”.

Lu ttaccare la catina dura 8 giorni e il matrimonio avviene di sabato. Gli sposi però ancora non si uniscono e a volte accade di rimandarlo anche alla domenica. Gli sposi comunque fanno la loro cumparsa (apparizione) nelle ore antimeridiane della domenica e questa è la parte più importante di tutta la celebrazione.

Scrive infatti il Petraglione: “Nel giorno della cumparsa, un gruppetto di signori del paese (non meno di tre né più di cinque) espressamente invitati si portano a rilevare la sposa che è già bella e vestita in mezzo a una schiera di parenti e di amici. Ella indossa un abito di seta vivacemente colorato e ha le dita addirittura coperte dagli anelli ricevuti in dono. Sul capo reca la tradizionale ghirlanda di fiori d’arancio e, qualche volta, un velo bianco (pettinatura).

La sposa si distingue per la sola pettinatura dalle paraninfe, le quali vestono anch’esse come nel giorno in cui andarono a nozze (nell’antico cerimoniale greco delle nozze, erano le persone che accompagnavano la coppia nuziale alla casa dello sposo). Fra i signori invitati colui che ha relazioni più vicine con la famiglia dello sposo (patrunu o cumpare) è destinato ad accompagnare la sposa. Questa gli offre un mazzetto di fiori e ne viene subito ricambiata. Gli altri signori danno il braccio alle paraninfe, e le coppie cominciano a ordinarsi per la cumparsa.

Nel momento di abbandonare il tetto paterno la fanciulla bacia le mani a’ genitori, che piangenti se la stringono al seno. Non appena la calma rientra negli animi, il corteo esce tra il rumore degli spari e il moltiplicarsi degli auguri.

Da un matrimonio a Novoli primi anni ’50 (coll. G. Metrangolo-Panico).

 

Le coppie marciano in fila: va innanzi il patrunu con la sposa, seguono poi gli altri signori con le paraninfe, disposte, quanto alla precedenza, in ragione di grado di parentela. In ultimo viene lo sposo, confuso nel resto della folla. Procedendo così, si giunge presso la chiesa, s’entra per la porta maggiore, e i signori offrono alle donne l’acqua benedetta,

A messa finita comincia il periodo più caratteristico della cumparsa: il corteo, ricompostosi, s’avvia verso la casa dello sposo tra lo scoppio assordante degli spari e una fitta pioggia di confetti (cannillini) che persegue le coppie durante tutto il tragitto. Spesso qualche parente, per nutrire meglio la scarica dei proiettili, lancia un pugno di soldi alla folla, e le comari aumentano la confusione gettando manate di fiori. Fiori, e talvolta noci, getta pure la suocera aspettante prima di aprire le braccia alla nuova figliuola che le sta per entrare in casa. Appena giunti, la sposa siede in mezzo alle paraninfe, le persone di famiglia servono caffè e liquori, e finalmente il patrunu e i suoi colleghi, accettata qualche cosa, sono messi in libertà”.

Da un matrimonio a Novoli primi anni ’50 (coll. G. Metrangolo-Panico).

 

Da un matrimonio a Novoli primi anni ’50 (coll. G. Metrangolo-Panico).

 

Da un matrimonio a Novoli primi anni ’50 (coll. G. Metrangolo-Panico).

 

Il rito finalmente si è compiuto ed è giunto il momento di festeggiare con la caulata (cavolata), il banchetto al quale devono partecipare tutti i parenti fino all’ultimo grado e che consiste in una semplice minestra di cavoli come primo piatto (e che dà il nome al banchetto stesso) poi maccheroni, polpette, e il tutto innaffiato con buon vino paesano. Il banchetto si svolge mentre ancora “il rumoreggiare secco degli spari” si sentono pienamente. Il mattino seguente la suocera va a svegliare gli sposi (essi per 8 giorni non devono uscire) e offre loro una frittata, cibo fatto con le uova e che il Petraglione, in nota segnala infine come afrodisiache.

In conclusione, dalla descrizione fatta dal Petraglione, ne esce per Salice un mirabile affresco di vita degli inizi del ‘900. Sono pagine bellissime che nel loro ricordo ci frastornano e ci disorientano, e di cui oggi forse resta qualcosa. Ma è come se fosse una semplice ruga riconoscibile in una fisionomia mutata, in contesti fortemente trasformati e in cui i particolari sono stati sostituiti. Forse provocano rimpianto o una sana nostalgia per come eravamo noi e non siamo. Ma ora non lo possiamo essere più.

 

In “spazioapertosalento.it”, 2 ottobre 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 531-536, Novoli 2024.

“Breviario Grimani”, Lo sposalizio, serie i “Dodici mesi”, Libreria Artistica Internazionale, Ed. Ongania, Venezia Piazza S. Marco, cartolina inizio ‘900 (coll. privata).

 

Note

1 Nel febbraio del 1985, il Centro Regionale di Salice Salentino e Guagnano (CRSEC) pubblicò integralmente il saggio del Petraglione sul primo numero della rivista “Quaderno di ricerca Costumi e Storia del Salento”, (Grafiche Panico di Galatina, pp. 5-12). Il saggio del Petraglione fu introdotto sulla rivista, con alcune notizie biografiche, da Enzo Panareo con il titolo Usi nuziali in Terra d’Otranto-Salice Salentino-di Giuseppe Petraglione. Il Panareo già allora, metteva in risalto l’importanza di questo contributo scrivendo: “Un discorso – tenuto sul filo d’un metodo moderno, fondato sulla investigazione diretta, sul dato reperito alla fonte – con il quale Petraglione getta uno sguardo sulla cultura delle classi popolari e ricavandone un granello di saggezza lo sparge, come il seminatore paziente, al vento perché scenda sul fecondo terreno della cultura”.

”Messaggi d’amore”, calendarietto profumato cosidetto “del barbiere”, in cromolitografia, da tasca e pubblicitario, Borsari e C. già Sacco Borsani e C., Parma 1926 (coll. privata).

La “Casa rossa”, fuori San Pancrazio Salentino

La “Casa rossa”, fuori San Pancrazio Salentino, accoglie Nostra Signora di Lourdes, e la memoria va alla tradizione

 

di Michele Mainardi
La strada statale “7ter” da Guagnano dritta dritta ci porta a San Pancrazio Salentino. La vecchia via consolare Lecce-Taranto taglia il paese per tutta la sua lunghezza, ma noi ci arrestiamo un chilometro prima di entrare nell’abitato.
Siamo colpiti dalla figura tozza, terragnola, di quello che da lontano parrebbe un comune, piccolo fabbricato rurale. Avvicinandoci emerge la sua natura: è la chiesetta della “Madonna della Casa rossa”.
Il cartello segnalatore, posto a lato d’ingresso spartano, ce lo dice a chiare lettere, e ci aggiunge non l’anno, ma il secolo della costruzione: il diciannovesimo. Null’altro è dato sapere. Nell’assenza di spiegazioni entriamo, nel vano che offre spazio a sufficienza per starci in tanti.
La cappella, nel dentro, dà segni di ripresa della devozione: a Nostra Signora di Lourdes, la cui statuina, nuova d’acquisto di grandi magazzini, l’hanno collocata sopra il tabernacolo. L’altare è rifatto e rispecchia in pieno il sentire semplice della gente di campagna: un gradino di pietra leccese, il blocco compatto del paliotto di identica materia e la mensa eucaristica è bell’e pronta per il sacrificio della messa rusticana,  sempre valida per l’oblazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo.
I fedeli dei nostri giorni continuano ad onorare la Santa Vergine, l’Immacolata Concezione che si rivelò a Bernadette Soubirous (la figlia del povero mugnaio), mettendosi d’impegno per non farle mancare i fiori, o meglio le piante che con due lumini ravvivano lo specifico culto mariano. La “bianca e celeste figurina” della Madre del Salvatore rivede così la luce di un tempo andato, di quando, dopo un periodo di sospensione delle liturgie, alla venuta del nuovo parroco, nel 1951, fu ripreso l’uso di celebrare in campo aperto, e precisamente in contrada “Inverno”.
Si deve quindi a don Luigi Spagnolo il ritorno della comunitaria condivisione del Pane e del Vino e del rito della processione, dalla cappella alla chiesa matrice, portando in spalla il simulacro di Maria. Recitando preghiere, innalzando canti ( “Va un dì Bernadetta fuscelli a cercar con due bambinette che il gel fa tremar”), la gente, a maggio inoltrato (sùbito dopo la festa solenne del venerato patrono Pancrazio, che cade il 12), completava il percorso devozionale accompagnando in religiosa fila la bella Madonnina di fuori le mura.
In testa, in coda, era tutto un litaniare, un tono monocorde di latinorum che saliva biascicante nell’alto dei cieli, nei profumati meriggi  di avanzata primavera delle rose: Foederis arcaTurris eburneaStella matutina.
Facevano a gara, le pie donne, a prenotare la presenza della statua della Corredentrice nelle loro case. Dopo un giorno e una notte di orante sosta domestica si passava all’abitazione accanto, e così via via, addobbando le pareti degli edifici intercorrenti tra una fermata e l’altra.
La funzione all’aperto, celebrata dal prete organizzatore, col tempo buono maggiaiolo (ma niente maggiolate, per carità di Dio!), riusciva alla grande: l’ideale per mettersi il cuore in pace, facendo contenta tutta la famiglia, che si spendeva per non essere da meno. Le vicine, specie quelle del parentado, non lesinavano su niente. Ricamate lenzuola e preziose coperte venivano stese lungo il percorso, da porta in porta.
Poi, a conclusione del giro, si riaccompagnava, sempre processionalmente, a “Casa rossa”, la Madre Santa, che ivi stazionava, paziente, un anno intero, prima di riprendere il penitenziale cammino sanpancraziese.
Andava avanti in tal maniera, supplicante e dignitosa, la tradizione che si è persa, evaporata per consunzione di partecipanti. Ci resta però la vecchia foto della festicciola, più esattamente un intrattenimento agreste, che si teneva alla partenza, nello spazio di terra appena battuta facente sagrato contadino. Si vede il gruppo dei devoti, mamme papà e figlioletti al séguito, che fa goloso capannello intorno al carretto del gelataio, il popolare “Zzappettinu”, l’ambulante simpatico che dispensava felicità a buon mercato a grandi e piccini con la sua specialità: il cono al limone, una delizia da dieci lire.
Ad avvio dei Cinquanta, quando ancora da noi latitavano i frigoriferi (men che meno i portatili: roba americana), ci pensava il sorbettiere in triciclo, che tutti apprezzavano in paese, a vendere brividi di cremose dolcezze: davvero inarrivabili. Aveva sul fianco del suo prezioso, ghiacciato trabiccolo attaccata la striscia con stampato il saluto benaugurante alla giornata attesissima, che lo avrebbe reso conteso e consacrato protagonista. “Salve Regina!”, nostra zuccherosa dispensatrice di freddissime golosità.
“Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati”. Ci vollero 19 lunghi, lunghissimi anni prima che Battisti incidesse “I giardini di marzo”.
E a San Pancrazio, a maggio del ’53, già all’uscita dalla cappellina di zona “Inverno” (niente a che fare con la brutta stagione) ci si deliziava con la gelateria “a tre ruote” di Giuseppe Zattini. Brrr.
“Che anno è, che giorno è”…

Dialetti salentini: crièttu

di Armando Polito

 

Ricercare l’etimo di una parola obsoleta è come effettuare un’autopsia. La parola di oggi, però,  è ancora di uso frequente ma è il suo significato che mi ha ispirato la macabra similitudine. Essa, infatti è sinonimo di morto e, pur usata prevalentemente in riferimento ad un animale, può vantare (!) una traslazione nell’umano, dove, come di regola succede con le metafore di origine bestiale, assume una sfumatura di disprezzo, al pari dell’italiano crepato, riservato, come sinonimo di lesionato,  ad una terracotta o, come sinonimo di morto,  ad un essere umano la cui fine provoca a volte se non una soddisfazione, almeno un dispiacere maggiore rispetto ad un oggetto cui eravamo legati. In un colpo solo, insomma, riusciamo a mancare di rispetto a coloro che passano, per chi ci crede, a miglior vita non solo tra le cosiddette bestie ma anche tra gli altri animali cosiddetti umani.

Le guerre chirurgiche  in atto, con l’esplosione delle bombe intelligenti (due metafore inventata da qualche ipocrita e psicopatico che ben sapeva che non sarebbero state in grado di risolvere cinicamente nemmeno il problema della sovrappopolazione del pianeta …) mi forniscono, purtroppo, l’ispirazione per spiegare l’etimo della parola di oggi.

Il creepitio delle armi è musica per le orecchie dei guerrafondai di ogni latitudine e una radice, probabilmente anch’essa onomatopeica come quella di bombam di scoppio e di boato, unisce crepitio alla madre crepitare, come balbettio a balbettare, ronzio a ronzare, mormorio a mormorare, calpestio a calpestare, e simili.

Crepitare è, tal quale, dalla voce latina, a sua volta frequentativo di crepare (da cui la voce italiana). Le forme frequentativo seguono un processo di formazione molto semplice, aggiungendo un suffisso  al supino del verbo madre. Così crepitare nasce da crèpitum, supino di crepare, come captare nasce da captum supino di càpere (che in latino significa prendere e in italiano ha dato capire).

Il nostro crièttu non è altro che il crèpitum latino di cui poco prima, attraverso la trafila: crèpitum>creptum (sincope, cioè caduta di –i– atona)>crettum (assimilazione –pt->tt-)>crièttu (dittongazione  di –e– in –ie– , come in merun=puro>mièru, sinonimo dialettale di vino).

Ma ora debbo lasciarvi perché sono stato appena invitato  per telefono da qualcuno che mi è parso parlasse a nome di un’istituzione pubblica. Sarà sicuramente  qualche ministero con l’intenzione  di supplicarmi di accettare un contratto di consulenza. In che cosa? Ma se so di tutto! Se, poi, dovesse finire come ho immaginato nella vignetta, che riproduce un incubo della scorsa notte, vuol dire che brinderò alla salute di chi mi ha letto e particolarmente, come da prassi social, di chi vorrà onorarmi del suo commento, naturalmente favorevole …

 

L’antica fiera del Crocifisso di Casarano

Brevi note storiche

 

di Fabio Cavallo

Una regola non scritta ma valida fino a pochi decenni fa considerava rilevante, sotto il profilo economico-sociale, quella comunità che nel corso dell’anno godeva del privilegio di celebrare più fiere e mercati. Oggi, questo modello non regge più e, nell’era dell’e-commerce e dei grandi centri commerciali, le rassegne espositive di stampo tradizionale hanno subìto un forte ridimensionamento, tant’è che molte sono definitivamente scomparse. D’altro canto, il termine “fiera”, derivando dal latino fera che significa animale, bestia, indica quella rassegna mercatale in cui l’aspetto preponderante è il commercio di bestiame, impiegato in agricoltura o allevato per consumo alimentare. Le restrittive norme, attualmente in vigore, che includono motivazioni di carattere igienico-sanitario e istanze dei gruppi animalisti, ne limitano la vendita o addirittura lo vietano. Mancando dell’elemento della commercializzazione degli armenti, non si potrebbe parlare di fiera ma semplicemente di mercato.

 

Delle sei fiere che si tenevano a Casarano ne sono rimaste soltanto due, quella di San Giovanni Elemosiniere, a maggio, e del SS. Crocifisso, ad ottobre, entrambe collegate a due festività religiose molto sentite dalla comunità cittadina.

Il loro contributo allo sviluppo economico del paese è stato così incisivo che Cosimo De Giorgi (1842-1922) il grande ricercatore salentino, nei suoi “Bozzetti” (1) così ne parla:

…Casarano è uno dei più importanti e dei più civili paesi del Capo di Leuca. Ha il suo mercato settimanale ogni martedì e le sue fiere sono tra le più notevoli del circondario di Gallipoli…”.

Gli fa eco lo storico Giacomo Arditi (1815-1891), in “Corografia di Terra d’Otranto” (2) affermando che i mercati di Casarano sono i migliori del Salento.

Tale propensione commerciale aveva rappresentato, nel 1863, una valida motivazione per inoltrare, presso il Ministero di Grazia e Giustizia, una petizione a firma degli amministratori comunali al fine di scongiurare la soppressione del Mandamento di Casarano in quanto si celebrano:

“…5 fiere annuali di grandissima importanza per l’immenso concorso di negozianti di altre provincie…”.(3)

  Oltre a quelle già citate, le altre fiere erano quelle della Madonna della Campana ad aprile, di Sant’Antonio a luglio, Santa Filomena ad agosto e Santa Lucia a dicembre.

 

Quella del SS. Crocifisso è sicuramente la più sentita dalla popolazione locale. Istituita intorno alla seconda metà del Seicento per commemorare i numerosi miracoli operati da un affresco raffigurante la Crocifissione, (www.fondazioneterradotranto.it/2023/10/10/i-miracoli-operati-dal-crocifisso-di-casarano-in-un-libretto-del-1688/) (foto 2) la manifestazione fieristica, fino al 1812, veniva svolta il 14 settembre, in occasione della festa dell’Esaltazione della S. Croce. Da quell’anno in poi, un decreto del Re di Napoli Gioacchino Murat stabilì che la fiera fosse spostata alla seconda domenica di ottobre per farla coincidere con le volontà testamentarie di Don Daniele Calò (1626-1705), arciprete di Casarano e testimone oculare dei miracoli del Ss. Crocifisso, il quale aveva disposto un cospicuo lascito in denaro per la celebrazione di una serie di messe solenni in quella data.

 

Lo spostamento si rivelò più che azzeccato perché, ponendo la fiera all’inizio dell’autunno, essa rappresentava una vera opportunità per gli abitanti del Circondario di rifornirsi di provviste e viveri per il lungo inverno. Inoltre veniva considerata come atto di ringraziamento per i raccolti compiuti nei mesi primaverili ed estivi.

Uno dei primi accenni alla fiera del Crocifisso lo si deve al notaio casaranese Santo Riccio (1651-1726) che, tra l’altro, è l’autore di un dettagliato opuscoletto descrivente i miracoli compiuti dalla miracolosa immagine dal 27 gennaio all’8 febbraio 1688. In un passaggio della sua cronistoria, così parla citando la fiera:

Nella prima festività si fece con mostra del Santiss.mo Crocifisso che necessitava certa farina per fare colla per collare Carte che servevano per le muraglie della Città…mai detta farina Mancò…” (4) 

 

Il passaggio non è un capolavoro di lingua né di stile. D’altra parte il livello culturale di un notaio dell’epoca non era quello che si esige ai nostri giorni. A noi interessa sapere che, in occasione del primo anniversario della scoperta dell’affresco miracoloso, si tenne una “mostra” ossia una fiera(5).

La fiera, per moltissimo tempo, ha rappresentato una delle manifestazioni commerciali più popolari del mese di ottobre insieme a quelle di Miggiano (III domenica) e Ortelle (IV domenica).

Abbinato a questa ricorrenza, un tipico piatto della cucina salentina, le cicureddhre a minescia, che riscuote ancora oggi molta popolarità fra i casaranesi. Si tratta di cuocere in brodo le cicorie selvatiche, raccolte nei giorni precedenti la fiera, le quali, una volta cotte, si sposano armoniosamente con la carne di maiale, specialmente con “u camusceddhru”, la pancetta tagliata in spessi tocchi. (foto 5)

 

Probabilmente l’epiteto legato a questa festività, ossia “Curgifissu te lu citu”, oggi completamente rimosso dalla memoria collettiva, potrebbe trovare l’origine nel greco antico “Kytos” che significa pelle, cuoio, e nel tardo latino “cùtica” ossia pelle o cotica di maiale. Quindi Curgifissu te lu citu indicherebbe il “Crocifisso della cotica”, nel cui giorno si consuma la carne di maiale. L’accostamento potrebbe risultare poco rispettoso ma necessario per distinguere questo culto da altri come il Crocifisso “te le feu” di Gallipoli, quello “te la macchia” a Ruffano, e “te lu Panieri” di Galatone.

 

Note

1)            Cosimo De Giorgi, La Provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Editore Giuseppe Spacciante, Lecce, 1882.

2)            Giacomo Arditi, Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Editore Leonardo Cisaria, 1879.

3)            Archivio comunale di Casarano, Memoria diretta ai Ministri di Grazia e Giustizia e delle Finanze del 15 luglio 1863.

4)            Cfr.: Antonio Chetry, Spigolature Casaranesi, II Quaderno, pag. 34.

5)            Non è nota la data esatta dei festeggiamenti per gli anni successivi. Si propende per il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della S. Croce.

La grotta dell’Angelo a San Pancrazio Salentino

 

di Michele Mainardi

Usciamo da San Pancrazio Salentino prendendo la strada provinciale “65”, stretta e non trafficata arteria che si innesta sulla via che va, a destra, a Erchie e, a sinistra, ad Avetrana. Poco dopo l’abitato, superata la statale “7 ter”, avvistiamo la nostra meta, che è a portata di sguardo: ci è facile raggiungere “Masseria Torre Vecchia”, una struttura agrituristica immersa nel verde; ma noi non siamo qui per un soggiorno, un ristoro in ameno ambiente; ci ha spinto il desiderio di visitare il gioiello storico-artistico inglobato nel perimetro del complesso extralberghiero.
La grotta “dell’Angelo” si presenta ai nostri occhi in tutto il suo (residuo) splendore. Anche se molto col tempo è andato perduto dei suoi affreschi parietali, che ne fecero una cripta (da antro probabilmente utilizzato come tomba a camera in età messapica: l’interrogativo è d’obbligo), resta intatto il fascino del luogo sacro. Scopriamone il perché.
Si accede alla cavità, approfondita nel tufo, mediante scalini ormai consumati. Sùbito ci appare una colonna, un grosso pilastro che sostiene la volta, in parte già crollata. La copertura in PVC, messa a protezione, di certo è un freno all’ulteriore degrado chimico-fisico del terreno.
Entriamo nel dettaglio dello spazio che funse da aula di liturgie per religiosi di vita eremitica. Ha due entrate: a tramontana e a scirocco. La larghezza, occhio e croce, è di cinque metri per cinque; l’altezza è a sufficienza per starci senza problemi: giusto per le dimensioni di una persona. La forma tende al circolare; nel pavimento, in posizione centrale, spicca il vuoto di un pozzetto interrato. L’acqua necessitava per chi nello speco trovava rifugio, in anima e corpo, vivendoci notte e giorno.
Venendo alle tracce di pittura degli effigiati se ne possono individuare forse una decina. Si tratta di santi con vesti panneggiate all’orientale: ampi mantelli di non si sa quali aureolati. La figura del Signore parrebbe la sua; l’indizio iconografico è tale da non esserne sicuri, ma ci sta: come non potrebbe presidiare la chiesa rupestre il Salvatore, il Cristo Pantocratore? L’Onnipotente è dunque presente anche se i secoli ne hanno appannato il volto.
Ben visibile invece è quello di san Vito, che ha pure il corpo integro e gli attributi suoi: il cane col pane gli è devotamente ai piedi, pronto per soccorrerlo al bisogno. Per fortuna il plausibile titolare di oratorio incavato resta il testimone indiscusso del passato: lui, il martirizzato, l’adottato, nel culto, dagli anacoreti venuti da Oriente, dall’Egeo periglioso, e stabilitisi nella Piana Messapica, e in gran parte del Salento, negli anfratti di gravine e di serre (intese nell’accezione di deboli alture).
Prima di uscire “allo scoperto”, dalla grotta delle  evaporate preghiere,  un’occhiata al soffitto va obbligatoriamente data: il cielo stellato e fiorito (con rosette), è vero, è un po’ offuscato, ma le croci sparse ci dicono che l’Empireo, nei tempi andati, i monaci solitari dovettero alfine scorgerlo; bastava alzare il capo in atto di ringraziamento al buon Dio, che da quaggiù lo stesso lo si vedeva assiso in trono tra i cherubini, in tutta la sua maestà, potenza e sacralità: e la beata visione al calar delle tenebre confermava nella fede.
Ali angeliche sostenevano battiti di profonda spiritualità tra gli oranti di sottoterra…

Dialetti salentini: l’acqua nei proverbi e nei detti

di Marcello Gaballo e Armando Polito

 

L’elemento fondamentale per la vita non poteva certo mancare nella vastissima antologia di saggezza che nel tempo soprattutto la cultura popolare ha compilato con locuzioni brevi, espressivamente efficaci e foneticamente accattivanti grazie alla rima ed all’assonanza (segnalate da una barra), quali i proverbi ed i detti, con riferimento ai campi più disparati, dalla medicina alla meteorologia, dall’economia alla religione. Se ne dà qui, senza la pretesa che essa sia esaustiva, una raccolta, senza distinzione tra detti e proverbi per rispettare l’ordine alfabetico, ma, laddove si è ritenuto opportuno, con un breve commento e con note esplicative che ne aiutino l’inquadramento nell’una o nell’altra categoria.

 

1 ACQUA E SSCELU NO PPÒTINU STARE AN CIELU

Acqua e gelo non possono stare in cielo

Ai fenomeni atmosferici non ci si può sottrarre; solo che il cambiamento climatico li ha resi più devastanti, nonostante la loro prevedibilità grazie agli strumenti tecnologici oggi disponibili, i satelliti anzitutto.

 

2 ACQUA PIU PIU[1],/TI MBODDHA E FFAZZA DDIU

Pioggia lenta, ti ammolla e faccia Dio.

 

3 ACQUA TI NOTTE:/SCILEPPU TI MORTE

Acqua (orina) di notte: giulebbe di morte

Uno dei si sintomi di malattie, anche molto gravi, dell’apparato uro-genitale.

 

4 ACQUA TI SCIUGNU, PÌSCIU TI TIÀULU

Acqua di di giugno, piscio di diavolo

La pioggia di giugno non sarà dannosa per tutte le colture, ma ha effetti micidiali su quella che un tempo era il fiore all’occhiello della nostra economia agricola: il grano. La pioggia era la benvenuta in aprile (vedi il n. 18).

 

5 ALE CCHIÙ ‘NN’ACQUA TI ‘BBRILE/CCA ‘NNU CARRU CU TTOTTE LI TIRE 

Vale più una pioggia d’aprile che un carro con l’animale che lo tira

Lapidaria considerazione sulla rilevanza economica di un buon raccolto, grazie al quale, fra l’altro, è possibile, magari, pensare pure ad un carro nuovo.  La pioggia d’aprile è preziosa per il fatto che dopo essa scarseggiava, come si rileva dal n. 27.

 

6 AN TERRA TI PICCATURI L’ACQUA QUANDU MÈTINU LI LÀURI

In terra di peccatori la pioggia quando mietono i lauri

Non pioverà mai perché gli allori, tutt’al più, si potano, non si mietono; non escluderemmo, però, un significato più profondo legato al valore metaforico di mètinu (danno un taglio secco) e làuri (vanagloria). Potrebbe sembrare strana, perché fenomeno tutt’altro che raro nel dialetto, la mancata diastole in làuri: laùri avrebbe fatto rima perfetta con ‘turi; non è avvenuto perché laùru era il nome di un folletto che faceva dispetti di notte e non a caso è (ne sopravvive solo l’etimo …) dalla seguente, sofferta  trafila: l’augurio>l’aùriu>l‘aùru>laùru (per agglutinazione dell’articolo).

 

7 ARIA ‘NNIGGHIATA,/ACQUA PRIPARATA

Aria annebbiataa, acqua (pioggia) preparata (vicina).

 

8 A SSETTEMBRE ACQUA E LLUNA/SO’ TI LI FUNGI  LA FURTUNA

A settembre acqua e luna sono la fortuna dei funghi.

 

9 CCUÈGGHI L’ACQUA QUANDU CHIÒE

Raccogli l’acqua quando piove.

 

10 CIELU RUSSU:/ O ACQUA O IENTU O FRÙSCIU

Cielo rosso: o pioggia o vento o scroscio.

 

11 CI TÒRTURA GGH’[2]ETE ALL’ACQUA HA TTURNARE

Se è tortora all’acqua deve tornare

La pazienza del cacciatore come metafora della perseveranza di chi vuol raggiungere il suo scopo.

 

12 CI VUEI ACQUA CERCA ‘IÈNTU

Se vuoi acqua (pioggia), cerca (chiedi) vento

Difficile dire se il riferimento è alla frequente associazione dei due fenomeni o ad un espediente per ingannare i capricci del tempo che spesso è il contrario di quello che vorremmo.

 

13 CO’ TI SEPPE CÈFALU E PPALUMBU, CUSÌ TI SAPE[3] L’ACQUA TI LU FUNDU

Come per te ebbe sapore (ti sembrarono saporiti) cefalo e colombo, così (ora) ha per te sapore l’acqua del fondo

Si è sempre a rischio di cadere dalle stelle (cefalu e palumbu, cioè pesce e carne, nelle faniglie contadine consumati solo nelle grandi occasioni, o quasi) alle stalle (acqua ti lu fundu, quella più ricca di deposito, simbolo della fine delle risorse).

 

14 CU’ LLA GGELATA/L’ACQUA È PPRIPARATA

Con la gelata l’acqua (la pioggia) è preparata.

 

15 É SCURUTU LU CARNIALE/CU PPURPETTE E MMACCARRUNI./MO ‘NDI TOCCA ACQUA E SSALE[4]/E QUATTRU, CINQUE LAMPASCIUNI

Si è oscurato (è passato) il Carnevale con polpette e maccheroni. Ora ci tocca acqua e sale e quattro, cinque lampascioni.

 

 

16 L’ ACQUA CA NO CCAMINA ‘NFITESSCE[5]

L’acqua che non cammina (scorre) imputridisce.

Metaforicamente è un inno ai benefici del movimento e, volendo, alla vita, anche quella cerebrale, attiva e animata da nuovi interessi.

 

17 L’ACQUA TI FRIBBARU/ TI ÈNCHIE[6] LU CRANARU

L’acqua (la pioggia) di febbraio ti riempie il granaio.

 

18 L’ACQUA TI LA CIPODDHA/È LA SIRCHIODDA

L’acqua della cipolla è la zappa per sarchiare.

 

19 L’ACQUA VAE SEMPRE ALLU PINDINU

L’acqua va (scorre) sempre al pendio.

 

20 LU CANE SCAUTATU[7] TEME PURU L’ACQUA FRESCA

Il cane scottato teme pure  l’acqua fresca.

 

21 LU PURPU SI CUCINA CU LL’ACQUA SUA STESSA

Il polpo si cucina con la sua stessa acqua

Metaforicamente in linea con lasciar cuocere uno nel proprio brodo.

 

22 LU SANGU NO SSI FACE MAI ACQUA

Il sangue non si fa (diventa) mai acqua.

 

23 MINTI LI MANU INTR’ALL’ACQUA FRESCA!

Metti le mani nell’acqua fresca!

Invito rivolto a chi si mostra troppo nervoso e il raffreddamento conviene che cominci dal dettaglio anatomico nella fattispecie immortalato dalle locuzioni venire alle mani, mettere le mani addosso a qualcuno e simili.

 

24 ‘NN’ACQUA QUANDU NASCU E ‘NN’ACQUA QUANDU FIURU, CI VUEI ‘RRICCHESSCE LU PATRUNU

(Un po’ di) acqua quando nasco e (un po’ d’)acqua quando fiorisco, se vuoi che il padrone arricchisca.

 

25 QUANDU LU SOLE PONGE, L’ACQUA È BBICINA

Quando il sole punge, l’acqua (la pioggia) è vicina.

 

26 QUANDU SI GGNÒRICA LA MATONNA TI L’ADDU, L’ACQUA È BBICINA 

Quando annerisce la Madonna dell’alto[8] (la parte di cielo che la sovrasta), l’acqua (la pioggia) è vicina.

 

27 TI LA TROU IO’ L’ACQUA!

Te la trovo io l’acqua!

Minaccia rivolta soprattutto a bambini particolarmente turbolenti o ribelli. Non è facile individuare lo slittamento metaforico subito da acqua, che assume il significato di rimedio per calmarti. Può darsi che ci sia un collegamento con il n. 21 e, meno labile, col n. 23. Non è da escludere, però, ancora un riferimento, dopo il purpu del n. 21, al mondo animale, partendo dalla constatazione che per separare due cani in lotta può essere efficace una secchiata; senza scomodare gli animali ma peccando di anacronismo, vengono in mente gli idranti usati dalle forze dell’ordine per sedare un tumulto.

 

28 TOPU ‘BBRILE/L’ACQUA INTRA ‘LLU MBILE[9]

Dopo aprile l’acqua (la pioggia) dentro il contenitore dal collo stretto

Dopo aprile piove poco. Vedi il n. 5.

 

29 TRUÈNU CUPU:/ACQUA ‘NDUCU

Tuono cupo: induco (porto) acqua.

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[1] Locuzione onomatopeica.

[2] Da egli per aferesi e passaggio –gl->-gh– come in ‘ccugghire rispetto a cogliere.

[3] Più vicino al latino sapit di quanto non sia l’italiano sa (sapit>sape>save>sae>sa)

[4] Forse il piatto più povero della cucina pugliese.

[5] Da ‘nfitiscire, che è forma incoativa dal latino foetère=puzzare, con prostesi della preposizione in.

[6] Da inchire che, come l’italiano empire, è dal latino implere.

[7] Da scautare, che, come l’italiano scaldare, è da un latino *excalidare, composto dalla preposizione ex con valore intensivo e *calidare, dal classico càlidus, da cui l’taliano caldo.  Va notato che scautare è usato nel senso di scottare, mentre in quello di scaldare è usato scarfare, da excalefàcere, composto dallo stesso ex di prima+calidum (=caldo)+fàcere (=fare). In scautare l’esito –al->-au– fa pensare ad un intermediario francese (chaud) già presente in càutu (=caldo), come haut per àutu=alto e aitre per àutru (=altro).

[8] Località presso la marina di S. Caterina nel territorio di Nardò, caratterizzata dalle omonime chiesa e torre costiera.

[9] Secondo il Rohlfs dal greco βομβύλιον (leggi bombiùlion), di genere neutro, con lo stesso significato; risulta attestato, però, solo  quello che sembra il suo maschile, cioè βομβύλιος (leggi bombiùlios), che significa calabrone. A parte l’iniziale difficoltà di catattere semantico superanile se si pensa non tanto all’analogia di forma tra il recipiente e l’insetto, ma al rumore che fa il liquido contenuto al momento della sua fuoriuscita [(βομβύλιος è chiaramente da βὸμβος (leggi bombos), voce onomatopeica che indica un rumore sordo, da cui l’italiano bomba e suoi derivati)], sul piano fonetico risulta complicato disegnare la trafila che dal presunto βομβύλιον e dall’attestato βομβύλιος avrebbe portato a ‘mbile. L’una e l’altra difficoltà appaiono inequivocabilmente e definitivamente superate mettendo in campo la variante βομβύλη (leggi bombiùle) attestata dai glossari. Ecco come la voce è trattata in H. Stefano, Thesaurus Graecae linguae, Londra, Valpiani, 1821-1822, v. III, colonna 2273: βομβύλη, ή. Apis qoddam genus magis obstreperae, quam sint ceterae, ut quidam tradunt. Item poculum quoddam angusti oris (Una specie di ape più rumorosa di quanto siano le altre, come alcuni affermano. Parimenti un bicchiere di bocca stretta). Ulteriore contributo è data da un altro glossario (Περὶ τὸ  ἰδιωτικοῦ βίου τῶν ἀρχαίων Ἐλλήνων, N. Filadelfo, Atene, 1873, pp. 18-19: βομβύλιος ή βομβύλη ᾗν δὲ τοῦτο ποτήριον λίαν στενόστομον. Δι’αὐτοῦ τὸ ὕδωρ κατὰ μικρὸν ἐξερχόμενον ἐποίει βόμβον, ἐξ οὗ καὶ βομβύλη τὸ ἀγγεῖον ὠνομάσθην. Ὠμοίαζε δὲ ή βομβύλη πρὸς τὴν νῦν ἐν χρήσει  παρ’ἅπασι βοτὑλιαν, ἧς τινος τὸ  ὄνομα πιθανῶς ἐγένετο ἐκ τ ῆς βομβύλης κατὰ μετάπτωσιν τῶν γραμάτων. (Il βομβύλιος o la βομβύλη: era questo  era un bicchiere dalla bocca mpòto stretta. Con questo l’acqua  passando poca per volta produceva un runore sordo, dal quale pure βομβύλη fu chiamato un vaso. La  βομβύλη infatti somigliava alla  βοτὑλια ora in uso, il cui nome venne verosimilmente da βομβύλη attraverso una deformazione delle lettere).

Ecco, dunque, la trafila: βομβύλη>*bombile>*>‘mbible (aferesi); nel territorio di Taranto è in uso  la variante con assimilazione ‘mmile. Per completezza, infine va detto che l’italiano bòmbola non deriva direttamente dalla voce greca (attraverso un intermediario latino *bòmbula) ma è un diminutivo, per dir così, autoctono di bomba.

 

L’area archeologica di Provigliano e l’antico popolamento sulla Serra dei Cianci

 

di Pierluigi Cazzato

In Puglia, l’alta densità di piccoli centri urbani è una caratteristica peculiare della provincia di Lecce. Soprattutto nella sua porzione meridionale, paesi e frazioni sorgono a breve distanza tra loro tanto che alcuni di essi formano, ormai, un unico agglomerato urbano (vedi il caso di Acquarica del Capo e Presicce). Nel Basso Medioevo la densità degli insediamenti umani, come ci testimoniano le fonti documentarie angioine e aragonesi e l’odierna toponomastica, era notevolmente maggiore, infatti esistevano numerosi piccoli e piccolissimi villaggi che furono abbandonati a causa di diversi fattori. Uno di questi casali medievali era Provigliano, un piccolo abitato aperto che si trovava sulla Serra dei Cianci, a circa 1,3 Km a sud-ovest rispetto all’antico centro di Alessano, l’odierna piazza O. G. Costa, in un territorio di antica frequentazione umana (fig. 1).

 

Fonti storiche

La certa identificazione del casale di Provigliano nei documenti della Cancelleria Angioina ancora disponibili risulta alquanto problematica. Nella Cedularia Terrae Idronti (1378) viene citato due volte il toponimo Priviliani: Riccardo di Petravalda veniva tassato per certe parti dei casali di Pomarici (Basilicata), Pistici (probabilmente è da leggere pristicij=Presicce) Sorbo (vicino Salve) e Priviliani1, mentre Nicolò figlio del fu Aimoncito di Sangiorgio, doveva pagare una certa somma per alcuni beni feudali posseduti nei casali di Barbarano, Presicce, Bergiano(?) e Priviliani2. Per il Sigliuzzo questo toponimo si riferisce al casale scomparso di Principano (nel territorio di Tricase); infatti secondo la sua ipotesi, esso era il nome originario di un feudo nei pressi di Depressa la cui denominazione in seguito cambiò in Principani, come si evincerebbe dalla documentazione angioina del XIV secolo. Nello specifico, agli inizi del Trecento, lo studioso di Presicce identifica quattro famiglie che hanno possedimenti nel suddetto feudo: i Teotino che vengono citati come possessori, già nel 1301, dei casali di Specla de’ Presbiteri (Specchia), Teotini (Tutino) e Principani (successivamente, nel 1332, a Giovannuzzo Teotini vennero confermati i possessi, che erano stati del padre morto nel 1307, di 1/3 dei casali di Teotini e Priviliani e 1/5 di Specla de’ Presbiteri); i Pedravalda che nel 1316, con Riccardo de Petravalda (omonimo del personaggio incontrato nella Cedularia, probabilmente si tratta di nonno e nipote), possedevano quote feudali di Pompiniani (vicino Gemini), Presicij, Surbi (dintorni di Salve) e Priviliani; i Sangiorgio che nel 1326, con Guitzardo Sangiorgio, detenevano quote di Barbarano e Presicij, con vassalli in Rugiani, Priviliani e Salve mentre suo fratello Nicolò (lo stesso della Cedularia o parente omonimo), nel 1336, aveva vassalli in Corsano, Presicij, Priviliani e Rogiani; i de Bellante che tra il 1316 e il 1338, con Giovanni II de Bellante, erano possessori della quarta parte dei casali di Corsano, Gagliano e Priviliano3.

L’errata identificazione del Sigliuzzo deriva, a nostro parere, da un errore di trascrizione di un toponimo dalla grafia poco chiara, infatti, confrontando le vicende feudali dei Teotino da lui riportate con quelle che ci fornisce il Musio, il sospetto sorge legittimo perché l’autore tricasino, citando la notizia che nel 1318 Joanne Theodino pagava 15 tareni pro tertia parte Casalis Tutini certa parte Specle de Presbiteris ex casalis Plumiliani, ci fornisce una differente versione del nome4. Tra l’altro, il Vallone, che ricostruisce in modo approfondito le vicende della casata dei Teotino, non cita mai il casale di Principano, ma anzi ci riporta l’interessante notizia che nel 1335 avvenne uno scontro tra le famiglie dei Petravalda e dei Teotino nei feudi di Specchia e Montesardo, proprio il territorio su cui insisteva il feudo di Provigliano5.

Dunque è nostra opinione che il toponimo in questione si riferisca alla contrada alessanese e a sostegno di questa ipotesi si può notare che la maggior parte dei casali sin qui citati si trovano sul versante occidentale della Serra dei Cianci, con alcuni di essi molto prossimi alla zona di nostro interesse. Inoltre, in seguito, il toponimo Priviliani, o una sua corruzione, non verrà mai più utilizzato per indicare una parte del feudo di Depressa. Dello stesso parere è il Montefusco, per il quale il feudo di Provignano nel 1378 apparteneva al solito Riccardo di Petravalda, poi fu concesso, da Ladislao d’Angiò-Durazzo, alla famiglia Monforte che lo detenne per tutto il Quattrocento. Infine, nel 1564, Ettore Monforte lo vendette a Valente Grassi6.

Nel XVI secolo esso era ormai diventato un feudo rustico appartenente a Benedetto Grasso di Nardò7. Per il secolo successivo si ricavano altre informazioni da alcuni atti notarili, donazioni e testamenti, rogati in Alessano: nel primo, datato 26 ottobre 1679, Paolo Romano dona al capitolo di Alessano “una possessione di olive e seminativa con pagliaio, calcara e cisterna, sita nel feudo di Alessano in località Provigliano8; nel secondo l’abate Pietro Ventruto lascia in eredità alla nipote Franceschina Marco una “possessione seminativa e di olive, sita […] in località Provigliano9.

Un documento tardo fornisce un quadro parzialmente diverso delle successioni feudali: si tratta del manoscritto Breve Istoria della Famiglia delli Grassi di Martano, cittadini di Alessano (dal tardo medioevo al sec. XVIII) pubblicato dal compianto Antonio Caloro10. Ne è autore, nel 1881, il padre gesuita Antonio Grassi che redige la storia della sua casata utilizzando le “antichissime memorie esistenti nella casa dei Signori Grassi“. Nel tracciare la discendenza dei Grassi “Patritij di Alessano” si fa riferimento ad un documento del Duecento dove si legge: “Guillelmus Grassus sicut ipse dixit tenet in Alexano feudum trium militum et augmento obtulit milites sex11 [trad. “Guglielmo Grasso, come egli stesso ha dichiarato, ha in Alessano un feudo (che comporta il servizio) di tre militi e con l’aumento (per la mobilitazione generale) ha portato sei militi”], per poi aggiungere: “Il feudo che possedeva Guglielmo Grassi dicon alcuni che fusse stato Provigliano, che perché distrutto trecento anni sono dalli Turchi in una scorreria, secondo che attesta in un antichissimo manoscritto la buon’anima del mio Avo, si ritirarono in tutto e per tutto in Alessano che poco era distante dall’accennato feudo, senza però defraudare della solita coltura i campi feudali, delli quali fino a questi ultimi tempi furono padroni“. Nella stessa opera viene riportata la notizia che nel Cinquecento le sorelle Aurelia e Marina Grassi ricevettero in dote ” alcune possessioncelle rimaste là in Provigliano […] che furono picciol’avanzo di un gran patrimonio…12.

 

Toponomastica

Nel corso dei secoli il nome è stato scritto attraverso l’uso di diverse grafie (o trascritto secondo differenti interpretazioni):

XIV secolo: Priviliano, Principano?, Plumiliano?

XVI secolo: Provignano

XVII secolo: Provigliano

Il toponimo Provigliano, seppur leggermente modificato, si conserva ancora oggi sia nella denominazione della strada rurale Rovigliane-Lacco13, sia nel termine Pruvuliane che identifica un fondo agricolo ubicato sulla via che dal Calvario di Alessano porta alla chiesa di S. Marina a Ruggiano14. Esso pare di chiara origine prediale, fatto assai comune in tutto il Capo di Leuca, e potrebbe derivare da un cognomen Privius/Provius che però non ci risulta attestato nell’onomastica latina.

area medievale, blocco lavorato

 

Evidenze archeologiche

Alcune ricerche, condotte dallo scrivente nei mesi di settembre e ottobre del 2022, hanno permesso di localizzare, con una certa precisione, l’area interessata dall’insediamento medievale all’incrocio della strada comunale Donniche con le vie Mortiti e Donniche-Chiuse (Fig.2).

 

Una prima ricognizione di superficie ha permesso di individuare un’ampia area di frammenti fittili, di circa 130×130 m, che interessa un terreno seminativo e parte di un uliveto confinante. Nello specifico si tratta di: alcuni frammenti databili tra I secolo a.C. e I secolo d.C. (due pareti di ceramica ad impasto grigio, di cui uno presenta tracce di vernice nera, ed una parete d’impasto rosso dipinta di nero, alcuni frammenti di terra sigillata italica); abbondante ceramica di epoca Imperiale e Tardoantica (tre orli di pentole “tipo San Foca” e altre pareti con lo stesso tipo d’impasto, pareti e orli di terra sigillata chiara non meglio identificabile, fondi e pareti di ceramica africana da cucina, un puntale di anfora ad impasto rosso, tre pareti di Late Roman Amphora) e scarsi resti ceramici medievali (alcuni frammenti di ceramica acroma, uno di RMR e uno d’invetriata verde) e post-medievali. Diversi sono i resti di anfore e di ceramica da cucina che non sono stati identificati. Tutto il terreno, inoltre è disseminato di innumerevoli lacerti di tegole di varia fattura e di moltissime scorie di fusione di diversa dimensione. I resti rinvenuti in quest’area fanno ipotizzare l’esistenza di un piccolo insediamento agricolo romano (fattoria) databile tra la fine dell’età repubblicana e il V secolo d.C.

Durante una seconda ricognizione, effettuata nei terreni confinanti a nord-ovest del podere oggetto della prima indagine, è stata individuata un’ulteriore area (circa 250 m2) di concentrazione di frammenti ceramici riferibili, nella gran parte, al XIII/XIV secolo d.C. L’uliveto in questione, attualmente incolto, ricoperto da una fitta vegetazione e in condizioni di scarsa visibilità, ha restituito: molti resti di ceramica invetriata (tra cui un orlo di piatto di ceramica RMR, invetriata policroma e monocroma verde e vari altri frammenti molto consunti non meglio identificabili), pareti di piccole anfore sia acrome sia dipinte a fasce strette (su una di esse è ben riconoscibile la decorazione a spirale), ceramica da cucina e resti di tegole con impasto chiaro. Pochi sono i rinvenimenti, tra cui due frammenti di pipa fittile, attribuibile all’età moderna; sporadico il ritrovamento di un grattatoio in selce chiara databile all’età preistorica. Tutti i dati raccolti ci indicano che su questa zona sorgeva il villaggio medievale di Provigliano, o quantomeno una parte di esso.

pajara, in primo piano uno dei grandi blocchi di epoca romana

 

Una terza indagine è stata eseguita nel febbraio 2023 e ha consentito di localizzare una nuova area di interesse archeologico a circa 50 metri a nord dalle precedenti. In un terreno con numerosi banchi rocciosi affioranti è stata rinvenuta una piccola costruzione in pietra, in parte ricoperta da arbusti e rovi, con la copertura crollata: in apparenza una tipica costruzione contadina salentina (pajara) realizzata a secco con pietre locali di medie e piccole dimensioni che ad un esame più attento rivela degli elementi del tutto peculiari. Infatti nella parte anteriore della pajara (l’entrata è rivolta verso sud-ovest) si nota la presenza di grandi blocchi di calcare tenero (pietra calcarenitica che chiaramente non è stata cavata in loco) ben lavorati e squadrati (dimensioni: 135x68x40 cm; 60x50x40 cm; 75x60x50 cm).

pajara, il corridoio d’ingresso e l’arco di volta

 

L’ingresso è scandito da un corridoio (costituito da una specie di dromos, lungo circa due metri e largo 105 cm, a cui segue un ambiente più piccolo, 80×105 cm,) ed una porta, con la sua volta in precario equilibrio, che sono stati realizzati con la messa in opera di grossi blocchi tufacei fissati con zeppe di pietra. Entrando, ai lati della porta, si notano due croci incise (una per stipite). L’ambiente interno, che misura circa 310×290 cm, è parzialmente ingombro di terra e pietrisco ma si distinguono ancora bene le nicchie che si trovano sulle pareti: su quella destra vi è una nicchia voltata, sul fondo se ne apre un’altra con architrave, mentre sulla parete sinistra ci sono due nicchie architravate sovrapposte. Esaminando la costruzione dall’interno si possono distinguere tre diverse tecniche di costruzione: nella parte inferiore (si vede bene sulla parete anteriore) sono stati messi in opera solo grossi blocchi tufacei con l’ausilio di zeppe litiche; la parte intermedia è stata realizzata con tufi teneri e calcari duri locali di medie dimensioni legati con bolo; infine la parte superiore e la copertura parzialmente crollata é stata costruita a secco utilizzando le piccole pietre appiattite (chiancareddhe) che si trovano in abbondanza nella zona. Sembra evidente che i grandi blocchi di calcarenite appartenessero ad un edificio antico, probabilmente romano. Qui si ipotizza essi che siano stati riutilizzati in età medievale per realizzare un edificio di culto, o una struttura per accogliere i pellegrini, i cui miseri resti sono stati inglobati, in epoca moderna, nella costruzione della pajara ancora in piedi. La spoliazione di edifici antichi per la costruzione di luoghi di culto medievali, d’altra parte, e già ampiamente documentata nel Capo di Leuca. Ne troviamo esempio sia nella chiesa di S. Giovanni Battista a Patù e sia in quella di di S. Pietro a Giuliano, nella cui prima fase di costruzione, databile alla seconda metà del X secolo, sono stati riutilizzati materiali provenienti da un edificio di culto o una tomba monumentale di epoca romana, messi in opera con una tecnica simile a quella utilizzata nella piccola costruzione di Provigliano15.

pajara, interno

 

stipite con croce graffita

 

Quadro ambientale e sintesi storica

Facendo una sintesi dei dati sin qui raccolti, si può tentare di ricostruire il contesto storico-ambientale che vide la nascita, l’effimero sviluppo e l’abbandono del casale di Provigliano. Esso sorgeva nel pieno della Serra dei Cianci, ad un’altitudine di circa 160 s.l.m., su di un terreno roccioso (calcari di Altamura) e pietroso, non particolarmente adatto alla coltivazione dei cereali. Come spesso accade nel Salento, l’abitato medievale si trovava in prossimità di un precedente sito di epoca romana, databile tra la fine dell’età repubblicana e il V secolo d.C., che era posto in prossimità del tracciato della via Salentina, che l’Uggeri colloca poco lontano a est, in contrada “i Turchi”16. Probabilmente si trattava di un piccolo insediamento stabile di carattere agricolo, una villa rustica dedicata allo sfruttamento delle risorse agro-pastorali della zona.

Sula genesi del casale medievale poco si può dire, certo è che i dati archeologici, confortati dalle fonti scritte, ci indicano che già nel XIII secolo era un centro attivo. Prestando fede alle memorie della famiglia Grassi, già all’epoca di Guglielmo il Buono, esso era inserito nel sistema feudale normanno costituendo probabilmente un suffeudo di Alessano17. Era un piccolissimo abitato aperto (senza mura), probabilmente a carattere sparso e con abitazioni distanti tra loro, come altri che si trovavano nella zona. Esso tuttavia possedeva un luogo di culto che costituiva il punto di aggregazione della sua popolazione e il centro della vita comunitaria. Il piccolo villaggio contava pochi abitanti e, vista la povertà del suolo, l’economia doveva essere di tipo misto: la produzione dei cereali era limitata e i terreni rocciosi circostanti erano probabilmente coltivati ad uliveto e vigneto; inoltre dovevano essere importanti le attività pastorali e di sfruttamento delle risorse silvestri. Nel XIV secolo i registri angioini documentano la sua parcellizzazione feudale, infatti il suo territorio era diviso tra diverse famiglie (Teotino, Petravalda, Sangiorgio, de Bellante) che detenevano quote del feudo. Il casale ebbe vita breve visto che per tutto il XV secolo non sono state rintracciate testimonianze scritte, e quando, nel Cinquecento, ricompare nelle fonti risulta essere già un “feudo rustico”, quindi non abitato permanentemente. La ceramica suggerisce che fu probabilmente abbandonato tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Circa le cause del suo abbandono nulla si può affermare con certezza se non che, ancora oggi, la contrada a est di Provigliano porta il nome de “i Turchi”.

Allargando l’indagine al territorio circostante, si può parzialmente ricostruire il tessuto insediativo che caratterizzava Alessano verso la fine del Medioevo (all’incirca tra XIII e XV secolo). Oltre alla citta sede vescovile e la terra di Montesardo, una serie di casali si disponevano intorno alla fertile piana di Macurano (Macurano, Corsano, Tiggiano, Mamillano/Meliano, S. Dana e Valiano, quasi tutti attestati dalle fonti angioine). Tuttavia esistevano altri abitati di cui non possediamo notizie documentarie18 ma che hanno lasciato tracce sul terreno: nella periferia settentrionale di Alessano, in via Vigna la Corte, un sito, purtroppo sconvolto da scavi, ha restituito ceramica databile tra VI e XII sec.; a est di Montesardo, località Mercanti, invece è stata individuata una concentrazione di abbondante materiale ceramico di XII-XV secolo, nei pressi della quale si trova un banco roccioso con buche di palo ancora evidenti19. Se ne ricava un paesaggio fittamente abitato, con un’alta densità di insediamenti umani, piccoli e piccolissimi villaggi che hanno attraversato i secoli dell’epoca di mezzo con alterne fortune (fig.3). Si può mettere ora a confronto il sistema insediativo basso medievale con l’organizzazione del territorio di epoca romana e tardo antica (IV/VI secolo)20. Salta subito all’occhio come alcuni abitati medievali siano sorti in prossimità di un precedente sito romano. Ma ancora più manifesto è il fatto che essi si trovino tutti lungo le strade in uso in età tardoantica.

 

 

Conclusioni

L’analisi sin qui condotta offre la possibilità di proporre alcune ipotesi interpretative circa il popolamento del Capo di Leuca in età medievale. Prima di tutto qui si vuole porre l’attenzione sulla densità degli insediamenti umani nel territorio preso in esame: osservando la distribuzione dei casali nel Salento (circa 360 tra XII e XIII secolo) si nota come essi si concentrassero nella parte sud-orientale della penisola, in particolare tra Otranto e Leuca; in questa specifica zona gli abitati umani, spesso di piccolissime dimensioni, si trovavano a poca distanza l’uno dall’altro e il territorio a loro disposizione era esiguo. Di certo, questo stato di cose fu determinato dalla morfologia del territorio fatto di piccole pianure, con suoli profondi e facilmente arabili (i più adatti alla cerealicoltura), incastonate tra le serre; con uno spazio così limitato da dedicare alla coltura estensiva dei cereali, l’agricoltura, per forza di cose, era di tipo intensivo e un ruolo molto importante dovevano rivestire la vite e l’ulivo21, coltivazioni che richiedevano un’abbondante manodopera (soprattutto la vite) e un grosso investimento iniziale. Quindi solo un sistema insediativo fatto di piccoli casali sparsi in modo capillare garantiva la presenza in tutta l’area della forza lavoro necessaria a questo tipo di economia rurale.

Secondo la nostra ipotesi, questo tessuto insediativo medievale ricalca in parte il precedente sistema di insediamenti rurali tardo-romani, come testimoniato dalle evidenze archeologiche e dall’abbondante toponomastica prediale ancora viva in età normanna, e molti villaggi appaiono in qualche modo legati alla vicinanza delle vie di comunicazione di epoca precedente e “devono al maggiore o minore uso di esse la loro nascita, il loro sviluppo, il loro abbandono e la loro rinascita22. Ciò sembra manifesto nel caso di Provigliano, nato accanto ad una villa rustica romana, in prossimità dell’asse viario che collegava Vereto a Castro ed Otranto. Per esso, non si può certo parlare di una continuità insediativa visto che mancano totalmente le evidenze archeologiche per il periodo che va dal VI all’XI secolo, tuttavia non si deve escludere a priori una frequentazione di tipo temporaneo con un riuso, anche parziale, delle strutture romane abbandonate in quest’epoca buia23. Pare evidente che la viabilità antica e probabilmente anche ciò che rimaneva delle strutture romane, con la disponibilità del loro materiale da costruzione da reimpiegare, abbiano costituito un fattore d’attrazione per i primi abitanti di Provigliano.

Allo stato attuale delle conoscenze, non si può determinare con precisione quando sorse Provigliano ma queste strutture preesistenti, in particolare la strada romana, appaiono determinanti nella scelta del luogo su cui impiantare il casale, più della disponibilità di risorse ambientali circostanti. Nel Medioevo, inoltre, a questo antico asse viario, che da nord-est portava verso sud-ovest, se ne aggiunse un secondo, con andamento trasversale rispetto al precedente, da nord-ovest verso sud-est24. Era il collegamento che dal Salento centrale faceva giungere i pellegrini a Leuca ed era nota come “la via misteriosa” (perché i viandanti che la percorrevano recitavano i Santi Misteri ma anche perché nascosta tra la boscaglia dell’antico bosco del Belvedere e delle serre ancora coperte da una fitta vegetazione). Il suo percorso si ricostruisce in questo modo: il punto di raccolta era presso S. Pietro in Galatina, da qui ci si dirigeva verso il casale di Sombrino per poi salire alla chiesa rupestre della Coelimanna di Supersano, si attraversava la Serra di Ruffano per giungere alla chiesa di S. M. della Serra e al cenobio del SS. Crocefisso proseguendo verso S. M. della Strada di Taurisano (l’Odigitria, colei che indica ai pellegrini la via, per proseguire verso Leuca); l’ultimo tratto passava da Cardigliano, dalla Serra dei Peccatori a quella dei Cianci per arrivare alla Madonna della Scala, da qui portava a Montesardo, per poi scendere verso l’insediamento in rupe di Macurano e arrivare alla cripta di S. Apollonia (S. Dana); infine si percorreva l’ultimo crinale della serra per poi scendere verso il casale di Prusano (Convento dei Minimi di Gagliano) e finalmente giungere a S.M. di Leuca25. Nel tratto tra la Madonna della Scala e Montesardo, presumibilmente, l’itinerario dei pellegrini attraversava il territorio di Provigliano. In questo contesto si può provare a collocare il piccolo edificio di culto che abbiamo individuato in quest’area; infatti dal Catasto Onciario (1744) si evince che nel feudo di Alessano esisteva una zona denominata “S. Maria del Mortito”26 ed ancora oggi la strada rurale che viene da nord-ovest porta il nome di “Mortiti”. Ci sembra dunque logico ipotizzare che i resti architettonici rinvenuti nelle nostre ricognizioni appartenessero ad una chiesa dedicata al culto mariano collocata lungo il percorso devozionale che si snodava sulla serra in epoca medievale.

Proprio facendo riferimento all’antica via di pellegrinaggio si può cercare di far luce circa l’origine del nostro casale. Il Sigliuzzo ritiene che la chiesa di S. Maria della Scala, che si trova a circa 1,8 km a nord-ovest di Provigliano, fu la prima emanazione della grancia di S. Eustachio di Alessano27 e fu costituita intorno al X o XI secolo. La sua più antica attestazione risale al 1218, quando papa Innocenzo III riconobbe all’abbazia di Casole il possesso di alcune chiese tra cui quella di S. Maria di Alessano (la denominazione “della Scala” compare solo nei documenti notarili del tardo XVI secolo28). Questa notizia, dunque, attesterebbe una “colonizzazione” di una parte della serra alessanese avvenuta in età bizantina (X/XI secolo?). Non crediamo di essere lontani dal vero immaginando che anche Provigliano si sia formato in quest’epoca, nell’ambito dei dissodamenti agricoli che furono caratteristici del periodo successivo alla riconquista bizantina operata da Basilio il Macedone (867-886). Età di pace e di relativa stabilità politica per tutto il Salento che conobbe una “forte espansione economica, commerciale e demografica29 e che vide la colonizzazione e messa a coltura di terreni mai prima coltivati o abbandonati.

Con la consapevolezza che solo nuovi dati provenienti dalla ricerca documentaria, toponomastica e archeologica potranno avvalorare o meno quest’ultima ipotesi, il nostro auspicio è che il lavoro qui portato a termine susciti l’interesse degli specialisti e degli appassionati di storia locale diventando il punto di partenza per nuove e più approfondite indagini storiche sul territorio di Provigliano.

grande blocco inserito nel corpo della pajara

 

Ringraziamenti

La stesura di questo scritto è stato possibile grazie all’aiuto e alla disponibilità di Antonio Ippazio Piscopello, lo ringrazio per l’enorme mole di notizie che conserva, forse un po’ troppo disordinatamente, e per la non meno grande pazienza nel metterle a disposizione degli altri. Inoltre ringrazio Raimondo Massaro, con le preziose notizie su S. Maria del Mortito, e Vincenzo Verardi, con le informazioni di carattere geologico, per il supporto che mi hanno fornito.

