La non casualità, almeno nelle mie intenzioni, dell’associazione tra le due figure di testa sarà chiara solo alla fine e non è un espediente-ricatto per impegnare il lettore fino all’ultima parola: semplicemente non sapevo quale fosse il punto migliore dove piazzarle.
Dell’ istituzione neritina nominata nel titolo, della cui produzione nulla è sopravvissuto, mi ero già occupato1, giungendo alla conclusione, dopo aver motivato le mie perplessità, che quasi sicuramente la notizia della sua esistenza era un’invenzione del Tafuri, ispirata, come le altre poi definitivamente smascherate, dall’intento apparentemente nobile (come lo era il titolo di conte che poteva vantare il personaggio che fra poco conosceremo …) ma in realtà offensivo della storia e, in genere, della cultura, di nobilitare le memorie cittadine. Quanto ora mostrerò mi ha fatto sobbalzare sulla mia amica sedia a rotelle e credo che a tutti sembrerà, ad una prima lettura, la classica pistola ancora fumante dopo aver sforacchiato la mia maliziosa ipotesi ed aver restituito al Tafuri parte della verginità perduta.
Passo al concreto e ligio alla civiltà dell’immagine (e, purtroppo, dell’apparenza, ma non in questo caso), al documenti ancora una volta giunto sotto i miei occhi per puro caso e che ritengo finora sconosciuti, riservandomi di tornare alle parole per commentarlo. Esso è in inglese, lingua che non conosco, e sarei grato a quel lettore che notificasse la presenza di qualche errore nella mia traduzione, perché in questi casi anche un’imprecisione può essere devastante.
Catalogo della straordinaria collezione di splendidi manoscritti principalmente su pergamena in varie lingue d’Europa e d’Oriente, formata dal signor Guglielmo Libri, l’eminente collezionista, che è obbligato a lasciare Londra in conseguenza della cattiva salute, e per questa ragione a mettere in vendita questo tesoro letterario. Tra questi mille manoscritti si possono trovare: BIBBIA LATINA, secolo XI, con miniature; I QUATTRO VANGELI, in greco, secoli X-XI, alcune copie de GLI EVANGELISTI, in latino, del secolo IX con miniature in stile bizantino; vari LEZIONARI del IX e X secolo , con miniature: un ampio numero di PADRI DELLA CHIESA, incluso S. Gregorio di Nissa, in greco, secolo IX, S. Giovanni Crisostomo, in greco, secolo X, etc; due importanti manoscritti di S. CIPRIANO, uno dell’ VIIl, l’altro del IX secolo, differenti lavori di S. AGOSTINO, S. GIROLAMO, S. GREGORIO IL GRANDE, S. ISIDORO, etc. etc., tutti dell’VIII, IX, X e XI secolo; BEDA CONTRO MARCO, secolo VIII, contemporaneo con l’autore; la STORIA DEGLI ANGLI di Beda, secolo XI, VITE DI SANTI, secoli IX, X e XI, con antichi disegni o miniature di scuola anglo-sassone; alcune collezioni di LITURGIE, in greco o in latino, con la musica antica scrittabet secoli IX, X e XI; il NUOVO DIGESTO DI GIUSTINIANO, secolo XI-XII, GRAMMATICI (secolo X). Molti degli scrittori greci e quasi tutti i latini classici, inclusi LUCREZIO (secolo XIV), LUCANO (secolo XIII), CLAUDIANO (secolo XII), VEGEZIO (secolo XI), CENSORINO, PRUDENZIO (secolo X), DONATO (secolo IX), PRISCIANO (secolo XI), BOEZIO (secolo XI), CASSIODORO (secolo IX), etc. etc.
Lavori di matematici, medici e altri scienziati, compreso il primo manoscritto esistente, contengono moderne figure numeriche.
Antichi poeti e prosatori italiani; lavori in dialetto limosino; portolani e antiche derragliate mappe; poeti in francese antico, i romanzi inediti di Chibalrg, poesia in inglese antico; un’ampia collezione di lavori orientali, ORE ed altri libri devozionali, con magnifiche miniature di varie scuole, maniscritti autografi di TASSO, GALILEO, KEPLERO, LEIBNITZ, etc., la quale collezione sarà venduta all’asta dagli incaricati Samurl Leigh Sotheby & John Winkilson banditori di proprietà letteraria e lavori che spiegano le arti fini presso la loro casa in Wellington Street, 3, Strand, lunedì 28 marzo 1859, e (eccetto domenica) all’unana precisa ogni giorno. Può essere visualizzata tre giorni prima e cataloghi alla mano.
Stampato da F. Davy e Bons, 197, Long Aurd, Londra
Il frontespizio di questo catalogo, al di là di un pizzico di enfasi pubblicitaria, fa comprendere anche ad un profano il valore della collezione messa all’asta, per la quale oggi, solo per assicurarla, bisognerebbe sborsare milioni di euro. E solo quella che ancora oggi è forse la più importante e famosa casa d’aste del mondo, cioè Sotheby, poteva gestire l’operazione. Famigerato invece è, più che famoso, il nome dell’eminente collezionista, il fiorentino Guglielmo Libri (1802-1869) nella forma più breve, Guglielmo Bruto Icilio Timoleone Libri-Carrucci nella più estesa.
Probabilmente chissà quante volte il suo cognome avrà evocato il detto latino nominaomina (i nomi sono presagi) a causa di un amore forse eccessivo e non proprio disinteressato per i libri. Le sue avventure giudiziarie iniziarono precocemente , quando nel 1826, fu accusato quanto meno di scarsa vigilanza, la quale aveva reso possibile la sparizione di alcuni preziosi libri dalla biblioteca dell’Accademia dei Georgofili, della quale per pochi mesi era stato il direttore. Considerando il numero e il valore delle opere citate nel catalogo, chiunque, credo, sulla scorta di questa impresa iniziale si lancerebbe in facili illazioni , ma va detto che il Libri, studioso validissimo di matematica e fisica ed autore di parecchie pubblicazioni soprattutto sulla prima, con la concretezza dei numeri aveva dimestichezza e, dopo che il primo processo si concluse con un nulla di fatto perché si preferì evitare lo scandalo, non perse mai il vizietto ed anche in Francia, dove si era trasferito, subì denunzie, archiviazioni, confisca dei libri sicuramente sottratti e di quelli contraffatti.
Tale inarrestabile (non lui che poteva contare su protettori forse pure conniventi, se non complici) esercitò poi in Inghilterra, dove si era rifugiato, fino alla condanna, almeno morale, definitiva, che però giunse post mortem. Il documento che ho presentato è uno dei numerosissimi cataloghi da lui stesso curati per una delle numerose aste che tenne in Francia prima ed in Inghilterra poi dal 1847 al 1865. Sfogliandolo, a p. 180 s’incontra la scheda n. 811.
POESIE E PROSE ITALIANE, del Cinque-Cento, la maggior Parte INEDITE folio, SAEC. XV ON PAPER
Una raccolta di poesie inedite negli autografi degli autori, principalmente di, o indirizzate a Giovanni Geronimo Acquaviva, duca d’Atri, poeta egli stesso di non cattiva fama. Tra questi versi figurano i poemi originali di “El Capitan Poeta Marcantonio, Bernardino Rota, Giovanni della Casa, Coppetta, Scipione Ammirato, Eusebio Statiera, Muscettola” (che, da una delle poesie, risulta essere stato il segretario dell’Accademia del Lauro), Cambi e diversi altri tra i più celebri poeti italiani del Cinquecento. Tiraboschi e Mazzuchelli parlano a lungo del merito letterario di alcuni membri dell’illustre famiglia napoletana degli Acquaviva, e della protezione da loro data agli uomini più dotti del Cinquecento. Belisario Acquaviva fondò a Nardo, città di provincia del regno di Napoli, un’Accademia detta del Lauro, la quale fu celebrata dal Sannazzaro, e questo volume contiene una grande varietà di composizioni indirizzate alla stessa Accademia, al tempo di Giovanni Geronimo Acquaviva (Duca d’Atri) nipote del fondatore. Il volume contiene anche numerosi saggi in prosa di argomento scientifico e storico scritti dallo stesso Duca, letti senza dubbio alle riunioni dell’Accademia. I nomi dei diversi autori, quando non sono scritti dall’autore stesso in calce alla carta, sono spesso scritti di mano contemporanea, probabilmente dal Segretario dell’Accademia. Dalle notizie risulta che molte di queste poesie sono autografe di Bernardo Tasso, padre del grande Torquato, e poeta egli stesso di grande celebrità. Questi scritti originali, scritti da uomini illustri appartenenti ad un’Accademia estinta da quasi tre secoli, sono molto interessanti.
Proprio questa scheda è stata la causa prima (perché al frontespizio sono arrivato dopo) dei ripetuti sobbalzi di cui ho detto. Parole grosse come autografi (!), nome e cognome del segretario dell’Accademia e degli autori, loro firma in calce o, in alternativa, annotazione del segretario; nemmeno gli archivi dell’Arcadia, che pure pubblicò a più riprese i lavori dei suoi soci, possono vantare un simile documento.
L’entusiasmo e l’eccitazione hanno così ben presto ceduto il posto alla necessità di riflettere e controllare, perché, in ogni caso, non è bene fidarsi ciecamente.
Senza soffermarmi sul Mazzuchelli (1707-1765) e sul Tiraboschi (1731-1794), che, con una metodologia che eredita l’ipse dixit del passato e anticipa il copia-incolla del futuro, seguono il Tafuri (1695-1760), noto che gli accademici citati non sono cronologicamente compatibili con Belisario (1464-1528)3, ma lo sono perfettamente col dedicatario, il nipote alias il Guercio di Puglia (1600-1665), per cui è da pensare, in base a questo documento, che l’accademia si sarebbe estinta con lui4.
Il catalogo alla fine contiene una serie di tavole riproducenti i frontespizi delle opere più significative. Purtroppo la scheda 811 è tra quelle mancanti di tale prezioso complemento che sarebbe stato di grandissima importanza e ciò appare strano in chi sa vendere bene il suo prodotto, dopo il notevole spazio riservato alla scheda e le parole conclusive che ne sottolineano il rilevantissimo interesse non solo antiquario ma anche per la storia della letteratura che definire, in questo caso locale, sarebbe riduttivo.
Appare evidente che Poesie e prose italiane è il titolo dato dal collezionista all’insieme delle scritture, autografe o meno che siano, prese chissà quando e chissà dove. Moltissime opere messe all’asta nei vari cataloghi sono raccolte di fogli manoscritti o, addirittura, di loro frammenti5, messe su dal Libri con lo stesso criterio. Alcune, addirittura, mancano del titolo (probabilmente perché non ancora pronte ad essere immesse sul mercato): è, per esempio, il caso di Fragmenta manuscriptorum6 , di seguito riprodotto, titolo datole nel 1888, come si legge in calce, data in cui avvenne il recupero di cui dico in nota 7.
Se in una illusoria vita precedente fossi venuto a conoscenza dell’asta di quel fatidico lunedì 28 marzo 1859, avrei mobilitato, insieme con i pochi perversi come me che ancora nutrono questi futili interessi, tutta Nardò per raccogliere i fondi necessari per partecipare all’asta con qualche speranza di aggiudicarci l’oscuro oggetto del desiderio, pur col rischio, sempre in agguato, di portare a casa una patacca…
Invece, non so neppure se il manoscritto fu aggiudicato, tanto meno a chi, e se l’archivio della Sotheby ne conservi o meno memoria. La rete riserva sempre inaspettate e inimmaginabili sorprese e non è detto che qualcuno, magari dalla Cina, punto d’arrivo del precedente percorso Italia (se non Salento)>Inghilterra, non ci faccia sapere di essere il fortunato attuale proprietario del manoscritto.7
In conclusione: essendo quanto meno improbabile e in tempi brevi il suo ritrovamento col conseguente studio meticoloso per stabilirne l’autenticità, non escludo che esso sia il frutto di un abile ma truffaldino confezionamento (non dico di chi, dovendo essere arcinota la favoletta del contadino che per attirare l’attenzione e darsi importanza gridava al lupoal lupo! quando il lupo non c’era e poi, a differenza delle prime volte, nessuno venne in suo aiuto quando il lupo c’era veramente).
Se il mio sospetto, poi, dovesse rivelarsi infondato, non potendomi cospargere il capo di cenere, magari con quella di un albero di alloro, sarebbe giusto, qualora fossi cremato, che le mie ceneri fossero disperse sulla la chioma di un albero, naturalmente e sempre, di alloro…
Nel frattempo, però, spero di non restare vittima di questo ricorrente incubo ad occhi aperti…
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1 Armando Polito, Giovanni Bernardino Tafurie la cinquecentesca Accademia del lauro di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2022, n. 302 della collana Sallentina fragmenta.
2 Catalogue of the extraordinary collection of splendid manuscripts,
3 Giovanni della Casa (1503-1556), Bernardino Rota (1509-1574), Scipione Ammirato (1531-1601), Antonio Muscettola (1628-1679); nulla son riuscito a reperire su Eusebio Statiera e Cambi, nonostante il fatto che per quest’ultimo la citazione del solo nome faccia pensare, come nel caso del Muscettola, ad una acquisita notorietà.
4 Fra l’altro questa ricostruzione storica, che mi appare strumentale a fini commerciali, contrasta, anche nell’onomastica, con quella più ampia fatta (ma, anche in questo caso le fonti non sono citate…) da Camillo Minieri Riccio in Notizie delle Accademie istituite nel Regno di Napoli, in Archivio storico per le province napoletane, anno. III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, nella sezione dedicata a Nardò a p. 294, dove si legge: Nell’aprile dell’anno 1577 essendo stato creato vescovo di Nardò Cesare Bovio, diede subito commessione a Scipione Puzzovivo di restaurare l’estinta Accademia dell’Alloro, di fatti in breve fu istituita l’Accademia che prese il nome degli INFIMI, e vi furono ascritti socii il detto Puzzovivo, Bartolommeo e Bonaventura Tafuri fratelli, Paolo Manzo, Girolamo Gaudioso e Tommaso Colucci, Girolamo de Franchis vescovo di Nardò e poi Colonio Ciaia, che nell’anno 1652 successo al de Franchis, si adoperarono sempre al lustro di questa Accademia, alla quale appartennero pure il P. Tommaso Pinto carmelitano… Nell’anno 1660 allorché andò vescovo a Nardò Girolamo de Coris l’Accademia fu messa in più lustro, avendo disposto che oltre alle lettere ed alle scienze si trattassero pure il dritto civile ed il canonico, e costituendosi egli Principe di quel consesso, e nuovi socii vennero ammessi, fra quali Giacinto Zuccaro, Gio. Bernardino Manieri, Gio. Lorenzo Cristiano carmelitano, Giulio Cesare Caballone, e Giuseppe Piccione. Alla fine decadendo di anno in anno, questa Accademia si estinse sullo scorcio del secolo XVII
5 Appropriarsi indebitamente, cioè rubare, un libro, magari per venderlo, è di per sé odioso; strappare le pagine di alcuni e unirle come trofeo è ancor più criminale. Di questa attività il Libri resterà per sempre l’indiscusso campione mondiale e un emulo in miniatura (…) appare al confronto Marino Massimo De Caro, condannato in via definitiva nel 2015 per lo scandalo relativo alla gestione della Biblioteca dei Girolamini, della quale era stato nominato, pur non avendo titolo, direttore dall’allora ministro dei beni culturali Giancarlo Galan (condannato pire lui in via definitiva nel 2014 per lo scandalo del MOSE), del quale fino al momento della nomina era stato consulente (!).
6 La raccolta, ma non è la sola, è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia col titolo Recueil factice composé de 6 manuscrits ou fragments de manuscrits différents (segnatura: Département des Manuscrits. NAL 1629).
7 Purtroppo, considerando l’anno in cui l’asta si svolse, il manoscritto non faceva sicuramente parte di quelli venduti nel 1847 dal Libri a Lord Bertram, quarto conte di Ashburnham, dai cui eredi lo stato italiano ne acquistò una parte nel 1884 depositandoli presso a Firenze nella Biblioteca Medicea Laurenziana, mentre la restante parte fu acquistata quattro anni dopo dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Del manoscritto non v’è traccia neppure in Inventario delli beni remasti nell’heredità del quondam eccellentissimo signor don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragonia conte di Conversano, Congedo, Galatina, 1983.
La strada statale “7”, l’Appia, oggi rubricata “E 90” (l’europea, il cui segmento italiano finisce a Brindisi), ci porta comodamente a destinazione, essendo di prima.classe. A Francavilla Fontana non entriamo: ce la lasciamo a Ovest. L’abitato ha quasi raggiunto la contrada “Centorizzi”, l’area in cui sorge l’attraente posto ove è presente la cappella padronale voluta da Giovanni Filippo Resta.
L’aristocratico e facoltoso signore la edificò nel secondo decennio dell’Ottocento per il comodo della messa in villa, che la fronteggia in arioso spazio giardinato. L’esponente dell’importante famiglia scelse con giudizio il sito nel quale porre le fondamenta per dimorare amenamente. L’aria buona e il verde impiantato dialogavano a meraviglia con la circostante ubertosa campagna, ricca di testimonianze storiche. Qui, già sul finire del XVIII secolo furono ritrovati reperti archeologici di età messapica. Godendo della visione dei resti della necropoli venne su con tutti gli agi l’elegante dimora (ora ampliata a location per ricevimenti). Esaltata dal cornicione balaustrato, la magione è architettonicamente qualificata dalla loggetta con bifora pensile.
L’armonia si spande dal disegno delle linee della facciata al tutt’intorno. Non poteva la chiesetta essere da meno: la finezza del prospetto parla da sé. Fa delicata scenografia il sagrato, che ha l’ovale accennato del recinto sagomato con balaustrini. Le capitozzate statue laterali, pur avendo perso il volto dei santi, lo stesso trasmettono quel tocco di aerea leggiadria. L’ornato dei panneggi comunque basta e avanza: la pietra gentile lo esalta rendendo indistruttibile il grosso delle fattezze corporee delle mute figure. E pazienza se non è più possibile sapere chi fossero quei due aureolati: ognuno può dire la sua sulla loro identità.
Meglio sta l’altra coppia santa che vediamo in alto di fastigio. I simulacri lapidei, issati per abbracciare il vasto spazio di pertinenza dell’oratorio (che è da considerarsi a tutti gli effetti luogo sacro), la testa non se la sono vista portare via. Stanno al sicuro al vertice del coronamento. Scampato l’affronto della decollazione, resistono al pericolo. Nessuno osa scalfirne la sagoma. Troppi metri li separano dai malintenzionati che restano a terra, avendo difficoltà pure a correttamente nominarli. Una scultura è di certo di una donna; anche la seconda ne ha le sembianze. Ci vorrebbero mezzi tecnici adeguati (un teleobiettivo) per “venirne a capo”, per riconoscerne i tratti e i relativi attributi iconografici. Ma non disponiamo della relativa attrezzatura.
Lasciamo perdere. Le sante perdoneranno la nostra mancanza. Rimediamo plaudendo all’accordo tra gli elementi compositivi dell’apice del frontale. Notiamo altresì che nel retro del prospetto spicca il grazioso campanile a vela, inquadrato da un balconcino ondulato: una vera preziosità, una insolita inserzione dell’architetto.
Restiamo favorevolmente colpiti dai rapporti tra le parti, di un esterno distinto che prelude al séguito dell’interno.
L’aula liturgica è immersa in uno splendore: di marmi, di stucchi, di dorature. Le cornici degli ovali rendono fastose le raffigurazioni pittoriche. La firma dei cinque dipinti che si dispongono ai lati dell’altare (due per parte più l’ultimo in apice, in unghia di volta del presbiterio) è di un artista francavillese apprezzato al tempo suo, noto per ritrarre con sentimento le figure di carattere sacro. Si tratta di Vincenzo Zingaropoli (1779-1836). Le movenze non affettate con cui delinea gli effigiati appoggiano a una sobrietà delle tinte: cosa che aiuta a meglio comprendere il narrato di pennello.
La tela principale, quella che indulge ad ancona, evidenzia al meglio il linguaggio del Nostro: il Transito di san Giuseppe è reso plastico dal gesto teatrale di Gesù, che conforta il padre putativo portando il braccio sinistro in alto, in direzione del Cielo, in cui svolazza la diade di angioletti, pronta ad accogliere in Paradiso colui che si affida alla Buona Morte. Maria, da premurosa moglie, è china sul letto dell’agonizzante: lo assiste confidando nel buon Dio, l’Eterno Padre.
La pala d’altare vede al margine di destra riprodotto lo stemma della famiglia Resta, committente desiderosa di vistosamente apparire: ce lo rammenta il cartiglio devozionale che si mostra a sinistra.
Lo sposo casto e fedele della Beata Vergine si prende giustamente la scena essendo il titolare del tempio, ma è la Corredentrice la maggiormente rappresentata: compare in tutte le tavole in parete. Ora è Regina Coeli, assisa con il Bambino in un manto di nubi; ora è Madonna del Carmine con ai piedi san Vito e una sconosciuta nimbata. Nostra Signora riceve pure le incessanti e infiammate suppliche delle Anime purganti; ascolta parimenti le raccolte preghiere di san Lorenzo, il martire con la graticola bene in vista: non riconoscibile è la seconda presenza santa.
Problemi di decifrazione non ne abbiamo per l’ultima opera, quella della Pietà, a cui non mancano i dettagli dei ferri del patibolo di Cristo. Bravo, meritevole è stato il dipintore!
Nasce a Casarano il 4.1.1883 in piazza Garibaldi, primogenito di sette figli, da Felice (1851-1935) e dalla gallipolina Maria Virginia Musso (1858-1919). Muore a Incoronata (frazione di Foggia) il 6.1.1910 in un incidente ferroviario, all’età di 27 anni.
Del suo periodo di vita casaranese si sa pochissimo. Dopo le elementari continuò gli studi a Gallipoli, cittadina della madre, per poi tornare, nel 1897, nel paese natio come impiegato delle Regie Poste, dove rimase sino al 1903 allorquando fu trasferito temporaneamente all’ufficio telegrafico di Lecce; successivamente, nel 1904, fu movimentato a Brindisi nell’ufficio Transito.
Amava scrivere poesie dialettali e nel 1902, da poco ventenne, pubblicò, con lo pseudonimo “Roseo”, una sua raccolta dal titolo “Canti a Vint’Anni” con 19 componimenti.
Per l’aspetto letterario si suggerisce l’ottimo lavoro della Dott.ssa Concetta Fracasso nella sua tesi di laurea: “Gaetano Romano Poeta casaranese di fine Ottocento”, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Lecce, anno accademico 1994-1995.
Il Romano si occupò anche di giornalismo collaborando, dal 1909 sino alla sua morte, al settimanale brindisino “L’Unione” – Organo dei Partiti Popolari, nel quale pubblicò articoli di vario genere, molti firmati con lo pseudonimo “Bruno”, riguardanti l’emancipazione femminile, le scuole pubbliche, gli ideali massonici, i lavoratori, il divorzio, la laicità dello Stato.
Durante la sua permanenza a Casarano fondò un teatro dialettale, che probabilmente durò poco tempo in quanto non ne è stata trovata traccia. Lo si apprende, però, da un suo collega di lavoro, ma anche scrittore e poeta vernacolare, il leccese Leone Oberdank (1883-1952), il quale, in un articolo postumo sul “Corriere Meridionale” del 22.12.1910, citò gli sforzi compiuti in tal senso dal nostro Gaetano.
A Brindisi il 23.7.1904 sposò la gallipolina Rosa Barba da cui ebbe, nel maggio 1905, la figlia Virginia (quest’ultima è scomparsa nel 1994 a Matino).
I due incidenti
Come si evince dall’articolo della “Provincia di Lecce” dell’8 agosto 1909, egli fu coinvolto in un primo incidente ferroviario occorso domenica primo agosto 1909, per fortuna senza gravi conseguenze, invece, dopo solo pochi mesi, giovedì 6 gennaio 1910, giorno dell’Epifania, nel mentre era in servizio sul vagone postale del treno diretto n. 51, Foggia-Lecce, all’altezza di Incoronata (FG), il convoglio entrò in collisione con un treno merci, il n. 9710, proveniente da Bari.
Insieme al nostro concittadino, perirono nell’incidente altri tre impiegati postali brindisini, ironia della sorte, gli stessi del primo incidente (Ernesto Chirizzi, Leonardo Stampacchia, Francesco Palmieri), oltre a un passeggero e al macchinista del loro treno. Vi furono anche una quindicina di feriti.
A Brindisi ci fu un grande sconcerto per quanto accadde. Il settimanale “La città di Brindisi” del 15 gennaio 1910 così commentava la tragedia: “Ancora una volta ci colpisce la sciagura e la crudeltà del fato ci terrorizza. La morte trova a sé più vicine le esistenze dei lavoratori e fa sue con la violenza di un attimo le più giovani, le più forti, le più vive per virtù e operosità. Ha avuto un grido di dolore il popolo di Brindisi per lo scontro ferroviario nei pressi di Foggia perché quattro vittime, quattro sposi che alle spose recavano la pace dell’animo, quattro padri che ai figli ridavano la festa del cuore, quattro lavoratori, Gaetano Romano, Ernesto Chirizzi, Francesco Palmieri e Leonardo Stampacchia”.
Alle ore 8 del 10 gennaio 1910 giunsero alla stazione centrale di Brindisi le quattro salme. All’arrivo erano presenti molti impiegati postali e telegrafici e il rappresentante del Ministro delle Poste. Le salme furono composte in una sala d’attesa della stazione, trasformata in camera ardente, con un via vai di cittadini a rendere loro omaggio.
Le cronache dell’epoca raccontano che il feretro di Gaetano Romano era coperto da un gonfalone della massoneria.
A Porta Lecce le autorità civili e religiose, nonché funzionari delle Poste pronunciarono le loro orazioni. Giunto il corteo al cimitero, il professore Lorenzo Calabrese, a nome della Massoneria, diede l’ultimo saluto alle salme.
Il Settimanale “L’Unione” uscì il 21 gennaio con un numero unico dal titolo “ELEGIA in memoria di GAETANO ROMANO”, ecco il link:
Nella nostra città, in cui era ancora vivo il ricordo di Gaetano, e dove risiedevano i suoi genitori, l’amministrazione comunale con a capo il sindaco Domenico De Donatis pose una lapide ricordo presso la casa natale, in piazza Garibaldi, dove è tuttora visibile.
Sulla collina della Campana, luogo caro ai casaranesi, dal 1999 campeggiano due lapidi riportanti la sua poesia dialettale: “Susu lu munte de la Campana”.
Recentemente, nei pressi della caserma dei Carabinieri, gli è stata intitolata una strada.
Hanno scritto su Gaetano Romano:
Antonio Chetry,Spigolature Casaranesi, quaderno III, pag. 14 –Laterza Bari -1976
Vittorio Zacchino, I Casaranesi, Edizioni il Grifo, Lecce 1991, p. 87
Concetta Fracasso, Gaetano Romano poeta casaranese di fine Ottocento, tesi di laurea, Univ. di Lecce, a.a. 1994-1995 (Link per leggere la tesi di laurea)
Francesco Paolo Valentino, Canti a vint’anni, Eurocart s.r.l., Casarano 1998
Fabio D’Astore, Gaetano Romano tra letteratura e impegno civile, Milella, Lecce 2023.
Ci troviamo nel cuore dell’area del turismo di superiore livello, quella tra Torre Egnatia e Savelletri, punteggiata di strutture ricettive di lusso, dispensatrici di piaceri e di comfort. Resort stellati, scelti da ospiti che giungono specialmente dall’estero, fanno a gara per accogliere in modo suadente una clientela danarosa. I viaggiatori con larghe disponibilità amano immergersi nella quiete coccolata della campagna super accessoriata. Non se la scordano, la vacanza, una volta tornati a casa.
Avveduti imprenditori, fiutando le potenzialità delle amene risorse dei luoghi, hanno professionalmente rivisitato il vecchio mondo contadino in chiave di esclusiva offerta extralberghiera. Scommettendo sul patrimonio di paesaggio umano ereditato hanno centrato il target. Il segmento di mercato al quale si rivolgono dà frutti significativi che, stagione dopo stagione, maturano, si consolidano. Ne è discesa un’immagine del territorio fasanese vincente, celebre soprattutto per i matrimoni VIP apparecchiati.
Abbiamo voluto dar contezza dello specifico (e molto mediatizzato) fenomeno dell’ospitalità “deluxe” perché altrimenti come spiegheremmo l’ottima conservazione delle secolari chiesette di rimodulate masserie? Senza la dovuta contestualizzazione, nel presente invitante, sarebbe monca la nostra descrizione della cappella del “Crocifisso” di “Torre Coccaro”.
Già dal portone, che immette nella corte, divenuta piazzale delle feste del fu organismo masseriale, notiamo il sigillo della religione; qui, i vecchi segni del sacro sono considerati valore di architettura. C’è la croce lapidea sul culmine del recinto della struttura, a lato della caditoia. Appena sotto di un concio trionfa la formella della Vergine col Bambino: un altorilievo che non puoi non vedere appropinquandoti all’arco incorniciato di bouganville.
Il viola tenero dei fiori che si arrampicano perimetralmente invitano a entrare. Il permesso è accordato. Il bianco-calce degli spalti che si spande tutt’intorno lascia presagire la meraviglia a portata di sguardo.
Varcato l’ingresso, adornato in tonalità magenta (una livrea che invita al sogno d’una fiaba d’altri tempi), si dispone giro giro lo slargo lo stupore. Colpisce la distinzione dell’oratorio. Moriamo dalla voglia di visitarlo, ma prima di varcare la soglia indugiamo sulla facciata, le cui linee riflettono armonia.
Il coronamento ha il classico timpano: netto, geometrico alla perfezione. La triangolarità, si sa, è elevazione: il cielo lo tocchi con un dito. Ma voliamo basso.
Sul portale si apre la finestra, grande col suo profilo mistilineo contornato da cornici aggettanti. Superiormente è alloggiata la lunetta; vi spicca il modellato a tutto tondo della figura del Cristo deposto: emerge dal sarcofago sorretto da due angeli. La pietra tenera del manufatto dà plasticità alla composizione, resa fulgente grazie al contrasto cromatico del niveo col rosso pompeiano. Il rafforzo iconografico mette tutto in asse: e l’equilibrio della forma se ne avvantaggia. L’eleganza dell’arredo scultoreo è prova indiscussa di cura nell’esecuzione, che rimanda al tardivo influsso di gusto rinascimentale nella periferia sud-orientale dello Stivale.
Goduto l’esterno passiamo all’interno, che merita la giusta attenzione.
L’aula ha volta a crociera con chiave costituita dal rosone. Gli stessi colori del fuori continuano nel dentro. L’altare ha però quel di più di celeste, che è perfetta cromìa risalente all’Altissimo, ripreso morente sul patibolo. Il legno, che è materia della croce, è stato sovrapposto sul dipinto, opera del pittore fasanese Ferdinando Schiavone, datata 1931. Raffigura le tre Marie piangenti ai piedi di Gesù, modellato in cartapesta. L’epidermide del Messia è volutamente candida, forse troppo: in tal modo si volle far risaltare le piaghe, le ferite inferte sul costato e alle estremità del corpo adeguatamente plasmato. Sullo sfondo del Calvario spuntano le figure di due guardie romane, riprese a tinte scure per metterle in cattiva luce.
La macchina della mensa eucaristica ha al vertice il Sacro Cuore trafitto e avvolto nel sudario della Risurrezione. Un tripudio di arredi sacri, posti sui gradini della tavola liturgica, completano il colpo d’occhio. Gli ostensori, i candelieri, fanno parata al tabernacolo. La Parola di Dio sovrasta il tutto: è lì, nelle pagine aperte delle letture della santa messa.
Il senso del raccoglimento prende così l’occasionale visitatore, che non è un cliente del “Cinque stelle”. Ciò non toglie che non possa sostare nel presbiterio, raccolto e grondante di suppellettili ante riforma conciliare.
La gentilezza del “concierge” ci ha favorito. Si ha tutto il tempo per ammirare, sulla parete – a sinistra entrando – il lavabo a due vasche, che reca rilievi a motivi vegetali: lo sostiene una maschera che parrebbe di satiro. C’è l’indicazione di quando la doppia composizione fu scolpita: nell’Anno del Signore 1739. Possiamo allora non essere lontani dalla data dell’edificazione dello splendido tempietto di masseria che appartenne alla famiglia Indelli di Monopoli.
Terminata la visita ce ne andiamo soddisfatti: un altro tassello del mosaico della religione di vecchia campagna è al suo posto. Natale 2023 è alle porte: il “Crocifisso” di contrada “Coccaro” ci riconduce inevitabilmente alla Nascita…
A circa metà strada tra i comuni di Corsano e Gagliano sorgeva, fin quasi alla fine del Cinquecento, il casale di Valiano. Il toponimo si conserva ancora oggi (“Vagliano” sul Quadro d’Unione del comune di Alessano e “Masseria Vagliano” sulle carte IGM) e delimita una zona abbastanza ampia, al confine trai i territori di Alessano e Gagliano, compresa tra la serra di S. Dana e la marina di Novaglie (Fig. 1).
Da oltre mezzo secolo, questa località è oggetto di diversi studi storici e di alcune ricerche sul campo che hanno riportato in luce numerosi documenti d’archivio ed evidenti testimonianze archeologiche, inconfutabili tracce di una lunga frequentazione umana. Attraverso l’analisi delle fonti scritte e dei reperti materiali, il presente lavoro si propone di ricostruire gli eventi e le dinamiche che hanno portato prima alla nascita e poi all’abbandono del piccolo casale di Valiano e, allo stesso tempo, di aggiungere nuovi dati circa i modelli insediativi nel Salento sud-orientale tra Tardoantico e Medioevo.
Fonti storiche
Come avviene per tanti centri salentini, le prime notizie storiche sul casale di Valiano risalgono all’epoca degli Angioini, precisamente all’inizio del XIV secolo. Alcune informazioni si possono trovare nell’opera Storia della famiglia dell’Antoglietta di Scipione Ammirato, che riporta un paio di cenni tratti dall’archivio angioino: nel 1301 Enrico dell’Antoglietta fu signore di “molte Castella e Feudi“, tra i quali “San Dano, Pulsanello, Giuliano, Marsanello, […] e Baliano“; nel 1333, suo figlio Nicolò possedeva i casali di “Pulsanello, Marzanello, Iusciamello, Baliano, Barbarano, Santo Dano, Boniliano e Pulsano” e ancora nel 1371 Baliano viene computato tra i beni feudali appartenenti a Filippo dell’Antoglietta1. Sempre all’inizio del Trecento, nel 1322, due abitanti di questo villaggio risultavano essere vassalli del vescovo di Alessano (episcopus leocadensis habet duos vassallos in Valiano)2.
Non possediamo ulteriori informazioni fino al 1446, anno in cui venne redatto il Quaternus declaracionum principalis curie3, registro fiscale dell’amministrazione della contea di Lecce. Da questo documento apprendiamo che l’università di Balliani (il cui sindaco era Pietro Bacto) faceva parte dei possessi del principe di Taranto, Giovan Antonio Orsini del Balzo, il suo territorio, insieme a quello di altri casali circonvicini, ricadeva sotto la giurisdizione del capitano di Gagliano e all’erario gaglianese veniva pagato anche un diritto sulla vendita del vino (iure concordie taberne). Anche se all’epoca era infeudato ai del Balzo, sappiamo che altre famiglie vantavano diritti sul feudo di Valiano, infatti, nel 1466, re Alfonso d’Aragona concedeva a Nicola Conniger di Lecce “certa parte del casale di Castrignano del Capo cum vaxallis, redditibus, pertinentiis suis omnibus, et cum certo territorio nominato campo saracino de territorio dicti Castrignani, et di certi terreni siti in territorio Valiani, ubi dicitur Vigne marine, in feudum“4; mentre, sempre nel XV secolo, Jacobo de Lantolio (dell’Antoglietta) possedeva “certa parte casalis Juliani; casale vulgariter dicto Marsanello; pro vaxallis habitantibus in Specla, in casali Pati, in Gagliano ed in casali Baliani; Arignani et Gagliani; orti tre nominati Santo Nicola in Casali Arigliani; et pro territorio Baliani pro tiraggio; territorio in pertinenza Santo Dana, pheudo inabitato in Palaczano; pheudo sito in tenimento Santi Pancratii; casali Rofiani, Salve et tabola lomabardello; pheudo de Regiano; pheudo inabitato di S. Andrea in pertinentis Neretoni“5. Tuttavia il casale restò in mano alla famiglia del Balzo per tutto il Quattrocento: il 20 dicembre 1463 esso era annoverato tra i territori che Raymondo de Bautio aveva ricevuto in eredità dal padre6, mentre il 12 giugno 1494 un documento redatto a Napoli conferma il possesso del casale (scritto come Vagnano) a Giovan Francesco del Balzo, figlio di Raymondo, e ai suoi eredi7.
Nel Cinquecento i documenti a nostra disposizione aumentano in maniera considerevole e si fanno sempre più ricchi d’informazioni. Nel 1512-13 il casale contava tre fuochi, pagava le tasse in tre rate e il suo sindaco era Carlo di Cola Maso. Nel 1515-16 aveva ancora tre fuochi e pagava le tasse (5 once, 2 tarì e 3 grani) a Giovanni Pietro de Ragona, doganiere di Gagliano8.
Un relevio redatto il 28 aprile 1520, ci mette a conoscenza che Petruccio Conniger pagò una somma di 31 once, 4 tarì e 17 grani alla Regia Camera di Napoli, dopo la morte del nipote Giacomo Maria Conniger, per l’eredità di “due parti del Casale di Castrignano, con li vassalli nel feudo nom[inat]o Gallotta, e nelli Vassalli del Casale di Giuliano; certo pezzo di terra nom[inat]o Campo Saracino, e certi altri territorij, e vignali nel distretto di Valiano dove si dice Vigaio Marino in Prov[inci]a d’Otranto“9.