 

Note

1Riccardus de Petrovaldus pro certis partibus casalium pumarici, pisticii, sublii et priviliani” (cfr. P. Coco, Cedularia Terrae Idronti, Taranto, 1915, p. 21).

2Nicolaus filius quondam Aymonciti de Sancto Giorgio pro certi bonis phendalibus (sic!) in casalibus Barbarani Pristicii Bergiani et Priviliani” (cfr. P. Coco, ibidem, pp. 25-29).

3 I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo. Volume I, a cura di F. Ruppi, Lecce, 2010, pp. 258-259. Per i de Bellante vedi anche: R. Spaventa, Fragmenta Corsani. Parcellizzazione feudale di Corsano (Lecce) tra XIII e XVII secolo, in “Il delfino e la mezzaluna”, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno II n°1, Nardò (Le), 2013, p. 9.

4 S. Musio, Casali e Feudatari del territorio di Tricase. La dominazione angioina(secoli XIII – XV), Tricase (Le), 2007, p. 85.

5 G. Vallone, Terra e potere nel Capo di Leuca, in I segni del tempo, a cura di M. Spedicato, Galatina (Le), 2008, pp. 70-78.

6 L. A. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto, Novoli (Le), 1994, pp. 385-387. Secondo l’autore le vicende feudali di Provignano sono sempre legate a quelle del feudo di Laurito.

7 M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 262. Nel testo viene citato come ” feudo di Provignano (Alessano)”., purtroppo non viene indicata la fonte.

8 A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce, 1994, p. 80.

9 Ibidem, pp. 145-146.

10 A. Caloro, F. De Paola, Alessano tra Storia e Storiografia, tomo II, Trepuzzi (Le), 2013, pp. 114-189.

11 Il documento in questione, che si trova nel Catalogus Baronum, in realtà venne redatto nel 1181 sotto Guglielmo il Buono (1153-1189). Vedi: Catalogus Baronum, a cura di E. Jamison, Roma, 1972, p. 31.

12 A. Caloro, F.De Paola, op.cit., p. 136.

13 La strada porta dalla SP79 (Gallipoli-Alessano) al feudo di Presicce; cfr. A. I. Piscopello, Toponomastica rurale di Alessano e Montesardo, in Controcanto, anno XIII n°2, Alessano (Le), 2017, p. 5.

14 A. Massaro, La scomparsa del casale “Provigliano”, in Controcanto, anno II n°1, Alessano (Le), 2006, p. 13.

15 Per S. Giovanni Battista cfr. C. Daquino, I Messapi e Vereto, Manduria (Ta) 1991, p. 231; per S. Pietro cfr. M. Leo Imperiale, M. Limoncelli, M. De Giorgi, Due chiese bizantine nel Basso Salento: archeologia dell’architettura e decorazione pittorica, in Atti del IV Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, a cura di R. Francovich e M. Valenti, Firenze, 2006, p. 618).

16 L’autore ricostruisce il tratto di strada romana che da Vereto passa da Alessano e giunge alla Madonna del Gonfalone in questo modo: “la strada doveva […] fiancheggiare da est Ruggiano attraverso la serra della Calla, che sembra conservare il toponimo callis in ricordo della strada antica. In questo modo doveva convergere con l’andamento dell’odierna strada campestre dei Turchi per scendere ad Alessano…“. cfr. G.Uggeri, La viabilità romana nel Salento, Mesagne (Br), 1983, p. 304.

17 A. Caloro, Provigliano: un casale scomparso, Archivio Caloro, busta XXV, fasc. 874.

 18 Il Caloro, per esempio, cita i casali di Boceto e Armino che si trovavano nel territorio di Alessano (cfr. A. Caloro, op. cit.).

19 In un articolo di prossima pubblicazione, abbiamo proposto di identificare questo sito con il casale scomparso di Marsanello.

20 In tutti i siti romani riportati in fig.3 la ceramica romana ritrovata non va oltre il VI sec., gli unici che hanno restituito materiali che indicano una continuità di frequentazione tra Tardoantico e Basso Medioevo sono Valiano e quello di Alessano in via Vigna la Corte. Per quanto riguarda la viabilità, la via Salentina è stata ricostruita secondo l’ipotesi dell’Uggeri (cfr. supra, nota 13) mentre per i tracciati secondari ci si è avvalsi della tesi di D. Ammassari (cfr. D. Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di Alessano I.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno academico 2005-2006, pp. 26-32), della cartografia IGM del 1874 e di indagini sul terreno.

21 P. Arthur, Economic expansion in Byzantine Apulia, in Histoire et culture dans l’Italie byzantine. Acquis et nouvelles recherches, Ecole française de Rome, 2006, p. 390.

22 C. D. Poso, Il Salento normanno. Territorio, istituzioni, società, Galatina (Le), 1988, p. 196.

23 La cosiddetta squatter occupation, vedi P. Arthur, Villages, communities, landscapes in the byzantine and medieval Salento, in Paesaggi, comunità, villaggi medievali, Atti del Convegno internazionale di studio, Bologna 14-16 gennaio 2010, p. 548.

24 Prima della costruzione dell’attuale strada provinciale, anche la vecchia via che collegava Alessano a Presicce passava esattamente in questa zona.

25 P. Arthur, G. Gravili, M. Limoncelli, B. Bruno, M. Leo Imperiale, C. Portulano, E. Lapadula, G. Sarcinelli, La chiesa di Santa Maria della Strada, Taurisano (Le). Scavi 2004, in “Archeologia Medievale”, vol.XXXII, 2005, pp. 176-177; C. Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel basso Salento, in Nuovo Annuario di Terra D’Otranto, vol.I, Galatina (Le), 1957, pp .73-76; A. De Bernart, La chiesa do S. Maria della Strada a Taurisano e i pellegrinaggi nel Basso Salento, in S. Maria della Strada. Sulle tracce della memoria: rito, credenze e tradizione, a cura di A. Ciurlia, Taurisano (Le), 2000, pp. 31-38.

26 La notizia si trova in: F. Ruppi, S. Romano, I segni della Misericordia: percorsi mariani e antiche strutture di accoglienza nel Salento leccese, in Le vie della Misericordia. Arte, cultura e percorsi mariani tra Oriente e Occidente, a cura di M. S. Calò Mariani e A. Trono, Galatina (Le), 2017, p. 573.

27 La grancia di Sant’Eustachio, insieme a quella di Santa Maria del Casale (Corsano) e di San Tommaso d’Aquino (tra Salve e Morciano), nel 1639 faceva parte dei beni dell’Abbazia di Santa Maria de Lomito. Essa è da identificare con il complesso rupestre, localizzato sul versante orientale della serra dei Cianci, attualmente denominato “grotta della Principessa” (vedi R. Massaro, La chiesa di Santa Maria della Scala di Alessano, in Controcanto, anno XVII n° 3, Alessano (Le), 2021, p. 13).

28 C. Sigliuzzo, Cripte inedite e ricordi bizantini in Terra d’Otranto, in Nuovo Annuario di Terra D’Otranto, vol. I, Galatina (Le), 1957, p. 86.

29 P.Arthur, Verso un modellamento del paesaggio rurale dopo il mille nella Puglia meridionale, in Archeologia Medievale vol. XXXVII, 2010, p. 218.

‎02/‎03/‎2023

La cappella della masseria Salamina, a Pezze di Greco

di Michele Mainardi
Masseria “Salamina”, oggi relais “Villa Cenci”, è una fastosa casa padronale originariamente residenza di nobili proprietari, che ora offre ospitalità di charme in un contesto di verde curato immerso nell’oliveto, nella dolce campagna di Pezze di Greco.
Ristrutturata a castello, seguendo la tendenza del tardo Ottocento di riportare in vita lo stile architettonico gotico, ha nel coronamento merlato della torre e delle ampie terrazze il suo tratto distintivo.
La vedi, la traguardi, e non puoi non indugiare sulle sue linee medievaleggianti, sulla bifora del centrale corpo turrito che dà un tocco di Dugento. Se inquadri la splendida dimora  ponendoti di fronte alla sua faccia, con la coppia delle palme svettanti che fanno Oriente, molle Levante mediterraneo, la cornice da fiaba è sotto gli occhi: sorpresi per l’imprevista immersione in uno scenario di incantesimo (ri)costruito ad arte.
Ti seduce la figurazione, il composto equilibrato del disegno, che apprezzi specie di sera quando dal parterre, dal vialetto misto-esotico, vedi le luci accendersi. Il gioco del chiaroscuro invita a sognare, a lasciarsi andare alle fantasticherie che pure i grandi hanno il diritto di esplorare di tanto in tanto. E l’immaginazione si trasforma in realtà, almeno per questa occasione.
Comunque non c’è mistero nei saloni del maniero. Tutto appare in superficie; le tenebre si sono dissolte, meno una: quella che sta dietro alla presenza (in nicchia di altare) del titolare della cappella, che sorge scenografica distaccata dall’edificio.
Non essendoci tela sopra la mensa eucaristica, a quale santo o madonna votarsi? Devono essersela portata via, o messa al sicuro, in sala, l’immagine a cui i committenti, nel lontano 1792 (l’anno è scolpito nel cartiglio in pietra, incastonato superiormente all’architrave della facciata, che vede la scritta “Charitas” a chiare lettere primeggiare), diedero assoluto valore di devozione.
Chissà, forse in qualche riga di visita pastorale, di monsignore assistito dal cancelliere di curia monopolitana, potrebbe esserci il riferimento alla figura in effigie: ma ci andarono mai i presuli in terrà così distante dall’Episcopio, appartata, confinata in agro fasanese?
Non potendo darci una risposta conviene limitarsi a ciò che appare: di bello, di armonioso, nelle fattezze del luogo di culto.
Cominciamo dall’esterno, che merita.
L’ampio, il veramente spazioso – quasi esagerato – affaccio del tempietto è esaltato dall’artistico puteale che si dispone poco a lato dello slargo che fa da sagrato dilatato. La vera del pozzo, del parapetto conformato a geometria di poligono, assume veste di lapidea sartoria, che maggiormente risalta grazie ai tre gradini di impostazione.
Dialoga alla perfezione con l’oratorio l’architettato manufatto di idrico umore. Sembra collocato apposta, messo in sintonia espressiva con il fabbricato sacro, quasi a voler combinare una corrispondenza di salutari sguardi, fatti anche di sensi, di intese. Un sorso d’acqua prima di entrare, perché no? Fa bene sempre rigenerarsi avanti il prendere la santa comunione. Depurarsi dai peccati, mondarsi dalle colpe, dopo aver tirato il secchio: una pratica che aiuta, che dovette essere benedetta dal prete, celebrante ebdomadario.
Forse esageriamo nella ricostruzione dei tempi andati, allorquando, nel giorno del Signore, la chiesetta veniva aperta per accogliere i fedeli, per la messa, col sacerdote ivi giunto dopo esser stato prelevato dalla sacrestia di concattedrale, e poi riaccompagnato a benedizione impartita, con il calesse del proprietario della masseria. La remunerazione del presbitero il padrone l’avrebbe corrisposta ad assoluzione impartita. .
Non c’è niente di strano a riannodare i fili della memoria eideticamente sollecitata, di stagioni che non abbiamo potuto vivere per questioni di anagrafe.
Viene quindi di getto stendere una cronachetta sulla (piccola) assemblea liturgica, nel periodo in cui “Salamina” non era castellata dimora, ma compiuto organismo nobile-residenziale con gli annessi e i connessi agricoli.
In quel raccolto vano di sacello (voltato a botte: a stella nel quadrangolo del presbiterio) si stava ognuno al proprio posto. Le sedie migliori spettavano ai familiari del proprietario, le panche ai servitori, ai coloni e alla loro prole. Ma dall’altare fiorito di riccioli (in pulita pietra locale) la Parola di Dio giungeva diretta al cuore di tutti: ricchi o bisognevoli di lavoro che fossero. Peccatori senza distinzioni.
L’intestatario del privato oratorio –  che non era il possessore della tenuta cui si doveva l’obbligatorio rispetto – in dipinto, dal vertice dell’ara, nutriva per chiunque fosse lì a pregare un grande affetto, ricambiato dai penitenti. L’aureolato aveva – vien da credere – un occhio di riguardo per i più poveri (come da Discorso della Montagna). Pensiamo a san Francesco da Paola, l’eremita calabrese, in quanto lo scudo  posto in capo di prospetto è quello voluto dal fondatore dei Minimi. Glielo porse l’arcangelo Michele, raccomandandogli di farne lo stemma del suo Ordine: un sole splendente, caritativamente dispensato, specie ai più miseri.
Che dite, ci sta la congettura?

Li Schiavoni, un abitato messapico fortificato in territorio di Nardò

Li Schiavoni (Nardò, Le). Vista dell’abitato messapico

 

“Li Schiavoni (Nardò, Lecce), un abitato messapico fortificato. Ricerca, didattica, valorizzazione”

 

In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio (28 e 29 settembre ’24) (European Heritage Days), la più estesa e partecipata manifestazione culturale d’Europa, il 28 settembre 2024 alle ore 18:00 si inaugura presso il MUSA -Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento la mostra: “Li Schiavoni (Nardò, Lecce), un abitato messapico fortificato. Ricerca, didattica, valorizzazione”.

Li Schiavoni (Nardò, Le). Ritrovamento del corredo di una tomba di bambina

 

La mostra, curata da Giovanna Cera, direttrice scientifica del progetto di ricerca presso la località Li Schiavoni (Nardò, Le), e da Grazia Maria Signore, direttrice del MUSA, presenta per la prima volta al vasto pubblico i risultati delle ricerche condotte, a partire dal 2016, nel sito archeologico grazie ai proficui rapporti di collaborazione istituiti tra il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi e Lecce e il Comune di Nardò. L’esposizione propone i momenti più salienti della storia de Li Schiavoni, piccolo insediamento messapico fortificato, e, al contempo offre una panoramica delle attività didattiche e di valorizzazione messe in atto nel corso di questi anni.

Li Schiavoni (Nardò, Le). L’equipe di ricerca

 

La stretta relazione con il territorio è una costante all’interno dell’allestimento ed emerge dalla lettura e interpretazione delle tracce archeologiche individuate a Li Schiavoni, proposte nei pannelli didattici, dove si sottolinea il ruolo strategico del sito in rapporto con la viabilità e le rotte marittime che interessavano la vicina costa ionica del Salento. Arricchiscono il percorso audiodescrizioni e ricostruzioni virtuali di contesti e oggetti, realizzate da studenti e ricercatori del Laboratorio AVR Lab del Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione, diretto da Lucio Tommaso De Paolis. Si espongono infine gli oggetti del corredo funerario di una bambina rinvenuto nel corso degli scavi.

All’inaugurazione interverranno il Magnifico Rettore Fabio Pollice, Serena Strafella funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi e Lecce, Girolamo Fiorentino direttore del Dipartimento di Beni Culturali, il Sindaco di Nardò Giuseppe Mellone e le curatrici della mostra.

La mostra itinerante rimarrà aperta presso il MUSA fino al 15 gennaio 2025 per poi approdare il 18 gennaio presso il Museo della Preistoria di Nardò, grazie alla sinergia con la direttrice dott.ssa Filomena Ranaldo e con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Nardò.

A partire dal 30 settembre, la mostra sarà visitabile negli orari di apertura al pubblico del museo (lunedì-venerdì dalle 9:00 alle 13:30 e martedì, mercoledì e giovedì dalle 15:00 alle 18:00).

Il catalogo della mostra è edito da Edizioni Esperidi.

 

Li Schiavoni (Nardò, Le). Attività di scavo all’interno delle fortificazioni

 

Per info: 0832 294253; infomusa@unisalento.it

Righi fuori schema

di Rocco Boccadamo

Piccoli sussulti insoliti arrivano a sgorgare, aventi al centro una donna, ancora nella stagione bella della vita coi suoi quaranta, amorevolmente contenta e in certo qual modo, se non specialmente, appagata – in armonia con i cieli, le costellazioni, i sentimenti e le usanze all’epoca dominanti – per via d’una squadra di sei figli partoriti in casa.

Carattere buono, mite, generoso, disponibile, giammai una parola di troppo o cenni di insofferenza, che madre, che dolcezza di madre!

Porte di casa sbarrate ai malanni, solo qualche dolore di schiena e, a tratti, fastidiose irritazioni alle mani a causa dei tanti bucati, piccoli e grandi, fra sapone, lisciva e cenere per naturalissimi detergenti e sbiancanti, con l’ausilio di capienti tinozze fumanti d’acqua bollente e, poi, di braccia e di gomiti protesi su lignei “lavaturi“, nella pila lapidea appoggiata al muro del cortile.

Una mattina, all’improvviso, durante una breve pausa di solitaria tranquillità domestica, ella si trovò inopinatamente ad avvertire che qualcosa l’aveva aggredita, come se un subdolo mostro senza volto le fosse penetrato dentro.

In quei tempi lontani, quando l’esistenza era vestita di semplicità, i drammi, soprattutto se imprevisti, assumevano le sembianze di autentiche calamità, lasciando attoniti gli animi di quanti rimanevano coinvolti o sfiorati.

E però, da subito, nella donna, prevalse, o per lo meno si palesò in prima linea, la serenità, l’accettazione del fatto nuovo, dell’incognito.

Fu l’occasione per l’ingresso, prima volta, nel presidio ospedaliero della zona, ai fini, diciamo così, d’un sopralluogo, d’una prima ricognizione sul corpo.

In tale luogo di cura, prestava da poco servizio un giovane infermiere, conosciuto di vista giacché originario di Castro, il quale, accanto alle capacità professionali, sembrava sprigionare una spiccata, evidentemente innata, disponibilità.

Trascorse poche ore, il ritorno a casa, l’attesa.

Di lì a poco, dovette purtroppo seguire un altro lungo tragitto d’incertezza e insieme di speranza, avente per oggetto l’espletamento di più cospicue attività di cura, finalizzate a porre rimedio al “brutto incontro” col mostro.

L’epilogo della vicenda occorsa alla giovane donna nell’estate della propria vita è stato, purtroppo, triste. Difatti, sono quasi cinquant’anni che ella se n’è andata, sebbene, a dire il vero, per qualcuno, sia ancora vicina e presente.

Così che, il di lei viso affettuoso s’affaccia discreto e sorridente anche in ogni circostanza di incontro, per strada, lungo la litoranea, di fronte al mare azzurro, con il giovane infermiere di tanto tempo fa, il quale ormai veleggia oltre gli ottanta e, tuttavia, appare sempre fresco, disponibile e generoso d’animo: spontanea, la reazione di indirizzargli un rosario di “grazie”.

Alessano. Note su un conflitto giuridico alla fine del ‘700 in Terra d’Otranto

GIOVAN BATTISTA PACICHELLI, Il regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703. Veduta di Alessano (coll. privata).

 

di Gilberto Spagnolo

 

… e chi ci distingue da’ Salvaggi, e da’ Barbari, se non che la disciplina e la Scuola?

Gio. Angiolo Duca

Le brevi note di questo contributo continuano una personale ricerca, iniziata qualche anno fa, su una particolare fonte documentaria per la Storia di Terra d’Otranto, con la segnalazione di numerose e inedite “allegazioni giuridiche” (databili in massima parte al secolo XVIII, a firma di importanti autori come il Rogadeo, il D’Afflitto, il Tommaseo e riferite a numerosi centri di Terra d’Otranto)1, fonti di inestimabile valore perché (come è già stato ampiamente scritto) “spesso costituiscono i materiali più antichi dell’informazione bibliografica” che impegnavano operatori del diritto dell’epoca per risolvere lunghe controversie familiari e feudali2. La loro importanza è stata già opportunamente messa in evidenza dagli studi del Volpicella3, del Chiarelli4, e soprattutto dal De Capua5 e dal Paone6. Il primo (il De Capua) con la registrazione di ben 1873 anonime allegazioni forensi della Biblioteca Comunale di Bitonto e che, legate con altre 944 anonime allegazioni in 141 volumi erano forse appartenute alla privata libreria di Giandomenico Rogadeo7; il secondo con la catalogazione delle allegazioni forensi conservate nella Biblioteca Provinciale di Lecce facenti riferimento a ben quarantacinque centri salentini8. Ancor più recentemente con Giancarlo Vallone che, attraverso di esse (allegazioni rarissime di illustri e meno illustri giuristi della fine del Seicento e gli inizi del Settecento) ha ricostruito minuziosamente “la vicenda del casale di S. Pietro in Lama” oggetto “di una secolare contesa tra il vescovo di Lecce e i civili del paese, o l’Amministrazione Civile di Lecce9.

D’altra parte, le antiche allegazioni (è bene sottolinearlo) erano veri e specifici studi preparatori su materiale documentario fornito dai nobili e feudatari solo a questi giuristi che avevano appunto libero accesso ai vari archivi, dai quali invece restavano esclusi “gli antiquari, gli storici, gli storiografi e gli eruditi10.

L’acquisizione di una sconosciuta e molto rara allegazione settecentesca (periodo, questo, di maggiore fortuna di tale genere di pubblicazioni) permette di ricostruire in quest’ottica, le fasi salienti di un conflitto giuridico di una certa importanza (considerato anche e, soprattutto, il motivo del contendere ovvero “L’educazione e la Scuola, nonché i documenti, a volte antichissimi, e le testimonianze prodotte per l’occasione) che vede coinvolte l’Università di Alessano (difesa dall’avvocato D. Gio Angiolo Duca) per la restituzione dei beni appartenenti al “Monistero della Congregazione Celestina, divisato sotto il titolo di S. Angiolo” e conseguente aggregazione a quella di “S. Maria in Bethlehem intra oppidum” della stessa congregazione posto nella terra di Mesagne.

GIO: ANGIOLO DUCA, Per la città di Alessano nella causa co’ PP. Celestini di Mesagne sulla pubblica educazione etc., Napoli 1788. Frontespizio (coll. privata).

 

GIO: ANGIOLO DUCA, Per la città di Alessano nella causa co’ PP. Celestini di Mesagne etc. Pagina “dell’Epilogo” sulla necessità della pubblica educazione.

 

L’allegazione in questione, ricordata dal Moschettini nel suo scritto Della Brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto11, fu data alle stampe a Napoli il 6 novembre del 1788 dall’avvocato Gio Angiolo Duca12.

C. MOSCHETTINI, Della Brusca Malattia degli ulivi di Terra d’Otranto sua natura, Cagioni, Effetti, Napoli MDCCLXXVII. Frontespizio (coll. privata).

 

La lunga e intricata vicenda che emerge dettagliatamente dalle sue pagine, ebbe inizio nel 1616, allorquando il Monastero di Alessano sotto il titolo di S. Angelo13, assieme ai monasteri di S. Pietro d’Ugento, S. Arcangelo di Brindisi, S. Bartolomeo di mesagne extra oppidum, in forza delle bolle di Papa Paolo V e di Urbano VIII, fu aggregato a quello di S. Maria in Bethlehem intra oppidum della stessa congregazione posto nella terra di Mesagne14.

Esistendo in Alessano tale monastero, i Religiosi Celestini, che vi dimoravano, educavano la gioventù nella Religione, nelle lettere, e nello stesso tempo erano “coadjutori del Parroco. Nello stesso tempo i Padri Celestini avevano l’obbligo di mantenere la chiesa ornata decentemente con altari, colle lampade accese e di farvi, quotidianamente celebrare una messa per l’anima dei benefattori “ed altre in soddisfazione de’ legati e specialmente di quello istituito e fondato da Isabella Legari; che per tradizione sapevasi, che il detto monistero aveva anche quivi l’obbligo di fare assistere dai suoi PP. moribondi e d’insegnar la grammatica, e la morale: che poi tal monistero si ridusse in Grancia…”.

Mesagne vista dalla parte di occidente (da Poliorama Pittoresco opera periodica diretta a dif-fondere in tutte le classi della società utili conoscenze di ogni genere etc., Tipografia e Litografia di Filippo Cirelli e Salvatore Fergola, a. VIII, 1844, p. 372, coll. privata).

 

Nel 1750 il monastero di Mesagne ottenne la facoltà da Roma con breve Ponteficio di vendere i beni dell’abolito monastero che erano in Alessano. Cosa che avvenne infatti nel 1759, ovvero con la vendita di una porzione per 37555 ducati e grana 25, mentre l’altra rimase invenduta per mancanza di compratori.

Intanto, di quegli anni si sa che la campana era stata trasportata in altro luogo, che la chiesa era dismessa “dismessi gli altari, e i sacri Arredi, con rimaner quella Chiesa a guisa di spelonca, e profanata: che n’erano caduti a terra infraciditi, e lacerati i quadri: che si erano alla chiesa medesima, occupati i lumi ingredienti colle fabbriche de’ particolari: e che il Vescovo l’aveva interdetto.

La soppressione del Monastero privò inevitabilmente “de’ benefizj spirituali e morali” dei religiosi, la popolazione di Alessano che rivolse di conseguenza la sua supplica al re Ferdinando IV per chiedere che “i beni dell’abolito Monistero, insieme co’ frutti percepiti di poi da essi P.P. Celestini, dovessero convertirsi in fondo di una casa di educazione, e di scuole, da istituirsi in quella città.

La stessa Università di Alessano fece intendere che la controversia poteva essere risolta e compromessa, qualora i PP. Celestini avessero prestato “l’opera delle Scuole Normali in detta città; e quindi implorò d’insinuarsi alla Religione Celestina, che dovendo la medesima essere riconoscente verso di quella città per li beni alienati del soppresso Monistero e per le rendite, percepite, e che tuttavia percepisce da’ beni rimasti, fosse pronta a destinare due, o più soggetti per erigere colà le Scuole Normali15.

GIO: ANGIOLO DUCA, Per la città di Alessano nella causa co’ PP. Celestini di Mesagne etc. Pagina iniziale della “Conclusione” della memoria.

 

La supplica dell’Università di Alessano fu subito trasmessa alla Regia Udienza di Lecce, la quale, a sua volta, dopo averne essa Udienza “preso diligente informo” fece apposita relazione che con “Regal Dispaccio del 6 novembre” rimise al parere della “Regal Camera” di S. Chiara. In quell’occasione, l’avvocato Angiolo Duca difese già allora con apposita allegazione data alle stampe il 31 dicembre dello stesso anno (ma non ritrovata), l’Università di Alessano, fondando la sua difesa sulle ragioni “della Regalia, della ragion sacra, sulla pubblica ragione.

Il Sacro Regio Consiglio, nominato commissario il Caporuota Paoletti, fece notificare ai Celestini la richiesta dell’Università di Alessano, i quali immediatamente si opposero costringendo il Paoletti a congelare la causa e a non prendere alcun provvedimento; fino all’anno 1783, allorquando, l’Università di Alessano ricorse nuovamente al Sacro Regio Consiglio.

Rimessa questa nuova supplica con Reale Dispaccio del 13 marzo 1787 al Presidente D. Francesco Peccheneda16 (delegato delle scuole normali), per un necessario parere, quest’ultimo sentite le ragioni di entrambi i contendenti e il parere dello stesso avvocato delle scuole normali D. Francesco Azzariti17, a seguito del rifiuto dei Celestini di accogliere quanto proposto dall’Università di Alessano, informò immediatamente il Re al fine “di prendere dalla M.S. le convenienti sue sovrane deliberazioni18.

Intanto era morto il Paoletti e il nuovo commissario Marchese Patrizj aveva rimesso gli atti all’avvocato della corona D. Diodato Targiani il quale fece istanza che la causa, data l’importanza per la Regalia e per “li pubblici diritti, fosse al più presto esaminata. In tale occasione, lo stesso avvocato Angiolo Duca fece una nuova “erudita, e fatigata allegazione” che assieme ad una “introduzione” e alla copia della relazione fatta sulla causa stessa dal Presidente D. Francesco Peccheneda, Delegato delle Scuole Normali, a S.E. il Marchese Caracciolo Segretario di Stato19, costituisce lo scritto complessivo oggetto del presente lavoro.

Le ragioni esposte dall’avvocato Angiolo Duca a sostegno dell’Università di Alessano sono anzitutto introdotte da un prezioso e importante capitolo sulla “Necessità della Pubblica Educazione”, utilissimo per capire, in età illuministica, la sostanza ideologica e pedagogica dell’epoca e che il Duca scrive, con una ricchezza documentaria e bibliografica, per dimostrare “quanti e quali ottimi vantaggi apportino le pubbliche scuole” e come in ogni tempo (a partire da Carlo Magno) sia costantemente riconosciuta “l’obbligazione degli Ecclesiastici tutti a mantenere le scuole pubbliche, per ammaestrarvi la Gioventù nella religione e nelle lettere e nel costume civile’’20. Esse vertono quasi esclusivamente sul tema giurisdizionale e sono tese a sostenere, in maniera direi “appassionata, quattro nodi fondamentali:

1) L’unione del monastero di Alessano a quello di Mesagne fu fatta senza il Regio Assenso ovvero senza l’assenso indispensabile del sovrano; né tantomeno con il consenso della popolazione che si ritrovò anzi profondamente danneggiata dalla perdita degli “importanti benefici morali, ai quali eran tenuti i Celestini e quella Popolazione avea giusto dritto: onde manifestatamente sì fu lesiva quella unione, e recò un segnalato danno21; 2) tale unione, eseguita irregolarmente e mancante di Regio Assenso comprometteva la Regalia22; 3) la popolazione di Alessano conservava intatto ogni suo diritto sull’abolito monastero e sui suoi beni al fine di istituirne una pubblica scuola, in quanto essendo ignota la fondazione spettavano al pubblico di Alessano i diritti che competono ai fondatori “poiché i Monasterj per lo più si fondano o da qualche particolare, o dal pubblico; e l’oggetto, per lo quale si fondano, non è altro, se non quello di beneficiare la cittadinanza del luogo, in cui viene fondato. Sicché mancando il Fondatore, succede al padronato il Pubblico del Luogo, ove il Monistero è posto; e perciò egli ne diviene il Fondatore23; 4) infine, osserva Angiolo Duca, se l’unione fu nulla, perché irregolare ed ingiusta; insufficiente perché pregiudicò la Regalia; se il padrone del Monastero abolito è lo stesso popolo di Alessano, “ed i beni, da che cessò il Monistero, ne sono divenuti di quel Pubblico, per impiegarne i frutti in pubbliche opere di pietà, ne consegue che i Padri celestini dovevano rilasciare tali beni e restituire tutti i vantaggi maturatisi dal giorno in cui avvenne la stessa unione24.

F. BUONANNI, Ordine religiosorum in ecclesia militanti catalogus etc., Romae Typis Georgii Plachi 1706-1710. Monaco celestino (coll. privata).

 

Sul fronte dei Celestini (la parte avversa), si sostenevano, invece, rivendicando anch’essi tramite il loro avvocato (il cui nome non è ricordato) con una “memoria manoscritta” le proprie ragioni all’interno soprattutto di un discorso giuridico, i seguenti punti che controbattevano quelli pocanzi delineati dell’avvocato Angiolo Duca e cioè: 1) il pubblico di Alessano poteva vantare diritti sull’abolito monastero soltanto se fosse stato fondato realmente dall’Università o dai Cittadini o se, si fosse assunto realmente “il peso dell’istruzione della gioventù” (cosa questa che non si rilevava da alcuna documentazione); 2) l’unione dei quattro monasteri fu “canonica e regolare” e tale fu riconosciuta dagli stessi Alessanesi con il “silenzio di tanti anni” (e a testimonianza vengono citate altre unioni di Monasteri della stessa Religione Celestina eseguite sempre in virtù delle bolle di Paolo V e di Urbano VIII; 3) essendosi interposto l’exequatur alle Bolle di Roma per l’alienazione dei beni, vi era concorso di conseguenza, del Regio Assenso; 4) infine, le ricchezze dell’abolito monastero così come sono state indicate dall’Università di Alessano e di quello di Mesagne, erano “esagerate” ed ammontavano (a detta dei Celestini) realmente a circa 700 ducati annui25.

Da “un sillabario” del 1681 (coll. privata).

 

Lo stato del conflitto giurisdizionale s’interrompe in questo documento legale con il parere del delegato delle Scuole Normali D. Francesco Peccheneda fatto a conclusione della sua relazione al Segretario di Stato Caracciolo, datata 16 luglio 178826. Il Peccheneda sollecita una tempestiva decisione della real Camera trattandosi “di una causa della massima importanza per la Regalia non meno che per li pubblici diritti, con l’ascoltare in tale Tribunale l’avvocato della Corona consigliere Caporuota D. Didato Targiani, e l’avvocato delle scuole normali D. Francesco Azzariti e invitando a fare gli stessi. “Le parti convenienti in detta Real Camera in difesa della Corona, e dell’opera delle Scuole.

E poiché l’Università di Alessano nella sua seconda supplica implorava “che all’istituzione delle Scuole Normali provvedessero non solo i Celestini ma anche gli altri Ordini Religiosi presenti in Alessano ovvero i Conventuali e i Cappuccini27, il Peccheneda perorandone apertamente la causa e credendo pienamente nelle loro ragioni così chiudeva “con rispettoso sentimento” il suo scritto diretto al segretario di Stato Marchese Caracciolo: “… inclinerei nel rispettoso sentimento, che siccome per la Terra di Arienzo S.M. ha voluto che gli Agostiniani, ed i Domenicani, obbligati col dispaccio del 1778 a tener le scuole pubbliche, le tengano Normali, e che vi concorrino ancora i Verginiani, prestandosi a ciò fare i loro Religiosi, così si degni di prescriverlo per Alessano; ordinando Sovranamente, che que’ PP. Conventuali, e Cappuccini, compresi anche nel Dispaccio del 1778, mandino subito dopo la mutazione in questa città due soggetti de’ migliori per convento, per istruirsi nel Metodo delle Scuole Normali, perché possano indi, precedente l’approvazione sovrana, metter queste in piedi ne’ rispettivi chiostri, seguendo le istruzioni, e gli Ordini, che dalla Delegazione di esse Scuole verranno loro dati: coll’espressa dichiarazione, che que’ Religiosi, i quali saranno impiegati in queste Scuole, non debbano esser affatto pregiudicati in tutti quelli ascensi, ed onorificenze, che riceverebbero, se continuassero a servire la propria Religione anzi debbano agli altri essere preferiti, come coloro, i quali si consacrano ad un’opera pubblica, e di vantaggio della nostra Sacrosanta Religione, e dello Stato”28.

Non sappiamo, non disponendo al momento di altri documenti oltre alla memoria di Angiolo Duca, quali furono le “giuste” deliberazioni del Tribunale e del sovrano; ma vogliamo presumere (e nello stesso tempo augurarci) che la lunga e coraggiosa lotta dell’Università di Alessano, fatta in nome dell’educazione e dell’Istruzione, avesse ottenuto le scuole e quegli “indubbi benefici morali e sociali” richiesti, nonché quanto le era stato ingiustamente tolto, nel suo camino contro gli abusi di quei secoli e verso la conquista della libertà.

Provincia di Terra d’Otranto delineata dal Magini ampliata dal Rossi e d’ora a miglior perfezione ridotta secondo lo stato presente dedicata al merito dell’ill.mo Sig.re Fra D. Felice Carignani de Duchi di Novoli Cavaliere dell’ordine Gerosolimitano. Particolare (senza data, ma prima metà del 1700, coll. privata).

 

In “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 9, Congedo Editore, Galatina 1999 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 547-555, Novoli 2024.

 

Note

1 G. Spagnolo, Fonti bibliografiche per la storia di Terra d’Otranto: memorie legali dei secoli XVIII e XIX (Con un’appendice su altri luoghi pugliesi), in “Lu lampiune”, IX, n. 3, 1993, pp. 5-12; Id., Vicende Salentine in due sconosciute memorie legali del secolo XVIII, in “Lu Lampiune”, XIII, n. 2, 1997, pp. 79-83; Id., Fonti bibliografiche per la storia di Terra d’Otranto: memorie legali dei secc. XVIII e XIX (Campi, Squinzano, Galatina, Gallipoli, Lequile, Francavilla), in “Lu Lampiune”, XV, n. 2, 1999, pp. 183-187.

2 M. Paone, Memorie legali Salentine, in “Brundisii Res”, XIII, Brindisi 1981, p. 91.

3 L. Volpicella, Bibliografia storica della Provincia di Terra di Bari, Napoli 1884-87 (in cui vengono riportate numerose allegazioni giuridiche riferite ai centri della provincia barese).

4 G. Chiarelli, Abusi feudali e un processo per magia nella Franca Martina del secolo XVIII, in Studi di Storia Pugliese in onore di Nicola Vacca, Galatina 1971, pp. 27-44 (grazie ad una coppia di memorie legali ad opera di Ascanio Centomani, l’autore rese noto un importante episodio della storia della sua città).

5 D.A. De Capua, Fonti per la storia di Puglia: le memorie legali della Biblioteca Comunale di Bitonto, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, V, Galatina 1980, pp. 67-119 (con un’introduzione di Michele Paone che all’epoca aveva scelto, delle 1873 allegazioni registrate dallo scomparso De Capua, quelle relative alla Puglia). Questo tipo di ricerca mi ha consentito, ad esempio, di rintracciare un’importante fonte documentaria su Racale, ovvero l’Apprezzo del Regio Tabulario Gennaro Pinto del 10 dicembre 1682 (in corso di stampa).

6 M. Paone, Memorie legali salentine cit., pp. 91-109.

7 D.A. De Capua, Fonti per la storia della Puglia, cit., p. 68.

8 M. Paone, Memorie legali salentine, cit., p. 91.

9 G. Vallone, Conflitti giurisdizionali nel Salento, in San Pietro in Lama. Storia, società, territorio e religiosità di un feudo del Vescovo, Galatina 1998, pp. 291-331 (studio fondamentale per l’impostazione data allo stesso saggio e per le riflessioni preminentemente di natura “antiquaria” e “giuridica” sulle memorie legali).

10 D.A. De Capua, Fonti per la storia di Puglia, cit., p. 71 (dall’introduzione di M. Paone).

11 C. Moschettini, Della Brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto. Sua natura, cagioni, effetti. Dissertazione, Napoli MDCCLXXXIX, presso Vincenzo Mazzola-Vocola (2° edizione), p. 8 alla nota 2. Il Moschettini cita la nostra allegazione e in particolare il cap. III per evidenziare come “il detto Autore da buon Cittadino dimostra colla ragion pubblica, dedotta dagli stessi Ecclesiastici, Regolari Istituti, l’obbligo de’ Preti, Frati, e Monaci a mantener pubbliche Scuole”. Per cui l’autore salentino si chiede “Perché non si potrebbero dunque anch’essi applicare all’Agricoltura con insegnarla, ed esercitarla? Non è certamente loro disdicevole l’accoppiar l’orazione alle fatiche manuali, come prescrissero, ed essi medesimi praticarono, S. Girolamo, S. Agostino, S. Benedetto ecc.”.

12 La memoria legale reca l’intestazione: “Per la città di Alessano nella causa co’ PP. Celestini di Mesagne sulla Pubblica Educazione e Su’ doveri degli Ecclesiastici sì Regolari che Secolari A TENER PUBBLICHE SCUOLE NON CHE Sulla precisa obbligazione de’padri suddetti ad aprire in Alessano le Scuole Normali, in Real Camera di S. Chiara 1788. È posseduta da una Biblioteca privata. La copia esaminata si compone di 96 pagine numerate con una introduzione, sette capitoli (di cui il primo, ritengo per svista tipografica, mutilo delle pagine 17-18-19-20 e 33-34-35-36) e la trascrizione integrale dell’importante relazione fatta sulla stessa causa dal delegato delle Scuole Normali D. Francesco Peccheneda. Ad esse si riferiscono le citazioni riportate nel testo, quando non vi è altra indicazione.

13 Alla fine del ‘500, il monastero di S. Angelo aveva due soli monaci e agli inizi del ‘600 i vescovi alessanesi già precisavano che il monastero era piuttosto “un ospizio” (Cfr. S. Palese, Alessano e la sua chiesa maggiore, Galatina 1975, pp. 49-50, con riferimenti alla Relazione del vescovo Nicola Antonio Spinelli, datata Alessano 13 aprile 1613).

14 Di tale aggregazione si ha comunque menzione nel testo di A. Profilo, Vie, Piazze. Vichi e Corti di Mesagne, ragione della nuova loro denominazione, ristampa anastatica, con introduzione, appendice, indici e tavole di Domenico Urgesi, Fasano 1993, p. 187. Scrive ancora il Palese che morto l’unico monaco celestino che per anni aveva abitato presso il monastero di S. Angelo, finì la presenza di quest’antica famiglia religiosa nella diocesi (Palese, Alessano, cit., p. 50, con riferimento alla relazione ad limina del vescovo Placido Padiglia datata Roma 6 dicembre 1639).

15 Angiolo Duca al Capitolo VII ricorda che il Monastero della città di Alessano aveva “duc. 5000 in beni stabili, com’essi PP. hanno asserito; e ne han i medesimi introitato l’annua rendita di duc. 250. Si ha il Monistero di Mesagne appropriato questi frutti fin dall’anno 1626, allorché seguì la descritta Unione; onde già sommano duc. 405.000”.

Dal Profilo sappiamo ancora che il monastero di Mesagne con l’aumento delle rendite dei soppressi monasteri e con i legati e donazioni di cittadini mesagnesi, il 19 maggio 1634, grazie al suo fondatore mesagnese e abate celestino D. Pietro Paolo Leopardi, fu dichiarato abaziale per “beneplacito del fastoso Cardinale Maurizio di Savoia protettore dell’Ordine” (Profilo, Vie, Piazze, cit., p. 187).

16 Angiolo Duca nella sua introduzione sottolinea così i meriti del Peccheneda; “Questo dotto Magistrato, ch’è il Delegato delle Scuole Normali, nelle molte cariche, delle quali è stato, ed è onorato dal Re N.S., ha sempre appalesato, ed inalterabilmente dimostra, la più esatta giustizia, ed il più sincero zelo per lo pubblico bene “ (p. 8). Elogi al Peccheneda sono rivolti inoltre dal già citato Moschettini nelle sue considerazioni per un più ampio sviluppo dell’agricoltura del Regno: “e se la utilissima istituzione delle Scuole Normali si renderà generale per tutto il Regno, com’è da sperarsi dall’anima beneficentissima del nostro Re, sempre intento a promuovere tutto ciò, che può influire alla felicità della Nazione, si aveva da per tutto la istruzione pubblica dell’agricoltura per li giovanetti in forma di Catechismo, che di già sento di starsi componendo in Napoli, per ordine del Caporuota D. Francesco Peccheneda, Delegato zelantissimo delle dette Scuole Normali” (Moschettini, Della Brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto, pp. 10-11 alla nota 3). La Biblioteca Provinciale di Lecce, di Francesco Peccheneda conserva due memorie legali riguardanti controversie giuridiche che interessano i centri di Gallipoli e Martina Franca. Il Peccheneda è autore anche di un’ampia dissertazione storico-giuridica in difesa dei diritti del governo della città di Sansevero sull’amministrazione e i beni del famoso monastero benedettino di S. Lorenzo: Ragioni della Città di Sansevero sul Monistero di donne monache sotto il titolo di S. Lorenzo della medesima Città contro alle pretensioni della Curia Vescovile, Napoli 1764, pp. LXXXIII (dal catalogo n. 4/1998 della Libreria Antiquaria Bruno Pucci di Napoli).

17 “Questi animato del medesimo zelo, non trascura fatica, ed attenzione, per istabilirsi la utilissima opera delle dette scuole” (Gio Angiolo Duca, 8, alla nota 2). All’Azzariti era sembrata “molto chiara la ragione dell’Università, e giusta, e discreta la domanda dalla medesima ora fatta al trono, di voler, cioè che i PP. Celestini di Mesagne in controcambio de’ beni del soppresso Monistero appropriatisi, mettessero in piedi, e mantenessero in Alessano le Scuole Normali per l’educazione della gioventù” (92).

18 Angiolo Duca non perde occasione, per dare maggiore credito alle sue tesi, di esaltare e di lodare il suo amabilissimo re Ferdinando IV, “beneficentissimo Sovrano, particolarmente sensibile al problema dell’educazione e dell’istruzione nel Regno tanto che (come scrive lo stesso Duca) “dopo aver fatto istruire in Rovereto due Religiosi Celestini (P. Alessandro de’ Conti Gentile e D. Lodovico Vuolo) dell’ultimo Metodo Normale, è tutto clementissimamente intento ad istituire le scuole in amendue le Sicilie, per esservi istruiti i suoi popoli; e in S. Leuce, luogo di Regali delizie, le ha aperte per quella delizia maggiore, che il suo pietoso animo percepisce nel profittevole ammaestramento della Gioventù, e nel pubblico bene”. D’altra parte, sotto le spinte illuministiche dell’epoca che riproponevano un conflitto fra i due poteri politico e religioso nel campo dell’educazione, tale sovrano si distingueva “avendo nell’anno 1768 espulsi da’ suoi Dominj li PP. della di poi estinta Compagnia di Gesù, Clementissimamente si degnò di far impiegar le rendite de’ beni di detta Compagnia nel mantenimento delle Scuole, che fece aprire in quei luogji, dove esistevano Case di detti PP.” (Angiolo Duca, 82). Per avere un’idea sullo stato dell’istruzione nel Regno di Napoli nel periodo di tale conflitto tra l’Università di Alessano e i Celestini di Mesagne si veda A. Zazo, L’Istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767-1860), in SOLCO II, (1927). Preziosi e più ampi riferimenti possono ritrovarsi inoltre nel recente studio di L. Ingrosso, L’istruzione a Campi nel sec. XVII. I Padri Scolopi, in “Lu Lampiune” XV, n. 2, 1999, pp. 23-36. Per avere un’idea quantomeno analitica, dell’Educazione e dell’istruzione nel Settecento, si veda M.A. Manacorda, Storia dell’Educazione, Roma 1997. Lo stesso Manacorda rileva infatti che la soppressione dei Gesuiti stimola l’iniziativa statale. A Napoli, già nel 1768, Ferdinando IV su ispirazione del ministro Tanucci, dichiara che “fra le cure principali della sovranità, importantissima è quella che riguarda l’educazione della gioventù e la direzione degli studi” e obbliga i conventi ad aprire le loro scuole ai laici (p. 62).

19 “Questo Ministro di Stato ha sommamente a cuore la buona educazione Nazionale, per quella cultura di spirito, della quale è doviziosamente provveduto” (Angiolo Duca, 96).

20 Notevole, questa dissertazione, per abilità dialettica e copiosità di dottrina, per gli ampi riferimenti di carattere pedagogico, storico (in particolare sulla nascita delle scuole e sulla loro evoluzione), letterari, giuridici e di varia erudizione (costituisce il capitolo I dell’allegazione e va da pag. 12 a pag. 52.

21 Ampie e numerose le “prove” del Duca a dimostrazione che nella fondazione dei Benefici, dei Monasteri e delle chiese era indispensabile il consenso del Sovrano. In questo capitolo (ma anche nei successivi), per usare un’espressione di G. Vallone, “l’argomento antiquario e quello giuridico sono sviluppati in parallelo e con uguale profondità” (Vallone, Conflitti giurisdizionali nel Salento, p. 303).

22 Angiolo Duca sosteneva in particolare per questa ragione che il monastero di Alessano “non erasi un Beneficio semplice; ed i Monaci Celestini, che lo possedevano, avevan l’obbligo d’istruire il popolo nella santa Religione, di ammaestrar la gioventù nelle lettere, e di esser coadjutori del Parroco.

Con quale dunque giusta facoltà lo abolirono, con unirlo al Monastero di Mesagne? E questa ingiusta unione, contraria a’ Canoni, ed allo Spirito della Chiesa, può mai più sussistere, senza rimanerne pregiudicati i dritti del Re, ch’è il protettor de’ Canoni, e della Chiesa? (72).

23 Angiolo Duca cita a questo proposito gli esempi di Gregorio X che estinse le ‘Religioni de’ Mendicanti, con riserbarne i beni in sussidio della Terra Santa, o de’ poveri, o in altri pii usi ne’ rispettivi luoghi”; di Clemente V che abolì l’ordine dei FF. Umiliati distribuendone i loro beni per “più usi”; di Urbano VIII che abolì la congregazione dei PP. Berettanti e la Religione de’ FF. de’ SS. Barnaba, ed Ambrosio, e riserbò i di loro beni all’amministrazione, e disposizione degli Ordinarj, per applicarne le rendite ad altri pii luoghi situati nella medesima Città, ove esistevano detti beni, e Conventi; di Innocenzo X che abolì la Religione delle Scuole Pie, di S. Basilio degli Armeni, dei Chierici Regolari del Buon Gesù di Ravenna, la Congregazione de’ Canonici Regolari di S. Gregorio in Alga, beneficiando dei loro beni i luoghi stessi dove erano situati (80).

Da un antico “ex-libris” (coll. privata).

 

24 Lo stato dei beni del Monastero di Alessano è già ricordato alla nota 15 di questo stesso contributo.

25 Tali ragioni difensive dei Celestini di Mesagne sono sinteticamente espresse nella relazione di Francesco Peccheneda (90-91).

26 Occupa le pagine 87-96. Del Caracciolo, ministro di stato, il Duca ricorda che “ha sommamente a cuore la buona educazione Nazionale, per quella cultura di spirito, della quale è doviziosamente provveduto” (96).

27 Cfr. S. Palese, Alessano e la sua chiesa maggiore, 49-55; Id., Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa ad Alessano tra XVIII e XIX secolo, estratto da Oronzo Gabriele Costa e la tradizione scientifica meridionale nell’Ottocento, II, Alessano alla fine dell’antico regime, Galatina 1993, pp. 54-55.

28 Pp. 94-95 della memoria di Angiolo Duca.

29 Trovo solo che nell’aprile 1797 lo stesso convento dei celestini di Mesagne ospitò il re Ferdinando IV e il suo seguito, ovvero il Generale Acton segretario di Stato e suo primo ministro (Cfr. Profilo, Vie, Piazze, cit., p. 187, che, comunque, non spiega la ragione della visita del Sovrano). Il monastero dei Celestini di Mesagne, soppresso il 13 febbraio 1807, fu adibito a sede della Sottointendenza e delle scuole (Cfr. O. Mazzotta, I Conventi soppressi in Terra d’Otranto nel decennio francese (1806-1815), Bari 1996, p. 133; ma anche A. Profilo, Vie, Piazze cit., p. 188). Nonostante le ricerche fatte, nessuna notizia bibliografica si è riusciti a rintracciare invece su Angiolo Duca e né il Giustiniani lo ricorda nelle sue Memorie Degli Scrittori Legali del Regno di Napoli.

Dialetti salentini: NNICCULECCHIA

di Armando Polito

La voce, che significa bocconcino prelibato, è registrata nel vocabolario del Rohlfs

Come si vede, non c’è proposta etimologica per nessuna delle due varianti. Non ho la presunzione di risolvere l’arcano, ma solo quella, più modesta, di formulare un’ipotesi che abbia un minimo di plausibilità e che, magari, propizi la discussione con altri contributi, in particolare dei lettori brindisini, visto che gli altri tre lemmi che metterò in campo riguardano esclusivamente l’ambiente brindisino.

Mi immagino quante notti insonni il maestro tedesco sicuramente avrà trascorso e quante ipotesi avrà messo in campo, scartandole tutte, compresa quella alla quale l’onestà intellettuale ha negato la presenza, pur in forma dubitativa, nel suoi vocabolario.

Come faccio a non credere che, scarnificando nniculecchia della geminazione espressiva di n e di quella parte che sembra essere un doppio suffisso diminutivo, non abbia pensato alle tre voci precedenti che di seguito riporto?

Anche qui la sua onestà intellettuale lo ha obbligato, nel dubbio, a cogliere, ma non a registrare, la comune origine, pur diluita nel tempo, dei tre lemmi. Facile, anche se pericoloso, in linguistica instaurare rapporti tra lemmi somiglianti o, addirittura, identici, come nel nostro caso. Nonostante questo rischio, come negare quello che sembra un evidentissimo legame semantico tra il secondo e il terzo? Nessuno a questo punto mi contesterà l’osservazione, dal momento che il porco è stato eletto da noi umani a simbolo della golosità, e non solo in ambito alimentare …

Ma con Niccu come la mettiamo? Spesso le nostre metafore animalesche (e pensare che siamo noi la peggiore realtà animale …) si ritorcono contro di noi.  Non sono rari i casi In cui nomi propri  hanno dato vita a nomi comuni1 , per motivi spesso non chiare, come per esempio checca, vezzeggiativo (può essere questo un chiaro motivo?) di Francesca, come sinonimo di omosessuale. La situazione appare ancor più complicata per la nostra triade: qualcuno avrà chiamato Nniccu il suo maiale o un Nniccu si sarà distinto tanto che il suo nome ha fatto la fine di Cicerone>cicerone e di Mecenate>mecena, solo per ricordarne due tra i più famosi?

Per sintetizzare, la trafila potrebbe essere: Niccu/niccu (o viceversa)>*nnìcculu>nnicculecchia, come per spina>spìngula (dal latino tardo spìnula, diminutivo di spina, dal quale, attraverso *spinla è nato spilla)>spingulecchia=piccolo spillo.

Poteva il Rohlfs riportare tutto questo, anzi certamente di più, a corredo di un lemma? A qualcuno queste poche righe potranno sembrare, bene che mi vada, come una sorta di dissacrante processo alle intenzioni.. Io non ho colpa se quel qualcuno non può capire che il mio è un atto di rispettoso amore.

_______________

1 Vedi, per esempio, Gianna e Cristina in https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/24/scianne-un-toponimo-neritino-sospeso-tra-olio-e-vino/.

 

Reati e violenze nel Salento tardomedievale. Il Quaderno della capitania di Nardò di fine Quattrocento

di Pierluigi Cazzato

 

La conflittualità e la violenza che caratterizzavano la società del Salento tardomedievale, a cui abbiamo accennato trattando della terra de Galliano, trovano una più ampia e chiara documentazione in un registro quattrocentesco di area salentina conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli: il Quaderno della capitania di Nardò1.

Il documento, trascritto e pubblicato più di trent’anni fa da Santa Sidoti Olivo, ci offre “una vivace rappresentazione della società (anzi, di alcuni gruppi sociali), nelle sue manifestazioni quotidiane, e precisamente nei rapporti interpersonali, fatti anche di litigi, di ribellioni, di beghe, di furti, di ingiurie e bestemmie”2 del Salento di fine Medioevo.

Il registro riguarda l’anno 1490-91, è stato redatto dal notaio Giampaolo de Nestore trascrivendo quanto contenuto in due distinti quinterni, uno quello dell’erario Ragucio de Vito e l’altro del mastrodatti Pando de Pandis, entrambi appartenenti all’ufficio del capitano neretino, magnifico misser Locchino Caytano de Neapoli.

Nella prima parte del manoscritto, vengono elencati 608 procedimenti giudiziari, per ognuno di essi viene riportato il nome dell’accusato e dell’accusatore, spesso anche con la provenienza e la professione, la tipologia del reato commesso e la pena comminata, sempre di carattere pecuniario.

Ci troviamo di fronte ad uno spaccato di vita reale “che fotografa vicende personali e parentali, dinamiche relazionali, luoghi, momenti e contesti di esperienze vissute, ma anche precise identità sociali, etniche e culturali”3, imprescindibile se si vuole ricostruire la storia della mentalità e del costume delle società salentina tardomedievale. In aggiunta, essendo scritto in volgare, esso riporta una quantità di espressioni che erano di uso quotidiano tra la gente dell’epoca e che, in parte, si sono conservate nei moderni dialetti salentini.

Diamo ora uno sguardo più da vicino al documento neretino confrontandolo, per quanto possibile, con le notizie contenute nel Quaderno della bagliva di Alessano, di cui ci siamo già occupati.

 

I reati

Innanzitutto bisogna premettere che nei due registri si prendevano in esame solo di casi di giustizia civile; tutto ciò che riguardava l’amministrazione della giustizia criminale, cioè i casi più gravi che prevedevano la pena di morte, l’esilio, la mutilazione o un’ammenda pecuniaria superiore ad un augustale, non erano di competenza dell’ufficio della bagliva o della capitania.

Per semplificare il minuzioso elenco d’infrazioni registrate nel Quaderno di Nardò, si possono classificare i reati commessi in quattro categorie, secondo la suddivisione operata da Luciana Petracca4:

  1. reati contro lo stato (evasione fiscale e violazione delle norme vigenti) o contro l’ordine pubblico (sedizione e ribellione);
  2. reati contro la persona (ingiurie e minacce verbali, aggressioni fisiche e tentativi di omicidio);
  3. reati a sfondo sessuale (adulterio, maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale):
  4. reati contro il patrimonio (furto e danneggiamento, appropriazione indebita e mancati pagamenti).

Oltre la metà dei reati era di natura pubblica; molti i casi di evasione fiscale: frodi sul dazio del pane (li fraudao lo dacio de lo pane; pillao lo pane de lo furno sensa cartolina; la mulliere de Petro de Micheli incusata per lo dacieri che non li volce dire quanto pane ha facto; uxor Angeli de Stiacio incusata per notaro Bernardino, dacieri de lo pane, perché lu gabao), sui prodotti agricoli (non li feche noticia delle follie che vendio o de la bambace o de li fructi), sul vino (perché vendero vino musto sencza licencia) e sul pescato (portò pesse e non feche noticia al capitaneo; non portao pesse prima allo capitanio e vendiolo ad altri); comuni erano anche le contravvenzioni alle norme di igiene pubblica (gectao l’acqua bructa alla strata; iectao lo romato allo loco de Santo Martino), la violazione dell’obbligo di riposo durante i giorni festivi (intrao con lo caballo bardato de festa; trasio con la iumenta bardata la festa; intrao de festa dentro la terra con lo carro) ed altri reati minori (portava li bovi sensa campana; portao lu pullitro sensa spurtello5). Numerose infrazioni riguardavano l’ordine pubblico: il gioco d’azzardo (iucao alli dadi, ad carte, alli arunghi/runghi6), la renitenza al servizio di guardia (non andao alla guardia), la frequentazione notturna dei luoghi pubblici (andao da po la tercia hora sencza foco), il disturbo della quiete pubblica (per certo rumore feche in piacza; perché feche certo tumulto), l’entrata o l’uscita dalle mura cittadine senza permesso (trasio de sopta la porta; ensio de lo paraporto; perché foi trovato per lo capitanio de nocte che ensio de la porta), la caccia di frodo (Antoni de Cupertino, perché venne noticia alla corte, che pillava li palumbi), il porto d’armi (Dimitri Albanese, accusato per Cola serviente, perché lo trovao cu l’arme prohibita; che lo trovao cu l’arme depo la tercia) e la bestemmia (perché dixe yo incaco quillo chi stai in cielo; biastemao Santo Eloi; biastemò Santo Francesco). Non mancano neppure gli episodi di ribellione (inobediencia; feche desistencia alla corte), resistenza a pubblico ufficiale (per resistencia facta allo mastro iurato; Czachulli de lo Vecco iudio, incusato per lo masto iurato, perché non volce obedire et che li dede certi colpi) e i disordini di piazza (perché foi trovato chi facia rumore cu l’arme; per certo insulto et rumore facto alla piacza).

Passando alla sfera privata, i reati contro la persona erano costituiti in prevalenza da minacce verbali ed ingiurie che il nostro registro riporta fedelmente, in quanto oggetto del procedimento giudiziario, restituendoci così un vasto campionario di epiteti e di espressioni diffamatorie, specchio della mentalità e del contesto culturale salentino dell’epoca. L’espressione ingiuriosa poteva riguardare l’aspetto psico-fisico della persona (orbo, inbriaco, torto, paczo), l’onorabilità della famiglia (tu non fosti fillio de soroma; sorota non mi foi mulliere) o l’infedeltà coniugale (cornuto; perché li dixe ca Filippo de Pisani have havuta essa et la soro; perché li dixe ca li fili soi sono bastardi et sono fili de Gabrieli Spinello). La calunnia poteva fare anche riferimento a pesanti accuse come la menzogna e lo spergiuro (tu menti per la gula; tu hai facto iuramento falso), il tradimento (asino traitore; bructo traytore), il furto (latro tu meriti la furca; latro sassino menegodo), la prostituzione (puctana; rofiana puctana; marituma ti vede li homini chi tieni avanti la porta; puctana frustata tu teni cento innamorati) e la sodomia (Cola Fuecu, denunciato per Serafino Pictivino, perché li dixe le cose minime non le pilli perché pilli le cose grandi). Spesso si ricorreva all’insulto (cane filio de cane; ribalda gallioffa; pidocchioso), usando volgari espressioni di disprezzo (perché li dixe yo trovai le terre allo culo de mammata; tu mi li sconciasti), a volte accompagnate da gesti di scherno (li dixe, mostrandoli lo digito, ficcate quisto in culo; li mostrao le fiche) e versi offensivi (li feche un mugito in modo de beffa). Altrettanto ampio e colorito era il catalogo delle minacce: yo te vollio castigare; tu divi essere squartato; yo te derò tanti pughi in facie finchè te fazo cadere; che te spaccherò lo capo; tu vorria pistata; yo te vollio cachiare l’occhi; yo te derò più bastonate che te agio date; tu non ay una dia de vita; yo vollio talliare la fache a te e a molliereta. Accanto alle violenze verbali, nel registro vengono riportati frequenti casi di aggressioni fisiche: scaramucce e risse (minao le petre; fechero a punghi; lu pillao per petto), percosse (lu bactio; lo pillao per capilli et gectaolo in terra; li dè una piactonata; li dette certi calczi), liti familiari (Mactheo de Colella, denunciato per Alexandro de Colella, suo frate, perché li roppe la facie; Giorgio Albanese, denunciato per Marco Albanese perché, irato animo, li bactio la matre), inseguimenti (lo sequitao con arme; lo sequitao ad petre; lo sequitao con lo cortello), aggressioni a mano armata (li andò sopra con uno squartituro; li cagiao lu cortello), agguati premeditati (Czota, Serafino e Cola Albanese, accusati per Salamoncello iudio che lo asaltaro allo puczo de Santa Lucia; che lo andò adsaltare in mare; li andao adsaltare in casa con la lancza), regolamenti di conti (Silvestro Bontempo et Antonello Corteyse accusati che fecere ad cortellate da fore et non se ferero). Le conseguenze di queste azioni, a volte, potevano essere serie e le ferite non erano certo di poco conto: lu bactio e folli sango; li dede un pungho et fecheli sango, li roppe lo capo, lo assaltao con la spata et feriolo, lo ferio alla cosa, li roppe la testa.