Nel 1527-28 il casale contava 5 fuochi e nel settembre del 1531 pagava una tassa di 2 once, 2 tarì e 13 grana10. Nel 1539 i fuochi erano saliti a 711. Al 2 ottobre 1551 è datato il relevio che Isabella de Capua, Principessa di Molfetta, pagò, dopo la morte della madre Antonicca del Balzo, per la contea di Alessano di cui faceva parte Valiano.
Quando, il 27 febbraio 1560, il figlio di Isabella, Andrea Gonzaga, Conte di Alessano, alla morte della madre, pagò il relevio ” per l’intrate feudali del Contato di Alessano” viene ancora citato il nostro casale. Allo stesso modo, se ne trova menzione nel relevio del 15 ottobre 1587 quando esso passò in eredità al principe di Molfetta Ferrante Gonzaga, figlio di Andrea12.
Un atto rogato dal notaio Antonio Minioti di Lecce ci conferma che il casale era ancora abitato nel maggio 156813. Al settembre 1580 risale una lettera indirizzata all’arcivescovo di Otranto in cui Valiano veniva conteggiato tra “q[ue]lli Castelli, dove si parla latino solam[en]te et li preti sono greci, et altri latini“14. Dai protocolli del notaio Antonio Romano di Montesardo, apprendiamo che era disabitato già nel 1583, infatti, in data 24 gennaio, l’ultimo sindaco di Valiano, Cataldo Teco, estingueva un debito contratto l’anno prima dall’Università di Valiano con quella di Montesardo15. Questa circostanza viene confermata da un documento accessorio al relevio di Ferrante Gonzaga del 1587, esso contiene l’interrogatorio di Antonio Roccio “de casali Valiani, et ad presens habitantis in casali predetto Salvae” circa i beni prodotti nel feudo di Valiano nell’anno indizionale 1586-1587: sebbene il casale risultasse abbandonato da diverso tempo (“…al presente detto casale sia abbandonato, atteso à molti anno non ce habita persona alcuna…) e i suoi abitanti si fossero trasferiti altrove (“…non abitano in detto casale ma in diversi lochi…“, “tutti gli altri cittadini d’esso vanno dispersi, et fugendo, et non anno loco stabile“), tredici di essi continuavano a pagare tasse per due ducati, tre tarì e un grana16.
Ancora nel 1589 veniva conteggiato tra i casali appartenenti alla contea di Alessano che Ettore Brayda comprò dai Gonzaga17, mentre quando, nel 1618, fu venduto a Giovanni Ferrante delli Falconi era considerato feudo, quindi disabitato18.
Le Relationes ad limina, redatte tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, continuano a fornirci informazioni: quella scritta dal vescovo di Alessano Ercole Lamia, datata al 29 maggio 1590, ci informa che nella sua diocesi esisteva un beneficio ecclesiastico, chiamato arcipretura di Valiano, sine cura, di dieci ducati di rendita annua; nelle successive relazioni, del 1613, 1618 e 1621, il presule Nicola Antonio Spinelli ci conferma l’esistenza di tale beneficio: “Vi sono anche, sparsi in località diverse, quattro benefici semplici, che dai casali dove anticamente si trovavano, ora però distrutti, conservano la denominazione di arcipreture: sono quelli di Voluso, di Pul[e]sano, di Macurano e di Valiano” e che “[…] due chiese rurali sine cura […] che sono assegnate a titolo di beneficio, cioè quella del casale di Valiano e del casale di Voluro anch’essi distrutti, le cui chiese non esistono più“19. Tuttavia possiamo presumere che nel 1661 la chiesa del Crocefisso di Valiano fosse ancora in piedi, è noto, infatti, che presso l’edificio religioso fu trovata una neonata abbandonata che fu portata a Montesardo “ratione territorij” e qui battezzata20. Da ciò si deduce che la località di Valiano, all’epoca, apparteneva alla Terra di Montesardo, circostanza che viene confermata dagli atti notarili della seconda metà del Seicento21.
Altre informazioni possono essere estrapolate dalla cartografia antica: una carta di fine XVI secolo, che contiene l’elenco dei centri abitati, con relativi fuochi, di Terra d’Otranto, ci informa che Valiano, all’epoca, aveva 126 fuochi (sic!)22. Il casale continua a essere menzionato, d’ora in poi sempre nella forma Vagliano, e localizzato con relativa precisione su molteplici cartine geografiche per tutto il Seicento e il Settecento23.
Toponomastica
Nelle le fonti sin qui citate il nome del casale risulta trascritto in differenti grafie:
XIV sec. – Baliano, Valiano
XV sec. – Baliano/Balliano, Vagnano, Valiano
XVI sec. – Valiano
XVII sec. Vagliano, Valiano.
La trascrizione più antica è quella di Baliano, rimasta in uso sino alla metà del Quattrocento. La variante Valiano è più tarda, ma si conserva pressoché inalterata nel dialetto locale (Valianu). Vagnano è un probabile errore di trascrizione mentre il più recente Vagliano (conservato sulla cartografia IGM) sembra essere la versione italianizzata del nome volgare. Il toponimo appare di chiara origine prediale e secondo il Susini potrebbe derivare dal nomen Vallius24.
Secondo una suggestiva ipotesi25, a questo toponimo sarebbe da ricollegare il nome del porto situato sulla vicina costa adriatica, infatti esso deriverebbe dalla contrazione dei termini novus e Vagliano, da cui, per contrazione, Novagliano (non attestato) e poi Novigliano (attestato nell’Ottocento26) ed infine l’attuale forma di Novaglie.
Evidenze archeologiche
Le prime ricerche archeologiche nell’area (fig. 2) risalgono agli anni ’60 del secolo scorso: è il professor Cosi ad informarci che, all’epoca, la chiesa matrice di Valiano, dedicata a S. Martino, era ridotta ad un cumulo di pietre nel quale praticò uno scavo portando alla luce della ceramica risalente “ai tempi di vita del paese”27. Sempre dallo stesso autore viene riportato che in un podere chiamato “Vigna la Croce” furono rinvenuti dei generici reperti funerari di cui non abbiamo nessuna ulteriore informazione, qui con tutta probabilità si trovava l’altra chiesa del casale28.
Un’altra ricognizione di superficie nella stessa zona è stata condotta circa venti anni addietro e ha portato al rinvenimento di diverso materiale ceramico: ceramica d’impasto di età messapica, ceramica invetriata di tipo RMR di XIII secolo, ceramica smaltata di XVI secolo e un folles in bronzo dell’Imperatore bizantino Romano I (919-944 d.C.)29.
Da Valiano provengono anche dei frammenti di ceramica d’impasto attribuibili a paioli; questa forma ceramica, che aveva probabilmente la funzione di braciere/scaldino, è abbastanza attestata in provincia di Lecce e si data tra la metà del X e la fine del XI secolo30.
Nuove ricerche sono state condotte di recente dallo scrivente allo scopo di estendere le indagini su di una zona più vasta. Le ricognizioni hanno permesso d’incrementare i dati a disposizione grazie all’individuazione di due altre aree con una grande concentrazione di frammenti fittili antichi. La prima è posta immediatamente a nord di “Vigna la Croce”, insiste in parte su un uliveto e in parte su di un vasto terreno incolto (circa 110 x 100 m)), nonostante le pessime condizioni di visibilità, è stato possibile riconoscere numerosi resti ceramici inquadrabili tra XIII e XVI secolo: diverse pareti acrome o dipinte a bande strette (decorazioni a fasce semplici dipinte in nero); alcuni fondi ed orli di ciotole in ceramica invetriata policroma (RMR); frammenti di ceramica invetriata monocroma verde; un frammento di piatto in ceramica invetriata; abbondanti resti di ceramica da cucina invetriata e non; frammenti in vetro.
Purtroppo i rovi e le sterpaglie che invadono la porzione nord-est del podere incolto non hanno permesso un’indagine più accurata ed estesa, tuttavia i resti portati in luce dimostrano che parte del villaggio medievale si estendeva in questa zona.
Spostandosi a 150m in direzione sud-est s’incontra la seconda concentrazione di frammenti ceramici, si tratta di un’ampia area, di circa 150 x 120 m, che ricade su vari terreni cinti da muretti a secco, che ha restituito diverso materiale archeologico: lacerti di laterizi, tegole e coppi d’impasto chiaro; pochissimi frammenti di ceramica a pasta grigia e dipinta di nero; numerose pareti di Late Roman Amphora dalla classica decorazione a pettine; orli e fondi di piatti e scodelle di ceramica sigillata africana e orientale; pareti e puntali pertinenti ad anfore da trasporto con impasto di colore rosso abbastanza depurato; ceramica di “tipo san Foca” di produzione orientale (Illyrian cooking ware); diversi frammenti di ceramica da cucina e di pareti appartenenti a grossi contenitori non meglio identificabili; molte pareti di pentole riferibili alle produzioni di “tipo Apigliano” (impasto rosso, pareti sia interne che esterne ricoperte da una patina grigia, presenza di scanalature orizzontali). Inoltre sono stati rinvenuti diversi resti metallici (una decina di scorie di fusione, un incavo di cucchiaio e un chiodino in bronzo, una moneta romana non identificata sempre in bronzo), due selci preistoriche (una lamella a dorso, probabile elemento di un falcetto, e un grattatoio), due orli di calici in vetro ed un frammento di osso inciso con motivi circolari.
Ad eccezione delle selci di epoca preistorica, la maggior parte del materiale recuperato ed identificato è databile tra II e VI secolo d.C. e ci porta a supporre l’esistenza di una piccola casa colonica o fattoria romana di età imperiale e tardoantica, tuttavia la presenza di ceramica di “tipo Apigliano” avvalora l’ipotesi che il sito sia stato frequentato sino alla prima età bizantina (VII e VIII secolo d.C.).
Nel settore nord-orientale, sul lembo estremo della serra, invece sorge una masseria del Seicento. Nel banco di roccia sottostante è stato scavato un grande ipogeo diviso in due ambienti più piccoli da un muro di pietre a secco; non è possibile determinare l’epoca della sua realizzazione ma fu certamente adibito a frantoio in età post-medievale. In tutta l’area circostante la masseria ci sono varie vasche scavate in antico nella roccia, quadrate o rettangolari, di diverse dimensioni.
Sintesi storica
Il sito di Valiano sorge sull’estrema propaggine sud-orientale delle Serre Salentine, su una piccola altura (circa 130 m s.l.m.), costituita da calcari compatti (Calcari di Altamura), che domina l’area circostante, in particolare verso nord, in direzione Corsano, e a ovest, verso San Dana, si estendono delle zone abbastanza pianeggianti, relativamente ampie e facilmente arabili, costituite da uno strato geologico fatto di calcareniti e calcari grossolani (Calcarenite di Gravina) caratterizzati da un suolo, abbastanza profondo e fertile che ben si presta alla coltura dei frumenti nudi e dell’orzo31.
La frequentazione umana, anche se sporadica, è attestata sin da epoca preistorica e protostorica, come ci documentano le selci e la ceramica messapica, e probabilmente fu favorita, oltre che dalla fertilità del suolo, da una sufficiente disponibilità di risorse idriche. Al volgere dell’era volgare la presenza dell’uomo nella zona diventò più assidua e stabile, infatti, in epoca romana imperiale, qui sorse una piccola fattoria e con ogni probabilità lo sfruttamento delle risorse ambientali si fece più sistematico ed intensivo.
All’inizio dell’Impero, questo territorio, facente parte dell’ager Veretinus (pertinente al municipium di Vereto), fu diviso in centuriae che vennero assegnate ai veterani dell’esercito per impiantarci la propria azienda agricola32. Questo tipo d’insediamento è abbondantemente documentato in tutta la penisola salentina, in particolare nella zona compresa tra i comuni di Alessano, Corsano, Gagliano e Tiggiano si contano diversi siti del genere, indice che in età repubblicana il territorio venne organizzato sistematicamente e che, tra II e VI secolo d.C., esso era caratterizzato da una fitta rete di piccoli insediamenti di carattere agricolo distanti tra loro meno di un paio di chilometri (Fig.3).
In genere, tutti i siti si trovavano sui terreni che garantivano i raccolti migliori, a volte su piccoli balzi di quota e in presenza di banchi di roccia affiorante. Si trattava di case/fattorie che punteggiavano, ad intervalli regolari, la piana posta tra la Serra dei Cianci e la costa adriatica, ben inserite nel sistema produttivo e commerciale del Mediterraneo romano (prova ne siano i numerosi frammenti ceramici riferibili ad anfore commerciali di svariato tipo).
La piccola villa rustica di Valiano si collocava perfettamente all’interno del sistema di organizzazione del territorio romano; oltre ai cereali, si può immaginare che qui si producessero anche olio e vino, e che vi si svolgesse una qualche attività artigianale legata alla lavorazione del metallo. L’insediamento era collegato con le aziende agricole vicine attraverso un antico asse viario (che partendo da Alessano e, passando per Corsano, giungeva qui, poi piegava a ovest verso San Dana, lambendo una statio romana, e infine si dirigeva a sud in direzione di Gagliano) e forse era in comunicazione con il vicino approdo di Novaglie che ne costituiva il porto.
Alla metà del VI secolo una serie di avvenimenti sconvolse l’organizzazione degli insediamenti umani in tutto il Salento, prima la guerra greco-gotica (535-554) e la peste del 541, poi la successiva invasione longobarda (568-571), con la conquista di quasi tutta la penisola italiana, sancirono la fine definitiva del mondo tardoantico con la distruzione del sistema economico che lo caratterizzava e la conseguente “disgregazione di quel tessuto insediativo che era espressione di specifiche modalità di sfruttamento del territorio“33. Questa cesura si riscontra anche nel territorio oggetto del nostro esame, dove i siti di età romana non restituiscono ceramica che va oltre il VI secolo. In questo contesto, Valiano, con la sua relativa abbondanza di resti di VII e VIII secolo, rappresenta un’eccezione. Probabilmente, anche in epoca bizantina, il piccolo abitato rurale continuò a svolgere la funzione di una modesta azienda agricola (chorion/grancia?) mentre la maggior parte delle villae del circondario erano state abbandonate.
La frequentazione di età bizantina, in questa fase, sembra insistere sulla stessa identica area occupata in epoca romana, mentre i reperti archeologici più tardi (la moneta di X secolo e i resti di paiolo) provengono dalla zona di “Vigna la Croce”, forse segno che l’abitato si era spostato progressivamente verso nord. Una riorganizzazione del centro potrebbe essere avvenuta subito dopo la cosiddetta “riconquista bizantina”, messa in opera dall’imperatore Basilio il Macedone (867-886), periodo in cui assistiamo ad una fase di grande sviluppo economico in cui si vengono a formare quei centri abitati che, più tardi, i documenti normanno-svevi ed angioini porteranno finalmente alla ribalta della storia34.
Con la conquista messa in opera dai cavalieri d’oltralpe guidati da Roberto il Guiscardo si determinò certamente un cambiamento politico radicale in tutta la Terra d’Otranto ma l’organizzazione territoriale, insediativa ed economica non subì grandi variazioni nel passaggio dalla dominazione bizantina a quella normanna35. Indiscutibilmente, però, sotto i nuovi dominatori, si diffuse in tutto il Salento, in aree di più o meno recente messa a coltura, un tipo di abitato rurale che ricopriva una funzione prettamente agricola: il casale. Si trattava sempre di “un piccolo villaggio rurale aperto, cioè non circondato da mura e non fortificato e può essere considerato l’insediamento più funzionale per uno sfruttamento intensivo delle terre. Non doveva essere molto diverso dal chorion bizantino, al quale lo si può accostare per struttura e funzioni, ma senza dimenticare comunque la diversa situazione storica e la profonda modificazione in senso feudale del regime delle terre e dei rapporti sociali, intervenuta con l’insediamento normanno“36.
Per quanto riguarda Valiano, anche se le evidenze archeologiche di XII secolo sono assenti, si può supporre una sostanziale continuità insediativa tra chorion bizantino e casale bassomedievale. Quest’ultimo, nel XIII secolo, si formò lungo la vecchia strada di età romana, probabilmente come un esiguo nucleo di capanne intorno ad un modesto edificio di culto, le sue caratteristiche rimasero prettamente agricole anche se non si possono escludere altre sue eventuali funzioni.
Come accade a tanti casali salentini, nonostante fosse un centro già attivo e, probabilmente, in fase di sviluppo, solo all’inizio del XIV secolo Valiano compare nelle fonti documentarie che ci restituiscono però poche informazioni. Al tempo, insieme ad altri micro-villaggi della zona, esso risultava infeudato alla famiglia dell’Antoglietta e due suoi abitanti erano vassalli del vescovo di Alessano. Dopo oltre un secolo di assenza, a metà Quattrocento il nostro casale ricompare nelle fonti: appartenente alla Contea di Lecce, e dunque inserito nei possessi dei del Balzo, Valiano era sottoposto alla giurisdizione del capitano di Gagliano; esso aveva il proprio organo di autogoverno (universitas) ed un sindaco; la famiglia dell’Antoglietta vantava ancora diritti sui suoi abitanti mentre ai Conniger erano stati assegnati alcuni terreni in suffeudo.
Dunque le fonti documentarie, suffragate dalle evidenze archeologiche, ci testimoniano che esso aveva superato indenne l’epocale crisi del Trecento e la peste bubbonica del 1348-51, eventi che avevano causato una pesante crisi demografica, con relativa riorganizzazione degli abitati umani, in gran parte del Salento e determinato la scomparsa di diversi casali della zona.
Valiano riuscì a sopravvivere anche alle trasformazioni di carattere agricolo ed economico che interessarono la Terra d’Otranto tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età Moderna. In una fase contrassegnata da nuovi abbandoni, il nostro casale invece sembra crescere costantemente: tre fuochi fiscali venivano conteggiati nel 1512, cinque nel 1527, sette nel 1539 e addirittura tredici nel 1586, dopo che la sua popolazione si era dispersa. Il suo feudo era ancora in possesso dei del Balzo e poi passò, insieme alla Contea di Alessano, ai Gonzaga; tuttavia la famiglia Conniger di Lecce, che possedeva altri feudi nel Capo di Leuca, continuava a vantare diritti su alcune vigne del casale situate in prossimità della costa adriatica (vigaio marino/vigne marine).
Il casale aveva due edifici di culto costruiti in pietra ed un clero sia latino e sia greco (però si parlava solo il latino); l’economia agricola si basava sui cereali ma una certa importanza rivestiva anche la coltivazione dell’ulivo e della vite. Nonostante che all’inizio del Cinquecento il Capo di Leuca abbia subito un radicale modifica del suo assetto agricolo ed insediativo, con il passaggio da uno sfruttamento intensivo ad uno di carattere più estensivo37, non pare che il casale di Valiano abbia risentito negativamente di questi cambiamenti, anzi, esso sembra pienamente inserito nella nuova organizzazione economica, infatti possiamo ricostruirne la vitalità e l’operosità per quasi tutto il XVI secolo, attraverso i numerosi passaggi di proprietà e la tassazione cui era sottoposto, fino alla sua misteriosa scomparsa avvenuta tra il 1580 e il 1582.
Nel corso del Basso Medioevo, il casale di Valiano aveva dimostrato un certo grado di resilienza, attraversando indenne diversi momenti di crisi demografica e di cambiamenti economici. Sicuramente esso aveva subito gli effetti di questi avvenimenti, che avevano causato la scomparsa di oltre il 40% dei centri abitati del territorio circostante (fig.4), ciò nonostante in pieno Cinquecento la sua popolazione era in fase di crescita e non vi è nessun elemento che faccia supporre che l’abitato fosse in crisi.
L’abbandono del sito, e la dispersione dei suoi abitanti nei paesi vicini, furono, quindi, dovute ad un singolo evento traumatico. Il professor Cosi segnala che tra gli anni 1561 e 1595, nel Capo di Leuca, solo 4 paesi su 25 mostrano un calo demografico: Gagliano, Arigliano, Patù e Morciano; perciò ipotizza che la distruzione di Valiano sia da porre in relazione ad una scorribanda saracena che coinvolse anche i succitati casali38.
Pur in mancanza di prove certe, pare plausibile attribuire la scomparsa del casale ad una scorreria turchesca, di cui non è rimasta nessuna documentazione, che avvenne negli anni successivi la battaglia di Lepanto (1571), l’epocale vittoria delle galere europee contro la flotta ottomana, che fu celebrata enormemente nel mondo cristiano ma che in realtà ebbe scarsi risultati dal punto di vista politico-militare, infatti essa non pose fine alle drammatiche incursioni dei corsari musulmani lungo le coste dell’Italia meridionale.
Dopo la distruzione del casale il territorio di Valiano non fu completamente abbandonato, poco più a nord, infatti, venne costruita una masseria con annesso frantoio ipogeo; è evidente che qui si continuò a sfruttare il potenziale agricolo delle campagne circostanti nell’ottica di una nuova organizzazione territoriale che puntava ad un miglioramento della resa agricola.
Come già accennato, tra la fine del Medioevo e la prima Età Moderna, tutta la Terra d’Otranto subì un mutamento economico e insediativo: nelle aree scarsamente abitate o soggette a spopolamento si crearono le prime masserie, sedi di lavoratori stagionali che risiedevano nei paesi fortificati delle vicinanze. Esse erano destinate, nella maggior parte dei casi, alla monocoltura dell’ulivo e alla produzione dell’olio, “l’oro liquido” salentino esportato sui mercati di tutto il Mediterraneo, che costituiva un investimento economico sicuro e remunerativo per l’aristocrazia locale.
Conclusioni e ringraziamenti
Per lungo tempo la piccola altura di Valiano è stata sede di un abitato umano che nel corso dei secoli ha dato ospitalità a diverse comunità di uomini che si sostentavano attraverso lo sfruttamento delle risorse ambientali che offriva il territorio circostante. Pur conservando una funzione prettamente agricola, la struttura dell’insediamento ha subito diverse modifiche a causa dei rivolgimenti politici e per adattamento alle trasformazioni economiche e sociali che hanno interessato la Terra d’Otranto nel lungo lasso di tempo che va tra la fine dell’Impero Romano ed il Rinascimento.
Oggi, al contrario, questa contrada appare abbandonata e in stato di degrado: terreni incolti in cui i rovi la fanno da padrone, uliveti devastati dalla xylella, muretti a secco ed edifici rurali in rovina, rifiuti sparsi ovunque. Un desolante quadro d’incuria che ci spinge a reclamare più attenzione per una località così ricca di storia e ad impegnarci a valorizzare le sue potenzialità.
Potenzialità storiche ed archeologiche che questo scritto ha inteso sottolineare, ma anche di carattere ambientale e paesaggistico che meritano un adeguato riconoscimento ed una pronta tutela. Secondo noi la contrada di Valiano costituisce una “risorsa culturale” di sicuro valore per tutto il Capo di Leuca (la cui “offerta culturale”, a nostro avviso, appare assai modesta), ha però bisogno di cura e di conservazione. Sperare nella sensibilità delle istituzioni comunali ci sembra utopia, crediamo, dunque, che sia diritto e dovere dei cittadini, delle associazioni private e delle comunità locali occuparsi in prima persona di questi luoghi.
In quest’ottica appare meritoria l’opera di restauro degli edifici e ripristino dei terreni della masseria Vagliano portata avanti da Claudio Riso e Valentina Cancelli, che ringrazio per avermi fatto visitare la loro proprietà con l’annesso ipogeo. Devo anche ringraziare Mauro Ciardo per le preziose informazioni che mi ha fornito, sul campo e sui testi. Infine una menzione speciale va ad Antonio Ippazio Piscopello, senza il suo incoraggiamento, la disponibilità e l’aiuto nella ricerca bibliografica questo lavoro non sarebbe stato possibile.
Note
*L’articolo originale (Valiano: dalle origini alla scomparsa di un casale del Capo di Leuca) è stato pubblicato sulla rivista Controcanto, anno XVIII, n° 3, 2022. I contenuti sono stati parzialmente rivisti, corretti ed aggiornati in base alle recenti scoperte.
1 S. Ammirato, Storia della famiglia dell’Antoglietta, Firenze (ristampa), 1846, pp. 24-26 e 40. Da altra fonte, i Notamenta del De Lellis, troviamo conferma che nel 1303 ad Enrico fu concessa “pars casalium Pulsanelli, Iuvanelli, Mansanelli, Baliani, Barbarani, Sanctae Danae, Doriliani, Pulsani, in Idronti“, possesso confermato nel 1304 per i casali di “Ariliani, Baliani, Sancti Donati (S. Dana), Pulsanelli et Marsanelli” (in M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase (Le), 2004, p. 18).
2 A. Ferraro, Castrignano del Capo e i suoi documenti, Castrignano del Capo (Le), 2004, p. 117.
3 ASNa, Sommaria, Diversi, n°170, cc. 208v e 209v.
4 A. Ferraro 2004, op.cit., pp. 7-8.
5 ASNa, Sommaria, Partium, vol. 39, a. 1494 foll. 6-7, et appendice p. 545, in R. Fino, Il Capo di Leuca e dintorni tra realtà, storia e leggende, Galatina (Le), 2004, p. 10.
6 I beni feudali includevano: la terra di Specchia, Montesardo cum forensibus suis lo casale di Santo Dana, Baliano, Maturiano (Macurano), parte delli casali di Sagliano (Salignano), Castrignano, Patu, Juliano, Rugiano, Triano (Arigliano), Tutino, Craparica, Neviano, Melesano, et Rufiano de provintia terre Idrunti (ASNa, Museo, 103A. stip. 4/4, Repertorio di Terra d’Otranto, cc. 153-157v; in A. Ferraro, Salignanoe i suoi documenti, Lucugnano (Le), 2001, p. 84)
7 ASNa, Pergamene di Castelcapuano, vol.VI, p. 126v, in M. Ciardo, op. cit., 2004, p. 3.
8 M. Ciardo, op. cit., 2004, p. 3.
9 M. Ciardo, ibidem, 2004, p. 4.
10 M. Ciardo, ibidem, 2004, p. 4.
11 A. Ferraro, op. cit, 2001, pp. 107-108.
12 M. Ciardo, op. cit., 2004, pp. 4-5.
13 G. Cosi, Frammenti di storia salentina tra ‘500 e ‘700, Alessano (Le), 2001, pp. 25-27.
14 M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Il Cinquecento, Tricase (Le), 2005, pp. 72-73. Nella stessa condizione si trovavano Alessano, Montesardo, Patù, Ruggiano e Gagliano. A Castrignano invece si parlava greco e latino.
15 G. Cosi, op. cit., 2001, pp. 25-27.
16 A. Caloro, F. De Paola, Alessano tra storia e storiografia. Tomo II. Le fonti documentarie, Trepuzzi (Le), 2013, pp. 87-88.
17 R. Fino, op.cit., p. 222.
18I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di F. Ruppi, Lecce, 2010, p. 278.
19 A. Caloro, F. De Paola, op. cit., pp.250-281. Le relazioni del 1618 e del 1621 sono quasi identiche a quella del 1613
20 G. Cosi, op, cit., 2001, p.26, dai registri parrocchiali di Montesardo.
21 A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce, 1994, pp. 72 e 89.
22 G. Cosi, op, cit., 2001, p.27.
23 C. Daquino, Casali scomparsi nel Capo di Leuca, in Lu Lampiune, Anno XV – n.3, 1999, pp.126-127.
24 G. Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Bologna 1962, p. 206.
25 Ipotesi suggerita dall’amico Mauro Ciardo.
26 G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, 1885, p.22.
27 G. Cosi, op. cit., 2001, p. 26. I resti dell’edificio, ancora parzialmente visibili, si trovano a circa 200m a sud-ovest della masseria, consistono in conci di calcare tenero legati da bolo rosso. Nell’angolo posto a nord-ovest fino a pochi anni fa si potevano vedere due fosse granarie (purtroppo oggi ricoperte dai rifiuti e dalla solita inciviltà che caratterizza le nostre contrade).
28 Il toponimo potrebbe derivare dalla Chiesa del Crocefisso. Il podere si trova 30m a ovest rispetto alla chiesa matrice. Anche qui si notano i miseri resti dell’antico edificio di culto. Secondo Rocco Fino (vedi: Il Capo di Leuca e dintorni tra realtà, storia e leggende, Galatina (Le), 2004, pp. 195-199.) negli anni ’80 del secolo scorso, il podere era denominato Ortu masciu (orto grande), al suo interno c’erano due cisterne (oggi solo una di esse è ancora visibile) mentre molte altre, secondo la testimonianza di un contadino locale, erano state interrate nel passato.
29 M. Ciardo, op. cit., 2004, p. 2.
30 P. Arthur, M. Leo Imperiale, M. Tinelli, Apigliano un villaggio bizantino e medioevale in Terra d’Otranto. I reperti, Galatina (Le), 2015, pp. 43-45 fig. 26.
31 G. Muci, Analisi quantitative per l’interpretazione delle dinamiche socioeconomiche in atto tra Medioevo ed Età Moderna nel basso Salento, in Atti del VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, vol.1, Lecce, 2015, pp. 67-70. Nella fig. 2 è riportata la carta del Salento diviso un rapporto all’attitudine dei suoli alla coltivazione del frumento; Valiano si trova nel pieno della zona S1: “terreni idonei alla classe colturale, che in condizioni ottimale garantiscono il massimo del raccolto“.
32 La centuratio del territorio salentino avvenne in due fasi distinte: una probabilmente in età graccana e una durante il regno di Vespasiano, il quale assegnò diverse terre ai veterani. Tracce della centuriazione romana sono ancora visibili in territorio di Alessano (vedi: D. Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di Alessano (I.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno academico 2005-2006, pp. 32-34).
33 P. Arthur, M. Leo Imperiale, G. Muci, Il Salento rurale nell’Alto Medioevo: territorio, insediamenti e cultura materiale, in Dinamiche insediative nelle campagne dell’Italia tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, Oxford, 2018, pp. 143-144.
34 P. Arthur, Verso un modellamento del paesaggio rurale dopo il mille nella Puglia meridionale, in Archeologia Medievale vol. XXXVII, 2010, pp. 218-219.
35 P. Arthur, ibidem, p. 218-221.
36 C. D. Poso, Il Salento normanno. Territorio, istituzioni, società, Galatina (Le), 1988, pp. 194-195. Lo stesso autore aggiunge che: “Dall’esame toponomastico e dai dati forniti dalla nostra documentazione appare subito evidente che un certo numero di nuovi insediamenti si formarono nel sito o in prossimità di antichi agglomerati rurali tardo-romani (villae) dei quali era rimasto il ricordo, come evidenzia l’abbondante toponomastica prediale romana ancora viva in età normanna; altri invece si svilupparono in corrispondenza di un centro religioso o di un luogo di culto (chiesa, cappella, monastero) che ha funzionato da polo di attrazione territoriale, come si desume dalla consistente diffusione di agiotoponimi accompagnati dalla determinazione geografica; altri infine appaiono in qualche modo legati alla vicinanza di grandi vie di comunicazione e devono al maggiore o minore uso di esse la loro nascita, il loro sviluppo, il loro abbandono e la loro rinascita. Dobbiamo tuttavia osservare che nel processo di creazione di nuovi villaggi non sempre queste tre tipologie di insediamento sono nettamente distinte tra di loro, anzi non è raro ritrovarle combinate insieme.” (C. D. Poso, op.cit., pp. 195-196). La prima e la terza tipologia insediativa appaiono combinate insieme, come ci attestano chiaramente i dati archeologici, nel sito di Valiano.
37 Una più ampia analisi delle dinamiche insediative che hanno caratterizzato il Salento nell’ultima parte del Medioevo si trova in: P. Arthur, op. cit., 2010, pp. 215-228; G. Muci, op. cit., 2015, pp. 65-70; P. Arthur, B. Bruno, G. Fiorentino, M. Leo Imperiale, G. Muci, M. R. Pasimeni, I. Petrosillo, M. Primavera, Crisi o resilienza nel Salento del Quattordicesimo secolo? in Archeologia Medievale, vol.XLIII, Firenze, 2016, pp. 41-55.
38 G. Cosi, Arigliano. Ricordi di un paese, Gagliano del Capo (Le), 2010, p. 26; per il confronto dei dati sulla demografia del Capo di Leuca M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 90).
Usciamo da Mesagne per la via che porta alla stazione ferroviaria di San Vito dei Normanni, la provinciale “44”; non dobbiamo fare molta strada per arrivare alla masseria “Acquaro”, oggi ridenominata “Castello”, a motivo della profonda ristrutturazione attuata sul finire degli anni ’20 del Novecento.
Fu il comandante della Regia Marina Aslan Granafei – discendente dell’antica e nobile schiatta dei marchesi di Serranova, intestataria di vasti possedimenti in Terra d’Otranto – a dare una svolta imprenditoriale alla tenuta (seguendo in questo le orme del padre, Giuseppe), la cui storia ha radici ben piantate sin da quando un suo avo, Giacomo Antonio, acquistò l’organismo masseriale nel lontano 1571.
Non vogliamo addentrarci nelle specifiche vicende che portarono alla radicale conversione degli assetti agro-fondiari; né tanto meno intendiamo soffermarci sulla ridefinizione degli immobili in residenza castellata. Rimettiamo alla pubblicistica storica il compito di sviscerarne i dettagli, come quelli delle funzionali strutture per la trasformazione dei prodotti agricoli (nuove stalle, oleificio, locali per la lavorazione della foglia del tabacco, cantina vinicola e pozzi artesiani e altro ancora).
Per il fine circoscritto della nostra escursione, è sufficiente sapere che siamo di fronte a un riuscito esito di processo di miglioramento e di innovazione di terre e fabbricati,
conseguenza di pianificate azioni di bonifica. Possenti lavori hanno nel tempo portato al rifiorimento colturale dell’estesa proprietà, che oggi continua (con altro nome) a essere all’altezza del suo passato.
“Acquaro”, comunque, sollecita ulteriori riflessioni, che lasciamo agli storici del territorio dipanare: come il toponimo di per sé parlante (rinvia al guazzatoio per l’abbeveramento degli animali). D’altronde, gli studi ci dicono che nella contrada – avanti il sorgere della masseria, nei periodi del grande caldo, quando la siccità disseccava le erbe – il bestiame, specie il bovino (più esigente dell’ovino), dalle aree contermini veniva condotto a pasturare. Grazie al richiamo della refrigerante presenza della grande cisterna, solitaria nel campo – tra il folto della macchia – ivi confluivano gli armenti.
Abbiamo così assolto al dovere della contestualizzazione del luogo. Possiamo dunque procedere oltre: alla visita della cappella, dotata di una sontuosa aula liturgica, in linea con l’importanza del casato committente.
Anche per l’oratorio conviene rifarsi alle carte d’archivio che ce lo descrivono con dovizia di particolari. Ubicato a Levante, fuori del corpo della masseria, ben adorno di stucco, con le due porte e i tre altari, ora, come forse meglio di prima, qualifica oltremodo il sito. Le are sono dedicate alla Vergine Santissima posta sotto il titolo di Costantinopoli (la centrale), a san Giuseppe suo casto sposo e al Crocifisso (le laterali).
La chiesa è stata restaurata in modo esemplare: già dal prospetto è evidente. Il verde curato la incastona tra le siepi e lo spicchio di cielo che ne esalta la figura: solida nella facciata, elegante nell’interno. Nulla è qui fuori posto: tra la navata e il coro è tutto uno splendore, di pavimento maiolicato e di pareti immacolate. Il bianco con cornici di decoro in giallo spicca e traluce. Vengono in tal modo a risaltare le targhe marmoree (sopra acquasantiera) che ricordano i lavori di riattamento voluti dai devoti proprietari: nel 1959 per iniziativa della duchessa di Bagnoli José Sanfelice Granafei; nel 1991 per volontà della subentrante famiglia Rosato.
Ogni elemento, ogni arredo liturgico (dalla carta gloria: “Initium Sancti Evangelii secundum Joannem” alla lampada votiva della mensa eucaristica), è messo in debita luce; ma più ancora si distingue, nell’angolo dell’entrata, il tavolino di metallo e marmo che accoglie la squilla (non più riparabile) del campanile, staccatasi a causa di un forte temporale abbattutosi nell’inverno del 2018. La si è voluta conservare per far memoria, per renderle giustizia. Essendo vecchia di 329 anni se lo merita: “Commissionata dalla famiglia Granafei nell’anno 1695 con i suoi rintocchi ha richiamato a sé nella Chiesetta di S. Maria di Costantinopoli i fedeli”. Per così tanto tempo che non si può far finta di niente.
Non si finisce di restare stupiti per la cura che si riversa nell’aula delicata: rose rosse e tappeto fine e sedie imbottite. E che dire poi della tela dell’abside? Una meraviglia del 1790, che vede la titolare, la Madre di Dio con il Bambino, trionfare in un mare di nubi inghirlandato da un tripudio di angioletti. Ai piedi della Madonna la città turrita è in preda alle fiamme, con il Turco che soccombe. C’è una vela in ormeggio: porterà in salvo gli assediati.
Conosceva bene l’iconografia costantinopolitana il bravo pittore a cui si affidarono i Granafei, signori di alto lignaggio e amanti delle Belle Arti.
Lo studioso Carlo Villani in «Scrittori e Artisti Pugliesi»1, a proposito del Novolese Ferruccio Guerrieri, dice testualmente: «Felice quel paese che può contare uomini simiglianti a Ferruccio Guerrieri, uomini cioè di maschio ingegno, di valore indiscusso, noncuranti dell’io, ma entusiasti ed orgogliosi del patrio lido e dei propri conterranei». Indubbiamente queste poche righe ci fanno capire che la storia del nostro paese è ricca di uomini che hanno dato un enorme contributo alla cultura non solo locale ma anche nazionale (l’affermazione del Villani ne è appunto testimonianza esemplare).
Di alcuni si hanno già esaurienti notizie, ma di altri si conosce poco o nulla e di altri ancora non se ne sospetta neppure l’esistenza. È il caso ad esempio di Eugenio Guerrieri, illustre astronomo che ha dedicato cinquant’anni della sua vita alla scienza presso l’Osservatorio astronomico di Capodimonte di Napoli, e che merita perciò al pari di altri e forse più, una citazione particolare nella storia della cultura novolese. Il Villani non ne parla nella sua opera; egli traccia infatti le biografie di Guerrieri Ferruccio e Giovanni Guerrieri2, due dei fratelli di Eugenio, e dà pochissime informazioni di «Francesco Guerrero» che altro non è quel Francesco Guerrieri3 nostro concittadino amico del Tasso e che il Villani invece dà come nato a Lecce.
L’astronomo novolese non è citato nemmeno dal Ramondini in Novoli di Lecce4 e da M. De Marco in Storia di Novoli5 Queste brevi note su Eugenio Guerrieri6, nascono perciò dopo aver consultato un’Orazione Funebre recitata in sua memoria la sera del 18 Gennaio 1957 dopo i suoi funerali, dal Prof. Sac. Emanuele Ricciato sul sacrato della Chiesa Matrice di Novoli7. Dalle poche pagine non numerate che la compongono si apprende che egli nacque a Novoli il 24-7-1874 e morì a Napoli il 15-1-1957. Nacque da una delle più antiche famiglie di Novoli8 e precisamente dal Dott. Alessandro Guerrieri (chimico-farmacista) e da Lucilla Ruggio; fu il terzo di una fratellanza illustre composta – oltre che da lui – dal Prof. Giovanni, dal Prof. Ferruccio, dall’Avv. Luigi ed ebbe anche due sorelle: Aurora e Dolores. La loro casa era l’antica palazzina esistente ancora sulla piazza del Comune di Novoli, accanto alla Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo.
Si legge nell’Orazione: «Io li riveggo tutti, come li vedevo quando ero fanciullo, sorridenti, pieni di vita, ricchi di speranze, o affacciati al balcone della loro casa, o avanzarsi insieme verso un avvenire ricco di promesse, intorno al padre ed alla madre che si sentivano al colmo della felicità, perché coronati da figlioli così bravi, studiosi, belli, sorridenti di giovinezza, Giovanni il professore di Storia Patria nei Licei d’Italia, uno dei più forti cultori delle patrie memorie tenuto in gran conto in Italia ed all’estero per le sue pubblicazioni storiche riguardanti particolarmente la storia del nostro Salento; Ferruccio, anch’egli storico e letterato insigne, professore di Lettere Italiane e poi Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce, scrittore, maestro ed educatore impareggiabile, e che fu anche mio caro insegnante negli anni del Ginnasio; l’Avv. Luigi Giureconsulto insigne, onore e vanto del foro leccese; … ultimo superstite di questa famiglia rimaneva ancora Eugenio, il 3° della bella fratellanza, l’amico degli amici, l’esule volontario che, dedicatosi agli studi scientifici, era rimasto a Napoli».
Qui infatti Eugenio Guerrieri vinse per concorso la cattedra delle matematiche pure nei Licei e negli Istituti Tecnici e qui ottenne anche per concorso il posto di 1° Astronomo nell’osservatorio di Capodimonte dove (dice Emanuele Ricciato) «passava le giornate e le notti intere, chiuso nell’ufficio della torre, a contemplare le vie del firmamento, a vedere e studiare come l’antico Galilei il rotearsi dei mondi sotto l’etereo padiglione e il sole irradiargli immoto». Egli intatti studiava e notava gli astri brillanti sul meridiano di Napoli. Dalla moglie Olga ebbe i figli: Bianca, Lucilla, Marcello, Bruno.
Nel 1947, per raggiunti limiti di età, si ritirò dal lavoro attivo dell’osservatorio in un villino che si era acquistato nella ridente spiaggia di Bagnoli di Napoli dove morì il 15-1-1957. Numerosi sono i suoi studi sull’Astronomia. Il sac. Emanuele Ricciato nella sua orazione cita «i lavori eseguiti col grande Cerchio Meridiano dell’Osservatorio, adoperato da lui in modo veramente magistrale, i Due Cataloghi stellari che rappresentano delle vere colonne nella produzione scientifica dell’osservatorio e precisamente il Catalogo di 166 stelle a forte moto proprio ed il Catalogo di 750 stelle zenitali per Capodimonte9. Altri contributi riguardano la fotometria del Pianeta Eros del 1931».
Il Guerrieri s’interessò anche di Metereologia effettuando studi sul clima di Napoli e quello molto ampio relativo ai risultati dal 1926 al 1950.
Per avere comunque una maggiore stima dell’operato di Eugenio Guerrieri, basta tenere presente che presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce sono conservati e catalogati ben 69 studi astronomici pubblicati su diverse riviste scientifiche in diversi anni e precisamente a partire dal 1904 al 1951 (qui di seguito ne riportiamo – per ragioni di spazio – solo i titoli di stampa).
Eugenio Guerrieri fu dunque, come afferma Emanuele Ricciato «un concittadino che onorò col suo alto ingegno, con i suoi forti studi, con le sue pubblicazioni ponderose nel campo delle scienze astronomiche e matematiche come nel campo letterario, la nostra cittadina e la grande madre Italia, continuando ed innalzando ai più alti fastigi le tradizioni gloriose della sua antica e nobile famiglia, gareggiando nel sapere e nello splendore delle più nobili e sante virtù di cittadino, di cristiano, di professionista, di scrittore coi suoi nobili e grandi e indimenticabili fratelli».
ELENCO DELLE OPERE DI EUGENIO GUERRIERI CUSTODITE PRESSO LA BIBLIOTECA PROVINCIALE BERNARDINI DI LECCE
1) A proposito di due straordinarie meteore luminose, Napoli 1929.
2) Costante del fotometro a cuneo del R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli 1914.
3) Sulla variazione di luce della NAVOIDERS. 3 dall’agosto al novembre 1933, Pavia 1934.
4) La cometa di BROOKS, Napoli 1913.
5) Posizione del pianeta (354) Eleonora durante l’opposizione del 1912, Napoli 1913.
6) Eccezionali configurazioni planetarie ed il TRIGONO DEL FUOCO negli anni 1940-41, Napoli 1941.
7) NOVA (18.1912) GEMINORUM 2 posizione media al 1912, Napoli 1913.
8) Riassunto delle osservazioni metereologiche fatte nella R. Specola di Capodimonte nell’anno 1903, Napoli 1904.
9) Riassunto delle osservazioni metereologiche fatte nella R. Specola di Capodimonte nell’anno 1904, Napoli 1905.
10) Sulla relazione tra l’escursione diurna della declinazione magnetica a Capodimonte e la frequenza delle macchie solari, Napoli 1905.
11) Curva di luce di MIRACETI durante gli anni 1912-13, Napoli 1913.
12) A proposito di una lettera di A. Von Humboldt ad A. De Gasp., Napoli 1933.
13) Eclisse solare parziale del 28 Marzo 1922. Influenza sulla declinazione magnetica a Capodimonte, Napoli 1922.
14) La persistente ondata di freddo a Napoli nell’inverno 1937-38, Napoli 1938.
15) I salti di vento a Capodimonte nel decennio 1905-1914, Napoli 1932.
16) Eclisse totale di sole del 29 Giugno 1927 parzialmente visibile a Napoli
17) Il nucleo cometario della PONS-WINNECKE e la parallasse solare, Napoli 1932.
18) Osservazioni eseguite nelle eclissi di luna totale del 14 Agosto 1924, parziale dell’8 febbraio 1925, Napoli 1925.
19) La sala meridiana del ROCHSOLD di Capodimonte e la temperatura del suo interno durante le osservazioni astronomiche, Napoli 1932.
20) Determinazione della differenza di longitudine Napoli-Greenwich con la Radiotelegrafia, Napoli 1924.
21) Tavole per il calcolo degli archi semidiurni, di 10 in 10 di declinazione, per la latitudine di Capodimonte (40.51.46, Napoli 1930).
22) La grande aurora boreale del 25-26 Gennaio 1938 – XVI Connessione tra aurore polari, macchie solari e perturbazioni elettro-magnetiche, Napoli 1938.
23) Sull’obbiettivo del cerchio meridiano di Repsold del R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte (s.n.t.).
24) Sul diametro e sullo schiacciamento polare di Marte, Napoli 1914.
25) Eclisse totale di Luna osservata a Napoli, Pavia 1909.
26) BARNABA-ORIANI e la fondazione della specola di Capodimonte dalla corrispondenza ORIANI-PIAZZI
27) Sulla connessione tra elettricità atmosferica (temporali e grandine) e statistica delle macchie solari (1866-1928), Napoli 1932.
28) L’anormalità delle due ultime estati del 1930 e del 1931, Napoli 1932.
29) I santi di ghiaccio a Capodimonte, Napoli 1930
30) Pregiudizi metereologici. Le pioggie del 4 aprile, del 2 e dell’8 Giugno, Napoli 1930.
31) Il freddo straordinario dell’inverno 1928-1929, Napoli 1930.
32) Intensi e prolungati calori estivi dell’anno 1928, Napoli 1929.
33) Andamento della declinazione magnetica a Capodimonte durante l’eclisse solare del 29 Giugno 1927, Napoli 1927.
34) Perturbazione del magnete di declinazione di Capodimonte durante l’eclisse solare del 24 Gennaio 1925, Roma (senza data).
35) Due illustri scienziati pugliesi contemporanei, Napoli 1942.
36) Climatologia dell’Antartide, Napoli 1940.
37) Il PLANETARIUM ZEISS o TEATRO DEGLI ASTRI, Napoli 1928.
38) Cometa di METCAFF (1910 C.), Pavia 1911.
39) Passaggio del pianeta Mercurio sul disco solare osservato nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte il 14 Novembre 1907, Napoli 1911.
40) STELLA NOVA LACERTAE 137.1910 di ESPIN, osservata a Napoli; posizione media al 1911, Napoli 1911.
41) Lo stato attuale dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte ed il lavoro internazionale della variazione della latitudine, Napoli 1936.
42) Eclisse totale di Luna osservata a Napoli il 7-8 NOVEMBRE 1938 – XVII, Napoli 1939.
43) Eclisse totale di luna del 26 settembre 1931 Osservata nel R. Osservatorio di Capodimonte (s.n.t,).
44) Cometa di FAYE (1910), Pavia 1911.
45) Il nuovo pianeta INTERAMMIA (1910 KU), Pavia 1911.
46) La grande cometa (19l0 a), Pavia 1910.
47) Cometa di Kiess (1911 C), 1912 (senza luogo di stampa).
48) Saggio di determinazione della estinzione atmosferica per Capodimonte, Napoli 1913.
49) Posizione della cometa 1905 – VI (1906 a) di BROOKS e della cometa 1907 di DANIELL, Pavia 1908.
50) Contatti di emersione di Mercurio dal disco solare nel passaggio del 7 Maggio 1924 parzialmente visibile a Napoli, Napoli 1924.
51) Il pianeta PALLADE (2) osservato al cerchio meridiano di RENCHENBACH durante l’opposizione dell’anno 1906.
52) Eclisse di Luna totale dell’8 Gennaio 1936 osservata nel R. Osservatorio di Capodimonte, Napoli 1936.
53) Eclisse di Luna del 14 Settembre 1932 osservata a Capodimonte, Pavia 1938.
54) Sulla relazione tra l’escursione diurna della declinazione magnetica a Capodimonte e la frequenza delle macchie solari, 1905 (senza luogo di stampa).
55) Statistica delle macchie solari isolate ed in gruppi osservate durante l’anno 1908 nel Reale Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Torino 1909.
56) Francesco DENZA, Napoli 1935.
57) Posizioni meridiane del pianeta Marte durante l’opposizione dell’anno 1909 ottenute nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Napoli 1910.
58) Su alcune anomalie del clima di Napoli durante gli anni 1904-1905, Torino 1908.
59) Catalogo di 166 stelle a forte moto proprio da osservazioni meridiane al cerchio di REPSOLD (Recensione di GABBAL su quest’opera del Guerrieri in «Memorie della società astronomica Italiana» – Vol. XIII-I).
60) Recentissimo bolide rimarchevole osservato a Capodimonte il 3 Ottobre 1934 – XII da E. Guerrieri, Napoli 1934.
61) Anomalie climatologiche osservate a Napoli tra il 1948 ed il 1950, Napoli 1951.
62) Rovesci e massima intensità di pioggia oraria, diurna, mensile, stagionale, caduta a Capodimonte nei periodi (1888-1933) (1866-1933), Roma 1935.
63) Memorie del R. Osservatorio di Capodimonte di Napoli. Fotometria del pianeta EROS (433) dal gennaio all’aprile 1931, Napoli 1932.
64) Osservazioni del passaggio di Mercurio sul disco solare del 7 Novembre 1914 nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte (s.n.t.).
65) Sulla curva di luce e sulla variazione dei periodi Y CYGNI, Catania 1914.
66) Sulla variazione di luce della Nova (18, 1912) GEMINORUM 2, Catania 1913.
67) Periodicità nell’andamento progressivo della pioggia a Capodimonte 1833-1931, Roma 1932.
68) L’estate ultra-precoce ed altre peculiari caratteristiche della temperatura dell’aria a Napoli nell’anno 1920, Torino 1921.
69) Stella NOVA HERCULIS (1934), Napoli 1937.
In “Spazio C.R.S.E.C.”, n. 1, Tip. Rizzo, Novoli giugno 1984, pp. 29-38 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 337-343, Novoli 2024.
Note
1 C. Villani, Scrittori e Artisti Pugliesi moderni e contemporanei, V. Vecchi Tipografo Editore, Trani 1904, pp. 462-65.
2 Ferruccio Francesco Guerrieri nato a Novoli il 3-11-1872, morto il 19-12-1934, storico e letterato, è autore di numerosi e importanti studi quali: L’Abbate Severino Boccia, Grammatico e lessicografo pugliese del XVII sec. (Cerignola Scienza e Dialetto, 1899); Possedimenti temporali e spirituali dei Benedettini di Cava nelle Puglie. Notizie storiche ricavate da documenti della Badia Cavense (Secolo XI-XVII) Parte I: Terra D’Otranto (Contributo alla storia del Monachismo in Terra d’Otranto, Vecchi, Trani 1900 (Vedi: P. Sorrenti, Repertorio Bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Arti Grafiche Savarese, Bari 1976, p. 301; Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, I volume, Pajano Editore, Galatina 1957, p. 229).
Giovanni Guerrieri è autore di numerosi studi in materia di storia patria. Citiamo tra questi: Il Conte Normanno R. Siniscalco e i monasteri cavesi in Terra d’Otranto (Napoli 1895); Gualtieri di Brienne, Duca d’Atene e Conte di Lecce, Contributo alla storia del feudalesimo in Terra d’Otranto (studio con documenti inediti del grande archivio di Napoli (Pietro e Verardi, Napoli 1896); I conti Normanni di Lecce nel secolo XII (Pietro e Verardi, Napoli 1900); La Terra d’Otranto nel 1734 (Vecchi, Trani 1901); Le relazioni tra Venezia e Terra d’Otranto fino al 1530 (Contributo alla storia delle coste dell’Adriatico) (Vecchi, Trani 1903); Un diploma di Goffredo I, Conte di Lecce (Lecce 1896); La fondazione e le vicende del Monte di Lecce (Vecchi, Trani 1900); Gli Ebrei a Brindisi e a Lecce 1409-1497. Contributo alla storia dell’usura nell’Italia Meridionale (Torino 1900); Lecce nel 1700 (Lecce 1901); I Cavalieri Templari nel Regno di Sicilia (Vecchi, Trani 1909). (Vedi P. Sorrenti, op. cit., p. 301, C. Villani e Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, opere citate, rispettivamente p. 164 e p. 229).
3 Francesco Guerrieri, vissuto alla fine del ’500 – inizi del ’600, è senza dubbio uno dei più illustri e complessi personaggi della cultura novolese. Amico di Torquato Tasso e di tanti famosi intellettuali del tempo, nonché pupillo di S. Bernardino Realino capo dei Gesuiti che vennero a Lecce nel 1574 e a cui egli stesso si unì con grande entusiasmo. A Novoli i Gesuiti fondarono infatti due Confraternite Religiose intitolate l’una al nome SS.mo di Gesù nella chiesa di S. Antonio e l’altra all’Immacolata (Cfr. Ricordi di Storia Novolese, dalle Memorie di Romeo Franchini, Il Pozzo del Signore, in “Bollettino parrocchiale La Voce del Pastore”, Anno XX Ottobre-Novembre 1977, pp. 4-5 e soprattutto G. Barella, La Compagnia dei Gesuiti nelle Puglie, Tip. Editrice Salentina, Lecce 1914, p. 78, testo da cui Romeo Franchini trasse le notizie riportate sul bollettino). Egli inoltre fu grande amico di Alessandro Mattei (1584-1634), Signore di Novoli, umanista e mecenate coltissimo a cui va indubbiamente il merito di aver dato inizio a Novoli a un’incessante fiorire di studi e ricerche in ogni campo. Dopo la sua morte e quella del Guerrieri infatti, ci saranno – per citarne alcuni – i vari Benedetto Mazzotta, Nicola Mazzotta, Scipione Carignano, Pasquale Francioso e tanti altri (Cfr. E. Aar, Gli studi storici in Terra d’Otranto, Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., Firenze 1888, pp. 14-16; Asterischi di Storia Novolese dalle Memorie di Romeo Franchini, in “Bollettino Parrocchiale La Voce del Pastore”, Anno XVIII Marzo-Aprile 1975, pp. 7-8 e G. Spagnolo, Enzo Maria Ramondini, in “Sant’Antoni e L’Artieri”, Numero Unico Anno VII, 17 Gennaio 83, p. 83).
4Novoli di Lecce, a cura del Gruppo di Studi Alessandro Mattei coordinato e diretto da Enzo Maria Ramondini, supplemento al n. 351 del notiziario quotidiano dell’Agenzia di Stampa «ESSE 3», Tip. Rizzo Antonio, Novoli 1977.
5 M. De Marco, Storia di Novoli, Edizioni Dimensione 80, Roma.
6 Di Eugenio Guerrieri, in Repertorio Bibliografico degli scrittori contemporanei opera già citata, si legge: «Astronomo nato a Novoli nel 1874, morto intorno al 1950. Opere: Riassunto delle Osservazioni Metereologiche fatte nella R. Specola di Capodimonte nell’anno 1903; Sulla relazione tra l’escursione diurna della declinazione magnetica a Capodimonte e la frequenza delle macchie solari». Poche note le si leggono anche in Nuovo Annuario di Terra d’Otranto op. citata p. 229, «Nato a Novoli nel sec. XIX. Fisico, matematico, astronomo. Insegnante a Napoli e Direttore dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte. Le sue oservazioni climatiche, astronomiche, geofisiche, pubblicate su riviste scentifiche di alto livello culturale hanno dato un notevole contributo allo studio di dette scienze».
7 L’orazione è custodita presso l’Università agli studi di Lecce. Fa parte di una miscellanea contrassegnata dalla sigla MISC. I L. 5/23 recante all’interno anche la fotografia dell’estinto a firma di un fotografo di Maglie non identificato.
8 E. Ramondini, Antiche famiglie di Novoli, in “Paise Miu”, N. 2 Dicembre 1977, a cura del Gruppo Teatrale Novolese La Focara, Tip. Rizzo, Novoli, pp. 6-8.
9 Il catalogo di 166 stelle a forte moto proprio da osservazioni meridiane al Cerchio di Respold, G. Genovese, Napoli 1940-87 (atti della reale accademia delle scienze fisiche e matematiche V. I ser. 3 n. 5 figura nel «LIBRARY OF CONGRESS AND NATIONAL UNION CATALOG AUTHOR LISTS» 1982-1962, p. 121 – A master cumulation 59 – GS – HAE – compiled by the editorial staff of the gale research company book Tower – Detroit – Michigan 48226 – 1969.
Il documento autografo pubblicato tra le illustrazioni, è la testimonianza di una amichevole corrispondenza di Eugenio Guerrieri con un altro illustre nostro concittadino e cioè Francesco Parlangeli. Nato a Novoli il 12 Agosto 1863 e morto a Novoli (a 53 anni) il 14 Novembre 1916, fu valentissimo ingegnere (lo divenne a soli 23 anni), professionista valoroso e colto, consigliere provinciale di Terra d’Otranto dopo la morte di Gaetano Brunetti a cui era legato da profonda amicizia, largamente stimato e apprezzato non solo da tutti i suoi concittadini ma da quanti lo conoscevano in provincia. Le sue opere sono disseminate ovunque; egli infatti fu l’ingegnere di fiducia non solo del nostro Municipio ma di numerosi altri comuni. Novoli comunque lo ricorda in particolare per la realizzazione del tronco ferroviario Lecce-Francavilla con diramazione Novoli-Nardò e la cui inaugurazione avvenne il 26 Maggio 1906 (Cfr. F. Sebaste, La ferrovia giunge a Novoli, in “Sant’Antoni e L’Artieri”, numero unico edito a cura dell’associazione Artigiani di Novoli, Anno IV, 17 Gennaio 1980, p. 3). Il documento porta la data «Napoli 4 Febbraio 1901». In esso si legge testualmente: «Carissimo Ciccio, la declinazione magnetica a Napoli e di 9°9° 5’ occidentale, secondo i risultati e gli ultimi calcoli fatti, e con una variazione annua di 5-6. Disponi sempre di me, essendo molto contento di sbrigarti qualunque cosa ti potesse occorrere. Ricevi intanto tanti affettuosi saluti insieme con tutti i tuoi dal tuo aff.mo Eugenio».
Ringrazio l’amico Mario Rossi che mi ha gentilmente fornito il suddetto documento.
Un contratto agrario del 1889: 28 contadini di Novoli sottoscrivono di fronte al notaio Tommaso Russo un patto per campare la vita
di Michele Mainardi
Rovistando tra gli atti notarili è emerso un documento di concessione a titolo di fitto di una porzione della vasta possessione del nobiluomo Filippo De Raho denominata “Calizzi”. L’istrumento è del 6 gennaio 1889. Di fronte al notaio Tommaso Russo di Novoli, rogante nel suo studio sito nella strada detta del Pendino, si costituirono il proprietario della tenuta e 28 contadini, tutti domiciliati nel comune di sant’Antonio abate. Dall’esame della scrittura emerge uno spaccato interessante del processo di trasformazione fondiaria della campagna al tempo degli investimenti per la messa a profitto di terre spente, stante l’incolto pascolativo. dominante. Di pari passo vien fuori la tipologia dei patti agrari allora in essere, la cui bilancia pendeva dalla parte padronale.
L’esempio sul quale vogliamo intrattenerci pone in luce le dinamiche proprietarie dell’innovazione in agricoltura, messe in pratica da avveduti imprenditori salentini negli ultimi decenni dell’Ottocento: un periodo che vide scommettere diversi esponenti di agiate famiglie aristocratiche sulla carta promettente della viticoltura.
I nostrani e corposi vini da taglio erano assai richiesti dal mercato dell’Alta Italia. Cominciava a irrobustirsi il flusso delle esportazioni. Partivano dalle stazioni ferroviarie (e da Novoli in particolare) vagonate di negroamaro e malvasia nera dirette a Milano e nel Triveneto. Prima che l’attacco della fillossera facesse i suoi danni, conveniva eccome metter soldi sugli impianti di vigneti.
Il barone De Raho capì presto che bisognava darsi da fare per appieno valorizzare la sua proprietà, distendentesi proprio sul confine del feudo di Lecce con quello di Novoli per ben 107 ettari, 74 are e 79 centiare. La misura ce la dà la legenda della planimetria dell’ingegnere Enrico De Cataldis, che non manca di riportare il dato espresso nella metrologia ante Regno d’Italia: 171 tomola locali e stoppelli.
Nell’arco temporale di un quindicennio, l’agrario portò a compimento il frazionamento dei terreni della masseria “Calizzi”: tra il 1885 e il 1899.
Venendo al nostro atto notarile emerge chiaramente l’intento di voler approfondire la piantagione già dispiegatasi nelle ritagliate quote “Calcara”, “Serra” e “Canale”. Nella zona detta “Vigneto del Pozzo” (confinante con la via Laparo) si assegnarono agli affittuari le rispettive porzioni da dissodare e mettere a frutto. Al folto drappello di coloni miglioratari, costituitisi per accettare la proposta contrattuale, venne spiegato punto per punto l’insieme delle clausole cui ci si doveva rigidamente attenere, pena l’annullamento immediato del patto avente valore legale. La durata dell’affitto era tale da legare al proprietario i contadini per un lungo periodo di tempo: 21 anni di filata, che sarebbero cominciati a decorrere dal 1° settembre 1889 per terminare il 31 ottobre 1910.
La superficie spezzettata in 16 quote uguali di ettari 1, are 25 e centiare 98 (equivalenti a due tomola della vecchia misura) era delimitata, in un primo lato, dalla strada pubblica che dal Convento mena a Trepuzzi e, in un secondo, dal vigneto del signor Federico De Nucci; per i restanti segmenti confinava coi terreni sativi della stessa masseria “Calizzi” e col vigneto dato a mezzadria a foresi di Arnesano e Monteroni.
Stabilita la divisione, i fittaioli (alcuni accettanti in coppia) dovettero tenere bene in mente i termini di quanto sottoscrissero (con croce o con malferma firma). L’annuo estaglio venne stabilito in ragione di lire 25 e centesimi 50 a tomola per il primo quadriennio della fittanza; aumentava a lire 34 per i successivi 17 anni. La moneta del pagamento non poteva essere di bronzo.
Per quanto riguardava le modalità operative del lavoro, il De Raho impose precise disposizioni: la piantagione delle viti andava fatta a regola d’arte, e cioè rispettando la distanza di non meno di 1 metro e 32 centimetri (pari a 5 palmi) tra un trancio e l’altro, e con filari affiancati a rettifilo.
A ogni affittuario veniva richiesta la diligenza propria del buon padre di famiglia: non si dovevano seminare cereali nella vigna; solo per gli iniziali quattro anni erano permesse le piante leguminose (escluse i ceci). L’orzo “a pizzico” lo si poteva coltivare per il secondo e il terzo anno, facendo attenzione a che le viti non ne soffrissero. A partire dalla quinta stagione sino alla sedicesima, fra un ceppo e l’altro, veniva consentito lo spargere dei semi di fave o di piselli (ma senza esagerare).
Se la pota delle viti non fosse stata praticata come dovuto, il proprietario la faceva regolarizzare da persona perita di sua fiducia: a spese dei coloni.
Fu stabilito che il portamento delle piante non doveva essere diverso dalle “due sole braccie, e senza potersi lasciare a nessuna di esse la catena, o pure la così detta spinola, ed altro che sia di troppa fatica alle viti, e ciò per i primi sette anni”.
Ad avvio dei lavori di impianto occorreva che i fittuari raccogliessero le pietre del campo per poi trasportarle sullo stradone di mezzo della tenuta. Gli alzati muretti a secco di confine li avrebbero dovuti preservare.
Ai conduttori dei fondi venne espressamente proibito di far entrare nella vigna animali di qualunque natura: il pascolo era ovviamente aborrito.
Al fine di associare alla vite l’olivo (senza creare ostacolo alla produzione primaria) si impose ai coloni di impiantare – mettendo a loro conto, nelle rispettive quote – 34 mazzarelle per tomolo. Ogni fossa preparatoria per la messa a dimora della pianticella bisognava che fosse esaminata dal De Raho: egli ne controllava la giusta profondità e la relativa distanza intercorrente tra ognuna di esse, Non erano ammessi errori di sorta nello scavo.
Arrivato per l’olivo il tempo della rimonda, questa “dovrà farsi a cura e spese di essi coloni fittajoli, a piena ed intera soddisfazione del proprietario”.
Ai contraenti del patto agrario correva l’obbligo di dare – a titolo di prestazione – annualmente al concedente cinque chilogrammi di uva di buona qualità per ogni tomolo lavorato, portando la cesta nella casa del padrone, a Lecce.
Andava avanti con stringenti clausole la scrittura notarile, senza nulla tralasciare in merito alle varie ed eventuali. Venne concessa la dilazione di un anno per l’incasso dell’estaglio in caso di sofferenza per la perdita del frutto causa grandine.
Allo scadere dei 21 anni di vigenza contrattuale i viticoltori avrebbero dovuto non mancare ai propri doveri: consegnare la vigna in ordine. Nessuna mancanza di viti era tollerata. Filippo De Raho si sarebbe ripreso tutte le quote date in fitto ai 28 foresi di Novoli, “senza che potessero eccepire dritto di sorta per indennizzo delle migliorie fatte”.
Ci fu qualcuno che, spaventato per i pesanti oneri a carico, si tirò indietro al momento della sottoscrizione dell’atto. Si allontanarono dal tavolo del notaio Francesco De Pascalis fu Pietro e Marino De Lorenzo fu Giuseppe. In loro vece sùbito si presentò il contadino Domenico Parlangeli fu Francesco. Pare che stesse aspettando, in fondo alla sala: chissà, un compaesano avrebbe potuto far marcia indietro… A lui di certo non spaventava l’impresa vignaiola alla tenuta “Calizzi”, che presto diventò un modello di azienda vitivinicola dotata di innovativi mezzi meccanici mossi a vapore, prodotti dalla premiata Società Anonima del cavalier Giuseppe Garolla di Limena (Padova), un geniale inventore: una garanzia in fatto di macchinari per la lavorazione dell’uva e il trattamento del vino.
20 agosto
Furono archibugiati il 20 agosto 1647 alle odierne ore 15 (anticamente ore 19) in località “Ranfa”, in un canneto dietro la chiesa dei Paolotti, ove oggi vi è Via Umberto Maddalena. Dopo archibugiati gli furono tagliate le teste. “…detti preti non mancarono, da che uscirono dal Castello, dove stavano carcerati, in sino all’ ora della morte salmeggiare e dire diverse divozioni, dandosi animo uno con l’ altro, e dicendo di continuo Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, nec statuas illis hoc peccatum, tra li quali D. Francesco Maria Gaballone, non cessò mai di dire Conceptio Tua Dei Genitrix Virgo gaudium annuntiavit Universo Mundo, ed essendo quasi morti si sentivano flebilmente dire delle parole. Questo fatto fu ad ora circa nove… Nell’ istessa notte fu ammazzato il barone Pietro Antonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo di anni novantasette; morto che fu l’ appesero per piedi alle furche in mezzo alla piazza e le teste delli preti le misero sopra il Seggio e gli corpi distesi a terra nella Piazza, attorno allle furche…”
(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto I”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce. I fatti sono tratti da un manoscritto di G.B. Biscozzi che, secondo quanto sostiene il De Simone, si conserva in casa degli eredi del Not. Francesco Bona).
“…circa le ore 20 de’ venti agosto fece appiccare ad un palo per piede sotto dell’ orologio il detto Baroncello Sambiasi, e circa le ore 23 del detto giorno fece archibugiare nella strada detta Ranfa l’ abbate Donantonio Roccamora, l’ abbate Giancarlo Colucci, l’ abbate Gianfilippo de Nuccio, don Francesco Maria e chierico Giandomenico Gaballone, alli cadaveri de’ quali erano rimasti insepolti, fu data sepoltura a ventidue del detto mese. Assisteva all’ infelici da Confalone l’ abbate Benedetto Trono; il quale quando vidde che stava per essere archibugiato l’ ultimo de’ suddetti preti, che fu l’ abbate Roccamora, alzò le voci al cielo, e piangenndo disse: Signore lava da questa terra tanto sangue innocente e sacro, e ciò dicendo, stando il cielo sereno, subito cominciò a piovere, e piovve solamente per detta sola strada di Ranfa. Avuta la notizia il Conte della morte de’ detti preti, e del Baroncello, e fatto certo del miracolo occorso con detta pioggia, fece arrestare l’ abbate
Benedetto Trono, e col medesimo fu carcerato D. Filippo de Nuccio, che d’ ordine del Conte fu legato nudo ad un palo dentro il giardino del detto Casino, esposto alli cocentissimi raggi del sole, unto di mele alle morsicature delle mosche e vespe, e da un soldato gli venivano tirati ad uno ad uno i peli della barba che portava lunga, per essere un Prete di Santa Vita, e perciò detto volgarmente il Prete peloso. All’ abbate Benedetto Trono vari e molti furono li tormenti che li si dettero sotto de’ quali a 28 agosto se ne morì.
L’ anzidetto abbate Gian Filippo de Nuccio che fu archibuggiato era fratello cugino al mentovato D. Filippo che morì esposto al sole, e questo era stato lo scrittore del detto memoriale.
L’ abbate Trono non aveva altro delitto che d’essersi concertato e scritto in casa sua lo detto memoriale. Corsero la medesima fortuna due fratelli Sacerdoti di famiglia Pomponio per aver pigliato le difese dell’ abate Trono. Il solo bombardiere fiammingo fuggì la morte, giacchè nel suo esame disse che con arte avea fatto fallire il colpo, e ne fece le pruove; poichè posto nel medesimo luogo ove stava il Conte quando il tirò la bombarda ad un uomo di paglia con in capo la berretta del Conte, il fiammingo tirò dove avea tirato la prima, e gli fe’ volare da testa la barretta; indi li tirò nel petto, li riuscì felicemente e tirata la terza volta, con la prevenzione, che dovea colpirlo in fronte, li riuscì con molta ammirazione de’ circostanti. Allora il Conte li donò la vita, lo regalò, e lo tenne sempre presso di sè, e lo casò in Nardò…”
(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto II”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce).
Il signore in foto è l’avv. Domenico De Donatis (1868-1937), sindaco di Casarano dal 1909 al 1913, poi Commissario Prefettizio e Podestà nel biennio 1933-1934.
Egli a poco tempo dall’insediamento si fece promotore di un’iniziativa nel campo scolastico che ebbe una vasta eco a livello nazionale.
All’inizio del secolo XX, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, la questione scolastica aveva assunto toni molto drammatici. La scolarizzazione per le classi meno abbienti era ancora affidata ai Comuni, mentre per i pochi che se lo potevano permettere, si ricorreva a insegnanti privati, a convitti o a enti religiosi.
Per tutto ciò vi era un altissimo tasso di analfabetismo:
Nel 1911 42,80% per i maschi, 50,50% per le femmine, totale 46,65%
Chi era per l’avocazione faceva leva, soprattutto, sulla incapacità dei Comuni di gestire l’amministrazione scolastica e di non avere le risorse necessarie per costruire edifici scolastici, per pagare gli insegnanti e garantire agli alunni un livello di istruzione adeguato ai tempi, ma anche sulla convinzione che si sarebbe raggiunta una laicizzazione dell’istruzione.
Ovviamente l’impulso per la sensibilizzazione a mettere in atto un progetto di riforma dell’arretrata condizione della scuola, benché se ne parlasse già da qualche anno, non poteva che venire dal meridione, che già pagava dazio per quel gap socio-economico che esisteva nei confronti del settentrione, anch’esso comunque sofferente, pur se in misura minore.
Il terreno era quasi fertile affinché maturasse quel movimento di opinione per invertire la rotta, tant’è che, nel gennaio del 1910, un illuminato proprietario meridionale, Domenico De Donatis, sindaco di Casarano, inviò al presidente del Consiglio dei Ministri, Sidney Sonnino (liberale e meridionalista), una petizione in cui invocava l’immediata e totale avocazione della scuola elementare allo Stato, perché convinto che sotto l’aspetto formativo le cose sarebbero andate meglio, mentre, dal lato finanziario, sarebbe cessato l’enorme peso degli oneri collegati all’istruzione (mise in evidenza che il Comune di Casarano, con un bilancio di lire 90.000, comprese le partite di giro, sopportava l’esosa spesa di lire 23.000 soltanto per le scuole).
La stessa lettera fu inviata a tutti i sindaci del meridione che, in gran parte, la fecero propria e si attivarono con propri atti deliberativi, ormai esausti per gli oneri sostenuti.
Successivamente, aderirono all’iniziativa anche alcuni sindaci del settentrione.
La pietra nello stagno era stata lanciata!
Il 4 giugno dell’anno successivo, sotto il governo Giolitti, fu emanata la legge n. 487/1911, detta Daneo-Credaro, provvedimento cardine in materia di politica scolastica che riordinò le competenze didattiche e formulò anche un piano di sviluppo per l’edilizia scolastica.
L’amministrazione delle scuole elementari e popolari di tutti i comuni, con esclusione dei capoluoghi di Provincia e di Circondario, passò alle dirette dipendenze del Consiglio Scolastico Provinciale.
Tuttavia, per i primi, era possibile un’amministrazione autonoma solo quando lo avessero richiesto e fossero stati in grado di documentare di aver applicato con profitto le norme regolamentari da oltre cinque anni e di non avere un tasso di analfabetismo superiore al 25%; i secondi potevano rinunciare all’amministrazione diretta e autonoma che la legge consentiva loro, ma dovevano fare esplicita richiesta di passaggio a quella demandata al Consiglio Scolastico Provinciale. (GU n.142 del 17-06-1911)
Gradualmente si procedette all’attuazione della predetta legge e, per la nostra provincia, fu emanato il Regio Decreto del 29 marzo 1914, n. 956, col quale l’amministrazione delle scuole elementari e popolari di 98 Comuni della provincia di Lecce (all’epoca erano compresi diversi comuni delle attuali provincie di Taranto e Brindisi) fu affidata al Consiglio scolastico medesimo.
Col passare degli anni tutti i comuni italiani passarono definitivamente all’amministrazione statale, per le predette competenze. (GU n.222 del 16-09-1914)
L’articolo 1 del citato Regio Decreto recitava:
“L’amministrazione delle scuole elementari e popolari dei comuni della provincia di Lecce, indicati nello elenco annesso al presente decreto e firmato, d’ordine Nostro, dai ministri della pubblica istruzione e del tesoro, è affidata al Consiglio scolastico della stessa Provincia a tutti gli effetti della legge 4 giugno 1911, n. 487; e dei regolamenti pubblicati per l’applicazione della stessa legge, a cominciare dal 1° ottobre 1914.”