Meno frequenti i reati a sfondo sessuale registrati nel manoscritto di Nardò, si possono contare con certezza solo due episodi: Fortuna Albanese che denunciò Antonio Presta perché le mise li mano violente addosso e Vucicco Schiavone molestato da Chicco de Crassono che prima lu tocao sconczamente e poi gli diede un pugno. Si registra anche un caso di violenza domestica: Ursino di Aradeo venne condannato, dopo un’indagine della curia, perché roppe la testa alla molliere con lo rocco7.

Per quanto riguarda i reati contro la proprietà le denunce per furto la facevano da padrona, i casi vanno dai piccoli furti (li livao la gunnella; li pillao la carne de lo furno; li livao la pallia; li livao l’uva de le vinghe; pillao certe chanche de lo palmento) ad episodi ben più gravi (li pillao lu cavallo dentro la chesura; li vendio uno bove e poi lu levao de facto). I danneggiamenti erano provocati per lo più in modo accidentale dalle bestie lasciate senza controllo (li magiaro l’orgio con li bovi; li magiaro l’olive ensete con li bovi; li porci soi li mangiaro la czafarana; li mangiò l’uva con li cani; li bebe l’acqua de la cisterna con li bovi), tuttavia non mancano alcuni episodi di natura dolosa (li petrigiao8 la casa; li talliao uno ramo de oliva). Il dolo, invece, era all’origine di tutti i fatti di appropriazione indebita (perché li arao la terra sua; perché li zappao le vinche soi ipso non visto), di mancato pagamento (accataro una pecora e denegariano de pagare) o di truffa (li dede parte ad uno crapecto et gabaolo; perrchè scanciao con ipso et po’ lu gabao).

A confronto con la città di Neritonio, le notizie in merito alla tipologia dei reati commessi nella civitas Alexani sono scarne e assai meno esplicite, disponiamo comunque di una lista di 12 persone denunciate per iniuriis e di 35 casi di uomini chiamati a pagare una multa per i danni provocati dalle loro bestie (soprattutto bovini ed equini) sulle proprietà altrui.

 

Le pene

Come detto, le pene erano sempre di carattere pecuniario. Per i reati minori, a Nardò, le multe non erano troppo elevate e, in genere, si attestavano tra i 5 e i 10 grani9. Così accadeva, per esempio, per l’evasione del dazio, per i piccoli furti, le ingiurie, il divieto di dispersione delle acque sporche ecc. Anche i giocatori d’azzardo di solito venivano multati con 5/10 grani, però in un’occasione le multe furono maggiori (1 tarì e 10 grani) e Calulli iudio fu condannato a pagare addirittura 1 ducato perché imprestao la casa ad questi che iucara.  Allo stesso modo pure le pene per le aggressioni fisiche potevano variare di molto, dai 5 grani fino a 3 ducati, in base alla gravità. Le contravvenzioni per i danni contro la proprietà arrivavano ad un massimo di 4 tarì, per i mancati pagamenti ad 1 tarì, per i reati sessuali ad 1 tarì e 10 grana. Più gravi, ossia puniti con multe maggiori, erano i reati che riguardavano la ribellione e la sedizione, le condanne potevano arrivare ad oltre un ducato ma nel caso di Federico de Sambiaso, che fece resistenza nel consegnare le armi al capitano Lucchino Caytano e pilliaose ad pecto con ipso, fu addirittura di 6 ducati.

Ad Alessano, invece, le ingiurie venivano punite con multe variabili tra i 3 grani e i 3 tarì, quelle che riguardano i danneggiamenti sono mediamente più elevate tanto da raggiungere una cifra massima di 9 tarì.

 

Accusati e accusatori

I 608 procedimenti giudiziari, su una popolazione di circa 600 fuochi fiscali10, sono la testimonianza più esplicita del clima di illegalità e violenza che caratterizzava la comunità neretina di fine Quattrocento: signori e contadini, locali e forestieri, funzionari e religiosi, uomini e donne, tutti sembrano esserne coinvolti tanto che nessun gruppo sociale sfuggiva alle strette maglie della giustizia dell’epoca o era immune a comportamenti brutali. Insomma si può senz’altro affermare che tutti gli strati sociali, dal domno alla meretrice, trovano rappresentazione tra le pagine del registro di Nardò, ed in parte anche in quello di Alessano.

Le classi più elevate erano spesso coinvolte in liti ed episodi di violenza spicciola, si fa menzione, per esempio, di misser Giovanni Francigina che si azzuffò con alcuni ebrei: fu condannato perché straczao la camisa ad un certo Calullo ma, allo stesso tempo, denunciò Jaco de Churi per ingiuria11. Accadeva anche che fossero o vittime di violenze fisiche, come domno Domenico che denunciò Antonio di Santo Donato perché lu pilliao per carina, oppure artefici di prepotenze, sull’esempio di misser Vincenzo de Mico che entrò auctoritate propria in casa di Filippo Barberi che per questo motivo lo denunciò. Più di frequente gli aristocratici erano coinvolti in questioni di carattere economico, infatti misser Cesare de Noha12 risulta esser stato denunciato dal castellano Iacobo de Capua perché non pagò la somma di 25 tarì, mentre Federico de Carignano e Guglielmo della Porta, utili signori de lo feudo de Flangiano, accusarono il notaio Nicola di Corigliano per il mancato versamento della decima del vino. Diverso pare il caso di Alessano dove il nobile calza sempre le vesti dell’accusatore, di colui che chiama in giudizio qualcuno oppure lo denuncia per i danni subiti, per esempio: domno Stefano Ceso che citò in giudizio il magister Nucio o domno Melchione Caballero che denunciò Cristoforo Cannabono per ingiurie e diversi altri uomini che gli avevano arrecato danni coi loro animali.

Una categoria che compariva spesso sui nostri registri era quella dei funzionari e degli impiegati pubblici che, essendo tenuti a far rispettare le leggi e a mantenere l’ordine, erano quasi sempre citati tra gli accusatori, il che causava loro non pochi inconvenienti. A Nardò, per esempio, accadeva che fossero vittime di minacce, come successe al serviente Cola Lillo o al dacieri de lo pane Silvestro Bontempo, o di violenze, come il serviente Geronimo. A volte, però, erano essi stessi ad essere denunciati per poco zelo, come ad esempio il portararo Meo Caballo multato perché fece uscire un forestiero sencza bullecta. Lo stesso si può dire dei funzionari alessanesi; infatti i baiuli, che avevano il compito di sorvegliare le proprietà della curia, denunciavano coloro che erano sorpresi con le loro bestie in vineis … et aliis possessionibus della civitas (come avvenne nel caso di Nicolao Ventruto multato per la sue tre scrofe trovate nel fossato maiorj della città o del contestabili di Tutino il cui bove fece danni in territorio Alexani). Tuttavia i funzionari pubblici di Alessano furono coinvolti in vertenze di carattere privato in almeno due episodi: sia l’erario Francesco Strella (Storella)13, sia il notaio Giovanni de Gorgono14 denunciarono alcuni uomini per i danni subiti nelle loro vigne.

Nemmeno i membri della chiesa erano estranei al clima di violenza che caratterizzava la società salentina dell’epoca, ne abbiamo una plastica, e colorita, rappresentazione nel documento neretino: Matteo de Colella fu denunciato dall’abbate Francesco Funiati perché lu pilliao per pecto et dixili o male previte. Conferma si trova anche nel quaderno alessanese dove si fa menzione di un fratre Angelo che chiamò in giudizio Antonio Carroppa.

Le minoranze etniche sono chiaramente rappresentate in modo sproporzionato all’interno del registro di Nardò, tanto che tra i condannati il numero dei cittadini di origine straniera (ebrei, albanesi, greci e slavi) risulta superiore a quello degli autoctoni. Pare per questo condivisibile l’affermazione di Luciana Petracca secondo la quale “le minoranze etniche e religiose erano sottoposte a un più attento e serrato controllo da parte delle autorità locali, preoccupate di garantire l’ordine pubblico, la sicurezza e la pace sociale”15. Questo controllo si traduceva in un’ampia serie di denunce per tutti i tipi di reato, sia di carattere pubblico che privato. Così troviamo: albanesi ed ebrei multati per aver gettato l’acqua bructa per strada, slavi condannati per rissa, ancora ebrei accusati di frode o greci per aggressione. Ribellione e resistenza a pubblico ufficiale, ingiurie e minacce, nonché le violenze fisiche, sembrano esser state le infrazioni più frequentemente commesse da questi gruppi sociali. Omologa la situazione di Alessano: più del 20% (10 su 49) delle persone chiamate in giudizio appartenevano a minoranze etniche, si sale ad oltre il 40% (5 su 12) prendendo in esame le denunce per ingiurie16.

Larga rappresentazione, nel registro neretino, hanno le donne, sia nel ruolo di accusatrici che di accusate. Come abbiamo già visto, erano spesso vittime di ingiurie, che per lo più toccavano la loro onorabilità, minacce, violenze domestiche e aggressioni fisiche; ma tra gli abusi che subivano bisogna menzionare anche quelli contro i loro beni, “soprattutto quando la loro condizione vedovile le rendeva socialmente più deboli e indifese”17. Così accadde, ad esempio, alla vedova di Battista delo Prothomastro che venne privata delle sue terre da Filippo de Barbieri. Tra i reati commessi dalle donne, invece, la frode sul dazio del pane era quello maggiormente frequente, ma non mancano casi di insolvenza dei debiti, resistenza a pubblico ufficiale e violenze verbali e fisiche contro altre donne. Sul registro di Alessano le menzioni di donne in ambito giudiziario si contano sul palmo di una mano: Mita Mangiona che citò in giudizio il magistrum Battista, una certa Bellissimam portata in giudizio da Geronimo Blanco, Rada Sclaua (Slava) che denunciò Angelo Marsilio per ingiurie e Paciencia Perocta multata per lo stesso motivo.

 

Gio: Antonio Del Balzo, principe di Taranto (da Ritratti et elogii di-capitani illvstri, Roma 1646)

 

I moventi.

Prendiamo ora in esame il contesto socio-economico salentino dell’epoca cercando di formulare alcune ipotesi circa le cause di questo alto tasso di conflittualità. Come detto, ci troviamo di fronte ad una società in fase di espansione demografica ed, in una certa misura, di crescita economica, infatti sotto il governo di Giovan Antonio Orsini del Balzo, si realizzò una buona integrazione tra economia feudale ed economia mercantile, il che permise la crescita degli scambi commerciali dando così la possibilità ai prodotti agricoli in eccesso di trovare sbocco sia nel mercato interno sia all’estero. Lo sviluppo economico portò ad un mutamento anche sociale, un nuovo ceto “borghese” emerse nei piccoli e grandi centri di Terra d’Otranto: i funzionari dell’amministrazione orsiniana, in particolare i notai. Questi uomini, che avevano un adeguato grado istruzione (sapevano leggere e scrivere in latino, far di conto, avevano delle nozioni di diritto civile e conoscevano le consuetudini locali), godevano di una certa ricchezza e prestigio sociale in virtù dell’ufficio che ricoprivano, tanto da poter ascendere ai gradi della feudalità minore18.

Dunque, all’interno di un contesto di crescita economica e di mobilità sociale, ci pare logico ricondurre la maggior parte delle liti e delle violenze, poc’anzi descritte, a cause di natura economica e, usando le parole della Petracca, affermare che “dietro le aggressioni e le denunce, dietro le minacce e i tentativi di omicidio si potevano, sì, celare banali antipatie, invidie, gelosie e inimicizie, ma avranno senz’altro rappresentato un più forte pungolo le ragioni di carattere economico, l’ambizione alla ricchezza, l’incremento patrimoniale, e quelle di ordine sociale”19.

Prova ne sia il fatto che nel registro di Nardò sono numerose le dispute che riguardano i confini o i titoli di possesso di terreni agricoli, i casi di truffa e di mancato pagamento, i furti e i danneggiamenti sulle proprietà private (particolarmente evidenti anche nel registro alessanese), tutti episodi che di sicuro avranno costituito la causa delle denunce e delle liti di cui ci sfuggono i moventi.

In una società rurale e patriarcale, come quella dei piccoli centri salentini, un altro frequente motivo di litigio era costituito dalle questioni di onore familiare, in primis l’onorabilità della donna, come tipico delle civiltà contadine. La bona fama della famiglia era assicurata dal controllo e la tutela delle donne di casa, spose o figlie, e qualsiasi offesa contro di loro scatenava risentimenti e conflitti che si protraevano nel tempo20.

Abbiamo già messo in evidenza come, sia nel registro neretino sia in quello alessanese, le minoranze etnico-religiose siano rappresentate in modo sproporzionato rispetto agli autoctoni. La causa principale è da ricercare nel maggior controllo a cui erano sottoposte le comunità allogene, ma è altresì palese che le differenze di carattere etnico e religioso costituivano motivo di continue tensioni e risentimenti che spesso sfociavano in violenza verbale e/o fisica. Insomma, in una società multietnica, la diffidenza verso lo straniero o verso colui che praticava un culto diverso rendevano difficile, ieri come oggi, la convivenza tra le diverse comunità, autoctoni, ebrei, slavi, greci e albanesi.

Particolarmente scomoda doveva essere la condizione degli ebrei (basti pensare che da lì a pochi anni saranno cacciati da tutto il regno aragonese) e ciò traspare in modo chiaro specialmente nel registro neretino.

A titolo di esempio riportiamo l’episodio che coinvolse Cale iudio de Imbeni il quale, sol perché aveva osato affermare una verità lapalissiana (che tuttavia pareva inaccettabile nel mondo cristiano di fine Medioevo) dicendo che “Christo fo trentatre anni iudio”, venne multato per un tarì (stessa ammenda che fu comminata a Valentino Serrato, un cattolico, che invece pronunciò una frase altamente blasfema: “Yo incaco chillo chi stai in cielo”). D’altro canto non bisogna nascondere il fatto che molto spesso liti e violenze vedevano coinvolte persone che facevano parte dello stesso gruppo etnico, ma la comune appartenenza non impediva che gli scontri fossero particolarmente accesi e si trasformassero in vere e proprie faide. Ci pare opportuno citare ancora un episodio tratto dal quaderno di Nardò: l’acceso litigio che vide Abracha Perdici de Corfo infierire ripetutamente contro Sabbatai de Corfo. Si tratta con tutta evidenza di due ebrei dalla comune origine, l’isola greca di Corfù, nonostante ciò il primo personaggio si accanisce sul secondo prima dicendogli “yo te ferò portare adtacato ad Lecche”, in più li mostrò le fiche21, poi gli disse alla barba sua e gli entrò in casa a rubargli degli anelli, infine, non contento, lo minacciò pesantemente “yo vollio talliare la fache ad te et ad molliereta”.

 

La lingua

La lingua utilizzata nel Quaderno del capitano di Nardò, come detto, è il volgare salentino tardomedievale. Il principale motivo d’interesse, sotto l’aspetto linguistico, risiede nel fatto che il documento riporti ingiurie e minacce fedelmente trascritte che, a distanza di oltre cinque secoli, ci restituiscono frammenti del parlato quotidiano nel Salento di fine Medioevo. Per lo studio linguistico del testo rimandiamo al recente ed esaustivo articolo di Vito Luigi Castrignanò22; in questa sede ci limitiamo a segnalare alcune espressioni volgari e modi di dire gergali che si sono conservati nel dialetto moderno.

Particolarmente colorite sono le minacce yo te vollio cachiare l’entrame, “io ti voglio sventrare”, dove l’entrame sono gli intestini, e yo te vollio cachiare l’occhi, “io ti voglio cavare gli occhi”, conservatesi nel moderne espressioni te ne cacciu le ntrame/l’occhi, usate per lo più in tono goliardico. Un’altra minaccia molto singolare è yo te trovarò l’acqua, “ti darò una lezione”, “ti sistemerò per le feste”; anche questo modo di dire è usato ancora oggi: te trovu l’acqua, “ti rimetto in riga”, conserva ancora il suo significato di avvertimento e di velata minaccia.

Risulta più complicato determinare l’esatto significato della frase questa fantasia te l’achio de caciare, forse da interpretare come “devo soddisfare questa tua voglia”, nel senso di “ti darò ciò che ti meriti”; lo stesso tipo di costruzione si ritrova nel dialetto moderno: sta curiosità me l’aggiu cacciare, “devo sapere questa notizia” (letteralmente “devo soddisfare la mia voglia di sapere questo pettegolezzo”). Infine pare istruttivo riportare la maledizione che l’ebreo Bracha lancia contro Sabbatai Greco (dal nome parrebbe un altro ebreo, di origine ellenica): malanno habia ipso et l’anima de suisa et lo parentato sua, tipica ingiuria che colpisce tutta la parentela dell’avversario come, ancora spesso, capita di ascoltare nelle accese discussioni di paese.

 

Alcuni casi paradigmatici

Alla fine di questo nostro excursus attraverso i registri giudiziari di Alessano e Nardò, vogliamo ora portare all’attenzione del lettore alcuni personaggi citati ripetutamente dalle nostre fonti, le cui vicende, a nostro parere, possono chiarire meglio alcuni aspetti dei costumi e della mentalità del tempo.

Partiamo da due alessanesi: Angelo Grasso e Antonio Carroppa. Il primo apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà23 che, nel Quattrocento, pare aver perso parte del suo vecchio prestigio; infatti, nei nostri documenti, nessun titolo nobiliare veniva attribuito agli uomini di questa casata anche se un Giovanni Grasso viene indicato come notaio e scrivano, dunque un appartenente al ceto notarile. Angelo Grasso, che possiamo allora annoverare tra i notabili del paese, viene menzionato ben 10 volte nel registro della bagliva alessanese: egli citò in giudizio otto persone (gli ebrei Yasca, Matthia e Samuy, Giovannuccio Giaccari, Nicola Ventruto, Giovannuccio Quattropani -2 volte- e Stefano de Cuniano), a sua volta venne chiamato in causa da Antonio Giaccari e infine denunciò l’ebreo Yose de Chully per ingiurie. Sembra quasi, che con tutte le sue denunce, il Grasso tenti di proteggere il suo status economico e conservare il prestigio sociale della sua famiglia all’interno della civitas. Antonio Carroppa, invece, era probabilmente un allevatore di cavalli che godeva di una certa disponibilità economica. Su di lui troviamo addirittura 16 menzioni in ambito giudiziario: per 3 volte egli viene citato in giudizio, da Nicola Gatto di Corsano, da Matafone e da fra’ Angelo; gli episodi rimanenti riguardano i danni provocati dalle sue bestie. Il nostro Antonio sembra esser stato un recidivo impenitente, infatti con i suoi cavalli e cavalle arrecò, in un anno, danneggiamenti su dieci proprietà diverse, accumulando multe per un totale di 23 tarì e 12 grana (pari a circa 60 giornate lavorative di un bracciante agricolo). Tra tutti i suoi guai giudiziari, particolarmente grave e prolungata fu la “faida” che ebbe con Giovanni Buffello: infatti per ben 5 volte, con i suoi cavalli, distrusse le coltivazioni di Giovanni, il quale, forse per vendetta, si rifece ingiuriandolo (e per questo fu condannato a pagare una multa di 3 tarì, la più alta tra quelle comminate per ingiurie) e facendo pascolare, in due differenti occasioni, i suoi buoi sulle terre di Antonio. Alla fine, pare che questa lite si fosse in un certo modo ricomposta visto che i due contendenti ricevettero la grazia dalla principessa Anna Colonna (domnam principissam), moglie di Giovan Antonio Orsini del Balzo, che condonò loro parte delle multe ricevute. Non stupisce che, in un contesto rurale come quello alessanese, tra i principali motivi di discordia ci fossero gli sconfinamenti nelle proprietà altrui e che gli scontri tra allevatori e agricoltori si verificassero con grande frequenza.

Passando al quaderno di Nardò, uno dei personaggi che compare più spesso risulta essere l’ebreo Calullo. Le sue vicissitudini giudiziarie si snodano lungo tutto l’anno indizionale 1490-91 e ci paiono paradigmatiche del rigido controllo a cui erano sottoposte le minoranze etniche, ma anche dell’alto tasso di illegalità e di violenza che le caratterizzava. Ripercorriamo, in ordine cronologico, tutti i guai che Calullo ebbe con la legge: dapprima, come già visto, fu vittima della protervia del nobile Giovanni Francigina che denunciò; poi fu multato perché in casa sua si giocava d’azzardo; ricevette un’altra condanna per certo rumore che fece con Guglielmo Morra; in seguito fu denunciato per diffamazione; poi multato per aver gettato acqua sporca sulla pubblica strada; lo ritroviamo ancora protagonista di una lite con l’ebreo Cullo de Inbeni, ma questa volta vestì i panni del denunciante; per finire litigò aspramente con Benedetto Tiso, i due si minacciarono  e denunciarono reciprocamente e furono condannati, inoltre due ulteriori denunce sporte dal Tiso, per minacce e diffamazione, erano ancora in attesa di una sentenza. Il totale delle ammende accumulate da Calullo fu di 1 ducato, 2 tarì e 10 grana, pari a circa 70 giornate di lavoro di un bracciante agricolo, il che ci suggerisce che le sue disponibilità economiche fossero buone. Quindi Calullo era un ebreo benestante (mercante?, artigiano?) e, seppur appartenente ad una minoranza religiosa spesso vessata sia dal potere pubblico che dai privati cittadini, non esitava a litigare violentemente con esponenti dell’aristocrazia (misser Francigina) e del notabilato locale (come pare essere il Tiso) o a commettere reati di natura pubblica. Il carattere del nostro Calullo doveva essere particolarmente fumantino tanto che non gli erano nemmeno estranei i diverbi con membri della sua stessa comunità etnica.

 

Conclusioni

Spesso la nostra percezione del presente influenza l’idea che ci facciamo del passato. Così, per esempio, chi è convinto della decadenza della società contemporanea tende ad idealizzare le civiltà antiche. Lo stesso schema mentale si ripropone quando, davanti a casi di efferata violenza a cui non si riesce a dare una logica, sentiamo affermare con sicurezza che in passato tali episodi non accadevano, che la vita delle comunità salentine dei secoli passati, fondata sui valori tipici della civiltà contadina (la famiglia, la Chiesa, ecc..) e su forti legami di solidarietà sociale, era più pacifica e meno soggetta ad atti di violenza. L’idea che ci siamo fatti, leggendo i registri di Nardò e Alessano, è totalmente opposta. Verso la fine del Medioevo, nei piccoli e grandi paesi del Salento regnava un clima tutt’altro che tranquillo, i salentini dell’epoca non solo erano esposti alla violenza delle ripetute guerre e ai pericoli delle frequenti epidemie, ma dovevano anche guardarsi dai propri concittadini. Era normale andare in giro armati ed usare le armi di fronte ad un’offesa o per far valere le proprie ragioni, la vendetta era prassi comune, come pure farsi giustizia da soli, e si poteva facilmente venire alle mani per questioni economiche o di prestigio sociale. In definitiva, tutti gli elementi analizzati ci portano a ritenere che la società dell’epoca fosse caratterizzata da un elevato tasso di conflittualità e da un’asprezza di costumi che non trova paragoni in quella contemporanea.

Tutto ciò ci ricorda ancora una volta l’importanza delle fonti e ci stimola a continuare lo studio di questi registri quattrocenteschi che, a prima vista, potrebbero apparire come degli sterili elenchi di nomi e di cifre ma, ad una più attenta analisi, si rivelano una miniera inesauribile d’informazioni che interessano la storia istituzionale e del diritto, l’evoluzione della mentalità, del costume e della lingua, la struttura sociale ed economica, le relazioni di genere e i rapporti tra i diversi gruppi etnici.

 

Note

1 ASNA (Archivio di Stato di Napoli), Sommaria, Relevi ed Informazioni, Libro Singolare 242, ms., cc. 207r – 227v. Cfr. L. Petracca, Giustizia e società nel Meridione d’Italia: prime indagini alla luce di un registro giudiziario di area salentina (XV sec), in Itinerari di ricerca storica, a. XXXV, 2021 n°1 (nuova serie), pp. 75-94; S. Sidoti Olivo, Per il “Libro dei baroni ribelli”. Informazioni da Nardò. I. Testi, in Bollettino Storico di Terra d’Otranto, 2 (1992), pp. 137-174.

2 S. Sidoti Olivo, op. cit., p. 138.

3 L. Petracca, op. cit., 2021, p .80.

4 L. Petracca, ibidem, p. 80.

5 Nel primo caso ci si riferisce all’obbligo di munire di campane tutti i buoi al pascolo, nel secondo a quello di legare con un sacco, lo spurtello, la bocca dei cavalli durante la trebbiatura (il dialetto di Salve conserva il termine spurtiddu, sacco con cui si lega la bocca al bue nel lavoro della trebbiatura; cfr. G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Martina Franca (Ta), 2007, p. 686).

6 L’arunghio, aliosso in italiano, runchiu in salentino, è un osso animale (l’astragalo della zampa posteriore degli ovini) che in antico veniva usato come pedina o dado in diversi tipi di gioco.

7 Roccu, strumento munito di uncini che serviva a ripescare un secchio dal pozzo; gancio utilizzato per abbassare i rami (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 554).

8 Salentino petrisciare, prendere a sassate, lapidare (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 487).

9 Si tenga conto che la giornata di lavoro di un bracciante agricolo veniva pagata in media 8/10 grani.

10 Nel 1508 a Nardò furono censiti 602 fuochi fiscali (cfr. M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 84).

11 In questo caso è curioso notare la differenza delle ammende comminate: il signore, per un atto di violenza, venne condannato a pagare 11 grani; mentre l’ebreo, solo per aver pronunciato le parole “yo faczo stima de te como de questa terra” (ingiuria che a noi moderni appare davvero di poco peso), pagò quasi il doppio, 1 tarì (corrispondente a 20 grani).

12 L’antica casata dei De Noha risulta attestata nel Salento già nel XIII secolo; signori feudali dell’omonimo casale, nel Quattrocento, la loro signoria comprendeva Merine, Francavilla, Padulano e Giurdignano (cfr. L. Petracca, op. cit., 2021, p. 87).

13 Omonimo e probabilmente avo del filosofo Francesco Storella (Alessano 1525? – Napoli 1575).

14 Il notaio Giovanni de Gorgono fu capitano di Roca e di Castro nel 1446 e poi, per ben due volte (nel 1456 e nel 1458) tesoriere della città di Lecce; suo figlio Nicola de Gorgono fu anch’egli notaio e, come il padre, ricoprì diversi incarichi: tesoriere di Brindisi nel 1458, erario generale del principe per la circoscrizione compresa tra Lecce e Taranto nel 1460-61 (cfr. L. Petracca, Il ceto notarile in una provincia del Mezzogiorno d’Italia (sec. XV). Formazione, carriere e mobilità sociale, in Stud. hist., H.a mediev., 41(1), Salamanca, 2023, pp. 165-186). Era una delle famiglie più importanti di Alessano e probabilmente tra le più ricche visto che Giovanni possedeva una giovane vigna (pastano) e il figlio un palmento.

15 L. Petracca, op. cit., 2021, pp. 80-81. In cui si afferma anche: “E’ noto tra l’altro, che nel Mezzogiorno la condizione degli ebrei non fosse sempre facile a causa dei ripetuti episodi di intolleranza, anche da parte degli ufficiali regi, e soprattutto nei momenti di più acuta crisi economica e/o politica”.

16 Nel primo caso si trattava di nove ebrei ed uno slavo, nel secondo erano quattro ebrei ed uno slavo. Se consideriamo invece gli accusatori, le percentuali scendono nel primo caso al 10% (5/49), nel secondo al 16% (2/12). Gli ebrei residenti ad Alessano che vengono citati nel quaderno della bagliva sono 15 (famiglie: Arris, de Arpa, de Chully, de Helia, de Nachaniully, Paparo), verosimilmente i membri della comunità giudaica alessanese dovevano avvicinarsi alle 50 unità, circa i 10% della popolazione totale della città.

17 L. Petracca, op. cit., 2021, p. 92.

18 L. Petracca, op. cit., 2023, pp. 172-179.

19 L. Petracca, op. cit., 2021, p. 89.

20 D’altra parte ogni tentativo da parte della donna di sfuggire al destino che le era stato assegnato, di sposa fedele e madre feconda, veniva immediatamente stigmatizzato, e la figura femminile veniva bollata come puctana o isterica.

21 Il gesto richiama alla memoria il dantesco “le mani alzò con amendue le fiche” (Inf. 25.2).

22 V. L. Castrignanò, Ingiurie e minacce in un registro giudiziario salentino del tardo Quattrocento, in Medioevo Letterario d’Italia, 13, 2016, pp. 97-113.

23 Un Guglielmo Grasso è citato come feudatario di Alessano già nel Catalogus Baronum (seconda metà del XII secolo), nel XVI secolo i Grasso saranno ancora possessori del feudo rustico di Provigliano, nei dintorni di Alessano.

 

Il presente scritto è da intendersi come l’appendice all’articolo “La terra de Galliano all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo” apparso nel precedente numero di Controcanto e su questo sito:

La terra de Galliano all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

La chiesa dei tre altari a Montalbano Vecchio di Ostuni

di Michele Mainardi
Non è difficile arrivare a “Montalbano Vecchio”, l’antica masseria-villaggio riconvertita a location  per matrimoni, che rimangono impressi per la dispensata arte dell’accoglienza, palpabile in ogni suo aspetto di charme.
Usciti da Ostuni per la strada statale “16”, quella che ci conduce a Fasano, percorsi all’incirca nove chilometri si giunge a destinazione: svoltando a sinistra, immettendosi in una via che poi si dirama nelle contrade “Scategna” e “Canemazzo”.
Non ci dilunghiamo sulla consistenza fascinosa della struttura di ricevimenti, sulla magia della scenografia nell’aperto della corte curata fin nel dettaglio: di verde, di luci, di arredi. Basta scorrere la galleria delle immagini postate sul sito per restare ammaliati dall’avvolgente disporsi degli elementi, dai tavoli alle casette dei contadini divenute ambienti di ospitalità coccolante.
Ci siamo sin qui portati per una ragione che non ha niente a che vedere con il godere di una giornata spesa per immergersi nel luxury di una cerimonia nuziale: è la chiesa della masseria, d’un tempo ormai remoto, la nostra meta. E che meta!
Non perdiamoci in preamboli, dobbiamo restringere il campo: c’è troppa materia figurativa da esaminare. La sintesi è quindi necessaria. Cominciamo come d’uso dall’esterno.
Si accede al tempio salendo i sette gradini della scalinata, che è rientranza di abitazioni coloniche disposte ai lati dell’ampio spazio lastricato destinato alla vita comunitaria dell’altroieri: oggi qui si banchetta.
La facciata della cappella è linda, di bianco-calce spalmata. Il portale è inscritto in piatta cornice di pietra viva. L’architrave ha in rilievo tre rosette: su di esso si erge il timpano scolpito a elementi vegetali. Alleggerisce il prospetto il grande oculo, ora schermato con un giro di luminarie, che serve per dare multicolore alle serate delle nozze al chiaro di luna. Ad apice si eleva il campanile a vela con squilla d’ordinanza. Chissà se i rintocchi scandiscono i momenti clou della celebrazione gourmande, del mangiare e del bere fragorosamente per tutta la notte.
Entriamo nell’aula liturgica lasciando la risposta all’indefinito dell’interrogativo. Di certo, qui dentro, è affermativo il silenzio, che si spande e ti prende. L’alto volume del fuori, del sonoro gridato delle musiche, al prete (che è figura di un lontano ricordo) di sicuro non sarebbe stato gradito.
Avrebbe storto il naso pure il committente dei nuovi affreschi (eseguiti nel 1904 dal pittore Giuseppe Montrone), il facoltoso signore Giovanni Tanzarella-Soleti, il cui altolocato nome di casata – con stemmi riprodotti e accoppiati – è a chiare lettere impresso sopra la porta d’ingresso, in controfacciata. Il suo patronato andrebbe silentemente rispettato, avendone sacrosanto diritto di ascendenza.
Si resta ammutoliti sotto il cielo della volta, che è a botte, unghiata nella sezione presbiteriale. In alto si rincorrono i santi. Nel catino poligonale della terminazione star dietro alle figure è un problema. Nell’azzurro stellato, tra schiere di angeli riconosciamo Leonardo e Caterina, Giovanni e Teresa, Vincenzo (Ferrer) e Chiara e ancora Rita: degli altri aureolati abbiamo perso il conto. Nei medaglioni della navata ci sono poi i volti ispirati dei Padri della Chiesa, quattro per la precisione: Agostino, Ambrogio, Girolamo e Tommaso (l’Aquinate). Limpidi nel tratto, delineato con maestria, li riconosciamo dai loro attributi iconografici. I colori accesi rendono luminosi i lineamenti, come quelli dell’Eterno Padre assiso tra i serafini, i più vicini al trono di Yahweh. Ma si farebbe torto agli apostoli, a Pietro e a Paolo, ritratti ai lati dell’altare maggiore, se non li si citasse, vista la posizione primaziale che assumono anche nella parete di fondo.
E che dire ancora della titolare della cappella, la Beata Vergine del Rosario, a cui rimanda la corale pittura della battaglia di Lepanto, che giganteggia su una parte della struttura della copertura? La sua statua in cartapesta è in teca, a esaltazione del tabernacolo. La veste che la adorna è immacolata: celeste-avorio, trapuntata in pizzo; il panneggio è ricercato. Non sfigura di certo se messa a confronto con l’ornato raffinato del paliotto, in cui sfolgoreggia lo stemma marmoreo di Giulio II Acquaviva d’Aragona, quattordicesimo conte di Conversano. A lui, grande feudatario, si devono i lavori di ricostruzione dell’edificio sacro, approntati a chiusura del XVII secolo.
Quante attenzioni si sono riversate nel corso degli anni per rendere onore alla folla degli eletti, ai nimbati, che si incasellano in pitture e simulacri; anche se è al Signore, al Crocifisso, pianto dalle tre Marie, nella nicchia dell’altare laterale destro, che va la massima considerazione di fine arte devozionale. E sant’Antonio di Padova, con il Bambino, lui non merita il suo cantuccio privilegiato, da grande taumaturgo qual è? Indubbiamente. Nessuno osa scansarlo dalla vetrinetta della terza ara, disposta entrando a sinistra. Griderebbe allo scandalo il presbitero che volesse dal pulpito in legno policromo lanciare l’ammonimento ai malintenzionati!

La Madonna del Buontempo nella campagna di Francavilla Fontana

 

La “Madonna del Buontempo” la invocano nella chiesa della omonima masseria, nella campagna di Francavilla Fontana

di Michele Mainardi
Andiamo a “Buontempo”, masseria il cui nome dice tutto. Prendiamo la strada provinciale “26”, che da Francavilla Fontana va a Ceglie Messapica. Usciti dallo svincolo della Via Appia, la statale “7”, dopo poco siamo a destinazione. Percorrendo stradelle carreggiabili, quella per la contrada benaugurante ci porta senza problemi nel luogo che definiamo della distensione. Eh, sì, è questa la sensazione che si prova entrando nella tenuta, verdeggiante e ben curata.
Si allenta ogni agitazione: lo stato di riposo lo avverti appena fai due passi; percepisci di colpo la quiete del posto. L’armonia del costruito ti si para davanti: dialoga benissimo con gli spazi arborei circostanti. Il giardino chiuso e i coltivi senza accanto i vialetti delle amene passeggiate non sarebbero quello che sono: il frutto di anni e anni di sapiente lavoro.
La sontuosa villa Carissimo domina la scena dell’architettato quadro delle colture: è il cuore che governa lo spazio progettato a regola d’arte. Rimirando la magione senti un impulso: una spinta di sereno coinvolgimento estetico, che si spande e ti prende.
Solida nella struttura, senza appesantimenti di fronzoli nella facciata (giusto l’essenziale per far neoclassicismo), con il suo impianto razionale di fine Ottocento-inizi Novecento, è capace di farti rilassare. Solo a guardarla dal portale di accesso all’acciottolato spiazzo ti resta impressa. Lo stile dell’architettura – è vero – edifica bellezza, che poi contagia l’animo predisposto ad ascoltare l’eufonia dell’intorno. Si diffonde allora la gentilezza del segno, che invita a proseguire nella strada maestra del fare (agricoltura, allevamento).
La lietezza del tratto, dell’abitare, la vediamo riverberata nel campo.
Fu attivo villaggio rurale “Buontempo”, e dei suoi elementi costitutivi se ne legge la sostanza. La vecchia masseria, appartenuta alla facoltosa schiatta dei Bottari (e poi dai  Margarita trasmessa per eredità agli attuali proprietari), accolse l’imponente dimora che oggi vediamo brillare. E al fervore delle lavorazioni cerealicole, viticole, oleicole e di stalla si aggiunse il piacere del vivere in signorile residenza. A contatto diretto con le produzioni, i padroni ne trassero ulteriori giovamenti (meglio controllando i raccolti).
Gli affari però non erano tutto. Bisognava sostenerli, dunque accompagnarli con i ringraziamenti verso Colei che, invocata dai possidenti e dai loro fittavoli e mezzadri (e da tutta la servitù), non mancava di provvedere dal Cielo.
La “Madonna del Buontempo”, ospitata in simulacro nella annessa cappella, veniva processionalmente portata nei fondi per preservarli dallo spagliarsi delle acque del Canale Reale. Alle piene rovinose si assommavano altre calamità naturali. L’impeto dei venti iemali (la micidiale tramontana) bruciando le gemme vanificava le rese. L’intervento della Beata Vergine richiedeva incessanti preghiere. Ieri come oggi è alla intercessione mariana che ci si affida: con cuore devoto e disposizione alla penitenza.
Lo sapeva benissimo Giovanni Filippo Bottari, che nel 1767 avanzò formale richiesta alla Curia vescovile oritana di poter riedificare nella sua masseria un acconcio oratorio in luogo dell’antica chiesa, per comodo delle genti che a lui sottoposte prestavano servizio.
Ebbene, a distanza di tanti anni (e a interventi non lontani di restauro) percepiamo ancora l’afflato dei fedeli verso la loro bella “Madre contadina”, soccorritrice alla bisogna. Quando la sferza delle intemperie arriva inattesa, è sempre a Lei che ci si raccomanda: “apri il tuo manto Madonna del Buontempo, ripara il coltivo dal nostro pianto”.
Sta scritta a chiare lettere, incorniciate in quadretto, l’invocazione. La supplica è a disposizione di chiunque entri nel tempio per impetrare l’aiuto risolutivo.
Avviciniamoci dunque all’altare (marmoreamente configurato) ponendo la dovuta attenzione alla statua in cartapesta della titolare; rimarremo colpiti da ciò che ha in pugno: la spiga di grano e il grappolo d’uva. Anche il Bambino (incoronato come la Genitrice, che è quindi regina del Cielo) ha nella manina il simbolo della vita dei contadini di quaggiù: il ramoscello d’olivo, frutto da preservare per continuare a sperare.
La devozione verso la Corredentrice, che benigna soccorre negli accidenti dell’anno agrario, trova aggiuntiva visibile conferma nei tre inquadrettati dipinti a olio che la vedono parte preminente nel figurato ispirato. Sono appesi a destra e a sinistra della mensa eucaristica.
Ritraggono la Madre ora inginocchiata accanto al Figlio, che aiuta Giuseppe, ripreso nei lavori di falegname; ora nelle vesti di Immacolata, con le mani giunte al petto, il mantello azzurro e la luna crescente: ai piedi schiaccia la testa del serpente. I tratti canonici li ritroviamo pure nella terza pittura, quella dell’Annunciazione. Bellezza, grazia, proporzione in piccolo si distinguono. La scena sembra pervasa da un clima di familiarità, che si rispecchia nella relazione dei due raffigurati: Maria e Gabriele. Tutto merito del pittore a noi ignoto.

La terra de Galliano all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo

di Pierluigi Cazzato

 

Per chi studia la storia medievale del Capo di Leuca un annoso problema è costituito dalla ridotta documentazione superstite. I documenti scritti per quest’epoca sono assai scarsi, infatti fino alla fine del XIII secolo disponiamo di pochissime fonti e solo a partire dal XIV la documentazione diventa più consistente. Tuttavia la mole dei manoscritti aumenta in modo evidente solo nel Quattrocento soprattutto grazie ad alcuni documenti provenienti dall’Archivio del Principato di Taranto che riguardano diversi centri del Salento meridionale. Si tratta di registri di carattere fiscale, redatti da funzionari locali, che ci permettono di dare uno sguardo ravvicinato alla vita che conducevano gli uomini del Capo di Leuca alla metà del XV secolo.

In questo articolo ci occuperemo nello specifico di Gagliano del Capo attraverso l’analisi di due di questi registri fiscali: il Quaternus declaracionum principalis curie e il Quaderno della bagliva di Alessano.

 

Il Quaternus declaracionum principalis curie1.

Si tratta del registro dei conti di vari funzionari della Contea di Lecce per l’anno fiscale che va dal settembre 1445 all’agosto 1446 (secondo l’uso bizantino, poi continuato dalla burocrazia normanno-sveva, angioina e aragonese), tra cui troviamo quelli che riguardano Gallianum. Infatti il 2 dicembre del 1446 davanti al notarium Iohem Iudicis domno de Liccio si presenta l’erarius2 Angelus Pischiullus dittus villanus de Galliano che, prestando giuramento sul Vangelo (prestito sibi ad santa dey evangelia iuramento), riferisce fedelmente circa le entrate e le uscite dell’università gaglianese.  Attraverso questa relazione veniamo a conoscenza di diverse interessanti notizie, qui cerchiamo di esporre in maniera schematica alcune di esse:

NOTA: 1 oncia = 30 tarì, 1 tarì = 20 grana;
1 tomolo = 8 stoppelli corrispondenti a 55 litri.

 

  • La curia aveva diversi vassalli nel territorio di Gagliano da cui aveva riscosso differenti somme; per esempio da ciascuno dei diciotto vassalli de tabula aymonis habitantibus partim in terra Galliani et partim in casali Morciani l’erario aveva ricevuto 3 tarì e mezzo, altri quattro vassalli de dicta tabola aymonis versarono 10 grana a testa, mentre alcuni 1 tarì; i vassalli quj intitulantur Simonis Gottofredi pagarono 4 grana mentre quelli qui dicuntur Collitti 6 grana, invece i tre vassalli qui fuerunt Iacobi dommi Nardelli versarono all’erario 15 grana ciascuno. Particolare era il caso dei vassalli che erano tenuti a pagare 1 tarì se in possesso di un aratro trainato da una coppia di buoi (cum pariculo3), solo 10 grana se avevano un solo bue oppure se non possedevano l’aratro ma solo la vanga (cum medio pariculo aut zappatori).
  • Dall’Universitate et hominibus de terre Balliani per manus Petri Bacti sindaci aveva ricevuto 3 once pro iure concordie taberne.
  • Diversi terreni appartenenti alla Curia erano stati dati in affitto: Iohanne Carlecta pagò 1 tarì e 16 grana per l’orto nomato de Cellaro, Elia de Gargasulo per orto quj dicitur de lo Singhior 12 tarì e Nicolo boniurono per l’orto nomato de Fecuczuna 4 tarì e mezzo. Anche una casa di proprietà della curia era stata data in locazione a Iohannucio de Ragona al prezzo di 2 tarì.
  • Gli esattori delle gabelle nell’anno precedente erano stati Elia de Gargasulo et Angelo Grosio, mentre Iohanne Nigro viene citato come ultimo emptore gabelle baiulacionis casalis Pati.
  • Dall’affitto di certarium piscarium la Curia aveva ricevuto 26 tarì e 6 grana.
  • L’erario aveva ottenuto da Nicolao Fresino la sesta parte del vino mosto (vinimusti) prodotto nelle vigne denominate chesura grande dalla cui vendita ottenne 2 tarì e 8 grana.
  • Su coloro che lavoravano il lino (curantibus linum) nei palmenti di Gagliano gravava una tassa, da essa la Curia ricavò 7 grana.
  • L’erario aveva incamerato un tomolo e sei stoppelli di sale che aveva venduto per 2 tarì e 3,5 grana. Incamerò anche uno staio d’olio da Loysio Sensi emptore fructium olivarum curie.
  • Il capitano4 della terra de Galliano era Marco de Frisis, la cui giurisdizione si estendeva sia sul territorio di Gagliano sia sui piccoli casali circostanti, infatti egli aveva ricevuto una somma di 3 once e 17 tarì dagli uomini di terre Ballianj et aliorum Casalium ipsius Iurisdicionis in seguito ad una denuncia presentata al capitano stesso e trascritta sull’apposito registro (quaterno denunciaciorum Curie).
  • Dalla precedente amministrazione (nel 1444-45 la carica di erario era stata ricoperta da Loysio de Sergio mentre Petro Gacto era il sindaco) Angelo Pischiullo aveva ereditato diversi beni (traversiam unam, tabulas duas de abiete, trabes duos de rugolo, plancas quadraginta lapideas, centronos novem, item centronos alias fracta tres, item agutos triginta quatuor et anulos duos de ferro) che aveva in parte venduto. Ad esempio delle quaranta “chianche” in pietra ereditate, venti erano state vendute a Iohannucio de Bisancio, altre tre invece erano state utilizzate per la construcionem stalle Universitate.
  • Nell’anno fiscale 1445-46 tutte le entrate dell’erario ammontarono a 27 once, 24 tarì e 3 grana (più di metà della somma, 15 once, 21 tarì e 2 grana, fu versata al notaio Tommaso Ranche principalis thesaurario della contea di Lecce) oltre a uno staio d’olio e diverso materiale da costruzione.
  • Tra le spese dell’erario vengono elencate: lo stipendio del capitano (pari a 7 once l’anno) e quello dello scrivano Iohannucio de Bisantys (12 tarì e 19 grana), i compensi per gli esattori delle gabelle, quattordici plancas utilizzate nella pavimentazione (ad plancandum) dei magazzini della Curia, uno staio d’olio data all’erario di Morciano Michele Peregrino, alcune expensibus extraordinarijs legate al trasporto di materiale lapideo e alijs expensibus minutis. Il totale delle uscite fu di 24 once, 7 tarì e 7 grana, in cassa rimasero 3 once, 16 tarì e 16 grana.

Oltre ai conti dell’ufficio erariale il documento in questione ci consente di prendere in esame anche quelli dei due granetterij et conservatores vittualium Curie5 di Gagliano. Si tratta della dichiarazione giurata di Nicolaus de Bisancio et Franciscus Cutroni (anche se è Angelo Pippus de Galliano a reggere la carica a nome di quest’ultimo) resa davanti al solito notaio Iohem Iudicis di Lecce il 5 dicembre del 1446. I due funzionari gaglianesi, riportando con cura tutte le entrate e le uscite del loro ufficio, ci offrono una serie di informazioni:

  • I granettieri avevano raccolto durante tutto l’anno vari beni in natura dalle diverse terre di pertinenza della Curia in virtù di differenti tipi di concessione: frumento e orzo erano stati incamerati da cinque vassalli non meglio qualificati, solo frumento ex terris Meianey concesse ad alcuni uomini ad laborandum, orzo ex territorio Corigiarum partim dato ad laborandum sub certa parte et partim ad pastuandum, ancora frumento e una modica quantità di fave pro servitute territorij de Campana. Circa un quarto del frumento e dell’orzo incamerato pervenne invece da terreni concessi sub iure census, mentre dall’affitto di certarum clausorium Curie poco meno della metà di tutto l’orzo riscosso. Dall’affitto di due fosse granarie (fovearum) si ricavò il quantitativo di 2 tomoli e 2 stoppelli di frumento. 
  • Il totale del frumento incamerato fu più di 46 tomoli e rimase quasi tutto “in cassa”. Della grande quantità di orzo raccolto (oltre 240 tomoli), invece, la quasi totalità venne versata a Angelo Villio principali granetterio in Liccio e lo stesso accadde per l’esigua quantità di fave (2 tomoli e 2 stoppelli).
  • Un’altra uscita dell’ufficio dei granetteri gaglianesi era costituita dalla decima dovuta all’abate Marino Cantori maioris ecclesie Alexanij gravante sulle terre di Mesiani e su quelle que dicuntur de le corrige.
  • I precedenti granetteri di Gagliano erano stati Nicolaus Marcoaldi e Angelo de Putrunello.

Persone citate nel documento

         
  Petrus Bactio   sindaco di Valiano
  Nicolaus Boniurono/Bongiurno    
abbate Marinus Cantoro   maioris della chiesa di Alessano
Iohannes           Carlecta    
vassalli   Collitti    
vassallo Marcus Cucunitzo    
Iohannes Curchio    
Franciscus Cutroni   granetterio di Gagliano
Iohannucio             de Bisancio/Bisantijs          scrivano
Nicolaus de Bisancio                  granetterio di Gagliano
Marcus de Frisis                                  capitano
Elia de Gargasulo                        esattore gabelle di Gagliano
Angelus de Putrimello   granetterio* di Gagliano
Antonius de Ragone   de Galliano
Iohannucius de Ragona  
Nicolaus de Ragona  
Thomasius de Ragona  
Loysius de Sergio                                 erario* di Gagliano
vassallo Donadeo  
Iohannes    Fenesy  
Nicolaus Fresino  
Petrus Gacto   sindaco di Gagliano
Simonus Gottofredo  
Angelus Grosio   esattore gabelle di Gagliano
notaio Iohannes Iudicis de Liccio
Nicolaus Marcoaldi   granetterio* di Gagliano
Murine de Pato
domno Iacobus Nardello  
Iohannes Nigro                                           esattore gabelle  di Patù
domno Michael Peregrino   erario di Morciano
villano Angelus Pischiullus de Galliano erario di Gagliano
Angelus Pippus   granetterio di Gagliano
Prothopapa  
notaio Thomasius Ranche   principalis thesaurario contea di Lecce
Bartholomeus Restori  
Nicolaus Rogerio  
Paulus Rogerio  
Loysius Scusi                                            esattore fructium olivarum di Gagliano
Elia Trane  
Angelus Villio   principalis granettero di Lecce
fattore Arcangelus    

*in carica nell’anno 1444-45

 

Toponimi citati nel documento

Chesura grande (vigne “clausorie”)

Cupone

Orti de Rusiano

Orto de Cellaro

Orto de Fecuczana

Orto de lo Singhior

Tabula Aymonis

Terrae de Lombardello

Terrae Meianey/Mesiani

Terrae Ortalium

Terrae de le Corrige/Territorio Corigiarum

Territorio de Campana

 

Il Quaderno della bagliva di Alessano6.

Nel documento, redatto dai sei baiuli7 della città di Alessano (civitatis Alexani) nell’anno fiscale 1462-63, erano annotate le entrate e le uscite della bagliva alessanese. La prima parte del manoscritto è quella che maggiormente ci interessa, infatti vi si trova il minuzioso elenco di tutte le entrate della bagliva riscosse dal 1 settembre 1462 al 31 agosto 1463: il diritto di piazza (platea), l‘honoratico, la tassa sul controllo dei pesi e delle misure (pro iure mensure), la tassa sulla macellazione degli animali, sulla panificazione e sul carbone, il pedaggio che pagavano i forestieri (scamastratura currum), le pene pecuniarie per i danni alle proprietà private. In tal modo questo registro fiscale ci offre un’immagine unica ed inedita della città di Alessano della fine del Medioevo; immagine che, per alcuni versi, può darci un’idea anche della vita che si conduceva nella coeva terra di Gagliano.

Per esempio possiamo ricavarne l’elenco di beni che i forestieri compravano e vendevano sulla piazza alessanese e sui quali veniva riscossa la platea emptionis o venditionis: cereali (frumenti), vino, frutta e ortaggi (cerasis, melonu, cocumerum), animali (bovium, bacca, mule, equi, capretti, duorum porcorum), carni e pelli, prodotti caseari (casej recocti, lattis et ricotti), vari prodotti ittici (piscium, vopillis, piscium minutorum, sardellarum), attrezzi per l’agricoltura (aratrj, vomeris, forcam, zappe, zappe stricte, petre mularis, farnarios, utrium, barilium, mattrilis et pile reponendis olej), strumenti vari (corde canabe, tabula, ferri, caldararum), tessuti (pannij coloris bleuis, pannij terzaroli coloris rubey, pannore) e fibre tessili (nucley bombicium = bozzoli del baco da seta), lo zafferano (zafaranum) usato per tingere i tessuti o in medicina e le ghiande (valanide) probabilmente usate nella concia delle pelli.

Inoltre tra i frequentatori del mercato alessanese possiamo riconoscere alcuni uomini de Galliano, per l’esattezza nel documento vengono citati: un venditore di pesce, otto che vendono sardelle, uno cocomeri ed infine uno che compra tigillos.

 

Persone de Galliano citate nel documento

Nicolaus            Bisanti

              Iohanne             Ianucus

              Nicolaus            Madio

              Iohanne             Marchia

              Nicolaus            Marino

Iohanne             Monaco

                                        Pastore

              Nicolaus            Trane

              filius Angelacchj

Helia

Sclavo

 

Il sistema amministrativo e socio-economico di Gagliano in epoca orsiniana.

Attraverso le preziose informazioni estrapolate dai due registri si può ricostruire parzialmente quella che fu la vita di una piccola terra del Basso Salento sotto il governo di Giovan Antonio Orsini del Balzo (1420-1463), principe di Taranto. All’epoca la Terra d’Otranto era la vera roccaforte del potere orsiniano, infatti nella penisola salentina il figlio di Maria d’Enghien possedeva 155 terre per un totale di 10.300 fuochi fiscali, corrispondenti a circa 46.000 persone. I suoi possedimenti erano costituiti dalla Contea di Lecce e da quella di Soleto ereditate dalla madre e dalle terre ereditate dal padre Raimondello8.

Nel 1446 Gagliano era una delle 22 università che facevano parte della Contea di Lecce9; dal Liber focorum Regni Neapolis sappiamo che nel 1443 era stata censita per 71 fuochi fiscali dunque la sua popolazione ammontava a circa 300 persone rendendolo uno dei centri più popolosi della contea10. Negli anni 1459-63 tuttavia le vennero attribuiti 91 fuochi di cui 71 de corpore e 25 sparsi nelle università vicine (Giuliano, Patù, Castrignano, Salignano, San Dana) indice che i confini tra i casali della zona erano ancora fluidi e non ben definiti11.

Ciò risulta evidente anche nel primo dei documenti esaminati quando vengono citati i vassalli di Tabula Aymonis che abitano in parte a Gagliano e in parte a Morciano ma pagano i censi esclusivamente all’erario gaglianese. Dall’inizio del XV secolo l’abitato era fortificato12, veniva qualificato come Terra e la sua giurisdizione si estendeva su di una serie di casali vicini; era sede di un capitano, Marco de Frisis13, che amministrava la giustizia all’interno di un piccolo districtus che comprendeva diverse università (sicuramente Acquarica, Morciano, Salve e altri centri minori tra cui Valiano). L’importanza che Gagliano aveva assunto in questo periodo è testimoniata dal fatto che in tutta la Contea di Lecce vi erano solo cinque capitani, inoltre era anche sede di un distaccamento del fondaco di Gallipoli14. Questo fu probabilmente un periodo di relativa prosperità per la terra de Galliano, infatti nella seconda metà del secolo, quando il centro perse la sede capitaniale, la sua giurisdizione fu notevolmente ridimensionata tanto che l’università gaglianese avanzò diverse richieste al sovrano aragonese (la prima nel 1463, poi nel 1491 e nel 1493) affinché fossero ripristinati i privilegi esistenti ab antiquo ed usurpati dal conte di Alessano15.

Alla metà del Quattrocento, dunque, Gagliano era un centro abbastanza fiorente che contendeva l’egemonia sul territorio circostante ad Alessano, unica città (civitas) del Capo di Leuca in quanto sede vescovile. La sua struttura amministrativa prevedeva una serie di funzionari: un capitano, che era sempre un forestiero di nomina regia (dell’ufficio capitaniale facevano parte anche un giudice e un mastrodatti nominati dall’università), un erario, due granettieri, un emptore fructium olivarum, un sindaco, un baiulo o emptore gabelle baiulacionis e uno scrivano.

Se si esclude il capitano, il resto di questi ufficiali percepiva uno stipendio assai modesto, al di sotto delle possibilità di sussistenza16, quindi non di trattava di funzionari specializzati bensì di uomini del luogo, o di casali vicini, che avevano altre entrate economiche che permettevano loro una vita dignitosa. Questi personaggi godevano di un certo prestigio e potere, conoscevano bene il territorio e i suoi abitanti ed avevano alcune nozioni di scrittura in quanto tutti erano tenuti a redigere un registro; eppure nelle fonti non vengono mai qualificati con il termine onorifico di domno (da cui viene il don che era frequentemente usato nei paesi salentini fino al secolo scorso), il che ci fa pensare che fossero tutti di estrazione popolare benché costituissero la parte più attiva ed intraprendente della società gaglianese; in particolare i baiuli, che prendevano in appalto annuale la carica, dovevano avere una certa disponibilità economica.

Non si può dire la stessa cosa della maggior parte della popolazione di Gagliano formata da contadini che lavoravano terre soggette alla Curia in cambio di un censo in denaro o in natura; dal Quaternus declaracionum principalis curie, apprendiamo che vi erano ben 193 vassalli sui circa 400 abitanti totali dell’università, dunque possiamo immaginare che gran parte del territorio di Gagliano appartenesse al demanio feudale sul quale il principe esercitava l’utile dominio; diviso in appezzamenti di differente estensione, esso era concesso, per consuetudine, agli abitanti dietro l’obbligo di un pagamento di diversa entità. Quelli che pagavano un censo in denaro erano definiti semplicemente vassalli, solo per quattro di essi si faceva una distinzione tra coloro che avevano a disposizione un aratro trainato da una pariglia di buoi (pariculo) e quelli che possedevano un solo animale al giogo (medio pariculo) o semplicemente la zappa (zappatori). Tra coloro che dovevano un pagamento in derrate agricole le distinzioni sono più varie: alcune terre erano date ad extaleum (antico istituto giuridico per il quale il contadino si metteva sotto la protezione di qualcuno in grado di concedergli una terra da lavorare ), altre ad laborandum ad certas partes (si potrebbe trattare di contratti assimilabili alla mezzadria), altre ancora ad pastuandum17 (contratti di lunga durata che prevedevano la concessioni di terreni affinché vi fosse impiantato il vigneto) o pro servitute, inoltre vi erano alcuni uomini che detenevano terre sub iure census. Un’ulteriore forma di fiscalità sui terreni agricoli era la decima che gravava sulle località de le Corrige e di Mesiani dovuta all’abbate della chiesa di Alessano.

Questo sistema di imposizione fiscale sulla terra appare a prima vista ridondante ed oppressivo, tuttavia i censi pagati erano abbastanza modesti18 soprattutto se messi in relazione alla fase di espansione economica che caratterizzò il regno di Giovan Antonio Orsini del Balzo. Infatti il Principe di Taranto fu in grado di realizzare una “sorprendente combinazione tra economia feudale ed economia mercantile […] e il suo operare determinò sicuramente, in un contesto congiunturale positivo, una dinamica economica diffusa sul territorio”19 che garantiva sufficienti livelli di sussistenza anche alla gran massa dei contadini del Capo di Leuca20.

Oltre a questi terreni, la Curia aveva altri possedimenti che dava in affitto: delle clausure (terreni recintati da muretti a secco), alcuni piccoli orti che si trovavano all’interno del centro abitato, una casa e due fosse per la conservazione dei cereali. Nel feudo gaglianese erano sicuramente presenti anche le terre di proprietà privata, dette allodiali, ma purtroppo i nostri documenti sono avari d’informazioni in merito.

 

Da quanto sopra esposto, risulta evidente l’importanza che all’epoca rivestiva il possesso della terra, difatti l’economia di Gallianum si basava essenzialmente sull’agricoltura. Dalla dichiarazione dell’erario Angelo Pischiullo sappiamo che la produzione agricola era costituita principalmente da cereali: orzo e frumento (i prodotti alla base dell’alimentazione medievale nell’Italia meridionale); si producevano anche fave, vino ed olio. La viticultura era molto diffusa, nel documento si fa riferimento a vigneti recintati (vineis clausorij), all’impianto di nuove vigne e alla produzione di vino (vinimusti), tuttavia è ipotizzabile che si trattasse di una piccola produzione destinata all’autoconsumo o al mercato locale come accadeva in altri centri salentini21. Esisteva, probabilmente, qualche limitazione che colpiva il commercio del vino, si sa per certo che l’università di Valiano pagava una tassa per poterlo vendere al minuto (pro iure concordie taberne).