Dopo 10 anni dalla riforma qualcosa migliorò per quanto riguardava il tasso di analfabetismo:
Nel 1921 33,40% per i maschi, 38,30% per le femmine, totale 35,85%
E altri miglioramenti si ottennero sotto l’aspetto finanziario dei Comuni che ebbero maggiore respiro nel districarsi nel difficilissimo compito di far quadrare i conti
Escludendo il caso di roccia (calcarenite) affiorante, che si rinviene all’esterno dell’area del centro urbano, la muratura in fondazione veniva realizzata all’interno di scavi eseguiti a mano, di larghezza pari allo spessore del muro da realizzare, nel terreno di riporto o vegetale, , estesi fino alla profondità del piano di sedime generalmente costituito da argilla sabbiosa con trovanti calcarei (lu critazzu o lu grugnu). Fino alla profondità di circa m. 1,50, lo scavo veniva eseguito con l’uso del piccone con cui veniva smosso il terreno compatto a strati successivi dello spessore di circa 15 o 20 cm.. Il materiale smosso veniva successivamente paleggiato oltre il bordo dello scavo ad una distanza inversamente proporzionale alla profondità della trincea. La portanza dello strato che costituiva il piano di sedime era verificata dall’esperienza personale e dalle conoscenze accumulate nello scavo di innumerevoli pozzi sia all’interno che all’esterno ed in prossimità della cinta muraria.
In campagna, un utile riferimento era costituito dai piccoli fabbricati rurali esistenti per lo più di un solo vano che con le loro lesioni, spesso contrastate da catene metalliche, dimostravano l’esiguo spessore dello strato di argilla sabbiosa utilizzato come piano di sedime delle fondamenta e l’influenza negativa della sottostante argilla sottoposta alle alterne traversie di aumento o diminuzione del volume al variare delle condizioni igrometriche ambientali. In quelle località si diceva che “la terra camina” e perciò era sconsigliabile realizzare qualunque costruzione.
La muratura in fondazione
Nella esecuzione della muratura in fondazione generalmente venivano impiegati i conci più difettosi e non solo esteticamente, anche se ciò era evidentemente in contrasto con le più elementari regole di stabilità.
I muri in fondazione erano sempre muri doppi.
Preliminarmente veniva messo in opera il filare di conci di un singolo paramento che venivano allineati con l’uso della corda (fiorenzuola). Ogni due o tre conci disposti in fila (di verga) si dipartivano ortogonalmente gli elementi di legatura trasversale (di punta) di lunghezza pari allo spessore del muro o delle teste, estese, queste ultime, , solo fino al limite interno del secondo paramento, quando il muro aveva uno spessore ben maggiore dei due paramenti accostati.
Successivamente veniva quindi realizzato il secondo paramento, generalmente addossando i conci al limite dello scavo già praticato anche se di larghezza alquanto superiore al previsto, per evitare il rinfianco con materiale smosso, raramente costipato e quindi soggetto a futuri assestamenti
Il nucleo centrale fra i due paramenti veniva riempito con materiale vario, battuto fortemente col martello da muratore e spianato superiormente con malta povera di calce o con murtieri già descritto, previa abbondante bagnatura.
A volte, nella formazione geologica che costituiva il piano di sedime della fondazione, si incontravano delle sacche di terreno vegetale che non poteva essere utilizzato come base portante; in questo caso, per evitare la prosecuzione dello scavo fino a quote indefinite, frequentemente si ricorreva alla costruzione di archi a sesto molto ribassato (valestre), che avevano la proprietà di scaricare orizzontalmente una componente del carico verticale ed erano impostati sui bordi del terreno resistente per conseguire la continuità della struttura fondale. Durante la realizzazione delle murature in fondazione, specialmente quando il piano di sedime era a profondità maggiore di due metri dal p.c., si avvertiva, da parte degli addetti ai lavori, una sorta di anelito generale, in parte determinato dalla situazione di pericolo di seppellimento, nell’affrettarsi alla costruzione dei corsi successivi fino al raggiungimento della quota che permettesse, stando in piedi, di avere la testa al disopra del piano campagna e di poter respirare liberamente, sollevando dalla preoccupazione anche i compagni che effettuavano le prestazioni di servizio fuori terra.
La muratura in elevato
Questa era certamente l’operazione più importante e rappresentativa del perfetto equilibrio raggiunto sia con l’ambiente esterno che all’interno dell’organizzazione produttiva caratterizzata da una marcata sinergia tra tutti gli addetti che concorrevano, ciascuno con la propria opera, alla realizzazione di quei manufatti che oggi lasciano incantato l’osservatore.
La buona qualità di una muratura era caratterizzata oltre che dalla perfetta piombatura e dalla planarità della superficie esterna, dalla linearità e sottigliezza dei comenti che denotavano sia l’accuratezza della squadratura dei conci che la perfezione della posa in opera.
L’occhio esercitato e competente del maestro non mancava di rilevare l’andamento planimetrico ondeggiante del corso di muratura, che andava corretto non solo per motivi estetici ma soprattutto perché l’approssimativa planarità, che si evidenziava per l’andamento e spessore dei comenti, comportava concentrazioni di tensioni sui conci non perfettamente orizzontali.
Come avveniva presso le falegnamerie, nella lavorazione del legno, che veniva esposto quotidianamente all’esterno della bottega per lunghi mesi, per realizzare una stagionatura naturale nelle condizioni ambientali che si sarebbero riprodotte nel tempo sul materiale lavorato per realizzare arredi o infissi, analogamente, nelle costruzioni in muratura, vi era una generale tendenza al rispetto dei normali cicli stagionali, senza forzare i tempi, evitando quella frenetica frettolosità imposta poi dai cicli di produzione di tipo industriale. In tal modo si dava il tempo necessario alle malte di solidificarsi lentamente, in condizioni termo-igrometriche favorevoli, che ricorrevano specialmente nei mesi invernali (chi mura d’inverno mura in eterno).
In tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, la carenza più eclatante, se si eccettua la mancanza assoluta di dispositivi di protezione individuale, era quella dei ponteggi di servizio. La disponibilità di legni era limitata a pochi tavoloni della lunghezza di m. 4,00 e dello spessore di cm. 5 e di alcuni murali della sezione di cm. 8×8 o 10×10, che, accoppiati fungevano da ponti di servizio per la costruzione dei muri semplici. Per i muri doppi non si usavano ponteggi. Spesso, per lavorazioni particolari eseguite su murature al disopra dell’altezza di m. 4,00 (p. es. posa in opera di cornicioni o mensole di balconi), si predisponevano nella muratura dei fori passanti (sbintati) di sezione quadrata (10×10) nei quali venivano infilati dei murali della lunghezza di m. 1,50, ottenendo delle mensole dello sbalzo di circa un metro su cui si appoggiavano i ponti di servizio che venivano, successivamente, facilmente rimossi.
I muri semplici
venivano realizzati impiegando i conci (dello spessore di cm. 20) squadrati a perpedagno. Per ogni corso (linea) si mettevano in opera per primi i due conci di angolo (cantoni), con l’uso del filo a piombo.
La piombatura del “cantone” consisteva nel verificare preliminarmente, con l’uso del filo a piombo, la verticalità di quel concio, sia nella faccia che nella testa, facendone ruotare, sul letto di malta fresca, a colpi di martello opportunamente dosati, i corrispondenti assi orizzontali e successivamente la complanarità con il corso sottostante, spostandolo solo orizzontalmente.
Ai due “cantoni” veniva assicurata, con un chiodo per ciascuno, infisso sullo spigolo orizzontale superiore e inclinato di 45°, la corda che regolava l’allineamento dei conci successivi. Da notare che la costruzione avveniva disponendo all’esterno, rispetto all’operatore, la faccia migliore dei conci. La risarcitura dei giunti con la malta (‘nzippatura) veniva effettuata, per la faccia esterna contestualmente alla posa in opera dei conci, mentre per quella interna si provvedeva successivamente, a volte, solo prima dell’intonaco. Ne consegue un’utile osservazione: per i muri edificati sul limite di due proprietà, è proprio la faccia esterna sopradescritta che ne individua il confine, salvo il caso di accordi particolari tra vicini.
I muri doppi
cioè muri a doppio paramento, (muraglie – muragghe) si realizzavano con le stesse modalità relativamente al paramento esterno. però, in questo, ogni due o tre conci disposti “di verga” cioè longitudinalmente, veniva inserito un concio trasversale “di punta” che poteva essere esteso a tutto lo spessore del muro (tuttuno) o fino al filo interno del paramento interno (testa). Analogamente gli angoli delle murature doppie potevano essere “incatenati” a due teste oppure ad una testa (sècuta sùrici) cioè ciascuno dei due paramenti rimaneva slegato dall’altro in corrispondenza dell’angolo e ciò principalmente per risparmiare l’impiego di un secondo cantone che era la pietra angolare e che doveva essere lavorato a squadro anche sulla testa e che, nel caso di muratura di notevole spessore doveva avere una lunghezza adeguata per consentire lo sfalsamento dei giunti.
I conci dei paramenti venivano detti “curesce”, cioè cinte, che non erano squadrati sulla faccia posteriore. Il nucleo centrale della muraglia, se superava lo spessore di cm. 20, veniva riempito con una terza fila di conci che non venivano lavorati su nessuna faccia ma solo sugli assetti (cacciati a tagghia) ed a volte neanche su questi perché di altezza insufficiente, inferiore all’altezza dei conci del corso (asci a tagghia).
In un contesto sociale fortemente secolarizzato, qual è il nostro tempo, il 15 agosto rimanda inevitabilmente a gite fuori porta, bagni al mare e picnic su spiagge, insomma ad un giorno completamente dedito allo svago e al relax.
In tempi passati – almeno fino alla metà del Novecento – prima ancora che il turismo di massa prendesse piede nel nostro Salento, il giorno ferragostano era legato alla ricorrenza liturgico-mariana dell’Assunta.
La vigilia e il giorno della festività erano scanditi da pratiche devozionali molto sentite e partecipate, tra queste la recita delle “centu cruci e delle centu Avemarie”, una sorta di lungo Rosario inframmezzato da una prece dialettale che recitava così:
Penza, anima mia, ca hai murire.
Penza, anima mia, ca hai trapassare,
alla valle te Giosafatta imu scire,
lu ‘nimicu ne vene a tentare.
Vabbanne nimicu!
Vabbanne te l’addha via,
can u n’hai spartire nenzi
cu l’anima mia
ca centu cruci mi fici a nvita mia
lu giurnu te la Vergine Maria.
Si nota, sùbito, nei versi il chiaro riferimento alla morte e alla salvezza dell’anima. È molto probabile che tale devozione sia mutuata da un antico rito liturgico di origine ortodossa in cui prevaleva il concetto di “dormizione della Vergine Maria” anziché di assunzione in cielo di Maria, tipica della Chiesa occidentale. In sostanza, mentre la Chiesa occidentale metteva in risalto la “risurrezione” di Maria, quella orientale considerava un fatto naturale e degno di venerazione anche la “morte” della Madonna.
Altro motivo potrebbe rientrare in una caratteristica della Chiesa ortodossa e cioè quella di ripetere frequentemente il segno della Croce, sia durante le liturgie, che davanti le icone sacre. Si spiega, così, il rito delle “centu cruci”, praticate nel giorno dell’Assunta.
Tale consuetudine era molto diffusa nel territorio dell’antica diocesi di Nardo che, guarda caso, ha la chiesa Cattedrale intitolata alla Vergine Assunta.
Anche Casarano non si sottraeva a questo rito e la sera del 14 agosto la popolazione si ritrovava sul sagrato della chiesa della Madonna della Campana, in collina, dopo aver pellegrinato a piedi dal centro del paese fin su l’altura.
Il rito si concludeva con la recita del Rosario delle 100 Ave Maria, alternate ad altrettanti segni di croce, quasi ad esorcizzare e combattere il Maligno. Venivano, così, soddisfatti due requisiti peculiari di quel giorno: il pellegrinaggio, tipico delle ricorrenze legate all’espiazione e la preghiera comunitaria.
Dopo decenni di oblìo, la locale parrocchia di San Domenico ha recuperato questa antica tradizione, facendola propria e proponendola all’attenzione dell’intera comunità.
a cura di Rocco Severino De Micheli e Fabio Cavallo
Ci siamo voluti cimentare da neofiti nella ricostruzione storica di ciò che concerne quell’elemento che è il simbolo per eccellenza di ogni comunità cittadina: lo stemma civico.
L’attuale stemma civico di Casarano, con fregi e motto[1] è stato richiesto e concesso alla Città, con decreto del Presidente della Repubblica, soltanto in data 4.2.1993 e registrato all’Ufficio Araldico Nazionale il 18.5.1993.
Non siamo riusciti, malgrado ogni nostro sforzo, a comprenderne con assoluta certezza l’origine e a individuarne l’ideatore nonché il motivo della scelta degli unici elementi che compongono il simbolo principale: l’albero e il serpente; d’altronde, il fatto che illustri studiosi non abbiano mai affrontato la questione la dice lunga sulle difficoltà dell’indagine.
Siamo certi, però, che debba trattarsi di un’allegoria legata alla religione ebraico-cristiana: “L’albero della conoscenza” di veterotestamentaria memoria; infatti, le due seguenti ipotesi che abbiamo formulato, partono dal predetto simbolo, presente nei due edifici sacri: la chiesa Madre (1712) e la chiesa della Madonna della Campana (1642), probabilmente mutuato dalla blasonatura appartenuta a un ecclesiastico, oppure ad un’associazione religiosa o addirittura a un nobile che abbia avuto a che fare con la nostra comunità.
PRIMA IPOTESI: Chiesa Madre “Maria SS. Annunziata”
Siamo partiti da due stemmi che si trovano in chiesa Madre: il primo, facente parte del coro ligneo (foto 1) la cui manifattura è attribuita all’intagliatore tedesco Giorgio Aver (1740 ca.), posto in testa allo stallo centrale e riservato alla prima dignità della Collegiata[2]; il secondo, meno antico, (foto 2) allocato in controfacciata, sull’apice della cornice della grande tela del Tiso (la fornace di Babilonia, 1763), nel quale, sia pur irrilevante, spicca la diversa disposizione del serpente attorno al tronco.
Abbiamo supposto, in questa prima ipotesi, che la scelta iconografica dello stemma, probabilmente avvenuta nel periodo che va dal 1700 (inizio della costruzione della nuova matrice) al 1763 ca. (realizzazione del quadro ad opera del Tiso), sia riconducibile all’unico personaggio – tra quelli che hanno gravitato intorno alla nostra comunità in questo intervallo temporale e che potrebbe aver avuto un ruolo preponderante – cioè don Daniele Calò (1626-1705), arciprete nella vecchia matrice dal 1679 al 1705. Infatti, il ramo tarantino-gallipolino della famiglia Calò, di origine greca, ha adottato uno stemma simile al nostro (foto 3 e 4). A titolo informativo, la scelta del pino e del serpente attorcigliato, elementi biblici molto usati in araldica, è avvenuta per altre realtà come il Comune di Frattaminore (Napoli) (foto 5) e alcuni nobili casati (foto 6, 7 e 8) .
SECONDA IPOTESI: Chiesa “Madonna della Campana”
In questo caso siamo partiti da un simbolo che trovasi nella chiesetta della “Madonna della Campana”; abbiamo preferito chiamarlo “simbolo” e non “stemma” poiché mancante dalla corona.
Premettiamo che il feudo baronale di Casarano fu acquistato il 10.1.1642 da Matteo d’Aquino senior[3] (1610-1643), che divenne il primo duca di Casarano. Proprio Matteo, con il suo avvento, si prodigò a rimodernare l’antica chiesa della Madonna della Campana nella struttura che oggi possiamo ammirare. A ultimazione della costruzione, fece apporre una chiave di volta cilindrica (foto 9) riproducente un albero e un serpente attorcigliato sul tronco, con la scritta Charitas nel contorno del cerchio, mentre un po’ più a distanza, tra il motivo ornamentale di mattoni, vi è indicato l’anno “1642” [4].
Nello specifico, non è chiaro perché il committente abbia preferito la parola CHARITAS, di derivazione greca e tipica del culto a San Francesco di Paola, al posto di CARITAS, di derivazione latina[5]. Vi è da dire anche che, tra i tanti motivi barocchi dell’altare maggiore della stessa chiesetta, è presente il simbolo dell’albero della conoscenza, completo delle figure di Adamo (a sx) ed Eva (a dx), anche se abrasa. (foto in basso)
Quello della chiave di volta, a nostro avviso, potrebbe essere il motivo che ha ispirato la creazione dello stemma civico, utilizzando il solo simbolo e non anche la scritta “Charitas”. Non escludiamo che, anche in questa seconda ipotesi, il fautore possa essere stato sempre don Daniele Calò, citato nella prima ipotesi.
Dal 1810, per la prima volta, il comune iniziò ad utilizzare un proprio timbro-sigillo con il simbolo che lo caratterizzava. (foto in basso)
Dopo il breve governo murattiano (1806-1815), cessò l’utilizzo del proprio simbolo e si utilizzò un timbro borbonico, con la variante dei regnanti, imposto a tutti i comuni del Regno di Napoli, divenuto nel frattempo Regno delle Due Sicilie. vediamone la sequenza: (foto seguenti)
Vi è da dire che dal 22.5.1859, inizio del regno di Francesco II (Franceschiello) e sino al plebiscito, si continuò a usare il timbro di Ferdinando II poiché quello con impresso il nome del nuovo sovrano non fu mai fornito al Comune.
Il Plebiscito del 1860 sancì l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. (foto seguenti)
Il Comune utilizzò il nuovo timbro sin dal primo giorno, evidentemente pronto da tempo per una consultazione elettorale dall’esito già previsto (foto 20)
Il mutato clima politico, scaturito dalla fine della monarchia borbonica, fu trasversale in tutte le categorie sociali di Casarano, tant’è che due giorni prima del plebiscito, il 19 ottobre 1860, si registrò, presso lo stato civile, la nascita di un bimbo al quale venne dato il nome di Vittorio Emanuele (Martinelli).
Finalmente, dai primi dell’anno 1877 si ritorna a utilizzare, per lo più, il logo caratteristico del nostro comune[6]. (foto 21, 22, 23, 24, 25 e 26)
FRAZIONE DI MELISSANO
Per scelta dei suoi cittadini, Melissano fu frazione di Casarano dal 1885 sino a tutto il 1922.
Ci limitiamo a dire che in questo periodo fu utilizzato indifferentemente lo stemma di Casarano e un altro simile privo del serpente. (foto 27, 28 e 29)
Un uso come ex libris si riscontra su alcuni testi scritti da un sacerdote casaranese, don Carmine Lupo-Riccardi[7], trasferitosi a Napoli e senza dubbio affezionato al suo paese natale. (foto 30)
Usi architettonici, in pietra leccese, li riscontriamo:
sulla torre dell’orologio (foto 31);
sul portale del palazzo sito nella ex piazza Malta che fu originariamente municipio, poi règia Pretura, carcere mandamentale, Casa del Fascio, scuola e caserma dei Carabinieri. (foto 32);
sul portale dell’attuale palazzo municipale, all’origine convento dei Domenicani, destinato a sede del Comune a partire dal 15.06.1911(foto 33);
sul frontone del Mercato comunale di Via Matino, edificato nel 1957 (foto 34)
Ritornando alla chiesetta della Madonna della Campana, entrando a sinistra, troviamo l’altare, già con diritto di patronato della famiglia De Donatis, realizzato nel 1903 da Domenico De Donatis (1868-1937), figlio di Liborio[8], in sostituzione di altro esistente, recante una tela raffigurante San Liborio, (Foto 35).
Sugli stipiti laterali è raffigurato, in modo speculare, l’elemento centrale dello stemma civico.
Nel cimitero, invece, nella cappella gentilizia dei De Donatis (la prima a destra dall’ingresso principale), fatta costruire nel 1889 da un suo componente sacerdote, don Giuseppe De Donatis (1819-1895), fu installato un altare (foto 36) coevo con quello della Madonna della Campana, laddove riscontriamo un uso insolito, e anche originale, del predetto simbolo, presente specularmente su entrambi gli stipiti dell’altare. Questa scultura, a prima vista sembrerebbe il classico albero con il serpente attorcigliato al tronco; osservando però attentamente l’immagine (foto 37), si nota che il serpente è a testa in giù ed ha qualcosa nelle fauci.
Abbiamo ipotizzato che il committente, sicuramente Domenico De Donatis, abbia voluto far scolpire l’altare della propria cappella gentilizia per mettere allegoricamente in evidenza la contrapposizione della vita con la morte; allegoria molto calzante confrontando questo altare con quello della Madonna della Campana. L’atto del capovolgere sta a indicare la vita che passa. Una figura simile la si trova sulla parete dell’ingresso principale del locale cimitero (e anche in molti luoghi funebri): qui vi sono due coppie di fiaccole incrociate accese e capovolte, una a destra e una a sinistra. Ritornando all’altare, il serpente, strappando un ciuffo della folta chioma del pino per nasconderlo tra le radici dell’albero, simboleggia la Morte che strappa dalla Vita un essere per riporlo nella nuda terra e va interpretata come la sottrazione di una parte della propria famiglia dal resto della stessa e dalla comunità cittadina.
Note
[1] Il motto “Estote prudentes sicut serpentes” era assente in precedenza. I fregi sono ornamenti esteriori di città per via della concessione avvenuta giusto DPR del 4.11.1960.
[2] La parrocchia fu elevata a Collegiata “ad instar” con il Capitolo collegiato nel 1721.
[3] Antonio Chetry S.J. “Spigolature Casaranesi”, Quaderno IV, pag 20.
[4] Questo simbolo è inesistente nel blasone del suo casato che raffigura, in un quadripartito, due leoni rampanti e bande rosse e d’oro.
[5] Si rimanda per approfondimenti a: G.B. Vico – Varia: Il ’De Mente Heroica’ e gli scritti latini minori, a cura di Gian Galeazzo Visconti, Alfredo Guida Editore, Napoli 1996, p. 31.
[6] Per approfondimenti sui sindaci di Casarano si rimanda ai seguenti links:
[7] Carmine Lupo-Riccardi nacque a Casarano il 18 dicembre 1769. Nel 1819 si trasferì a Napoli dove insegnò grammatica italiana e latina. Morì nella città partenopea nella seconda metà del XIX sec.
Chi ha la mia età ha vissuto in pieno il passaggio dall’analogico al digitale, una delle poche rivoluzione tecniche operate dall’uomo dopo i graffiti delle caverne, le tavolette di terracotta, il manoscritto e la stampa. Il duca di Nardò visse proprio nel periodo in cui il manoscritto, specialmente il miniato, aveva visto crescere il suo pregio editoriale, mentre trasmetteva alcune sue caratteristiche grafiche agli incunaboli e poi alle cinquecentine. Succede spesso che un’opera venga pubblicata postuma, perché l’autore non volle o non potè darla alla stampa, pur essendo questa già stata inventata. In questi casi l’ideale sarebbe poter disporre del manoscritto autografo, altrimenti bisogna operare come si fa con i testi antichi, cioè con la collazione delle copie conosciute e disponibili, avendo come obiettivo finale l’edizione critica.
Favorito anche dalla cronologia, il duca di Nardò1 di certo potè vedere e toccare una copia a stampa del suo libro, come non è difficile immaginare che senz’altro diresse le operazioni, quanto meno quelle iniziali. Non è dato sapere se la stampa fu condotta sull’autografo, di cui non c’è traccia, o, più probabilmente, su un testo finale materialmente realizzato, sotto la sua dettatura e controllo, da qualche scrivano ufficiale. Il testo, comunque, era già noto prima del 1519 e, come spesso avveniva all’epoca, almeno una copia manoscritta era stata oggetto di dono, naturalmente ad un personaggio importante, da parte di Belisario in persona.
Com’è successo per molti nostri manoscritti a causa di vicende che il più delle volte è impossibile ricostruire, il nostro attualmente è custodito nella Bodleian Library dell’Università di Oxford (MS. Rawl. C. 893). Sul suo sito risulta parzialmente digitalizzato e da lì ho tratto la copertina/frontespizio e l’incipit, mettendoli a confronto con le analoghe parti del libro a stampa.
1 LA COPERTINA-FRONTESPIZIO-DEDICA DEL MANOSCRITTO
REVERENDISSIMO DOMINO DOMINO FRANCISCO SACRO S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) CARDINALI SURRENTINO TITULI SANCTORUM IOANNIS ET PAULI COMPATRI ET DOMINO OBSEREVANDO BELISARIUS AQUAVIVUS DE ARAGONAQ MARCHIO NERITONI SE PLURIMUM COMMENDAT
(Al reverendissimo signore Don Francesco sacro cardinale sorrentino di Santa Romana Chiesa col titolo dei santi Giovanni e Paolo, compatriota e signore rispettabile, Belisario Acquaviva di Aragona marchese di Nardò si raccomanda moltissimo)
Il testo appena letto ci rende edotti del titolo dell’opera, del nome dell’autore, che è pure il dedicante, del dedicatario e dei titoli di entrambi. Per quanto riguarda Belisario, poi, il titolo di marchese ci consente di datare il manoscritto anteriormente al 1516, anno in cui Belisario assunse il titolo di duca di Nardò. Lo stesso dettaglio consente di pervenire alla medesima datazione per un altro manoscritto, custodito nella Biblioteca Nazionale di Napoli (cod. XII F 2), del quale diede notizia Vincenzo Bindi2 citandone integralmente il titolo/dedica recita Beatissimo sanctissimo Leoni X Christianorum Patri Belisarius Aquavivus de Aragonea Neritinorum Marchio post pedum oscula beatorum humilissime se commendat (Al Beatissimo Santissimo Leone X Padre dei Cristiani Belisario Acquaviva d’Aragona dopo il bacio dei beati piedi umilmente si raccomanda). Quest’opera, il cui manoscritto il Bindi definisce bellissimo, non ebbe, a differenza di altre di Belisario, un’edizione a stampa, neppure postuma. Ciò avverrà a distanza di più mezzo millennio con la pubblicazione proprio del manoscritto napoletano: Belisario Acquaviva d’Aragona, Esposizione del Pater noster, a cura di Caterina Lavarra e Domenico Defilippis, Congedo, Galatina, 2016.
Riprendo il discorso interrotto relativo alla potenza del dedicatario del quale Belisario indica il solo nome, quasi il cognome fosse superfluo e bastassero i titoli ad integrarne l’identificazione e a renderlo antonomastico. Si tratta di Franciscus de Remolins (1462-1518), del quale appare evidente l’origine spagnola, per cui il sorrentino va inteso come riferito alla carica di arcivescovo metropolitano di Sorrento, da lui ricoperta dal 1501 al 1512, il che consente di collocare il manoscritto entro un intervallo temporale meno generico del prima del 1519, anno, dell’edizione a stampa, o del 1518, anno della morte del prelato; anzi, considerando che la nomina a cardinale avvenne nel 1503, l’intervallo prima indicato si riduce ulteriormente, passando da 1501-1512 a 1503-1512. Per avere un’idea, poi, della posizione di Francisco nella Chiesa e non solo, basta ricordare i rapporti strettissimi col papa Alessandro VI (a lui è indirizzata la lettera di Belisario citata in nota 3) e che fu vicerè di Napoli dal 1511 al 1513.
Di seguito, in rapporto cronologico proprio con questo periodo, il suo ritratto riprodotto da Domenico Antonio Parrino, Teatro eroico, e politico de’ governi de’ vicere del Regno di Napoli, de Domenico Antonio Parrino, Parrino & Mutii, Napoles, 1692, tomo I, p. 68.
La didascalia recita: D. Francesco RemolinsCardinalSorrentinoLuogot(enent)eGen(era)le nel Regno di Nap(oli) 1512. Appena al di sopra lo stemma cardinalizio.
2 FRONTESPIZIO DEL LIBRO A STAMPA
Si presenta incredibilmente scarno rispetto alla parte del manoscritto appena esaminata. Vi compaiono il titolo dell’opera e il nome dell’autore, senza gli altri dati (nome del dedicatario e relativi titoli) che già allora rendevano estenuante la lettura del frontespizio.
(Come educare i figli dei principi di Belisario Acquaviva d’Aragona duca dei Neritini)
Per gli altri dati bibliografici bisogna andare alla fine, cioè al cosiddetto colophon (che qui precede la marca editoriale), uno dei retaggi della scrittura manoscritta (per quanto riguarda la data manca solo il numero relativo all’indizione).
(Stampato a Napoli nella libreria di Giovanni Pasquet de Sallo nell’anno del Signore 1519 il 5 giugno).
Di solito il colophon non mostra alcuna tavola e questa si sarebbe collocata benissimo, se non come antiporta, almeno a corredo dello scarno frontespizio. Essa è, come s’è detto, la marca editoriale e mostra al centro una figura in piedi, che sostiene la croce addossata ad un cerchio diviso in quattro settori in ognuno dei quali compare una lettera, in tutto da leggersi nella sequenza IPDS, acronimo di Iohannes Pasquet De Sallo. La croce reca alla sommità una bandiera in cui si legge ECCE AGNUS (le ultime quattro lettere appaiono tipograficamente impastate) e al di sotto ΑΩ (com’è noto, l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, a simboleggiare il principio e la fine. La tradizione giovannea di entrambi (1, 29.36 e 19, 5) e in più l’ecoonomastica che si è voluto ravvisare in Iohannes hanno fatto identificare ad alcuni la figura centrale con S. Giovanni, mentre per altri rappresenterebbe Cristo.
Non sapremo mai se fu Belisario a volere o a tollerare che il colophon e l’editore avessero un impatto visivo, per quanto finale, maggiore rispetto al frontespizio; se così fosse, sarebbe un’ulteriore prova di umiltà, dopo quella dell’ipotetico declassamento insito nel marchese del manoscritto.
A quest’ultimo torno con la carta contenente l’incipit. A fronte la corrispondente parte nel libro a stampa.
Anche qui la composizione della pagina appare molto più articolata ed accattivante, grazie alle miniature, mentre i caratteri conservano il più possibile l’aspetto della scrittura manoscritta. Si noti come al capolettera del manoscritto, Q miniata dell’iniziale Qum, ha il suo corrispondente a stampa in q annegante in uno spazio bianco, la cui area appare perfettamente uguale a quella occupata dalla miniatura. La scelta grafica del manoscritto sarà recuperata nell’edizione uscita per i tipi di Pietro Perna a Basilea nel 1578 (di seguito il dettaglio del capolettera).
Chiudo con una rapida descrizione degli dettagli più significativi.
Il capolettera (la C di CUM è su un pannello blu legato con un nastro al ramo di un albero.
La bordura della carta è su tutti i lati con motivi rinascimentali, candelabri e decori floreali.
Nel margine superiore due putti alati sullo sfondo di un cielo stellato reggono lo stemma del dedicatario (lo abbiamo visto prima nel ritratto).
Il medaglione a destra contiene una figura di uomo in combinazione classica: busto nudo e testa di profilo.
Nel margine inferiore: stemma della famiglia Acquaviva racchiuso in corona di alloro3. A sinistra Marte seduto tra trofei di guerra e a destra Minerva, conformemente all’iconografia classica, con elmo, la destra che impugna una e la sinistra uno scudo su cui è raffigurato un volto. È evidentissima l’allusione all’uomo-tipo rinascimentale, qual era Belisario, capace di coniugare le competenze militari con quelle letterarie4.
In chiusura mi piace dare rilievo alla disposizione dei due stemmi: in alto quello del cardinale, in basso quello degli Acquaviva, come nel manoscritto si legge prima il nome del donatario e dopo quello del donante. È vero che tutto può essere casuale, ma lo è anche questo?
__________________
1 Visse dal 1464 al 1528 e fu prima marchese, poi, dal 1516 fino alla morte, duca di Nardò.
2 Vincenzo Bindi, Gli Acquaviva letterati, Mormile, Napoli, 1881, p. 123
3 Non mi meraviglierei se qualcuno si sentisse autorizzato dal dettaglio della corona di alloro a rimettere in campo l’esistenza, mai convincentemente provata, di una neritina Accademia del lauro fondata da Belisario. Sul tema vedi Armando Polito, Giovanni Bernardino Tafuri e la cinquecentesca Accademia del lauro di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2022, n, 302 della collana Sallentina fragmenta.
4 Il duca di Nardò pubblicò nello stesso anno 1519 e presso lo stesso editore altri tre trattati: De venatione et de aucupio, Prefatio paraphrasis in economica Aristotelis e De re militari et singularicertamine e per i tipi di Giovanni Antonio Papiense de Caneto a Napoli nel 1522 Ad Adrianum VI. pontIficem opt. maximum Christianorum patrem sanctissimum. Un Depraestantia Christianae religionis viene citato a catena dagli storici, ma senza alcun dato documentario a partire dal XVII secolo, ma al momento non risulta reperito un solo esemplare a stampa, tanto meno manoscritto.
FILIPPO DE RAHO PIONIERE DELLA MODERNA VITICOLTURA IN QUEL DI CONVENTO, NELLA TENUTA “CALIZZI” CHE LAMBISCE IL FEUDO DI NOVOLI
di Michele Mainardi
A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento vi fu in terra d’Otranto un forte interesse verso il settore vitivinicolo che, nel decennio successivo, avrà una decisa espansione: lo dimostra l’aumento della superficie coltivata a vigneto; ciò fu dovuto alla crescita della domanda di vini da taglio da parte di imbottigliatori del Settentrione d’Italia; ma soprattutto furono i francesi ad alimentare le correnti di esportazione dei mosti.
L’attacco della fillossera alle piantagioni dei cugini d’Oltralpe si rivelò un affare per i produttori nostrani, che trasformarono ettari su ettari di terreni a basse rese in redditizi campi vitati. La battuta d’arresto della cerealicoltura ( in seguito alla concorrenza americana) e la perdita di competitività del prodotto oleario (che non poteva gareggiare con le rinomate etichette toscane e baresi) fecero da innesco alla spinta a investire sulla vite.
Avveduti proprietari terrieri diedero così corso alla stipula di contratti di colonia parziaria a miglioria, le cui clausole e la durata variavano a seconda della qualità dei suoli coinvolti. I patti differivano da Comune a Comune: ciò che non cambiava era lo sfruttamento del lavoro contadino. Gravava la maggior parte delle spese di coltivazione sul colono, sul mezzadro.
La disparità stava nei fatti. Il peso ricadeva sulla parte impossidente. Nelle annate particolarmente negative non era raro che i fittavoli abbandonassero le quote loro assegnate per mancanza di risorse. Diventavano salariati a giornata, disposti anche a emigrare (più o meno temporaneamente) pur di sopravvivere. La famiglia bisognava sfamarla.
Di questo spaccato di terra e fatica siamo riusciti a tracciarne un esempio di circoscritta storia compulsando vecchie carte d’archivio. Rovistando tra i rogiti di notaio è venuto fuori quanto esperito da un intraprendente agrario leccese che, nelle campagne del vecchio feudo di Nubilo, poi Convento, portò a compimento un riuscito esperimento di messa a coltura della profittevole pianta vitacea. Il nobiluomo Filippo de Raho fece rifiorire la sua tenuta “Calizzi”, il cui margine di Nord-Ovest segna il confine amministrativo di Lecce con Novoli.
L’estesa proprietà (106 ettari), lambita da un lato dalla linea ferrata, nell’arco di un quindicennio (dal 1885 al 1899) mutò faccia. Dall’assoluto abbandono del pascolo passò a vitalizzarsi grazie all’intensività colturale figlia della conduzione a vigneto dei ritagliati appezzamenti, tutti distaccati e segnati mediante l’apposizione di termini lapidei (le cosiddette “finite”).
Le quote create a più riprese avevano ampiezza oscillante: andavano dalle 2 tomola (pari a 125 are e 98 centiare) alle 18 (vale a dire 11 ettari, 33 are e 64 centiare). La durata della concessione a mezzadria variava dai 18 ai 21 anni: un lunghissimo periodo di tempo che legava l’affittuario al suo concedente, esigente nel richiedere massima cura e diligenza nei lavori del campo. I fittaiuoli dovevano far prosperare la vigna, assistendola da buoni e solerti padri di famiglia. Non potevano seminarci negli spazi interstiziali: l’unica eccezione permessa consisteva nello spargere il germe di qualche leguminosa (escluso i ceci) ma solo per per i primi quattro anni dall’avvio. La piantagione per quelli a venire era assolutamente vietata.
Si permise di coltivare l’orzo ”a pizzico” lungo i filari della vite: a calcolata distanza onde non arrecare sofferenza alle piante. La magra integrazione dei redditi che ne discese fu poca cosa. Occorreva allora davvero darsi da fare. I modi andavano trovati. Gli obblighi contrattuali impegnavano i mezzadri in misura tale da non lasciare spazio a rallentamenti di sorta.
La pota delle viti andava fatta a regola d’arte e a piena soddisfazione del proprietario, il quale, se avesse riscontrato delle irregolarità, era nel pieno diritto di ricorrere a persona perita di sua fiducia, con accollo delle conseguenti spese ai contadini (molti di essi provenivano dalla vicina Arnesano). Gli stessi, che già si sobbarcavano per intero quelle per l’iniziale dissodamento dei terreni e la successiva piantagione, non potevano esimersi, in aggiunta, dal solforare la vigna nel caso i sarmenti fossero rimasti nella loro disponibilità. Tutte le altre clausole dei contratti giravano a favore della parte dominante, come d’uso nella pattuizione di quei tempi, non certo benigni nei riguardi dei faticatori.
Gli utili della vendemmia poi si contavano col bilancino. L’apprezzo della uve veniva seguito occhiutamente. Guai a sgarrare di qualche chilo: la partita sarebbe finita male. Il perito del signor padrone incombeva (a Lecce come a Novoli: ovunque). Non c’erano santi che tenessero. La pesa si ripeteva se qualcosa non filava liscio. Se poscia si associava che dietro si celava puzza di bruciato, addio! Il contratto veniva rescisso, senza indennizzo alcuno ai furbi (tali per necessità?).
I documenti ci dicono tutto sulla coltivazione della tenuta de Raho, divenuta podere modello per lungimiranza del signor barone. A “Calizzi” il vigneto prosperava, prima che l’attacco filosserico dell’inizio del Novecento mietesse le sue vittime. La capacità dell’imprenditore fecero crescere l’azienda, dotata di moderno stabilimento per la vinificazione, con strumento attivato per via meccanica, a vapore, per mezzo di generatore locomobile: una novità per l’epoca. Il suo azionamento richiese perizia nel manovratore: dovette conseguire apposito brevetto di fuochista l’alacre proprietario.
Filippo de Raho per essere all’avanguardia nella produzione vinicola, dotò i locali (le cantine) della masseria (nella tavoletta dell’ Istituto Geografico Militare di Firenze del 1913 toponomasticizzata “Casino”) di impianto di illuminazione ad acetilene, che veniva ricavato dal carburo di calcio in un ‘altra apposita installazione fornita di macchinario adeguato: un vero prodigio per i tempi.
Validi canali di commercializzazione del prodotto semilavorato fecero il resto: partivano per il Nord Italia le botti di negroamaro e di malvasia, facendo conoscere le sanguigne uve locali ai clienti di palato fine di Milano e Torino. La lacrima de “Li Calizzi” sarebbe servita a configurare un vino sostanzioso, di tipo costante, discretamente alcolico, ricco di materia colorante, abbastanza resistente alle intemperie e ai viaggi per ferrovia: ricercato dai fabbricanti settentrionali, adatto per essere tagliato, come i suoi pari grado altrettanto corposi, aromatici, del resto della regione otrantina.
In questi ultimi anni un nuovo e grande interesse si è sviluppato per il fenomeno del «Tarantolismo» o «Tarantismo», fenomeno in Terra d’Otranto, di cui molti si sono occupati in diverse epoche con varie ricerche e particolari studi sia di carattere medico che antropologico (Ernesto De Martino dedicò nel 1961 una delle sue più belle e importanti opere intitolata La Terra del Rimorso).
Propongo perciò qui di seguito la lettura di uno studio sull’argomento non molto noto (se non addirittura quasi sconosciuto), compiuto da Francesco Ferruccio Guerrieri, novolese illustre (nato a Novoli il 24 luglio 1874 e morto a Bagnoli di Napoli il 15 gennaio 1957) e pubblicato sul rarissimo numero unico «LECCE 1898».
Questo libro fu dato alle stampe in occasione delle Feste inaugurali svoltesi a Lecce in quell’anno in «onore dell’arte e del lavoro»; fu curato da G. Doria e raccolse scritti dei più importanti studiosi salentini dell’epoca come G.F. Tanzi, C. De Giorgi, B. De Sanctis, L. Romano, A. Foscarini, N. Bernardini, L.G. De Simone ecc.
Del novolese Francesco Ferruccio Guerrieri, lo studioso Carlo Villani in «Scrittori e Artisti Pugliesi» ebbe a scrivere di lui: «felice quel paese che può contare uomini somiglianti a Ferruccio Guerrieri, uomini cioè di maschio ingegno, di valore indiscusso, noncurante dell’io, ma entusiasti ed orgogliosi del patrio lido e dei propri conterranei».
Dalle notizie che si ricavano dall’orazione funebre recitata da don Emanuele Ricciato sul sagrato della chiesa matrice di Novoli, in occasione della morte del fratello Eugenio, sappiamo infatti che il Guerrieri (storico e letterato insigne, professore di lettere italiane e poi Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce nonché docente nell’Istituto di Cava dei Tirreni, autore di opere di una certa importanza su Terra d’Otranto) nacque da una delle più antiche ed importanti famiglie di Novoli, precisamente dal dott. Alessandro Guerrieri (chimicofarmacista) e da Lucilla Ruggio.
Fu il secondo di una fratellanza illustre discendente dal gesuita Francesco Guerrieri pupillo di San Bernardino Realino, gran letterato, eccellente scrittore, amico del Tasso, valoroso ministro della parola di Dio, lume della greca e latina lingua; composta, oltre che da lui, da Giovanni (professore di Storia Patria nei licei d’Italia «uno dei più forti cultori delle patrie memorie»), dall’avvocato Luigi («giureconsulto insigne, onore e vanto del foro leccese») e, infine, da Eugenio (fisico, matematico e, soprattutto primo astronomo dell’Osservatorio di Capodimonte), autore di numerosissimi saggi conservati in gran parte (ben 69) presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, pubblicati su diverse riviste scientifiche dal 1904 al 1951.
Tornando sull’argomento, al di là delle notizie più o meno conosciute sulle cause, sugli effetti e sulle dinamiche del morso della taranta (interessante, comunque, il riferimento all’uso dell’ammoniaca prima ancora che al ballo come «energetico diaforetico», cioè che favorisce la sudorazione) il lavoro del Guerrieri, come si potrà notare, è di notevole interesse per i riferimenti di carattere storico, medico e scientifico e, soprattutto, per la narrazione di alcuni casi dettagliati di tarantati accaduti a Otranto, nella stessa Novoli (addirittura con una bambina di tre mesi), a Lecce, a Manduria e anche a Bologna, fatti che in sostanza (secondo il Guerrieri), supportano la collocazione del tarantismo esclusivamente «nel campo della folcloristica» facendone «una delle caratteristiche superstizioni tradizionali di Terra d’Otranto».
Un’ulteriore annotazione va fatta sull’origine di questo studio del Guerrieri. Esso, in sostanza, può considerarsi la prima parte (a nostro avviso la più preziosa, ma passata inosservata) di un lavoro più organico su un commediografo bolognese, tale Francesco Albergati Capacelli, e in particolare su una farsa intitolata «La Tarantola», con la quale, l’autore ha voluto «mettere in burla sulle scene le comiche stranezze del tarantolismo leccese». Il pezzo conclusivo intitolato «II Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII» (stampato a Lecce dalla Tipografia Cooperativa nel 1904), è stato pubblicato sul «Bardo» (fogli di cultura) del luglio 1993.
Il Tarantolismo leccese (nella patologia, nella folkloristica e nella commedia)
Tolgo, per inserirle in questo Numero Unico, alcune pagine di un mio lavoro e che è uno studio su Francesco Albergati Capacelli, commediografo bolognese del secolo scorso (1728–1804), il quale ebbe una vita così ricca di casi e di avventure e nelle sue tragedie, nei suoi drammi flebili, nelle commedie, nelle farse, ci lasciò (nelle commedie principalmente) uno specchio fedele dei costumi e delle condizioni morali della società del suo tempo, lumeggiando tutti i tipi storici caratteristici di quell’età, dal Papa agli Enciclopedisti, dalla fanciulla patrizia monacata per forza alla dama galante, dalla poetessa alla ballerina, dagli abati erotici ai cavalieri d’industria, dagli Arcadi agli Ossianisti, dai monarchi filosofi ai cicisbei, dai giramondo diplomatici ai letterati, dai prelati gaudenti agli ex gesuiti volterriani. Tra i vari generi drammatici, quello che l’Albergati coltivò con una certa predilezione fu la farsa o commedia di un atto solo, in prosa. Di queste commediole, o burlette, come egli stesso le chiama, ne scrisse nove, di argomenti differentissimi, tolti dalla vita reale del suo tempo, e tutte condite di un certo brio, di quella satira comica che è l’anima di ogni lavoro piccolo e grande del nostro scrittore il quale per dirla col suo biografo E. Masi invasato dell’alto ufficio della commedia, non ha piccola composizione, anche d’un atto solo, in cui non si proponga qualche gran fine. Il Sismondi, che dell’Albergati ammirava l’ingegno per la vera commedia e pel dramma sentimentale, scrisse di lui: «fece ancora parecchie di quelle piccole composizioni dette farse, che meritatamente son collocate fra le più lepide del teatro italiano, perché l’Albergati seppe quivi accozzare colla festività nazionale e colla buffoneria del vecchio teatro, l’eleganza della maniera della buona società».
Io qui intendo di far conoscere appunto una farsa del Capacelli, “la Tarantola”, ricca di bei elementi comici contro il nostro tarantolismo leccese e contro una classe di medici ciarlatani impostori che doveva essere molto diffusa nel secolo passato.
Ma per comodo di coloro i quali non abbiano una chiara conoscenza di questo tarantolismo, che è cosa tutta di casa nostra, mi siconceda di darne qualche notizia.
* * *
Che cosa è il tarantolismo, che per un certo tempo ha richiamato a sé l’attenzione non solamente dei folkloristi, ma anche di valenti patologi? Esso si ritiene generalmente per una nevrosi che regnò in Italia dal XVI al XVII secolo, e particolarmente endemica della Puglia, prodotta, come indica il nome, dalla morsicatura della tarantola, specie di ragno comune in Terra d’Otranto.
Negli affetti di tarantismo, dopo uno stato d’inquietudine, si nota l’affanno di respiro, ed un torpore muscolare, accompagnato da un sovreccitamento del sistema nervoso. Una irresistibile tendenza al ballo ed uno sfrenato desiderio, un bisogno potente di udir musica, sono altre caratteristiche manifestazioni della malattia. Ritiene anzi il volgo che ciascuna tarantola si muova ad un accordo particolare, e che i morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi, e che gli atteggiamenti delle mani che accompagnano il ballo, siano i medesimi che la tarantola fa colle sue falangi nell’intessere la tela. Si ricorse qualche volta all’uso dell’ammoniaca, che, come energico diaforetico, poteva dare dei buoni risultati pratici; ma la cura più spicciativa e più naturale, che il popolo ritrovò e adottò, fu quella del ballo. Mediante certe speciali suonate si fa scuotere l’ammalato, che danza, danza con movimenti strani e tumultuosi, sino a cadere spossato, bagnato di sudore profuso; allora può dirsi guarito. Il fatto che tale malattia coglieva e coglie tuttora di solito la gioventù, fece ammettere un certo esaltamento della fantasia, e si credette che vi avessero la loro parte anche le forti passioni di quell’età. Altri asserirono che, siccome il tarantismo, o l’affezione prodotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formassi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola, che veniva espulso appunto mediante il sudore provocato dal ballo.
Molti e valenti medici si occuparono di questo male nella prima metà del nostro secolo. Il Tonelli, in base ad una serie di esperienze positive, si persuase della innocuità della tarantola: secondo lui, se esisteva nella Puglia una monomania endemica, il cui straordinario bisogno di danzare ne costituiva il principale sintomo, non si poteva attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Alla opinione del Tonelli si accostò anche il Prof. Migliari, il quale, per molte prove, si persuase che non già la tarantola costringesse a ballare quei che ne erano morsicati, ma che la danza fosse l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella smania indescrivibile che obbligava ipazienti a vari movimenti; inoltre inclinava a credere anche lui che il ballo fosse in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei Pugliesi, e non della tarantola, che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Altri invece, di non dubbia serietà, giudicarono che il veleno della tarantola agisse realmente sul sistema nervoso e sanguigno, ed in conferma di tale opinione riportarono la testimonianza di osservazioni loro proprie e di fatti accaduti sotto iloro occhi. Notevole il caso avvenuto in quel di Otranto nel 1834 e riferito dal Dottor Giuseppe Ferramosca di Muro.
«Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che si alternavano con una specie di opistotono: la pupilla era mobile, si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e da un sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua soffocazione. Le sostanze fetide aggravavano le sofferenze, che non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da altro medico, otto giorni dopo il principiare del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò, sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed ifrequenti conati di vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto, dietro uno sforzo di vomito e di tosse, sivede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella.
Sorpreso il Dottor Francesco Ferramosca, cominciò a indagare in qual modo la tarantola poté cacciarsi nella gola di quella donna, e rilevò che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto con alcune sue giovani compagne, e colà, avendo trovato un grappolo di uva primaticcia già quasi maturo, avendone fatto pompa, accorsero le compagne, perché di mano glielo togliessero, ed essa fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte senza aver tempo di frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini di uva». Il carattere dignitoso e grave del Dottor Ferramosca non permise di ritenere questo fatto come inventato, allo scopo di esaltare gli animi degli appassionati del tarantolismo.
Chi studiò il tarantolismo con maggiore interesse, forse, fu il Dottor Salvatore De Renzi, il quale su questa malattia tenne una conferenza a Napoli, nell’Accademia medico chirurgica, il 18 luglio 1832. Egli ci ha lasciato anche un’accurata descrizione della tarantola pugliese, la quale corrisponderebbe al Phalangio di Aristotele, un insetto della famiglia dei ragni, coll’esterno di diversi colori ecc.
Il De Renzi recatosi a Taranto, per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, ebbe occasione di studiarvi due malattie caratteristiche del Leccese, il costipo e il tarantismo. È vero si domandò dopo una serie di osservazioni, è vero che il morso della tarantola produca gli effetti che comunemente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi?. Constatò anch’egli che questi fatti si riscontravano per lo più in età in cui le passioni erano più intense, e ciò valse a fargli credere che non di rado l’amore rappresentasse la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrassero attarantolate per nascondere più grave ferita che le faceva delirare. Però contro l’opinione di alcuni francesi, i quali ritenevano un tessuto di pure favole quel tanto che si narrava sul veleno della tarantola, il De Renzi, partendo dall’esame dei fatti e di esperienza, dichiarò che il veleno della tarantola agiva sul sistema nervoso e propriamente sul nervo trispalncnico e sue dipendenze, e presentava effetti in parte simili a quelli prodotti dal veleno della vipera, in parte propri e distinti. Il disordine delle funzioni respiratorie, e quella specie di torpore del sistema muscolare erano appunto conseguenze immediate del virus, a cui si accompagnava anche una specie di esaltazione cerebrale. Il De Renzi consigliava l’uso di medicine diaforetiche; ma d’altra parte riconosceva che, perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero state queste meno efficaci dei mezzi che d’ordinario in Terra d’Otranto solevano adoperarsi, dove bisognava curare non solo l’effetto fisico del morbo, ma anche il morale.
Molte e remote sono le testimonianze degli effetti della musica sul sistema nervoso; ce ne offrono la storia sacra, la profana, la mitologia.
Per mezzo, di speciali accordi Drahonet e il Prof. Ruggieri videro risanati molti loro infermi; ed il Lictenthal, nella sua opera sull’influenza della musica sul corpo umano, raccolse numerosi esempi, dai quali apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite certe malattie convulsive. Tra i casi di tarantismo guarito colla musica, che il De Renzi raccolse da fonti autorevoli nel leccese, cito questi due. In Novoli una bambina al terzo mese della sua età fu morsicata dalla tarantola; e subito divenne inquieta, manifestò un inceppamento nel respiro ed un pianto acuto, uno stridulo lamento.
Sintomi soffocativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizi della flogosi locale nel sito del morso, assicurarono gli afflitti genitori sulla natura del male. Siricorse al consueto rimedio del suono, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione, finché defatigata, oppressa, dà in abbondante sudore; messa a letto, si abbandona ad un sonno ristoratore, dal quale si sveglia perfettamente guarita. L’altro è un esperimento, fatto da un colto medico di Lecce. Questi avvicinò al piede di un mietitore che dormiva, una di quelle tarantole alle quali si attribuisce un veleno più efficace, uccise poi l’animale e lo nascose, per non dar luogo a riscaldamento di fantasia. Svegliatosi il mietitore, si sentì addolorato nel piede, dove si notò un circolare indurimento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa: uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso furono i sintomi che tosto si manifestarono. Sulle prime si credette ad una ferita d’ape, ma, crescendo l’oppressione ed il delirio, si tentarono i soliti accordi, i quali ridestarono il ballo consueto, che diede all’infermo una subita e compiuta guarigione.
Sappiamo che nel 1693 il celebre medico Clarizio, invitato ad un pubblico esperimento in Napoli da D. Domenico Sanguineto, si fece mordere dalle tarantole Pugliesi alle braccia, alle gambe, alle labbra, ma non ballò, non cantò, non sospirò. E diremo anche, senza andar per le lunghe, che oltre quelli già citati, altri moltissimi scienziati scrissero contro il tarantismo, tra cui l’Epifanius, il Peripatetico, il De La Hire, il Redi, ecc.: tutti questi d’accordo biasimano l’uso invalso nel Leccese di ricorrere in tali casi non già al medico, né alle cure suggerite dalla scienza, ma al ballo, ritenuto dal popolo una necessità assoluta.
Ai nostri giorni il tarantolismo, che nelle antiche patologie aveva tutto un capitolo a sé, è passato invece nel campo della folkloristica, e costituisce una delle più caratteristiche superstizioni tradizionali di Terra d’Otranto. È così frequente, massimo nei mesi d’estate, esser colpito per le vie dei nostri bianchi paesi, da uno strimpellare di violino, di organetto, di tamburello, accompagnato da un canto lamentevole, improntato ad una profonda mestizia, ad una delicata sentimentalità. Se ci avviciniamo a quella casa, ficcando lo sguardo attraverso le teste dei contadini e delle donnicciole che si affollano ritte sulla soglia, vediamo nel mezzo della stanza una donna, giovane ancora, una brutta figlia di campi, discinta, coi capelli pioventi sulle spalle, che, afferrando convulsamente una fune che pende dal tetto, gira intorno e si dimena con mille strani contorcimenti. E quando spossata, ansante, si ferma a pigliare un momento di riposo, la donna che suona il tamburello, o l’uomo che suona il violino, cantando, la incitano a riprendere il ballo; finché la paziente, dopo parecchie ore di quel martirio, cade su di un pagliericcio, in preda a un forte abbattimento. Questa donna è la nostra tarantata. Si è voluta ricercare l’origine di questo ballo in una speculazione assai raffinata, ed in una certa civetteria muliebre insieme; poiché alla tarantata si concede la scelta di un nastro smagliante, non solo, ma per un certo tempo era invalso l’uso che il padre, il marito o il fidanzato dovesse regalarle, dopo la guarigione, un abito dal colore del nastro scelto durante il ballo. E si credeva che la donna morsicata scegliesse sempre un nastro corrispondente al colore dell’animale che le aveva inoculato il veleno.
Trascrivo il racconto della sua malattia, che una povera donna del popolo di Manduria ripeté con tutta spontaneità al prof. Gigli, il quale ne fece una traduzione letteraria fedelissima.
«Raccoglievo con altre donne la spiga in un gran podere, il sole gettava onde di fuoco; a noi tutte mancava il respiro; tantoche, prima di mezzogiorno, lasciammo l’usato lavoro, e ci sdraiammo al rezzo d’un muricciolo. Mentre, dopo avere assaggiato un boccone di pane, cercavo di chiudere gli occhi al sonno, all’improvviso ebbi un sussulto, e nello stesso tempo intesi un forte dolore a una mano: mi levai in piedi, cercai la causa del dolore, ma non vidi nulla.
Capii subito però: ero stata morsicata dalla tarantola. Cominciai a piangere: povera me! Pei poveri quella è una grande sventura, perché è una malattia lunga, che vieta loro per lungo tempo il lavoro. Tornata a casa, cercai di porre qualche rimedio al male con medicature e decotti; ma non mi giovò niente. Dopo qualche tempo il male incalzava.
Compresi che un solo espediente mi restava: ballare. Da quel giorno non chiusi quasi più gli occhi al sonno. Un dolore continuo mi teneva in disagio tutta la persona. Ciò però era niente: il male principale era una profonda malinconia che mi assalse nell’anima. Mi pareva ogni cosa oscura: le persone tutte vestite di nero, dipinte di nero le cose. Il pensiero della morte mi prostrava l’animo; pensavo che, morendo, lasciavo un pover’uomo con quattro figli, l’ultimo dei quali ha solo due anni! Durante i due o tre giorni, in cui si fecero i preparativi per il ballo, non potetti toccar cibo.
La notte che precedette il ballo, fui costretta a stare in piedi, camminando continuamente per la casa. Mi sentivo mancare il respiro, come se una mano di ferro mi stringesse il seno e il cuore. All’alba mi sentì un poco meglio, e mi sdraiai sul letto. Dopo mezz’ora però un improvviso sussulto mi fece saltare in terra, e da quel momento non ebbi un istante di requie. Si mandarono subito a chiamare i suonatori, e si distesero innanzi a me dieci o dodici fazzoletti di vari colori. Cominciai a ballare. Chi può dire quel che soffersi? Il colore dei fazzoletti non leniva il mio spasimo: segno che nessuno di essi corrispondeva al colore della tarantola. All’improvviso diedi un grido: avevo visto un giovane vestito di nero. E m’intesi un poco meglio. Quel nero era il colore che dovevo guardare fissamente, perché la tarantola era nera, dopo tre giorni di continuo ballo, stetti bene».
Riporto anche un canto dialettale, condito di parecchi italianismi, col quale in quel di Manduria si accompagna il ballo della taranta, e che lo stesso Giglio raccolse dalla bocca di una di quelle cantatrici di mestiere:
Malinconicu cantu, e allegru mai,
caccciami fora ‘sti malincunii.
Comu l’aggiu a cacciari, quannu tu sai?
Aia un cori e lu dunai a te.
Bella, iu partu, arrivederci, addiu,
nu ’ti scurdari ci ti cori t’ama
nu ti scurdari di lu nomi miu,
mentri la sorti luntanu mi chiama.
Cihai la noha ca muertu so’io,
bella, ca ti la caccianu la fiama…
ma tu ninfosi la finisci a Dio
mentre ca campu iu, stu cori t’ama!
Ma il tarantolismo, oltre i patologi ed i folkloristi, ha interessato anche i commediografi, ed ha fornito al bolognese Albergati Capacelli la materia per una brillantissima farsa: La Tarantola, nella quale, nel giro di 14 scene e nello spazio di poche ore si svolge un’azione tutta arguzia, verità, naturalezza.
Se noi sapessimo che il tarantismo fosse stato una malattia esclusivamente pugliese, non dovremmo meravigliarci che l’Albergati ne avesse avuta conoscenza, data la versatilità del suo ingegno, la cura che mettea nella ricerca di tutto ciò che di comico offrisse la società del suo tempo.
Ma il tarantismo si conosceva anche nel Bolognese, poiché nell’Osservatore Medico del 1895 alla pagina 99, il professor Migliari parlò di un caso avvenuto in quel di Bologna, servendosene di prova, insieme con altri, per dimostrare come il suono, il ballo fossero qualche cosa di estraneo assolutamente alla morsicatura della tarantola, ed un effetto solo di idee preconcette.
Nota bibliografica
AA.Vv., Lecce 1898, Numero Unico per le Feste Inaugurali nel giugno 1898, Lecce R. Tipografia Editrice Salentina Ditta Fratelli Spacciante, 1898. Più specificatamente per Novoli ritengo opportuno richiamare quanto scrive L.G. De Simone nella sua Vita della Terra d’Otranto, pubblicata a puntate a Firenze nella seconda metà dell’800 sulla Rivista Europea e ora ristampata dalle Edizioni del Grifo. Scrive testualmente il De Simone a proposito del ballo della Taranta: «Prima di compiere queste descrizioni, ho io chiamati ed interrogati i due più celebri musicisti della Taranta, ne’ nostri contorni; essi sono un cieco, Francesco Mazzotta da Novoli (il violino), Donata Dell’Anna di Arnesano (il tamburieddhu). Il Mazzotta conta trent’anni di esercizio della sua professione e dice che i «temi» e i muedi ha appreso dai vecchi violinisti del suo villaggio che li avevano imparati da’ più vecchi di loro; per modo che la sua musica immemorabile è arrivata a lui per tradizione o per scrivere la sua frase, per filios filioru (filios filiorum. Egli dice che a Novoli è la vera «pianta della taranta» e che per ciò sempre vi sono stati «Fabbricanti di violini» (così dicendo mostrava il suo, costruito da uno Stradivario di Novoli). La celebrità dell’arco suo lo ha fatto peregrinare «sempre dietro richiesta» per Torchiarolo, Arnesano, Campi Salentina, Trepuzzi, Squinzano, San Pietro Vernotico, Cellino San Marco, Surbo, Nardò, Monteroni di Lecce, San Pietro in Lama, Lequile, Guagnano, San Donaci, San Pancrazio, a suonar «Le Tarante»; ed in tutti questi luoghi ha operato meravigliose guarigioni, a sentirlo! Non ha mai voluto prestare i soccorsi dell’arte in Melendugno, Sava, Manduria, Martina Franca, San Giorgio sotto Taranto, Monteparano, Lizzano, Montemesola, Castellaneta, Grottaglie, Francavilla Fontana, Brindisi» dove il muedu è sempre lo stesso, ma manca la vera tradizione dell’arte «perché luoghi molto lontani da Novoli». (Cfr. G. Spagnolo, Per Filios Filioru. Tra fabbricanti di violini e balli della Taranta, in “Lu Puzzu te la Matonna”, Numero Unico, a. III, 21 luglio 1996;
N. Caputi, De Tarantulae Anatome et Morsu..., Lycii, Typis Dominici Viverito, MDCCXLI;
L. Chiriatti, Morso d’Amore (Viaggio nel Tarantismo Salentino), Capone Ed. 1995. Questo libro è l’importante ricerca (minuziosa e aggiornata) sul fenomeno del Tarantismo che l’autore «ha vissuto sulla propria pelle»;
E. De Martino, La Terra del Rimorso, 1961 (opera straordinaria che con un’ampia e preziosa bibliografia documenta l’apparizione della taranta e del suo morso velenoso, il ricorrente al suo esorcismo musicale, richiamando tra l’altro le opere dei più importanti autori di Terra d’Otranto come il Marciano, il Giovene, il Baglivi, Epifanio Ferdinando, N. Caputo, il Serao, ecc. La ricerca fu compiuta nell’estate del 1959 e la sua équipe stabilì che i tarantati, all’epoca, nel Salento, erano non più di 100;
B. Montinaro, San Paolo dei serpenti. Analisi di una tradizione, Sellerio Ed., 1996;
F. Ferruccio Guerrieri, Il Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII, Tip. Cooperativa, Lecce 1904 (Lo stesso articolo è stato riproposto in IlBardo, Fogli di Cultura, luglio 1993;
F. Ferruccio Guerrieri, Il tarantolismo leccese (nella patologia, nella folkloristica e nella commedia), in Lecce 1898, R. Tipografia Editrice Salentina Fratelli Spacciante, Lecce 1898. Il suddetto articolo qui riproposto, non risulta inserito nei repertori bibliografici dei testi da noi consultati che si sono occupati del tarantismo;
G. Spagnolo, E ballanu e ballanu, in “Lu Lampiune”, a. XII, 1996;
G. Stefani (a cura di), Intense Emozioni in Musica, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, Bologna 1996 (nell’intervista fatta a Giorgio di Lecce ad Assisi 21 marzo 1995, vi è un ulteriore riferimento al Tarantismo a Novoli dove «c’era uno che esplorava nell’ambito di dodici arie») p. 111.
In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XXIII, 17 luglio 2016, pp. 17-21 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 345-352, Novoli 2024.
di Fabio Cavallo – Rocco Severino De Micheli – Luigi Sindaco
Il miracolo: definizione e criteri di riconoscimento
Secondo la teologia cattolica il miracolo è un evento straordinario che, andando al di là delle leggi naturali, si considera operato da Dio in forma diretta o per l’intercessione della Madonna o dei Santi. Benché la Chiesa non imponga l’obbligo di crederci, definendoli come un valido aiuto alla maturazione della Fede in Dio, i miracoli hanno rivestito un ruolo di prim’ordine nella millenaria storia del Cristianesimo. Ogni comunità di fedeli, dal piccolo villaggio alla grande città, annovera, nei suoi annali, almeno un evento soprannaturale attribuito al proprio patrono o al santo più invocato. Anzi, un tempo, la scelta del tutore celeste si è basata non tanto nell’imitazione della vita e delle opere ma sulla straordinaria capacità di compiere prodigi e guarigioni. La Chiesa, a differenza di altre religioni, da sempre ha analizzato i vari miracoli con occhio critico vagliandoli attraverso un rigoroso iter che prevede precise disposizioni canoniche e giuridiche che agevolano a fugare dubbi e false credenze.
Un valido esempio di tale severità viene dal “Bureau medical” di Lourdes (1) che ha lo scopo di raccogliere la documentazione medica delle guarigioni che annualmente avvengono presso il santuario. Ad oggi il “Bureau” conserva i dossier di circa 7000 casi di comprovate guarigioni ma di esse, solo 66, hanno superato positivamente i processi ecclesiastici e sono state ufficialmente dichiarate miracoli.
Venendo al nostro San Giovanni Elemosiniere, tutti i prodigi da lui operati sono stati analizzati da apposite commissioni curiali avvalendosi delle inflessibili disposizioni di papa Urbano VIII del 1630(2); pertanto sono considerati autentici e, di conseguenza, rappresentano i segni di un esplicito intervento di Dio nel corso della storia dell’uomo.
Il culto di San Giovanni elemosiniere a Casarano
Fino a pochi decenni addietro, era diffuso il convincimento che a introdurre a Casarano il culto verso San Giovanni Elemosiniere fossero stati i feudatari napoletani D’Aquino(3) per riconoscenza di un presunto scampato naufragio di alcuni loro navigli mercantili, sorpresi da un fortunale nel Mar Mediterraneo. Dobbiamo aspettare Padre Antonio Chetry(4), massimo personaggio storico della nostra città, il quale, in “Spigolature casaranesi”(5) , sua Opera Omnia, ribalta completamente questa tesi. Egli fornisce una serie di inoppugnabili documenti, desunti dagli archivi della Curia vescovile e della Parrocchia, i quali, già nel 1650, parlano di una chiesa “diruta” (diroccata) intitolata a San Giovanni Elemosiniere, il cui jus patronatus(6) è posseduto dalla corte baronale di Casarano “…da tempo che non è in memoria da homo…”.
I feudatari D’Aquino sono i quarti, in ordine di tempo, ad aver acquisito i feudi di Casarano e Casaranello. Prima di loro hanno governato i Conca, i Filomarino, i Tomacelli e sotto la loro amministrazione fungeva da parrocchiale proprio la cappella di San Giovanni Elemosiniere, oggi identificabile in un antico edificio, mutato nell’uso e nell’aspetto, che insiste in Via F.A. Astore al civico 10. Lo studioso prof. Antonio Sebastiano Serio, nel suo volume Casarano nel Tardo Medioevo(7) confermando l’antichità del culto, ci offre l’inedita e interessante notizia secondo la quale la devozione al presule alessandrino fu introdotta nella nascente Casarano ad opera dei Cavalieri Teutonici(8) che avevano come loro protettore San Giovanni Elemosiniere. Questa comunità di monaci militari era insediata fra gli anfratti della Serra di Casarano, in un particolare luogo, il cui toponimo era “alliFireri de Sancto Ianni” (ai fratelli di San Giovanni)(9).
E proprio in quell’epoca, l’odierna Casarano cominciava a svilupparsi tra le preservate zone collinari della Serra a discapito dell’originario borgo a valle, Casaranello, maggiormente esposto ai fenomeni atmosferici e alle frequenti devastazioni di predoni e saraceni. Ritornando ai D’Aquino, è storicamente fondato che essi furono molto votati al Santo, e tra essi, in modo particolare, il rampollo Giacomo, V duca di Casarano(10), il quale estrinsecò la sua devozione incaricando il sacerdote casaranese don Felice Lezzi(11), a stendere una monumentale vita del Santo in versi latini, e provvedendo a far stampare eleganti santini presso alcune stamperie tedesche, ottenendo, infine, dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, la concessione, per l’uso del clero locale, dei testi della Messa propria del santo con l’Ufficio, in precedenza accordati al Patriarcato di Venezia.
Il miracolo del 1715
Se oggi festeggiamo il patrocinio di San Giovanni Elemosiniere nella terza domenica di maggio lo dobbiamo certamente a un miracolo avvenuto nel 1715. Prima di affrontare quanto scrissero a tal proposito i cronisti del tempo, è bene fare alcune premesse.
Sino al 1688 la festa religiosa e civile di San Giovanni si teneva il 23 gennaio. Ciò si deduce da un manoscritto dello stesso anno, ad opera del notaio casaranese Santo Riccio(12) il quale descrive minuziosamente i miracoli e le guarigioni operate da un prodigioso affresco del Crocefisso, rinvenuto nella precedente Chiesa Madre del 1600(13). Il notaio narra che in quell’anno, il 27 gennaio, durante le pulizie e i lavori per rimuovere gli addobbi per la passata festa di San Giovanni, egli stesso fu testimone del rinvenimento dell’affresco posto dietro una tela. Ecco l’esatta descrizione del cronista redatta in uno stentato italiano frammisto a termini dialettali:
“…Allaude, e Gloria dell’onnipotente Iddio, Padre, figliuolo, e Spirito Santo, e della Gloriosa Vergine Santa Maria Madre d’Iddio, e di S. Gio. Elemosiniero nostro Protettore, il quale inpetrò frà l’altre dà S.D.M. per sollievo di tutto questo suo Popolo di Casarano, e per tutti li devoti, che à 27 Gennaro dell’Anno 1688 in giorno di Martedì ad hore 22 si manifestasse l’Effiggie del Santissimo Crocifisso dentro là Matrice Chiesa di Casarano dà dietro un quatro di Passione, che steva cadente disse à mè Notaro Santo Riccio Prò Sindico di questa Terra che lò facessi accomodare, e metterlo sopra conforme steva prima, havendomi ritrovato dentro detta Chiesa per là festività caduta di S. Gio: Elemosiniero nostro Protettore à 23 Gennaro di detto Anno 1688. Onde dissi alli Sacristani che pigliassero le scale per accomodare detto quatro, detti Sacristani mi risposero che ne voi fare di accomodare detto quatro, vi basta che ai compita la festività dell’Università, et à questa risposta corsi per pigliare là scala et il Sacristano Chierico Domenico de Paulis subitamente corse e la pigliò lui et il simile fece l’altro Sacristano Chierico Thomaso Castrignanò…sceso à basso detto quatro in tela con l’effiggie anco del Santissmo Crocifisso, viddimmo, et Io viddi l’effiggie di detto Santissimo Crocifisso con Maria Vergine à piedi della Croce et altre figure bellissime…”.
Il manoscritto continua illustrando dettagliatamente tutte le grazie concesse dal Crocifisso rinvenuto. Quindi è certo, a detta del Riccio, che in quegli anni, e fino a tutto il Seicento la festa di San Giovanni, sia religiosa che civile, convergeva nella data del 23 gennaio. La festa dell’“Università” è qui intesa come ricorrenza civica poiché il termine indica la municipalità. Poco meno di trent’anni dopo la situazione si ribalta.
In due interessanti manoscritti del 1717 e del 1799 si parla chiaramente della terza domenica di maggio come giorno dei festeggiamenti. Nel primo documento, datato 22 gennaio, amministratori e notabili di Casarano inoltrano una petizione presso il Re di Napoli per favorire l’istituzione di una fiera commerciale.
Nel memoriale recapitato attraverso la Camera Regia della Sommaria, i cittadini chiesero “…il Privilegio in perpetuum di poter fare la pubblica fiera in detta terra nella terza Domenica di Maggio…” per le “…infinite grazie che giornalmente li vengono concesse…” per intercessione del santo.
Ma qual è il motivo per il quale i Casaranesi avrebbero chiesto l’istituzione della festa del Patrocinio a maggio? La risposta ci viene nel secondo documento del 1799 che ci svela ogni dubbio! Ecco cosa scrive l’anonimo estensore in merito:
“…Nel secondo luogo viene l’altare del Glorioso, e miracoloso S. Gio. Elemosiniero Prottettore. Questo altare fù eretto l’anno 1714, benche non nel modo, che oggi si attrova, essendono provenuti i di lui avanzi nel modo che si dirà. Eretto questo altare per devotione del quondam Notaro Santo Riccio di questa Terra da certi leccesi lavorati, che anticamente erano della cappella del SS.mo Rosario, ricavò tanto di carità dei particolari, che vi pose nel mezzo una nova statua di lecceso del S.to, lasciando,e levando un’altra, che vi era nell’altare della Chiesa antica, perche di mal galbo. Fù questa rimessa in un’angolo al suolo della chiesa, tutta ravvogliata d’un lacero panno, dove una figliuola di sei in sette anni ogni giorno andava à portarli portione di sua merenda, acciò se la mangiasse, chiamando il Santo co’l nome di Nanni, perche, forse, lo vedeva esser vecchio. Continuando la figliola, ch’era nepote al presente Arciprete, tal semplice più tosto, che pietoso esercitio, un giorno nel regarli del pane, e formaggio, con sconvorgliarli prima i scritti stracci, s’avvide un’uomo, che si attrovò, che la statua sudava goccie di licuore à modo di acqua,et in copia non ordinaria. Secco il luoco, antica la statua, istupidì l’uomo a tal veduta, et accorso il popolo allo stupore, gli Chiesiastici, raccolto con decoro l’abbondante licuore rimesero la statua nel proprio altare, et ella mutata forma, e figura, divenne bella, e devota, come al presente si vede, e cominciò à larga mano, e profusamente à dispenzar gratie a chiunque chiedeva con fede, e devotione. De successi se ne porsero l’avvisi à Mons. Illmo di Nardò. Chi destinando persone dotte, e timorate, portatesi nel luogo, segretamente portata la statua del Santo nella Cappella di S. Antonio, chiesa appartata dalla Matrice, ivi serrata,di tutto l’accaduto ne presero diligentemente informatione, e provato ad abbastanza gli contati successi, quali si conservano nell’archivio di Nardò, fù la statua riposta al suo altare, ove affollati i forastieri à render voti, et à ricever gratie anno arricchita la di lui cappella al modo, che al presente si vede. Continua la devotione al Santo, benche non con quello fervore di prima. Gli chiesiastici però Capitolari osservano ogni attentione alla servitù del Santo, e l’officiali della cappella celebrano con pompa solenne la di lui festa, qual’è la 3 Domenica di maggio, giorno dell’inventione. La festa però natalitia del Santo è alle 23 di Gennaro. Le doti poi di detta cappella si rapportano con distintione all’inventario di detta cappella da farsi dal procuratore di detta Cappella…”.