Importante doveva essere l’olivicoltura, non ne abbiamo testimonianza diretta ma nel Quaderno della bagliva di Alessano è evidente che una consistente parte della produzione olearia alessanese era destinata all’esportazione e la stessa situazione si può ragionevolmente immaginare riguardasse tutto il Capo di Leuca compresa la terra de Galliano.

Per quanto concerne le attività artigianali poche sono le notizie disponibili, si fa solo cenno alla lavorazione del lino che si praticava nei palmenti gaglianesi22. Di più si può dire sulla attività legate al mare, che sicuramente rivestivano un ruolo di un certo rilievo: innanzitutto vi erano sia delle saline e sia delle peschiere che la curia dava in locazione a diversi uomini e pescatori; il pescato (le sardelle) non era destinato solo al mercato interno visto che sulla piazza di Alessano erano presenti numerosi “pescivendoli” provenienti da Gagliano23. Facendo ancora riferimento al quaderno dei baiuli alessanesi, si può avere un’idea anche delle attività commerciali e mercantili che si svolgevano nel Capo di Leuca alla metà del XV secolo. Il mercato della civitas Alexani era frequentato da molte persone provenienti dai centri vicini24, non mancano tuttavia mercanti che venivano dalle città più importanti della provincia (Gallipulo, Licio, Neritonio, Santo Petro-Galatina, Ydronto) o da più lontano, come Antonello de Tricarico e un uomo di Matera, che risultano tra coloro che erano coinvolti nel commercio dell’olio alessanese, oppure Salvagio de Matera che vendeva bestiame. Molto attivi sulla piazza di Alessano erano gli ebrei che commerciavano soprattutto olio, tessuti e pelli25.

A conferma di questi consistenti scambi commerciali, non solo di carattere locale, c’è da segnalare che sia nello scalo marittimo di Alessano (Novaglie) e sia in quello di Gagliano (il Ciolo) esisteva un distaccamento del fondaco di Gallipoli26. Tutto ci fa pensare che una fitta e consolidata rete di scambi, per via di terra e di mare, si estendesse su tutta la zona del Capo e in particolare che Alessano e Gagliano fossero dei poli mercantili di un certo rilievo.

Un altro interessante aspetto che emerge dall’esame delle fonti orsiniane è chiaramente l’alto tasso di conflittualità che caratterizzava la società salentina della fine del Medioevo. Ciò si evince soprattutto dal Quaternus dei baiuli alessanesi che erano tenuti a trascrivere sul loro registro tutte le denunce che ricevevano ed incassare la tassa di mezzo grana per ogni citazione in giudizio; per esempio: a magistro Antonio de Blasio pro citacione facta contra Meli iudeum grana 1/2 oppure a Geronimo Blanco pro citacione facta contra Gaspare Torsellum et a Gaspare Torsello pro citacione facta contra Angelum Marsilium et a Pione iudeo pro citacione facta contra Petrum Colinum grana 1 1/2.

Annotazioni di questo genere si ripetono con frequenza nel registro di Alessano, se ne contano oltre 50 che vanno dal settembre 1461 all’agosto 1462. In aggiunta, nel documento si trova anche una lista di 12 uomini denunciatis […] pro iniuris che sono costretti a pagare una multa (es. Angelo Marsilio denunciato per Radam Sclauam tarì 1). Inoltre un costante fattore di conflitto sembra fosse costituito dagli animali al pascolo, infatti vengono riportati circa una quarantina di casi di persone multate per i danni causati (dampnum inferctum) dalle loro bestie sui coltivi della curia o di privati cittadini (es. Antonio Carroppa pro capra una denunciata per Leonardum Tufum).

Se consideriamo il fatto che i baiuli erano responsabili solo della giustizia civile27, e quindi sul loro registro non erano riportati i casi giudiziari più gravi, è palese quanto gli episodi di conflitto e di violenza fossero frequenti nella società alessanese dell’epoca. Tuttavia questa situazione era comune in molti centri salentini (vedi Appendice) e Gagliano e i gli altri villaggi del Capo non dovevano fare eccezione. Una prova di questa diffusa conflittualità, che non riguardava solo i privati cittadini, si trova proprio nel registro gaglianese dove si riporta che il capitano Marco de Frisis fu costretto a ricomporre una lite tra l’università di Valiano e i casali vicini.

 

Conclusioni.

I documenti dell’Archivio del Principato di Taranto fin qui esaminati ci restituiscono un quadro parziale, ma ancora inedito, della Gagliano di metà Quattrocento, una terra, in fase di espansione economica e demografica, che esercitava la sua influenza sul territorio circostante. A conferma di ciò possiamo notare che, nonostante guerre, malattie e calamità naturali che flagellarono il Salento per tutto il XV secolo, tra il 1447 e il 1545 la sua popolazione triplicò passando da 71 a 223 fuochi28. A questo incremento demografico corrispose un certo progresso economico e sociale. Dalle nostre carte, s’intravede una comunità rurale che viveva di agricoltura ma che era attiva anche nella pesca e nelle attività commerciali; una società che era costituita essenzialmente da contadini legati alla terra del signore (vassallis) ma nella quale cominciava ad emergere un certo numero di personaggi, i funzionari locali, che paiono differenziarsi per competenze (sapevano scrivere e tener di conto) e disponibilità economica29. Insomma si ha la nitida impressione di trovarsi di fronte ad una società dinamica ed in fase di sviluppo, operosa ed economicamente attiva, in cui non mancavano i contrasti ed un elevato tasso di violenza.

In conclusione, si può ragionevolmente ipotizzare che l’età orsiniana fu per la terra de Galliano un periodo di prosperità durante il quale il piccolo centro si sviluppò fino a diventare un punto di riferimento per tutto il Capo di Leuca e a rivaleggiare con la civitas Alexani per l’egemonia sul territorio leucadense. L’ipotesi pare credibile e andrebbe confermata, o meno, attraverso lo studio degli altri documenti appartenenti all’Archivio del Principato di Taranto che contengono notizie su Gagliano30.

 

Ringraziamenti.

Un dovuto riconoscimento va ad Antonio Ippazio Piscopello che mi ha fatto conoscere, e procurato, i manoscritti orsiniani; senza la sua proverbiale curiosità e i suoi stimoli questo breve lavoro non sarebbe stato nemmeno ipotizzabile.

 

 Note

1 ASNA, Sommaria, Diversi, n°170, cc. 207v-212, 226. Cfr.: L. Petracca, L’archivio del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo, in La signoria rurale nell’Italia del Tardo Medioevo 2 Archivi e poteri feudali nel Mezzogiorno (secoli XIV-XVI), a cura di F. Senatore, Firenze 2021, pp. 400 e 406; L’archivio del principato di Taranto conservato nella regia camera della Sommaria. Inventario e riordinamento, a cura di S. Morelli, Napoli 2019, pp. 38-43.

2 L’erario di un casale era, nell’ambito del sistema amministrativo del Principato di Taranto, un funzionario di grado minore che incamerava e rendicontava su un apposito registro le entrate fiscali dirette riscosse dai vari funzionari che operavano nel feudo di sua competenza, allo stesso modo egli annotava gli stipendi pagati e le spese sostenute. Egli gestiva anche i beni mobili e immobili appartenenti alla curia.

3 Il temine si è conservato nel salentino paricchiu, coppia di animali, pariglia; è attestato anche nel dialetto di Salve (cfr. G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Martina Franca (Ta), 2007, p. 453).

4 All’interno dell’amministrazione locale, il capitano era il funzionario di grado più alto, era l’uomo di fiducia del principe che controllava l’operato degli altri funzionari e che amministrava la giustizia penale avendo anche compiti di polizia. Solo i centri maggiori avevano un capitano che era sempre un forestiero.

5 Anche in questo caso si tratta di funzionari locali di grado inferiore addetti ad incamerare i diritti in natura e a conservare le derrate alimentari appartenenti alla Curia.

6 ASNA, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1. Cfr.: L. Petracca, op. cit., pp. 394 e 415; S. Morelli, op. cit., p. 116; V. Rivera Magos, I conti erariali di feudi nella I serie delle Dipendenze della Sommaria dell’Archivio di Stato di Napoli (XV secolo): per un nuovo inventario ragionato, in La signoria rurale nell’Italia del Tardo Medioevo 2 Archivi e poteri feudali nel Mezzogiorno (secoli XIV-XVI), a cura di F. Senatore, Firenze 2021, p. 359.

7 Anche in questo caso si tratta di funzionari di grado inferiore che prendevano in appalto l’ufficio della bagliva per la durata di un anno.

8 Esse includevano la terra di Montesardo, i casali di Montesano, Melissano e parte di Cerfignano, i castelli di Tutino e Neviano, il casale di Pozzo Mauro, il territorio del Fano, la terra di Specchia de Praesbiteris con i casali di Tiggiano e Caprarica del Capo (cfr.: S. Morelli, Tra continuità e trasformazioni: su alcuni aspetti del Principato di Taranto alla metà del XV secolo, distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”, 1996, p. 5; L. Petracca, Politica regia, geografia feudale e quadri territoriali in una provincia del Quattrocento meridionale, in Itinerari di ricerca storica, a. XXXIII – 2019, numero 2, pp. 121-122).

9 Nel 1446 essa comprendeva, oltre a Lecce: Arnesano, Carmiano, Martignano, Magliano, Erchie, Roca, Borgagne e Fasolo, Corigliano, Melpignano, Mesagne, Marti, Gagliano, Carovigno, Castro, Marittima, Celsignano, Cerfignano, Morciano, Salve, Acquarica de Lama, Mottola. D’altra parte il casale di Gagliano faceva parte del Principato di Taranto già dal 1294 (cfr.: M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le), 2004, pp. 29-30).

10 F. Cozzetto, Mezzogiorno e demografia nel XV secolo, Soveria Mannelli (CZ), 1986, p. 137. Per fare un paragone con i centri vicini, dallo stesso documento apprendiamo che Specchia contava 112 fuochi, Alessano 92, Tricase 72, Montesardo 55, mentre tutti gli altri casali della zona erano inferiori ai 40 fuochi.

11 C. Massaro, Potere politico e comunità locali nella Puglia tardomedievale, Galatina (Le), 2004, pp. 102-104.

12 M. Ciardo, op. cit., pp. 43-44.

13 I de Frisis sono attestati come feudatari in Terra d’Otranto già nel secolo precedente, infatti nel 1377-78 Marco de Frisis era feudatario di Cutrignano, S.Marco e Giuliano (cfr. M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 196).

14 S. Morelli, op. cit., 1996, p. 9.

15 C. Massaro, op. cit., pp. 102-105. Nel 1463 “l’università di Gagliano avanzò due richieste, alle quali il sovrano non esitò ad apporre il suo placet: <<che tenga et posseda tucti li vassalli ha havuti a li casali et altri lochi>> così come li ha <<tenuti et posseduti>> al tempo di Maria d’Enghien e del principe Giovanni Antonio; e che i suoi ufficiali mantenessero la giurisdizione sullo stesso districtus di casali, sul quale era stata esercitata in passato e come di recente doveva essere stato ribadito con una publica sententia” (p. 102).

16 S. Morelli, op. cit., 1996, p. 11.

17 Da cui l’italiano pastino ed il salentino pastanu, vigna giovane (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 457).

18 I capitani avevano uno stipendio di 36/30 once l’anno pari a circa 8 grana al giorno che era paragonabile a quello di un bracciante agricolo pagato 8/10 grana per giornata (per arare con la zappa o con l’aratro 10 grana al giorno, per mondare gli ulivi 13 grana, per spaccare la legna 5 grana, per raccogliere legna 6 grana, per roncare la terra 5 grana, per potare la vigna 10 grana, per il maestro fabricatorum 13 grana). Irrisorio era invece lo stipendio di 6 grana al mese di erari, scrittori e fundicari (cfr. S. Morelli, op. cit., 1996, p. 11).

19 C. Massaro, op. cit., p. 69.

20 Le condizioni di vita durante il Quattrocento erano sicuramente migliori rispetto al secolo precedente (basti pensare alla peste del 1349-51 e alla grande crisi del Trecento) e a quello successivo in cui si verificò un aggravio della pressione fiscale che ridusse il quantitativo di prodotti agricoli destinati al consumo o al mercato (cfr. L. Petracca, Geografia feudale e poteri signorili nel Salento tardomedievale, in Eunomia IX, n.s. 2020, n°2, pp. 196-197).

21 C. Massaro, op. cit., pp. 32-33.

22 Le piante di lino venivano lasciate a macerare nelle grandi vasche presenti nei palmenti in modo da poterne estrarre la fibra tessile.

23 Il commercio del pesce nel mercato alessanese sembra essere monopolio degli uomini di Corsano, Gagliano e Tiggiano.

24 Si trovano uomini di Acquarica, Arilliano, Barbarano, Castiglione, Castriniano, Castro, Craparica, Cuniano (Lucugnano), Cursano, Galliano, Iuliano, Macurano, Montesardo, Morchiano, Pato, Presicio, Rufiano, Rugiano, Salve, Scurrano, Sepleczano, Specla (Specchia), Tigiano, Tricasio, Turri (Torrepaduli).

25 All’epoca numerose comunità ebraiche erano presenti sul suolo salentino: Lecce, Nardò, Copertino, Gallipoli, Otranto. Dal documento della bagliva di Alessano apprendiamo che vi era circa una dozzina di iudeis habitantis in dicta civitatis Alexani et reputatis pro exteris dediti al commercio di olio ed altre merci; una comunità israelitica esisteva anche a Specchia (Yarode iudio de Specla).

26 Nel 1458-59 il fondaco di Gagliano sembra esser stato molto più attivo e trafficato rispetto a quello alessanese, infatti i proventi del primo corrispondevano a 16 once e 18 tarì mentre del secondo erano solo 3 once e 6 tarì (cfr. S. Morelli, op. cit., 1996, p. 9).

27 Essi non potevano giudicare le cause in criminalibus (che prevedevano la pena di morte, l’esilio o la mutilazione) o la cui ammenda era eccedente il valore di un augustale, questi reati più gravi erano di competenza del capitano.

28 L’incremento demografico fu meno accentuato nei maggiori centri del Capo di Leuca, infatti nello stesso periodo Alessano passò da 92 a 120 fuochi, Montesardo da 55 a 93, Specchia da 112 a 157, Tricase da 74 a 157 (cfr.: M. A. Visceglia, op. cit., p. 89).

29 Una caso dell’emergere di un ceto di amministratori locali si ravvisa con la famiglia de Sergio: Loisio era stato erario di Gagliano nel 1444-45, mentre nel 1461/62 l’erario di Otranto risulta esser stato il notaio Giacomo de Sergio di Gagliano (cfr. L. Petracca, Il ceto notarile in una provincia del Mezzogiorno d’Italia (sec. XV). Formazione, carriere e mobilità sociale, in Stud. hist., H. a mediev. 41 (1), Salamanca, 2023, p. 175).

30 Notizie su Gagliano sono contenute in: il Quaderno della bagliva di Gagliano (1457-58), ASNA, Sala Inventari, n°314, 653 VIII/2; i Conti degli ufficiali che operavano nelle università di Terra d’Otranto, ASNA, Sommaria, Diversi, II Numerazione, n°247, cc. 133-143 e cc.146-147; il Quaderno di Nucio Marinacio, ASNA, Sommaria, Diversi, I numerazione, n°131.

 

L’articolo è stato pubblicato su Controcanto, anno XX, numero 1, Alessano, 2024.

Nardò, l’Accademia del Lauro e un manoscritto all’asta

di Armando Polito

La non casualità, almeno nelle mie intenzioni, dell’associazione tra le due figure di testa sarà chiara solo alla fine e non è un espediente-ricatto per impegnare il lettore fino all’ultima parola: semplicemente non sapevo quale fosse il punto migliore dove piazzarle.

Dell’ istituzione neritina nominata nel titolo, della cui produzione nulla è sopravvissuto, mi ero già occupato1,  giungendo alla conclusione, dopo aver motivato le mie perplessità,  che  quasi sicuramente la notizia della sua esistenza era un’invenzione del Tafuri,  ispirata, come le altre poi definitivamente smascherate, dall’intento apparentemente nobile (come lo era il titolo di conte che poteva vantare il personaggio che fra poco conosceremo  …) ma in realtà offensivo della storia e, in genere, della cultura, di nobilitare le memorie cittadine. Quanto ora mostrerò mi ha fatto sobbalzare sulla mia amica sedia a rotelle e credo che a tutti sembrerà, ad una prima lettura, la classica pistola ancora fumante dopo aver sforacchiato la mia maliziosa ipotesi ed aver restituito al Tafuri parte della verginità perduta.

Passo al concreto e ligio alla civiltà dell’immagine (e, purtroppo, dell’apparenza, ma non in questo caso), al documenti ancora una volta giunto sotto i miei occhi per puro caso  e che ritengo finora sconosciuti,  riservandomi di tornare alle parole per commentarlo. Esso è in inglese, lingua che non conosco, e sarei grato a quel lettore che notificasse la presenza di qualche errore nella mia traduzione, perché in questi casi anche un’imprecisione può essere devastante.

Catalogo della straordinaria collezione di splendidi manoscritti principalmente su pergamena in varie lingue d’Europa e d’Oriente, formata dal signor Guglielmo Libri, l’eminente collezionista, che è obbligato a lasciare Londra in conseguenza della cattiva salute, e per questa ragione a mettere in vendita questo tesoro letterario. Tra questi mille manoscritti  si possono trovare: BIBBIA LATINA, secolo XI, con miniature; I QUATTRO VANGELI, in greco, secoli X-XI, alcune copie de GLI EVANGELISTI, in latino, del secolo IX con miniature in stile bizantino; vari LEZIONARI del IX e X secolo , con miniature: un ampio numero di PADRI DELLA CHIESA, incluso S. Gregorio di Nissa, in greco, secolo IX, S. Giovanni Crisostomo, in greco, secolo X, etc; due importanti manoscritti di S. CIPRIANO, uno dell’ VIIl, l’altro del IX secolo, differenti lavori di S. AGOSTINO, S. GIROLAMO, S. GREGORIO IL GRANDE, S. ISIDORO, etc. etc., tutti dell’VIII, IX, X e XI secolo; BEDA CONTRO MARCO, secolo VIII, contemporaneo con l’autore;  la STORIA DEGLI ANGLI di Beda, secolo XI, VITE DI SANTI, secoli IX, X e XI, con antichi disegni o miniature di scuola anglo-sassone; alcune collezioni di LITURGIE, in greco o in latino, con la musica antica scrittabet secoli IX, X e XI; il NUOVO DIGESTO DI GIUSTINIANO, secolo XI-XII, GRAMMATICI (secolo X). Molti degli scrittori greci e quasi tutti i latini classici, inclusi LUCREZIO (secolo XIV), LUCANO (secolo XIII), CLAUDIANO (secolo XII), VEGEZIO (secolo XI), CENSORINO, PRUDENZIO (secolo X), DONATO (secolo IX), PRISCIANO (secolo XI), BOEZIO (secolo XI), CASSIODORO (secolo IX), etc. etc.

Lavori di matematici, medici e altri scienziati, compreso il primo manoscritto esistente, contengono moderne figure numeriche.

Antichi poeti e prosatori italiani; lavori in dialetto limosino; portolani e antiche derragliate mappe; poeti in francese antico, i romanzi inediti di Chibalrg, poesia in inglese antico; un’ampia collezione di lavori orientali, ORE ed altri libri devozionali, con magnifiche miniature di varie scuole, maniscritti autografi di TASSO, GALILEO, KEPLERO, LEIBNITZ, etc., la quale collezione sarà venduta all’asta dagli incaricati Samurl Leigh Sotheby & John Winkilson  banditori  di proprietà letteraria e lavori che spiegano le arti fini presso la loro casa in Wellington Street, 3, Strand,  lunedì 28 marzo 1859, e (eccetto domenica) all’unana precisa ogni giorno. Può essere visualizzata tre giorni prima e cataloghi alla mano.

Stampato da F. Davy e Bons, 197, Long Aurd, Londra  

 

Il frontespizio di questo catalogo, al di là di un pizzico di enfasi pubblicitaria, fa comprendere anche ad un profano il valore della collezione messa all’asta, per la quale oggi, solo per assicurarla, bisognerebbe sborsare milioni di euro. E solo quella che ancora oggi è forse la più importante e famosa casa d’aste del mondo, cioè Sotheby, poteva gestire l’operazione. Famigerato invece  è, più che famoso, il nome dell’eminente  collezionista, il fiorentino Guglielmo Libri (1802-1869) nella forma più breve, Guglielmo Bruto Icilio Timoleone Libri-Carrucci nella più estesa.

Probabilmente chissà quante volte il suo cognome avrà evocato il detto latino nomina omina (i nomi sono presagi) a causa di un amore forse eccessivo e non proprio disinteressato per i libri. Le sue avventure giudiziarie iniziarono precocemente , quando  nel 1826, fu accusato quanto meno di scarsa vigilanza, la quale aveva reso possibile la sparizione di alcuni preziosi libri dalla biblioteca dell’Accademia dei Georgofili, della quale per pochi mesi era stato il direttore. Considerando il numero e il valore delle opere citate nel catalogo, chiunque, credo, sulla scorta di questa impresa iniziale si lancerebbe in facili illazioni , ma va detto che il Libri, studioso validissimo di matematica e fisica ed autore di parecchie pubblicazioni soprattutto sulla prima, con la concretezza dei numeri aveva dimestichezza e, dopo che il primo processo si concluse con un nulla di fatto perché si preferì evitare lo scandalo,  non perse mai il vizietto ed anche in Francia, dove si era trasferito, subì denunzie, archiviazioni, confisca dei libri sicuramente sottratti e di quelli contraffatti.

Tale inarrestabile (non lui che poteva contare su protettori forse pure conniventi, se non complici) esercitò poi in Inghilterra, dove si era rifugiato, fino alla condanna, almeno morale, definitiva, che  però giunse  post mortem. Il documento che ho presentato è uno dei numerosissimi cataloghi da lui stesso curati per una delle numerose aste  che tenne in Francia prima ed in Inghilterra poi dal 1847 al 1865. Sfogliandolo, a p. 180 s’incontra la scheda n. 811.

POESIE E PROSE ITALIANE, del Cinque-Cento, la maggior Parte INEDITE   folio, SAEC. XV ON PAPER

Una raccolta di poesie inedite negli autografi degli autori, principalmente di, o indirizzate a Giovanni Geronimo Acquaviva, duca d’Atri, poeta egli stesso di non cattiva fama.  Tra questi versi figurano i poemi originali di “El Capitan Poeta Marcantonio, Bernardino Rota, Giovanni della Casa, Coppetta, Scipione Ammirato, Eusebio Statiera, Muscettola” (che, da una delle poesie, risulta essere stato il segretario dell’Accademia del Lauro), Cambi e diversi altri tra i più celebri poeti italiani del Cinquecento. Tiraboschi e Mazzuchelli parlano a lungo del merito letterario di alcuni membri dell’illustre famiglia napoletana degli Acquaviva, e della protezione da loro data agli uomini più dotti del Cinquecento. Belisario Acquaviva fondò a Nardo, città di provincia del regno di Napoli, un’Accademia detta del Lauro, la quale fu celebrata dal Sannazzaro, e questo volume contiene una grande varietà di composizioni indirizzate alla stessa Accademia, al tempo di Giovanni Geronimo Acquaviva (Duca d’Atri) nipote del fondatore. Il volume contiene anche numerosi saggi in prosa di argomento scientifico e storico scritti dallo stesso Duca, letti senza dubbio alle riunioni dell’Accademia. I nomi dei diversi autori, quando non sono scritti dall’autore stesso in calce alla carta, sono spesso scritti di mano contemporanea, probabilmente dal Segretario dell’Accademia. Dalle notizie risulta che molte di queste poesie sono autografe di Bernardo Tasso, padre del grande Torquato, e poeta egli stesso di grande celebrità. Questi scritti originali, scritti da uomini illustri appartenenti ad un’Accademia estinta da quasi tre secoli, sono molto interessanti.

Proprio questa scheda è stata la  causa prima (perché al frontespizio sono arrivato dopo) dei ripetuti sobbalzi di cui ho detto. Parole grosse come autografi (!), nome e cognome del segretario dell’Accademia e degli autori, loro firma in calce o, in alternativa, annotazione del segretario; nemmeno gli archivi dell’Arcadia, che pure pubblicò a più riprese i lavori dei suoi soci, possono vantare un simile documento.

L’entusiasmo e l’eccitazione hanno così ben presto ceduto il posto alla necessità di riflettere e controllare, perché, in ogni caso, non è bene fidarsi ciecamente.

Senza soffermarmi sul Mazzuchelli (1707-1765) e sul Tiraboschi (1731-1794), che, con una metodologia che eredita l’ipse dixit del passato e anticipa il copia-incolla del futuro, seguono il Tafuri (1695-1760), noto che gli accademici citati non sono cronologicamente compatibili con Belisario (1464-1528)3, ma lo sono perfettamente col dedicatario, il nipote alias il Guercio di Puglia (1600-1665), per cui è da pensare, in base a questo documento,  che l’accademia si sarebbe estinta con lui4.

Il catalogo alla fine contiene una serie di tavole riproducenti i frontespizi delle opere più significative. Purtroppo la scheda  811 è tra quelle mancanti di tale prezioso complemento che sarebbe stato di grandissima importanza e ciò appare strano in chi sa vendere bene il suo prodotto,  dopo il notevole spazio riservato alla scheda e le parole conclusive che ne sottolineano il rilevantissimo interesse non solo antiquario ma anche per la storia della letteratura che definire, in questo caso locale, sarebbe riduttivo.

Appare evidente  che Poesie e prose italiane è il titolo dato dal collezionista all’insieme delle scritture, autografe o meno che siano, prese chissà quando e chissà dove. Moltissime opere messe all’asta nei vari cataloghi sono raccolte di fogli manoscritti o, addirittura, di loro frammenti5, messe su dal Libri con lo stesso criterio. Alcune, addirittura, mancano del titolo (probabilmente perché non ancora pronte ad essere immesse sul mercato): è, per esempio, il caso di Fragmenta manuscriptorum6 , di seguito riprodotto, titolo datole nel 1888, come si legge in calce, data in cui avvenne il recupero di cui dico in nota 7.

Se in una illusoria vita precedente fossi venuto a conoscenza dell’asta di quel fatidico lunedì  28 marzo 1859, avrei mobilitato, insieme con i pochi perversi come me che ancora nutrono questi futili interessi, tutta Nardò per raccogliere i fondi necessari per partecipare all’asta con qualche speranza di aggiudicarci l’oscuro oggetto del desiderio, pur col rischio, sempre in agguato,  di portare a casa una patacca…

Invece, non so neppure se il manoscritto fu aggiudicato, tanto meno a chi, e se l’archivio della Sotheby ne conservi o meno memoria. La rete riserva sempre inaspettate e inimmaginabili sorprese e non è detto che qualcuno, magari dalla Cina, punto d’arrivo del precedente percorso Italia (se non Salento)>Inghilterra, non ci faccia sapere di essere il fortunato attuale proprietario del manoscritto.7

In conclusione: essendo quanto meno improbabile e in tempi brevi il suo ritrovamento col conseguente studio meticoloso per stabilirne l’autenticità, non escludo che esso sia il frutto di un  abile ma truffaldino confezionamento (non dico di chi, dovendo essere arcinota la favoletta del contadino che per attirare l’attenzione e darsi importanza gridava al lupo al lupo! quando il lupo non c’era e poi, a differenza delle prime volte, nessuno venne in suo aiuto quando il lupo c’era veramente).

Se il mio sospetto, poi, dovesse rivelarsi infondato, non potendomi cospargere il capo di cenere, magari con quella di un albero di alloro, sarebbe giusto, qualora  fossi cremato, che le mie ceneri fossero disperse sulla la chioma di un albero, naturalmente e sempre, di alloro…

Nel frattempo, però, spero di non restare vittima di questo ricorrente incubo ad occhi aperti…

____________________

1 Armando Polito, Giovanni Bernardino Tafuri e la cinquecentesca Accademia del lauro di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2022, n. 302 della collana Sallentina fragmenta.

2 Catalogue of the extraordinary collection of splendid manuscripts,

3 Giovanni della Casa (1503-1556), Bernardino Rota (1509-1574), Scipione Ammirato (1531-1601), Antonio Muscettola (1628-1679); nulla son riuscito a reperire su Eusebio Statiera e Cambi, nonostante il fatto che per quest’ultimo la citazione del solo nome faccia pensare, come nel caso del Muscettola, ad una acquisita notorietà.

4 Fra l’altro questa ricostruzione storica, che mi appare strumentale a fini commerciali, contrasta, anche nell’onomastica,  con quella più ampia fatta (ma, anche in questo caso le fonti non sono citate…) da Camillo Minieri Riccio in Notizie delle Accademie istituite nel Regno di Napoli, in Archivio storico per le province napoletane, anno. III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, nella sezione dedicata a Nardò a p. 294, dove si legge: Nell’aprile dell’anno 1577 essendo stato creato vescovo di Nardò Cesare Bovio, diede subito commessione a Scipione Puzzovivo di restaurare l’estinta Accademia dell’Alloro, di fatti in breve fu istituita l’Accademia che prese il nome degli INFIMI, e vi furono ascritti socii il detto Puzzovivo, Bartolommeo e Bonaventura Tafuri fratelli, Paolo Manzo, Girolamo Gaudioso e Tommaso Colucci, Girolamo de Franchis vescovo di Nardò e poi Colonio Ciaia, che nell’anno 1652 successo al de Franchis, si adoperarono sempre al lustro di questa Accademia, alla quale appartennero pure il P. Tommaso Pinto carmelitano… Nell’anno 1660 allorché andò vescovo a Nardò Girolamo de Coris l’Accademia fu messa in più lustro, avendo disposto che oltre alle lettere ed alle scienze si trattassero pure il dritto civile ed il canonico, e costituendosi egli Principe di quel consesso, e nuovi socii vennero ammessi, fra quali Giacinto Zuccaro, Gio. Bernardino Manieri, Gio. Lorenzo Cristiano carmelitano, Giulio Cesare Caballone, e Giuseppe Piccione. Alla fine decadendo di anno in anno, questa Accademia si estinse sullo scorcio del secolo XVII

5 Appropriarsi indebitamente, cioè rubare, un libro, magari per venderlo, è di per sé odioso; strappare le pagine di alcuni e unirle come trofeo è ancor più criminale. Di questa attività il Libri  resterà per sempre l’indiscusso campione mondiale e un emulo in miniatura (…) appare al confronto  Marino Massimo De Caro, condannato in via definitiva nel 2015 per lo scandalo relativo alla gestione della Biblioteca dei Girolamini, della quale era stato nominato, pur non avendo titolo, direttore dall’allora  ministro dei beni culturali Giancarlo Galan (condannato pire lui in via definitiva nel 2014 per lo scandalo del MOSE), del quale fino al momento della nomina era stato consulente (!).

6 La raccolta, ma non è la sola, è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia  col titolo Recueil factice composé de 6 manuscrits ou fragments de manuscrits différents (segnatura: Département des Manuscrits. NAL 1629).

7 Purtroppo, considerando l’anno in cui l’asta si svolse, il manoscritto non faceva sicuramente parte di quelli venduti nel 1847 dal Libri a Lord Bertram, quarto conte di Ashburnham, dai cui eredi lo stato italiano ne acquistò una parte nel 1884 depositandoli presso a Firenze nella Biblioteca Medicea Laurenziana, mentre la restante parte fu acquistata quattro anni dopo dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Del manoscritto non v’è traccia neppure in Inventario delli beni remasti nell’heredità del quondam eccellentissimo signor don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragonia conte di Conversano, Congedo, Galatina, 1983.

Rifulge la chiesa di “Casa Resta”, già “Casina Braccio”, alle porte di Francavilla Fontana

di Michele Mainardi
La strada statale “7”, l’Appia, oggi rubricata “E 90” (l’europea, il cui segmento italiano finisce a Brindisi), ci porta comodamente a destinazione, essendo di prima.classe. A Francavilla Fontana non entriamo: ce la lasciamo a Ovest. L’abitato ha quasi raggiunto la contrada “Centorizzi”, l’area in cui sorge l’attraente posto ove è presente la cappella padronale voluta da Giovanni Filippo Resta.
L’aristocratico e facoltoso signore la edificò nel secondo decennio dell’Ottocento per il comodo della messa in villa, che la fronteggia in arioso spazio giardinato. L’esponente dell’importante famiglia scelse con giudizio il sito nel quale porre le fondamenta per dimorare amenamente. L’aria buona e il verde impiantato dialogavano a meraviglia con la circostante ubertosa campagna, ricca di testimonianze storiche. Qui, già sul finire del XVIII secolo furono ritrovati reperti archeologici di età messapica. Godendo della visione dei resti della necropoli venne su con tutti gli agi l’elegante dimora (ora ampliata a location per ricevimenti). Esaltata dal cornicione balaustrato, la magione è architettonicamente qualificata dalla loggetta con bifora pensile.
L’armonia si spande dal disegno delle linee della facciata al tutt’intorno. Non poteva la chiesetta essere da meno: la finezza del prospetto parla da sé. Fa delicata scenografia il sagrato, che ha l’ovale accennato del recinto sagomato con balaustrini. Le capitozzate statue laterali, pur avendo perso il volto dei santi, lo stesso trasmettono quel tocco di aerea leggiadria. L’ornato dei panneggi comunque basta e avanza: la pietra gentile lo esalta rendendo indistruttibile il grosso delle fattezze corporee delle mute figure. E pazienza se non è più possibile sapere chi fossero quei due aureolati: ognuno può dire la sua sulla loro identità.
Meglio sta l’altra coppia santa che vediamo in alto di fastigio. I simulacri lapidei, issati per abbracciare il vasto spazio di pertinenza dell’oratorio (che è da considerarsi a tutti gli effetti luogo sacro), la testa non se la sono vista portare via. Stanno al sicuro al vertice del coronamento. Scampato l’affronto della decollazione, resistono al pericolo. Nessuno osa scalfirne la sagoma. Troppi metri li separano dai malintenzionati che restano a terra, avendo difficoltà pure a correttamente nominarli. Una scultura è di certo di una donna; anche la seconda ne ha le sembianze. Ci vorrebbero mezzi tecnici adeguati (un teleobiettivo) per “venirne a capo”, per riconoscerne i tratti e i relativi attributi iconografici. Ma non disponiamo della relativa attrezzatura.
Lasciamo perdere. Le sante perdoneranno la nostra mancanza. Rimediamo plaudendo all’accordo tra gli elementi compositivi dell’apice del frontale. Notiamo altresì che nel retro del prospetto spicca il grazioso campanile a vela, inquadrato da un balconcino ondulato: una vera preziosità, una insolita inserzione dell’architetto.
Restiamo favorevolmente colpiti dai rapporti tra le parti, di un esterno distinto che prelude al séguito dell’interno.
L’aula liturgica è immersa in uno splendore: di marmi, di stucchi, di dorature. Le cornici degli ovali rendono fastose le raffigurazioni pittoriche. La firma dei cinque dipinti che si dispongono ai lati dell’altare (due per parte più l’ultimo in apice, in unghia di volta del presbiterio) è di un artista francavillese apprezzato al tempo suo, noto per ritrarre con sentimento le figure di carattere sacro. Si tratta di Vincenzo Zingaropoli (1779-1836). Le movenze non affettate con cui delinea gli effigiati appoggiano a una sobrietà delle tinte: cosa che aiuta a meglio comprendere il narrato di pennello.
La tela principale, quella che indulge ad ancona, evidenzia al meglio il linguaggio del Nostro: il Transito di san Giuseppe è reso plastico dal gesto teatrale di Gesù, che conforta il padre putativo portando il braccio sinistro in alto, in direzione del Cielo, in cui svolazza la diade di angioletti, pronta ad accogliere in Paradiso colui che si affida alla Buona Morte. Maria, da premurosa moglie, è china sul letto dell’agonizzante: lo assiste confidando nel buon Dio, l’Eterno Padre.
La pala d’altare vede al margine di destra riprodotto lo stemma della famiglia Resta, committente desiderosa di vistosamente apparire: ce lo rammenta il cartiglio devozionale che si mostra a sinistra.
Lo sposo casto e fedele della Beata Vergine si prende giustamente la scena essendo il titolare del tempio, ma è la Corredentrice la maggiormente rappresentata: compare in tutte le tavole in parete. Ora è Regina Coeli, assisa con il Bambino in un manto di nubi; ora è Madonna del Carmine con ai piedi san Vito e una sconosciuta nimbata. Nostra Signora riceve pure le incessanti e infiammate suppliche delle Anime purganti; ascolta parimenti le raccolte preghiere di san Lorenzo, il martire con la graticola bene in vista: non riconoscibile è la seconda presenza santa.
Problemi di decifrazione non ne abbiamo per l’ultima opera, quella della Pietà, a cui non mancano i dettagli dei ferri del patibolo di Cristo. Bravo, meritevole è stato il dipintore!

GAETANO ROMANO (1883-1910) poeta e pubblicista salentino

Ritratto del poeta

 

di Rocco Severino De Micheli

Nasce a Casarano il 4.1.1883 in piazza Garibaldi, primogenito di sette figli, da Felice (1851-1935) e dalla gallipolina Maria Virginia Musso (1858-1919). Muore a Incoronata (frazione di Foggia) il 6.1.1910 in un incidente ferroviario, all’età di 27 anni.

 

Casarano 1883, l’atto di nascita (fonte “Antenati.cultura.gov.it”)

 

Foggia 1910, atto di morte (fonte “Antenati.cultura.gov.it”)

 

Del suo periodo di vita casaranese si sa pochissimo. Dopo le elementari continuò gli studi a Gallipoli, cittadina della madre, per poi tornare, nel 1897, nel paese natio come impiegato delle Regie Poste, dove rimase sino al 1903 allorquando fu trasferito temporaneamente all’ufficio telegrafico di Lecce; successivamente, nel 1904, fu movimentato a Brindisi nell’ufficio Transito.

Casarano 1902, In questa cartolina, in piazza Indipendenza, Gaetano con due suoi amici

 

Amava scrivere poesie dialettali e nel 1902, da poco ventenne, pubblicò, con lo pseudonimo “Roseo”, una sua raccolta dal titolo “Canti a Vint’Anni” con 19 componimenti.

Gallipoli 1902, frontespizio della raccolta poetica

 

Per l’aspetto letterario si suggerisce l’ottimo lavoro della Dott.ssa Concetta Fracasso nella sua tesi di laurea: “Gaetano Romano Poeta casaranese di fine Ottocento”, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, anno accademico 1994-1995.

Il Romano si occupò anche di giornalismo collaborando, dal 1909 sino alla sua morte, al settimanale brindisino “L’Unione” – Organo dei Partiti Popolari, nel quale pubblicò articoli di vario genere, molti firmati con lo pseudonimo “Bruno”, riguardanti l’emancipazione femminile, le scuole pubbliche, gli ideali massonici, i lavoratori, il divorzio, la laicità dello Stato.

Durante la sua permanenza a Casarano fondò un teatro dialettale, che probabilmente durò poco tempo in quanto non ne è stata trovata traccia. Lo si apprende, però, da un suo collega di lavoro, ma anche scrittore e poeta vernacolare, il leccese Leone Oberdank (1883-1952), il quale, in un articolo postumo sul “Corriere Meridionale” del 22.12.1910, citò gli sforzi compiuti in tal senso dal nostro Gaetano.

Parte dell’articolo del Corriere Meridionale del 22.12.1910

 

A Brindisi il 23.7.1904 sposò la gallipolina Rosa Barba da cui ebbe, nel  maggio 1905, la figlia Virginia (quest’ultima è scomparsa nel 1994 a Matino).

Brindisi 1904, atto di matrimonio (fonte “Antenati.cultura.gov.it”)

 

I due incidenti

Come si evince dall’articolo della “Provincia di Lecce” dell’8 agosto 1909, egli fu coinvolto in un primo incidente ferroviario occorso domenica primo agosto 1909, per fortuna senza gravi conseguenze, invece, dopo solo pochi mesi, giovedì 6 gennaio 1910, giorno dell’Epifania, nel mentre era in servizio sul vagone postale del treno diretto n. 51, Foggia-Lecce, all’altezza di Incoronata (FG), il convoglio entrò in collisione con un treno merci, il n. 9710, proveniente da Bari.

Insieme al nostro concittadino, perirono nell’incidente altri tre impiegati postali brindisini, ironia della sorte, gli stessi del primo incidente (Ernesto Chirizzi, Leonardo Stampacchia, Francesco Palmieri), oltre a un passeggero e al macchinista del loro treno. Vi furono anche una quindicina di feriti.

Articolo de “La Provincia di Lecce” dell’8 agosto 1909

 

L’incidente illustrato da Achille Beltrame su “La Domenica del Corriere” dell’epoca

 

A Brindisi ci fu un grande sconcerto per quanto accadde. Il settimanale “La città di Brindisi” del 15 gennaio 1910 così commentava la tragedia: “Ancora una volta ci colpisce la sciagura e la crudeltà del fato ci terrorizza. La morte trova a sé più vicine le esistenze dei lavoratori e fa sue con la violenza di un attimo le più giovani, le più forti, le più vive per virtù e operosità. Ha avuto un grido di dolore il popolo di Brindisi per lo scontro ferroviario nei pressi di Foggia perché quattro vittime, quattro sposi che alle spose recavano la pace dell’animo, quattro padri che ai figli ridavano la festa del cuore, quattro lavoratori, Gaetano Romano, Ernesto Chirizzi, Francesco Palmieri e Leonardo Stampacchia”.

Alle ore 8 del 10 gennaio 1910 giunsero alla stazione centrale di Brindisi le quattro salme. All’arrivo erano presenti molti impiegati postali e telegrafici e il rappresentante del Ministro delle Poste. Le salme furono composte in una sala d’attesa della stazione, trasformata in camera ardente, con un via vai di cittadini a rendere loro omaggio.

Le cronache dell’epoca raccontano che il feretro di Gaetano Romano era coperto da un gonfalone della massoneria.

A Porta Lecce le autorità civili e religiose, nonché funzionari delle Poste pronunciarono le loro orazioni. Giunto il corteo al cimitero, il professore Lorenzo Calabrese, a nome della Massoneria, diede l’ultimo saluto alle salme.

Il Settimanale “L’Unione” uscì il 21 gennaio con un numero unico dal titolo “ELEGIA in memoria di GAETANO ROMANO”, ecco il link:

www.carusa.it/Appoggio/Giornale_Lunione_n2_Romano1910.pdf

Nella nostra città, in cui era ancora vivo il ricordo di Gaetano, e dove risiedevano i suoi genitori, l’amministrazione comunale con a capo il sindaco Domenico De Donatis pose una lapide ricordo presso la casa natale, in piazza Garibaldi, dove è tuttora visibile.

Casarano 1910, epigrafe in piazza Garibaldi

 

Sulla collina della Campana, luogo caro ai casaranesi, dal 1999 campeggiano due lapidi riportanti la sua poesia dialettale: “Susu lu munte de la Campana”.

Lapidi con la poesia

 

Recentemente, nei pressi della caserma dei Carabinieri,  gli è stata intitolata una strada.

La via intestata al poeta casaranese

 

Hanno scritto su Gaetano Romano:

Antonio Chetry,Spigolature Casaranesi, quaderno III, pag. 14 –Laterza Bari -1976

Vittorio Zacchino, I Casaranesi,  Edizioni il Grifo, Lecce 1991, p. 87

Concetta Fracasso, Gaetano Romano poeta casaranese di fine Ottocento, tesi di laurea,   Univ. di Lecce, a.a. 1994-1995 (Link per leggere la tesi di laurea)

Francesco Paolo Valentino, Canti a vint’anni,  Eurocart s.r.l., Casarano 1998

Fabio D’Astore, Gaetano Romano tra letteratura e impegno civile, Milella, Lecce 2023.

Non manca niente alla cappella del “Crocifisso”, in contrada “Coccaro” di Savelletri

di Michele Mainardi
Ci troviamo nel cuore dell’area del turismo di superiore livello, quella tra Torre Egnatia e Savelletri, punteggiata di strutture ricettive di lusso, dispensatrici di piaceri e di comfort. Resort stellati, scelti da ospiti che giungono specialmente dall’estero, fanno a gara per accogliere in modo suadente una clientela danarosa. I viaggiatori con larghe disponibilità amano immergersi nella quiete coccolata della campagna super accessoriata. Non se la scordano, la vacanza, una volta tornati a casa.
Avveduti imprenditori, fiutando le potenzialità delle amene risorse dei luoghi, hanno professionalmente rivisitato il vecchio mondo contadino in chiave di esclusiva offerta extralberghiera. Scommettendo sul patrimonio di paesaggio umano ereditato hanno centrato il target. Il segmento di mercato al quale si rivolgono dà frutti significativi che, stagione dopo stagione, maturano, si consolidano. Ne è discesa un’immagine del territorio fasanese vincente, celebre soprattutto per i matrimoni VIP apparecchiati.
Abbiamo voluto dar contezza dello specifico (e molto mediatizzato) fenomeno dell’ospitalità “deluxe” perché altrimenti come spiegheremmo l’ottima conservazione delle secolari chiesette di rimodulate masserie? Senza la dovuta contestualizzazione, nel presente invitante, sarebbe monca la nostra descrizione della cappella del “Crocifisso” di “Torre  Coccaro”.
Già dal portone, che immette nella corte, divenuta piazzale delle feste del fu organismo masseriale, notiamo il sigillo della religione; qui, i vecchi segni del sacro sono considerati valore di architettura. C’è la croce lapidea sul culmine del recinto della struttura, a lato della caditoia. Appena sotto di un concio trionfa la formella della Vergine col Bambino: un altorilievo che non puoi non vedere appropinquandoti all’arco incorniciato di bouganville.
Il viola tenero dei fiori che si arrampicano perimetralmente invitano a entrare. Il permesso è accordato. Il bianco-calce degli spalti che si spande tutt’intorno lascia presagire la meraviglia a portata di sguardo.
Varcato l’ingresso, adornato in tonalità magenta (una livrea che invita al sogno d’una fiaba d’altri tempi), si dispone giro giro lo slargo lo stupore. Colpisce la distinzione dell’oratorio. Moriamo dalla voglia di visitarlo, ma prima di varcare la soglia indugiamo sulla facciata, le cui linee riflettono armonia.
Il coronamento ha il classico timpano: netto, geometrico alla perfezione. La triangolarità, si sa, è elevazione: il cielo lo tocchi con un dito. Ma voliamo basso.
Sul portale si apre la finestra, grande col suo profilo mistilineo contornato da cornici aggettanti. Superiormente è alloggiata la lunetta; vi spicca il modellato a tutto tondo della figura del Cristo deposto: emerge dal sarcofago sorretto da due angeli. La pietra tenera del manufatto dà plasticità alla composizione, resa fulgente grazie al contrasto cromatico del niveo col rosso pompeiano. Il rafforzo iconografico mette tutto in asse: e l’equilibrio della forma se ne avvantaggia. L’eleganza dell’arredo scultoreo è prova indiscussa di cura nell’esecuzione, che rimanda al tardivo influsso di gusto rinascimentale nella periferia sud-orientale dello Stivale.
Goduto l’esterno passiamo all’interno, che merita la giusta attenzione.
L’aula ha volta a crociera con chiave costituita dal rosone. Gli stessi colori del fuori continuano nel dentro. L’altare ha però quel di più di celeste, che è perfetta cromìa risalente all’Altissimo, ripreso morente sul patibolo. Il legno, che è materia della croce, è stato sovrapposto sul dipinto, opera del pittore fasanese Ferdinando Schiavone, datata 1931. Raffigura le tre Marie piangenti ai piedi di Gesù, modellato in cartapesta.  L’epidermide del Messia è volutamente candida, forse troppo: in tal modo si volle far risaltare le piaghe, le ferite inferte sul costato e alle estremità del corpo adeguatamente plasmato. Sullo sfondo del Calvario spuntano le figure di due guardie romane, riprese a tinte scure per metterle in cattiva luce.
La macchina della mensa eucaristica ha al vertice il Sacro Cuore trafitto e avvolto nel sudario della Risurrezione. Un tripudio di arredi sacri, posti sui gradini della tavola liturgica, completano il colpo d’occhio. Gli ostensori, i candelieri, fanno parata al tabernacolo. La Parola di Dio sovrasta il tutto: è lì, nelle pagine aperte delle letture della santa messa.
Il senso del raccoglimento prende così l’occasionale visitatore, che non è un cliente del “Cinque stelle”. Ciò non toglie che non possa sostare nel presbiterio, raccolto e grondante di suppellettili ante riforma conciliare.
La gentilezza del “concierge” ci ha favorito. Si ha tutto il tempo per ammirare, sulla parete – a sinistra entrando – il lavabo a due vasche, che reca rilievi a motivi vegetali: lo sostiene una maschera che parrebbe di satiro. C’è l’indicazione di quando la doppia composizione fu scolpita: nell’Anno del Signore 1739. Possiamo allora non essere lontani dalla data dell’edificazione dello splendido tempietto di masseria che appartenne alla famiglia Indelli di Monopoli.
Terminata la visita ce ne andiamo soddisfatti: un altro tassello del mosaico della religione di vecchia campagna è al suo posto. Natale 2023 è alle porte: il “Crocifisso” di contrada “Coccaro” ci riconduce inevitabilmente alla Nascita…

Il casale di Valiano, dalle origini all’abbandono

di Pierluigi Cazzato

A circa metà strada tra i comuni di Corsano e Gagliano sorgeva, fin quasi alla fine del Cinquecento, il casale di Valiano. Il toponimo si conserva ancora oggi (“Vagliano” sul Quadro d’Unione del comune di Alessano e “Masseria Vagliano” sulle carte IGM) e delimita una zona abbastanza ampia, al confine trai i territori di Alessano e Gagliano, compresa tra la serra di S. Dana e la marina di Novaglie (Fig. 1).

 

Da oltre mezzo secolo, questa località è oggetto di diversi studi storici e di alcune ricerche sul campo che hanno riportato in luce numerosi documenti d’archivio ed evidenti testimonianze archeologiche, inconfutabili tracce di una lunga frequentazione umana. Attraverso l’analisi delle fonti scritte e dei reperti materiali, il presente lavoro si propone di ricostruire gli eventi e le dinamiche che hanno portato prima alla nascita e poi all’abbandono del piccolo casale di Valiano e, allo stesso tempo, di aggiungere nuovi dati circa i modelli insediativi nel Salento sud-orientale tra Tardoantico e Medioevo.

 

Fonti storiche

Come avviene per tanti centri salentini, le prime notizie storiche sul casale di Valiano risalgono all’epoca degli Angioini, precisamente all’inizio del XIV secolo. Alcune informazioni si possono trovare nell’opera Storia della famiglia dell’Antoglietta di Scipione Ammirato, che riporta un paio di cenni tratti dall’archivio angioino: nel 1301 Enrico dell’Antoglietta fu signore di “molte Castella e Feudi“, tra i quali “San Dano, Pulsanello, Giuliano, Marsanello, […] e Baliano“; nel 1333, suo figlio Nicolò possedeva i casali di “Pulsanello, Marzanello, Iusciamello, Baliano, Barbarano, Santo Dano, Boniliano e Pulsano” e ancora nel 1371 Baliano viene computato tra i beni feudali appartenenti a Filippo dell’Antoglietta1. Sempre all’inizio del Trecento, nel 1322, due abitanti di questo villaggio risultavano essere vassalli del vescovo di Alessano (episcopus leocadensis habet duos vassallos in Valiano)2.

Non possediamo ulteriori informazioni fino al 1446, anno in cui venne redatto il Quaternus declaracionum principalis curie3, registro fiscale dell’amministrazione della contea di Lecce. Da questo documento apprendiamo che l’università di Balliani (il cui sindaco era Pietro Bacto) faceva parte dei possessi del principe di Taranto, Giovan Antonio Orsini del Balzo, il suo territorio, insieme a quello di altri casali circonvicini, ricadeva sotto la giurisdizione del capitano di Gagliano e all’erario gaglianese veniva pagato anche un diritto sulla vendita del vino (iure concordie taberne). Anche se all’epoca era infeudato ai del Balzo, sappiamo che altre famiglie vantavano diritti sul feudo di Valiano, infatti, nel 1466, re Alfonso d’Aragona concedeva a Nicola Conniger di Lecce “certa parte del casale di Castrignano del Capo cum vaxallis, redditibus, pertinentiis suis omnibus, et cum certo territorio nominato campo saracino de territorio dicti Castrignani, et di certi terreni siti in territorio Valiani, ubi dicitur Vigne marine, in feudum4; mentre, sempre nel XV secolo, Jacobo de Lantolio (dell’Antoglietta) possedeva “certa parte casalis Juliani; casale vulgariter dicto Marsanello; pro vaxallis habitantibus in Specla, in casali Pati, in Gagliano ed in casali Baliani; Arignani et Gagliani; orti tre nominati Santo Nicola in Casali Arigliani; et pro territorio Baliani pro tiraggio; territorio in pertinenza Santo Dana, pheudo inabitato in Palaczano; pheudo sito in tenimento Santi Pancratii; casali Rofiani, Salve et tabola lomabardello; pheudo de Regiano; pheudo inabitato di S. Andrea in pertinentis Neretoni5. Tuttavia il casale restò in mano alla famiglia del Balzo per tutto il Quattrocento: il 20 dicembre 1463 esso era annoverato tra i territori che Raymondo de Bautio aveva ricevuto in eredità dal padre6, mentre il 12 giugno 1494 un documento redatto a Napoli conferma il possesso del casale (scritto come Vagnano) a Giovan Francesco del Balzo, figlio di Raymondo, e ai suoi eredi7.

Nel Cinquecento i documenti a nostra disposizione aumentano in maniera considerevole e si fanno sempre più ricchi d’informazioni. Nel 1512-13 il casale contava tre fuochi, pagava le tasse in tre rate e il suo sindaco era Carlo di Cola Maso. Nel 1515-16 aveva ancora tre fuochi e pagava le tasse (5 once, 2 tarì e 3 grani) a Giovanni Pietro de Ragona, doganiere di Gagliano8.

Un relevio redatto il 28 aprile 1520, ci mette a conoscenza che Petruccio Conniger pagò una somma di 31 once, 4 tarì e 17 grani alla Regia Camera di Napoli, dopo la morte del nipote Giacomo Maria Conniger, per l’eredità di “due parti del Casale di Castrignano, con li vassalli nel feudo nom[inat]o Gallotta, e nelli Vassalli del Casale di Giuliano; certo pezzo di terra nom[inat]o Campo Saracino, e certi altri territorij, e vignali nel distretto di Valiano dove si dice Vigaio Marino in Prov[inci]a d’Otranto9.

Nel 1527-28 il casale contava 5 fuochi e nel settembre del 1531 pagava una tassa di 2 once, 2 tarì e 13 grana10.  Nel 1539 i fuochi erano saliti a 711. Al 2 ottobre 1551 è datato il relevio che Isabella de Capua, Principessa di Molfetta, pagò, dopo la morte della madre Antonicca del Balzo, per la contea di Alessano di cui faceva parte Valiano.

Quando, il 27 febbraio 1560, il figlio di Isabella, Andrea Gonzaga, Conte di Alessano, alla morte della madre, pagò il relevio ” per l’intrate feudali del Contato di Alessano” viene ancora citato il nostro casale. Allo stesso modo, se ne trova menzione nel relevio del 15 ottobre 1587 quando esso passò in eredità al principe di Molfetta Ferrante Gonzaga, figlio di Andrea12.

Un atto rogato dal notaio Antonio Minioti di Lecce ci conferma che il casale era ancora abitato nel maggio 156813. Al settembre 1580 risale una lettera indirizzata all’arcivescovo di Otranto in cui Valiano veniva conteggiato tra “q[ue]lli Castelli, dove si parla latino solam[en]te et li preti sono greci, et altri latini14. Dai protocolli del notaio Antonio Romano di Montesardo, apprendiamo che era disabitato già nel 1583, infatti, in data 24 gennaio, l’ultimo sindaco di Valiano, Cataldo Teco, estingueva un debito contratto l’anno prima dall’Università di Valiano con quella di Montesardo15. Questa circostanza viene confermata da un documento accessorio al relevio di Ferrante Gonzaga del 1587, esso contiene l’interrogatorio di Antonio Roccio “de casali Valiani, et ad presens habitantis in casali predetto Salvae” circa i beni prodotti nel feudo di Valiano nell’anno indizionale 1586-1587: sebbene il casale risultasse abbandonato da diverso tempo (“…al presente detto casale sia abbandonato, atteso à molti anno non ce habita persona alcuna…) e i suoi abitanti si fossero trasferiti altrove (“…non abitano in detto casale ma in diversi lochi…“, “tutti gli altri cittadini d’esso vanno dispersi, et fugendo, et non anno loco stabile“), tredici di essi continuavano a pagare tasse per due ducati, tre tarì e un grana16.

Ancora nel 1589 veniva conteggiato tra i casali appartenenti alla contea di Alessano che Ettore Brayda comprò dai Gonzaga17, mentre quando, nel 1618, fu venduto a Giovanni Ferrante delli Falconi era considerato feudo, quindi disabitato18.

Le Relationes ad limina, redatte tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, continuano a fornirci informazioni: quella scritta dal vescovo di Alessano Ercole Lamia, datata al 29 maggio 1590, ci informa che nella sua diocesi esisteva un beneficio ecclesiastico, chiamato arcipretura di Valiano, sine cura, di dieci ducati di rendita annua; nelle successive relazioni, del 1613, 1618 e 1621, il presule Nicola Antonio Spinelli ci conferma l’esistenza di tale beneficio: “Vi sono anche, sparsi in località diverse, quattro benefici semplici, che dai casali dove anticamente si trovavano, ora però distrutti, conservano la denominazione di arcipreture: sono quelli di Voluso, di Pul[e]sano, di Macurano e di Valiano” e che “[…] due chiese rurali sine cura […] che sono assegnate a titolo di beneficio, cioè quella del casale di Valiano e del casale di Voluro anch’essi distrutti, le cui chiese non esistono più19. Tuttavia possiamo presumere che nel 1661 la chiesa del Crocefisso di Valiano fosse ancora in piedi, è noto, infatti, che presso l’edificio religioso fu trovata una neonata abbandonata che fu portata a Montesardo “ratione territorij” e qui battezzata20. Da ciò si deduce che la località di Valiano, all’epoca, apparteneva alla Terra di Montesardo, circostanza che viene confermata dagli atti notarili della seconda metà del Seicento21.

Altre informazioni possono essere estrapolate dalla cartografia antica: una carta di fine XVI secolo, che contiene l’elenco dei centri abitati, con relativi fuochi, di Terra d’Otranto, ci informa che Valiano, all’epoca, aveva 126 fuochi (sic!)22. Il casale continua a essere menzionato, d’ora in poi sempre nella forma Vagliano, e localizzato con relativa precisione su molteplici cartine geografiche per tutto il Seicento e il Settecento23.

resti della chiesa di S. Martino

 

Toponomastica

Nelle le fonti sin qui citate il nome del casale risulta trascritto in differenti grafie:

  • XIV sec. – Baliano, Valiano
  • XV sec. – Baliano/Balliano, Vagnano, Valiano
  • XVI sec. – Valiano
  • XVII sec. Vagliano, Valiano.

La trascrizione più antica è quella di Baliano, rimasta in uso sino alla metà del Quattrocento. La variante Valiano è più tarda, ma si conserva pressoché inalterata nel dialetto locale (Valianu). Vagnano è un probabile errore di trascrizione mentre il più recente Vagliano (conservato sulla cartografia IGM) sembra essere la versione italianizzata del nome volgare. Il toponimo appare di chiara origine prediale e secondo il Susini potrebbe derivare dal nomen Vallius24.

Secondo una suggestiva ipotesi25, a questo toponimo sarebbe da ricollegare il nome del porto situato sulla vicina costa adriatica, infatti esso deriverebbe dalla contrazione dei termini novus e Vagliano, da cui, per contrazione, Novagliano (non attestato) e poi Novigliano (attestato nell’Ottocento26) ed infine l’attuale forma di Novaglie.

 

Evidenze archeologiche

Le prime ricerche archeologiche nell’area (fig. 2) risalgono agli anni ’60 del secolo scorso: è il professor Cosi ad informarci che, all’epoca, la chiesa matrice di Valiano, dedicata a S. Martino, era ridotta ad un cumulo di pietre nel quale praticò uno scavo portando alla luce della ceramica risalente “ai tempi di vita del paese”27. Sempre dallo stesso autore viene riportato che in un podere chiamato “Vigna la Croce” furono rinvenuti dei generici reperti funerari di cui non abbiamo nessuna ulteriore informazione, qui con tutta probabilità si trovava l’altra chiesa del casale28.

 

Un’altra ricognizione di superficie nella stessa zona è stata condotta circa venti anni addietro e ha portato al rinvenimento di diverso materiale ceramico: ceramica d’impasto di età messapica, ceramica invetriata di tipo RMR di XIII secolo, ceramica smaltata di XVI secolo e un folles in bronzo dell’Imperatore bizantino Romano I (919-944 d.C.)29.

Da Valiano provengono anche dei frammenti di ceramica d’impasto attribuibili a paioli; questa forma ceramica, che aveva probabilmente la funzione di braciere/scaldino, è abbastanza attestata in provincia di Lecce e si data tra la metà del X e la fine del XI secolo30.

Nuove ricerche sono state condotte di recente dallo scrivente allo scopo di estendere le indagini su di una zona più vasta. Le ricognizioni hanno permesso d’incrementare i dati a disposizione grazie all’individuazione di due altre aree con una grande concentrazione di frammenti fittili antichi. La prima è posta immediatamente a nord di “Vigna la Croce”, insiste in parte su un uliveto e in parte su di un vasto terreno incolto (circa 110 x 100 m)), nonostante le pessime condizioni di visibilità, è stato possibile riconoscere numerosi resti ceramici inquadrabili tra XIII e XVI secolo: diverse pareti acrome o dipinte a bande strette (decorazioni a fasce semplici dipinte in nero); alcuni fondi ed orli di ciotole in ceramica invetriata policroma (RMR); frammenti di ceramica invetriata monocroma verde; un frammento di piatto in ceramica invetriata; abbondanti resti di ceramica da cucina invetriata e non; frammenti in vetro.

Purtroppo i rovi e le sterpaglie che invadono la porzione nord-est del podere incolto non hanno permesso un’indagine più accurata ed estesa, tuttavia i resti portati in luce dimostrano che parte del villaggio medievale si estendeva in questa zona.

Spostandosi a 150m in direzione sud-est s’incontra la seconda concentrazione di frammenti ceramici, si tratta di un’ampia area, di circa 150 x 120 m, che ricade su vari terreni cinti da muretti a secco, che ha restituito diverso materiale archeologico: lacerti di laterizi, tegole e coppi d’impasto chiaro; pochissimi frammenti di ceramica a pasta grigia e dipinta di nero; numerose pareti di Late Roman Amphora dalla classica decorazione a pettine; orli e fondi di piatti e scodelle di ceramica sigillata africana e orientale; pareti e puntali pertinenti ad anfore da trasporto con impasto di colore rosso abbastanza depurato; ceramica di “tipo san Foca” di produzione orientale (Illyrian cooking ware); diversi frammenti di ceramica da cucina e di pareti appartenenti a grossi contenitori non meglio identificabili; molte pareti di pentole riferibili alle produzioni di “tipo Apigliano” (impasto rosso, pareti sia interne che esterne ricoperte da una patina grigia, presenza di scanalature orizzontali). Inoltre sono stati rinvenuti diversi resti metallici (una decina di scorie di fusione, un incavo di cucchiaio e un chiodino in bronzo, una moneta romana non identificata sempre in bronzo), due selci preistoriche (una lamella a dorso, probabile elemento di un falcetto, e un grattatoio), due orli di calici in vetro ed un frammento di osso inciso con motivi circolari.

Ad eccezione delle selci di epoca preistorica, la maggior parte del materiale recuperato ed identificato è databile tra II e VI secolo d.C. e ci porta a supporre l’esistenza di una piccola casa colonica o fattoria romana di età imperiale e tardoantica, tuttavia la presenza di ceramica di “tipo Apigliano” avvalora l’ipotesi che il sito sia stato frequentato sino alla prima età bizantina (VII e VIII secolo d.C.).

Nel settore nord-orientale, sul lembo estremo della serra, invece sorge una masseria del Seicento. Nel banco di roccia sottostante è stato scavato un grande ipogeo diviso in due ambienti più piccoli da un muro di pietre a secco; non è possibile determinare l’epoca della sua realizzazione ma fu certamente adibito a frantoio in età post-medievale. In tutta l’area circostante la masseria ci sono varie vasche scavate in antico nella roccia, quadrate o rettangolari, di diverse dimensioni.

masseria Vagliano, ipogeo

 

Sintesi storica

Il sito di Valiano sorge sull’estrema propaggine sud-orientale delle Serre Salentine, su una piccola altura (circa 130 m s.l.m.), costituita da calcari compatti (Calcari di Altamura), che domina l’area circostante, in particolare verso nord, in direzione Corsano, e a ovest, verso San Dana, si estendono delle zone abbastanza pianeggianti, relativamente ampie e facilmente arabili, costituite da uno strato geologico fatto di calcareniti e calcari grossolani (Calcarenite di Gravina) caratterizzati da un suolo, abbastanza profondo e fertile che ben si presta alla coltura dei frumenti nudi e dell’orzo31.

La frequentazione umana, anche se sporadica, è attestata sin da epoca preistorica e protostorica, come ci documentano le selci e la ceramica messapica, e probabilmente fu favorita, oltre che dalla fertilità del suolo, da una sufficiente disponibilità di risorse idriche. Al volgere dell’era volgare la presenza dell’uomo nella zona diventò più assidua e stabile, infatti, in epoca romana imperiale, qui sorse una piccola fattoria e con ogni probabilità lo sfruttamento delle risorse ambientali si fece più sistematico ed intensivo.

All’inizio dell’Impero, questo territorio, facente parte dell’ager Veretinus (pertinente al municipium di Vereto), fu diviso in centuriae che vennero assegnate ai veterani dell’esercito per impiantarci la propria azienda agricola32. Questo tipo d’insediamento è abbondantemente documentato in tutta la penisola salentina, in particolare nella zona compresa tra i comuni di Alessano, Corsano, Gagliano e Tiggiano si contano diversi siti del genere, indice che in età repubblicana il territorio venne organizzato sistematicamente e che, tra II e VI secolo d.C., esso era caratterizzato da una fitta rete di piccoli insediamenti di carattere agricolo distanti tra loro meno di un paio di chilometri (Fig.3).

 

In genere, tutti i siti si trovavano sui terreni che garantivano i raccolti migliori, a volte su piccoli balzi di quota e in presenza di banchi di roccia affiorante. Si trattava di case/fattorie che punteggiavano, ad intervalli regolari, la piana posta tra la Serra dei Cianci e la costa adriatica, ben inserite nel sistema produttivo e commerciale del Mediterraneo romano (prova ne siano i numerosi frammenti ceramici riferibili ad anfore commerciali di svariato tipo).

La piccola villa rustica di Valiano si collocava perfettamente all’interno del sistema di organizzazione del territorio romano; oltre ai cereali, si può immaginare che qui si producessero anche olio e vino, e che vi si svolgesse una qualche attività artigianale legata alla lavorazione del metallo. L’insediamento era collegato con le aziende agricole vicine attraverso un antico asse viario (che partendo da Alessano e, passando per Corsano, giungeva qui, poi piegava a ovest verso San Dana, lambendo una statio romana, e infine si dirigeva a sud in direzione di Gagliano) e forse era in comunicazione con il vicino approdo di Novaglie che ne costituiva il porto.

Alla metà del VI secolo una serie di avvenimenti sconvolse l’organizzazione degli insediamenti umani in tutto il Salento, prima la guerra greco-gotica (535-554) e la peste del 541, poi la successiva invasione longobarda (568-571), con la conquista di quasi tutta la penisola italiana, sancirono la fine definitiva del mondo tardoantico con la distruzione del sistema economico che lo caratterizzava e la conseguente “disgregazione di quel tessuto insediativo che era espressione di specifiche modalità di sfruttamento del territorio33. Questa cesura si riscontra anche nel territorio oggetto del nostro esame, dove i siti di età romana non restituiscono ceramica che va oltre il VI secolo. In questo contesto, Valiano, con la sua relativa abbondanza di resti di VII e VIII secolo, rappresenta un’eccezione. Probabilmente, anche in epoca bizantina, il piccolo abitato rurale continuò a svolgere la funzione di una modesta azienda agricola (chorion/grancia?) mentre la maggior parte delle villae del circondario erano state abbandonate.

La frequentazione di età bizantina, in questa fase, sembra insistere sulla stessa identica area occupata in epoca romana, mentre i reperti archeologici più tardi (la moneta di X secolo e i resti di paiolo) provengono dalla zona di “Vigna la Croce”, forse segno che l’abitato si era spostato progressivamente verso nord. Una riorganizzazione del centro potrebbe essere avvenuta subito dopo la cosiddetta “riconquista bizantina”, messa in opera dall’imperatore Basilio il Macedone (867-886), periodo in cui assistiamo ad una fase di grande sviluppo economico in cui si vengono a formare quei centri abitati che, più tardi, i documenti normanno-svevi ed angioini porteranno finalmente alla ribalta della storia34.

Con la conquista messa in opera dai cavalieri d’oltralpe guidati da Roberto il Guiscardo si determinò certamente un cambiamento politico radicale in tutta la Terra d’Otranto ma l’organizzazione territoriale, insediativa ed economica non subì grandi variazioni nel passaggio dalla dominazione bizantina a quella normanna35. Indiscutibilmente, però, sotto i nuovi dominatori, si diffuse in tutto il Salento, in aree di più o meno recente messa a coltura, un tipo di abitato rurale che ricopriva una funzione prettamente agricola: il casale. Si trattava sempre di “un piccolo villaggio rurale aperto, cioè non circondato da mura e non fortificato e può essere considerato l’insediamento più funzionale per uno sfruttamento intensivo delle terre. Non doveva essere molto diverso dal chorion bizantino, al quale lo si può accostare per struttura e funzioni, ma senza dimenticare comunque la diversa situazione storica e la profonda modificazione in senso feudale del regime delle terre e dei rapporti sociali, intervenuta con l’insediamento normanno36.

Per quanto riguarda Valiano, anche se le evidenze archeologiche di XII secolo sono assenti, si può supporre una sostanziale continuità insediativa tra chorion bizantino e casale bassomedievale. Quest’ultimo, nel XIII secolo, si formò lungo la vecchia strada di età romana, probabilmente come un esiguo nucleo di capanne intorno ad un modesto edificio di culto, le sue caratteristiche rimasero prettamente agricole anche se non si possono escludere altre sue eventuali funzioni.

Come accade a tanti casali salentini, nonostante fosse un centro già attivo e, probabilmente, in fase di sviluppo, solo all’inizio del XIV secolo Valiano compare nelle fonti documentarie che ci restituiscono però poche informazioni. Al tempo, insieme ad altri micro-villaggi della zona, esso risultava infeudato alla famiglia dell’Antoglietta e due suoi abitanti erano vassalli del vescovo di Alessano. Dopo oltre un secolo di assenza, a metà Quattrocento il nostro casale ricompare nelle fonti: appartenente alla Contea di Lecce, e dunque inserito nei possessi dei del Balzo, Valiano era sottoposto alla giurisdizione del capitano di Gagliano; esso aveva il proprio organo di autogoverno (universitas) ed un sindaco; la famiglia dell’Antoglietta vantava ancora diritti sui suoi abitanti mentre ai Conniger erano stati assegnati alcuni terreni in suffeudo.

Dunque le fonti documentarie, suffragate dalle evidenze archeologiche, ci testimoniano che esso aveva superato indenne l’epocale crisi del Trecento e la peste bubbonica del 1348-51, eventi che avevano causato una pesante crisi demografica, con relativa riorganizzazione degli abitati umani, in gran parte del Salento e determinato la scomparsa di diversi casali della zona.

Valiano riuscì a sopravvivere anche alle trasformazioni di carattere agricolo ed economico che interessarono la Terra d’Otranto tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età Moderna. In una fase contrassegnata da nuovi abbandoni, il nostro casale invece sembra crescere costantemente: tre fuochi fiscali venivano conteggiati nel 1512, cinque nel 1527, sette nel 1539 e addirittura tredici nel 1586, dopo che la sua popolazione si era dispersa. Il suo feudo era ancora in possesso dei del Balzo e poi passò, insieme alla Contea di Alessano, ai Gonzaga; tuttavia la famiglia Conniger di Lecce, che possedeva altri feudi nel Capo di Leuca, continuava a vantare diritti su alcune vigne del casale situate in prossimità della costa adriatica (vigaio marino/vigne marine).

 

Il casale aveva due edifici di culto costruiti in pietra ed un clero sia latino e sia greco (però si parlava solo il latino); l’economia agricola si basava sui cereali ma una certa importanza rivestiva anche la coltivazione dell’ulivo e della vite. Nonostante che all’inizio del Cinquecento il Capo di Leuca abbia subito un radicale modifica del suo assetto agricolo ed insediativo, con il passaggio da uno sfruttamento intensivo ad uno di carattere più estensivo37, non pare che il casale di Valiano abbia risentito negativamente di questi cambiamenti, anzi, esso sembra pienamente inserito nella nuova organizzazione economica, infatti possiamo ricostruirne la vitalità e l’operosità per quasi tutto il XVI secolo, attraverso i numerosi passaggi di proprietà e la tassazione cui era sottoposto, fino alla sua misteriosa scomparsa avvenuta tra il 1580 e il 1582.

Nel corso del Basso Medioevo, il casale di Valiano aveva dimostrato un certo grado di resilienza, attraversando indenne diversi momenti di crisi demografica e di cambiamenti economici. Sicuramente esso aveva subito gli effetti di questi avvenimenti, che avevano causato la scomparsa di oltre il 40% dei centri abitati del territorio circostante (fig.4), ciò nonostante in pieno Cinquecento la sua popolazione era in fase di crescita e non vi è nessun elemento che faccia supporre che l’abitato fosse in crisi.

L’abbandono del sito, e la dispersione dei suoi abitanti nei paesi vicini, furono, quindi, dovute ad un singolo evento traumatico. Il professor Cosi segnala che tra gli anni 1561 e 1595, nel Capo di Leuca, solo 4 paesi su 25 mostrano un calo demografico: Gagliano, Arigliano, Patù e Morciano; perciò ipotizza che la distruzione di Valiano sia da porre in relazione ad una scorribanda saracena che coinvolse anche i succitati casali38.

Pur in mancanza di prove certe, pare plausibile attribuire la scomparsa del casale ad una scorreria turchesca, di cui non è rimasta nessuna documentazione, che avvenne negli anni successivi la battaglia di Lepanto (1571), l’epocale vittoria delle galere europee contro la flotta ottomana, che fu celebrata enormemente nel mondo cristiano ma che in realtà ebbe scarsi risultati dal punto di vista politico-militare, infatti essa non pose fine alle drammatiche incursioni dei corsari musulmani lungo le coste dell’Italia meridionale.

Dopo la distruzione del casale il territorio di Valiano non fu completamente abbandonato, poco più a nord, infatti, venne costruita una masseria con annesso frantoio ipogeo; è evidente che qui si continuò a sfruttare il potenziale agricolo delle campagne circostanti nell’ottica di una nuova organizzazione territoriale che puntava ad un miglioramento della resa agricola.

Come già accennato, tra la fine del Medioevo e la prima Età Moderna, tutta la Terra d’Otranto subì un mutamento economico e insediativo: nelle aree scarsamente abitate o soggette a spopolamento si crearono le prime masserie, sedi di lavoratori stagionali che risiedevano nei paesi fortificati delle vicinanze. Esse erano destinate, nella maggior parte dei casi, alla monocoltura dell’ulivo e alla produzione dell’olio, “l’oro liquido” salentino esportato sui mercati di tutto il Mediterraneo, che costituiva un investimento economico sicuro e remunerativo per l’aristocrazia locale.

Conclusioni e ringraziamenti

Per lungo tempo la piccola altura di Valiano è stata sede di un abitato umano che nel corso dei secoli ha dato ospitalità a diverse comunità di uomini che si sostentavano attraverso lo sfruttamento delle risorse ambientali che offriva il territorio circostante. Pur conservando una funzione prettamente agricola, la struttura dell’insediamento ha subito diverse modifiche a causa dei rivolgimenti politici e per adattamento alle trasformazioni economiche e sociali che hanno interessato la Terra d’Otranto nel lungo lasso di tempo che va tra la fine dell’Impero Romano ed il Rinascimento.

Oggi, al contrario, questa contrada appare abbandonata e in stato di degrado: terreni incolti in cui i rovi la fanno da padrone, uliveti devastati dalla xylella, muretti a secco ed edifici rurali in rovina, rifiuti sparsi ovunque. Un desolante quadro d’incuria che ci spinge a reclamare più attenzione per una località così ricca di storia e ad impegnarci a valorizzare le sue potenzialità.

Potenzialità storiche ed archeologiche che questo scritto ha inteso sottolineare, ma anche di carattere ambientale e paesaggistico che meritano un adeguato riconoscimento ed una pronta tutela. Secondo noi la contrada di Valiano costituisce una “risorsa culturale” di sicuro valore per tutto il Capo di Leuca (la cui “offerta culturale”, a nostro avviso, appare assai modesta), ha però bisogno di cura e di conservazione. Sperare nella sensibilità delle istituzioni comunali ci sembra utopia, crediamo, dunque, che sia diritto e dovere dei cittadini, delle associazioni private e delle comunità locali occuparsi in prima persona di questi luoghi.

In quest’ottica appare meritoria l’opera di restauro degli edifici e ripristino dei terreni della masseria Vagliano portata avanti da Claudio Riso e Valentina Cancelli, che ringrazio per avermi fatto visitare la loro proprietà con l’annesso ipogeo. Devo anche ringraziare Mauro Ciardo per le preziose informazioni che mi ha fornito, sul campo e sui testi. Infine una menzione speciale va ad Antonio Ippazio Piscopello, senza il suo incoraggiamento, la disponibilità e l’aiuto nella ricerca bibliografica questo lavoro non sarebbe stato possibile.

l’altura di Valiano, sullo sfondo la masseria

 

Note

*L’articolo originale (Valiano: dalle origini alla scomparsa di un casale del Capo di Leuca) è stato pubblicato sulla rivista Controcanto, anno XVIII, n° 3, 2022. I contenuti sono stati parzialmente rivisti, corretti ed aggiornati in base alle recenti scoperte.

1 S. Ammirato, Storia della famiglia dell’Antoglietta, Firenze (ristampa), 1846, pp. 24-26 e 40. Da altra fonte, i Notamenta del De Lellis, troviamo conferma che nel 1303 ad Enrico fu concessa “pars casalium Pulsanelli, Iuvanelli, Mansanelli, Baliani, Barbarani, Sanctae Danae, Doriliani, Pulsani, in Idronti“, possesso confermato nel 1304 per i casali di “Ariliani, Baliani, Sancti Donati (S. Dana), Pulsanelli et Marsanelli” (in M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase (Le), 2004, p. 18).

2 A. Ferraro, Castrignano del Capo e i suoi documenti, Castrignano del Capo (Le), 2004, p. 117.

3 ASNa, Sommaria, Diversi, n°170, cc. 208v e 209v.

4 A. Ferraro 2004, op.cit., pp. 7-8.

5 ASNa, Sommaria, Partium, vol. 39, a. 1494 foll. 6-7, et appendice p. 545, in R. Fino, Il Capo di Leuca e dintorni tra realtà, storia e leggende, Galatina (Le), 2004, p. 10.

6 I beni feudali includevano: la terra di Specchia, Montesardo cum forensibus suis lo casale di Santo Dana, Baliano, Maturiano (Macurano), parte delli casali di Sagliano (Salignano), Castrignano, Patu, Juliano, Rugiano, Triano (Arigliano), Tutino, Craparica, Neviano, Melesano, et Rufiano de provintia terre Idrunti (ASNa, Museo, 103A. stip. 4/4, Repertorio di Terra d’Otranto, cc. 153-157v; in A. Ferraro, Salignano e i suoi documenti, Lucugnano (Le), 2001, p. 84)

7 ASNa, Pergamene di Castelcapuano, vol.VI, p. 126v, in M. Ciardo, op. cit., 2004, p. 3.

8 M. Ciardo, op. cit., 2004, p. 3.

9 M. Ciardo, ibidem, 2004, p. 4.

10 M. Ciardo, ibidem, 2004, p. 4.

11 A. Ferraro, op. cit, 2001, pp. 107-108.

12 M. Ciardo, op. cit., 2004, pp. 4-5.

13 G. Cosi, Frammenti di storia salentina tra ‘500 e ‘700, Alessano (Le), 2001, pp. 25-27.

14 M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Il Cinquecento, Tricase (Le), 2005, pp. 72-73. Nella stessa condizione si trovavano Alessano, Montesardo, Patù, Ruggiano e Gagliano. A Castrignano invece si parlava greco e latino.

15 G. Cosi, op. cit., 2001, pp. 25-27.

16 A. Caloro, F. De Paola, Alessano tra storia e storiografia. Tomo II. Le fonti documentarie, Trepuzzi (Le), 2013, pp. 87-88.

17 R. Fino, op.cit., p. 222.

18 I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di F. Ruppi, Lecce, 2010, p. 278.

19 A. Caloro, F. De Paola, op. cit., pp.250-281. Le relazioni del 1618 e del 1621 sono quasi identiche a quella del 1613

20 G. Cosi, op, cit., 2001, p.26, dai registri parrocchiali di Montesardo.

21 A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce, 1994, pp. 72 e 89.

22 G. Cosi, op, cit., 2001, p.27.

23 C. Daquino, Casali scomparsi nel Capo di Leuca, in Lu Lampiune, Anno XV – n.3, 1999, pp.126-127.

24 G. Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Bologna 1962, p. 206.

25 Ipotesi suggerita dall’amico Mauro Ciardo.

26 G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, 1885, p.22.

27 G. Cosi, op. cit., 2001, p. 26. I resti dell’edificio, ancora parzialmente visibili, si trovano a circa 200m a sud-ovest della masseria, consistono in conci di calcare tenero legati da bolo rosso. Nell’angolo posto a nord-ovest fino a pochi anni fa si potevano vedere due fosse granarie (purtroppo oggi ricoperte dai rifiuti e dalla solita inciviltà che caratterizza le nostre contrade).

Vigna la Croce

 

28 Il toponimo potrebbe derivare dalla Chiesa del Crocefisso. Il podere si trova 30m a ovest rispetto alla chiesa matrice. Anche qui si notano i miseri resti dell’antico edificio di culto. Secondo Rocco Fino (vedi: Il Capo di Leuca e dintorni tra realtà, storia e leggende, Galatina (Le), 2004, pp. 195-199.) negli anni ’80 del secolo scorso, il podere era denominato Ortu masciu (orto grande), al suo interno c’erano due cisterne (oggi solo una di esse è ancora visibile) mentre molte altre, secondo la testimonianza di un contadino locale, erano state interrate nel passato.

29 M. Ciardo, op. cit., 2004, p. 2.

30 P. Arthur, M. Leo Imperiale, M. Tinelli, Apigliano un villaggio bizantino e medioevale in Terra d’Otranto. I reperti, Galatina (Le), 2015, pp. 43-45 fig. 26.

31 G. Muci, Analisi quantitative per l’interpretazione delle dinamiche socioeconomiche in atto tra Medioevo ed Età Moderna nel basso Salento, in Atti del VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, vol.1, Lecce, 2015, pp. 67-70. Nella fig. 2 è riportata la carta del Salento diviso un rapporto all’attitudine dei suoli alla coltivazione del frumento; Valiano si trova nel pieno della zona S1: “terreni idonei alla classe colturale, che in condizioni ottimale garantiscono il massimo del raccolto“.

32 La centuratio del territorio salentino avvenne in due fasi distinte: una probabilmente in età graccana e una durante il regno di Vespasiano, il quale assegnò diverse terre ai veterani. Tracce della centuriazione romana sono ancora visibili in territorio di Alessano (vedi: D. Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di Alessano (I.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno academico 2005-2006, pp. 32-34).

33 P. Arthur, M. Leo Imperiale, G. Muci, Il Salento rurale nell’Alto Medioevo: territorio, insediamenti e cultura materiale, in Dinamiche insediative nelle campagne dell’Italia tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, Oxford, 2018, pp. 143-144.

34 P. Arthur, Verso un modellamento del paesaggio rurale dopo il mille nella Puglia meridionale, in Archeologia Medievale vol. XXXVII, 2010, pp. 218-219.

35 P. Arthur, ibidem, p. 218-221.

36 C. D. Poso, Il Salento normanno. Territorio, istituzioni, società, Galatina (Le), 1988, pp. 194-195. Lo stesso autore aggiunge che: “Dall’esame toponomastico e dai dati forniti dalla nostra documentazione appare subito evidente che un certo numero di nuovi insediamenti si formarono nel sito o in prossimità di antichi agglomerati rurali tardo-romani (villae) dei quali era rimasto il ricordo, come evidenzia l’abbondante toponomastica prediale romana ancora viva in età normanna; altri invece si svilupparono in corrispondenza di un centro religioso o di un luogo di culto (chiesa, cappella, monastero) che ha funzionato da polo di attrazione territoriale, come si desume dalla consistente diffusione di agiotoponimi accompagnati dalla determinazione geografica; altri infine appaiono in qualche modo legati alla vicinanza di grandi vie di comunicazione e devono al maggiore o minore uso di esse la loro nascita, il loro sviluppo, il loro abbandono e la loro rinascita. Dobbiamo tuttavia osservare che nel processo di creazione di nuovi villaggi non sempre queste tre tipologie di insediamento sono nettamente distinte tra di loro, anzi non è raro ritrovarle combinate insieme.” (C. D. Poso, op.cit., pp. 195-196). La prima e la terza tipologia insediativa appaiono combinate insieme, come ci attestano chiaramente i dati archeologici, nel sito di Valiano.

37 Una più ampia analisi delle dinamiche insediative che hanno caratterizzato il Salento nell’ultima parte del Medioevo si trova in: P. Arthur, op. cit., 2010, pp. 215-228; G. Muci, op. cit., 2015, pp. 65-70; P. Arthur, B. Bruno, G. Fiorentino, M. Leo Imperiale, G. Muci, M. R. Pasimeni, I. Petrosillo, M. Primavera, Crisi o resilienza nel Salento del Quattordicesimo secolo? in Archeologia Medievale, vol.XLIII, Firenze, 2016, pp. 41-55.

38 G. Cosi, Arigliano. Ricordi di un paese, Gagliano del Capo (Le), 2010, p. 26; per il confronto dei dati sulla demografia del Capo di Leuca M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 90).

cisterna scavata nel banco roccioso

“Acquaro” brindisino, da masseria a castello con attigua chiesa che è una meraviglia

di Michele Mainardi
Usciamo da Mesagne per la via  che porta alla stazione ferroviaria di San Vito dei Normanni, la provinciale “44”; non dobbiamo fare molta strada per arrivare alla masseria “Acquaro”, oggi ridenominata “Castello”, a motivo della profonda ristrutturazione attuata sul finire degli anni ’20 del Novecento.
Fu il comandante della Regia Marina Aslan Granafei – discendente dell’antica e nobile schiatta dei marchesi di Serranova, intestataria di vasti possedimenti in Terra d’Otranto – a dare una svolta imprenditoriale alla tenuta (seguendo in questo le orme del padre, Giuseppe), la cui storia ha radici ben piantate sin da quando un suo avo, Giacomo Antonio, acquistò l’organismo masseriale nel lontano 1571.
Non vogliamo addentrarci nelle specifiche vicende che portarono alla radicale conversione degli assetti agro-fondiari; né tanto meno intendiamo soffermarci sulla ridefinizione degli immobili in residenza castellata. Rimettiamo alla pubblicistica storica il compito di sviscerarne i dettagli, come quelli delle funzionali strutture per la trasformazione dei prodotti agricoli (nuove stalle, oleificio, locali per la lavorazione della foglia del tabacco, cantina vinicola e pozzi artesiani e altro ancora).
Per il fine circoscritto della nostra escursione, è sufficiente sapere che siamo di fronte a un riuscito esito di processo di miglioramento e di innovazione di terre e fabbricati,
conseguenza di pianificate azioni di bonifica. Possenti lavori hanno nel tempo portato al rifiorimento colturale dell’estesa proprietà, che oggi continua (con altro nome) a essere all’altezza del suo passato.
“Acquaro”, comunque, sollecita ulteriori riflessioni, che lasciamo agli storici del territorio dipanare: come il toponimo di per sé parlante (rinvia al guazzatoio per l’abbeveramento degli animali). D’altronde, gli studi ci dicono che nella contrada – avanti il sorgere della masseria, nei periodi del grande caldo, quando la siccità disseccava le erbe – il bestiame, specie il bovino (più esigente dell’ovino), dalle aree contermini veniva condotto a pasturare. Grazie al richiamo della refrigerante presenza della grande cisterna, solitaria nel campo – tra il folto della macchia – ivi confluivano gli armenti.
Abbiamo così assolto al dovere della contestualizzazione del luogo. Possiamo dunque procedere oltre: alla visita della cappella, dotata di una sontuosa aula liturgica, in linea con l’importanza del casato committente.
Anche per l’oratorio conviene rifarsi alle carte d’archivio che ce lo descrivono con dovizia di particolari. Ubicato a Levante, fuori del corpo della masseria, ben adorno di stucco, con le due porte  e i tre altari, ora, come forse meglio di prima, qualifica oltremodo il sito. Le are sono dedicate alla Vergine Santissima posta sotto il titolo di Costantinopoli (la centrale), a san Giuseppe suo casto sposo e al Crocifisso (le laterali).
La chiesa è stata restaurata in modo esemplare: già dal prospetto è evidente. Il verde curato la incastona tra le siepi e lo spicchio di cielo che ne esalta la figura: solida nella facciata, elegante nell’interno. Nulla è qui fuori posto: tra la navata e il coro è tutto uno splendore, di pavimento maiolicato e di pareti immacolate. Il bianco con cornici di decoro in giallo spicca e traluce. Vengono in tal modo a risaltare le targhe marmoree (sopra acquasantiera) che ricordano i lavori di riattamento voluti dai devoti proprietari: nel 1959 per iniziativa della duchessa di Bagnoli José Sanfelice Granafei; nel 1991 per volontà della subentrante famiglia Rosato.
Ogni elemento, ogni arredo liturgico (dalla carta gloria: “Initium Sancti Evangelii secundum Joannem” alla lampada votiva della mensa eucaristica), è messo in debita luce; ma più ancora si distingue, nell’angolo dell’entrata, il tavolino di metallo e marmo che accoglie la squilla (non più riparabile) del campanile, staccatasi a causa di un forte temporale abbattutosi nell’inverno del 2018. La si è voluta conservare per far memoria, per renderle giustizia. Essendo vecchia di 329 anni se lo merita: “Commissionata dalla famiglia Granafei nell’anno 1695 con i suoi rintocchi ha richiamato a sé nella Chiesetta di S. Maria di Costantinopoli i fedeli”. Per così tanto tempo che non si può far finta di niente.
Non si finisce di restare stupiti per la cura che si riversa nell’aula delicata: rose rosse e tappeto fine e sedie imbottite. E che dire poi della tela dell’abside? Una meraviglia del 1790, che vede la titolare, la Madre di Dio con il Bambino, trionfare in un mare di nubi inghirlandato da un tripudio di angioletti. Ai piedi della Madonna la città turrita è in preda alle fiamme, con il Turco che soccombe. C’è una vela in ormeggio: porterà in salvo gli assediati.
Conosceva bene l’iconografia costantinopolitana il bravo pittore a cui si affidarono i Granafei, signori di alto lignaggio e amanti delle Belle Arti.

Eugenio Guerrieri, il Galilei novolese

di Gilberto Spagnolo

Lo studioso Carlo Villani in «Scrittori e Artisti Pugliesi»1, a proposito del Novolese Ferruccio Guerrieri, dice testualmente: «Felice quel paese che può contare uomini simiglianti a Ferruccio Guerrieri, uomini cioè di maschio ingegno, di valore indiscusso, noncuranti dell’io, ma entusiasti ed orgogliosi del patrio lido e dei propri conterranei». Indubbiamente queste poche righe ci fanno capire che la storia del nostro paese è ricca di uomini che hanno dato un enorme contributo alla cultura non solo locale ma anche nazionale (l’affermazione del Villani ne è appunto testimonianza esemplare).

Di alcuni si hanno già esaurienti notizie, ma di altri si conosce poco o nulla e di altri ancora non se ne sospetta neppure l’esistenza. È il caso ad esempio di Eugenio Guerrieri, illustre astronomo che ha dedicato cinquant’anni della sua vita alla scienza presso l’Osservatorio astronomico di Capodimonte di Napoli, e che merita perciò al pari di altri e forse più, una citazione particolare nella storia della cultura novolese. Il Villani non ne parla nella sua opera; egli traccia infatti le biografie di Guerrieri Ferruccio e Giovanni Guerrieri2, due dei fratelli di Eugenio, e dà pochissime informazioni di «Francesco Guerrero» che altro non è quel Francesco Guerrieri3 nostro concittadino amico del Tasso e che il Villani invece dà come nato a Lecce.

Almanacco Regionale Bemporad “Le Puglie”, Firenze 1924. “L’astronomo”, immagine di copertina (coll. privata).

 

L’astronomo novolese non è citato nemmeno dal Ramondini in Novoli di Lecce4 e da M. De Marco in Storia di Novoli5 Queste brevi note su Eugenio Guerrieri6, nascono perciò dopo aver consultato un’Orazione Funebre recitata in sua memoria la sera del 18 Gennaio 1957 dopo i suoi funerali, dal Prof. Sac. Emanuele Ricciato sul sacrato della Chiesa Matrice di Novoli7. Dalle poche pagine non numerate che la compongono si apprende che egli nacque a Novoli il 24-7-1874 e morì a Napoli il 15-1-1957. Nacque da una delle più antiche famiglie di Novoli8 e precisamente dal Dott. Alessandro Guerrieri (chimico-farmacista) e da Lucilla Ruggio; fu il terzo di una fratellanza illustre composta – oltre che da lui – dal Prof. Giovanni, dal Prof. Ferruccio, dall’Avv. Luigi ed ebbe anche due sorelle: Aurora e Dolores. La loro casa era l’antica palazzina esistente ancora sulla piazza del Comune di Novoli, accanto alla Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo.

L’antica palazzina con il caratteristico balcone, dimora dei fratelli Guerrieri, esistente ancora accanto alla chiesa matrice di S. Andrea Apostolo in una cartolina d’epoca viaggiata il 27 ottobre del 1938 da Novoli a Napoli (coll. privata).

 

Si legge nell’Orazione: «Io li riveggo tutti, come li vedevo quando ero fanciullo, sorridenti, pieni di vita, ricchi di speranze, o affacciati al balcone della loro casa, o avanzarsi insieme verso un avvenire ricco di promesse, intorno al padre ed alla madre che si sentivano al colmo della felicità, perché coronati da figlioli così bravi, studiosi, belli, sorridenti di giovinezza, Giovanni il professore di Storia Patria nei Licei d’Italia, uno dei più forti cultori delle patrie memorie tenuto in gran conto in Italia ed all’estero per le sue pubblicazioni storiche riguardanti particolarmente la storia del nostro Salento; Ferruccio, anch’egli storico e letterato insigne, professore di Lettere Italiane e poi Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce, scrittore, maestro ed educatore impareggiabile, e che fu anche mio caro insegnante negli anni del Ginnasio; l’Avv. Luigi Giureconsulto insigne, onore e vanto del foro leccese; … ultimo superstite di questa famiglia rimaneva ancora Eugenio, il 3° della bella fratellanza, l’amico degli amici, l’esule volontario che, dedicatosi agli studi scientifici, era rimasto a Napoli».

Lettera autografa di Eugenio Guerrieri inviata il 4 febbraio 1901 all’Ing. Francesco Parlangeli.

 

Qui infatti Eugenio Guerrieri vinse per concorso la cattedra delle matematiche pure nei Licei e negli Istituti Tecnici e qui ottenne anche per concorso il posto di 1° Astronomo nell’osservatorio di Capodimonte dove (dice Emanuele Ricciato) «passava le giornate e le notti intere, chiuso nell’ufficio della torre, a contemplare le vie del firmamento, a vedere e studiare come l’antico Galilei il rotearsi dei mondi sotto l’etereo padiglione e il sole irradiargli immoto». Egli intatti studiava e notava gli astri brillanti sul meridiano di Napoli. Dalla moglie Olga ebbe i figli: Bianca, Lucilla, Marcello, Bruno.

Nel 1947, per raggiunti limiti di età, si ritirò dal lavoro attivo dell’osservatorio in un villino che si era acquistato nella ridente spiaggia di Bagnoli di Napoli dove morì il 15-1-1957. Numerosi sono i suoi studi sull’Astronomia. Il sac. Emanuele Ricciato nella sua orazione cita «i lavori eseguiti col grande Cerchio Meridiano dell’Osservatorio, adoperato da lui in modo veramente magistrale, i Due Cataloghi stellari che rappresentano delle vere colonne nella produzione scientifica dell’osservatorio e precisamente il Catalogo di 166 stelle a forte moto proprio ed il Catalogo di 750 stelle zenitali per Capodimonte9. Altri contributi riguardano la fotometria del Pianeta Eros del 1931».

Il Guerrieri s’interessò anche di Metereologia effettuando studi sul clima di Napoli e quello molto ampio relativo ai risultati dal 1926 al 1950.

Per avere comunque una maggiore stima dell’operato di Eugenio Guerrieri, basta tenere presente che presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce sono conservati e catalogati ben 69 studi astronomici pubblicati su diverse riviste scientifiche in diversi anni e precisamente a partire dal 1904 al 1951 (qui di seguito ne riportiamo – per ragioni di spazio – solo i titoli di stampa).

Eugenio Guerrieri fu dunque, come afferma Emanuele Ricciato «un concittadino che onorò col suo alto ingegno, con i suoi forti studi, con le sue pubblicazioni ponderose nel campo delle scienze astronomiche e matematiche come nel campo letterario, la nostra cittadina e la grande madre Italia, continuando ed innalzando ai più alti fastigi le tradizioni gloriose della sua antica e nobile famiglia, gareggiando nel sapere e nello splendore delle più nobili e sante virtù di cittadino, di cristiano, di professionista, di scrittore coi suoi nobili e grandi e indimenticabili fratelli».

 

ELENCO DELLE OPERE DI EUGENIO GUERRIERI CUSTODITE PRESSO LA BIBLIOTECA PROVINCIALE BERNARDINI DI LECCE

 

1)   A proposito di due straordinarie meteore luminose, Napoli 1929.

2)   Costante del fotometro a cuneo del R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli 1914.

3)   Sulla variazione di luce della NAVOIDERS. 3 dall’agosto al novembre 1933, Pavia 1934.

4)   La cometa di BROOKS, Napoli 1913.

5)   Posizione del pianeta (354) Eleonora durante l’opposizione del 1912, Napoli 1913.

6)   Eccezionali configurazioni planetarie ed il TRIGONO DEL FUOCO negli anni 1940-41, Napoli 1941.

7)   NOVA (18.1912) GEMINORUM 2 posizione media al 1912, Napoli 1913.

8)   Riassunto delle osservazioni metereologiche fatte nella R. Specola di Capodimonte nell’anno 1903, Napoli 1904.

9)   Riassunto delle osservazioni metereologiche fatte nella R. Specola di Capodimonte nell’anno 1904, Napoli 1905.

10) Sulla relazione tra l’escursione diurna della declinazione magnetica a Capodimonte e la frequenza delle macchie solari, Napoli 1905.

11) Curva di luce di MIRACETI durante gli anni 1912-13, Napoli 1913.

12) A proposito di una lettera di A. Von Humboldt ad A. De Gasp., Napoli 1933.

13) Eclisse solare parziale del 28 Marzo 1922. Influenza sulla declinazione magnetica a Capodimonte, Napoli 1922.

14) La persistente ondata di freddo a Napoli nell’inverno 1937-38, Napoli 1938.

15) I salti di vento a Capodimonte nel decennio 1905-1914, Napoli 1932.

16) Eclisse totale di sole del 29 Giugno 1927 parzialmente visibile a Napoli

17) Il nucleo cometario della PONS-WINNECKE e la parallasse solare, Napoli 1932.

18) Osservazioni eseguite nelle eclissi di luna totale del 14 Agosto 1924, parziale dell’8 febbraio 1925, Napoli 1925.

19) La sala meridiana del ROCHSOLD di Capodimonte e la temperatura del suo interno durante le osservazioni astronomiche, Napoli 1932.

20) Determinazione della differenza di longitudine Napoli-Greenwich con la Radiotelegrafia, Napoli 1924.

21) Tavole per il calcolo degli archi semidiurni, di 10 in 10 di declinazione, per la latitudine di Capodimonte (40.51.46, Napoli 1930).

22) La grande aurora boreale del 25-26 Gennaio 1938 – XVI Connessione tra aurore polari, macchie solari e perturbazioni elettro-magnetiche, Napoli 1938.

23) Sull’obbiettivo del cerchio meridiano di Repsold del R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte (s.n.t.).

24) Sul diametro e sullo schiacciamento polare di Marte, Napoli 1914.

25) Eclisse totale di Luna osservata a Napoli, Pavia 1909.

26) BARNABA-ORIANI e la fondazione della specola di Capodimonte dalla corrispondenza ORIANI-PIAZZI

27) Sulla connessione tra elettricità atmosferica (temporali e grandine) e statistica delle macchie solari (1866-1928), Napoli 1932.

28) L’anormalità delle due ultime estati del 1930 e del 1931, Napoli 1932.

29) I santi di ghiaccio a Capodimonte, Napoli 1930

30) Pregiudizi metereologici. Le pioggie del 4 aprile, del 2 e dell’8 Giugno, Napoli 1930.

31) Il freddo straordinario dell’inverno 1928-1929, Napoli 1930.

32) Intensi e prolungati calori estivi dell’anno 1928, Napoli 1929.

33) Andamento della declinazione magnetica a Capodimonte durante l’eclisse solare del 29 Giugno 1927, Napoli 1927.

34) Perturbazione del magnete di declinazione di Capodimonte durante l’eclisse solare del 24 Gennaio 1925, Roma (senza data).

35) Due illustri scienziati pugliesi contemporanei, Napoli 1942.

36) Climatologia dell’Antartide, Napoli 1940.

37) Il PLANETARIUM ZEISS o TEATRO DEGLI ASTRI, Napoli 1928.

38) Cometa di METCAFF (1910 C.), Pavia 1911.

39) Passaggio del pianeta Mercurio sul disco solare osservato nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte il 14 Novembre 1907, Napoli 1911.

40) STELLA NOVA LACERTAE 137.1910 di ESPIN, osservata a Napoli; posizione media al 1911, Napoli 1911.

41) Lo stato attuale dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte ed il lavoro internazionale della variazione della latitudine, Napoli 1936.

42) Eclisse totale di Luna osservata a Napoli il 7-8 NOVEMBRE 1938 – XVII, Napoli 1939.

43) Eclisse totale di luna del 26 settembre 1931 Osservata nel R. Osservatorio di Capodimonte (s.n.t,).

44) Cometa di FAYE (1910), Pavia 1911.

45) Il nuovo pianeta INTERAMMIA (1910 KU), Pavia 1911.

46) La grande cometa (19l0 a), Pavia 1910.

47) Cometa di Kiess (1911 C), 1912 (senza luogo di stampa).

48) Saggio di determinazione della estinzione atmosferica per Capodimonte, Napoli 1913.

49) Posizione della cometa 1905 – VI (1906 a) di BROOKS e della cometa 1907 di DANIELL, Pavia 1908.

50) Contatti di emersione di Mercurio dal disco solare nel passaggio del 7 Maggio 1924 parzialmente visibile a Napoli, Napoli 1924.

51) Il pianeta PALLADE (2) osservato al cerchio meridiano di RENCHENBACH durante l’opposizione dell’anno 1906.

52) Eclisse di Luna totale dell’8 Gennaio 1936 osservata nel R. Osservatorio di Capodimonte, Napoli 1936.

53) Eclisse di Luna del 14 Settembre 1932 osservata a Capodimonte, Pavia 1938.

54) Sulla relazione tra l’escursione diurna della declinazione magnetica a Capodimonte e la frequenza delle macchie solari, 1905 (senza luogo di stampa).

55) Statistica delle macchie solari isolate ed in gruppi osservate durante l’anno 1908 nel Reale Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Torino 1909.

56) Francesco DENZA, Napoli 1935.

57) Posizioni meridiane del pianeta Marte durante l’opposizione dell’anno 1909 ottenute nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli 1910.

58) Su alcune anomalie del clima di Napoli durante gli anni 1904-1905, Torino 1908.

59) Catalogo di 166 stelle a forte moto proprio da osservazioni meridiane al cerchio di REPSOLD (Recensione di GABBAL su quest’opera del Guerrieri in «Memorie della società astronomica Italiana» – Vol. XIII-I).

60) Recentissimo bolide rimarchevole osservato a Capodimonte il 3 Ottobre 1934 – XII da E. Guerrieri, Napoli 1934.

61) Anomalie climatologiche osservate a Napoli tra il 1948 ed il 1950, Napoli 1951.

62) Rovesci e massima intensità di pioggia oraria, diurna, mensile, stagionale, caduta a Capodimonte nei periodi (1888-1933) (1866-1933), Roma 1935.

63) Memorie del R. Osservatorio di Capodimonte di Napoli. Fotometria del pianeta EROS (433) dal gennaio all’aprile 1931, Napoli 1932.

64) Osservazioni del passaggio di Mercurio sul disco solare del 7 Novembre 1914 nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte (s.n.t.).

65) Sulla curva di luce e sulla variazione dei periodi Y CYGNI, Catania 1914.

66) Sulla variazione di luce della Nova (18, 1912) GEMINORUM 2, Catania 1913.

67) Periodicità nell’andamento progressivo della pioggia a Capodimonte 1833-1931, Roma 1932.

68) L’estate ultra-precoce ed altre peculiari caratteristiche della temperatura dell’aria a Napoli nell’anno 1920, Torino 1921.

69) Stella NOVA HERCULIS (1934), Napoli 1937.

Eugenio Guerrieri, Posizione Meridiane del pianeta Marte durante l’esposizione dell’anno 1909 (copertina del testo a stampa, coll. privata, con dedica autografa all’ing. Francesco Parlangeli).

 

Eugenio Guerrieri, Posizioni meridiane del pianeta Marte ecc., alcune delle tavole di “os-servazione”.

 

Eugenio Guerrieri, Catalogo di 166 stelle a forte moto proprio da osservazioni meridiane al cerchio di Repsold, Atti della R. Accademia delle scienze, Napoli 1940 (coll. privata). Studio monumentale.

 

Eugenio Guerrieri, Statistica delle macchie solari isolate e in gruppi osservate durante l’anno 1908 (copertina del testo a stampa con dedica autografa all’ing. Francesco Parlangeli, coll. privata).

 

Eugenio Guerrieri, Statistica delle macchie solari isolate e in gruppi osservate durante l’anno 1909 (copertina del testo a stampa con dedica autografa all’ing. Francesco Parlangeli).

 

Eugenio Guerrieri, La grande cometa (1910A), Torino 1910 (copertina del testo a stampa, con dedica autografa all’ing. Francesco Parlangeli, coll. privata).

 

Eugenio Guerrieri, V. Nobile, F. Contarino, Osservazioni astronomiche, magnetiche e meteorologiche del 1905, Napoli 1906 (copertina del testo a stampa, coll. privata).

 

 

In “Spazio C.R.S.E.C.”, n. 1, Tip. Rizzo, Novoli giugno 1984, pp. 29-38 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 337-343, Novoli 2024.

 

 Note

1 C. Villani, Scrittori e Artisti Pugliesi moderni e contemporanei, V. Vecchi Tipografo Editore, Trani 1904, pp. 462-65.

2 Ferruccio Francesco Guerrieri nato a Novoli il 3-11-1872, morto il 19-12-1934, storico e letterato, è autore di numerosi e importanti studi quali: L’Abbate Severino Boccia, Grammatico e lessicografo pugliese del XVII sec. (Cerignola Scienza e Dialetto, 1899); Possedimenti temporali e spirituali dei Benedettini di Cava nelle Puglie. Notizie storiche ricavate da documenti della Badia Cavense (Secolo XI-XVII) Parte I: Terra D’Otranto (Contributo alla storia del Monachismo in Terra d’Otranto, Vecchi, Trani 1900 (Vedi: P. Sorrenti, Repertorio Bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Arti Grafiche Savarese, Bari 1976, p. 301; Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, I volume, Pajano Editore, Galatina 1957, p. 229).

Copertina di un’edizione dell’opera di Platone “Il Critone”, postillata e appartenuta a Francesco Ferruccio Guerrieri (firma di appartenenza anche all’interno datata Firenze 1894-91, coll. privata).

 

Giovanni Guerrieri è autore di numerosi studi in materia di storia patria. Citiamo tra questi: Il Conte Normanno R. Siniscalco e i monasteri cavesi in Terra d’Otranto (Napoli 1895); Gualtieri di Brienne, Duca d’Atene e Conte di Lecce, Contributo alla storia del feudalesimo in Terra d’Otranto (studio con documenti inediti del grande archivio di Napoli (Pietro e Verardi, Napoli 1896); I conti Normanni di Lecce nel secolo XII (Pietro e Verardi, Napoli 1900); La Terra d’Otranto nel 1734 (Vecchi, Trani 1901); Le relazioni tra Venezia e Terra d’Otranto fino al 1530 (Contributo alla storia delle coste dell’Adriatico) (Vecchi, Trani 1903); Un diploma di Goffredo I, Conte di Lecce (Lecce 1896); La fondazione e le vicende del Monte di Lecce (Vecchi, Trani 1900); Gli Ebrei a Brindisi e a Lecce 1409-1497. Contributo alla storia dell’usura nell’Italia Meridionale (Torino 1900); Lecce nel 1700 (Lecce 1901); I Cavalieri Templari nel Regno di Sicilia (Vecchi, Trani 1909). (Vedi P. Sorrenti, op. cit., p. 301, C. Villani e Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, opere citate, rispettivamente p. 164 e p. 229).

Discorso commemorativo dell’avv. Giuseppe Rossi nella tornata della Brigata degli amici dei monumenti in Terra d’Otranto del 14 febbraio 1918, per la morte di Giovanni Guerrieri (con dedica autografa a Pasquale Maggiulli di Muro Leccese, coll. privata).

 

Giovanni Guerrieri, I cavalieri templari nel regno di Sicilia, Ditta Tipografica Editrice Vecchi, Trani 1909 (coll. privata).

 

3 Francesco Guerrieri, vissuto alla fine del ’500 – inizi del ’600, è senza dubbio uno dei più illustri e complessi personaggi della cultura novolese. Amico di Torquato Tasso e di tanti famosi intellettuali del tempo, nonché pupillo di S. Bernardino Realino capo dei Gesuiti che vennero a Lecce nel 1574 e a cui egli stesso si unì con grande entusiasmo. A Novoli i Gesuiti fondarono infatti due Confraternite Religiose intitolate l’una al nome SS.mo di Gesù nella chiesa di S. Antonio e l’altra all’Immacolata (Cfr. Ricordi di Storia Novolese, dalle Memorie di Romeo Franchini, Il Pozzo del Signore, in “Bollettino parrocchiale La Voce del Pastore”, Anno XX Ottobre-Novembre 1977, pp. 4-5 e soprattutto G. Barella, La Compagnia dei Gesuiti nelle Puglie, Tip. Editrice Salentina, Lecce 1914, p. 78, testo da cui Romeo Franchini trasse le notizie riportate sul bollettino). Egli inoltre fu grande amico di Alessandro Mattei (1584-1634), Signore di Novoli, umanista e mecenate coltissimo a cui va indubbiamente il merito di aver dato inizio a Novoli a un’incessante fiorire di studi e ricerche in ogni campo. Dopo la sua morte e quella del Guerrieri infatti, ci saranno – per citarne alcuni – i vari Benedetto Mazzotta, Nicola Mazzotta, Scipione Carignano, Pasquale Francioso e tanti altri (Cfr. E. Aar, Gli studi storici in Terra d’Otranto, Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., Firenze 1888, pp. 14-16; Asterischi di Storia Novolese dalle Memorie di Romeo Franchini, in “Bollettino Parrocchiale La Voce del Pastore”, Anno XVIII Marzo-Aprile 1975, pp. 7-8 e G. Spagnolo, Enzo Maria Ramondini, in “Sant’Antoni e L’Artieri”, Numero Unico Anno VII, 17 Gennaio 83, p. 83).

F. Ferruccio Guerrieri, La penisola salentina in un testo arabo di geografia medioevale, Sta-bilimento Tipografico Giurdignano, Lecce 1903 (coll. privata).

 

4 Novoli di Lecce, a cura del Gruppo di Studi Alessandro Mattei coordinato e diretto da Enzo Maria Ramondini, supplemento al n. 351 del notiziario quotidiano dell’Agenzia di Stampa «ESSE 3», Tip. Rizzo Antonio, Novoli 1977.

5 M. De Marco, Storia di Novoli, Edizioni Dimensione 80, Roma.

6 Di Eugenio Guerrieri, in Repertorio Bibliografico degli scrittori contemporanei opera già citata, si legge: «Astronomo nato a Novoli nel 1874, morto intorno al 1950. Opere: Riassunto delle Osservazioni Metereologiche fatte nella R. Specola di Capodimonte nell’anno 1903; Sulla relazione tra l’escursione diurna della declinazione magnetica a Capodimonte e la frequenza delle macchie solari». Poche note le si leggono anche in Nuovo Annuario di Terra d’Otranto op. citata p. 229, «Nato a Novoli nel sec. XIX. Fisico, matematico, astronomo. Insegnante a Napoli e Direttore dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte. Le sue oservazioni climatiche, astronomiche, geofisiche, pubblicate su riviste scentifiche di alto livello culturale hanno dato un notevole contributo allo studio di dette scienze».

7 L’orazione è custodita presso l’Università agli studi di Lecce. Fa parte di una miscellanea contrassegnata dalla sigla MISC. I L. 5/23 recante all’interno anche la fotografia dell’estinto a firma di un fotografo di Maglie non identificato.

8 E. Ramondini, Antiche famiglie di Novoli, in “Paise Miu”, N. 2 Dicembre 1977, a cura del Gruppo Teatrale Novolese La Focara, Tip. Rizzo, Novoli, pp. 6-8.

9 Il catalogo di 166 stelle a forte moto proprio da osservazioni meridiane al Cerchio di Respold, G. Genovese, Napoli 1940-87 (atti della reale accademia delle scienze fisiche e matematiche V. I ser. 3 n. 5 figura nel «LIBRARY OF CONGRESS AND NATIONAL UNION CATALOG AUTHOR LISTS» 1982-1962, p. 121 – A master cumulation 59 – GS – HAE – compiled by the editorial staff of the gale research company book Tower – Detroit – Michigan 48226 – 1969.

Il documento autografo pubblicato tra le illustrazioni, è la testimonianza di una amichevole corrispondenza di Eugenio Guerrieri con un altro illustre nostro concittadino e cioè Francesco Parlangeli. Nato a Novoli il 12 Agosto 1863 e morto a Novoli (a 53 anni) il 14 Novembre 1916, fu valentissimo ingegnere (lo divenne a soli 23 anni), professionista valoroso e colto, consigliere provinciale di Terra d’Otranto dopo la morte di Gaetano Brunetti a cui era legato da profonda amicizia, largamente stimato e apprezzato non solo da tutti i suoi concittadini ma da quanti lo conoscevano in provincia. Le sue opere sono disseminate ovunque; egli infatti fu l’ingegnere di fiducia non solo del nostro Municipio ma di numerosi altri comuni. Novoli comunque lo ricorda in particolare per la realizzazione del tronco ferroviario Lecce-Francavilla con diramazione Novoli-Nardò e la cui inaugurazione avvenne il 26 Maggio 1906 (Cfr. F. Sebaste, La ferrovia giunge a Novoli, in “Sant’Antoni e L’Artieri”, numero unico edito a cura dell’associazione Artigiani di Novoli, Anno IV, 17 Gennaio 1980, p. 3). Il documento porta la data «Napoli 4 Febbraio 1901». In esso si legge testualmente: «Carissimo Ciccio, la declinazione magnetica a Napoli e di 9°9° 5’ occidentale, secondo i risultati e gli ultimi calcoli fatti, e con una variazione annua di 5-6. Disponi sempre di me, essendo molto contento di sbrigarti qualunque cosa ti potesse occorrere. Ricevi intanto tanti affettuosi saluti insieme con tutti i tuoi dal tuo aff.mo Eugenio».

Ringrazio l’amico Mario Rossi che mi ha gentilmente fornito il suddetto documento.

Lavorare alla vigna della masseria “Calizzi” di Filippo De Raho

Un contratto agrario del 1889: 28 contadini di Novoli sottoscrivono di fronte al notaio Tommaso Russo un patto per campare la vita

 

di Michele Mainardi

Rovistando tra gli atti notarili è emerso un documento di concessione a titolo di fitto di una porzione della vasta possessione del nobiluomo Filippo De Raho denominata “Calizzi”. L’istrumento è del 6 gennaio 1889. Di fronte al notaio Tommaso Russo di Novoli, rogante nel suo studio sito nella strada detta del Pendino, si costituirono il proprietario della tenuta e 28 contadini, tutti domiciliati nel comune di sant’Antonio abate. Dall’esame della scrittura emerge uno spaccato interessante del processo di trasformazione fondiaria della campagna al tempo degli investimenti per la messa a profitto di terre spente, stante l’incolto pascolativo. dominante. Di pari passo vien fuori la tipologia dei patti agrari allora in essere, la cui bilancia pendeva dalla parte padronale.

Filippo de Raho

 

L’esempio sul quale vogliamo intrattenerci pone in luce le dinamiche proprietarie dell’innovazione in agricoltura, messe in pratica da avveduti imprenditori salentini negli ultimi decenni dell’Ottocento: un periodo che vide scommettere diversi esponenti di agiate famiglie aristocratiche sulla carta promettente della viticoltura.

I nostrani e corposi vini da taglio erano assai richiesti dal mercato dell’Alta Italia. Cominciava a irrobustirsi il flusso delle esportazioni. Partivano dalle stazioni ferroviarie (e da Novoli in particolare) vagonate di negroamaro e malvasia nera dirette a Milano e nel Triveneto. Prima che l’attacco della fillossera facesse i suoi danni, conveniva eccome metter soldi sugli impianti di vigneti.

Il barone De Raho capì presto che bisognava darsi da fare per appieno valorizzare la sua proprietà, distendentesi proprio sul confine del feudo di Lecce con quello di Novoli per ben 107 ettari, 74 are e 79 centiare. La misura ce la dà la legenda della planimetria dell’ingegnere Enrico De Cataldis, che non manca di riportare il dato espresso nella metrologia ante Regno d’Italia: 171 tomola locali e stoppelli.

prospetto della masseria Calizzi

 

Nell’arco temporale di un quindicennio, l’agrario portò a compimento il frazionamento dei terreni della masseria “Calizzi”: tra il 1885 e il 1899.

Venendo al nostro atto notarile emerge chiaramente l’intento di voler approfondire la piantagione già dispiegatasi nelle ritagliate quote “Calcara”, “Serra” e “Canale”. Nella zona detta “Vigneto del Pozzo” (confinante con la via Laparo) si assegnarono agli affittuari le rispettive porzioni da dissodare e mettere a frutto. Al folto drappello di coloni miglioratari, costituitisi per accettare la proposta contrattuale, venne spiegato punto per punto l’insieme delle clausole cui ci si doveva rigidamente attenere, pena l’annullamento immediato del patto avente valore legale. La durata dell’affitto era tale da legare al proprietario i contadini per un lungo periodo di tempo: 21 anni di filata, che sarebbero cominciati a decorrere dal 1° settembre 1889 per terminare il 31 ottobre 1910.

La superficie spezzettata in 16 quote uguali di ettari 1, are 25 e centiare 98 (equivalenti a due tomola della vecchia misura) era delimitata, in un primo lato, dalla strada pubblica che dal Convento mena a Trepuzzi e, in un secondo, dal vigneto del signor Federico De Nucci; per i restanti segmenti confinava coi terreni sativi della stessa masseria “Calizzi” e col vigneto dato a mezzadria a foresi di Arnesano e Monteroni.

Planimetria tenuta Calizzi

 

Stabilita la divisione, i fittaioli (alcuni accettanti in coppia) dovettero tenere bene in mente i termini di quanto sottoscrissero (con croce o con malferma firma). L’annuo estaglio venne stabilito in ragione di lire 25 e centesimi 50 a tomola per il primo quadriennio della fittanza; aumentava a lire 34 per i successivi 17 anni. La moneta del pagamento non poteva essere di bronzo.

Per quanto riguardava le modalità operative del lavoro, il De Raho impose precise disposizioni: la piantagione delle viti andava fatta a regola d’arte, e cioè rispettando la distanza di non meno di 1 metro e 32 centimetri (pari a 5 palmi) tra un trancio e l’altro, e con filari affiancati a rettifilo.

A ogni affittuario veniva richiesta la diligenza propria del buon padre di famiglia: non si dovevano seminare cereali nella vigna; solo per gli iniziali quattro anni erano permesse le piante leguminose (escluse i ceci). L’orzo “a pizzico” lo si poteva coltivare per il secondo e il terzo anno, facendo attenzione a che le viti non ne soffrissero. A partire dalla quinta stagione sino alla sedicesima, fra un ceppo e l’altro, veniva consentito lo spargere dei semi di fave o di piselli (ma senza esagerare).

Se la pota delle viti non fosse stata praticata come dovuto, il proprietario la faceva regolarizzare da persona perita di sua fiducia: a spese dei coloni.

Fu stabilito che il portamento delle piante non doveva essere diverso dalle “due sole braccie, e senza potersi lasciare a nessuna di esse la catena, o pure la così detta spinola, ed altro che sia di troppa fatica alle viti, e ciò per i primi sette anni”.