Così come, già in precedenza, il termine “Università” aveva stuzzicato la nostra attenzione, facendoci concludere che, fino al Seicento, festa religiosa e civile coincidevano, anche qui un particolare termine balza ai nostri occhi: “invenzione”. Questo termine, in gergo ecclesiastico, indica il ritrovamento di reliquie o di oggetti sacri. Ma, in senso più ampio, sta a significare anche la scoperta di un fatto, di un episodio accaduto in circostanze straordinarie. E il versamento di lacrime dal simulacro, testimoniato da molti osservatori, è classificabile come un’invenzione, una scoperta. Lo zelante vescovo Sanfelice(14), che tanto lustro ha dato alla diocesi di Nardò, nella visita pastorale del 1719 fa trascrivere nei verbali di rito questo passaggio:
” [il Vescovo] visitò l’altare di S. Giovanni Elemosiniere, patrono di Casarano, eseguito con le offerte di molti pii uomini, e lodò. In quest’altare si venera la Sacra Immagine di S. Giovanni Elemosiniere che quattro anni prima [quindi nel 1715] con grande miracolo, pianse; della qual cosa fu fatto un processo… e questo comprovato. La stessa Sacra Immagine, per divina virtù, successivamente ha compiuto, e non cessa di compiere, dei miracoli e in tutta la Japigia, anzi in tutto il Regno di Napoli è corsa la sua fama e molti fedeli, dalle più remote regioni del Regno vengono a visitare la Sacra Immagine e parimenti per virtù divina e per intercessione del Santo, ricevono dei benefici”.
Molto corposa è la produzione documentale che accompagna questo avvenimento miracoloso.
Mutuando la tradizione ortodossa, quasi imitando il rituale dell’Artoclasia(15) la confraternita del Santo, nel rispetto di una secolare consuetudine, si prodiga alla preparazione e distribuzione dei panitteddhri, dei panetti benedetti. Sono delle piccole semisfere di pane biscottato che vengono dispensate tra i fedeli rievocando, in maniera ancora viva, quel gesto spontaneo della fanciulla che, oltre tre secoli addietro, condivideva col santo quel tozzo di pane che era la sua merenda.
I panitteddhri, secondo le credenze popolari hanno il potere di proteggere le abitazioni e i suoi residenti da calamità atmosferiche, in particolare da temporali.
Per questo motivo, è ancora ben radicata l’usanza di esporre i “panitteddhri” su davanzali e finestre recitando l’antica e popolare implorazione rigorosamente in dialetto: “Azzate San Giuvanni meu e nu ddurmire ca sta bisciu tre sciere, scire e bbinire: una te acqua, una te ientu e una te tristu maletiempu…”.
Concludendo, possiamo certamente affermare che il grande miracolo del 1715, comprovato pienamente da un processo canonico, oltre a determinare lo spostamento dei festeggiamenti del patrocinio(16) da gennaio a maggio, ha consolidato in maniera esponenziale la fede e il culto, semplici ma sinceri, dei nostri avi nei confronti di questo grande santo, principe della Carità.
Note
1) Presso il santuario di Lourdes si trova il Bureau des constatations médicales (l’Ufficio delle constatazioni mediche), costituito nel 1905 da papa Pio X, che opera secondo i criteri definiti nel XVIII secolo dal cardinale Lambertini, futuro papa Benedetto XIV, per i processi di beatificazione.
2) Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini (Firenze, 5 aprile 1568 – Roma, 29 luglio 1644), è stato il 235º papa della Chiesa cattolica dal 1623 alla morte. Il 23 marzo del 1630, emana il Decretum super electione sanctorum in patronos le cui disposizioni prevedono che nessun santo, tantomeno beato, può essere elevato a patrono di una comunità senza la celebrazione di un iter procedurale particolare. Bisogna innanzitutto che vi sia la volontà del popolo di voler elevare quel santo a patrono, che la città con le sue istituzioni ed i rappresentanti del clero approvino e dopo l’approvazione dell’Ordinario diocesano sia inviata apposita richiesta, con relativa documentazione, alla Sacra Congregazione dei Riti che valutandola, la sottoponga all’approvazione del pontefice per l’elevazione di un solo patrono principale.
3) La famiglia D’Aquino, di origini longobarde, è annoverata tra le sette grandi Case del Regno di Napoli. Il capostipite, molto probabilmente, fu Radoaldo che possedette la città di Aquino, nel Frusinate, verso la fine del IX secolo da cui, successivamente Adenolfo (*997 †1022), suo discendente, prese il cognome; La linea dei D’Aquino di Caramanico ha origine dai nobili di Taranto. Bartolomeo (Napoli, 1609-1658) uno dei capostipiti della dinastia, diventò uno degli uomini più ricchi del regno. Nel maggio del 1637 comprò i feudi di Casarano e Casaranello.
4) Antonio Chetry nacque a Casarano il 13 ottobre 1913 nell’allora “Palazzo Romano” posto in via San Pietro, da Gaetana Concetta Romano (classe 1879) e dal magliese Agostino (classe 1873). Dopo l’asilo infantile presso le Figlie della Carità e le scuole elementari di Casarano, entrò in seminario a Nardò ove frequentò il ginnasio, per poi, nel 1928, far parte della “Compagnia di Gesù” iniziando il noviziato a Napoli-Vomero, dove vi rimase sino al 1937, anno in cui fu ordinato sacerdote. Profondo conoscitore del latino e del greco, fu mandato dapprima a Lecce per l’insegnamento di queste materie presso l’Istituto “Argento” e poi nel dopoguerra a Bari presso l’Istituto “Di Cagno-Abbrescia”, dove insegnò sino al 1980. Si spense a Napoli il 31 ottobre 1984. La città di Casarano gli ha intitolato una strada cittadina.
5) Quaderni I – VI, 1979, Bari – Laterza Editore.
6) E’ il diritto del fondatore della cappellania di scegliere e nominare il cappellano.
7) Collana “Quaderni di Kèfalas e Acindino”, 2020, Manduria – Barbieri Selvaggi Editore.
8) Antico ordine monastico-militare e ospedaliero sorto in Terra Santa nel 1191 all’epoca della “Terza crociata”, conosciuta come “Crociata dei Re”.
9) Per approfondire l’argomento si segnala, in questo portale, “I Cavalieri Teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno” di Marcello Gaballo;
e il più recente M. Gaballo, Nuovi studi sui cavalieri teutonici a Santa Maria al Bagno e sulle vicende della masseria Fiume, in Santa Maria al Bagno e l’accoglienza dei profughi ebrei di Paolo Pisacane e Marcello Gaballo, Galatina, Mario Congedo, 2021, pp. 19-40.
10) Giacomo D’Aquino (*7 giugno 1716 †26 ottobre 1788) era figlio del duca Giacinto e di donna Giulia Belli.
11) Felice Lezzi (Casarano, † 17 settembre 1785), dotto latinista ed umanista, fu sacerdote mansionario del Capitolo di Casarano.
12) Santo Leonardo Riccio nacque a Casarano il 28 maggio 1651; fu notaio, vice sindaco e dal 1691 anche chierico istituito. Morì a Casarano il 12 ottobre 1726. Rogò in diversi centri del Salento e persino nel casale di San Giorgio (l’attuale San Giorgio Jonico nel Tarantino).
13) Archivio della Curia vescovile di Nardò, “Libretto dei miracoli operati dal Santissimo Crocifisso di Casarano e compiuti nella Chiesa Matrice di questa città il 27 gennaio 1688 e raccolti dal sottoscritto Santo Riccio, indegno peccatore”.
14) Antonio Sanfelice (1660-1736) fu vescovo di Nardò dal 24 dicembre 1706 al 1° gennaio 1736.
15) Il termine “artoklasia” deriva dal greco (lett. divisione del pane) ed identifica un rito proprio della chiesa ortodossa.
16) La ricorrenza del patrocinio è il giorno in cui un santo viene festeggiato nella sua veste di patrono della località. Differisce dalla ricorrenza liturgica che è fissata dal Martirologio e vale per tutta la Chiesa universale.
Forse sarebbe stato più corretto sostituire il tra del titolo con del, poiché le uniche due fonti reperite risalgono a quei secoli. Tuttavia è legittimo supporre che nel secolo XVI la situazione non fosse diversa.
Conviene preliminarmente accennare alle modalità dell’istituzione in oggetto, che nel tempo rimasero comuni a molti luoghi, indipendentemente dall’autorità, laica o religiosa, deputata a far eseguire la sentenza. Di regola l’esecuzione, che era pubblica per servire da deterrente1, avveniva in un luogo appositamente attrezzato sito, se possibile, in una posizione elevata rispetto alla limitrofa strada, per consentire un’agevole visione del triste spettacolo, sempre al confine di una giurisdizione, all’entrata nel territorio di una città o di una signoria.
In casi eccezionali, di rilevanza religiosa (eresia, stregoneria) o politica (oppositori del potere in carica), l’esecuzione avveniva nella piazza principale della città e in questi casi veniva utilizzata una forca che potremmo definire portatile, a differenza della prima, che era fissa.
L’immagine che segue, un’incisione di Jacques Callot (1592-1635) custodita al Louvre, mette in rilievo già nel titolo la finalità primaria, diremmo quasi una prevenzione basata sull’errore e sul terrore,, dell’esecuzione pubblica: Supplicium Sceleris Fraenum (L’esecuzione capitale freno della sceleratezza).
Ulteriore sviluppo del concetto è nella didascalia: Voy, lecVteur, comme la Justice par tant de supplices divers, pour le repos de l’univers, punit des mechans la malice, par l’aspect de ceste figure tu dois tous crimes eviter, pour hereuse ment t’extempter des effectz de la forfaicture (Vedi, lettore, come la giustizia mediante tante esecuzioni capitali diverse per la tranquillità dell’universo punisce la malizia dei malvagi; grazie all’impatto di questa raffigurazione tu devi evitare tutti i crimini , con felice mente liberarti degli effetti della disonestà.
Ancora un’incisione, questa volta di Claes Janszoon Visscher (1586–1652) custodita nella National Portrait Gallery di Londra, offre un’eloquente idea di tre diversi tipi di esecuzione capitale.
Nel cartiglio , retto dalla Giustizia e dalla Fama, si legge: SUPPLICIUM de octo coniuratis sumptum in Britannia, diebus 30, et 31 Ja, stÿl. vet., vel Anno MDCVI Sumptum quidem separatim de quaternis, Sed tamen propter eandem omninp Supplicij rationem, hac tabella coniunctim expressum (Punizione inflitta in Gran Bretagna ad otto cospiratori nei giorni 30 e 31 gennaio secondo una vecchia usanza nell’anno 1606 invero inflitto separatamente in gruppi di quattro ma tuttavia per lo stessa finalità di punizione rappresentata congiuntamente in questa tavola). Da sinistra verso destra: apertura del torace con l’accetta ed estrazione del cuore (n. 1), impiccagione (n. 2), squartamento (nn. 3-8). Di seguiti i dettagli relativi al n.1 e al n. 2 e e per lo squartamento solo il n. 3.
Per Nardò la prima fonte è in una pergamena contenente un atto del 20 luglio 14432, nella quale si legge: … item asseruerunt et testificati sunt dicti inventatores limites seu fines et confinia dicti casalis procedere modo sub(scrip)to , videlicet incipiendo a partibua in quibus sunt furche de novo constructe in tenimento Neritoni, iuxta territorium prelibati casalis, que sunt posite iuxta viam ca(r)raliciam per quam itur Neritono Derneum, iuxta feudum nominatum de Fango3 … ( … parimenti i detti incaricati a fare l’inventatio asserirono e attestarono che i limiti, o territori e confini di detto casale3 procedono nel modo sottoscritto, cioè cominciando dalle parti in cui ci sono le forche costruite di recente nella giurisdizione di Nardò presso il territorio del casale prima esaminato4, che sono poste presso la via carrabile per la quale si va da Nardò all’Arneo, presso il feudo chiamato del Fango …).
Questa descrizione così precisa, indotta dalla necessita di descrivere dettagliatamente i confini del casale di Ignano, poco più avanti cede il posto ad un’altra citazione delle forche, la cui lapidarietà non suscita nessun rimpianto grazie all’esaustività della prima. lnfatti vi si legge: … dirigit per viam publicam usque ad patibulum seu furcas predictas…5 ( … va direttamente attraverso la via pubblica fino al patibolo o forche predette …).
La seconda testimonianza è in Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Giovanni Battista Biscozzo di detta Città6. Vi si legge: A 20 agosto 1647 … nell’istessa notte fu ammazzato il Barone Pietrantonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo d’anni 37, morto che fu l’appesero per piede alle furche mezzo della Piazza, e le teste delli preti, furono poste su il Sedile, e li corpi de medesimi distesi nella piazza attorno le furche.
Qui le forche (furche fa pensare al modello per esecuzioni multiple), appare non come strumento di esecuzione ma come componente di una macabra coreografia destinata a non essere mai desueta e che tecnicamente ha il nome di esecuzione postuma (eseguita in alcuni casi addirittura dopo la riesumazione!)8.
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1 Non a caso patibolo è dal latino patibulum, composto dalla radice del verbo patère (=essere aperto) e da un suffisso indicante strumento (come in conciliabolo, turibolo e non molti altri).
Forca, che è dal latino furca(m), usato estensivamente per patibolo, all’origine indicava un ramo biforcuto, poi, per somiglianza di forma l’attrezzo agricolo e quello utilizzato per l’impiccagione. Di questa voce, come s’è detto di origine agricola, straordinaria è la polisemia, cioè la pluralità di significati che essa ha assunto nel tempo e che già in origine era notevole, tanto che qui ci si limita a ricordarne solo alcuni. Nel latino classico, infatti, poteva designare, oltre alla forca e al forcone, anche il puntello, il palo di sostegno forcuto, il giogo, il patibolo per gli schiavi e, al plurale, le chele del granchio. Nel latino medioevale furca designava il diritto di erigere nel territorio di un feudo un patibolo e di procedere alle esecuzioni; il diminutivo fùrcula designava la parte del petto dove si diramano le vene epatiche; furco designava un campo che biforcandosi ne includeva un altro; la locuzione furca et rastrum designava il diritto spettante al padrone nei confronti di coloro che avevano l’obbligo di raccogliere con la forca o col rastrello il suo fieno; la locuzione furca putei designava la trave, posta in alto sul pozzo che regge l’attrezzatura necessaria per attingere l’acqua. E poi, più vicini al nostro tempo, forcella, forcina, forchetta, fiocina, forcipe e le locuzioni inforcare la bicicletta, inforcare gli occhiali e pendaglio da forca.
2 La pergamena è pubblicata in Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardo(1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari,1981, pp. 114-121.
3 Le pergamene …, op. cit., p, 120
4 È quello di Ignano.
5 Le pergamene …, op. cit., p, 121
6 Pubblicato da Nicola Vacca in Rinascenza Salentina, n. XIV, 1936, pp. 1-25.
7 Libro d’annali … op. cit., p. 16
8 Un’esecuzione postuma in senso lato per quanto riguarda il potere religioso può essere considerato il divieto di sepoltura dei morti in disgrazia non solo all’interno di una chiesa ma delle mura cittadine. A Nardò ad essi era riservata un’area in corrispondenza dell’attuale Osanna, di fronte a Porta San Paolo. Sono sempre le testimonianze scritte che ci informano di questo: il 17 aprile 1724 “fu uccisa Maria di Nardò dal fratello Carlo Fornaro in campagna, e proprio dentro la casa dei fratelli di Cantore, dirimpetto alla chiusa delle Stanzie”. L’ospedale di Nardò spese 45 grana “per farla portare in città e poi farla pregare fuori di Chiesa e proprio vicino alla Chiesa della Carità”. Il virgolettato si legge nel Carteggio dell’Ospedale S. Giuseppe-Sambiasi (1650-1938). Va ricordato pure a tal proposito che solo nel 1983 il nuovo codice di diritto canonico non contiene nessun riferimento ai peccatori pubblici e manifesti (tra essi erano anche i suicidi), ai quali l’articolo 1240 del vecchio canone proibiva il consueto funerale.
Il saggio Ernesto De Martino e Vittorio Macchioro – Storia di un’inquieta relazione affettiva e intellettuale dello storico della filosofia Romualdo Rossetti, edito da Kurumuny per la collana «Pensieri Meridiani», esamina nel dettaglio e nella più rigorosa ricerca diacronica quali furono gli eventi che legarono due importanti intellettuali del Novecento italiano: il giovane Ernesto De Martino e Vittorio Macchioro, uno dei più importanti antichisti e arche-iconologi che diverranno, nel corso della storia narrata, allievo e maestro ma anche genero e suocero, in un percorso iniziatico di crescita personale. Nell’enucleare l’avventura esistenziale dei due personaggi l’autore ha tenuto in debito conto i maggiori avvenimenti che segnarono culturalmente e politicamente l’Italia dai primi anni del XX secolo fino agli anni Sessanta.
La struttura dell’opera, ideata e creata come un intricato gioco di “scatole cinesi” per dar risalto al pàthos narrativo è suddivisa in undici capitoli, tutti minuziosamente redatti sotto il profilo biografico. In questi si è fatto riferimento costante a tutto il carteggio esistente tra De Martino e Vittorio Macchioro unitamente alla corrispondenza più importante tenuta dal primo nel corso della sua formazione professionale; compaiono, infatti, missive destinate ad autori del calibro di Adolfo Omodeo (professore con quale De Martino si laureò in Filosofia a Napoli dibattendo – consigliato e assistito da Macchioro ‒ la tesi sui Gephyrismi eleusini), Benedetto Croce, Raffaele Pettazzoni, Ernst Cassirer, Ernesto Bozzano, Remo Cantoni, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Rocco Scotellaro e molti altri.
Il saggio prende inizio dagli avvenimenti che segnarono la vita del giovane Ernesto De Martino, dai rapporti con la sua famiglia al suo precario stato di salute minato dall’epilessia, dal corso disordinato dei suoi studi per aver seguito gli spostamenti lavorativi del padre alle sue convinzioni politiche legate alla mistica fascista per un possibile varo di una Religione Civile atta a forgiare una nuova tipologia antropologica e politica.
Si passa, poi, al secondo capitolo dove si tratteggia il complesso ritratto umano e professionale di Vittorio Raffaele Macchioro, intellettuale e ricercatore di origini ebree di rito sefardita nato a Trieste nel 1880 ma residente a Napoli, divenuto un importantissimo antichista e divulgatore d’alto prestigio, nonché archeologo e iconologo propugnatore d’un nuovo indirizzo di ricerca ermeneutico legato allo spirito dell’artista produttore e al modus di vivere il pensiero religioso antico che il professore triestino trovò impregnato di misticismo pagano. Nel capitolo trovano posto le sue vicissitudini personali del personaggio, le sue pubblicazioni, i suoi successi accademici ma anche i suoi clamorosi fraintendimenti, primo fra tutti, l’aver ostinatamente voluto credere che la destinazione ultima di Villa Item a Pompei fosse quella iniziatico rituale di stampo orfico. Non si è tralasciato di narrare la sua tormentata vita religiosa che lo portò negli anni universitari ad abbracciare la fede cattolica per poi transitare nell’evangelismo di stampo valdese e in altre confessioni riformate.
Il terzo capitolo, esamina invece, l’inizio del discepolato che vide Macchioro legarsi sempre più a De Martino, il cui discepolato prendeva a tratti le parvenze di una vera e propria avventura iniziatica, mentre le missive del maestro testimoniano una paternalistica buona propensione verso le aspirazioni del giovane intellettuale ‒ arricchita da suggerimenti riguardo ai rischi di una Religione Civile da lui ingenuamente vagheggiata.
Nel capitolo seguente si darà spazio all’avventura indiana di Vittorio Macchioro, che su incarico del console Scarpa, dovette recarsi in India in qualità di visiting professor per tenere un ciclo di conferenze sull’orfismo e la religione greca arcaica da tenere presso le università Hindu di Benares, Delhi, Calcutta, con lo scopo recondito e strategico di costruire un ponte culturale con l’Italia per gli intellettuali nazionalisti indiani il tutto in aperta funzione antibritannica. Nel capitolo si descrivono le sensazioni provate dal professore triestino riguardo lo spirito religioso indiano e la filosofia e la pratica dello Yoga, disciplina che lo attrasse a tal punto da farlo divenire un fervente adepto e praticante. Non vengono tralasciate le misteriose vicende che lo videro coinvolto in un intrigo di spie inglesi gestito dal chiromante Alastor che gli avrebbero fatto fallire il piano a lui affidato da Benito Mussolini, all’epoca ministro degli Affari Esteri ad interim.
Al capitolo segue il triste rientro in Italia di Macchioro e il suo trasferimento d’ufficio nel 1936 a Trieste, presso la Soprintendenza della Venezia Giulia, per assolvere il ruolo di direttore responsabile degli scavi archeologici del teatro romano della città, e la tentata scalata nel mondo letterario italiano, avventura costellata da delusioni pubbliche e private, da difficoltà nel trovare un editore disposto a prendere in seria considerazione i suoi scritti, che lo portò a legarsi morbosamente a una cartomante e a praticare con una certa assiduità la pratica sticomantica. Fu il periodo in cui prese vita un primo distacco con De Martino, divenuto nel frattempo suo genero, reo di essersi troppo avvicinato al “Circolo di Villa Laterza” e in particolar modo Benedetto Croce, colui il quale, tempo prima, aveva ostacolato la sua nomina alla cattedra di Storia del Cristianesimo presso la Regia Università di Napoli preferendogli Adolfo Omodeo.
Nonostante tutto quel periodo vide anche la realizzazione del sogno di dare alle stampe ‒ per merito di de Marino, che nel frattempo era divenuto suo genero e che era riuscito a trovare un editore, il salentino Oreste Macrì, disposto a farsi carico di due progetti narrativi ‒ il romanzo Il gioco di Satana che venne pubblicato nel 1938 anche all’estero e quello intitolato La grande luce dato alle stampe nel 1939. I rapporti tra i due si sarebbero, poi, irrimediabilmente interrotti per un moto di ira e gelosia del triestino, che si sentì utilizzato e poi abbandonato dal vecchio allievo a anche suo genero sempre più ammaliato dalla personalità forte e autorevole di Benedetto Croce. Il capitolo si conclude con il rientro a Napoli di Macchioro per il varo delle leggi razziali e il suo internamento presso vari centri di reclusione delle Marche destinati agli ebrei e ai nemici di guerra.
La storia, però continua e nell’annoverare la parabola discendente dell’uno si dà risalto a quella discendente dell’altro, che darà alle stampe, presso la casa editrice barese Laterza, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, il suo primo saggio, nel quale con uno stile polemico attaccò tutte le scuole di pensiero europee, e in particolar modo quegli autori come émile Durkheim, Lucien Lévy-Bruhl, Edward Burnett Tylor, James George Frazer e padre Wilhelm Schmidt che avevano catalogato erroneamente il pensiero dei cosiddetti “Primitivi”. A suo avviso sarebbe stato opportuno, invece, rifondare l’etnologia sotto i presupposti filosofici dello storicismo crociano in quanto unico indirizzo gnoseologico utile alla ricerca.
La pubblicazione di Naturalismo e storicismo nell’etnologia fece sì che il giovane De Martino ‒ che nel frattempo avendo vinto il concorso a cattedra per l’insegnamento di Storia e Filosofia aveva ottenuto la cattedra di docente al Liceo scientifico barese “A. Scacchi” – frequentasse assiduamente gli intellettuali che attorniavano Benedetto Croce, quando era ospite degli editori Laterza. Tra questi si sarebbe legato a Michele Cifarelli, Fabrizio Canfora e soprattutto a Tommaso Fiore.
La narrazione prosegue esaminando la palingenesi politica di Ernesto De Martino che da iniziali posizioni spiritiane si andò avvicinando progressivamente a quelle di Giustizia e Libertà, creando insieme ai personaggi sovra menzionati, ad esclusione di Benedetto Croce, fermo su posizioni dottrinarie liberali puriste, la prima cellula antifascista barese di ispirazione liberalsocialista, avventura che si sarebbe conclusa tragicamente con la sua delazione, sotto un brusco interrogatorio dell’OVRA, contro Tomaso Fiore. Quell’atto costò a quest’ultimo la prigionia in vari luoghi di detenzione fascisti, e al giovane De Martino in un trasferimento a Lucca. Da lì il giovane docente napoletano avrebbe maturato altre convinzioni politiche prendendo parte attiva alla Resistenza Romagnola transitando nel PdA, fino ad aderire al PSIUP, passando per il Partito Socialista dei Lavoratori (Italia).
In quel contesto di disordine bellico ed esistenziale avrebbe presso forma il suo lavoro saggistico più importante, edito dalla casa editrice Einaudi, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, di cui si esamineranno nell’ordine la gestazione, la nascita e le ripercussioni culturali, senza per questo trascurare altri importanti scritti minori.
La nascita de Il mondo magico coincise con la creazione della Collezione di studi religiosi etnologici e psicologici Einaudi che sarebbe stata riconosciuta col nome di Collana Viola, fortemente voluta da Ernesto De Martino e Cesare Pavese, la cui storia è stata descritta dettagliatamente nel nono capitolo.
Nel decimo, invece, si è dato risalto all’avventura etnologica di De Martino nella Lucania di Rocco Scotellaro che seguì la bussola meridionalistica e concettuale del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e alla militanza, a volte scomoda, nelle fila del PCI di Palmiro Togliatti fino alla rinuncia al tesseramento annuale per solidarietà al popolo ungherese. La narrazione delle spedizioni in Lucania che avrebbero sancito la nascita di Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria e buona parte di Sud e Magia, la prima e la seconda opera della trilogia meridionalistica di De Martino fungeranno da spina dorsale del penultimo capitolo.
L’ultima parte del saggio analizza l’anno 1959, per entrambi gli autori. Anno di morte per Macchioro, sempre più minato nello spirito e nella mente, dalle sue traversie esistenziali che lo portarono, dopo la more di sua moglie Rosita Parra a rinchiudersi in un convento; anno ricco di successi invece per De Martino che si aggiudicò il primo premio “Viareggio Repaci” per la sezione saggistica con Morte e pianto rituale nel mondo antico e per aver vinto in concorso a cattedra universitario in Storia delle religioni che lo vedrà insediarsi a Cagliari l’anno seguente.
Non manca l’esame dettagliato delle varie convergenze intellettuali tra i due autori che ebbero come comune punto d’incontro, di vivere i risvolti del pensiero religioso sulle loro esistenze personali.
Finalmente è ritorna a casa Santa Filomena, dopo decenni di oblio… Nella parrocchia S.M. Addolorata, ad Alezio, sono stati presentati i lavori di restauro della stupenda statua della Vergine Martire Filomena; un vero gioiello della cartapesta della prima metà del XIX secolo. Un lavoro certosino quello svolto dal M° restauratore Valerio Andrea Giorgino, il quale ha impiegato un bel po’ di tempo, quasi due anni, prima di poter riportare la statua al suo splendore originale! Una gioia per l’intera comunità aletina, poter riabbracciare questa statua che non si vedeva in Chiesa da un bel po’. Una statua alla quale molti devoti si sono rivolti chiedendo una grazia e che ora potranno rivedere in tutta la sua bellezza, quella bellezza di una giovane ragazza che ha donato tutta se stessa per seguire il Signore.
Dietro questa statua però c’è ben altro, c’è una vera e propria storia.
Agli inizi dell’800 nell’entroterra di Gallipoli, quando ancora non esisteva neanche il comune di Villa Picciotti, ma solo una contrada con questo nome, un facoltoso commerciante e proprietario terriero, Cataldo Mezzi, proprietario di questa statua in cartapesta di Santa Filomena, decide di intraprendere un’iniziativa che avrà ripercussioni significative nella storia di questa comunità. Raccogliendo un diffuso sentimento del popolo e di altre influenti famiglie del luogo invia, in data 18 dicembre 1837, una supplica al vescovo di Gallipoli Giovanni Maria Giove per richiedere l’erezione di una seconda chiesa da intitolare alla Santa cui la sua famiglia è devota: Santa Filomena.
Da questo documento rintracciato nell’archivio diocesano di Gallipoli ha avuto inizio il percorso che ci ha portati ad approfondire e a ricostruire quanto avvenuto successivamente.
La chiesa appena finita di costruire venne intitolata alla B.V. Maria Addolorata, e non a Santa Filomena, come chiesto dal Mezzi, al quale, invece, fu concessa la costruzione di un altare ad essa consacrato.
La statua di Santa Filomena è diventata, anni dopo, di proprietà della parrocchia dell’Addolorata in quanto, il Sig. Cataldo Mezzi, non potendo più, probabilmente per motivi economici, costruire l’altare, poi edificato dalla famiglia Coppola, la cedette al Sig, Teopisio Leopizzi, il quale la donò alla erigenda nuova chiesa.
L’averla restaurata con grande maestria e col riproporsi di quell’antica e nobile “beneficenza popolare”, non significa solo rinnovare una sincera devozione ma ridare anche la giusta dignità ad un patrimonio artistico di notevole importanza che, in una società secolarizzata come la nostra, rischierebbe di non avere più la giusta collocazione nel comune e lungo cammino di fede che ci appartiene.
Questo lungo cammino secolare va a toccare proprio tutta la comunità aletina, dal povero bracciante, al ricco proprietario terriero, tant’é che vide svilupparsi attorno a questa Santa una forte devozione non solo in chiesa, ma anche famigliare.
La supplica di Cataldo Mezzi e l’esistenza dell’altare all’interno della chiesa dell’Addolorata, così come la presenza della statua in cartapesta di pregevole fattura, dimostrano il culto anche ad Alezio.
Presso la Parrocchia S.M. Addolorata, già chiesa comunale, si attesta, con documentazione, che si venerava devotamente la santa con un triduo in preparazione alla festa religiosa del 13 Agosto.
Ad Alezio era diffusa la devozione a Santa Filomena anche in alcune famiglie nobili.
Ne danno testimonianza, ancora oggi, la Fam. Verardi – Coppola e la Fam. Leopizzi – Napoli, le quali, tuttora, custodiscono due statue di Santa Filomena, dove essa è rappresentata distesa supina.
Particolarità della statua della Fam. Verardi – Coppola è il campanellino posto vicino la mano sinistra della santa. Questa statua appartiene a questa famiglia da molte generazioni. Devozione voleva che il campanello suonasse quando la santa esaudiva le preci ricevute, compiendo quindi il miracolo.
Un aneddoto racconta che realmente in passato il campanello abbia suonato. La Sig.ra Mara (Maria Rosaria) Coppola (moglie del dott. Carlo Verardi) nel 1949, a soli 10 anni, era a letto febbricitante e con forti dolori al bacino, ma nessuno riusciva a capire da cosa fosse affetta. Un giorno venne a farle visita la sua prozia, Bianca De Simone, la quale sentì suonare il campanello, così fu scoperto che il male sofferto dalla piccola fosse una grave peritonite. La Sig.ra Mara è parente della Fam. Coppola che ha commissionato l’altare.
Grazie all’ausilio della Sig.ra Assunta Napoli siamo riusciti a risalire alla provenienza di queste statuette, nonché da dove sia giunta la devozione verso questa santa. Ebbene, la statuetta della Sig.ra Assunta le era stata donata dalla nonna Carmela Ria, una nobildonna di Tuglie; la madre di Carmela apparteneva alla nobile Famiglia Fiodo di Sorrento.
La nonna della Sig.ra Mara Coppola si chiamava Vita De Simone ed era imparentata con la famiglia Ria di Tuglie, quindi, la Sig.ra Mara e la Sig.ra Assunta sono lontane parenti tra loro.
La Sig.ra Anna Maria Bidetti custodisce anche lei una statuetta di Santa Filomena che le fu regalata dalla madre Donna Ottavia Fiorito, sorella di Elettra, moglie di Carlo Coppola, il figlio di Giuseppe Francesco Coppola, il quale commissionò la costruzione dell’altare di Santa Filomena.
Dunque, tutto è chiaro, la devozione verso questa Santa è nata a Napoli e si è diffusa in tutto il Regno delle Due Sicilie, giungendo anche ad Alezio, tramite queste nobili famiglie.
Ma perché tutto è partito dal cuore partenopeo del Regno Delle Due Sicilie?
Ebbene, dopo varie vicissitudini che illustreremo in seguito, Santa Filomena, per grande devozione della Famiglia reale Borbonica, divenne seconda Patrona del Regno.
L’altare più antico era quello dedicato a Santa Filomena. Questo altare in pietra leccese fu edificato nel 1856, con il contributo di Giuseppe Francesco Coppola. A ricordo della costruzione possiamo ancora ammirare una lapide in marmo (sulla sinistra) e lo stemma della famiglia Coppola (dipinto ai due lati dell’altare), rappresentante due leoni rampanti e un calice, sormontati da tre gigli. Gli stessi gigli dell’araldica familiare li ritroviamo sulle sei guglie che sormontano l’altare. Attualmente al di sopra della mensa si trova la nicchia con la statua della Madonna Immacolata; anticamente vi era invece una tela raffigurante Santa Filomena. Al di sopra vi era una cornice in legno dorato ovale contenente una stampa della B.V. Maria Immacolata. Tale quadro anni fa è stato rubato, ma grazie alle testimonianze orali è stato possibile riprodurlo, rifacendo anche la cornice su misura e in maniera antichizzata.
Proprio questa raffigurazione era posta all’apice di questo altare, perché una delle nicchie laterali di questa cappella, conteneva la statua della B.V. Maria Immacolata (la quale ora si trova nella nicchia al centro di detto altare come si può vedere in foto).
Non è un caso per cui questo primo altare di questa nuova chiesa in quel di Villa Picciotti, fosse dedicato a Santa Filomena e aveva anche la stampa della Madonna Immacolate, nonché le due statue (Santa Filomena e Immacolata) nelle due nicchie laterali della cappella. Infatti, patrona principale del Regno delle Due Sicilie era la B.V. Maria Immacolata, insieme a San Gennaro, e seconda patrona Santa Filomena, insieme a San Francesco di Paola.
Oltre la statua di Santa Filomena e l’ovale della Madonna Immacolata, sono state sistemate la nicchia che ospita la statua, l’impianto della luci dell’altare, la tovaglia dipinta a mano recante i simboli della santa e lo stemma gentilizio della famiglia Coppola. Inoltre è stata pulita la lapide in ricordo dell’erezione dell’altare di Santa Filomena e tutto lo stesso altare da cima a fondo.
Il culto di Santa Filomena ha origine a Roma il 25 maggio del 1802 durante gli scavi nelle catacombe di Priscilla sulla via Salaria, quando vengono scoperte le ossa di una giovane di tredici o quattordici anni e un vasetto contenente un liquido ritenuto sangue della Santa. Il loculo era chiuso da tre tegole di terracotta su cui era inciso: “LUMENA PAX TE CUM FI”. Si credette che, per inavvertenza, fosse stato invertito l’ordine dei tre frammenti risalenti tra il III e il IV sec d.C. e che si dovesse leggere: “PAX TE / CUM FI / LUMENA” cioé: “La pace sia con te, Filomena”. I diversi segni decorativi intorno al nome inoltre – soprattutto la palma e le lance – portarono ad attribuire queste ossa ad una martire cristiana dei primi secoli. All’epoca, infatti, si riteneva che la maggior parte dei corpi presenti nelle Catacombe risalissero alle persecuzioni dell’epoca apostolica.
Furono queste reliquie ad essere in seguito portate, per richiesta del sacerdote nolano Francesco De Lucia, a Mugnano del Cardinale, in provincia di Avellino, nella chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, dove sono tuttora. Qui i primi miracoli raccontati proprio da mons. De Lucia. Attirato da quanto succedeva papa Leone XII concesse al santuario la lapide originaria che Pio VII aveva fatto trasferire nel lapidario Vaticano. Nel 1833, in questo contesto, si inserì la “Rivelazione” di suor Maria Luisa di Gesù che contribuì a diffondere il culto di Santa Filomena in Europa e in America. Personaggi noti come Paolina Jaricot, fondatrice dell’Opera della Propagazione della Fede e del Rosario vivente, e il santo Curato d’Ars ricevettero la guarigione completa dei loro mali per intercessione della santa e ne divennero ferventi devoti.
La «Pia Rivelazione» di suor Maria Luisa di Gesù fu approvata dal Sant’Uffizio il 21 dicembre 1833, a indicare che non conteneva nulla di contrario agli elementi della fede.
La fama dei miracoli della santa cominciò a diffondersi dovunque, principalmente in Italia e nella Francia meridionale. I membri della Casa Reale dei Borboni furono tra i primi ad affacciarsi alla devozione a questa martire taumaturga.
Il culto a santa Filomena si propagò enormemente, sia nella penisola italiana che in Francia, tanto che la chiesa della Madonna delle Grazie divenne santuario a lei dedicato.
La statua donata nel 1806 dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla, arcivescovo di Napoli, trasudò manna per tre giorni consecutivi, durante i festeggiamenti del 1823.
Nel 1827, tramite la mediazione di monsignor Ludovici, papa Leone XII donò al santuario le pietre tombali del sepolcro, che papa Pio VII aveva fatto trasferire nel Lapidario Vaticano. Nel 1836, Mugnano fu preservata dall’epidemia di colera; questa liberazione fu attribuita alla santa.
Il 30 gennaio 1837, in seguito ai miracoli ottenuti da Paolina Jaricot e da Giovanna Pascutti di Venezia, papa Gregorio XVI concesse il culto pubblico alla santa il giorno 11 agosto, l’Ufficio Divino per i sacerdoti della Diocesi di Nola e la Messa dal Comune di una Vergine e Martire per tutti gli altri sacerdoti.
Il Beato papa Pio IX concesse la Messa e l’Ufficio proprio il giorno 11 gennaio 1855. Durante il suo esilio a Gaeta, Pio IX si recò a Mugnano il 7 novembre 1849, dove dichiarò Santa Filomena “Seconda Patrona del Regno delle Due Sicilie”.
E’ proprio il racconto di suor Maria Luisa a svelare la storia della santa. La suora affermò che la vita di Filomena le era stata narrata per “rivelazione” dalla santa stessa.