Ad avvio dei lavori di impianto occorreva che i fittuari raccogliessero le pietre del campo per poi trasportarle sullo stradone di mezzo della tenuta. Gli alzati muretti a secco di confine li avrebbero dovuti preservare.

Ai conduttori dei fondi venne espressamente proibito di far entrare nella vigna animali di qualunque natura: il pascolo era ovviamente aborrito.

Al fine di associare alla vite l’olivo (senza creare ostacolo alla produzione primaria) si impose ai coloni di impiantare – mettendo a loro conto, nelle rispettive quote – 34 mazzarelle per tomolo. Ogni fossa preparatoria per la messa a dimora della pianticella bisognava che fosse esaminata dal De Raho: egli ne controllava la giusta profondità e la relativa distanza intercorrente tra ognuna di esse, Non erano ammessi errori di sorta nello scavo.

Arrivato per l’olivo il tempo della rimonda, questa “dovrà farsi a cura e spese di essi coloni fittajoli, a piena ed intera soddisfazione del proprietario”.

Ai contraenti del patto agrario correva l’obbligo di dare – a titolo di prestazione – annualmente al concedente cinque chilogrammi di uva di buona qualità per ogni tomolo lavorato, portando la cesta nella casa del padrone, a Lecce.

Andava avanti con stringenti clausole la scrittura notarile, senza nulla tralasciare in merito alle varie ed eventuali. Venne concessa la dilazione di un anno per l’incasso dell’estaglio in caso di sofferenza per la perdita del frutto causa grandine.

Allo scadere dei 21 anni di vigenza contrattuale i viticoltori avrebbero dovuto non mancare ai propri doveri: consegnare la vigna in ordine. Nessuna mancanza di viti era tollerata. Filippo De Raho si sarebbe ripreso tutte le quote date in fitto ai 28 foresi di Novoli, “senza che potessero eccepire dritto di sorta per indennizzo delle migliorie fatte”.

Ci fu qualcuno che, spaventato per i pesanti oneri a carico, si tirò indietro al momento della sottoscrizione dell’atto. Si allontanarono dal tavolo del notaio Francesco De Pascalis fu Pietro e Marino De Lorenzo fu Giuseppe. In loro vece sùbito si presentò il contadino Domenico Parlangeli fu Francesco. Pare che stesse aspettando, in fondo alla sala: chissà, un compaesano avrebbe potuto far marcia indietro… A lui di certo non spaventava l’impresa vignaiola alla tenuta “Calizzi”, che presto diventò un modello di azienda vitivinicola dotata di innovativi mezzi meccanici mossi a vapore, prodotti dalla premiata Società Anonima del cavalier Giuseppe Garolla di Limena (Padova), un geniale inventore: una garanzia in fatto di macchinari per la lavorazione dell’uva e il trattamento del vino.

macchina del Premiato Stabilimento Meccanico Cav. Giuseppe Garolla di Limena (Padova)

Quel triste 20 agosto 1647 a Nardò. Per non dimenticare mai

20 agosto
Furono archibugiati il 20 agosto 1647 alle odierne ore 15 (anticamente ore 19) in località “Ranfa”, in un canneto dietro la chiesa dei Paolotti, ove oggi vi è Via Umberto Maddalena. Dopo archibugiati gli furono tagliate le teste. “…detti preti non mancarono, da che uscirono dal Castello, dove stavano carcerati, in sino all’ ora della morte salmeggiare e dire diverse divozioni, dandosi animo uno con l’ altro, e dicendo di continuo Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, nec statuas illis hoc peccatum, tra li quali D. Francesco Maria Gaballone, non cessò mai di dire Conceptio Tua Dei Genitrix Virgo gaudium annuntiavit Universo Mundo, ed essendo quasi morti si sentivano flebilmente dire delle parole. Questo fatto fu ad ora circa nove… Nell’ istessa notte fu ammazzato il barone Pietro Antonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo di anni novantasette; morto che fu l’ appesero per piedi alle furche in mezzo alla piazza e le teste delli preti le misero sopra il Seggio e gli corpi distesi a terra nella Piazza, attorno allle furche…”

(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto I”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce. I fatti sono tratti da un manoscritto di G.B. Biscozzi che, secondo quanto sostiene il De Simone, si conserva in casa degli eredi del Not. Francesco Bona).

“…circa le ore 20 de’ venti agosto fece appiccare ad un palo per piede sotto dell’ orologio il detto Baroncello Sambiasi, e circa le ore 23 del detto giorno fece archibugiare nella strada detta Ranfa l’ abbate Donantonio Roccamora, l’ abbate Giancarlo Colucci, l’ abbate Gianfilippo de Nuccio, don Francesco Maria e chierico Giandomenico Gaballone, alli cadaveri de’ quali erano rimasti insepolti, fu data sepoltura a ventidue del detto mese. Assisteva all’ infelici da Confalone l’ abbate Benedetto Trono; il quale quando vidde che stava per essere archibugiato l’ ultimo de’ suddetti preti, che fu l’ abbate Roccamora, alzò le voci al cielo, e piangenndo disse: Signore lava da questa terra tanto sangue innocente e sacro, e ciò dicendo, stando il cielo sereno, subito cominciò a piovere, e piovve solamente per detta sola strada di Ranfa. Avuta la notizia il Conte della morte de’ detti preti, e del Baroncello, e fatto certo del miracolo occorso con detta pioggia, fece arrestare l’ abbate

Benedetto Trono, e col medesimo fu carcerato D. Filippo de Nuccio, che d’ ordine del Conte fu legato nudo ad un palo dentro il giardino del detto Casino, esposto alli cocentissimi raggi del sole, unto di mele alle morsicature delle mosche e vespe, e da un soldato gli venivano tirati ad uno ad uno i peli della barba che portava lunga, per essere un Prete di Santa Vita, e perciò detto volgarmente il Prete peloso. All’ abbate Benedetto Trono vari e molti furono li tormenti che li si dettero sotto de’ quali a 28 agosto se ne morì.
L’ anzidetto abbate Gian Filippo de Nuccio che fu archibuggiato era fratello cugino al mentovato D. Filippo che morì esposto al sole, e questo era stato lo scrittore del detto memoriale.

L’ abbate Trono non aveva altro delitto che d’essersi concertato e scritto in casa sua lo detto memoriale. Corsero la medesima fortuna due fratelli Sacerdoti di famiglia Pomponio per aver pigliato le difese dell’ abate Trono. Il solo bombardiere fiammingo fuggì la morte, giacchè nel suo esame disse che con arte avea fatto fallire il colpo, e ne fece le pruove; poichè posto nel medesimo luogo ove stava il Conte quando il tirò la bombarda ad un uomo di paglia con in capo la berretta del Conte, il fiammingo tirò dove avea tirato la prima, e gli fe’ volare da testa la barretta; indi li tirò nel petto, li riuscì felicemente e tirata la terza volta, con la prevenzione, che dovea colpirlo in fronte, li riuscì con molta ammirazione de’ circostanti. Allora il Conte li donò la vita, lo regalò, e lo tenne sempre presso di sè, e lo casò in Nardò…”

(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto II”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce).

 

L’olocausto di Nardò. Un tributo doveroso ai suoi Martiri, a 375 anni dalla loro tragica fine – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

20 agosto 1647. L’olocausto di Nardò (seconda parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

20 agosto 1647. Per non dimenticare mai – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Un’allucinazione collettiva ed individuale legata alla rivolta di Nardò del 1647? – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

376 anni dopo l’eccidio dei martiri di quel 20 agosto 1647. Per non dimenticare mai – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Un salentino promotore del passaggio delle scuole primarie allo Stato

di Rocco Severino De Micheli

Domenico De Donatis

 

Il signore in foto è l’avv. Domenico De Donatis (1868-1937), sindaco di Casarano dal 1909 al 1913, poi Commissario Prefettizio e Podestà nel biennio 1933-1934.
Egli a poco tempo dall’insediamento si fece promotore di un’iniziativa nel campo scolastico che ebbe una vasta eco a livello nazionale.

All’inizio del secolo XX, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, la questione scolastica aveva assunto toni molto drammatici. La scolarizzazione per le classi meno abbienti era ancora affidata ai Comuni, mentre per i pochi che se lo potevano permettere, si ricorreva a insegnanti privati, a convitti o a enti religiosi.

Per tutto ciò vi era un altissimo tasso di analfabetismo:

  • Nel 1911 42,80% per i maschi, 50,50% per le femmine, totale 46,65%

 Chi era per l’avocazione faceva leva, soprattutto, sulla incapacità dei Comuni di gestire l’amministrazione scolastica e di non avere le risorse necessarie per costruire edifici scolastici, per pagare gli insegnanti e garantire agli alunni un livello di istruzione adeguato ai tempi, ma anche sulla convinzione che si sarebbe raggiunta una laicizzazione dell’istruzione.

Una classe casaranese nel 1910

 

Ovviamente l’impulso per la sensibilizzazione a mettere in atto un progetto di riforma dell’arretrata condizione della scuola, benché se ne parlasse già da qualche anno, non poteva che venire dal meridione, che già pagava dazio per quel gap socio-economico che esisteva nei confronti del settentrione, anch’esso comunque sofferente, pur se in misura minore.

Il terreno era quasi fertile affinché maturasse quel movimento di opinione per invertire la rotta, tant’è che, nel gennaio del 1910, un illuminato proprietario meridionale,  Domenico De Donatis, sindaco di Casarano, inviò al presidente del Consiglio dei Ministri, Sidney Sonnino (liberale e meridionalista), una petizione in cui invocava l’immediata e totale avocazione della scuola elementare allo Stato, perché convinto che sotto l’aspetto formativo le cose sarebbero andate meglio, mentre, dal lato finanziario, sarebbe cessato l’enorme peso degli oneri collegati all’istruzione (mise in evidenza che  il Comune di Casarano, con un bilancio di lire 90.000, comprese le partite di giro, sopportava l’esosa spesa di lire 23.000 soltanto per le scuole).

La stessa lettera fu inviata a tutti i sindaci del meridione che, in gran parte, la fecero propria e si attivarono con propri atti deliberativi, ormai esausti per gli oneri sostenuti.

Successivamente, aderirono all’iniziativa anche alcuni sindaci del settentrione.

La pietra nello stagno era stata lanciata!

Il 4 giugno dell’anno successivo, sotto il governo Giolitti, fu emanata la legge n. 487/1911, detta Daneo-Credaro, provvedimento cardine in materia di politica scolastica che riordinò le competenze didattiche e formulò anche un piano di sviluppo per l’edilizia scolastica.

L’amministrazione delle scuole elementari e popolari di tutti i comuni, con esclusione dei capoluoghi di Provincia e di Circondario, passò alle dirette dipendenze del Consiglio Scolastico Provinciale.

Tuttavia, per i primi, era possibile un’amministrazione autonoma solo quando lo avessero richiesto e fossero stati in grado di documentare di aver applicato con profitto le norme regolamentari da oltre cinque anni e di non avere un tasso di analfabetismo superiore al 25%; i secondi potevano rinunciare all’amministrazione diretta e autonoma che la legge consentiva loro, ma dovevano fare esplicita richiesta di passaggio a quella demandata al Consiglio Scolastico Provinciale. (GU n.142 del 17-06-1911)

Gradualmente si procedette all’attuazione della predetta legge e, per la nostra provincia, fu emanato il Regio Decreto del 29 marzo 1914, n. 956, col quale l’amministrazione delle scuole elementari e popolari di 98 Comuni della provincia di Lecce (all’epoca erano compresi diversi comuni delle attuali provincie di Taranto e Brindisi) fu affidata al Consiglio scolastico medesimo.

ritaglio de La Provincia di Lecce del 1914 che ne riportò la notizia

 

Col passare degli anni tutti i comuni italiani passarono definitivamente all’amministrazione statale, per le predette competenze. (GU n.222 del 16-09-1914)

L’articolo 1 del citato Regio Decreto recitava:

“L’amministrazione delle scuole elementari e popolari dei comuni della provincia di Lecce, indicati nello elenco annesso al presente decreto e firmato, d’ordine Nostro, dai ministri della pubblica istruzione e del tesoro, è affidata al Consiglio scolastico della stessa Provincia a tutti gli effetti della legge 4 giugno 1911, n. 487; e dei regolamenti pubblicati per l’applicazione della stessa legge, a cominciare dal 1° ottobre 1914.”

Dopo 10 anni dalla riforma qualcosa migliorò per quanto riguardava il tasso di analfabetismo:

  • Nel 1921 33,40% per i maschi, 38,30% per le femmine, totale 35,85%

E altri miglioramenti si ottennero sotto l’aspetto finanziario dei Comuni che ebbero maggiore respiro nel districarsi nel difficilissimo compito di far quadrare i conti

Il resto è storia nota.

 

L’arte di costruire nel Salento. Come si realizzavano muri e murature

di Mario Colomba

 

Escludendo il caso di roccia  (calcarenite) affiorante,  che si rinviene all’esterno dell’area del centro urbano, la muratura in fondazione veniva realizzata all’interno di scavi eseguiti a mano,  di larghezza pari allo spessore del muro da realizzare, nel terreno di riporto o vegetale, , estesi fino alla profondità del piano di sedime generalmente costituito da argilla sabbiosa con trovanti calcarei (lu critazzu o lu grugnu). Fino alla profondità di circa m. 1,50, lo scavo veniva eseguito con l’uso del piccone con cui veniva smosso il terreno compatto a strati successivi  dello  spessore di circa 15 o 20 cm.. Il materiale smosso veniva successivamente paleggiato oltre il bordo dello scavo ad una distanza inversamente proporzionale alla profondità della trincea. La portanza dello strato che costituiva il piano di sedime  era verificata dall’esperienza personale e dalle conoscenze  accumulate nello scavo di innumerevoli pozzi sia all’interno che all’esterno ed in prossimità della cinta muraria.

In campagna, un utile riferimento era costituito dai piccoli fabbricati rurali esistenti per lo più di un solo vano che con le loro lesioni, spesso contrastate da catene metalliche,  dimostravano l’esiguo spessore dello strato di argilla sabbiosa utilizzato come piano di sedime delle fondamenta e l’influenza negativa della sottostante argilla sottoposta alle alterne traversie di aumento o diminuzione del volume al variare delle condizioni igrometriche ambientali. In quelle località si diceva che “la terra camina  e perciò era sconsigliabile realizzare qualunque costruzione.

 

La muratura in fondazione

Nella esecuzione della muratura in fondazione generalmente venivano impiegati i conci più difettosi e non solo esteticamente, anche se ciò era evidentemente in contrasto con le più elementari regole di stabilità.

I muri in fondazione erano sempre muri doppi.

Preliminarmente veniva messo in opera il filare di conci di un singolo paramento che venivano allineati con l’uso della corda (fiorenzuola). Ogni due o tre conci disposti in fila (di verga) si dipartivano ortogonalmente gli elementi di legatura trasversale (di punta) di lunghezza pari allo spessore del muro o delle teste, estese, queste ultime, , solo  fino al limite interno del secondo paramento,  quando il muro aveva uno spessore ben maggiore dei due paramenti accostati.

Successivamente veniva quindi realizzato il secondo paramento, generalmente addossando i conci al limite dello scavo già praticato anche se di larghezza alquanto superiore al previsto, per evitare il rinfianco con materiale smosso, raramente costipato e quindi  soggetto a futuri assestamenti

Il nucleo centrale fra i due paramenti veniva riempito con materiale vario, battuto fortemente col martello da muratore e spianato superiormente con  malta  povera di calce o con murtieri già descritto,  previa abbondante bagnatura.

A volte, nella formazione geologica che costituiva il piano di sedime della fondazione,  si incontravano delle sacche di terreno vegetale che non poteva essere utilizzato come base portante; in questo caso, per evitare la prosecuzione dello scavo fino a quote indefinite, frequentemente si ricorreva alla costruzione di archi a sesto molto ribassato (valestre), che avevano la proprietà di scaricare orizzontalmente una componente del carico verticale ed erano  impostati sui bordi del terreno resistente per conseguire la continuità della struttura fondale. Durante la realizzazione delle murature in fondazione, specialmente quando il piano di sedime era a profondità maggiore di due metri dal p.c., si avvertiva, da parte degli addetti ai lavori, una sorta di anelito generale, in parte determinato dalla situazione di pericolo di seppellimento, nell’affrettarsi alla costruzione dei corsi successivi fino al raggiungimento della quota che permettesse, stando  in piedi, di avere   la testa al disopra del piano campagna e di poter respirare liberamente, sollevando dalla preoccupazione anche i compagni che effettuavano le prestazioni di servizio fuori terra.

 

La muratura in elevato

Questa era certamente l’operazione più importante e rappresentativa del perfetto equilibrio raggiunto sia con  l’ambiente esterno che all’interno dell’organizzazione produttiva caratterizzata da una marcata sinergia tra tutti gli addetti che concorrevano, ciascuno con la propria opera, alla realizzazione di quei manufatti che oggi lasciano incantato l’osservatore.

La buona qualità di una muratura era caratterizzata oltre che dalla perfetta piombatura  e dalla planarità della superficie esterna, dalla linearità e sottigliezza dei comenti che denotavano sia l’accuratezza della squadratura dei conci che la perfezione della posa in opera.

L’occhio esercitato e competente del maestro non mancava di rilevare l’andamento planimetrico ondeggiante del corso di muratura, che andava corretto non solo per motivi estetici ma soprattutto perché l’approssimativa planarità, che si evidenziava per l’andamento e spessore dei comenti, comportava concentrazioni di tensioni sui conci non perfettamente orizzontali.

Come avveniva presso le falegnamerie, nella lavorazione del legno, che veniva esposto quotidianamente all’esterno della bottega per lunghi mesi, per realizzare una stagionatura naturale nelle condizioni ambientali che si sarebbero riprodotte nel tempo sul materiale lavorato per realizzare  arredi o infissi, analogamente, nelle costruzioni in muratura, vi era una generale tendenza al rispetto dei normali cicli stagionali, senza forzare i tempi, evitando quella frenetica frettolosità imposta poi dai cicli di produzione di tipo industriale. In tal modo si dava il tempo necessario alle malte di solidificarsi lentamente,  in condizioni termo-igrometriche favorevoli, che ricorrevano specialmente nei mesi invernali (chi mura d’inverno mura in eterno).

In tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, la carenza più eclatante, se si eccettua la mancanza assoluta di dispositivi di protezione individuale, era quella dei ponteggi di servizio. La disponibilità di legni era limitata a pochi tavoloni della lunghezza di m. 4,00 e dello spessore di cm. 5 e di alcuni murali della sezione di cm. 8×8 o 10×10, che, accoppiati fungevano da ponti di servizio per la costruzione dei muri semplici. Per i muri doppi non si usavano ponteggi. Spesso, per lavorazioni particolari eseguite su murature al disopra dell’altezza di m. 4,00 (p. es. posa in opera di cornicioni o mensole di balconi), si predisponevano nella muratura dei fori passanti (sbintati) di sezione quadrata (10×10) nei quali venivano infilati dei murali della lunghezza di m. 1,50, ottenendo delle mensole dello sbalzo di circa un metro su cui si appoggiavano i ponti di servizio che venivano, successivamente,  facilmente rimossi.

 

I muri semplici

venivano realizzati impiegando i conci (dello spessore di cm. 20) squadrati a perpedagno. Per ogni corso (linea) si mettevano  in opera per primi i due conci di angolo (cantoni), con l’uso del filo a piombo.

La piombatura del “cantone” consisteva nel verificare preliminarmente, con l’uso del filo a piombo,  la verticalità di quel concio, sia nella faccia che nella testa,  facendone ruotare, sul letto di malta fresca, a colpi di martello opportunamente dosati,  i corrispondenti assi orizzontali e successivamente la complanarità con il corso sottostante, spostandolo solo  orizzontalmente.

Ai due  “cantoni” veniva assicurata, con un chiodo per ciascuno, infisso sullo spigolo orizzontale superiore e inclinato di 45°, la corda che regolava l’allineamento dei conci successivi. Da notare che la costruzione avveniva disponendo all’esterno, rispetto all’operatore, la faccia migliore dei conci. La risarcitura dei giunti con la  malta (‘nzippatura) veniva effettuata,  per la faccia esterna contestualmente alla posa in opera dei conci,  mentre per quella interna si provvedeva successivamente, a volte, solo  prima dell’intonaco. Ne consegue un’utile osservazione: per i muri edificati sul limite di due proprietà, è proprio la faccia esterna sopradescritta che ne individua il confine, salvo il caso di accordi particolari tra vicini.

Casa Ferrazzi e palmenti verso la fine degli anni venti

 

I muri doppi

cioè muri a doppio paramento, (muraglie – muragghe) si realizzavano con le stesse modalità relativamente al paramento esterno. però, in questo,  ogni due o tre conci disposti “di verga” cioè longitudinalmente, veniva inserito un concio trasversale “di punta” che poteva essere esteso a tutto lo spessore del muro (tuttuno) o fino al filo interno del paramento interno (testa). Analogamente gli angoli delle murature doppie potevano essere “incatenati” a due teste oppure ad una testa (sècuta sùrici) cioè ciascuno dei due paramenti rimaneva slegato dall’altro in corrispondenza dell’angolo e ciò principalmente per risparmiare l’impiego di un secondo cantone che era la pietra angolare e che doveva essere lavorato a squadro anche sulla testa e che, nel caso di muratura di notevole spessore doveva avere una lunghezza adeguata per consentire lo sfalsamento dei giunti.

I conci dei paramenti venivano detti “curesce”, cioè cinte,  che non erano squadrati sulla faccia posteriore. Il nucleo centrale della muraglia, se superava lo spessore di cm. 20,  veniva riempito con una terza fila di conci che non venivano lavorati su nessuna faccia ma solo sugli assetti (cacciati a tagghia) ed a volte neanche su questi perché di altezza insufficiente, inferiore all’altezza dei conci del corso (asci a tagghia).

 

 

 

Le altre parti sono in questi link:

L’arte del costruire nel Salento. L’ambiente e l’orario di lavoro. L’acqua nell’edilizia – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Il latte di calce nell’edilizia salentina – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’intonaco nell’edilizia salentina – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita” – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Preparazione del conglomerato – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Lavorazione della calce – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La squadratura dei conci di tufo – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

 

Centu cruci e centu Avemarie a Casarano nel giorno dell’Assunta

di Fabio Cavallo
In un contesto sociale fortemente secolarizzato, qual è il nostro tempo, il 15 agosto rimanda inevitabilmente a gite fuori porta, bagni al mare e picnic su spiagge, insomma ad un giorno completamente dedito allo svago e al relax.
In tempi passati – almeno fino alla metà del Novecento – prima ancora che il turismo di massa prendesse piede nel nostro Salento, il giorno ferragostano era legato alla ricorrenza liturgico-mariana dell’Assunta.
La vigilia e il giorno della festività erano scanditi da pratiche devozionali molto sentite e partecipate, tra queste la recita delle “centu cruci e delle centu Avemarie”, una sorta di lungo Rosario inframmezzato da una prece dialettale che recitava così:

Penza, anima mia, ca hai murire.

Penza, anima mia, ca hai trapassare,

alla valle te Giosafatta imu scire,

lu ‘nimicu ne vene a tentare.

Vabbanne nimicu!

Vabbanne te l’addha via,

can u n’hai spartire nenzi

cu l’anima mia

ca centu cruci mi fici a nvita mia

lu giurnu te la Vergine Maria.

Si nota, sùbito, nei versi il chiaro riferimento alla morte e alla salvezza dell’anima. È molto probabile che tale devozione sia mutuata da un antico rito liturgico di origine ortodossa in cui prevaleva il concetto di “dormizione della Vergine Maria”  anziché di assunzione in cielo di Maria, tipica della Chiesa occidentale. In sostanza, mentre la Chiesa occidentale metteva in risalto la “risurrezione” di Maria, quella orientale considerava un fatto naturale e degno di venerazione anche la “morte” della Madonna.
Altro motivo potrebbe rientrare in una caratteristica della Chiesa ortodossa e cioè quella di ripetere frequentemente il segno della Croce, sia durante le liturgie, che davanti le icone sacre. Si spiega, così, il rito delle “centu cruci”, praticate nel giorno dell’Assunta.
Tale consuetudine era molto diffusa nel territorio dell’antica diocesi di Nardo che, guarda caso, ha la chiesa Cattedrale intitolata alla Vergine Assunta.
Anche Casarano non si sottraeva a questo rito e la sera del 14 agosto la popolazione si ritrovava sul sagrato della chiesa della Madonna della Campana, in collina, dopo aver pellegrinato a piedi dal centro del paese fin su l’altura.
Il rito si concludeva con la recita del Rosario delle 100 Ave Maria, alternate ad altrettanti segni di croce, quasi ad esorcizzare e combattere il Maligno. Venivano, così, soddisfatti due requisiti peculiari di quel giorno: il pellegrinaggio, tipico delle ricorrenze legate all’espiazione e la preghiera comunitaria.
Dopo decenni di oblìo, la locale parrocchia di San Domenico ha recuperato questa antica tradizione, facendola propria e proponendola all’attenzione dell’intera comunità.

Note sullo stemma civico di Casarano

a cura di Rocco Severino De Micheli e Fabio Cavallo

 

Ci siamo voluti cimentare da neofiti nella ricostruzione storica di ciò che concerne quell’elemento che è il simbolo per eccellenza di ogni comunità cittadina: lo stemma civico.
L’attuale stemma civico di Casarano, con fregi e motto[1] è stato richiesto e concesso alla Città, con decreto del Presidente della Repubblica, soltanto in data 4.2.1993 e registrato all’Ufficio Araldico Nazionale il 18.5.1993.

Non siamo riusciti, malgrado ogni nostro sforzo, a comprenderne con assoluta certezza l’origine e a individuarne l’ideatore nonché il motivo della scelta degli unici elementi che compongono il simbolo principale: l’albero e il serpente; d’altronde, il fatto che illustri studiosi non abbiano mai affrontato la questione la dice lunga sulle difficoltà dell’indagine.

Siamo certi, però, che debba trattarsi di un’allegoria legata alla religione ebraico-cristiana: “L’albero della conoscenza” di veterotestamentaria memoria; infatti, le due seguenti ipotesi che abbiamo formulato, partono dal predetto simbolo, presente nei due edifici sacri: la chiesa Madre (1712) e la chiesa della Madonna della Campana (1642), probabilmente mutuato dalla blasonatura appartenuta a un ecclesiastico, oppure ad un’associazione religiosa o addirittura a un nobile che abbia avuto a che fare con la nostra comunità.

 

PRIMA IPOTESI: Chiesa Madre “Maria SS. Annunziata”

Siamo partiti da due stemmi che si trovano in chiesa Madre: il primo, facente parte del coro ligneo (foto 1) la cui manifattura è attribuita all’intagliatore tedesco Giorgio Aver (1740 ca.), posto in testa allo stallo centrale e riservato alla prima dignità della Collegiata[2]; il secondo, meno antico, (foto 2) allocato in controfacciata, sull’apice della cornice della grande tela del Tiso (la fornace di Babilonia, 1763), nel quale, sia pur irrilevante, spicca la diversa disposizione del serpente attorno al tronco.

Chiesa Madre, stemma del coro ligneo (1740 ca.)

 

Chiesa Madre, stemma sul quadro del Tiso (1763 ca.)

 

Abbiamo supposto, in questa prima ipotesi, che la scelta iconografica dello stemma, probabilmente avvenuta nel periodo che va dal 1700 (inizio della costruzione della nuova matrice) al 1763 ca. (realizzazione del quadro ad opera del Tiso), sia riconducibile all’unico personaggio – tra quelli che hanno gravitato intorno alla nostra comunità in questo intervallo temporale e che potrebbe aver avuto un ruolo preponderante – cioè don Daniele Calò (1626-1705), arciprete nella vecchia matrice dal 1679 al 1705. Infatti, il ramo tarantino-gallipolino della famiglia Calò, di origine greca, ha adottato uno stemma simile al nostro (foto 3 e 4). A titolo informativo, la scelta del pino e del serpente attorcigliato, elementi biblici molto usati in araldica, è avvenuta per altre realtà come il Comune di Frattaminore (Napoli) (foto 5) e alcuni nobili casati (foto 6, 7 e 8) .

stemma della famiglia Calò di Taranto

 

Stemma di Francesco Calò di Gallipoli, sindaco colà nel 1497

 

Stemma del Comune di Frattaminore (Na)

 

Stemma della famiglia Maiolo di Anticoli (RM)

 

Stemma della famiglia Orrù (Sardegna)

 

Stemma della famiglia Prini (Pisa)

 

SECONDA IPOTESI: Chiesa “Madonna della Campana”

In questo caso siamo partiti da un simbolo che trovasi nella chiesetta della “Madonna della Campana”; abbiamo preferito chiamarlo “simbolo” e non “stemma” poiché mancante dalla corona.

Chiesa della Madonna della Campana di Casarano, chiave di volta dell’anno 1642 (foto Pejrò)

 

Premettiamo che il feudo baronale di Casarano fu acquistato il 10.1.1642 da Matteo d’Aquino senior[3] (1610-1643), che divenne il primo duca di Casarano. Proprio Matteo, con il suo avvento, si prodigò a rimodernare l’antica chiesa della Madonna della Campana nella struttura che oggi possiamo ammirare. A ultimazione della costruzione, fece apporre una chiave di volta cilindrica (foto 9) riproducente un albero e un serpente attorcigliato sul tronco, con la scritta Charitas nel contorno del cerchio, mentre un po’ più a distanza, tra il motivo ornamentale di mattoni, vi è indicato l’anno “1642” [4].

Nello specifico, non è chiaro perché il committente abbia preferito la parola CHARITAS, di derivazione greca e tipica del culto a San Francesco di Paola, al posto di CARITAS, di derivazione latina[5]. Vi è da dire anche che, tra i tanti motivi barocchi dell’altare maggiore della stessa chiesetta, è presente il simbolo dell’albero della conoscenza, completo delle figure di Adamo (a sx) ed Eva (a dx), anche se abrasa. (foto in basso)

Particolare della colonna sx dell’altare maggiore (Foto Pejrò)

 

Quello della chiave di volta, a nostro avviso, potrebbe essere il motivo che ha ispirato la creazione dello stemma civico, utilizzando il solo simbolo e non anche la scritta “Charitas”. Non escludiamo che, anche in questa seconda ipotesi, il fautore possa essere stato sempre don Daniele Calò, citato nella prima ipotesi.

1808 – Segno di tabellionato del notaio Domenico Ucini

 

Dal 1810, per la prima volta, il comune iniziò ad utilizzare un proprio timbro-sigillo con il simbolo che lo caratterizzava. (foto in basso)

Timbro ad inchiostro del 1810, Regnando Gioacchino Napoleone – Murat (1808-1815)

 

Dopo il breve governo murattiano (1806-1815), cessò l’utilizzo del proprio simbolo e si utilizzò un timbro borbonico, con la variante dei regnanti, imposto a tutti i comuni del Regno di Napoli, divenuto nel frattempo Regno delle Due Sicilie. vediamone la sequenza: (foto seguenti)

Regnando Ferdinando IV di Borbone (1815-1816)

 

Regnando Ferdinando I (1816-1825)

 

Regnando Francesco I (1825-1830)

 

Regnando Ferdinando II (1830-1859)

 

Vi è da dire che dal 22.5.1859, inizio del regno di Francesco II (Franceschiello) e sino al plebiscito, si continuò a usare il timbro di Ferdinando II poiché quello con impresso il nome del nuovo sovrano non fu mai fornito al Comune.

Il Plebiscito del 1860 sancì l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. (foto seguenti)

Foto 17: Nel governo dittatoriale garibaldino, timbro di transizione utilizzato dal 14.9.1860 sino al giorno del Plebiscito del 21.10.1860

 

Francobollo commemorativo

 

Timbro utilizzato dal 21.10.1860 al 31.3.1876

 

Il Comune utilizzò il nuovo timbro sin dal primo giorno, evidentemente pronto da tempo per una consultazione elettorale dall’esito già previsto (foto 20)

Foto 20 – particolare di atto matrimoniale del 21.10.1860

 

Il mutato clima politico, scaturito dalla fine della monarchia borbonica, fu trasversale in tutte le categorie sociali di Casarano, tant’è che due giorni prima del plebiscito, il 19 ottobre 1860, si registrò, presso lo stato civile, la nascita di un bimbo al quale venne dato il nome di Vittorio Emanuele (Martinelli).

Finalmente, dai primi dell’anno 1877 si ritorna a utilizzare, per lo più, il logo caratteristico del nostro comune[6]. (foto 21, 22, 23, 24, 25 e 26)

Foto 21: timbro dal 1.4.1877

 

Foto 22  carta intestata del 1890

 

Foto 23 – Carta intestata del 1912

 

Foto 24 – Frontespizio di Deliberazione 1928

 

Foto 25 – Timbro del 1937

 

Foto 26 – Timbro del 1944 (con fascio littorio rimosso)

 

FRAZIONE DI MELISSANO

Per scelta dei suoi cittadini, Melissano fu frazione di Casarano dal 1885 sino a tutto il 1922.

Ci limitiamo a dire che in questo periodo fu utilizzato indifferentemente lo stemma di Casarano e un altro simile privo del serpente. (foto 27, 28 e 29)

Foto 27 – Timbro utilizzato per la prima volta nel  1887

 

Foto 28 – Altro tipo di timbro utilizzato nel 1903

 

Foto 29 – Carta intestata utilizzata a Melissano nel 1889

 

Un uso come ex libris si riscontra su alcuni testi scritti da un sacerdote casaranese, don Carmine Lupo-Riccardi[7], trasferitosi a Napoli e senza dubbio affezionato al suo paese natale. (foto 30)

Foto 30: Libro del 1833

 

Usi architettonici, in pietra leccese, li riscontriamo:

  • sulla torre dell’orologio (foto 31);
  • sul portale del palazzo sito nella ex piazza Malta che fu originariamente municipio, poi règia Pretura, carcere mandamentale, Casa del Fascio, scuola e caserma dei Carabinieri. (foto 32);
  • sul portale dell’attuale palazzo municipale, all’origine convento dei Domenicani, destinato a sede del Comune a partire dal 15.06.1911(foto 33);
  • sul frontone del Mercato comunale di Via Matino, edificato nel 1957 (foto 34)
Foto 31 – 1790 torre dell’orologio

 

Foto 32 – 1885, edificio di Piazza San Giovanni

 

Foto 33 – 1934/1935 attuale palazzo municipale (nel 1943 fu scalpellato il fascio littorio)

 

Foto 34 – 1957 Mercato coperto comunale

 

Ritornando alla chiesetta della Madonna della Campana, entrando a sinistra, troviamo l’altare, già con diritto di patronato della famiglia De Donatis, realizzato nel 1903 da Domenico De Donatis (1868-1937), figlio di Liborio[8], in sostituzione di altro esistente, recante una tela raffigurante San Liborio, (Foto 35).

Sugli stipiti laterali è raffigurato, in modo speculare, l’elemento centrale dello stemma civico.

Foto 35 –  1903, Chiesetta Madonna della Campana, altare di San Liborio

 

Foto 36 – 1889 Cimitero, altare della cappella gentilizia De Donatis

 

Nel cimitero, invece, nella cappella gentilizia dei De Donatis (la prima a destra dall’ingresso principale), fatta costruire nel 1889 da un suo componente sacerdote, don Giuseppe De Donatis (1819-1895), fu installato un altare (foto 36) coevo con quello della Madonna della Campana, laddove riscontriamo un uso insolito, e anche originale, del predetto simbolo, presente specularmente su entrambi gli stipiti dell’altare. Questa scultura, a prima vista sembrerebbe il classico albero con il serpente attorcigliato al tronco; osservando però attentamente l’immagine (foto 37), si nota che il serpente è a testa in giù ed ha qualcosa nelle fauci.

Foto 37 – Cappella gentilizia De Donatis, particolare dell’altare

 

Abbiamo ipotizzato che il committente, sicuramente Domenico De Donatis, abbia voluto far scolpire l’altare della propria cappella gentilizia per mettere allegoricamente in evidenza la contrapposizione della vita con la morte; allegoria molto calzante confrontando questo altare con quello della Madonna della Campana. L’atto del capovolgere sta a indicare la vita che passa. Una figura simile la si trova sulla parete dell’ingresso principale del locale cimitero (e anche in molti luoghi funebri): qui vi sono due coppie di fiaccole incrociate accese e capovolte, una a destra e una a sinistra. Ritornando all’altare, il serpente, strappando un ciuffo della folta chioma del pino per nasconderlo tra le radici dell’albero, simboleggia la Morte che strappa dalla Vita un essere per riporlo nella nuda terra e va interpretata come la sottrazione di una parte della propria famiglia dal resto della stessa e dalla comunità cittadina.

 

Note

[1] Il motto “Estote prudentes sicut serpentes” era assente in precedenza. I fregi sono ornamenti esteriori di città per via della concessione avvenuta giusto DPR del 4.11.1960.

[2] La parrocchia fu elevata a Collegiata “ad instar” con il Capitolo collegiato nel 1721.

[3] Antonio Chetry S.J. “Spigolature Casaranesi”, Quaderno IV, pag 20.

[4] Questo simbolo è inesistente nel blasone del suo casato che raffigura, in un quadripartito, due leoni rampanti e bande rosse e d’oro.

[5] Si rimanda per approfondimenti a: G.B. Vico – Varia: Il ’De Mente Heroica’ e gli scritti latini minori, a cura di Gian Galeazzo Visconti, Alfredo Guida Editore, Napoli 1996, p. 31.

[6] Per approfondimenti sui sindaci di Casarano si rimanda ai seguenti links:

http://www.carusa.it/SPIGOLATURE/Sindaci/pre_unitari.htm

http://www.carusa.it/SPIGOLATURE/Sindaci/post_unitari.htm.

[7] Carmine Lupo-Riccardi nacque a Casarano il 18 dicembre 1769. Nel 1819 si trasferì a Napoli dove insegnò grammatica italiana e latina. Morì nella città partenopea nella seconda metà del XIX sec.

Il De instituendis principum liberis di Belisario Acquaviva duca di Nardò: confronto tra un manoscritto e la prima edizione a stampa

di Armando Polito

Chi ha la mia età ha vissuto in pieno il passaggio dall’analogico al digitale, una delle poche rivoluzione tecniche operate dall’uomo dopo i graffiti delle caverne, le tavolette di terracotta, il manoscritto e la stampa. Il duca di Nardò visse proprio nel periodo in cui il manoscritto, specialmente il miniato, aveva visto crescere il suo pregio editoriale, mentre trasmetteva alcune sue caratteristiche grafiche agli incunaboli e poi alle cinquecentine. Succede spesso che un’opera venga pubblicata postuma, perché l’autore non volle o non potè darla alla stampa, pur essendo questa già stata inventata. In questi casi l’ideale sarebbe poter disporre del manoscritto autografo, altrimenti bisogna operare come si fa con i testi antichi, cioè con la collazione delle copie conosciute e disponibili, avendo come obiettivo finale l’edizione critica.

Favorito anche dalla cronologia, il duca di Nardò1  di certo potè vedere e toccare una copia a stampa del suo libro, come non è difficile immaginare che senz’altro diresse le operazioni, quanto meno quelle iniziali. Non è dato sapere se la stampa fu condotta sull’autografo, di cui non c’è traccia, o, più probabilmente, su un testo finale materialmente realizzato, sotto la sua dettatura e controllo, da qualche scrivano ufficiale. Il testo, comunque, era già noto prima del 1519 e, come spesso avveniva all’epoca, almeno una copia manoscritta era stata oggetto di dono, naturalmente ad un personaggio importante, da parte di Belisario in persona.

Com’è successo per molti nostri manoscritti a causa di vicende che il più delle volte è impossibile ricostruire, il nostro attualmente è custodito nella Bodleian Library dell’Università di Oxford (MS. Rawl. C. 893). Sul suo sito risulta parzialmente digitalizzato e da lì ho tratto la copertina/frontespizio e l’incipit, mettendoli a confronto con le analoghe parti del libro a stampa.

1 LA COPERTINA-FRONTESPIZIO-DEDICA DEL MANOSCRITTO

REVERENDISSIMO DOMINO DOMINO FRANCISCO SACRO S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) CARDINALI SURRENTINO TITULI SANCTORUM IOANNIS ET PAULI COMPATRI ET DOMINO OBSEREVANDO BELISARIUS AQUAVIVUS DE ARAGONAQ MARCHIO NERITONI SE PLURIMUM COMMENDAT

(Al reverendissimo signore Don Francesco sacro cardinale sorrentino di Santa Romana Chiesa col titolo dei santi Giovanni e Paolo, compatriota e signore rispettabile, Belisario Acquaviva di Aragona marchese di Nardò si raccomanda moltissimo) 

Il testo appena letto ci rende edotti del titolo dell’opera, del nome dell’autore, che è pure il dedicante, del dedicatario e dei titoli di entrambi. Per quanto riguarda Belisario, poi, il titolo di marchese ci consente di datare il manoscritto anteriormente al 1516, anno in cui Belisario assunse il titolo di duca di Nardò. Lo stesso dettaglio consente di pervenire alla medesima datazione per un altro manoscritto, custodito nella Biblioteca Nazionale  di Napoli (cod. XII F 2),  del quale diede notizia Vincenzo Bindi2  citandone integralmente il titolo/dedica recita Beatissimo sanctissimo Leoni X Christianorum Patri Belisarius Aquavivus de Aragonea Neritinorum Marchio post pedum oscula beatorum humilissime se commendat (Al Beatissimo Santissimo Leone X Padre dei Cristiani Belisario Acquaviva d’Aragona dopo il bacio dei beati piedi umilmente si raccomanda). Quest’opera, il cui manoscritto il Bindi definisce bellissimo, non ebbe, a differenza di altre di Belisario, un’edizione a stampa, neppure postuma. Ciò avverrà a distanza di più mezzo millennio con la pubblicazione proprio del manoscritto napoletano: Belisario Acquaviva d’Aragona, Esposizione del Pater noster, a cura di Caterina Lavarra e Domenico Defilippis, Congedo, Galatina, 2016.

 

Riprendo il discorso interrotto relativo alla potenza del dedicatario del quale Belisario indica il solo nome, quasi il cognome fosse superfluo e bastassero i titoli ad integrarne l’identificazione e a renderlo antonomastico. Si tratta di Franciscus de Remolins (1462-1518), del quale appare evidente l’origine spagnola, per cui il sorrentino va inteso come riferito alla carica di arcivescovo metropolitano di Sorrento, da lui ricoperta dal 1501 al 1512, il che consente di collocare il manoscritto entro un intervallo temporale meno generico del prima del 1519, anno, dell’edizione a stampa, o del 1518, anno della morte del prelato; anzi, considerando che la nomina a cardinale avvenne nel 1503, l’intervallo prima indicato si riduce ulteriormente, passando da 1501-1512 a 1503-1512. Per avere un’idea, poi, della posizione di Francisco nella Chiesa e non solo, basta ricordare i rapporti strettissimi col papa Alessandro VI (a lui è indirizzata la lettera di Belisario citata in nota 3) e che fu vicerè di Napoli dal 1511 al 1513.

Di seguito, in rapporto cronologico proprio con questo periodo, il suo ritratto riprodotto da Domenico Antonio Parrino, Teatro eroico, e politico de’ governi de’ vicere del Regno di Napoli, de Domenico Antonio Parrino, Parrino & Mutii, Napoles, 1692, tomo I, p. 68.

 

La didascalia recita: D. Francesco Remolins Cardinal Sorrentino Luogot(enent)e Gen(era)le nel Regno di Nap(oli) 1512. Appena al di sopra lo stemma cardinalizio.

 

2 FRONTESPIZIO DEL LIBRO A STAMPA 

Si presenta incredibilmente scarno rispetto alla parte del manoscritto appena esaminata. Vi compaiono il titolo dell’opera e il nome dell’autore, senza gli altri dati (nome del dedicatario e relativi titoli) che già allora rendevano estenuante la lettura del frontespizio.

(Come educare i figli dei principi di Belisario Acquaviva d’Aragona duca dei Neritini)

Per gli altri dati bibliografici bisogna andare alla fine, cioè al cosiddetto colophon (che qui precede la marca editoriale), uno dei retaggi della scrittura manoscritta (per quanto riguarda la data manca solo il numero relativo all’indizione).

(Stampato a Napoli nella libreria di Giovanni Pasquet de Sallo nell’anno del Signore 1519 il 5 giugno).

Di solito il colophon non mostra alcuna tavola e questa si sarebbe collocata benissimo, se non come antiporta, almeno a corredo dello scarno frontespizio. Essa è, come s’è detto, la marca editoriale e mostra al centro una figura  in piedi, che sostiene la croce addossata ad un cerchio diviso in quattro settori in ognuno dei quali compare una lettera, in tutto da leggersi nella sequenza IPDS, acronimo di Iohannes Pasquet De Sallo. La croce reca alla sommità una bandiera in cui si legge ECCE AGNUS (le ultime quattro lettere appaiono tipograficamente impastate) e al di sotto ΑΩ (com’è noto, l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, a simboleggiare il principio e la fine. La tradizione giovannea di entrambi (1, 29.36 e 19, 5) e in più l’ecoonomastica che si è voluto ravvisare in Iohannes hanno fatto identificare ad alcuni la figura centrale con S. Giovanni, mentre per altri rappresenterebbe Cristo.

Non sapremo mai se fu Belisario a volere o a tollerare che il colophon e l’editore avessero un impatto visivo, per quanto finale, maggiore rispetto al frontespizio; se così fosse, sarebbe un’ulteriore prova di umiltà, dopo quella dell’ipotetico declassamento  insito nel  marchese del manoscritto.

A quest’ultimo torno  con la carta contenente l’incipit. A fronte la corrispondente parte nel libro a stampa.

Anche qui la composizione della pagina appare molto più articolata ed accattivante, grazie alle miniature, mentre i caratteri conservano il più possibile l’aspetto della scrittura manoscritta. Si noti come al capolettera del manoscritto,  Q miniata  dell’iniziale Qum, ha il suo corrispondente a stampa in q annegante in uno spazio bianco, la cui area appare perfettamente uguale a quella occupata dalla miniatura. La scelta grafica del manoscritto sarà recuperata nell’edizione uscita per i tipi di Pietro Perna a Basilea nel 1578 (di seguito il dettaglio del capolettera).

Chiudo con una rapida descrizione degli dettagli più significativi.

Il capolettera (la C di CUM è su un pannello blu legato con un nastro al ramo di un albero.

La bordura della carta è su tutti i lati con motivi rinascimentali, candelabri e decori floreali.

Nel margine superiore due putti alati sullo sfondo di un cielo stellato reggono lo stemma del dedicatario (lo abbiamo visto prima nel ritratto).

Il medaglione a destra contiene una figura di uomo in combinazione classica: busto nudo e testa di profilo.

Nel margine inferiore: stemma della famiglia Acquaviva racchiuso in corona di alloro3.  A sinistra Marte seduto tra trofei di guerra e a destra Minerva, conformemente all’iconografia classica, con elmo, la destra che impugna una e la sinistra uno scudo su cui è raffigurato un volto. È evidentissima l’allusione all’uomo-tipo rinascimentale, qual era Belisario, capace di coniugare le competenze militari con quelle letterarie4.

 

In chiusura mi piace dare rilievo alla disposizione dei due stemmi: in alto quello del cardinale, in basso quello degli Acquaviva, come nel manoscritto si legge prima il nome del donatario e dopo quello del donante. È vero che tutto può essere casuale, ma lo è anche questo?

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1 Visse dal 1464 al 1528 e fu prima marchese, poi, dal 1516 fino alla morte, duca di Nardò.

2 Vincenzo Bindi, Gli Acquaviva letterati, Mormile, Napoli, 1881, p. 123

3 Non mi meraviglierei se qualcuno si sentisse autorizzato dal dettaglio della corona di alloro a rimettere in campo l’esistenza, mai convincentemente provata, di una neritina Accademia del lauro fondata da Belisario. Sul tema vedi Armando Polito, Giovanni Bernardino Tafuri e la cinquecentesca Accademia del lauro di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2022, n, 302 della collana Sallentina fragmenta.

4 Il duca di Nardò pubblicò nello stesso anno 1519 e presso lo stesso editore altri tre trattati: De venatione et de aucupio, Prefatio paraphrasis in economica Aristotelis e De re militari et singulari certamine e per i tipi di Giovanni Antonio Papiense de Caneto a Napoli nel 1522 Ad Adrianum VI. pontIficem opt. maximum Christianorum patrem sanctissimum. Un De praestantia Christianae religionis  viene citato a catena dagli storici, ma senza alcun dato documentario a partire dal XVII secolo, ma al momento non risulta reperito un solo esemplare a stampa, tanto meno manoscritto.

 

Filippo De Raho pioniere della moderna viticoltura

FILIPPO DE RAHO PIONIERE DELLA MODERNA VITICOLTURA IN QUEL DI CONVENTO, NELLA TENUTA  “CALIZZI” CHE LAMBISCE IL FEUDO DI NOVOLI 

di Michele Mainardi   

 

A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento  vi fu in terra d’Otranto un forte interesse verso il settore vitivinicolo che, nel decennio successivo, avrà una decisa espansione: lo dimostra l’aumento della superficie coltivata a vigneto; ciò fu dovuto alla crescita della domanda di vini da taglio da parte di imbottigliatori del Settentrione d’Italia; ma soprattutto furono i francesi ad alimentare le correnti di esportazione dei mosti.

L’attacco della fillossera alle piantagioni dei cugini d’Oltralpe si rivelò un affare per i produttori nostrani, che trasformarono ettari su ettari  di terreni a basse rese in redditizi campi vitati. La battuta d’arresto della cerealicoltura ( in seguito alla concorrenza americana) e la perdita di competitività del prodotto oleario (che non poteva gareggiare con le rinomate etichette toscane e baresi) fecero da innesco alla spinta a investire sulla vite.

Avveduti proprietari terrieri diedero così corso alla stipula di contratti di colonia parziaria a miglioria, le cui clausole  e la durata variavano a seconda della qualità dei suoli coinvolti. I patti differivano da Comune a Comune: ciò che non cambiava era lo sfruttamento del lavoro contadino. Gravava la maggior parte delle spese di coltivazione sul colono, sul mezzadro.

La disparità stava nei fatti. Il peso ricadeva sulla parte impossidente. Nelle annate particolarmente negative non era raro che i fittavoli abbandonassero le quote loro assegnate per mancanza di risorse. Diventavano salariati a giornata, disposti anche a emigrare (più o meno temporaneamente) pur di sopravvivere. La famiglia bisognava sfamarla.

Di questo spaccato di terra e fatica siamo riusciti a tracciarne un esempio di circoscritta storia compulsando vecchie carte d’archivio. Rovistando tra i rogiti di notaio è venuto fuori quanto esperito da un intraprendente agrario leccese che, nelle campagne del vecchio feudo di Nubilo, poi Convento, portò a compimento un riuscito esperimento di messa a coltura della profittevole pianta vitacea.  Il nobiluomo Filippo de Raho fece rifiorire la sua tenuta “Calizzi”, il cui margine di Nord-Ovest segna il confine amministrativo di Lecce con Novoli.

Foto di gruppo con Filippo De Raho, primo in alto a sinistra

 

L’estesa proprietà  (106 ettari), lambita da un lato dalla linea ferrata, nell’arco di un quindicennio (dal 1885 al 1899) mutò faccia. Dall’assoluto abbandono del pascolo passò a vitalizzarsi grazie all’intensività colturale figlia della conduzione a vigneto dei ritagliati appezzamenti, tutti distaccati e segnati mediante l’apposizione di termini lapidei (le cosiddette “finite”).

Le quote create a più riprese avevano ampiezza oscillante: andavano dalle 2 tomola (pari a 125 are e 98 centiare) alle 18 (vale a dire 11 ettari, 33 are e 64 centiare).  La durata della concessione a mezzadria  variava dai 18 ai 21 anni: un lunghissimo periodo di tempo  che legava l’affittuario al suo concedente, esigente nel richiedere massima cura e diligenza nei lavori del campo.  I fittaiuoli dovevano far prosperare la vigna, assistendola da buoni e solerti padri di famiglia. Non potevano seminarci negli spazi interstiziali: l’unica eccezione permessa consisteva nello spargere il germe di qualche leguminosa  (escluso i ceci) ma solo per per i primi quattro anni  dall’avvio. La piantagione per quelli a venire era assolutamente vietata.

Si permise di coltivare l’orzo ”a pizzico”  lungo i filari della vite:  a calcolata distanza onde non arrecare sofferenza alle piante. La magra integrazione dei redditi che ne discese fu poca cosa. Occorreva allora davvero darsi da fare. I modi andavano trovati. Gli obblighi contrattuali impegnavano i mezzadri in misura tale da non lasciare spazio a rallentamenti di sorta.

La pota  delle viti andava fatta a regola d’arte e a piena soddisfazione del proprietario, il quale, se avesse riscontrato delle irregolarità, era nel pieno diritto di ricorrere a persona perita di sua fiducia, con accollo delle conseguenti spese ai contadini (molti di essi provenivano dalla vicina Arnesano). Gli stessi, che già si sobbarcavano per intero  quelle per l’iniziale dissodamento dei terreni e la successiva piantagione, non potevano esimersi, in aggiunta, dal solforare la vigna nel caso i sarmenti fossero rimasti nella loro disponibilità.  Tutte le altre clausole dei contratti giravano a favore della parte dominante, come d’uso  nella pattuizione di quei tempi, non certo benigni nei riguardi dei faticatori.

Gli utili della vendemmia poi si contavano col bilancino. L’apprezzo della uve veniva seguito occhiutamente. Guai a sgarrare di qualche chilo: la partita sarebbe finita male. Il perito del signor padrone incombeva (a Lecce come a Novoli: ovunque).  Non c’erano santi che tenessero. La pesa si ripeteva se qualcosa non filava liscio. Se poscia si associava che dietro si celava puzza  di bruciato, addio! Il contratto veniva rescisso, senza indennizzo alcuno ai furbi (tali per necessità?).

prospetto della masseria Calizzi

 

I documenti ci dicono tutto sulla coltivazione della tenuta de Raho, divenuta podere modello per lungimiranza del signor barone. A “Calizzi” il vigneto prosperava, prima che l’attacco filosserico dell’inizio  del Novecento mietesse le sue vittime. La capacità dell’imprenditore fecero crescere l’azienda, dotata di moderno stabilimento per la vinificazione, con strumento attivato per via meccanica, a vapore, per mezzo di generatore locomobile: una novità per l’epoca. Il suo azionamento richiese perizia nel manovratore: dovette conseguire apposito brevetto di fuochista  l’alacre proprietario.

La chiesetta della masseria Calizzi dedicata a S. Oronzo

 

epigrafe nella chiesetta ricostruita nel 1903 e dedicata a S. Oronzo

 

Filippo de Raho per essere all’avanguardia nella produzione vinicola, dotò i locali (le cantine) della masseria (nella tavoletta dell’ Istituto Geografico Militare di Firenze del 1913 toponomasticizzata “Casino”) di impianto di illuminazione ad acetilene, che veniva ricavato dal carburo di calcio in un ‘altra apposita installazione fornita di macchinario adeguato: un vero prodigio per i tempi.

La macchina pigiatrice del Premiato Stabilimento Meccanico Cav. Giuseppe Garolla di Limena (Padova)

 

Etichetta metallica apposta sulle macchine enologiche del Premiato Stabilimento Meccanico Cav. Giuseppe Garolla di Limena (Padova)

 

Validi canali  di commercializzazione del prodotto semilavorato fecero il resto: partivano per il Nord Italia le botti di negroamaro e di malvasia, facendo conoscere le sanguigne uve locali ai clienti di palato fine di Milano e Torino. La lacrima de “Li Calizzi” sarebbe servita a configurare un vino sostanzioso, di tipo costante, discretamente alcolico, ricco di materia colorante, abbastanza resistente alle intemperie e ai viaggi per ferrovia: ricercato dai fabbricanti settentrionali, adatto per essere tagliato, come i suoi pari grado altrettanto corposi, aromatici, del resto della regione otrantina.

 

Già pubblicato nel periodico “Lu furgularu”

Il Tarantolismo in uno studio del novolese F. Ferruccio Guerrieri

Ritratto di Ferruccio Guerrieri (il primo a sinistra in alto) in un gruppo di altri illustri studiosi salentini (in Almanacco Illustrato Il Salento, vol. VI a. 1932 p. 12, coll. privata).

 

di Gilberto Spagnolo

 

In questi ultimi anni un nuovo e grande interesse si è sviluppato per il fenomeno del «Tarantolismo» o «Tarantismo», fenomeno in Terra d’Otranto, di cui molti si sono occupati in diverse epoche con varie ricerche e particolari studi sia di carattere medico che antropologico (Ernesto De Martino dedicò nel 1961 una delle sue più belle e importanti opere intitolata La Terra del Rimorso).

Propongo perciò qui di seguito la lettura di uno studio sull’argomento non molto noto (se non addirittura quasi sconosciuto), compiuto da Francesco Ferruccio Guerrieri, novolese illustre (nato a Novoli il 24 luglio 1874 e morto a Bagnoli di Napoli il 15 gennaio 1957) e pubblicato sul rarissimo numero unico «LECCE 1898».

Questo libro fu dato alle stampe in occasione delle Feste inaugurali svoltesi a Lecce in quell’anno in «onore dell’arte e del lavoro»; fu curato da G. Doria e raccolse scritti dei più importanti studiosi salentini dell’epoca come G.F. Tanzi, C. De Giorgi, B. De Sanctis, L. Romano, A. Foscarini, N. Bernardini, L.G. De Simone ecc.

Copertina di Lecce 1898, Numero unico per le feste inaugurali nel giugno 1898, Tipografia Editrice Salentina Ditta Fratelli Spacciante 1898 (coll. privata).

 

Del novolese Francesco Ferruccio Guerrieri, lo studioso Carlo Villani in «Scrittori e Artisti Pugliesi» ebbe a scrivere di lui: «felice quel paese che può contare uomini somiglianti a Ferruccio Guerrieri, uomini cioè di maschio ingegno, di valore indiscusso, noncurante dell’io, ma entusiasti ed orgogliosi del patrio lido e dei propri conterranei».

Dalle notizie che si ricavano dall’orazione funebre recitata da don Emanuele Ricciato sul sagrato della chiesa matrice di Novoli, in occasione della morte del fratello Eugenio, sappiamo infatti che il Guerrieri (storico e letterato insigne, professore di lettere italiane e poi Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce nonché docente nell’Istituto di Cava dei Tirreni, autore di opere di una certa importanza su Terra d’Otranto) nacque da una delle più antiche ed importanti famiglie di Novoli, precisamente dal dott. Alessandro Guerrieri (chimico­farmacista) e da Lucilla Ruggio.

Il balcone dell’antica palazzina, dimora dei Guerrieri, esistente ancora nella piazza del Comune di Novoli accanto alla chiesa matrice di S. Andrea Apostolo.

 

Fu il secondo di una fratellanza illustre discendente dal gesuita Francesco Guerrieri pupillo di San Bernardino Realino, gran letterato, eccellente scrittore, amico del Tasso, valoroso ministro della parola di Dio, lume della greca e latina lingua; composta, oltre che da lui, da Giovanni (professore di Storia Patria nei licei d’Italia «uno dei più forti cultori delle patrie memorie»), dall’avvocato Luigi («giureconsulto insigne, onore e vanto del foro leccese») e, infine, da Eugenio (fisico, matematico e, soprattutto primo astronomo dell’Osservatorio di Capodimonte), autore di numerosissimi saggi conservati in gran parte (ben 69) presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, pubblicati su diverse riviste scientifiche dal 1904 al 1951.

F. FERRUCCIO GUERRIERI, Possedimenti temporali e Spirituali dei Benedettini di Cava delle Puglie, Parte I, Terra d’Otranto, Trani, Tipografia dell’editore V. Vecchi 1900. Copertina del testo a stampa (coll. privata).

 

F. FERRUCCIO GUERRIERI, La Penisola Salentina in un testo arabo di Geografia medioevale, Stabilimento tipografico Giurdignano, Lecce 1903, Copertina del testo a stampa (coll. privata).

 

GIOVANNI GUERRIERI, Lecce nel 1700. Conferenza letta nell’aula magna dell’istituto tecnico di Lecce il 24 marzo 1901, R. Tipografia Editrice Salentina Ditta fratelli Spacciante, Lecce 1901. Copertina del testo a stampa con dedica autografa a Luigi Maggiulli (coll. privata).

 

EUGENIO GUERRIERI, Statistica delle macchie solari isolate e in gruppi osservate durante l’anno 1908 nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Tipografia G.V. Cassone, Torino 1909. Copertina del testo a stampa (coll. privata) con dedica autografa all’ing. Novolese Francesco Parlangeli.

 

Tornando sull’argomento, al di là delle notizie più o meno conosciute sulle cause, sugli effetti e sulle dinamiche del morso della taranta (interessante, comunque, il riferimento all’uso dell’ammoniaca prima ancora che al ballo come «energetico diaforetico», cioè che favorisce la sudorazione) il lavoro del Guerrieri, come si potrà notare, è di notevole interesse per i riferimenti di carattere storico, medico e scientifico e, soprattutto, per la narrazione di alcuni casi dettagliati di tarantati accaduti a Otranto, nella stessa Novoli (addirittura con una bambina di tre mesi), a Lecce, a Manduria e anche a Bologna, fatti che in sostanza (secondo il Guerrieri), supportano la collocazione del tarantismo esclusivamente «nel campo della folcloristica» facendone «una delle caratteristiche superstizioni tradizionali di Terra d’Otranto».