Filomena sarebbe stata figlia di un re della Grecia convertitosi al cristianesimo insieme alla moglie. Nasce nel III sec. d.C., il 10 Gennaio e a 13 anni consacrò a Dio con voto la sua castità verginale. Fu allora che l’imperatore Diocleziano dichiarò guerra a suo padre: la famiglia si vide costretta allora a trasferirsi a Roma per trattare la pace. L’imperatore si innamorò della fanciulla, ma al suo rifiuto la sottopose ad una serie di tormenti. Filomena venne flagellata, ma due angeli la guarirono. Fu poi legata a un’ancora e gettata nel fiume Tevere, ma fu nuovamente salvata. Venne quindi colpita con frecce, ma i dardi furono deviati anche dopo essere stati arroventati. Alla fine, venne decapitata il 10 agosto.
L’ancora, tre frecce, una palma e un fiore sono i simboli, raffigurati sulle tegole del cimitero di Priscilla, che furono interpretati come simboli del martirio.
[Ma uno studio più approfondito dei reperti archeologici attestò l’assenza della scritta martyr e fece decadere la possibilità della morte per martirio; inoltre nell’ampolla trovata accanto ai resti si provò che non vi fosse sangue ma profumi tipici delle sepolture dei primi cristiani. In definitiva il corpo era di una fanciulla morta nel IV secolo. sul cui sepolcro erano state utilizzate tegole con iscrizioni di un precedente sepolcro. La Sacra Congregazione dei Riti nella Riforma Liturgica nel 1961 tolse allora dal calendario il nome di Filomena.]
Veniva venerata il giorno 13 Agosto.
La “Santina” del Curato D’Ars, come molti chiamano Santa Filomena, fu venerata in particolare da San Pio da Pietrelcina sin da bambino. La chiamava “la principessina del Paradiso” e a chi osava mettere in discussione la sua esistenza, rispondeva che i dubbi erano frutto del demonio e ripeteva: “Può pure darsi che non si chiami Filomena! Ma questa Santa ha fatto dei miracoli e non è stato il nome che li ha fatti!”. Tutt’oggi Filomena intercede per molte anime e numerosi fedeli si recano a pregare davanti alle sue spoglie. E’ considerata la protettrice degli afflitti e dei giovani sposi e molte volte ha donato la gioia della maternità a madri sterili.
Per concludere, riguardo la questione Filomeniana, non importa se veramente si chiamasse Filomena, se quei resti corrispondano a lei o a qualcun altro, ma volgendo lo sguardo a questa giovane fanciulla, vogliamo vedere in lei Lucia, Agata, Vittoria, Cecilia, Caterina, Agnese, tutte quelle giovani donne che donarono se stesse al Signore e non rinunciarono alla loro Fede fino all’ultimo, finché non subirono il martirio.
Sabato 20 Luglio 2024, durante la serata di presentazione dei lavori di restauro, è stato preparato un opuscolo in cui sono spiegate e approfondite le vicende di cui sopra, con allegato il materiale fotografico.
Chiunque volesse una copia di tale opuscolo, lo può richiedere direttamente a Massimiliano Albino Dei Sommi.
Tra i personaggi di una certa importanza che lo conobbero e gli testimoniarono con i loro scritti anche la loro stima ed amicizia (come ad esempio P. Scardino, Scipione Capece, lo stesso Bernardino Realino, Giovanni Manfredi, Filippo Formoso ecc.), va annoverato in particolare Prospero Rendella, prestigioso giureconsulto e storiografo monopolitano che lasciò un segno tangibile del suo magistero e della sua dottrina1. Le opere giuridiche di cui il Rendella fu autore sono molto importanti e numerose. Tra queste opere il Tractatus de vinea, vindemia et vino (uscito dai torchi prestigiosi dei Giunta di Venezia nel 1629) è quella che sembra aver conosciuto la maggiore diffusione anche fuori d’Italia2.
A parte ciò, l’opera riveste una particolare importanza per i quattro versi autobiografici (in epigrafe) dello stesso Rendella e per due “notevoli composizioni poetiche” in latino che a questi versi seguono. La prima reca la firma di Muzio Sforza (altro illustre figlio della terra monopolitana al quale il Rendella fu legato da vincoli d’amicizia e di stima); la seconda è proprio del nostro padre Francesco Guerrieri3. La presenza di uno scritto (si tratta di un carme, il primo del genere) del Guerrieri sull’opera del Rendella spinge a fare alcune considerazioni. Anzitutto dimostra che il Guerrieri all’epoca certamente fu “un animatore delle locali scuole gesuitiche”, almeno per alcuni anni fra il 1617 e il 1622. La sua sicura presenza a Monopoli è oltretutto attestata dalla stessa testimonianza che il Guerrieri rese il 22 gennaio 1624 (si trovava quindi già a Lecce) nel Processo Informativo sulla santità del Realino e soprattutto, come già detto, nei processi Remissoriali che la Sacra Congregazione dei Riti ordinò si tenessero a Napoli. Lecce Carpi fra il 1623 e il 1624. Quella deposizione si concluse con la narrazione di alcuni fatti prodigiosi (vissuti in prima persona) attribuiti dal Guerrieri al potente patrocinio del Santo e accaduti rispettivamente a Corigliano (qui il Guerrieri si era recato per «esorcizzare una energumena che era molto travagliata dal demonio» su invito del marchese dell’epoca e con licenza del parroco, una quindicina d’anni prima «predicando io la Quaresima»), a Monopoli appunto (qui parla di una donna chiamata Giulia moglie di un notaio con problemi per il parto risolti grazie ad un’immagine del santo data alla perpetua dal Guerrieri) e infine a Conversano (altra guarigione di una donna grazie all’immagine del Realino)4.
L’amicizia che intercorse tra il Rendella e il Guerrieri (pressoché coetanei) emerge infine chiaramente dallo stesso carme pubblicato sul De Vinea, in cui il dotto gesuita dà un quadro particolareggiato della sua personalità e della sua vita5. Un personaggio dunque straordinario (vissuto ai tempi di Alessandro II Mattei e con cui si relazionò certamente, ne battezzò infatti uno schiavo negro di nome Mattia il 15.01.1603 “nel giorno di S. Paulo eremita”6) che fu sicuramente “una gloria” non solo di Novoli ma dell’intera provincia salentina, una vocazione di san Bernardino Realino di cui, come già si è detto, ne continuò l’opera e gli insegnamenti7.
Oltre al miracolo del Pozzo rievocato dal padre gesuita Ettore Venturi, sappiamo infine che il padre Bernardino Realino durante la sua vita compì a Novoli un altro miracolo. Il fatto prodigioso, capitato ad una certa Porzia Pezzuto coniugatasi nel 1581 con Emidio De Luca, è narrato dallo stesso padre Francesco Guerrieri (indicato come testimone n. 27) nella sua deposizione giurata nel processo di beatificazione datata lunedì 22 gennaio 1624 e conservata presso l’Archivio S.J. a Borgo Santo Spirito in Roma8.
Concludo ricordando ciò che scrisse di lui “oggettivamente” (e non con enfasi come qualcuno ha affermato) Girolamo Marciano: «Vive oggi parimente di questo luogo il dottissimo P. Francesco Guerrieri Gesuita, filosofo, teologo, poeta ed oratore illustre, e lume nell’età nostra della greca e latina lingua in questa provincia»9.
La sua casa a Novoli era in via Moline al numero 36 (fu demolita) nella corte dove era situato l’ufficio di collocamento e anche una lapide che lo ricordava andata poi distrutta. Di tale casa del Guerrieri, si conserva ancora oggi l’architrave della porta d’ingresso con inciso il monogramma dei gesuiti. Il dottor Gerardo Spagnolo, quando fu demolita, ebbe fortunatamente il buon senso di recuperare e conservare presso di sé tale prezioso cimelio. Il padre Bonaventura da Lama, nella sua Cronica, nel “discorrere” della morte accadutagli nel convento francescano di Casalnuovo (l’attuale Manduria), nel mese di novembre dell’anno 1629, «assai preziosa agli occhi di Dio, mentre l’apparve il nostro Santo da Padova, di cui era divotissimo, composti molti Epigrammi in sua lode, esortandolo à prepararsi pe’l termine imminente della sua vita», così conclude la sua descrizione:
Così fu la morte di questo esemplarissimo Padre, senz’affanno, senz’agonia; e così esser doveva, se fu accompagnata da colui, à chi cedono la sua vista, la morte istessa co i travagli. Corsero tutti à piè sciolto, chiedendo per divozione o medaglie, o corone, o altro che fosse di lui, ma niente ottennero, perché niente portava. Quello indossava vivo, quello portò al sepolcro, eccetto il Breviario, un picciolo Crocefisso, e ’l Cappello, donati il primo, e l’ultimo per limosina ad un povero Prete, e ’l secondo, richiesto dal P. Custode per sua divozione. Suonarono tutte le campane della Terra à mortorio, e da’ Preti, e da Religiosi furono sollennemente celebrate l’esequie. Sembrava in quel giorno l’Indulgenza della Porziuncola nell’entrare, ed uscire, piangendo tutti per tenerezza, e baciãndo il santo cadavere candido, e rosseggiante, mantenendo l’essere morbido, e flessibile, anche quando doppo 24 hore del felice passaggio; fu posto dentro una cassa di legno, à divozione d’un Gentil’Uomo, per sepelirlo.
Parve bene al Superior del Convento darne parte a quello del Colleggio lo più vicino, ed anche al Capo della nostra Provincia, che allor si chiamava Custode, qual subito à questo aviso notificò la morte con un foglio in giro per i Conventi, conforme và descritta, precettando a’ Guardiani trattarlo come Frate, cioè coll’ ufficio doppio de’ morti, messa cantata, ed ogni Sacerdote trè messe.
Tanto, e più meritava questo divotissimo Padre per l’innocenza de’ suoi costumi, per la profonda dottrina, oltre l’eccellenza del metro, Soggetto illustre in quest’arte, che per i molti componimenti poetici in lode del Santo di Padova10.
Prima del Padre Bonaventura Da Lama e la sua “Cronica” (a cui fece riferimento il Patrignani nel suo Menologio), la “santa morte” di Francesco Guerrieri fu descritta anche, con ulteriori particolari, dal letterato tarantino Giovanni Manfredi nella sua opera I pregi e le Glorie de letterati opera miscellanea dilettevole A’ curiosi e non inutile agli Eruditi pubblicata a Roma dallo “Stampator Camerale e Vaticano” nel 1682. Il Manfredi che lo ebbe anche come maestro, ricordandone prima le sue grandi doti umane e intellettuali, così narra la sua dipartita: “…E benché il Guerriero nella purità della lingua latina stimatissimo, nella greca quasi unico, e nella varietà dell’eruditioni universale, pascesse lentamente la curiosità del mio intelletto, e non mancasse di somministrar più salutevole cibo alla volontà con ragionamenti spirituali, con la frequenza de Sacramenti, e con l’assuefarmi all’oratione; (…) come infatti accadè, così parimente par che dichiarasse il senso dell’oscure lettere, che a me il Provinciale scriveva, l’inaspettata morte del Padre Guerriero, il quale ottenuta licenza non di una lunga dimora, ma di un breve pellegrinaggio, mentre per la sua fresca vecchiaia tutto allegro, e vigoroso al suo Collegio faceva ritorno, poche leghe lontano in un Convento di Religiosi gravemente s’infermò; e ivi morì con tal concetto di santità non men che di dottrina, che per quante istanze facessero i Padri della Compagnia, non fu mai possibile a ottener da quei Religiosi, di quel degnissimo personaggio il venerabile deposito. Huomo in tutte le virtù, e scienze singolare, a cui per gratitudine devo questa memoria, e sarei obbligato a più minutamente di lui eccessivi pregi accennare, se la varietà di tanti, e si lunghi episodi a rimettermi per la più breve scorciatoia in camino, per giunger con la maggior prestezza possibile, al prefisso termine, ho mai non mi costringesse. Tra tanto riserbandomi di farne una breve mentione in una lunga Elegia, che soggiungerò nel fine del presente capo; senza far qui altro Catalogo dei suoi eruditissimi scritti, che haveva in ordine per le stampe, in particolare d’un’accurato Dialogo, in cui con tersa latinità m’ammaestrava nell’esercizio di tutte le virtù Christiane, a segno tale, che basta il nominare il frontespicio con il quale intitolavasi: Manfridus sine de Vita perfecta”!11
Appendice
IL PRINCIPE PERFETTO
GIOVANNI ANTONIO ALBRICCI TERZO
All’eccellentissimo Antonio Albricio Principe di Avetrana*
Sebbene provvedessi con l’animo alle dicerie di parecchi, se in me ci fosse qualche capacità poetica, starei per obiettare: se facessi uscire quest’opera, portata da me a termine con diuturno lavoro, tuttavia ho preferito cedere agli amici che lo chiedevano con insistenza piuttosto che sembrare meno cauto e per questo mi son lasciato persuadere; non ho compiuto quest’opera affinché acquistassi qualche credenza di cultura o di ingegno da parte degli uomini dotti ma certamente primo perché crescesse la divina gloria e poi perché crescesse la devozione di S. Ignazio e S. Francesco Saverio nei cuori degli uomini; infine affinché nascesse qualche segno tangibile di gratitudine nei confronti di Gregorio XV pontefice massimo il quale li annoverò nel numero dei Santi. Perché ho preferito che sia pubblicata l’opera nel tuo nome o principe eccellentissimo: possono essere adottate due cause probabilissime: una perché fai parte della stirpe Farnese e donde a te è la nascita da parte di madre; la nostra amicizia è tenuta da vincoli di innumerevoli meriti, l’altra, non dirò a causa della potenza della tua famiglia il cui splendore è davvero grande non per la ricchezza e per l’abbondanza dei mezzi nella qual cosa nessuno deve essere confrontato con te in queste cose: ma per le doti dell’animo, del tuo ingegno veramente singolari; infatti i tuoi costumi sono tanti candidi e nel contempo ammirabili ed amabili come vedo che tu vuoi sempre essere nutrito ed educato in un porto di virtù. Nessuno si accosta a te che non parli della tua subitanea affabilità. Nessuno parla con te il quale non percepisca che dalla tua bocca fluisca un eloquio più dolce del miele (come cantò Omero di Nestore). Nessuno ti guarda che non crede che ogni cosa è fatta da te in difesa del decoro. Dal che si deduce che tutti quelli che ti conobbero pensano che tu non sia nato da uomini ma sia giunto qui o meglio mandato dai celesti. Brilla particolarmente nel tuo volto l’insigne modestia che sembra che tu cammini nel paese accompagnato dallo stuolo delle altre virtù.
Brilla nel tuo volto la grazia che libera un’incredibile benevolenza; da parte di quelli che non vogliono la togli con la forza. Infatti che dire del tuo ingegno? Poiché si accosta in qualunque arte degna educato liberalmente e nobilmente crescendo; e in quell’arte in breve tempo e senza alcuna guida si avvantaggia tanto da eccellere sugli altri. Ti ammirano mentre cavalchi e allenti le briglia coloro i quali s’intendono molto dell’arte del cavalcare; ammirano te come tratti le spade e le armi gli armigeri; ti ammirano mentre suoni la lira e batti i clavicembali i musici. Ti hanno ammirato poco tempo fa nella pittura di ogni genere gli artisti di ogni genere. E nelle lettere latine e nelle lettere greche e in filosofia ti ho ammirato proprio io, quando percepivi prima che fosse chiuso il discorso le cose che stavano per essere dette da me.
E in questo genere mi è sembrato più degno di ammirazione il fatto che spesso proponesti a me questioni tanto difficili a risolversi che penso che’ neanche Alessandro avrebbe potuto sciogliere pure tagliandoli con la forza del ferro. Mi mancherebbe la carta eil tempo se dovessi narrare tutte le cose. Ma non è questa l’occasione di parlare delle tue lodi degnissime di immortalità: e ciò, qualsiasi cosa io abbia detto non l’ho fatto a causa della tua lode ma affinché tutti capissero quanto io sia stato sagace o felice nello scegliere a chi principalmente dedicare quest’opera. Se infatti il poeta abbraccia per mezzo dell’imitazione e del verso tutte quelle cose che sono in questo mondo e queste appaiono nell’opera: e viene scelto opportunamente quale dedicatario l’opera colui il quale sia il più valente in tutte le cose e il più fornito in tutte le doti. Che se pur in cosi tenera età tu sei tanto grande: certamente hai appena sedici anni: non sarà credo per nessuno cosa difficile congetturare quanto in alto stia per salire una cosi illustre indole quando si maturerà. In verità il mio cuore augura che tu, per questa integrità di vita, per la tua morigeratezza e per la diligenza con cui coltivi tutte le arti liberali, sia per tutti e in tutta l’Italia e perfino in tutta l’Europa, che è la parte più importante di tutto il mondo, un esempio di principe perfetto”.
Addio
* La traduzione è di Franco Vetrugno.
Lettera dedicatoria di Francesco Guerrieri a Giovanni Albricci terzo principe di Avetrana, Marchese di Salice, Signore di Mesagne, di San Vito, di Guagnano, di Cellino, di Uggiano, di Erchie, di Torre S. Susanna e di altri feudi minori (Ignatius heroicum poema in XII libro distinctum, Mss. Gesuiti 1638 (3767) Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II Roma.
Il manoscritto, come già detto nel testo, è depositato presso la Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma nel “Fondo Mss. Gesuitici 1638 (3767)” ed è così indicato: “VERERI FRANCESCO d.C.d.G. Ignatius Heroicum Poema in XII Libros distinctum”, cart., 203×149, sec. XVII.
Sono in totale cc. 161: c Ir, bianca con al centro annotazione: Liceat extrahi LYciy die 12 Augusti 1652/Iacob.s Ant.s Lezzius Vic.s glis (rilegatura sec. XIX in cartapecora + 2 fogli di guardia in cartoncino bianco). C.2. r. (a tutta pagina) FRANCISCI VERIERII/ E SOCIETATE /IESU / IGNATIAS/ HEROICUM/ Poema/ IN XII/ LIBROS/ DISTINCTUM.
Cc. 3,4,5 e 6 bianche (le prime 3 recano filigrane (2) che non si ritrovano poi), la c. 6 si prolunga con un bordo cui è incollata la c. 7; cc. 7 e 8r si legge EXC.mo Io: ANTONIO ALBRICIO/VETERANENSIUM PRINCIPI.
Ogni carta reca sul bordo alto e al centro, spesso reciso dal rilegatore, il numero arabo del libro, sul recto. Sul bordo inferiore del verso di ogni carta c’è la parola di richiamo della carta successiva. I versi sono numerati nell’incolonnamento per decine in ogni libro (arabe). L’iniziale dei libri e della dedica è in lettera in grassetto e debordante come la numerazione dei versi. Testo interamente privo di correzioni, tranne che all’inizio, a c. 9 (si direbbe un principio di correzione generale del testo, abortito); cc.160-161 bianche. Ogni libro è intestato “I GNATIADOS/ LIBER PRIMUS”. Essi sono così composti:
I cc. 9r -25v, vv. 811
II cc. 25r-41r, vv. 830
III cc. 42r-52v, vv. 527
IV cc. 53r-62v, vv. 490
V cc. 63r-72r, vv. 656
VI cc. 76v-86v, vv. 514
VII 87r -96v, vv. 510
VIII 97r-107r, vv. 552
IX 107v-117v, vv. 510
X 118r-128r, vv. 517
XI 128v-142r, vv. 690
XII 142v-159v, vv. 905
Sul foglio annesso al codice vi sono le seguenti notizie sul Guerrieri: “Il Vererio era il P. Fran. Guerrieri nel Sommervogel, sotto “Guerrieri” (l’Ignatias, è nominata nel vol. di supplemento, sotto “Guerrieri”). Fu in corrispondenza con T. Tasso, il quale scrisse pure un sonetto al Guerrieri e del Tasso sembra imitare il concilio infernale del I libro”. Nell’elenco dei lettori che hanno studiato il manoscritto figurano P. Emilio Spinghetti S.I. professore della Pontificia Università Gregoriana di Roma (copiati i primi due libri) e uno scrittore tedesco (un certo Giorgio Gluuchanuver Sr. – il cognome può non essere esatto perché è di difficile lettura).
In Defensor Civitatis. Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Edizioni del Grifo, Lecce 2017, pp. 325-348 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 23-40, Novoli 2024.
Note
1 D. Maffei, Prospero Rendella Giureconsulto e Storiografo. Con note su altri gesuitimeridionali, in Monopoli nell’età del Rinascimento, atti del convegno internazionale di studio 22-23-24 marzo 1985, Monopoli 1988, I, pp. 41 e ss.; G. Spagnolo, Francesco Guerrieri e Prospero Rendella, Giureconsulto e Storiografo monopolitano, cit., pp. 115-135.
2 Gli elementi completi recati dal frontespizio dell’editio princeps e ripetuti su quelli delle edizioni successive sono i seguenti: Tractatus / de Vinea, / Vindemia, et vino. / In quo quae ad Vinae tutelam et culturam, Vindemiae opus, Vintoris / documenta pertinent; ac plures quaestiones, et leges, / anima duertuntur, et dilucide explicantur. / Nec non vini Genera plurima ac de Vini commercio, et usu solerti / cura proponuntur / Omnibus tam Iusdicentibus, quam in foro versantibus, ac etiam Agriculturae / incumbentibus apprime utilis, et necessarius. / Cum Indice capitum, et rerum notatu dignarum, quae in opere continentur./ Superiorum licentia, et privilegio.! Venetiis, Apud Iuntas. MDCXXIX. Una delle poche copie di quest’edizione princeps è conservata presso la biblioteca comunale “G. Bovio” di Trani.
3 Le edizioni successive non comprendono né la lettera dedicatoria di Feliciano Raimondo all’avvocato bresciano Girolamo Bona e né i tre importanti carmi rispettivamente dello stesso Rendella, di Muzio e di Francesco Guerrieri. Questo carme del Guerrieri non compare in nessuna delle brevi biografie conosciute (ad esempio quella del Sommervogel probabilmente per la “rarità” di questa editio princeps l’unica, come si è visto, a riportare la composizione del padre gesuita (altre copie si trovano – quelle reperite dal Maffei – a Francoforte, a Londra, Parigi, Princeton, Roma, Siena, Trani e Washinghton).
4 APG, cit., vol. 645, ff. 802-803. Per quanto riguarda Terra d’Otranto la presenza del Guerrieri è attestata il 10 agosto del 1612 anche in Carpignano dove aveva accompagnato il padre gesuita Filippo Camassa di Lecce per un sermone: «Alle 10 de augusto 1612 in Carpignano, giorno de santo Laurenzo, de vennerdia il padre Gio: Filippo Camassa de Lecce gesuino, fece uno sermone alla chiesa matre de ditta terra fu in compagnia sua il padre Francesco Guerriero», R. Jurlaro, Prediche e Predicatori a Carpignano tra il 1588 e il 1621, in «Sallentum», a. VI, nn. 1-2-3, genn.-dic. 1983, pp. 94-95, che riporta una «cronaca particolarissima» di Giacomo Vincenti, arciprete in Corigliano dal 1597 al 1620, «in cui sono annotati per più di Trent’anni, dalla quaresima del 1588 a quella del 1621, i predicatori che furono «nel pulpito de la chiesa matre de Carpignano» (p. 83).
5 Scrive il Maffei al riguardo: «Pur facendo la tara sulle molte iperboli, ci sembra che nel carme di Francesco Guerrieri, premesso all’editio princeps del De Vinea, si possa cogliere un’immagine sufficientemente attendibile della vita agiata consentita al Rendella dalle sue non poche proprietà di campagna» (Prospero Rendella giureconsulto e storiografo, cit., p. 58 alla nota 35). Il monopolitano Luigi Russo, qualche anno fa, aveva riedito, tradotto e commentato sia i versi autobiografici del Rendella e sia i due componimenti di Muzio Sforza e di Francesco Guerrieri che rinuncia a identificare contentandosi di ipotizzare che fosse appunto «un animatore delle locali scuole gesuitiche»; cfr. L. Russo, Per Prospero Rendella “Amico delle Muse”, Grafischena, Fasano 1977, pp. 51-58.
6 Archivio Parrocchiale Novoli, Registro dei battesimi (1571-1609), f. 119v. I sacerdoti Alessandro e D. Domenico Guerrieri, sottoscrivevano gli atti battesimali, latinizzando il loro cognome in Vererius, seguendo in ciò l’esempio di Francesco, il loro fratello gesuita che usava così firmare le sue composizioni latine. Questo fece incorrere in errore il Toppi, che, credendo Francesco Guerrieri diverso da Francesco Verierio, li riportò separatamente nella sua Biblioteca Napoletana (R. Franchini, Novoli fine ‘500, Bollettino Santuario S. Antonio Abate, ottobre-novembre 1958).
7 Presso APG, sono conservate le lettere e gli epigrammi tra il Guerrieri e il Realino. Le lettere sono datate 15.03.1590; 17.07.1607; 21.08.1607 (APG 657, 123v-124; l28r-v; 123rv). Francesco Guerrieri è costantemente indicato nelle lettere del Realino con il latino Verierius (Cfr. M. Gioia, La grazia vocazionale in S. Bernardino Realino, cit., pp. 63, 77, 78).
8 A. Tamiano, Un miracolo avvenuto a Novoli per intercessione di San Bernardino Realino, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XII, 17 luglio 2005, pp. 8-9.
9 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, cit., p. 471; O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 28.
10 Bonaventura da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati dela Provincia di S.Nicolò, cit., pp. 134-137. I padri francescani che pietosamente lo avevano accolto nel loro convento, non vollero per nessuna ragione restituire a Lecce il cadavere del santo religioso e lo seppellirono nella loro chiesa. Le tracce della sua tomba, purtroppo, scomparvero poi sotto i quadroni della nuova pavimentazione data al tempio francescano di Manduria.
11 G. Manfredi Tarentino, I pregi e le glorie de’ letterati opera miscellanea dilettevole A’ curiosi E non inutile agli Eruditi, in Roma, per Nicolò Angelo Tinassi, dallo Stampator Camerale e Vaticano, mdclxxxii, pp. 318-319.
La mappa dI Brandici, della cui esistenza nulla avremmo saputo senza la scoperta e divulgazione di Vito Ruggiero1, ha colpito ancora, ma si tratta di uno di quei colpi, che lungi dal tramortire, fungono, al contrario, da stimolo per aggiungere ai margini di un mosaico un fieri un’altra tessera, per quanto, come le mie due precedenti2, modesta. Esse erano entrambe connessa con la variante Brandicio lì presa in esame: nella prima ne fornivo la testimonianza cartografica tratta da una pubblicazione tedesca del 1546, che qui per comodità di chi legge replico nella seconda tentavo di risolvere il problema dell’ esatta lettura di Brandici, fatalmente correlata alla pronuncia Brandìci oppure Bràndici.
Oggi la testimonianza relativa a Brandicio sarà esclusivamente letteraria, più specificamente poetica e in questo fa coppia il col più noto Brandizio dantesco: Vespero è già dove sepolto/è ‘l corpo, dentra al quale io faccio ombra:/Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto (Purgatorio, III, 25-27).
Se a Firenze si cantava Brandizio, a Lucca un cinquantennio dopo la futura Brindisi era Brandicio e il cantore si chiamava Contino Lanfredi. Un manoscritto custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. lat. 3953) ci ha conservato un canzoniere (noto col nome di Canzoniere di Nicolò de’ Rossi, letterato trevigiano vissuto a cavallo dei secoli XIII e XIV, che ne fu il compilatore) della lirica italiana delle origini, che alle pp. 127-206 contiene una raccolta di sonetti, due dei quali sono del Lanfredi. Mi accingo a presentare quello che riguarda il nostro tema e lo farò nel modo più suggestivo (ma non allo scopo di suggestionare …), cioè proprio con la riproduzione dell’intera pagina 149 (ogni facciata di ciascuna carta reca un numero progressivo) e del dettaglio di nostro interesse.
Il sonetto rimase inedito fino al 1661, quando fu pubblicato da Leone Allacci3 nel volume del quale riproduco il frontespizio.
A . p. 289 si legge la sua trascrizione.
Se rispetto all’originale le iniziali maiuscole, le virgole e stella per stela appaiono come normali adattamenti integrativi all’uso del tempo, mi sorprende non poco la lettura di alcune parole, precisamente quelle che ho evidenziato con la sottolineatura. Dato lo spessore del trascrittore, non escluderei in alcuni casi un errore di composizione tipografica, anche perché la stampa non brilla certo per nitidezza. Tuttavia ve ne sono alcuni non imputabili a tale motivo e che, oltretutto, renderebbero problematica un’interpretazione che, come mostrerò, mi appare più che chiara. Degli errori proporrò più avanti il mio emendamento
1 e la tramontana
quel la è come un pesce fuor d’acqua perché introduce lo scompiglio metrico di un dodecasillabo (verso che nulla ha a che fare col sonetto, che è composto di endecasillabi). Oltretutto contrasta senza ragione con l’assenza dell’articolo per gli altri venti, creando un’arbitraria asimmetria
2 e la stella
ne vien fuori un dodecasillabo, quand’ è chiarissima la lettura et stela, che ripristina la regolarità metrica.
3 planeta et elementa
nel manoscritto è chiaramente planeti et elementi
4onne
sarebbe interessante sapere quale congruenza potrebbe avere col contesto questa parola che, per assimilazione dal latino omne(m) ha dato vita a ogni; oltretutto nel manoscritto si legge chiaramente oime.
5 ad ussita
si tratta dell’unico verso che risulterebbe dodecasillabo anche se lo scioglimento dell’abbreviazione dovesse comportare la lettura, più aderente al contesto per il significato, avversita (senza accento, come le altre parole tronche) nel manoscritto) per ad ussita.
A distanza di 242 anni l’intero manoscritto veniva pubblicato4 col testo del sonetto emendato secondo le osservazioni appena fatte ai punti 3, 4 e 5 (oltre poeto per porto che piò valere come errore di stampa), ma senza punteggiatura e note di commento di natura interpretativa.
Diciassette anni dopo ecco come il sonetto si presenta in Aldo Francesco Massèra (a cura di). Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, Laterza, Bari, 1920, v. I, p. 143.
Non mi pare molto rispettoso del passato e della scienza la modernizzazione che balza evidentissima in la luna, il sole (per la luna cum lo sole) e in vizio (per vicio), che ha introdotto, per ragioni di rima, Brandizio (per Brandicio) con una strizzata d’occhi a Dante. Con tutto il rispetto per il curatore del volume, giudico l’operazione un vero e proprio stupro del documento originale, al pari degli altri pubblicato senza ombra di riferimento alla fonte e senza una sola parola di commento.
Di seguito la mia trascrizione, con la sola integrazione della punteggiatura che nell’originale si limita al solo punto fermo e col mantenimento dell’assenza dell’accento sulle parole tronche) (oime e vertu). Tutto il resto è nelle note di commento.
Contino Lanfredi di Lucha
Vento a levante e di meridiana,
ostro, zafiro, aquilone et altino,
maistro, greco, siroco e garbino
a libezo, ponente et tramontana.a
La luna cum lo sole et stela dianab,
planeti et elementi, oime tapinoc,
par che sian contrari al meo caminod
per mare, per monte e per via planae.
Et en questa adversita no so noviciof
ma sempre steti su questa malazag
po che cognovi la vertu dal vicio.h
Che pro? Parole son da coser azai:
eo crederei nel porto de brandicio
perire en nave en tempo de bonazal
a Quasi una descrizione in versi della rosa dei venti: levante spirante da est; ostro da sud; zefiro (zafiro nel manoscritto) da nord-nordovest; aquilone da nord-nordest; altino (alias altano) da sud-est; maistro (maestrale) da nord-ovest; greco (grecale) da nord-est; siroco (scirocco) da sud-est; garbino da sud-sudovest; libezo (libeccio) da sudovest; ponente da ovest; tranintana da nord.
bDiana è il nome della stella che appare all’alba.
c pianeti ed elementi naturali, ohimè tapino
d variante antica di cammino
e variante antica di piana, dal latino plana(m)
f e in questa avversità non sono novizio (non è la prima volta che mi trovo)
g ma sempre ho opposto resistenza in questa cattiva situazione
h poiché ho conosciuto la virtù dal vizio
i Che beneficio (c’è)? Le parole sono filo da cucire. Coser è dal latino consùere=cucire insieme; aza , come l’italiano accia è dal latino acia(m)=gugliata (pezzo di filo che s’infila nella cruna dell’ago per cucire).
l sono convinto che morirei nel porto di Brindisi su una nave in tempo di bonaccia.
Il sonetto (rima: ABBA ABBA CDC DCD) è un bell’esempio di quel filone letterario che ha il nome di poesiaburlesca, etichetta che col suo burlesca nell’immaginario collettivo assume connotazione negativa. E l’assume a torto, perché, laddove aleggiano la dissacrazione, purché, come qui, mai volgare, e l’ironia, almeno la banalità è scongiurata.
Ma dove sarebbe questa presunta dissacrazione? Sta tutta in ma sempre steti su questa malaza/po che cognovi la vertu dal vicio. Qui è sintetizzato il discorso morale sviluppato dalla patristica e continuato per tutta l’età medioevale, basato sulla contrapposizione peccato/virtù, che può diventare alternanza condanna/riscatto. Così la resistenza, ligia a quel principio, alle prove della vita metaforicamente impersonate dai venti, inizialmente sbandierata con toni quasi da martire, viene quasi di colpo vanificata o, quanto meno, messa in discussione (Che pro? Parole son da coser aza5), col vittimismo che trova la sua consacrazione nei due versi finali, in cui nemmeno il porto di Brindisi, da sempre proverbiale per la sua sicurezza, sarebbe in grado di proteggerlo dai pericoli.
Al di là di quanto emerso dalla sua lettura, la poesia, a mio parere, è ancora più importante perché ci consente di retrodatare la variante Brandicio al XIV secolo cioè ben prima del 1546 della mappa tedesca e dei numerosi volgarizzamenti del XV secolo. Essa, tenendo conto dell’origine lucchese del suo autore, fa pensare ad una variante tirrenica ancora viva pure sul versante adriatico nel secolo XVI, come conferma anche la sua presenza ripetuta cinque volte nel Portolano del mare, nel quale si dichiara minutamente del sito di tutti i porto, quali sono da Venezia in Levante e in Ponente: et altre cose utilissime, et necessarie a i Naviganti, Zanetti & C., Venezia, 1576, passim. E questa originaria tirrenicità fa intravedere un possibile filo sottile che legherebbe il lucchese (e già presumibilmente pure fiorentino) Brandicio del XIV secolo con quello della mappa tedesca del 1546, nonché col Brandici degli Annali veneti6 di Domenico Malipiero6 (1445-1513), che precede di 43 anni quello della mappa veneziana del 15387, già figlio di un padre (Brandicio) ancora vivente, anche se molto anziano, come avevo ipotizzato nel contributo di nota 2. Brandici, infine, dopo la celebrazione poetica del 1522, per la quale vedi la nota 6, ha nel 1540 l’onore grammaticale di essere scelta come esempio di traduzione dall’italiano in latino (cosa normalissima in quel tempo …): Con ciò fusse cosa che tu andassi verso Brandici/Cum Brundusium versus ires8.
3 (1586 circa-1669) teologo e grande studioso della letteratura bizantina.
4 Il canzoniere Vaticano Barberino Latino 3953 (già Barb. XLV. 47), a cura di Gino Lega, Romagnoli-Dall’Acqua, Bologna, 1903. Il sonetto è a p. 161.
5 Questa metafora rivive nelle locuzioni intessere un discorso, tirare le fila di un discorso, annodare le fila di un discorso e perdere il filo del discorso.
6 Vi sono sette ricorrenze e la più antica si riferisce al 1495 (edizione a cura di Francesco Longo in Archivio storico italiano diretto da Giovanni Pietro Vieusseux, Firenze, 1843, tomo VII, p. 339. A riprova, però, della sua ufficialità nonché fiorentinità già nel XV secolo valga quanto sto per documentare. Nel Comento sopra la Comedia di Dante di Cristoforo Landino (1424-1498) uscito per i tipi di Nicholò di Lorenzo della Magna a Firenze nel 1481 si legge branditio nella serie cdei versu citati e brandizi nel commento.
Sei anni dopo nell’edizione uscito per i tipi di Bonino de Boninis di Ragusa nel 1487 si legge ancorabranditio nella serie dei versi citati e brandizi nel commento.
Dieci anni dopo, ancora vivente il Landino, l’edizione uscita per i tipi di Piero di Giovanni di Quarengio a Venezia nel 1497 mostra brandicio nella citazione e, nel commento, brandici nella replica del verso e nel margine della pagina.
Tenendo conto del luogo di edizione (Firenze per la prima e più antica, Venezia per le successive) Brandici si direbbe adattamento al veneto della voce fiorentina.
Per quanto concerne, infine, le testimonianze poetiche di Brandici, la più antica da me finora reperita è in Libro o vero cronicha di tutte le guerre de Italia, s. n., Venezia, 1522, s. p.: e nel Reame Brandici e Otrento.
7 Naturalmente, a parte Brandici, la carta mostra la sua natura anche linguistica inequivocabilmente veneta in EL VER, SCOIO GRANDO, SCOI DE VORA (quest’ultimo, secondo me, variante di FORA (=fuori) e, con il loro tipico scempiamento, TORE DI CAVALI e LE TORE DEL PORTO. Curioso, infine, è che un errore (LARSENALE; va bene mangiarsi lo spazio, come altrove, ma pure l’apostrofo …), dunque un errore, sfocia, paradossalmente nell’ipercorrettismo di IM PUGLIA.
8 Francesco Priscianese, Dela lingua romana, Zanetti, Venezia, 1540, p. CCLXXVI.
Parlare dell’Immacolata a Seclì è un buon pretesto per cercare di racimolare qualche notizia circa la citata chiesa, un tempo sede della confraternita omonima e luogo privilegiato dagli abitanti del posto per onorare la Vergine Maria, che da sempre veglia e protegge la piccola cittadina.