Un’ulteriore annotazione va fatta sull’origine di questo studio del Guerrieri. Esso, in sostanza, può considerarsi la prima parte (a nostro avviso la più preziosa, ma passata inosservata) di un lavoro più organico su un commediografo bolognese, tale Francesco Albergati Capacelli, e in particolare su una farsa intitolata «La Tarantola», con la quale, l’autore ha voluto «mettere in burla sulle scene le comiche stranezze del tarantolismo leccese». Il pezzo conclusivo intitolato «II Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII» (stampato a Lecce dalla Tipografia Cooperativa nel 1904), è stato pubblicato sul «Bardo» (fogli di cultura) del luglio 1993.

P. VANDER, Provincia Hydruntina, 1764 (con le tarantole e i serpenti nel cartiglio, coll. privata).

 

Il Tarantolismo leccese (nella patologia, nella folkloristica e nella commedia)

Tolgo, per inserirle in questo Numero Unico, alcune pagine di un mio lavoro e che è uno studio su Francesco Albergati Capacelli, commediografo bolognese del secolo scorso (17281804), il quale ebbe una vita così ricca di casi e di avventure e nelle sue tragedie, nei suoi drammi flebili, nelle commedie, nelle farse, ci lasciò (nelle commedie principalmente) uno specchio fedele dei costumi e delle condizioni morali della società del suo tempo, lumeggiando tutti i tipi storici caratteristici di quell’età, dal Papa agli Enciclopedisti, dalla fanciulla patrizia monacata per forza alla dama galante, dalla poetessa alla ballerina, dagli abati erotici ai cavalieri d’industria, dagli Arcadi agli Ossianisti, dai monarchi filosofi ai cicisbei, dai giramondo diplomatici ai letterati, dai prelati gaudenti agli ex gesuiti volterriani. Tra i vari generi drammatici, quello che l’Albergati coltivò con una certa predilezione fu la farsa o commedia di un atto solo, in prosa. Di queste commediole, o burlette, come egli stesso le chiama, ne scrisse nove, di argomenti differentissimi, tolti dalla vita reale del suo tempo, e tutte condite di un certo brio, di quella satira comica che è l’anima di ogni lavoro piccolo e grande del nostro scrittore il quale per dirla col suo biografo E. Masi invasato dell’alto ufficio della commedia, non ha piccola composizione, anche d’un atto solo, in cui non si proponga qualche gran fine. Il Sismondi, che dell’Albergati ammirava l’ingegno per la vera commedia e pel dramma sentimentale, scrisse di lui: «fece ancora parecchie di quelle piccole composizioni dette farse, che meritatamente son collocate fra le più lepide del teatro italiano, perché l’Albergati seppe quivi accozzare colla festività nazionale e colla buffoneria del vecchio teatro, l’eleganza della maniera della buona società».

Io qui intendo di far conoscere appunto una farsa del Capacelli, “la Tarantola”, ricca di bei elementi comici contro il nostro tarantolismo leccese e contro una classe di medici ciarlatani impostori che doveva essere molto diffusa nel secolo passato.

Ma per comodo di coloro i quali non abbiano una chiara conoscenza di questo tarantolismo, che è cosa tutta di casa nostra, mi si conceda di darne qualche notizia.

*     *     *

Che cosa è il tarantolismo, che per un certo tempo ha richiamato a sé l’attenzione non solamente dei folkloristi, ma anche di valenti patologi? Esso si ritiene generalmente per una nevrosi che regnò in Italia dal XVI al XVII secolo, e particolarmente endemica della Puglia, prodotta, come indica il nome, dalla morsicatura della tarantola, specie di ragno comune in Terra d’Otranto.

Negli affetti di tarantismo, dopo uno stato d’inquietudine, si nota l’affanno di respiro, ed un torpore muscolare, accompagnato da un sovreccitamento del sistema nervoso. Una irresistibile tendenza al ballo ed uno sfrenato desiderio, un bisogno potente di udir musica, sono altre caratteristiche manifestazioni della malattia. Ritiene anzi il volgo che ciascuna tarantola si muova ad un accordo particolare, e che i morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi, e che gli atteggiamenti delle mani che accompagnano il ballo, siano i medesimi che la tarantola fa colle sue falangi nel­l’intessere la tela. Si ricorse qualche volta all’uso dell’ammoniaca, che, come energico diaforetico, poteva dare dei buoni risultati pratici; ma la cura più spicciativa e più naturale, che il popolo ritrovò e adottò, fu quella del ballo. Mediante certe speciali suonate si fa scuotere l’ammalato, che danza, danza con movimenti strani e tumultuosi, sino a cadere spossato, bagnato di sudore profuso; allora può dirsi guarito. Il fatto che tale malattia coglieva e coglie tuttora di solito la gioventù, fece ammettere un certo esaltamento della fantasia, e si credette che vi avessero la loro parte anche le forti passioni di quell’età. Altri asserirono che, siccome il tarantismo, o l’affezione prodotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formassi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola, che veniva espulso appunto mediante il sudore provocato dal ballo.

Molti e valenti medici si occuparono di questo male nella prima metà del nostro secolo. Il Tonelli, in base ad una serie di esperienze positive, si persuase della innocuità della tarantola: secondo lui, se esisteva nella Puglia una monomania endemica, il cui straordinario bisogno di danzare ne costituiva il principale sintomo, non si poteva attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Alla opinione del Tonelli si accostò anche il Prof. Migliari, il quale, per molte prove, si persuase che non già la tarantola costringesse a ballare quei che ne erano morsicati, ma che la danza fosse l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella smania indescrivibile che obbligava i pazienti a vari movimenti; inoltre inclinava a credere anche lui che il ballo fosse in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei Pugliesi, e non della tarantola, che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Altri invece, di non dubbia serietà, giudicarono che il veleno della tarantola agisse realmente sul sistema nervoso e sanguigno, ed in conferma di tale opinione riportarono la testimonianza di osservazioni loro proprie e di fatti accaduti sotto i loro occhi. Notevole il caso avvenuto in quel di Otranto nel 1834 e riferito dal Dottor Giuseppe Ferramosca di Muro.

«Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che si alternavano con una specie di opistotono: la pupilla era mobile, si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e da un sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua soffocazione. Le sostanze fetide aggravavano le sofferenze, che non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da altro medico, otto giorni dopo il principiare del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò, sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed i frequenti conati di vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto, dietro uno sforzo di vomito e di tosse, si vede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella.

Sorpreso il Dottor Francesco Ferramosca, cominciò a indagare in qual modo la tarantola poté cacciarsi nella gola di quella donna, e rilevò che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto con alcune sue giovani compagne, e colà, avendo trovato un grappolo di uva primaticcia già quasi maturo, avendone fatto pompa, accorsero le compagne, perché di mano glielo togliessero, ed essa fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte senza aver tempo di frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini di uva». Il carattere dignitoso e grave del Dottor Ferramosca non permise di ritenere questo fatto come inventato, allo scopo di esaltare gli animi degli appassionati del tarantolismo.

Chi studiò il tarantolismo con maggiore interesse, forse, fu il Dottor Salvatore De Renzi, il quale su questa malattia tenne una conferenza a Napoli, nell’Accademia medico chirurgica, il 18 luglio 1832. Egli ci ha lasciato anche un’accurata descrizione della tarantola pugliese, la quale corrisponderebbe al Phalangio di Aristotele, un insetto della famiglia dei ragni, coll’esterno di diversi colori ecc.

Il De Renzi recatosi a Taranto, per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, ebbe occasione di studiarvi due malattie caratteristiche del Leccese, il costipo e il tarantismo. È vero si domandò dopo una serie di osservazioni, è vero che il morso della tarantola produca gli effetti che comunemente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi?. Constatò anch’egli che questi fatti si riscontravano per lo più in età in cui le passioni erano più intense, e ciò valse a fargli credere che non di rado l’amore rappresentasse la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrassero attarantolate per nascondere più grave ferita che le faceva delirare. Però contro l’opinione di alcuni francesi, i quali ritenevano un tessuto di pure favole quel tanto che si narrava sul veleno della tarantola, il De Renzi, partendo dall’esame dei fatti e di esperienza, dichiarò che il veleno della tarantola agiva sul sistema nervoso e propriamente sul nervo trispalncnico e sue dipendenze, e presentava effetti in parte simili a quelli prodotti dal veleno della vipera, in parte propri e distinti. Il disordine delle funzioni respiratorie, e quella specie di torpore del sistema muscolare erano appunto conseguenze immediate del virus, a cui si accompagnava anche una specie di esaltazione cerebrale. Il De Renzi consigliava l’uso di medicine diaforetiche; ma d’altra parte riconosceva che, perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero state queste meno efficaci dei mezzi che d’ordinario in Terra d’Otranto solevano adoperarsi, dove bisognava curare non solo l’effetto fisico del morbo, ma anche il morale.

Molte e remote sono le testimonianze degli effetti della musica sul sistema nervoso; ce ne offrono la storia sacra, la profana, la mitologia.

Per mezzo, di speciali accordi Drahonet e il Prof. Ruggieri videro risanati molti loro infermi; ed il Lictenthal, nella sua opera sull’influenza della musica sul corpo umano, raccolse numerosi esempi, dai quali apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite certe malattie convulsive. Tra i casi di tarantismo guarito colla musica, che il De Renzi raccolse da fonti autorevoli nel leccese, cito questi due. In Novoli una bambina al terzo mese della sua età fu morsicata dalla tarantola; e subito divenne inquieta, manifestò un inceppamento nel respiro ed un pianto acuto, uno stridulo lamento.

Sintomi soffocativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizi della flogosi locale nel sito del morso, assicurarono gli afflitti genitori sulla natura del male. Si ricorse al consueto rimedio del suono, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione, finché defatigata, oppressa, dà in abbondante sudore; messa a letto, si abbandona ad un sonno ristoratore, dal quale si sveglia perfettamente guarita. L’altro è un esperimento, fatto da un colto medico di Lecce. Questi avvicinò al piede di un mietitore che dormiva, una di quelle tarantole alle quali si attribuisce un veleno più efficace, uccise poi l’animale e lo nascose, per non dar luogo a riscaldamento di fantasia. Svegliatosi il mietitore, si sentì addolorato nel piede, dove si notò un circolare indurimento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa: uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso furono i sintomi che tosto si manifestarono. Sulle prime si credette ad una ferita d’ape, ma, crescendo l’oppressione ed il delirio, si tentarono i soliti accordi, i quali ridestarono il ballo consueto, che diede all’infermo una subita e compiuta guarigione.

Sappiamo che nel 1693 il celebre medico Clarizio, invitato ad un pubblico esperimento in Napoli da D. Domenico Sanguineto, si fece mordere dalle tarantole Pugliesi alle braccia, alle gambe, alle labbra, ma non ballò, non cantò, non sospirò. E diremo anche, senza andar per le lunghe, che oltre quelli già citati, altri moltissimi scienziati scrissero contro il tarantismo, tra cui l’Epifanius, il Peripatetico, il De La Hire, il Redi, ecc.: tutti questi d’accordo biasimano l’uso invalso nel Leccese di ricorrere in tali casi non già al medico, né alle cure suggerite dalla scienza, ma al ballo, ritenuto dal popolo una necessità assoluta.

Ai nostri giorni il tarantolismo, che nelle antiche patologie aveva tutto un capitolo a sé, è passato invece nel campo della folkloristica, e costituisce una delle più caratteristiche superstizioni tradizionali di Terra d’Otranto. È così frequente, massimo nei mesi d’estate, esser colpito per le vie dei nostri bianchi paesi, da uno strimpellare di violino, di organetto, di tamburello, accompagnato da un canto lamentevole, improntato ad una profonda mestizia, ad una delicata sentimentalità. Se ci avviciniamo a quella casa, ficcando lo sguardo attraverso le teste dei contadini e delle donnicciole che si affollano ritte sulla soglia, vediamo nel mezzo della stanza una donna, giovane ancora, una brutta figlia di campi, discinta, coi capelli pioventi sulle spalle, che, afferrando convulsamente una fune che pende dal tetto, gira intorno e si dimena con mille strani contorcimenti. E quando spossata, ansante, si ferma a pigliare un momento di riposo, la donna che suona il tamburello, o l’uomo che suona il violino, cantando, la incitano a riprendere il ballo; finché la paziente, dopo parecchie ore di quel martirio, cade su di un pagliericcio, in preda a un forte abbattimento. Questa donna è la nostra tarantata. Si è voluta ricercare l’origine di questo ballo in una speculazione assai raffinata, ed in una certa civetteria muliebre insieme; poiché alla tarantata si concede la scelta di un nastro smagliante, non solo, ma per un certo tempo era invalso l’uso che il padre, il marito o il fidanzato dovesse regalarle, dopo la guarigione, un abito dal colore del nastro scelto durante il ballo. E si credeva che la donna morsicata scegliesse sempre un nastro corrispondente al colore dell’animale che le aveva inoculato il veleno.

Trascrivo il racconto della sua malattia, che una povera donna del popolo di Manduria ripeté con tutta spontaneità al prof. Gigli, il quale ne fece una traduzione letteraria fedelissima.

«Raccoglievo con altre donne la spiga in un gran podere, il sole gettava onde di fuoco; a noi tutte mancava il respiro; tantoche, prima di mezzogiorno, lasciammo l’usato lavoro, e ci sdraiammo al rezzo d’un muricciolo. Mentre, dopo avere assaggiato un boccone di pane, cercavo di chiudere gli occhi al sonno, all’improvviso ebbi un sussulto, e nello stesso tempo intesi un forte dolore a una mano: mi levai in piedi, cercai la causa del dolore, ma non vidi nulla.

Capii subito però: ero stata morsicata dalla tarantola. Cominciai a piangere: povera me! Pei poveri quella è una grande sventura, perché è una malattia lunga, che vieta loro per lungo tempo il lavoro. Tornata a casa, cercai di porre qualche rimedio al male con medicature e decotti; ma non mi giovò niente. Dopo qualche tempo il male incalzava.

Compresi che un solo espediente mi restava: ballare. Da quel giorno non chiusi quasi più gli occhi al sonno. Un dolore continuo mi teneva in disagio tutta la persona. Ciò però era niente: il male principale era una profonda malinconia che mi assalse nell’anima. Mi pareva ogni cosa oscura: le persone tutte vestite di nero, dipinte di nero le cose. Il pensiero della morte mi prostrava l’animo; pensavo che, morendo, lasciavo un pover’uomo con quattro figli, l’ultimo dei quali ha solo due anni! Durante i due o tre giorni, in cui si fecero i preparativi per il ballo, non potetti toccar cibo.

La notte che precedette il ballo, fui costretta a stare in piedi, camminando continuamente per la casa. Mi sentivo mancare il respiro, come se una mano di ferro mi stringesse il seno e il cuore. All’alba mi sentì un poco meglio, e mi sdraiai sul letto. Dopo mezz’ora però un improvviso sussulto mi fece saltare in terra, e da quel momento non ebbi un istante di requie. Si mandarono subito a chiamare i suonatori, e si distesero innanzi a me dieci o dodici fazzoletti di vari colori. Cominciai a ballare. Chi può dire quel che soffersi? Il colore dei fazzoletti non leniva il mio spasimo: segno che nessuno di essi corrispondeva al colore della tarantola. All’improvviso diedi un grido: avevo visto un giovane vestito di nero. E m’intesi un poco meglio. Quel nero era il colore che dovevo guardare fissamente, perché la tarantola era nera, dopo tre giorni di continuo ballo, stetti bene».

Riporto anche un canto dialettale, condito di parecchi italianismi, col quale in quel di Manduria si accompagna il ballo della taranta, e che lo stesso Giglio raccolse dalla bocca di una di quelle cantatrici di mestiere:

Malinconicu cantu, e allegru mai,

caccciami fora ‘sti malincunii.

Comu l’aggiu a cacciari, quannu tu sai?

Aia un cori e lu dunai a te.

Bella, iu partu, arrivederci, addiu,

nu ’ti scurdari ci ti cori t’ama

nu ti scurdari di lu nomi miu,

mentri la sorti luntanu mi chiama.

Ci hai la noha ca muertu so’io,

bella, ca ti la caccianu la fiama…

ma tu ninfosi la finisci a Dio

mentre ca campu iu, stu cori t’ama!

“La Tarantola” in un’incisione acquerellata settecentesca (coll. privata).

 

Ma il tarantolismo, oltre i patologi ed i folkloristi, ha interessato anche i commediografi, ed ha fornito al bolognese Albergati Capacelli la materia per una brillantissima farsa: La Tarantola, nella quale, nel giro di 14 scene e nello spazio di poche ore si svolge un’azione tutta arguzia, verità, naturalezza.

Se noi sapessimo che il tarantismo fosse stato una malattia esclusivamente pugliese, non dovremmo meravigliarci che l’Albergati ne avesse avuta conoscenza, data la versatilità del suo ingegno, la cura che mettea nella ricerca di tutto ciò che di comico offrisse la società del suo tempo.

F. FERRUCCIO GUERRIERI, Il Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII, Tipografia cooperativa, Lecce 1904. Copertina del testo a stampa (coll. privata).

 

Ma il tarantismo si conosceva anche nel Bolognese, poiché nell’Osservatore Medico del 1895 alla pagina 99, il professor Migliari parlò di un caso avvenuto in quel di Bologna, servendosene di prova, insieme con altri, per dimostrare come il suono, il ballo fossero qualche cosa di estraneo assolutamente alla morsicatura della tarantola, ed un effetto solo di idee preconcette.

R. MEAD, Opera Medica, Napoli 1752. Tavola con il disegno della Tarantola, fig. 5 allegata alla “Dissertatio” (coll. privata).

 

“Lycosa Tarentula” (laboratorio Codex).

 

 

Nota bibliografica

AA.Vv., Lecce 1898, Numero Unico per le Feste Inaugurali nel giugno 1898, Lecce R. Tipografia Editrice Salentina Ditta Fratelli Spacciante, 1898. Più specificatamente per Novoli ritengo opportuno richiamare quanto scrive L.G. De Simone nella sua Vita della Terra d’Otranto, pubblicata a puntate a Firenze nella seconda metà dell’800 sulla Rivista Europea e ora ristampata dalle Edizioni del Grifo. Scrive testualmente il De Simone a proposito del ballo della Taranta: «Prima di compiere queste descrizioni, ho io chiamati ed interrogati i due più celebri musicisti della Taranta, ne’ nostri contorni; essi sono un cieco, Francesco Mazzotta da Novoli (il violino), Donata Dell’Anna di Arnesano (il tamburieddhu). Il Mazzotta conta trent’anni di esercizio della sua professione e dice che i «temi» e i muedi ha appreso dai vecchi violinisti del suo villaggio che li avevano imparati da’ più vecchi di loro; per modo che la sua musica immemorabile è arrivata a lui per tradizione o per scrivere la sua frase, per filios filioru (filios filiorum. Egli dice che a Novoli è la vera «pianta della taranta» e che per ciò sempre vi sono stati «Fabbricanti di violini» (così dicendo mostrava il suo, costruito da uno Stradivario di Novoli). La celebrità dell’arco suo lo ha fatto peregrinare «sempre dietro richiesta» per Torchiarolo, Arnesano, Campi Salentina, Trepuzzi, Squinzano, San Pietro Vernotico, Cellino San Marco, Surbo, Nardò, Monteroni di Lecce, San Pietro in Lama, Lequile, Guagnano, San Donaci, San Pancrazio, a suonar «Le Tarante»; ed in tutti questi luoghi ha operato meravigliose guarigioni, a sentirlo! Non ha mai voluto prestare i soccorsi dell’arte in Melendugno, Sava, Manduria, Martina Franca, San Giorgio sotto Taranto, Monteparano, Lizzano, Montemesola, Castellaneta, Grottaglie, Francavilla Fontana, Brindisi» dove il muedu è sempre lo stesso, ma manca la vera tradizione dell’arte «perché luoghi molto lontani da Novoli». (Cfr. G. Spagnolo, Per Filios Filioru. Tra fabbricanti di violini e balli della Taranta, in “Lu Puzzu te la Matonna”, Numero Unico, a. III, 21 luglio 1996;

N. Caputi, De Tarantulae Anatome et Morsu..., Lycii, Typis Dominici Viverito, MDCCXLI;

L. Chiriatti, Morso d’Amore (Viaggio nel Tarantismo Salentino), Capone Ed. 1995. Questo libro è l’importante ricerca (minuziosa e aggiornata) sul fenomeno del Tarantismo che l’autore «ha vissuto sulla propria pelle»;

E. De Martino, La Terra del Rimorso, 1961 (opera straordinaria che con un’ampia e preziosa bibliografia documenta l’apparizione della taranta e del suo morso velenoso, il ricorrente al suo esorcismo musicale, richiamando tra l’altro le opere dei più importanti autori di Terra d’Otranto come il Marciano, il Giovene, il Baglivi, Epifanio Ferdinando, N. Caputo, il Serao, ecc. La ricerca fu compiuta nell’estate del 1959 e la sua équipe stabilì che i tarantati, all’epoca, nel Salento, erano non più di 100;

B. Montinaro, San Paolo dei serpenti. Analisi di una tradizione, Sellerio Ed., 1996;

F. Ferruccio Guerrieri, Il Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII, Tip. Cooperativa, Lecce 1904 (Lo stesso articolo è stato riproposto in Il Bardo, Fogli di Cultura, luglio 1993;

F. Ferruccio Guerrieri, Il tarantolismo leccese (nella patologia, nella folkloristica e nella commedia), in Lecce 1898, R. Tipografia Editrice Salentina Fratelli Spacciante, Lecce 1898. Il suddetto articolo qui riproposto, non risulta inserito nei repertori bibliografici dei testi da noi consultati che si sono occupati del tarantismo;

G. Spagnolo, E ballanu e ballanu, inLu Lampiune”, a. XII, 1996;

G. Stefani (a cura di), Intense Emozioni in Musica, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, Bologna 1996 (nell’intervista fatta a Giorgio di Lecce ad Assisi 21 marzo 1995, vi è un ulteriore riferimento al Tarantismo a Novoli dove «c’era uno che esplorava nell’ambito di dodici arie») p. 111.

 

In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XXIII, 17 luglio 2016, pp. 17-21 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 345-352, Novoli 2024.

Casarano e i miracoli di San Giovanni elemosiniere

di Fabio Cavallo – Rocco Severino De Micheli – Luigi Sindaco

 

Il miracolo: definizione e criteri di riconoscimento

Secondo la teologia cattolica il miracolo è un evento straordinario che, andando al di là delle leggi naturali, si considera operato da Dio in forma diretta o per l’intercessione della Madonna o dei Santi. Benché la Chiesa non imponga l’obbligo di crederci, definendoli come un valido aiuto alla maturazione della Fede in Dio, i miracoli hanno rivestito un ruolo di prim’ordine nella millenaria storia del Cristianesimo. Ogni comunità di fedeli, dal piccolo villaggio alla grande città, annovera, nei suoi annali, almeno un evento soprannaturale attribuito al proprio patrono o al santo più invocato. Anzi, un tempo, la scelta del tutore celeste si è basata non tanto nell’imitazione della vita e delle opere ma sulla straordinaria capacità di compiere prodigi e guarigioni. La Chiesa, a differenza di altre religioni, da sempre ha analizzato i vari miracoli con occhio critico vagliandoli attraverso un rigoroso iter che prevede precise disposizioni canoniche e giuridiche che agevolano a fugare dubbi e false credenze.

Un valido esempio di tale severità viene dal “Bureau medical” di Lourdes (1) che ha lo scopo di raccogliere la documentazione medica delle guarigioni che annualmente avvengono presso il santuario. Ad oggi il “Bureau” conserva i dossier di circa 7000 casi di comprovate guarigioni ma di esse, solo 66, hanno superato positivamente i processi ecclesiastici e sono state ufficialmente dichiarate miracoli.

Venendo al nostro San Giovanni Elemosiniere, tutti i prodigi da lui operati sono stati analizzati da apposite commissioni curiali avvalendosi delle inflessibili disposizioni di papa Urbano VIII del 1630(2); pertanto sono considerati autentici e, di conseguenza, rappresentano i segni di un esplicito intervento di Dio nel corso della storia dell’uomo.

Il simulacro di San Giovanni Elemosiniere nella chiesa matrice di Casarano

 

Il culto di San Giovanni elemosiniere a Casarano

Fino a pochi decenni addietro, era diffuso il convincimento che a introdurre a Casarano il culto verso San Giovanni Elemosiniere fossero stati i feudatari napoletani D’Aquino(3) per riconoscenza di un presunto scampato naufragio di alcuni loro navigli mercantili, sorpresi da un fortunale nel Mar Mediterraneo. Dobbiamo aspettare Padre Antonio Chetry(4), massimo personaggio storico della nostra città, il quale, in “Spigolature casaranesi”(5) , sua Opera Omnia, ribalta completamente questa tesi. Egli fornisce una serie di inoppugnabili documenti, desunti dagli archivi della Curia vescovile e della Parrocchia, i quali, già nel 1650, parlano di una chiesa “diruta” (diroccata) intitolata a San Giovanni Elemosiniere, il cui jus patronatus(6) è posseduto dalla corte baronale di Casarano “…da tempo che non è in memoria da homo…”.

I feudatari D’Aquino sono i quarti, in ordine di tempo, ad aver acquisito i feudi di Casarano e Casaranello. Prima di loro hanno governato i Conca, i Filomarino, i Tomacelli e sotto la loro amministrazione fungeva da parrocchiale proprio la cappella di San Giovanni Elemosiniere, oggi identificabile in un antico edificio, mutato nell’uso e nell’aspetto, che insiste in Via F.A. Astore al civico 10. Lo studioso prof. Antonio Sebastiano Serio, nel suo volume Casarano nel Tardo Medioevo(7) confermando l’antichità del culto, ci offre l’inedita e interessante notizia secondo la quale la devozione al presule alessandrino fu introdotta nella nascente Casarano ad opera dei Cavalieri Teutonici(8) che avevano come loro protettore San Giovanni Elemosiniere. Questa comunità di monaci militari era insediata fra gli anfratti della Serra di Casarano, in un particolare luogo, il cui toponimo era “alli Fireri de Sancto Ianni” (ai fratelli di San Giovanni)(9).

E proprio in quell’epoca, l’odierna Casarano cominciava a svilupparsi tra le preservate zone collinari della Serra a discapito dell’originario borgo a valle, Casaranello, maggiormente esposto ai fenomeni atmosferici e alle frequenti devastazioni di predoni e saraceni. Ritornando ai D’Aquino, è storicamente fondato che essi furono molto votati al Santo, e tra essi, in modo particolare, il rampollo Giacomo, V duca di Casarano(10), il quale estrinsecò la sua devozione incaricando il sacerdote casaranese don Felice Lezzi(11), a stendere una monumentale vita del Santo in versi latini, e provvedendo a far stampare eleganti santini presso alcune stamperie tedesche, ottenendo, infine, dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, la concessione, per l’uso del clero locale, dei testi della Messa propria del santo con l’Ufficio, in precedenza accordati al Patriarcato di Venezia.

Frontespizio del manoscritto di Santo Riccio del 1688

 

Il miracolo del 1715

Se oggi festeggiamo il patrocinio di San Giovanni Elemosiniere nella terza domenica di maggio lo dobbiamo certamente a un miracolo avvenuto nel 1715. Prima di affrontare quanto scrissero a tal proposito i cronisti del tempo, è bene fare alcune premesse.

Sino al 1688 la festa religiosa e civile di San Giovanni si teneva il 23 gennaio. Ciò si deduce da un manoscritto dello stesso anno, ad opera del notaio casaranese Santo Riccio(12) il quale descrive minuziosamente i miracoli e le guarigioni operate da un prodigioso affresco del Crocefisso, rinvenuto nella precedente Chiesa Madre del 1600(13). Il notaio narra che in quell’anno, il 27 gennaio, durante le pulizie e i lavori per rimuovere gli addobbi per la passata festa di San Giovanni, egli stesso fu testimone del rinvenimento dell’affresco posto dietro una tela. Ecco l’esatta descrizione del cronista redatta in uno stentato italiano frammisto a termini dialettali:

“…Allaude, e Gloria dell’onnipotente Iddio, Padre, figliuolo, e Spirito Santo, e della Gloriosa Vergine Santa Maria Madre d’Iddio, e di S. Gio. Elemosiniero nostro Protettore, il quale inpetrò frà l’altre dà S.D.M. per sollievo di tutto questo suo Popolo di Casarano, e per tutti li devoti, che à 27 Gennaro dell’Anno 1688 in giorno di Martedì ad hore 22 si manifestasse l’Effiggie del Santissimo Crocifisso dentro là Matrice Chiesa di Casarano dà dietro un quatro di Passione, che steva cadente disse à mè Notaro Santo Riccio Prò Sindico di questa Terra che lò facessi accomodare, e metterlo sopra conforme steva prima, havendomi ritrovato dentro detta Chiesa per là festività caduta di S. Gio: Elemosiniero nostro Protettore à 23 Gennaro di detto Anno 1688. Onde dissi alli Sacristani che pigliassero le scale per accomodare detto quatro, detti Sacristani mi risposero che ne voi fare di accomodare detto quatro, vi basta che ai compita la festività dell’Università, et à questa risposta corsi per pigliare là scala et il Sacristano Chierico Domenico de Paulis subitamente corse e la pigliò lui et il simile fece l’altro Sacristano Chierico Thomaso Castrignanò…sceso à basso detto quatro in tela con l’effiggie anco del Santissmo Crocifisso, viddimmo, et Io viddi l’effiggie di detto Santissimo Crocifisso con Maria Vergine à piedi della Croce et altre figure bellissime…”.

Il manoscritto continua illustrando dettagliatamente tutte le grazie concesse dal Crocifisso rinvenuto. Quindi è certo, a detta del Riccio, che in quegli anni, e fino a tutto il Seicento la festa di San Giovanni, sia religiosa che civile, convergeva nella data del 23 gennaio. La festa dell’“Università” è qui intesa come ricorrenza civica poiché il termine indica la municipalità. Poco meno di trent’anni dopo la situazione si ribalta.

In due interessanti manoscritti del 1717 e del 1799 si parla chiaramente della terza domenica di maggio come giorno dei festeggiamenti. Nel primo documento, datato 22 gennaio, amministratori e notabili di Casarano inoltrano una petizione presso il Re di Napoli per favorire l’istituzione di una fiera commerciale.

Nel memoriale recapitato attraverso la Camera Regia della Sommaria, i cittadini chiesero “…il Privilegio in perpetuum di poter fare la pubblica fiera in detta terra nella terza Domenica di Maggio…” per le “…infinite grazie che giornalmente li vengono concesse…” per intercessione del santo.

Ma qual è il motivo per il quale i Casaranesi avrebbero chiesto l’istituzione della festa del Patrocinio a maggio? La risposta ci viene nel secondo documento del 1799 che ci svela ogni dubbio! Ecco cosa scrive l’anonimo estensore in merito:

“…Nel secondo luogo viene l’altare del Glorioso, e miracoloso S. Gio. Elemosiniero Prottettore. Questo altare fù eretto l’anno 1714, benche non nel modo, che oggi si attrova, essendono provenuti i di lui avanzi nel modo che si dirà. Eretto questo altare per devotione del quondam Notaro Santo Riccio di questa Terra da certi leccesi lavorati, che  anticamente erano della cappella del SS.mo Rosario, ricavò tanto di carità dei particolari, che vi pose nel mezzo una nova statua di lecceso del S.to, lasciando,e levando un’altra, che vi era nell’altare della Chiesa antica, perche di mal galbo. Fù questa rimessa in un’angolo al suolo della chiesa, tutta ravvogliata d’un lacero panno, dove una figliuola di sei in sette anni ogni giorno andava à portarli portione di sua merenda, acciò se la mangiasse, chiamando il Santo co’l nome di Nanni, perche, forse, lo vedeva esser vecchio. Continuando la figliola, ch’era nepote al presente Arciprete, tal semplice più tosto, che pietoso esercitio, un giorno nel regarli del pane, e formaggio, con sconvorgliarli prima i scritti stracci, s’avvide un’uomo, che si attrovò, che la statua sudava goccie di licuore à modo di acqua,et in copia non ordinaria. Secco il luoco, antica la statua, istupidì l’uomo a tal veduta, et accorso il popolo allo stupore, gli Chiesiastici, raccolto con decoro l’abbondante licuore rimesero la statua nel proprio altare, et ella mutata forma, e figura, divenne bella, e devota, come al presente si vede, e cominciò à larga mano, e profusamente à dispenzar gratie a chiunque chiedeva con fede, e devotione. De successi se ne porsero l’avvisi à Mons. Illmo di Nardò. Chi destinando persone dotte, e timorate, portatesi nel luogo, segretamente portata la statua del Santo nella Cappella di S. Antonio, chiesa appartata dalla Matrice, ivi serrata,di tutto l’accaduto ne presero diligentemente informatione, e provato ad abbastanza gli contati successi, quali si conservano nell’archivio di Nardò, fù la statua riposta al suo altare, ove affollati i forastieri à render voti, et à ricever gratie anno arricchita la di lui cappella al modo, che al presente si vede. Continua la devotione al Santo, benche non con quello fervore di prima. Gli chiesiastici però Capitolari osservano ogni attentione alla servitù del Santo, e l’officiali della cappella celebrano con pompa solenne la di lui festa, qual’è la 3 Domenica di maggio, giorno dell’inventione. La festa però natalitia del Santo è alle 23 di Gennaro. Le doti poi di detta cappella si rapportano con distintione all’inventario di detta cappella da farsi dal procuratore di detta Cappella…”.

Così come, già in precedenza, il termine “Università” aveva stuzzicato la nostra attenzione, facendoci concludere che, fino al Seicento, festa religiosa e civile coincidevano, anche qui un particolare termine balza ai nostri occhi: “invenzione”. Questo termine, in gergo ecclesiastico, indica il ritrovamento di reliquie o di oggetti sacri. Ma, in senso più ampio, sta a significare anche la scoperta di un fatto, di un episodio accaduto in circostanze straordinarie. E il versamento di lacrime dal simulacro, testimoniato da molti osservatori, è classificabile come un’invenzione, una scoperta. Lo zelante vescovo Sanfelice(14), che tanto lustro ha dato alla diocesi di Nardò, nella visita pastorale del 1719 fa trascrivere nei verbali di rito questo passaggio:

” [il Vescovo] visitò l’altare di S. Giovanni Elemosiniere, patrono di Casarano, eseguito con le offerte di molti pii uomini, e lodò. In quest’altare si venera la Sacra Immagine di S. Giovanni Elemosiniere che quattro anni prima [quindi nel 1715] con grande miracolo, pianse; della qual cosa fu fatto un processo… e questo comprovato. La stessa Sacra Immagine, per divina virtù, successivamente ha compiuto, e non cessa di compiere, dei miracoli e in tutta la Japigia, anzi in tutto il Regno di Napoli è corsa la sua fama e molti fedeli, dalle più remote regioni del Regno vengono a visitare la Sacra Immagine e parimenti per virtù divina e per intercessione del Santo, ricevono dei benefici”.

Molto corposa è la produzione documentale che accompagna questo avvenimento miracoloso.

Mutuando la tradizione ortodossa, quasi imitando il rituale dell’Artoclasia(15) la confraternita del Santo, nel rispetto di una secolare consuetudine, si prodiga alla preparazione e distribuzione dei panitteddhri, dei panetti benedetti. Sono delle piccole semisfere di pane biscottato che vengono dispensate tra i fedeli rievocando, in maniera ancora viva, quel gesto spontaneo della fanciulla che, oltre tre secoli addietro, condivideva col santo quel tozzo di pane che era la sua merenda.

I “panitteddhri” di San Giovanni distribuiti ai fedeli nella festa del santo

 

I panitteddhri, secondo le credenze popolari hanno il potere di proteggere le abitazioni e i suoi residenti da calamità atmosferiche, in particolare da temporali.

Per questo motivo, è ancora ben radicata l’usanza di esporre i “panitteddhri” su davanzali e finestre recitando l’antica e popolare implorazione rigorosamente in dialetto: “Azzate San Giuvanni meu e nu ddurmire ca sta bisciu tre sciere, scire e bbinire: una te acqua, una te ientu e una te tristu maletiempu…”.

Concludendo, possiamo certamente affermare che il grande miracolo del 1715, comprovato pienamente da un processo canonico, oltre a determinare lo spostamento dei festeggiamenti del patrocinio(16) da gennaio a maggio, ha consolidato in maniera esponenziale la fede e il culto, semplici ma sinceri, dei nostri avi nei confronti di questo grande santo, principe della Carità.

 

Note

1) Presso il santuario di Lourdes si trova il Bureau des constatations médicales (l’Ufficio delle constatazioni mediche), costituito nel 1905 da papa Pio X, che opera secondo i criteri definiti nel XVIII secolo dal cardinale Lambertini, futuro papa Benedetto XIV, per i processi di beatificazione.

2) Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini (Firenze, 5 aprile 1568 – Roma, 29 luglio 1644), è stato il 235º papa della Chiesa cattolica dal 1623 alla morte. Il 23 marzo del 1630, emana il Decretum super electione sanctorum in patronos le cui disposizioni prevedono che nessun santo, tantomeno beato, può essere elevato a patrono di una comunità senza la celebrazione di un iter procedurale particolare. Bisogna innanzitutto che vi sia la volontà del popolo di voler elevare quel santo a patrono, che la città con le sue istituzioni ed i rappresentanti del clero approvino e dopo l’approvazione dell’Ordinario diocesano sia inviata apposita richiesta, con relativa documentazione, alla Sacra Congregazione dei Riti che valutandola, la sottoponga all’approvazione del pontefice per l’elevazione di un solo patrono principale.

3) La famiglia D’Aquino, di origini longobarde, è annoverata tra le sette grandi Case del Regno di Napoli. Il capostipite, molto probabilmente, fu Radoaldo che possedette la città di Aquino, nel Frusinate, verso la fine del IX secolo da cui, successivamente Adenolfo (*997 †1022), suo discendente, prese il cognome; La linea dei D’Aquino di Caramanico ha origine dai nobili di Taranto. Bartolomeo (Napoli, 1609-1658) uno dei capostipiti della dinastia, diventò uno degli uomini più ricchi del regno. Nel maggio del 1637 comprò i feudi di Casarano e Casaranello.

4) Antonio Chetry nacque a Casarano il 13 ottobre 1913 nell’allora “Palazzo Romano” posto in via San Pietro, da Gaetana Concetta Romano (classe 1879) e dal magliese Agostino (classe 1873). Dopo l’asilo infantile presso le Figlie della Carità e le scuole elementari di Casarano, entrò in seminario a Nardò ove frequentò il ginnasio, per poi, nel 1928, far parte della “Compagnia di Gesù” iniziando il noviziato a Napoli-Vomero, dove vi rimase sino al 1937, anno in cui fu ordinato sacerdote. Profondo conoscitore del latino e del greco, fu mandato dapprima a Lecce per l’insegnamento di queste materie presso l’Istituto “Argento” e poi nel dopoguerra a Bari presso l’Istituto “Di Cagno-Abbrescia”, dove insegnò sino al 1980. Si spense a Napoli il 31 ottobre 1984. La città di Casarano gli ha intitolato una strada cittadina.

5) Quaderni I – VI, 1979, Bari – Laterza Editore.

6) E’ il diritto del fondatore della cappellania di scegliere e nominare il cappellano.

7) Collana “Quaderni di Kèfalas e Acindino”, 2020, Manduria – Barbieri Selvaggi Editore.

8) Antico ordine monastico-militare e ospedaliero sorto in Terra Santa nel 1191 all’epoca della “Terza crociata”, conosciuta come “Crociata dei Re”.

9) Per approfondire l’argomento si segnala, in questo portale, “I Cavalieri Teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno” di Marcello Gaballo;

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (III ed ultima parte) – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

e il più recente M. Gaballo, Nuovi studi sui cavalieri teutonici a Santa Maria al Bagno e sulle vicende della masseria Fiume, in Santa Maria al Bagno e l’accoglienza dei profughi ebrei di Paolo Pisacane e Marcello Gaballo, Galatina, Mario Congedo, 2021, pp. 19-40.

10) Giacomo D’Aquino (*7 giugno 1716 †26 ottobre 1788) era figlio del duca Giacinto e di donna Giulia Belli.

11) Felice Lezzi (Casarano, † 17 settembre 1785), dotto latinista ed umanista, fu sacerdote mansionario del Capitolo di Casarano.

12) Santo Leonardo Riccio nacque a Casarano il 28 maggio 1651; fu notaio, vice sindaco e dal 1691 anche chierico istituito. Morì a Casarano il 12 ottobre 1726. Rogò in diversi centri del Salento e persino nel casale di San Giorgio (l’attuale San Giorgio Jonico nel Tarantino).

13) Archivio della Curia vescovile di Nardò, “Libretto dei miracoli operati dal Santissimo Crocifisso di Casarano e compiuti nella Chiesa Matrice di questa città il 27 gennaio 1688 e raccolti dal sottoscritto Santo Riccio, indegno peccatore”.

14) Antonio Sanfelice (1660-1736) fu vescovo di Nardò dal 24 dicembre 1706 al 1° gennaio 1736.

15) Il termine “artoklasia” deriva dal greco (lett. divisione del pane) ed identifica un rito proprio della chiesa ortodossa.

16) La ricorrenza del patrocinio è il giorno in cui un santo viene festeggiato nella sua veste di patrono della località. Differisce dalla ricorrenza liturgica che è fissata dal Martirologio e vale per tutta la Chiesa universale.

Le esecuzioni capitali a Nardò tra il XV e il XVII secolo

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Forse sarebbe stato più corretto sostituire il tra del titolo con del, poiché le uniche due fonti reperite risalgono a quei secoli. Tuttavia è legittimo supporre che nel secolo XVI la situazione non fosse diversa.

Conviene preliminarmente accennare alle modalità dell’istituzione in oggetto, che nel tempo rimasero comuni a molti luoghi, indipendentemente dall’autorità, laica o religiosa, deputata a far eseguire la sentenza. Di regola l’esecuzione, che era pubblica per servire da deterrente1, avveniva in un luogo appositamente attrezzato sito, se possibile, in una posizione elevata rispetto alla limitrofa strada, per consentire un’agevole visione del triste spettacolo, sempre al confine di una giurisdizione, all’entrata nel territorio di una città o di una signoria.

In casi eccezionali, di rilevanza religiosa (eresia, stregoneria) o politica (oppositori del potere in carica), l’esecuzione avveniva nella piazza principale della città e in questi casi veniva utilizzata una forca che potremmo definire portatile, a differenza  della prima, che era fissa.

L’immagine che segue, un’incisione di Jacques Callot (1592-1635) custodita al Louvre, mette in rilievo già nel titolo la finalità primaria, diremmo quasi una prevenzione basata sull’errore e sul terrore,, dell’esecuzione pubblica: Supplicium Sceleris Fraenum (L’esecuzione capitale freno della sceleratezza).

Ulteriore sviluppo del concetto è nella didascalia: Voy, lecVteur, comme la Justice par tant de supplices divers, pour le repos de l’univers, punit des mechans la malice, par l’aspect de ceste figure tu dois tous crimes eviter, pour hereuse ment t’extempter des effectz de la forfaicture (Vedi, lettore, come la giustizia mediante tante esecuzioni capitali diverse per la tranquillità dell’universo punisce la malizia dei malvagi; grazie all’impatto di questa raffigurazione tu devi evitare tutti i crimini , con felice mente liberarti degli effetti della disonestà.

Ancora un’incisione, questa volta di Claes Janszoon Visscher (15861652) custodita nella National Portrait Gallery di Londra, offre un’eloquente idea di tre diversi tipi di esecuzione capitale.

 

Nel cartiglio , retto dalla Giustizia e dalla Fama, si legge: SUPPLICIUM de octo coniuratis sumptum in Britannia, diebus 30, et 31 Ja, stÿl. vet., vel Anno MDCVI Sumptum quidem separatim de quaternis, Sed tamen propter eandem omninp Supplicij rationem, hac tabella coniunctim expressum (Punizione inflitta in Gran Bretagna ad otto cospiratori nei giorni 30 e 31 gennaio secondo una vecchia usanza nell’anno 1606 invero inflitto separatamente in gruppi di quattro ma tuttavia per lo stessa finalità di punizione rappresentata congiuntamente in questa tavola). Da sinistra verso destra: apertura del torace con l’accetta ed estrazione del cuore (n. 1), impiccagione (n. 2), squartamento (nn. 3-8). Di seguiti i dettagli relativi al n.1 e al n. 2 e e per lo squartamento solo il n. 3.

 

Per Nardò la prima fonte è in una pergamena contenente un atto del 20 luglio 14432, nella quale si legge: … item asseruerunt et testificati sunt dicti inventatores limites seu fines et confinia dicti casalis procedere modo sub(scrip)to , videlicet incipiendo a partibua in quibus sunt furche de novo constructe in tenimento Neritoni, iuxta territorium prelibati casalis, que sunt posite iuxta viam ca(r)raliciam per quam itur Neritono Derneum, iuxta feudum nominatum de Fango3 … ( … parimenti i detti incaricati a fare l’inventatio asserirono e attestarono che i limiti, o territori e confini di detto casale3 procedono nel modo sottoscritto, cioè cominciando dalle parti in cui ci sono le forche costruite di recente nella giurisdizione di Nardò  presso il territorio del casale prima esaminato4, che sono poste presso la via carrabile per la quale si va da Nardò all’Arneo, presso il feudo chiamato del Fango …).

Questa descrizione così precisa, indotta dalla necessita di descrivere dettagliatamente i confini del casale di Ignano, poco più avanti cede il posto ad un’altra citazione delle forche, la cui lapidarietà non suscita nessun rimpianto grazie all’esaustività della prima. lnfatti vi si legge: … dirigit per viam publicam usque ad patibulum seu furcas predictas…5 ( … va direttamente attraverso la via pubblica fino al patibolo o forche predette …).

La seconda testimonianza è in Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Giovanni Battista Biscozzo di detta Città6. Vi si legge: A 20 agosto  1647 … nell’istessa notte fu ammazzato il Barone Pietrantonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo d’anni 37, morto che fu l’appesero per piede alle furche mezzo della Piazza, e le teste delli preti, furono poste su il Sedile, e li corpi de medesimi distesi nella piazza attorno le furche.   

Qui le forche (furche fa pensare al modello per esecuzioni multiple), appare non come strumento di esecuzione ma come componente di una macabra coreografia destinata a non essere mai desueta e che tecnicamente ha il nome di esecuzione postuma (eseguita in alcuni casi addirittura dopo la riesumazione!)8.

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1 Non a caso patibolo è dal latino patibulum, composto dalla radice del verbo patère (=essere aperto) e da un suffisso indicante strumento (come in conciliabolo, turibolo e non molti altri).

Forca, che è dal latino furca(m), usato estensivamente per patibolo, all’origine indicava un ramo biforcuto, poi, per somiglianza di forma l’attrezzo agricolo e quello utilizzato per l’impiccagione. Di questa voce, come s’è detto di origine agricola, straordinaria è la polisemia, cioè la pluralità di significati che essa ha assunto nel tempo e che già in origine era notevole, tanto che qui ci si limita a ricordarne solo alcuni. Nel latino classico, infatti, poteva designare, oltre alla forca e al forcone, anche il puntello, il palo di sostegno forcuto, il giogo, il patibolo per gli schiavi e, al plurale, le chele del granchio. Nel latino medioevale furca designava il diritto di erigere nel territorio di un feudo un patibolo e di procedere alle esecuzioni; il diminutivo fùrcula designava la parte del petto dove si diramano le vene epatiche;  furco designava un campo che biforcandosi ne includeva un altro; la locuzione furca et rastrum designava il diritto spettante al padrone nei confronti di coloro che avevano l’obbligo di raccogliere con la forca o col rastrello il suo fieno; la locuzione furca putei designava la trave, posta in alto sul pozzo che regge l’attrezzatura necessaria per attingere l’acqua. E poi, più vicini al nostro tempo, forcella, forcina, forchetta,
fiocina, forcipe e le locuzioni inforcare la bicicletta, inforcare gli occhiali e pendaglio da forca.

2 La pergamena è pubblicata in Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardo (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari,1981, pp. 114-121.

3 Le pergamene …, op. cit., p, 120

4 È quello di Ignano.

5 Le pergamene …, op. cit., p, 121

6 Pubblicato da Nicola Vacca in Rinascenza Salentina, n. XIV, 1936, pp. 1-25.

7 Libro d’annali … op. cit., p. 16

8 Un’esecuzione postuma in senso lato per quanto riguarda il potere religioso può essere considerato il divieto di sepoltura dei morti in disgrazia non solo all’interno di una chiesa ma delle mura cittadine. A Nardò ad essi era riservata un’area in corrispondenza dell’attuale Osanna, di fronte a Porta San Paolo. Sono sempre le testimonianze scritte che ci informano di questo: il 17 aprile 1724 “fu uccisa Maria di Nardò dal fratello Carlo Fornaro in campagna, e proprio dentro la casa dei fratelli di Cantore, dirimpetto alla chiusa delle Stanzie”. L’ospedale di Nardò spese 45 grana “per farla portare in città e poi farla pregare fuori di Chiesa e proprio vicino alla Chiesa della Carità”. Il virgolettato si legge nel Carteggio dell’Ospedale S. Giuseppe-Sambiasi (1650-1938). Va ricordato pure a tal proposito che solo nel 1983 il nuovo codice di diritto canonico non contiene nessun riferimento ai peccatori pubblici e manifesti (tra essi erano anche i suicidi), ai quali l’articolo 1240 del vecchio canone proibiva il consueto funerale.

Libri| Ernesto De Martino e Vittorio Macchioro – Storia di un’inquieta relazione affettiva e intellettuale

Il saggio Ernesto De Martino e Vittorio Macchioro – Storia di un’inquieta relazione affettiva e intellettuale dello storico della filosofia Romualdo Rossetti, edito da Kurumuny per la collana «Pensieri Meridiani», esamina nel dettaglio e nella più rigorosa ricerca diacronica quali furono gli eventi che legarono due importanti intellettuali del Novecento italiano: il giovane Ernesto De Martino e Vittorio Macchioro, uno dei più importanti antichisti e arche-iconologi che diverranno, nel corso della storia narrata, allievo e maestro ma anche genero e suocero, in un percorso iniziatico di crescita personale. Nell’enucleare l’avventura esistenziale dei due personaggi l’autore ha tenuto in debito conto i maggiori avvenimenti che segnarono culturalmente e politicamente l’Italia dai primi anni del XX secolo fino agli anni Sessanta.

Il giovane De Martino

 

Il giovane Macchioro

 

La struttura dell’opera, ideata e creata come un intricato gioco di “scatole cinesi” per dar risalto al pàthos narrativo è suddivisa in undici capitoli, tutti minuziosamente redatti sotto il profilo biografico. In questi si è fatto riferimento costante a tutto il carteggio esistente tra De Martino e Vittorio Macchioro unitamente alla corrispondenza più importante tenuta dal primo nel corso della sua formazione professionale; compaiono, infatti, missive destinate ad autori del calibro di Adolfo Omodeo (professore con quale De Martino si laureò in Filosofia a Napoli dibattendo – consigliato e assistito da Macchioro ‒ la tesi sui Gephyrismi eleusini), Benedetto Croce, Raffaele Pettazzoni, Ernst Cassirer, Ernesto Bozzano, Remo Cantoni, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Rocco Scotellaro e molti altri.

Il saggio prende inizio dagli avvenimenti che segnarono la vita del giovane Ernesto De Martino, dai rapporti con la sua famiglia al suo precario stato di salute minato dall’epilessia, dal corso disordinato dei suoi studi per aver seguito gli spostamenti lavorativi del padre alle sue convinzioni politiche legate alla mistica fascista per un possibile varo di una Religione Civile atta a forgiare una nuova tipologia antropologica e politica.

Si passa, poi, al secondo capitolo dove si tratteggia il complesso ritratto umano e professionale di Vittorio Raffaele Macchioro, intellettuale e ricercatore di origini ebree di rito sefardita nato a Trieste nel 1880 ma residente a Napoli, divenuto un importantissimo antichista e divulgatore d’alto prestigio, nonché archeologo e iconologo propugnatore d’un nuovo indirizzo di ricerca ermeneutico legato allo spirito dell’artista produttore e al modus di vivere il pensiero religioso antico che il professore triestino trovò impregnato di misticismo pagano. Nel capitolo trovano posto le sue vicissitudini personali del personaggio, le sue pubblicazioni, i suoi successi accademici ma anche i suoi clamorosi fraintendimenti, primo fra tutti, l’aver ostinatamente voluto credere che la destinazione ultima di Villa Item a Pompei fosse quella iniziatico rituale di stampo orfico. Non si è tralasciato di narrare la sua tormentata vita religiosa che lo portò negli anni universitari ad abbracciare la fede cattolica per poi transitare nell’evangelismo di stampo valdese e in altre confessioni riformate.

Macchioro con sua moglie

 

Il terzo capitolo, esamina invece, l’inizio del discepolato che vide Macchioro legarsi sempre più a De Martino, il cui discepolato prendeva a tratti le parvenze di una vera e propria avventura iniziatica, mentre le missive del maestro testimoniano una paternalistica buona propensione verso le aspirazioni del giovane intellettuale ‒ arricchita da suggerimenti riguardo ai rischi di una Religione Civile da lui ingenuamente vagheggiata.

Nel capitolo seguente si darà spazio all’avventura indiana di Vittorio Macchioro, che su incarico del console Scarpa, dovette recarsi in India in qualità di visiting professor per tenere un ciclo di conferenze sull’orfismo e la religione greca arcaica da tenere presso le università Hindu di Benares, Delhi, Calcutta, con lo scopo recondito e strategico di costruire un ponte culturale con l’Italia per gli intellettuali nazionalisti indiani il tutto in aperta funzione antibritannica. Nel capitolo si descrivono le sensazioni provate dal professore triestino riguardo lo spirito religioso indiano e la filosofia e la pratica dello Yoga, disciplina che lo attrasse a tal punto da farlo divenire un fervente adepto e praticante. Non vengono tralasciate le misteriose vicende che lo videro coinvolto in un intrigo di spie inglesi gestito dal chiromante Alastor che gli avrebbero fatto fallire il piano a lui affidato da Benito Mussolini, all’epoca ministro degli Affari Esteri ad interim.

Al capitolo segue il triste rientro in Italia di Macchioro e il suo trasferimento d’ufficio nel 1936 a Trieste, presso la Soprintendenza della Venezia Giulia, per assolvere il ruolo di direttore responsabile degli scavi archeologici del teatro romano della città, e la tentata scalata nel mondo letterario italiano, avventura costellata da delusioni pubbliche e private, da difficoltà nel trovare un editore disposto a prendere in seria considerazione i suoi scritti, che lo portò a legarsi morbosamente a una cartomante e a praticare con una certa assiduità la pratica sticomantica. Fu il periodo in cui prese vita un primo distacco con De Martino, divenuto nel frattempo suo genero, reo di essersi troppo avvicinato al “Circolo di Villa Laterza” e in particolar modo Benedetto Croce, colui il quale, tempo prima, aveva ostacolato la sua nomina alla cattedra di Storia del Cristianesimo presso la Regia Università di Napoli preferendogli Adolfo Omodeo.

Nonostante tutto quel periodo vide anche la realizzazione del sogno di dare alle stampe ‒ per merito di de Marino, che nel frattempo era divenuto suo genero e che era riuscito a trovare un editore, il salentino Oreste Macrì, disposto a farsi carico di due progetti narrativi ‒ il romanzo Il gioco di Satana che venne pubblicato nel 1938 anche all’estero e quello intitolato La grande luce dato alle stampe nel 1939. I rapporti tra i due si sarebbero, poi, irrimediabilmente interrotti per un moto di ira e gelosia del triestino, che si sentì utilizzato e poi abbandonato dal vecchio allievo a anche suo genero sempre più ammaliato dalla personalità forte e autorevole di Benedetto Croce. Il capitolo si conclude con il rientro a Napoli di Macchioro per il varo delle leggi razziali e il suo internamento presso vari centri di reclusione delle Marche destinati agli ebrei e ai nemici di guerra.

La storia, però continua e nell’annoverare la parabola discendente dell’uno si dà risalto a quella discendente dell’altro, che darà alle stampe, presso la casa editrice barese Laterza, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, il suo primo saggio, nel quale con uno stile polemico attaccò tutte le scuole di pensiero europee, e in particolar modo quegli autori come émile Durkheim, Lucien Lévy-Bruhl, Edward Burnett Tylor, James George Frazer e padre Wilhelm Schmidt che avevano catalogato erroneamente il pensiero dei cosiddetti “Primitivi”.  A suo avviso sarebbe stato opportuno, invece, rifondare l’etnologia sotto i presupposti filosofici dello storicismo crociano in quanto unico indirizzo gnoseologico utile alla ricerca.

La pubblicazione di Naturalismo e storicismo nell’etnologia fece sì che il giovane De Martino ‒ che nel frattempo avendo vinto il concorso a cattedra per l’insegnamento di Storia e Filosofia aveva ottenuto la cattedra di docente al Liceo scientifico barese “A. Scacchi” – frequentasse assiduamente gli intellettuali che attorniavano Benedetto Croce, quando era ospite degli editori Laterza. Tra questi si sarebbe legato a Michele Cifarelli, Fabrizio Canfora e soprattutto a Tommaso Fiore.

La narrazione prosegue esaminando la palingenesi politica di Ernesto De Martino che da iniziali  posizioni spiritiane si andò avvicinando progressivamente a quelle di Giustizia e Libertà, creando insieme ai personaggi sovra menzionati, ad esclusione di Benedetto Croce, fermo su posizioni dottrinarie liberali puriste, la prima cellula antifascista barese di ispirazione liberalsocialista, avventura che si sarebbe conclusa tragicamente con la sua delazione, sotto un brusco interrogatorio dell’OVRA, contro Tomaso Fiore. Quell’atto costò a quest’ultimo la prigionia in vari luoghi di detenzione fascisti, e al giovane De Martino in un trasferimento a Lucca. Da lì il giovane docente napoletano avrebbe maturato altre convinzioni politiche prendendo parte attiva alla Resistenza Romagnola transitando nel PdA, fino ad aderire al PSIUP, passando per il Partito Socialista dei Lavoratori (Italia).

In quel contesto di disordine bellico ed esistenziale avrebbe presso forma il suo lavoro saggistico più importante, edito dalla casa editrice Einaudi, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, di cui si esamineranno nell’ordine la gestazione, la nascita e le ripercussioni culturali, senza per questo trascurare altri importanti scritti minori.

La nascita de Il mondo magico coincise con la creazione della Collezione di studi religiosi etnologici e psicologici Einaudi che sarebbe stata riconosciuta col nome di Collana Viola, fortemente voluta da Ernesto De Martino e Cesare Pavese, la cui storia è stata descritta dettagliatamente nel nono capitolo.

Nel decimo, invece, si è dato risalto all’avventura etnologica di De Martino nella Lucania di Rocco Scotellaro che seguì la bussola meridionalistica e concettuale del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e alla militanza, a volte scomoda, nelle fila del PCI di Palmiro Togliatti fino alla rinuncia al tesseramento annuale per solidarietà al popolo ungherese. La narrazione delle spedizioni in Lucania che avrebbero sancito la nascita di Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria e buona parte di Sud e Magia, la prima e la seconda opera della trilogia meridionalistica di De Martino fungeranno da spina dorsale del penultimo capitolo.

L’ultima parte del saggio analizza l’anno 1959, per entrambi gli autori. Anno di morte per Macchioro, sempre più minato nello spirito e nella mente, dalle sue traversie esistenziali che lo portarono, dopo la more di sua moglie Rosita Parra a rinchiudersi in un convento; anno ricco di successi invece per De Martino che si aggiudicò il primo premio “Viareggio Repaci” per la sezione saggistica con Morte e pianto rituale nel mondo antico e per aver vinto in concorso a cattedra universitario in Storia delle religioni che lo vedrà insediarsi a Cagliari l’anno seguente.

Non manca l’esame dettagliato delle varie convergenze intellettuali tra i due autori che ebbero come comune punto d’incontro, di vivere i risvolti del pensiero religioso sulle loro esistenze personali.

Pubblicato il 20.06.2024

Formato 18×22,5 cm.

Pagine 386

ISBN 9791281083462

Collana Pensieri Meridiani

https://kurumuny.it/pensieri-meridiani/303-ernesto-de-martino-e-vittorio-macchioro-9791281083462-romualdo-rossetti.html

 

 

Alezio e Santa Filomena. Una statua, una storia

di Massimiliano Albino Dei Sommi

Finalmente è ritorna a casa Santa Filomena, dopo decenni di oblio… Nella parrocchia S.M. Addolorata, ad Alezio, sono stati presentati i lavori di restauro della stupenda statua della Vergine Martire Filomena; un vero gioiello della cartapesta della prima metà del XIX secolo. Un lavoro certosino quello svolto dal M° restauratore Valerio Andrea Giorgino, il quale ha impiegato un bel po’ di tempo, quasi due anni, prima di poter riportare la statua al suo splendore originale! Una gioia per l’intera comunità aletina, poter riabbracciare questa statua che non si vedeva in Chiesa da un bel po’. Una statua alla quale molti devoti si sono rivolti chiedendo una grazia e che ora potranno rivedere in tutta la sua bellezza, quella bellezza di una giovane ragazza che ha donato tutta se stessa per seguire il Signore.

Dietro questa statua però c’è ben altro, c’è una vera e propria storia.

Agli inizi dell’800 nell’entroterra di Gallipoli, quando ancora non esisteva neanche il comune di Villa Picciotti, ma solo una contrada con questo nome, un facoltoso commerciante e proprietario terriero, Cataldo Mezzi, proprietario di questa statua in cartapesta di Santa Filomena, decide di intraprendere un’iniziativa che avrà ripercussioni significative nella storia di questa comunità. Raccogliendo un diffuso sentimento del popolo e di altre influenti famiglie del luogo invia, in data 18 dicembre 1837, una supplica al vescovo di Gallipoli Giovanni Maria Giove per richiedere l’erezione di una seconda chiesa da intitolare alla Santa cui la sua famiglia è devota: Santa Filomena.

Da questo documento rintracciato nell’archivio diocesano di Gallipoli ha avuto inizio il percorso che ci ha portati ad approfondire e a ricostruire quanto avvenuto successivamente.

La chiesa appena finita di costruire venne intitolata alla B.V. Maria Addolorata, e non a Santa Filomena, come chiesto dal Mezzi, al quale, invece, fu concessa la costruzione di un altare ad essa consacrato.

lettera di Cataldo Mezzi (1937)

 

La statua di Santa Filomena è diventata, anni dopo, di proprietà della parrocchia dell’Addolorata in quanto, il Sig. Cataldo Mezzi, non potendo più, probabilmente per motivi economici, costruire l’altare, poi edificato dalla famiglia Coppola, la cedette al Sig, Teopisio Leopizzi, il quale la donò alla erigenda nuova chiesa.

L’averla restaurata con grande maestria e col riproporsi di quell’antica e nobile “beneficenza popolare”, non significa solo rinnovare una sincera devozione ma ridare anche la giusta dignità ad un patrimonio artistico di notevole importanza che, in una società secolarizzata come la nostra, rischierebbe di non avere più la giusta collocazione nel comune e lungo cammino di fede che ci appartiene.

Questo lungo cammino secolare va a toccare proprio tutta la comunità aletina, dal povero bracciante, al ricco proprietario terriero, tant’é che vide svilupparsi attorno a questa Santa una forte devozione non solo in chiesa, ma anche famigliare.

La supplica di Cataldo Mezzi e l’esistenza dell’altare all’interno della chiesa dell’Addolorata, così come la presenza della statua in cartapesta di pregevole fattura, dimostrano il culto anche ad Alezio.

Presso la Parrocchia S.M. Addolorata, già chiesa comunale, si attesta, con documentazione, che si venerava devotamente la santa con un triduo in preparazione alla festa religiosa del 13 Agosto.

Ad Alezio era diffusa la devozione a Santa Filomena anche in alcune famiglie nobili.

Ne danno testimonianza, ancora oggi, la Fam. Verardi – Coppola e la Fam. Leopizzi – Napoli, le quali, tuttora, custodiscono due statue di Santa Filomena, dove essa è rappresentata distesa supina.

Particolarità della statua della Fam. Verardi – Coppola è il campanellino posto vicino la mano sinistra della santa. Questa statua appartiene a questa famiglia da molte generazioni. Devozione voleva che il campanello suonasse quando la santa esaudiva le preci ricevute,  compiendo quindi il miracolo.

Un aneddoto racconta che realmente in passato il campanello abbia suonato. La Sig.ra Mara (Maria Rosaria) Coppola (moglie del dott. Carlo Verardi) nel 1949, a soli 10 anni, era a letto febbricitante e con forti dolori al bacino, ma nessuno riusciva a capire da cosa fosse affetta. Un giorno venne a farle visita la sua prozia, Bianca De Simone, la quale sentì suonare il campanello, così fu scoperto che il male sofferto dalla piccola fosse una grave peritonite. La Sig.ra Mara è parente della Fam. Coppola che ha commissionato l’altare.

Grazie all’ausilio della Sig.ra Assunta Napoli siamo riusciti a risalire alla provenienza di queste statuette, nonché da dove sia giunta la devozione verso questa santa. Ebbene, la statuetta della Sig.ra Assunta le era stata donata dalla nonna Carmela Ria, una nobildonna di Tuglie; la madre di Carmela apparteneva alla nobile Famiglia Fiodo di Sorrento.

La nonna della Sig.ra Mara Coppola si chiamava Vita De Simone ed era imparentata con la famiglia Ria di Tuglie, quindi, la Sig.ra Mara e la Sig.ra Assunta sono lontane parenti tra loro.

La Sig.ra Anna Maria Bidetti custodisce anche lei una statuetta di Santa Filomena che le fu regalata dalla madre Donna Ottavia Fiorito, sorella di Elettra, moglie di Carlo Coppola, il figlio di Giuseppe Francesco Coppola, il quale commissionò la costruzione dell’altare di Santa Filomena.

Dunque, tutto è chiaro, la devozione verso questa Santa è nata a Napoli e si è diffusa in tutto il Regno delle Due Sicilie, giungendo anche ad Alezio, tramite queste nobili famiglie.

Ma perché tutto è partito dal cuore partenopeo del Regno Delle Due Sicilie?

Ebbene, dopo varie vicissitudini che illustreremo in seguito, Santa Filomena, per grande devozione della Famiglia reale Borbonica, divenne seconda Patrona del Regno.

 

L’altare più antico era quello dedicato a Santa Filomena. Questo altare in pietra leccese fu edificato nel 1856, con il contributo di Giuseppe Francesco Coppola. A ricordo della costruzione possiamo ancora ammirare una lapide in marmo (sulla sinistra) e lo stemma della famiglia Coppola (dipinto ai due lati dell’altare), rappresentante due leoni rampanti e un calice, sormontati da tre gigli. Gli stessi gigli dell’araldica familiare li ritroviamo sulle sei guglie che sormontano l’altare. Attualmente al di sopra della mensa si trova la nicchia con la statua della Madonna Immacolata; anticamente vi era invece una tela raffigurante Santa Filomena. Al di sopra vi era una cornice in legno dorato ovale contenente una stampa della B.V. Maria Immacolata. Tale quadro anni fa è stato rubato, ma grazie alle testimonianze orali è stato possibile riprodurlo, rifacendo anche la cornice su misura e in maniera antichizzata.

 

Proprio questa raffigurazione era posta all’apice di questo altare, perché una delle nicchie laterali di questa cappella, conteneva la statua della B.V. Maria Immacolata (la quale ora si trova nella nicchia al centro di detto altare come si può vedere in foto).

Non è un caso per cui questo primo altare di questa nuova chiesa in quel di Villa Picciotti, fosse dedicato a Santa Filomena e aveva anche la stampa della Madonna Immacolate, nonché le due statue (Santa Filomena e Immacolata) nelle due nicchie laterali della cappella. Infatti, patrona principale del Regno delle Due Sicilie era la B.V. Maria Immacolata, insieme a San Gennaro, e seconda patrona Santa Filomena, insieme a San Francesco di Paola.

Oltre la statua di Santa Filomena e l’ovale della Madonna Immacolata, sono state sistemate la nicchia che ospita la statua, l’impianto della luci dell’altare, la tovaglia dipinta a mano recante i simboli della santa e lo stemma gentilizio della famiglia Coppola. Inoltre è stata pulita la lapide in ricordo dell’erezione dell’altare di Santa Filomena e tutto lo stesso altare da cima a fondo.

 

Il culto di Santa Filomena ha origine a Roma il 25 maggio del 1802 durante gli scavi nelle catacombe di Priscilla sulla via Salaria, quando vengono scoperte le ossa di una giovane di tredici o quattordici anni e un vasetto contenente un liquido ritenuto sangue della Santa. Il loculo era chiuso da tre tegole di terracotta su cui era inciso: “LUMENA PAX TE CUM FI”. Si credette che, per inavvertenza, fosse stato invertito l’ordine dei tre frammenti risalenti tra il III e il IV sec d.C. e che si dovesse leggere: “PAX TE / CUM FI / LUMENA” cioé: “La pace sia con te, Filomena”. I diversi segni decorativi intorno al nome inoltre – soprattutto la palma e le lance – portarono ad attribuire queste ossa ad una martire cristiana dei primi secoli. All’epoca, infatti, si riteneva che la maggior parte dei corpi presenti nelle Catacombe risalissero alle persecuzioni dell’epoca apostolica.

Furono queste reliquie ad essere in seguito portate, per richiesta del sacerdote nolano Francesco De Lucia, a Mugnano del Cardinale, in provincia di Avellino, nella chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, dove sono tuttora. Qui i primi miracoli raccontati proprio da mons. De Lucia. Attirato da quanto succedeva papa Leone XII concesse al santuario la lapide originaria che Pio VII aveva fatto trasferire nel lapidario Vaticano. Nel 1833, in questo contesto, si inserì la “Rivelazione” di suor Maria Luisa di Gesù che contribuì a diffondere il culto di Santa Filomena in Europa e in America. Personaggi noti come Paolina Jaricot, fondatrice dell’Opera della Propagazione della Fede e del Rosario vivente, e il santo Curato d’Ars ricevettero la guarigione completa dei loro mali per intercessione della santa e ne divennero ferventi devoti.

La «Pia Rivelazione» di suor Maria Luisa di Gesù fu approvata dal Sant’Uffizio il 21 dicembre 1833, a indicare che non conteneva nulla di contrario agli elementi della fede.

La fama dei miracoli della santa cominciò a diffondersi dovunque, principalmente in Italia e nella Francia meridionale. I membri della Casa Reale dei Borboni furono tra i primi ad affacciarsi alla devozione a questa martire taumaturga.

Il culto a santa Filomena si propagò enormemente, sia nella penisola italiana che in Francia, tanto che la chiesa della Madonna delle Grazie divenne santuario a lei dedicato.

La statua donata nel 1806 dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla, arcivescovo di Napoli, trasudò manna per tre giorni consecutivi, durante i festeggiamenti del 1823.

Nel 1827, tramite la mediazione di monsignor Ludovici, papa Leone XII donò al santuario le pietre tombali del sepolcro, che papa Pio VII aveva fatto trasferire nel Lapidario Vaticano. Nel 1836, Mugnano fu preservata dall’epidemia di colera; questa liberazione fu attribuita alla santa.

Il 30 gennaio 1837, in seguito ai miracoli ottenuti da Paolina Jaricot e da Giovanna Pascutti di Venezia, papa Gregorio XVI concesse il culto pubblico alla santa il giorno 11 agosto, l’Ufficio Divino per i sacerdoti della Diocesi di Nola e la Messa dal Comune di una Vergine e Martire per tutti gli altri sacerdoti.

Il Beato papa Pio IX concesse la Messa e l’Ufficio proprio il giorno 11 gennaio 1855. Durante il suo esilio a Gaeta, Pio IX si recò a Mugnano il 7 novembre 1849, dove dichiarò Santa Filomena “Seconda Patrona del Regno delle Due Sicilie”.

E’ proprio il racconto di suor Maria Luisa a svelare la storia della santa. La suora affermò che la vita di Filomena le era stata narrata per “rivelazione” dalla santa stessa.

Filomena sarebbe stata figlia di un re della Grecia convertitosi al cristianesimo insieme alla moglie. Nasce nel III sec. d.C., il 10 Gennaio e a 13 anni consacrò a Dio con voto la sua castità verginale. Fu allora che l’imperatore Diocleziano dichiarò guerra a suo padre: la famiglia si vide costretta allora a trasferirsi a Roma per trattare la pace. L’imperatore si innamorò della fanciulla, ma al suo rifiuto la sottopose ad una serie di tormenti. Filomena venne flagellata, ma due angeli la guarirono. Fu poi legata a un’ancora e gettata nel fiume Tevere, ma fu nuovamente salvata. Venne quindi colpita con frecce, ma i dardi furono deviati anche dopo essere stati arroventati. Alla fine, venne decapitata il 10 agosto.

L’ancora, tre frecce, una palma e un fiore sono i simboli, raffigurati sulle tegole del cimitero di Priscilla, che furono interpretati come simboli del martirio.

[Ma uno studio più approfondito dei reperti archeologici attestò l’assenza della scritta martyr e fece decadere la possibilità della morte per martirio; inoltre nell’ampolla trovata accanto ai resti si provò che non vi fosse sangue ma profumi tipici delle sepolture dei primi cristiani. In definitiva il corpo era di una fanciulla morta nel IV secolo. sul cui sepolcro erano state utilizzate tegole con iscrizioni di un precedente sepolcro. La Sacra Congregazione dei Riti nella Riforma Liturgica nel 1961 tolse allora dal calendario il nome di Filomena.]

Veniva venerata il giorno 13 Agosto.

La “Santina” del Curato D’Ars, come molti chiamano Santa Filomena, fu venerata in particolare da San Pio da Pietrelcina sin da bambino. La chiamava “la principessina del Paradiso” e a chi osava mettere in discussione la sua esistenza, rispondeva che i dubbi erano frutto del demonio e ripeteva: “Può pure darsi che non si chiami Filomena! Ma questa Santa ha fatto dei miracoli e non è stato il nome che li ha fatti!”. Tutt’oggi Filomena intercede per molte anime e numerosi fedeli si recano a pregare davanti alle sue spoglie. E’ considerata la protettrice degli afflitti e dei giovani sposi e molte volte ha donato la gioia della maternità a madri sterili.

Per concludere, riguardo la questione Filomeniana, non importa se veramente si chiamasse Filomena, se quei resti corrispondano a lei o a qualcun altro, ma volgendo lo sguardo a questa giovane fanciulla, vogliamo vedere in lei Lucia, Agata, Vittoria, Cecilia, Caterina, Agnese, tutte quelle giovani donne che donarono se stesse al Signore e non rinunciarono alla loro Fede fino all’ultimo, finché non subirono il martirio.

La statua della santa, prima e dopo il restauro

 

Sabato 20 Luglio 2024, durante la serata di presentazione dei lavori di restauro, è stato preparato un opuscolo in cui sono spiegate e approfondite le vicende di cui sopra, con allegato il materiale fotografico.

 

Chiunque volesse una copia di tale opuscolo, lo può richiedere direttamente a Massimiliano Albino Dei Sommi.

Bernardino Realino e i Mattei signori di Novoli (terza parte)

di Gilberto Spagnolo

Tra i personaggi di una certa importanza che lo conobbero e gli testimoniarono con i loro scritti anche la loro stima ed amicizia (come ad esempio P. Scardino, Scipione Capece, lo stesso Bernardino Realino, Giovanni Manfredi, Filippo Formoso ecc.), va annoverato in particolare Prospero Rendella, prestigioso giureconsulto e storiografo monopolitano che lasciò un segno tangibile del suo magistero e della sua dottrina1. Le opere giuridiche di cui il Rendella fu autore sono molto importanti e numerose. Tra queste opere il Tractatus de vinea, vindemia et vino (uscito dai torchi prestigiosi dei Giunta di Venezia nel 1629) è quella che sembra aver conosciuto la maggiore diffusione anche fuori d’Italia2.

Biblioteca Comunale “G. Bovio” Trani. PROSPERO RENDELLA, Tractatus De Vinea, Vindemia et Vino, Venetiis, Apud IUNTAS, MDCXXIX, Frontespizio

 

PROSPERO RENDELLA, Tractatus De Pascvis, Defensis, Forestis e Aquis, REGUM, BARONUM, COMMVNITATUM et singulorum, DE COLVMBIS, ET COLVMBARIIS. DE OLEA, ET OLEO COMMENTA-RIA, Trani, Typis Laurentij Valerij, MDCXXX. Frontespizio (coll. privata)

 

PROSPERO RENDELLA, Tractatus De Vinea, Vindemia et vino etc. Carme di Francesco Guerrieri dedicato all’autore

 

A parte ciò, l’opera riveste una particolare importanza per i quattro versi autobiografici (in epigrafe) dello stesso Rendella e per due “notevoli composizioni poetiche” in latino che a questi versi seguono. La prima reca la firma di Muzio Sforza (altro illustre figlio della terra monopolitana al quale il Rendella fu legato da vincoli d’amicizia e di stima); la seconda è proprio del nostro padre Francesco Guerrieri3. La presenza di uno scritto (si tratta di un carme, il primo del genere) del Guerrieri sull’opera del Rendella spinge a fare alcune considerazioni. Anzitutto dimostra che il Guerrieri all’epoca certamente fu “un animatore delle locali scuole gesuitiche”, almeno per alcuni anni fra il 1617 e il 1622. La sua sicura presenza a Monopoli è oltretutto attestata dalla stessa testimonianza che il Guerrieri rese il 22 gennaio 1624 (si trovava quindi già a Lecce) nel Processo Informativo sulla santità del Realino e soprattutto, come già detto, nei processi Remissoriali che la Sacra Congregazione dei Riti ordinò si tenessero a Napoli. Lecce Carpi fra il 1623 e il 1624. Quella deposizione si concluse con la narrazione di alcuni fatti prodigiosi (vissuti in prima persona) attribuiti dal Guerrieri al potente patrocinio del Santo e accaduti rispettivamente a Corigliano (qui il Guerrieri si era recato per «esorcizzare una energumena che era molto travagliata dal demonio» su invito del marchese dell’epoca e con licenza del parroco, una quindicina d’anni prima «predicando io la Quaresima»), a Monopoli appunto (qui parla di una donna chiamata Giulia moglie di un notaio con problemi per il parto risolti grazie ad un’immagine del santo data alla perpetua dal Guerrieri) e infine a Conversano (altra guarigione di una donna grazie all’immagine del Realino)4.

L. RUSSO, traduzione del carme di Francesco Guerrieri (in L. RUSSO, Per Prospero Rendella “Amico delle Muse”, Fasano 1977)

 

L’amicizia che intercorse tra il Rendella e il Guerrieri (pressoché coetanei) emerge infine chiaramente dallo stesso carme pubblicato sul De Vinea, in cui il dotto gesuita dà un quadro particolareggiato della sua personalità e della sua vita5. Un personaggio dunque straordinario (vissuto ai tempi di Alessandro II Mattei e con cui si relazionò certamente, ne battezzò infatti uno schiavo negro di nome Mattia il 15.01.1603 “nel giorno di S. Paulo eremita”6) che fu sicuramente “una gloria” non solo di Novoli ma dell’intera provincia salentina, una vocazione di san Bernardino Realino di cui, come già si è detto, ne continuò l’opera e gli insegnamenti7.

Roma, Archivio della Postulazione Generale d.C. d.G., Lettera di San Bernardino Realino ad Alessandro II Mattei datata 22 febbraio 1590

 

Oltre al miracolo del Pozzo rievocato dal padre gesuita Ettore Venturi, sappiamo infine che il padre Bernardino Realino durante la sua vita compì a Novoli un altro miracolo. Il fatto prodigioso, capitato ad una certa Porzia Pezzuto coniugatasi nel 1581 con Emidio De Luca, è narrato dallo stesso padre Francesco Guerrieri (indicato come testimone n. 27) nella sua deposizione giurata nel processo di beatificazione datata lunedì 22 gennaio 1624 e conservata presso l’Archivio S.J. a Borgo Santo Spirito in Roma8.

Concludo ricordando ciò che scrisse di lui “oggettivamente” (e non con enfasi come qualcuno ha affermato) Girolamo Marciano: «Vive oggi parimente di questo luogo il dottissimo P. Francesco Guerrieri Gesuita, filosofo, teologo, poeta ed oratore illustre, e lume nell’età nostra della greca e latina lingua in questa provincia»9.

Architrave della porta d’ingresso della distrutta casa di Francesco Guerrieri a Novoli in Via Moline al n. 36 con il monogramma dei Gesuiti

 

La sua casa a Novoli era in via Moline al numero 36 (fu demolita) nella corte dove era situato l’ufficio di collocamento e anche una lapide che lo ricordava andata poi distrutta. Di tale casa del Guerrieri, si conserva ancora oggi l’architrave della porta d’ingresso con inciso il monogramma dei gesui­ti. Il dottor Gerardo Spagnolo, quando fu demolita, ebbe fortunatamente il buon senso di recuperare e conservare presso di sé tale prezioso cimelio. Il padre Bonaventura da Lama, nella sua Cronica, nel “discorrere” della morte accadutagli nel convento francescano di Casalnuovo (l’attuale Manduria), nel mese di novembre dell’anno 1629, «assai preziosa agli occhi di Dio, mentre l’apparve il nostro Santo da Padova, di cui era divotissimo, composti molti Epigrammi in sua lode, esortandolo à prepararsi pe’l termine imminente della sua vita», così conclude la sua descrizione:

Così fu la morte di questo esemplarissimo Padre, senz’affanno, senz’agonia; e così esser doveva, se fu accompagnata da colui, à chi cedono la sua vista, la morte istessa co i travagli. Corsero tutti à piè sciolto, chiedendo per divozione o medaglie, o corone, o altro che fosse di lui, ma niente ottennero, perché niente portava. Quello indossava vivo, quello portò al sepolcro, eccetto il Breviario, un picciolo Crocefisso, e ’l Cappello, donati il primo, e l’ultimo per limosina ad un povero Prete, e ’l secondo, richiesto dal P. Custode per sua divozione. Suonarono tutte le campane della Terra à mortorio, e da’ Preti, e da Religiosi furono sollennemente celebrate l’esequie. Sembrava in quel giorno l’Indulgenza della Porziuncola nell’entrare, ed uscire, piangendo tutti per tenerezza, e baciãndo il santo cadavere candido, e rosseggiante, mantenendo l’essere morbido, e flessibile, anche quando doppo 24 hore del felice passaggio; fu posto dentro una cassa di legno, à divozione d’un Gentil’Uomo, per sepelirlo.

Parve bene al Superior del Convento darne parte a quello del Colleggio lo più vicino, ed anche al Capo della nostra Provincia, che allor si chiamava Custode, qual subito à questo aviso notificò la morte con un foglio in giro per i Conventi, conforme và descritta, precettando a’ Guardiani trattarlo come Frate, cioè coll’ ufficio doppio de’  morti, messa cantata, ed ogni Sacerdote trè messe.

Tanto, e più meritava questo divotissimo Padre per l’innocenza de’ suoi costumi, per la profonda dottrina, oltre l’eccellenza del metro, Soggetto illustre in quest’arte, che per i molti componimenti poetici in lode del Santo di Padova10.

Prima del Padre Bonaventura Da Lama e la sua “Cronica” (a cui fece riferimento il Patrignani nel suo Menologio), la “santa morte” di Francesco Guerrieri fu descritta anche, con ulteriori particolari, dal letterato tarantino Giovanni Manfredi nella sua opera I pregi e le Glorie de letterati opera miscellanea dilettevole A’ curiosi e non inutile agli Eruditi pubblicata a Roma dallo “Stampator Camerale e Vaticano” nel 1682. Il Manfredi che lo ebbe anche come maestro, ricordandone prima le sue grandi doti umane e intellettuali, così narra la sua dipartita: “…E benché il Guerriero nella purità della lingua latina stimatissimo, nella greca quasi unico, e nella varietà dell’eruditioni universale, pascesse lentamente la curiosità del mio intelletto, e non mancasse di somministrar più salutevole cibo alla volontà con ragionamenti spirituali, con la frequenza de Sacramenti, e con l’assuefarmi all’oratione; (…) come infatti accadè, così parimente par che dichiarasse il senso dell’oscure lettere, che a me il Provinciale scriveva, l’inaspettata morte del Padre Guerriero, il quale ottenuta licenza non di una lunga dimora, ma di un breve pellegrinaggio, mentre per la sua fresca vecchiaia tutto allegro, e vigoroso al suo Collegio faceva ritorno, poche leghe lontano in un Convento di Religiosi gravemente s’infermò; e ivi morì con tal concetto di santità non men che di dottrina, che per quante istanze facessero i Padri della Compagnia, non fu mai possibile a ottener da quei Religiosi, di quel degnissimo personaggio il venerabile deposito. Huomo in tutte le virtù, e scienze singolare, a cui per gratitudine devo questa memoria, e sarei obbligato a più minutamente di lui eccessivi pregi accennare, se la varietà di tanti, e si lunghi episodi a rimettermi per la più breve scorciatoia in camino, per giunger con la maggior prestezza possibile, al prefisso termine, ho mai non mi costringesse. Tra tanto riserbandomi di farne una breve mentione in una lunga Elegia, che soggiungerò nel fine del presente capo; senza far qui altro Catalogo dei suoi eruditissimi scritti, che haveva in ordine per le stampe, in particolare d’un’accurato Dialogo, in cui con tersa latinità m’ammaestrava nell’esercizio di tutte le virtù Christiane, a segno tale, che basta il nominare il frontespicio con il quale intitolavasi: Manfridus sine de Vita perfecta”!11

 

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II, Lettera dedicatoria a Giovanni Antonio Albricci III, di Francesco Guerrieri (IGNATIAS, Mss Gesuitici 1638)

 

Appendice

IL PRINCIPE PERFETTO

GIOVANNI ANTONIO ALBRICCI TERZO

All’eccellentissimo Antonio Albricio Principe di Avetrana*

Sebbene provvedessi con l’animo alle dicerie di parecchi, se in me ci fosse qualche capacità poetica, starei per obiettare: se facessi uscire quest’opera, portata da me a termine con diuturno lavoro, tuttavia ho preferito cedere agli amici che lo chiedevano con insistenza piuttosto che sembrare meno cauto e per questo mi son lasciato persuadere; non ho compiuto quest’opera affinché acquistassi qualche credenza di cultura o di ingegno da parte degli uomini dotti ma certamente primo perché crescesse la divina gloria e poi perché crescesse la devozione di S. Ignazio e S. Francesco Saverio nei cuori degli uomini; infine affinché nascesse qualche segno tangibile di gratitudine nei confronti di Gregorio XV pontefice massimo il quale li annoverò nel numero dei Santi. Perché ho preferito che sia pubblicata l’opera nel tuo nome o principe eccellentissimo: possono essere adottate due cause probabilissime: una perché fai parte della stirpe Farnese e donde a te è la nascita da parte di madre; la nostra amicizia è tenuta da vincoli di innumerevoli meriti, l’altra, non dirò a causa della potenza della tua famiglia il cui splendore è davvero grande non per la ricchezza e per l’abbondanza dei mezzi nella qual cosa nessuno deve essere confrontato con te in queste cose: ma per le doti dell’animo, del tuo ingegno veramente singolari; infatti i tuoi costumi sono tanti candidi e nel contempo ammirabili ed amabili come vedo che tu vuoi sempre essere nutrito ed educato in un porto di virtù. Nessuno si accosta a te che non parli della tua subitanea affabilità. Nessuno parla con te il quale non percepisca che dalla tua bocca fluisca un eloquio più dolce del miele (come cantò Omero di Nestore). Nessuno ti guarda che non crede che ogni cosa è fatta da te in difesa del decoro. Dal che si deduce che tutti quelli che ti conobbero pensano che tu non sia nato da uomini ma sia giunto qui o meglio mandato dai celesti. Brilla particolarmente nel tuo volto l’insigne modestia che sembra che tu cammini nel paese accompagnato dallo stuolo delle altre virtù.

Brilla nel tuo volto la grazia che libera un’incredibile benevolenza; da parte di quelli che non vogliono la togli con la forza. Infatti che dire del tuo ingegno? Poiché si accosta in qualunque arte degna educato liberalmente e nobilmente crescendo; e in quell’arte in breve tempo e senza alcuna guida si avvantaggia tanto da eccellere sugli altri. Ti ammirano mentre cavalchi e allenti le briglia coloro i quali s’intendono molto dell’arte del cavalcare; ammirano te come tratti le spade e le armi gli armigeri; ti ammirano mentre suoni la lira e batti i clavicembali i musici. Ti hanno ammirato poco tempo fa nella pittura di ogni genere gli artisti di ogni genere. E nelle lettere latine e nelle lettere greche e in filosofia ti ho ammirato proprio io, quando percepivi prima che fosse chiuso il discorso le cose che stavano per essere dette da me.

E in questo genere mi è sembrato più degno di ammirazione il fatto che spesso proponesti a me questioni tanto difficili a risolversi che penso che’ neanche Alessandro avrebbe potuto sciogliere pure tagliandoli con la forza del ferro. Mi mancherebbe la carta e il tempo se dovessi narrare tutte le cose. Ma non è questa l’occasione di parlare delle tue lodi degnissime di immortalità: e ciò, qualsiasi cosa io abbia detto non l’ho fatto a causa della tua lode ma affinché tutti capissero quanto io sia stato sagace o felice nello scegliere a chi principalmente dedicare quest’opera. Se infatti il poeta abbraccia per mezzo dell’imitazione e del verso tutte quelle cose che sono in questo mondo e queste appaiono nell’opera: e viene scelto opportunamente quale dedicatario l’opera colui il quale sia il più valente in tutte le cose e il più fornito in tutte le doti. Che se pur in cosi tenera età tu sei tanto grande: certamente hai appena sedici anni: non sarà credo per nessuno cosa difficile congetturare quanto in alto stia per salire una cosi illustre indole quando si maturerà. In verità il mio cuore augura che tu, per questa integrità di vita, per la tua morigeratezza e per la diligenza con cui coltivi tutte le arti liberali, sia per tutti e in tutta l’Italia e perfino in tutta l’Europa, che è la parte più importante di tutto il mondo, un esempio di principe perfetto”.

Addio

* La traduzione è di Franco Vetrugno.

Lettera dedicatoria di Francesco Guerrieri a Giovanni Albricci terzo principe di Avetrana, Marchese di Salice, Signore di Mesagne, di San Vito, di Guagnano, di Cellino, di Uggiano, di Erchie, di Torre S. Susanna e di altri feudi minori (Ignatius heroicum poema in XII libro distinctum, Mss. Gesuiti 1638 (3767) Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II Roma.

Il manoscritto, come già detto nel testo, è depositato presso la Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma nel “Fondo Mss. Gesuitici 1638 (3767)” ed è così indicato: “VERERI FRANCESCO d.C.d.G. Ignatius Heroicum Poema in XII Libros distinctum”, cart., 203×149, sec. XVII.

Sono in totale cc. 161: c Ir, bianca con al centro annotazione: Liceat extrahi LYciy die 12 Augusti 1652/Iacob.s Ant.s Lezzius Vic.s glis (rilegatura sec. XIX in cartapecora + 2 fogli di guardia in cartoncino bianco). C.2. r. (a tutta pagina) FRANCISCI VERIERII/ E SOCIETATE /IESU / IGNATIAS/ HEROICUM/ Poema/ IN XII/ LIBROS/ DISTINCTUM.

Cc. 3,4,5 e 6 bianche (le prime 3 recano filigrane (2) che non si ritrovano poi), la c. 6 si prolunga con un bordo cui è incollata la c. 7; cc. 7 e 8r si legge EXC.mo Io: ANTONIO ALBRICIO/VETERANENSIUM PRINCIPI.

Ogni carta reca sul bordo alto e al centro, spesso reciso dal rilegatore, il numero arabo del libro, sul recto. Sul bordo inferiore del verso di ogni carta c’è la parola di richiamo della carta successiva. I versi sono numerati nell’incolonnamento per decine in ogni libro (arabe). L’iniziale dei libri e della dedica è in lettera in grassetto e debordante come la numerazione dei versi. Testo interamente privo di correzioni, tranne che all’inizio, a c. 9 (si direbbe un principio di correzione generale del testo, abortito); cc.160-161 bianche. Ogni libro è intestato “I GNATIADOS/ LIBER PRIMUS”. Essi sono così composti:

I cc. 9r -25v, vv. 811

II cc. 25r-41r, vv. 830

III cc. 42r-52v, vv. 527

IV cc. 53r-62v, vv. 490

V cc. 63r-72r, vv. 656

VI cc. 76v-86v, vv. 514

VII 87r -96v, vv. 510

VIII 97r-107r, vv. 552

IX 107v-117v, vv. 510

X 118r-128r, vv. 517

XI 128v-142r, vv. 690

XII 142v-159v, vv. 905

Sul foglio annesso al codice vi sono le seguenti notizie sul Guerrieri: “Il Vererio era il P. Fran. Guerrieri nel Sommervogel, sotto “Guerrieri” (l’Ignatias, è nominata nel vol. di supplemento, sotto “Guerrieri”). Fu in corrispondenza con T. Tasso, il quale scrisse pure un sonetto al Guerrieri e del Tasso sembra imitare il concilio infernale del I libro”. Nell’elenco dei lettori che hanno studiato il manoscritto figurano P. Emilio Spinghetti S.I. professore della Pontificia Università Gregoriana di Roma (copiati i primi due libri) e uno scrittore tedesco (un certo Giorgio Gluuchanuver Sr. – il cognome può non essere esatto perché è di difficile lettura).

 

In Defensor Civitatis. Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Edizioni del Grifo, Lecce 2017, pp. 325-348 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 23-40, Novoli 2024.

 

ANTONIO BEATILLO DA BARI, Historia della vita, morte, miracoli e traslazione di Santa Irene di Tessalonica Vergine, e Martire, in Napoli nella stamperia di Tarquinio Longo MDCIX. Epigramma di Francesco Guerrieri

 

SCIPIONE CAPECE, De Principis Rerum Libri Duo, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum e Antonium Pacem, MDXCIV, Epigramma di Francesco Guerrieri

 

ALOISIO ANTONIO SANTORELLI, De Perscribendis Epistolis Libellus apud Iosephum Cacchium MDLXXXXI. Epigramma di Francesco Guerrieri

 

 

GIOVANNI MANFREDI TARENTINO, I pregi e le glorie de’ letterati, in Roma, per Nicolò Angelo Tinassi MDCLXXXII. Epigramma di Francesco Guerrieri al Manfredi e del Manfredi al Guerrieri

 

Note

1 D. Maffei, Prospero Rendella Giureconsulto e Storiografo. Con note su altri gesuiti meridionali, in Monopoli nell’età del Rinascimento, atti del convegno internazionale di studio 22-23-24 marzo 1985, Monopoli 1988, I, pp. 41 e ss.; G. Spagnolo, Francesco Guerrieri e Prospero Rendella, Giureconsulto e Storiografo monopolitano, cit., pp. 115-135.

2 Gli elementi completi recati dal frontespizio dell’editio princeps e ripetuti su quelli delle edizioni successive sono i seguenti: Tractatus / de Vinea, / Vindemia, et vino. / In quo quae ad Vinae tutelam et culturam, Vindemiae opus, Vintoris / documenta pertinent; ac plures quaestiones, et leges, / anima duertuntur, et dilucide explicantur. / Nec non vini Genera plurima ac de Vini commercio, et usu solerti / cura proponuntur / Omnibus tam Iusdicentibus, quam in foro versantibus, ac etiam Agriculturae / incumbentibus apprime utilis, et necessarius. / Cum Indice capitum, et rerum notatu dignarum, quae in opere continentur./ Superiorum licentia, et privilegio.! Venetiis, Apud Iuntas. MDCXXIX. Una delle poche copie di quest’edizione princeps è conservata presso la biblioteca comunale “G. Bovio” di Trani.

3 Le edizioni successive non comprendono né la lettera dedicatoria di Feliciano Raimondo all’avvocato bresciano Girolamo Bona e né i tre importanti carmi rispettivamente dello stesso Rendella, di Muzio e di Francesco Guerrieri. Questo carme del Guerrieri non compare in nessuna delle brevi biografie conosciute (ad esempio quella del Sommervogel probabilmente per la “rarità” di questa editio princeps l’unica, come si è visto, a riportare la composizione del padre gesuita (altre copie si trovano – quelle reperite dal Maffei – a Francoforte, a Londra, Parigi, Princeton, Roma, Siena, Trani e Washinghton).

4 APG, cit., vol. 645, ff. 802-803. Per quanto riguarda Terra d’Otranto la presenza del Guerrieri è attestata il 10 agosto del 1612 anche in Carpignano dove aveva accompagnato il padre gesuita Filippo Camassa di Lecce per un sermone: «Alle 10 de augusto 1612 in Carpignano, giorno de santo Laurenzo, de vennerdia il padre Gio: Filippo Camassa de Lecce gesuino, fece uno sermone alla chiesa matre de ditta terra fu in compagnia sua il padre Francesco Guerriero», R. Jurlaro, Prediche e Predicatori a Carpignano tra il 1588 e il 1621, in «Sallentum», a. VI, nn. 1-2-3, genn.-dic. 1983, pp. 94-95, che riporta una «cronaca particolarissima» di Giacomo Vincenti, arciprete in Corigliano dal 1597 al 1620, «in cui sono annotati per più di Trent’anni, dalla quaresima del 1588 a quella del 1621, i predicatori che furono «nel pulpito de la chiesa matre de Carpignano» (p. 83).

P. SCARDINO, Epigrammatum Centuria, Neapoli apud Constantinum Vitalem MDCIII. Epigramma di Peregrino Scardino a Francesco Guerrieri

 

5 Scrive il Maffei al riguardo: «Pur facendo la tara sulle molte iperboli, ci sembra che nel carme di Francesco Guerrieri, premesso all’editio princeps del De Vinea, si possa cogliere un’immagine sufficientemente attendibile della vita agiata consentita al Rendella dalle sue non poche proprietà di campagna» (Prospero Rendella giureconsulto e storiografo, cit., p. 58 alla nota 35). Il monopolitano Luigi Russo, qualche anno fa, aveva riedito, tradotto e commentato sia i versi autobiografici del Rendella e sia i due componimenti di Muzio Sforza e di Francesco Guerrieri che rinuncia a identificare contentandosi di ipotizzare che fosse appunto «un animatore delle locali scuole gesuitiche»; cfr. L. Russo, Per Prospero Rendella “Amico delle Muse”, Grafischena, Fasano 1977, pp. 51-58.

6 Archivio Parrocchiale Novoli, Registro dei battesimi (1571-1609), f. 119v. I sacerdoti Alessandro e D. Domenico Guerrieri, sottoscrivevano gli atti battesimali, latinizzando il loro cognome in Vererius, seguendo in ciò l’esempio di Francesco, il loro fratello gesuita che usava così firmare le sue composizioni latine. Questo fece incorrere in errore il Toppi, che, credendo Francesco Guerrieri diverso da Francesco Verierio, li riportò separatamente nella sua Biblioteca Napoletana (R. Franchini, Novoli fine ‘500, Bollettino Santuario S. Antonio Abate, ottobre-novembre 1958).

7 Presso APG, sono conservate le lettere e gli epigrammi tra il Guerrieri e il Realino. Le lettere sono datate 15.03.1590; 17.07.1607; 21.08.1607 (APG 657, 123v-124; l28r-v; 123r­v). Francesco Guerrieri è costantemente indicato nelle lettere del Realino con il latino Verierius (Cfr. M. Gioia, La grazia vocazionale in S. Bernardino Realino, cit., pp. 63, 77, 78).

8 A. Tamiano, Un miracolo avvenuto a Novoli per intercessione di San Bernardino Realino, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XII, 17 luglio 2005, pp. 8-9.

9 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, cit., p. 471; O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 28.

10 Bonaventura da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati dela Provincia di S. Nicolò, cit., pp. 134-137. I padri francescani che pietosamente lo avevano accolto nel loro convento, non vollero per nessuna ragione restituire a Lecce il cadavere del santo religioso e lo seppellirono nella loro chiesa. Le tracce della sua tomba, purtroppo, scomparvero poi sotto i quadroni della nuova pavimentazione data al tempio francescano di Manduria.

11 G. Manfredi Tarentino, I pregi e le glorie de’ letterati opera miscellanea dilettevole A’ curiosi E non inutile agli Eruditi, in Roma, per Nicolò Angelo Tinassi, dallo Stampator Camerale e Vaticano, mdclxxxii, pp. 318-319.

LORENZO MASELLI, Vita della B.V. Maria, Neapoli MDCVI, Epigramma di Francesco Guerrieri

 

ANTONIO BEATILLO BARESE, Historia della Vita, Miracoli, Traslatione e Gloria dell’Illustrissimo Confessore di CHRISTOS S, Nicolò Arcidiacono di Mira e patrono della città di BARI, nella stamperia degli Heredi di Tarquinio Longo, MDCXX. Epigramma di Francesco Guerrieri

 

LUCIO CAMARRA, De Teate Antiquo Marrucinorum in Italia Metropoli Libri Tres, Romae ex typographia Dominici Manelfii MDCLI. Epigramma di Francesco Guerrieri

 

Per la prima parte:

Bernardino Realino e i Mattei signori di Novoli (prima parte) – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Per la seconda parte:

Bernardino Realino e i Mattei signori di Novoli (seconda parte) – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Brindisi quando era Brandicio, col suo porto celebrato in una poesia del XIV secolo

di Armando Polito

La mappa dI Brandici,  della cui esistenza nulla avremmo saputo senza  la scoperta e divulgazione di Vito Ruggiero1, ha colpito ancora, ma si tratta di uno di quei colpi, che lungi dal tramortire, fungono, al contrario, da stimolo per aggiungere ai margini di un  mosaico un fieri un’altra tessera, per quanto, come le mie due precedenti2, modesta. Esse  erano entrambe  connessa con la variante Brandicio lì presa in esame:  nella prima  ne fornivo la testimonianza cartografica tratta da una pubblicazione tedesca del 1546, che qui per comodità di chi legge replico nella seconda tentavo di risolvere il problema dell’ esatta lettura di Brandici, fatalmente correlata alla pronuncia Brandìci oppure Bràndici.

Oggi la testimonianza relativa a Brandicio sarà esclusivamente letteraria, più specificamente poetica e in questo fa coppia il col più noto Brandizio dantesco: Vespero è già dove sepolto/è ‘l corpo, dentra al quale io faccio ombra:/Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto (Purgatorio, III, 25-27).

Se a Firenze si cantava Brandizio, a Lucca un cinquantennio dopo la futura Brindisi era Brandicio e il cantore si chiamava Contino Lanfredi.  Un manoscritto custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. lat. 3953) ci ha conservato un canzoniere (noto col nome di Canzoniere di Nicolò de’ Rossi, letterato trevigiano vissuto a cavallo dei secoli XIII e XIV, che ne fu il compilatore) della lirica italiana delle origini, che alle pp. 127-206 contiene una raccolta di sonetti, due dei quali sono del Lanfredi. Mi accingo a presentare quello che riguarda il nostro tema e lo farò nel modo più suggestivo (ma non allo scopo di suggestionare …), cioè proprio con la riproduzione dell’intera pagina 149 (ogni facciata di ciascuna carta reca un numero progressivo) e del dettaglio di nostro interesse.

Il sonetto rimase inedito fino al 1661, quando fu pubblicato da Leone Allacci3 nel volume del quale riproduco il frontespizio.

A . p. 289 si legge la sua trascrizione.

Se rispetto all’originale le iniziali maiuscole, le virgole e stella per stela appaiono come normali adattamenti integrativi all’uso del tempo, mi sorprende non poco la lettura di alcune parole, precisamente quelle che ho evidenziato con la sottolineatura. Dato lo spessore del trascrittore, non escluderei in alcuni casi un errore di composizione tipografica, anche perché la stampa non brilla certo per nitidezza. Tuttavia ve ne sono alcuni non imputabili a tale motivo e che, oltretutto, renderebbero problematica un’interpretazione che, come mostrerò, mi  appare più che chiara. Degli errori proporrò più avanti il mio emendamento

1 e la tramontana

quel la è come un pesce fuor d’acqua perché introduce lo scompiglio metrico di un dodecasillabo (verso che nulla ha a che fare col sonetto, che è composto di endecasillabi). Oltretutto contrasta senza ragione con l’assenza dell’articolo per gli altri venti, creando un’arbitraria asimmetria

2 e la stella

ne vien fuori un  dodecasillabo,  quand’ è chiarissima la lettura et stela, che ripristina la regolarità metrica. 

3 planeta et elementa

nel manoscritto è chiaramente planeti et elementi

4 onne

sarebbe interessante sapere quale congruenza potrebbe avere col contesto questa parola che, per assimilazione dal latino omne(m) ha dato vita a ogni; oltretutto nel manoscritto si legge chiaramente oime.

5 ad ussita

si tratta dell’unico verso che risulterebbe dodecasillabo anche se lo scioglimento dell’abbreviazione dovesse comportare la lettura, più aderente al contesto per il significato, avversita (senza accento, come le altre parole tronche) nel manoscritto) per ad ussita.

A distanza di 242 anni l’intero manoscritto veniva pubblicato4 col testo del sonetto emendato secondo le osservazioni appena fatte ai punti 3, 4 e 5 (oltre poeto per porto che piò valere come errore di stampa), ma senza punteggiatura e note di commento di natura interpretativa.

Diciassette anni dopo ecco come il sonetto si presenta in Aldo Francesco Massèra (a cura di). Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, Laterza, Bari, 1920, v. I, p. 143.

Non mi pare molto rispettoso del passato e della scienza la modernizzazione che balza evidentissima in la luna, il sole (per la luna cum lo sole) e in vizio (per vicio), che ha introdotto, per ragioni di rima, Brandizio (per Brandicio) con una strizzata d’occhi a Dante. Con tutto il rispetto per il curatore del volume, giudico l’operazione un vero e proprio stupro del documento originale, al pari degli altri pubblicato senza ombra di riferimento alla fonte e senza una sola parola di commento.

Di seguito la mia trascrizione, con la sola integrazione della punteggiatura che nell’originale si limita al solo punto fermo e col mantenimento dell’assenza dell’accento sulle parole tronche) (oime e vertu). Tutto il resto è nelle note di commento.

Contino Lanfredi di Lucha

Vento a levante e di meridiana,       

ostro, zafiro, aquilone et altino,

maistro, greco, siroco e garbino

a libezo, ponente et tramontana.a

La luna cum lo sole et stela dianab,

planeti et elementi, oime tapinoc,

par che sian contrari al meo caminod

per mare, per monte e per via planae. 

Et en questa adversita no so noviciof

ma sempre steti su questa malazag

po che cognovi la vertu dal vicio.h 

Che pro? Parole son da coser azai:

eo crederei nel porto de brandicio

perire en nave en tempo de bonazal

a Quasi una descrizione in versi della rosa dei venti: levante spirante da est; ostro da sud; zefiro (zafiro nel manoscritto) da nord-nordovest; aquilone da nord-nordest; altino (alias altano) da sud-est; maistro (maestrale) da nord-ovest; greco (grecale) da nord-est;  siroco (scirocco) da sud-est; garbino da sud-sudovest;  libezo (libeccio) da sudovest; ponente da ovest; tranintana da nord.

b Diana è il nome della stella che appare all’alba.

c pianeti ed elementi naturali, ohimè tapino

d variante antica di cammino

e variante antica di piana, dal latino plana(m)

f e in questa avversità non sono novizio (non è la prima volta che mi trovo)

g ma sempre ho opposto resistenza in questa cattiva situazione

h poiché ho conosciuto la virtù dal vizio

i Che beneficio (c’è)? Le parole sono filo da cucire. Coser è dal latino consùere=cucire insieme; aza , come l’italiano accia è dal latino acia(m)=gugliata (pezzo di filo che s’infila nella cruna dell’ago per cucire).

l sono convinto che morirei nel porto di Brindisi su una nave in tempo di bonaccia.

Il sonetto (rima: ABBA ABBA CDC DCD) è un bell’esempio di quel filone letterario che ha il nome di poesia burlesca, etichetta che col suo burlesca nell’immaginario collettivo assume connotazione negativa. E l’assume a torto, perché, laddove aleggiano la dissacrazione, purché, come qui, mai volgare, e l’ironia, almeno la banalità è scongiurata.

Ma dove sarebbe questa presunta dissacrazione? Sta tutta in ma sempre steti su questa malaza/po che cognovi la vertu dal vicio. Qui è sintetizzato il discorso morale sviluppato dalla patristica e continuato per tutta l’età medioevale, basato sulla contrapposizione peccato/virtù, che può diventare alternanza condanna/riscatto. Così la resistenza, ligia a quel principio, alle prove della vita metaforicamente impersonate dai venti, inizialmente sbandierata con toni quasi da martire, viene quasi di colpo vanificata o, quanto meno, messa in discussione (Che pro? Parole son da coser aza5), col vittimismo che trova la sua consacrazione nei due versi finali, in cui nemmeno il porto di Brindisi, da sempre proverbiale per la sua sicurezza, sarebbe in grado di proteggerlo dai pericoli.

Al di là di quanto emerso dalla sua lettura, la poesia, a mio parere, è ancora più importante perché ci consente di retrodatare la variante Brandicio al XIV secolo cioè ben prima del 1546 della mappa tedesca e dei numerosi volgarizzamenti del XV secolo. Essa, tenendo conto dell’origine lucchese del suo autore, fa pensare ad una variante tirrenica ancora viva pure sul versante adriatico nel secolo XVI, come conferma anche la sua presenza ripetuta cinque volte nel Portolano del mare, nel quale si dichiara minutamente del sito di tutti i porto, quali sono da Venezia in Levante e in Ponente: et altre cose utilissime, et necessarie a i Naviganti, Zanetti & C., Venezia, 1576, passim. E questa originaria tirrenicità fa intravedere un possibile filo sottile che legherebbe il lucchese (e già  presumibilmente pure fiorentino) Brandicio del XIV secolo con quello della mappa tedesca del 1546, nonché col Brandici degli Annali veneti6 di Domenico Malipiero6 (1445-1513), che precede di 43 anni quello della mappa veneziana del 15387, già figlio di un padre (Brandicio) ancora vivente, anche se molto anziano, come avevo ipotizzato nel contributo di nota 2. Brandici, infine, dopo la celebrazione poetica del 1522, per la quale vedi la nota 6, ha nel 1540 l’onore grammaticale  di essere scelta come esempio di traduzione dall’italiano in latino (cosa normalissima in quel tempo …): Con ciò fusse cosa che tu andassi verso Brandici/Cum Brundusium versus ires8

________________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/05/14/brandici-la-piu-antica-e-rara-mappa-di-brindisi-che-brindisi-non-conosce-gli-aspetti-topografici-della-carta/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/06/04/a-proposito-di-brandici/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/06/27/brandici-o-brandici-questo-e-il-problema/

3 (1586 circa-1669) teologo e grande studioso della letteratura bizantina.

4 Il canzoniere Vaticano Barberino Latino 3953 (già Barb. XLV. 47), a cura di Gino Lega, Romagnoli-Dall’Acqua, Bologna, 1903. Il sonetto è a p. 161.

5 Questa metafora rivive nelle locuzioni intessere un discorso, tirare le fila di un discorso, annodare le fila di un discorso e perdere il filo del discorso.

6 Vi sono sette ricorrenze e la più antica si riferisce al 1495 (edizione a cura di Francesco Longo in Archivio storico italiano diretto da Giovanni Pietro Vieusseux, Firenze, 1843, tomo VII, p. 339. A riprova, però, della sua ufficialità nonché fiorentinità già nel XV secolo valga quanto sto per documentare. Nel Comento sopra la Comedia di Dante di Cristoforo Landino (1424-1498) uscito per i tipi di Nicholò di Lorenzo della Magna a Firenze nel 1481 si legge branditio nella serie cdei versu citati e brandizi nel commento.

Sei anni dopo nell’edizione uscito per i tipi di Bonino de Boninis di Ragusa nel 1487 si legge ancorabranditio nella serie dei versi citati e brandizi nel commento.

Dieci anni dopo, ancora vivente il Landino, l’edizione uscita per i tipi di Piero di Giovanni di Quarengio a Venezia nel 1497 mostra brandicio nella citazione e, nel commento, brandici nella replica del verso e nel margine della pagina.

 

Tenendo conto del luogo di edizione (Firenze per la prima e più antica, Venezia per le successive) Brandici si direbbe adattamento al veneto della voce fiorentina.

Per quanto concerne, infine, le testimonianze poetiche di Brandici, la più antica da me finora reperita è in Libro o vero cronicha di tutte le guerre de Italia, s. n., Venezia, 1522, s. p.: e nel Reame Brandici e Otrento.

7 Naturalmente, a parte Brandici, la carta mostra la sua natura anche linguistica inequivocabilmente veneta in EL VER, SCOIO GRANDO, SCOI DE VORA (quest’ultimo, secondo me, variante di FORA (=fuori) e, con il loro tipico scempiamento, TORE DI CAVALI e LE TORE DEL PORTO. Curioso, infine, è che un errore (LARSENALE; va bene mangiarsi lo spazio, come altrove, ma pure l’apostrofo …), dunque un errore, sfocia, paradossalmente nell’ipercorrettismo di IM PUGLIA.

8 Francesco Priscianese, Dela lingua romana, Zanetti, Venezia, 1540, p. CCLXXVI.

La chiesa dell’Immacolata a Seclì

di Antonio Epifani

Parlare dell’Immacolata a Seclì è un buon pretesto per cercare di racimolare qualche notizia circa la citata chiesa, un tempo sede della confraternita omonima e luogo privilegiato dagli abitanti del posto per onorare la Vergine Maria, che da sempre veglia e protegge la piccola cittadina.

Per cercare di dare voce a questo vetusto edificio storico del paese, demolito alla fine degli anni ’60 del Novecento, per la costruzione dell’attuale chiesa parrocchiale, significativo risulta l’esame di alcuni documenti conservati nell’archivio parrocchiale, di altri custoditi nell’archivio diocesano a Nardò e di alcune foto d’epoca che ci permettono, almeno alle generazioni ultime, di conoscere e  ravvisare quella chiesetta che ha visto le nostre bisnonne, nonne e mamme durante la novena dell’Immacolata che si svolgeva alle 5,30 del mattino.

foto d’epoca in cui si intravede il prospetto della chiesa dell’Immacolata a Seclì

 

La chiesa dell’Immacolata Concezione era caratterizzata da una facciata sobria, sormontata da un grande finestrone rettangolare che permetteva l’illuminazione dell’interno, e di un portale seicentesco con l’epigrafe latina che ci permette di avere contezza dei rimaneggiamenti che l’edificio ebbe intorno al 1650 per volere del Duca di Seclì, Antonio D’Amato.

L’interno a navata unica mostrava un altare maggiore con la tela dell’Immacolata Concezione,e sormontato dalla statua del Padre Eterno. La volta a botte era ricoperta da un cielo stellato che simulava il manto della Vergine, mentre l’aula liturgica con pianta asimmetrica ospitava un altare laterale con la statua dell’Immacolata di piccole dimensioni e una cappella che conservava la famosa “gondola”, ossia una bara utilizzata per le esequie dei defunti che non avevano la possibilità di usufruire di una degna sepoltura nel Camposanto. Termina la cerimonia funebre, la bara veniva riportata nella chiesa confraternale.

Il pavimento della chiesa era in terra battuta e ospitava alcune sepolture, occultate dai rifacimenti del primo Novecento.

Un campanile a vela posto a ridosso del muro esterno della chiesetta scandiva le funzioni religiose con le due campanelle intitolate alla Vergine Immacolata e a Sant’Antonio di Padova.

Avere contezza della struttura e della planimetria della chiesa risulta fondamentale per poter almeno immaginare quei luoghi frequentati dai nostri antenati e che purtroppo noi non abbiamo avuto modo di conoscere.

lastra commemorativa della chiesa dell’Immacolata posta sul luogo dove sorgeva la stessa

 

Grazie alle ricerche e allo studio dei documenti sappiamo che la chiesa originariamente era intitolata a San Nicola di Myra e questo è fondamentale perché stabilisce l’esistenza  di un culto verso questo santo dell’Oriente che era vivo in Seclì, ma soprattutto ci dice che in età medievale quel luogo ancora oggi sacro per la piccola comunità ospitava una chiesa dedicata  a San Nicola. Tra i beni che la chiesa possedeva una campana, una Croce in legno dorato e molti terreni in varie località quali: Candari, Vinci, Pedulaci, Piperi e altri. Le rendite di questi terreni erano destinati alla retribuzione dei sacerdoti e per la celebrazione di messe secondo la volontà dei donatari.

Che questa chiesa fosse il tempio maggiore della piccola cittadina lo si desume dalla visita pastorale del vescovo Mons. Ludovico de Pennis del 1452.

Oltre a questa chiesa ne risultano altre, quali Santa Maria di Castello San Leonardo, che fino alle fine del 1800 faceva bella mostra di sé in pieno centro storico, nell’attuale vico Dante, già vico San Leonardo.

Il toponimo Cigli per molto tempo aveva causato confusione in termini di lettura toponomastica della visita pastorale. Ma l’attento lavoro di Antonio Sebastiano Serio ha portato alla luce,  grazie anche ai rimandi topografici tipici della piccola cittadina di Seclì, a dire che tale luogo era di fatto Seclì, facente parte della diocesi di Nardò.

Tale denominazione dell’ edificio sacro ci porta inevitabilmente a dire e soprattutto a capire l’importante relazione che il vescovo di Nardò Mons. Antonio Sanfelice fece in occasione della sua visita pastorale a Seclì nel 1719, quando annovera e trascrive la dicitura presente sull’architrave del portone principale della chiesa, che recitava così: “Alma Parens Virgo dicatum est hoc tibi templum sic tibi tum dictum santaque Nicolae il sacro clero il pio signore D’Amato con carità fervente il tutto eresse”.

Appare chiara la vecchia denominazione dell’edificio, ma soprattutto l’intervento voluto da Antonio D’Amato, che di fatto commissionò i lavori di rifacimento della chiesa medievale e cambiò l’intitolazione della stessa.

Il 1649/50 fu importantissimo per Seclì perché oltre alla citata chiesa si intervenne sempre per volere del Duca alla commissione degli affreschi del palazzo ducale e del convento di Sant’Antonio, già Santa Maria degli Angeli extra moenia. La chiesa dunque non era soltanto la sentinella spirituale di Seclì, ma al suo interno operava la confraternita dell’Immacolata Concezione, molto probabilmente istituita alla fine del 1600.

Questa curava la formazione dei novizi con un percorso particolare fatto di confessione, dottrina e retta vita da cristiano e curava anche la novena e la festività della Vergine Immacolata, con la processione che prevedeva l’accompagnamento della statua al mattino, presso la chiesa Matrice, mentre la sera dell’otto dicembre la solenne processione cittadina terminava nell’omonima chiesa.

Interessante era anche il culto dei morti pocanzi citato e l’organizzazione della processione di Gesù Morto la sera del venerdì Santo e quella della Desolata il sabato Santo, all’alba.

I Fratelli dell’Immacolata curavano tali riti con le Sorelle del Sacro Cuore, a partire dagli inizi del 1900, quando tale pia unione fu istituita.

stendardo della Confraternita dell’Immacolata di Seclì

 

La nostra Parrocchia conserva lo statuto del sodalizio riordinato del 1864 che ci permette di appurare le notizie pocanzi formulate.

Di pregevole fattura è anche la statua processionale dell’Immacolata, realizzata agli inizi del XX sec., che andava a sostituire quella più antica e di piccole dimensioni. Anche lo stendardo, rifatto nel 1900 sancisce la presenza bella e importante del pio sodalizio che ha operato fino alla fine degli anni ’60 del Novecento.

statua dell’Immacolata inizi XX sec.

 

La confraternita che vestiva un abito bianco con mozzetta celeste e medaglione con l’effige della Vergine Maria è citata anche in un documento dell’archivio di Stato di Napoli del 1777, dove la stessa chiesa viene identificata come sede del sodalizio e luogo pio laicale del paese insieme a quelli del Ss. Sacramento e del Rosario che operavano nella Matrice.

Altre attestazioni come quella dello Stato di Sezione del 1815 ci dicono che l’edificio era proprietà del comune di Seclì.

Ma significative rimangono le visite pastorali, in ultimo quella di Mons. Corrado Ursi che nel 1955 così vedeva la chiesa dell’Immacolata: Altare Maggiore fisso con la presenza di dieci candelieri e una Croce al centro. Si usa mettere fiori freschi e candele di cera. Il tabernacolo, riparato di recente risulta ancora indecente per l’uso liturgico che se ne deve fare. Vi è la porticina priva della chiave. Il confessionale è privo di stola violacea ma rispetta i canoni dettati dalla curia vescovile in termini di decenza. La chiesa è sprovvista di Reliquie, ma ha la statua dell’Immacolata in cartapesta e in buone condizioni. Da poco sono stati realizzate delle panche ad uso liturgico mentre le campane risultano rotte. Vi opera la Confraternita dell’Immacolata che solennizza la festività della sua titolare mentre il parroco può servirsene da padrone per usi e scopi liturgici.

Da queste poche informazioni ne deduciamo grandi ragionamenti, ma soprattutto insegnamenti. Una chiesa che stava senz’altro a cuore alla nostra gente, una chiesa che non era provvista di tutto il necessario apparato liturgico per via della popolazione semplice ma amorevole, caritatevole e sempre disponibile all’aiuto reciproco. Una chiesa che oggi non c’è più, ma che deve essere ricordata dalle giovani generazioni, perchè il suo ricordo non deve svanire, anzi deve vivere e vive nell’attuale chiesa parrocchiale intitolata come l’antica alla Madonna delle Grazie, ma che ancora oggi in virtù di quell’antico sodalizio la gente del posto chiama “subbra la Mmaculata”. Un ricordo che da pochi anni è sancito da una bella lastra commemorativa voluta dal popolo di Seclì e dal suo parroco, guida e pastore attento alle esigenze della piccola comunità a perenne memoria di una storia e di un culto che ha scandito la vita della piccola comunità.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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