Per cercare di dare voce a questo vetusto edificio storico del paese, demolito alla fine degli anni ’60 del Novecento, per la costruzione dell’attuale chiesa parrocchiale, significativo risulta l’esame di alcuni documenti conservati nell’archivio parrocchiale, di altri custoditi nell’archivio diocesano a Nardò e di alcune foto d’epoca che ci permettono, almeno alle generazioni ultime, di conoscere e ravvisare quella chiesetta che ha visto le nostre bisnonne, nonne e mamme durante la novena dell’Immacolata che si svolgeva alle 5,30 del mattino.
La chiesa dell’Immacolata Concezione era caratterizzata da una facciata sobria, sormontata da un grande finestrone rettangolare che permetteva l’illuminazione dell’interno, e di un portale seicentesco con l’epigrafe latina che ci permette di avere contezza dei rimaneggiamenti che l’edificio ebbe intorno al 1650 per volere del Duca di Seclì, Antonio D’Amato.
L’interno a navata unica mostrava un altare maggiore con la tela dell’ImmacolataConcezione,e sormontato dalla statua del Padre Eterno. La volta a botte era ricoperta da un cielo stellato che simulava il manto della Vergine, mentre l’aula liturgica con pianta asimmetrica ospitava un altare laterale con la statua dell’Immacolata di piccole dimensioni e una cappella che conservava la famosa “gondola”, ossia una bara utilizzata per le esequie dei defunti che non avevano la possibilità di usufruire di una degna sepoltura nel Camposanto. Termina la cerimonia funebre, la bara veniva riportata nella chiesa confraternale.
Il pavimento della chiesa era in terra battuta e ospitava alcune sepolture, occultate dai rifacimenti del primo Novecento.
Un campanile a vela posto a ridosso del muro esterno della chiesetta scandiva le funzioni religiose con le due campanelle intitolate alla Vergine Immacolata e a Sant’Antonio di Padova.
Avere contezza della struttura e della planimetria della chiesa risulta fondamentale per poter almeno immaginare quei luoghi frequentati dai nostri antenati e che purtroppo noi non abbiamo avuto modo di conoscere.
Grazie alle ricerche e allo studio dei documenti sappiamo che la chiesa originariamente era intitolata a San Nicola di Myra e questo è fondamentale perché stabilisce l’esistenza di un culto verso questo santo dell’Oriente che era vivo in Seclì, ma soprattutto ci dice che in età medievale quel luogo ancora oggi sacro per la piccola comunità ospitava una chiesa dedicata a San Nicola. Tra i beni che la chiesa possedeva una campana, una Croce in legno dorato e molti terreni in varie località quali: Candari, Vinci, Pedulaci, Piperi e altri. Le rendite di questi terreni erano destinati alla retribuzione dei sacerdoti e per la celebrazione di messe secondo la volontà dei donatari.
Che questa chiesa fosse il tempio maggiore della piccola cittadina lo si desume dalla visita pastorale del vescovo Mons. Ludovico de Pennis del 1452.
Oltre a questa chiesa ne risultano altre, quali Santa Maria di Castello e San Leonardo, che fino alle fine del 1800 faceva bella mostra di sé in pieno centro storico, nell’attuale vico Dante, già vico San Leonardo.
Il toponimo Cigli per molto tempo aveva causato confusione in termini di lettura toponomastica della visita pastorale. Ma l’attento lavoro di Antonio Sebastiano Serio ha portato alla luce, grazie anche ai rimandi topografici tipici della piccola cittadina di Seclì, a dire che tale luogo era di fatto Seclì, facente parte della diocesi di Nardò.
Tale denominazione dell’ edificio sacro ci porta inevitabilmente a dire e soprattutto a capire l’importante relazione che il vescovo di Nardò Mons. Antonio Sanfelice fece in occasione della sua visita pastorale a Seclì nel 1719, quando annovera e trascrive la dicitura presente sull’architrave del portone principale della chiesa, che recitava così: “Alma Parens Virgo dicatum est hoc tibi templum sic tibi tum dictum santaque Nicolae il sacro clero il pio signore D’Amato con carità fervente il tutto eresse”.
Appare chiara la vecchia denominazione dell’edificio, ma soprattutto l’intervento voluto da Antonio D’Amato, che di fatto commissionò i lavori di rifacimento della chiesa medievale e cambiò l’intitolazione della stessa.
Il 1649/50 fu importantissimo per Seclì perché oltre alla citata chiesa si intervenne sempre per volere del Duca alla commissione degli affreschi del palazzo ducale e del convento di Sant’Antonio, già Santa Maria degli Angeli extra moenia. La chiesa dunque non era soltanto la sentinella spirituale di Seclì, ma al suo interno operava la confraternita dell’Immacolata Concezione, molto probabilmente istituita alla fine del 1600.
Questa curava la formazione dei novizi con un percorso particolare fatto di confessione, dottrina e retta vita da cristiano e curava anche la novena e la festività della Vergine Immacolata, con la processione che prevedeva l’accompagnamento della statua al mattino, presso la chiesa Matrice, mentre la sera dell’otto dicembre la solenne processione cittadina terminava nell’omonima chiesa.
Interessante era anche il culto dei morti pocanzi citato e l’organizzazione della processione di Gesù Morto la sera del venerdì Santo e quella della Desolata il sabato Santo, all’alba.
I Fratelli dell’Immacolata curavano tali riti con le Sorelle del Sacro Cuore, a partire dagli inizi del 1900, quando tale pia unione fu istituita.
La nostra Parrocchia conserva lo statuto del sodalizio riordinato del 1864 che ci permette di appurare le notizie pocanzi formulate.
Di pregevole fattura è anche la statua processionale dell’Immacolata, realizzata agli inizi del XX sec., che andava a sostituire quella più antica e di piccole dimensioni. Anche lo stendardo, rifatto nel 1900 sancisce la presenza bella e importante del pio sodalizio che ha operato fino alla fine degli anni ’60 del Novecento.
La confraternita che vestiva un abito bianco con mozzetta celeste e medaglione con l’effige della Vergine Maria è citata anche in un documento dell’archivio di Stato di Napoli del 1777, dove la stessa chiesa viene identificata come sede del sodalizio e luogo pio laicale del paese insieme a quelli del Ss. Sacramento e del Rosario che operavano nella Matrice.
Altre attestazioni come quella dello Stato di Sezione del 1815 ci dicono che l’edificio era proprietà del comune di Seclì.
Ma significative rimangono le visite pastorali, in ultimo quella di Mons. Corrado Ursi che nel 1955 così vedeva la chiesa dell’Immacolata: Altare Maggiore fisso con la presenza di dieci candelieri e una Croce al centro. Si usa mettere fiori freschi e candele di cera. Il tabernacolo, riparato di recente risulta ancora indecente per l’uso liturgico che se ne deve fare. Vi è la porticina priva della chiave. Il confessionale è privo di stola violacea ma rispetta i canoni dettati dalla curia vescovile in termini di decenza. La chiesa è sprovvista di Reliquie, ma ha la statua dell’Immacolata in cartapesta e in buone condizioni. Da poco sono stati realizzate delle panche ad uso liturgico mentre le campane risultano rotte. Vi opera la Confraternita dell’Immacolata che solennizza la festività della sua titolare mentre il parroco può servirsene da padrone per usi e scopi liturgici.
Da queste poche informazioni ne deduciamo grandi ragionamenti, ma soprattutto insegnamenti. Una chiesa che stava senz’altro a cuore alla nostra gente, una chiesa che non era provvista di tutto il necessario apparato liturgico per via della popolazione semplice ma amorevole, caritatevole e sempre disponibile all’aiuto reciproco. Una chiesa che oggi non c’è più, ma che deve essere ricordata dalle giovani generazioni, perchè il suo ricordo non deve svanire, anzi deve vivere e vive nell’attuale chiesa parrocchiale intitolata come l’antica alla Madonna delle Grazie, ma che ancora oggi in virtù di quell’antico sodalizio la gente del posto chiama “subbra la Mmaculata”. Un ricordo che da pochi anni è sancito da una bella lastra commemorativa voluta dal popolo di Seclì e dal suo parroco, guida e pastore attento alle esigenze della piccola comunità a perenne memoria di una storia e di un culto che ha scandito la vita della piccola comunità.
Un monaco missionario, poi divenuto vescovo di Sebaste, infermo e curato nel 1668 a Specchia, “terra di assai miglior aria”
di Giovanni Perdicchia
Il titolo fa riferimento a Giovanni Giuseppe De Camillis (Chios, 1641-1706), un sacerdote greco entrato nell’ordine di S. Basilio, che studiò a Roma nel Collegio greco dal 1653 al 1667.
La fondazione di questa scuola risale al cardinale Giulio Antonio Santori che, come protettore dei monaci basiliani, istituì una Congregazione riformata per il rito greco-bizantino nel 1573, da cui sviluppò l’idea di un seminario per la formazione dei seminaristi di rito orientale provenienti dalle colonie albanesi del sud Italia, praticanti il rito bizantino1.
Nel 1667 il De Camillis viene mandato in missione a Cimara e vi rimarrà per quattro anni; da Roma si dirige ad Otranto, per poi salpare dall’altra parte dell’Adriatico.
In effetti, da alcune lettere scritte da De Camillis in Terra d’Otranto ed indirizzate al rettore del Collegio greco (dal 1621 al 1773 affidato ai gesuiti) Nicolò Del Nero S. J. (rettore dal 1666 al 1672), è possibile stabilire che verso la fine di ottobre – inizi di nov. 1667 egli aveva raggiunto Otranto, ove “giorno per giorno sperava far vela «per Cimarra», anzi notte per notte”.
Tra il novembre 1667 e la fine di gennaio 1668 il giovane sacerdote si trova ancora a Otranto, ove per due mesi giace ammalato per via di una “lunga e noiosa malattia”.
Su consiglio di medici si trasferisce, per accelerare la guarigione, a Specchia, “distante da Otranto sedici miglia e di assai miglior aria”, e vi soggiorna complessivamente per tre mesi: due mesi interi fermo nel letto (fine gennaio – fine marzo 1668), “senza essere da niuno quasi ne visto ne conosciuto, et uno solamente che fù quello di convalescenza” (fine marzo – fine aprile 1668).
L’11 maggio 1668 De Camillis si trova già da sette giorni a Otranto (avendo lasciato Specchia, quindi, il 4 maggio) e aspetta condizioni atmosferiche idonee per raggiungere Cimarra2.
Ancora, come lui stesso spiega nella relazione presentata alla S. Congregazione il 18 aprile 1683, era stato Missionario in Epiro (10. 05. 1668 – maggio 1672): “l’ottobre dunque del 1667 mi partij da Roma con la licenza e patente di questa sacra Congregatione alla volta di Cimara, ma non potei ivi giungere prima del mese di maggio dell’anno seguente per caggione d’una grave infermità che, mentre aspettavo in Otranto comodità di passaggio, mi assalì e mi tenne cinque mesi confinato nel letto senza che mi potessi muovere”3.
Nella seconda metà del Seicento a Specchia la situazione è abbastanza tranquilla ed in controtendenza rispetto al contesto. Infatti, nonostante la crisi che ha coinvolto l’intero Salento nel corso del Seicento, con conseguente contrazione demografica, vede il centro mantenere e poi crescere il numero dei fuochi fiscali da 287 negli anni sessanta a 297 a fine secolo.
Queste corrispondenze ci offrono l’opportunità di conoscere uno spaccato di vita di quegli anni attraverso gli occhi del missionario, che userà parole gentili e di apprezzamento verso i sacerdoti, i gentil’uomini e cittadini, vista l’accoglienza ed il trattamento amorevole riservatogli. La città murata, da sempre luogo di sosta di forestieri e pellegrini, trovandosi su un’altura in uno snodo viario strategico e di controllo, aveva un antico ospedale dedicato a San Giovanni Battista, rinnovato e ampliato con diversi letti per gli infermi; molti i viandanti pellegrini ospitati e curati. Ma visto anche l’invito dei medici al missionario di trasferirsi in questo luogo, si presume dovesse essere un importante riferimento per le cure degli ammalati.
Un’altra prova, nello stesso anno, ci arriva dai registri dell’archivio parrocchiale, dove si ricercavano ulteriori dati da incrociare attinenti la permanenza del De Camillis a Specchia o riferibili al suo ospedale. In effetti nel registro dei morti, in data 10 agosto 1668, si riscontra il decesso nell’ospedale di una giovane pellegrina, Teodora Celebrini, partita da Zara in Schiavonia e diretta in pellegrinaggio a Leuca, al ritorno, a causa di una improvvisa malattia, fu trasferita nell’ospedale di Specchia e qui deceduta in conseguenza della sua infermità. Questa nota ha consentito di collocare cronologicamente anche il nome dell’arciprete di Specchia in quel periodo.
A dì 10 di agosto 1668. Teodora Celebrini d’anni 24 in circa della città di Zara in Schiavonia in pellegrinaggio alla Madonna Santissima di Leuche, nel ritorno ammalatasi qui in Specchia e portata all’Hospidale dopo alcuni giorni di infermità, havendo ricevuto tutti li Sacramenti della Chiesa per mano di Reverendo Don Francesco Balsamo Arciprete passo al Signore et [accompagnata] per carità del Clero si seppellì nella sepoltura de poveri di questa Parrocchiale4.
Per quanto concerne il giovane G. G. De Camillis, dopo un primo periodo di ricovero nell’ospedale, probabilmente fu ospitato anche in casa del sacerdote.
Il prelato in questione a cui fa riferimento anche in altre corrispondenze, possiamo presumere potesse essere il reverendo don Francesco Balsamo, arciprete del Capitolo del clero di Specchia e vicario del vescovo, dottore in U.J.D.
Riguardo la famiglia Balsamo, baroni di Cardigliano, è da evidenziare che era una delle più importanti famiglie nobili e ricche di Specchia. Diversi i personaggi che hanno dato lustro e onore alla cittadina e tanto hanno fatto sia nella cura delle anime, in opere pie con costruzione di altari, chiese, del convento dei Domenicani (1600, fondato da Scipione Balsamo), comprendendo tra i suoi discendenti uomini di lettere, sacerdoti e anche sindaci.
Nelle due epistole affiorano anche altri aspetti interessanti ma che saranno indagati meglio in altra occasione. In questa circostanza inserisco parte del contenuto della seconda lettera che reputo al momento più importante dove il missionario riserva parole generose nei confronti dell’intera comunità:
Otranto 11 maggio 1668
…Sono già sette giorni che io mi sono partito da Specchia… mi trasferii col consiglio de’ Medici per ivi rihavermi come in luogo di molto megliore aria che in Otranto,e nel partirmi tanto fù il dolore che tutto quel populo ne sentì che maggiore non haverebbero sentito se ogn’uno di loro havesse perduto un figliolo, ò padre naturale. Li principali gentilhuomini del luogo vennero la mattina che mi dovevo partire alla mia camera, e con lagrime pregavano il Signore Iddio che io arrivato in Otranto non trovassi pronta comodità per partire, acciò che di nuovo facessi ritorno à Specchia, et ivi trattenermi infino ad altra occasione et avviso, come me ne havevano instantemente pregato, poi m’accompagnarono per molto tratto di via, et alla finebaciandomi con tenerezza inesplicabile la mano mi lasciarono a gran forza partire. Ne solamente gl’omini, ma anche le donne tutte piansero la mia partenza, e la piangono anche al presente come appunto oggi mi fù raccontato da alcuni Signori e Signore che per alcuni negozi vennero in Otranto da quella terra. Io al certo non posso lasciar di meravigliarmi e di predicare la somma cortesia e carità di quella gente; poichè di tre mesi che ivi mi trattenni, due ne passai in letto senza essere da niuno quasi ne visto ne conosciuto, et uno solamente che fù quello della convalescenza, lo consumai in (f. 278v) compagnia di quelli boni Sacerdoti e d’altri gentilomini, e tutti gl’altri altra cognizione e prova non hebbero di me che, con vedermi camminare per strada, e celebrare la messa al mio rito, alla quale tanta gente d’ogni sesso concorreva che mi bisognava qualche persona autorevole che con un bastone raffrenasse la folla che si faceva, e questo solo bastò acciocchè tanto affetto tutti mi pigliassero che ogni uno mi faceva patrone della sua casa, e vedendo essi che io per vergogna e per rispetto non chiedevo niente e nessuno, incominciarono a mandarmi in casa de’ presenti et ad invitarmi continuamente hora uno et hora l’altro à mangiar in loro compagnia, la cortesia de’ quali non potendo io ricusare per non inimicarmeli senza ragione, venni ad avanzare le spese che mi dovevo io fare perchè in tutti quelli tre mesi che ivi mi trattenni non sò se habbia speso per me un scudo del mio. Ma sopra tutti caritatevole e cortese simostrò quel santo sacerdote che mi albergò, del quale à lungo gli scrissi la volta passata (scrisse al/o del sacerdote in altra lettera precedente sempre partita da Specchia), poichè non contento d’havermi nobilmente e con somma cura governato à sue spese in tutto il tempo che mi durò la malattia che fù di due mesi, volle in ogni maniera dopo che rihavuto mi fui che in tutti quelli giorni che egli non digiunava dentro la settimana, io andassi à pranzare et à cenare anche con esso lui, et all’ultimo volle infino pagare per me il vetturino che con due bestie mi ricondusse in Otranto. Tutte queste dimostrazioni d’affetto, al certo non posso dire che da altro provenissero che dalla naturale cortesia di quella gente…”5.
La personalità notevole del missionario la possiamo intuire dal proseguo della sua vita, infatti il De Camillis fu seminarista nel Collegio Greco, poi missionario apostolico in Albania, inviatovi dalla Congregazione di Propaganda Fide; fù rettore della chiesa di San Sergio e Bacco alli monti, procuratore generale dell’Ordine di San Basilio e residente dei Ruteni; dal 1687 al 1689 copista greco della Biblioteca Vaticana, svolto in maniera lodevole. Nello stesso anno due brevi del papa Alessandro VIII datate 5 novembre 1689: nella prima nomina il monaco basiliano vescovo di Sebaste nella seconda vicario apostolico “in partibus infidelium”; l’anno successivo egli sarà nominato vicario apostolico per i Greci uniti a Munkács in Ungheria. Manterrà tale carica fino alla sua morte (1706)6.
Note
1 collegiogreco.com
2 Vèghseo Tamàs (szerk.) Da Roma in Hungaria. Atti del convegno nel terzo centenario della morte di Giovanni Giuseppe De Camillis, vescovo di Munkàcs/Mukacevo (1689-1706) (Collectanea Athanasiana – I. Studia; 2,) Nyìregyhàza, 29-30 Settembre 2006 a cura di Tamás Véghseő Pubblicato dall’Istituto Teologico Greco-Cattolico Sant’Atanasio. Nyíregyháza 2009. Antonis Fyrigos, pp.56-57
3 Ibidem.
4 Archivio Parrocchiale della matrice chiesa di Specchia, Registro dei morti anno 1668.
5 già pubblicata in COLLECTANEA ATHANASIANA I. Studia II. Textus/Fontes III. Manualia IV. Institutiones V. Varia VI. Ars Sacra Byzantino-Carpathiensis Sorozatszerkesztk Szabó Péter – Véghseo Tamás Baán István, Giovanni Giuseppe De Camillis görög misszionárius és munkácsi püspök (1689-1706).LEVELEI***LETTERS of Giovanni Giuseppe De Camillis Greek Missionary and Bishop of Munkács (1689-1706) Nyíregyháza 2017, pp. 33-38.
6 ivi, nota 2, pp. 70,125. Il missionario è citato di passaggio a Specchia anche in: AA. VV., Papato e politica internazionale nella prima età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Viella, Roma 2013, pag.399; Un mare stretto e amaro. L’Adriatico, la Puglia e l’Albania (secc. XV-XVII) di Angelantonio Spagnoletti, Viella Roma 2021, p. 100.
Il rapporto privilegiato che i Gesuiti, in un lontano passato, ebbero con Novoli, non fu solo l’amicizia con la famiglia Mattei (uno dei figli di Alessandro, Giangeronimo, si fece anche gesuita)1, ma è rappresentato anche dal fatto che a quest’ordine “militante” ha dato il suo figlio certamente più insigne (vissuto ai tempi di Alessandro II Mattei) ovvero Francesco Guerrieri, al quale ho già dedicato in passato alcune ricerche con notizie e documenti inediti sulla sua vita e sulla sua intensa attività letteraria2.
Per una minima e adeguata conoscenza del dotto padre gesuita, ritengo necessario anzitutto riassumere brevemente alcune fondamentali notizie bio-bibliografiche.
Secondo una testimonianza da lui stesso fornita nei confronti di san Bernardino (ritrovata negli Atti processuali o processo informativo sulla santità del Capo dei Gesuiti che la Curia vescovile di Lecce indisse nel 1619; e nei Processi Remissoriali che la Sacra Congregazione dei riti ordinò si tennero a Napoli, Lecce e Carpi fra il 1623-1624)3 il Guerrieri «sive Verierius ut ipse scripsit nomen suum» nacque a Novoli (allora denominata S.Maria di Nove) nel 1563 da Stefano Verriero e da Catterina Ruggi4. Morì a Casalnuovo (l’attuale Manduria) durante una missione, in odore di santità (secondo quanto ha lasciato scritto il Da Lama) il 1 novembre del 16295.
Divenne gesuita il 2.11.1582. Professo di tre voti a Nola il 10.10.1599, insegnò per lunghi anni rettorica e lettere greche agli studenti gesuiti di Napoli e in altri luoghi della Campania, a Chieti e in Puglia (certamente a Taranto e a Lecce), dedicandosi poi alla predicazione e alle missioni popolari. Pupillo di san Bernardino Realino (a cui poi egli stesso si unì con grande entusiasmo)6, gran letterato, eccellente scrittore, valoroso ministro della parola di Dio, ricordato ad esempio da Girolamo Marciano nella sua Descrizione di Terra d’Otranto come «filosofo, teologo, poeta, ed oratore illustre e lume nell’età nostra della greca e latina lingua in questa provincia»7 o dal padre Bonaventura Da Lama (che nella I Parte della sua Cronica ne descrive stupendamente la morte avvenuta «colloquiando con S. Antonio di Padova» – il suo nome di battesimo era Padovano, posto dai genitori perché erano devoti di tale santo) come «uomo esemplarissimo e dottissimo [… ] molto stimato dai primi letterati della Provincia e del regno per l’eloquenza greca e latina, Sensi della Sagra Scrittura, Concilii e Santi Padri, e più per l’Arte poetica»8. O ancora dall’Infantino che nel parlare di Suora Gio Donata Monticella, ricorda il Guerrieri come suo confessore e «huomo insigne sì nelle latine, e greche lettere, come di vita santissima, per mettere in ciò qualche considerazione le ordinò, che non scendesse più alle grate senza sua licenza»9.
Il Guerrieri fu amico di Torquato Tasso (tale amicizia è testimoniata da alcune lettere)10 che soleva celebrarlo presso i dotti come «l’idea dell’eloquenza e della sapienza»11. Il poeta spesso frequentava le sue lezioni o gli inviava talvolta versi in latino per eventuali correzioni, come quelle apportate all’elegia Ad Juventutis Napolitanae Principes, di cui una copia si ha nel Codice Palatino 224 – f. 68, della Biblioteca Nazionale di Firenze e su cui l’Abate Saverio Gualtieri letterato napoletano (che conservava l’originale) ebbe modo di annotare «da un ms. di propria mano dello stesso padre Guerriero che conservasi nella Biblioteca del Collegio Napolitano dei PP. della Compagnia di Gesù»12.
Ma egli fu amico anche del grande Galileo Galilei, del bolognese Claudio Achillini, del veronese Girolamo Vida13 e di tanti illustri personaggi, amicizie queste che attestano la grande stima in cui era tenuto nel mondo dei dotti, la meritata venerazione in cui l’avevano i contemporanei. Lo stesso Tasso scrisse un sonetto in sua lode che cominciava «Hai col nome Guerrier, guerrier l’ingegno», andato perduto insieme ad altre lettere conservate presso l’archivio del collegio dei gesuiti di Napoli, durante la loro espulsione avvenuta nel 176714.
Numerosi epigrammi in greco e in latino compaiono poi in opere di autori del suo tempo che lo conobbero ed ebbero modo di apprezzarlo15 (tra i salentini ad esempio Giulio Cesare Infantino16, Peregrino Scardino17, Girolamo Marciano, Filippo Formoso di Torre S. Susanna18). Scrisse in latino inoltre diverse opere tra cui si ricordano: a) Oratio Habita Lupiis in funere Serenissimae Margaritae Austriacae Hispaniarum («con sonoro applauso recitata nella Cattedrale di Lecce»); b) Oratio dicat in instauratione Studiorum; c) Epistolae graecae et latine; d) Carolus sive de Virtute Theologica Dialogus Francisci Verieri e Soc. Iesu a Carolo della Monaca editus (stampato nel 1633 dopo la sua morte); e) De Animum ornatum oratio Habita, in coll. Napolitano 1603; f) De Judiciis; g) molti trattati di diversi argomenti e soprattutto di eloquentia, nonché commenti e annotazioni sugli scrittori antichi greci e latini; altri epigrammi editi ed in editi19.
A questo sommario elenco della sua produzione letteraria, va anche aggiunto un lunghissimo poema in versi in latino, rimasto inedito e depositato presso la Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, nel fondo Mss. Gesuitici 1638 (3767), così indicato: Vereri Francesco d.C.d.G. Ignatius Heroicum Poema in XII libros distinctum, dedicato a Giovanni Antonio Albricci III, ultimo di questa nobile famiglia feudataria di Salice ed altri feudi di Terra d’Otranto, figlio di Giovanni Antonio Albricci II e di Giulia Farnese, mecenate e uomo «di chiara intelligenza e di animo liberale»20, in amicizia anche con Alessandro Mattei II21.
Pubblicato in Defensor Civitatis. Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Edizioni del Grifo, Lecce 2017, pp. 325-348 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 23-40, Novoli 2024.
Note
1 Archivio di Stato Di Lecce, not. L. Lombardi, Lecce 46/38, a. 1665 f. 38 (in O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 21 n. 35.
2 Cfr. G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia, toponomastica, cit.; Id., “Il principe perfetto”. Giovanni Antonio Albricci Terzo Testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino, cit.; Id., Bernardino Realino il santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoria/e di Lecce degli anni 1623-1624), cit.; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, cit.; Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, cit., (nell’appendice iconografica vengono pubblicati alcuni epigrammi inediti del Guerrieri).
3 Questo documento è contenuto nel volume 645 (ff. 772-803) presso APG ed è datato 22 gennaio 1624. Una grande massa d’informazioni scaturiscono da queste carte processuali. Questi ultimi tre processi si svolsero lungo un periodo di circa un anno e con essi furono interrogati complessivamente ben 438 testi: 191 a Napoli, 239 a Lecce e soltanto 8 a Carpi (53 sacerdoti e 14 fratelli coadiutori gesuiti, 9 religiosi di altri ordini, 28 sacerdoti secolari, 47 religiose di diversi ordini e congregazioni, 287 laici, dei quali 153 uomini e 134 donne). Il periodo leccese (dal 4 luglio 1623 al 17 luglio 1624) è ovviamente il più ricco in quanto il Realino trascorse nella città di Lecce ben quarantuno anni e sette mesi (vi era giunto partendo da Napoli, dopo una settimana di viaggio, circa le ore 15 di domenica 19 dicembre 1574, in compagnia del fratello Alfonso Solòrzano), destando nella città “una primavera spirituale (che) come un immenso palpito diffondeva intorno per il Salento ampi soffi di vita” e un “rigoglio di vocazioni” che troverà la massima espressione in personaggi appunto come Francesco Guerrieri, Claudio Seripandi, Bernardino Piccinni, Bernardo De Angelis, Sabatino De Ursis, Gian Domenico Bilanci ed altri (per queste notizie e per un ulteriore approfondimento consultare M. Gioia, Per una biografia di San Bernardino Realino S.I. (1530-1616). Analisi delle fonti e cronologia critica, in “Archivum Historicum Societatis Iesu”, v. XXXIX, Roma 1970, e la bibliografia (vastissima e fondamentale) ivi citata; Id., Introdusse la Compagnia a Lecce S.Bernardino Realino, in “Societas”, a. XLI, nn. 4-5 Napoli, luglio-ottobre 1992, p. 97 e ss.; F. Iappelli, Gesuiti a Lecce: 1754-1767, ivi, p. 104 e ss.; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento, cit.; Id., Profili Gesuitico-Salentini (1574-1767), estratto da M. Volpe, IGesuiti nel Napoletano, vol. III, Napoli 1915; Id., La Compagnia di Gesù nelle Puglie (1574-1767, 1835-1940), Roma 1941; G. Broia, Cenni biografici del B. Bernardino Realino, Apostolo, Taumaturgo Compatrono della città di Lecce, Lecce 1927; Id., Il beato Bernardino Realino compatrono della città di Lecce, Torino 1930; Promotore Appulo del culto del B. Bernardino Realino, fasc. XX-XXI, Lecce 1928. La testimonianza processuale del padre Francesco Guerrieri è in APG, vol. 645, ff. 772-803.
4 All’epoca il Guerrieri aveva 61 anni e questo lo si ricava dalla sua stessa deposizione in quanto, a domanda, così risponde: «Mi chiamo Francesco figlio di Stefano Verriero e di Cattherina Ruggi, sono di Santa Maria di Nove, castello vicino a Lecce da sei miglia, sono d’anni 61 e Religioso della Compagnia di Gesù professo, et ho fatto voto di povertà, e anco del commune della mia Religione» (vol. 645, f. 772). Dopo aver risposto inizialmente a ciò che verteva sulla sua «esatta individuazione umana e cristiana», il Guerrieri fornisce quindi informazioni biografiche sul Realino. Difficilmente avremmo saputo l’anno di nascita del Guerrieri (diverse fonti sono completamente discordanti tra loro) se non fosse esistito questo documento anche perché, l’Archivio Parrocchiale Novolese conserva i registri dei battezzati a partire dal Quinterno del 1571 in cui, tuttavia, è riportato l’unico documento autografo del Guerrieri (a Novoli) e che attesta il battesimo di uno schiavo negro, un certo Mattia, ad opera dello stesso padre «[…] fu battezzato da me Francesco Guerrieri sacerdote della Compagnia di Gesù secondo il rito della chiesa nel giorno di S. Paolo Eremita 15 di gennaio 1603». Quinterno di tutti li battezzati incominciando dall’anno del Sig(nore) 1571. In S(an)ta Mari(a) di nove, f. 119v.
5 Una bella descrizione della morte del padre Francesco Guerrieri (già da me pubblicata in Novoli, origini etc.) è in B. Da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della Provincia di S.Nicolò, in Lecce, dalla stamperia di Oronzo Chiriatti, 1723-1724, parte I, pp. 134-137. Si veda anche G.A. Patrignani, Menologio di Pie Memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù dall’anno 1538 fino all’anno 1728, in Venezia, presso Niccolò Pezzana, MDCXXX, Tomo IV, pp. 10-11.
6 Qualche mese prima di morire (in odore di santità) nel luglio 1629, scrisse da Taranto la seguente lettera al Realino già morto da 14 anni, consegnandola ad un nobile giovane che andava a visitare il suo sepolcro in Lecce: «Non è cosa inaudita o padre Bernardino Realino, che si scrivano lettere a chi già morto in terra, si crede vivere in Cielo. Tanto, fra gli altri, praticò Teodosio il giovane con San Gio: Crisostomo che di fatto acconsentì a quanto in quella carta gli si chiedeva. Parte di qua il presente Giovane a gittarsi sul fortunato terreno, che cuopre le tue ossa, per quivi trovar la salute, che da più mesi li han consunta le malattie. Questi, perciò, mentre nella nostra Compagnia guadagnava i cuori di tutti, e prometteva a tutti una segnalata riuscita, fu da’ nostri Superiori rimandato a suoi genitori: ma con certa promessa, che l’avrebbero a braccia aperte nuovamente accolto in Religione, qualora, cola più libera cura della casa paterna, riparasse al suo male. Adunque, Padre mio, Padre di tutti, che vivente un tempo tra noi, a me particolarmente promettesti che assai meglio m’avresti favorito dal Cielo, odi benigno questi miei voti: e dalla luce dove tu (com’è la nostra opinione) dove tu abiti, stendi la mano a sollevare di terra questo Giovane, ed a corroborarlo in salute. Tutti entreranno a far parte del favore, e i nostri Padri, e i suoi, Congiunti, ed anche, alcune città intere in quest’angolo d’Italia, dov’esso è conosciuto. Così, Padre amatissimo, ci consoli susseguentemente Iddio, col farci vedere, mediante l’opera del suo Vicario in terra, autenticate e distese per l’Universo, le tue glorie: onde più da vicino ti rivediamo su gli altari, e possano a te ascendere, in un colle pubbliche preghiere i nostri incensi. Viva in eterno il tuo spirito a Dio, e viva non dimentico dei nostri bisogni». Non sappiamo chi fosse questo giovane ma dalla descrizione che fornisce il padre Guerrieri si può intuire che certamente doveva essere un personaggio che godeva di una certa fama: «[…] ed anche Città intere in quest’angolo d’Italia, dov’esso è conosciuto».
7 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto. Con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese, cit., Napoli 1855, p. 472.
8 B. Da Lama, Cronica…, cit., parte I, p. 134. Al Santo di Padova il Guerrieri dedicò anche alcuni epigrami: «[…] dopo aver presentito la sua morte per mezzo di Sant’Antonio di Padova che gli apparve e da lui antecedentemente commentato con vari epigrammi».
9 G.C. Infantino, Lecce sacra, appresso P. Micheli 1634, p. 178. Domenico De Angelis lo aveva inoltre inserito nel suo Catalogo degli autori, che si conterranno nella Prima Parte dell’Istoria de’ Scrittori Salentini col nome di Francesco Guerrero.
10 F. Schinosi, Istoria della Compagnia di Giesù appartenente al regno di Napoli, in Nap. nella stamperia di Michele Luigi Muzio, MDCCXI, parte II, p. 189. Si veda anche A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, vol. II, Ermanno Loescher, Torino 1895, p. 351, il quale riporta il testo della seguente lettera: «Fra Giovanni Francesco Cozzarelli al Padre Francesco Guerriero. Napoli. Il Signor Torquato Tasso sta bene; ed a quest’ora mi ha mandato il suo servidore con un viglietto, ch’io gli rimandi i suoi versi. Vostra Reverenza si privi del suo gusto per contento e sanità dell’autore; quale in quella indisposizione in cui giace, potrebbe entrare in altri noiosi pensieri, e dannevoli alla salute, quando non s’adempisce il suo desiderio. Di grazia, glieli mandi subito; e quando ella li volesse vedere più a lungo, io li tengo di buono carattere, mandatimi stamane dall’istesso autore. Con che le prego da Dio ogni contento. Di casa (Ottobre 1594)».
11 F. Schinosi, Istoria, cit., parte II, p. 189: «Nella quale congiuntura, Torquato Tasso, havendolo alcune volte udito, il chiamò Idea dell’eloquenza, e della Sapienza. E celebravane di poi l’una, e l’altra, presso i primi letterati di quel secolo, sì con la sua voce, sì con la sua penna, ed in Napoli ed in Roma: dove per questi stessi tempi andò Torquato a finire i suoi giorni».
12Ivi: «[…] dove per questi stessi tempi andò Torquato a finire i suoi giorni. Un’anno prima che nel 1595. Ciò gli avvenisse, scrissegli quelle lettere, che tuttavia conserviamo, piene di somme lodi, e di strette preghiere, onde voleva corretti dal nostro Padre alcuni suoi componimenti. Tra’ quali, l’Elegia intitolata Ad Iuventutis Neapolitanae Principes, scritta di mano propria del Tasso, si rimase in nostro potere, una con la originale correzione del Guerrieri, a cui mancò il tempo di mandargliela, perché all’altro mancò il tempo di vivere». Si veda anche P. Serassi, Vita di Torquato Tasso, in Bergamo, stamperia Locatelli MDCCXC, p. 248 (II ed. tomo III), e A. Solerti, Vita, cit., vol. II, pp. 789-790 e p. 801 alla nota 4.
13 S. Santagata, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al regno di Napoli, Napoli 1706-11, parte IV (1707), p. 507 (anno 1629).
14 F. Schinosi, Istoria, cit., parte III, p. 189 in nota.
15 Epigrammi sono ad esempio nell’opera di Scipione Capece, De Principiis Rerum Libri Duo, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum e Antonium Pacem, 1594; in De Perscribendis Epistolis Libellus, di Aloisio Antonio Santorello, Neapoli, apud Josephum Cacchium, M. D. LXXXXI; in De Teate Antiquo Marrucinorum in Italia Metropoli Libri Tres, di Lucio Camarra, Romae, ex typographia Dominici Manelfii, 1651; in I pregi e le glorie de’ Letterati di Giovanni Manfredi Tarentino, in Roma, per Nicolò Angelo Tinassi, MDCLXXXII, in Vita della B.V. Maria di Lorenzo Maselli, Neapoli 1606; in Historia della Vita, Miracoli, Traslatione e Gloria dell’Illustrissimo Confessore di Christo S.Nicolò Arcidiacono di Mira e patrono della città di Bari di Antonio Beatillo Barese, in Napoli, nella stamperia de gli Heredi di Tarquinio Longo, 1620; in Historia della vita, morte, miracoli, e traslazione di Santa Irene, Neapoli 1609, dello stesso Beatillo.
16 G.C. Infantino, Lecce sacra, cit., p. 178.
17 P. Scardino, Epigrammatun Centuria, Neapoli, apud Constantinum Vitalem, 1603, p. 110. Ma anche lo stesso Scardino dedica al Guerrieri il seguente epigramma Dum rapis è Lethes Verreri gurgite / Athenas /. Nec finis antiquum Romae obijsse Decus / Argolica Latia agnoscit te lingua parentem / Namq; haec, delicijs crescit., illa tuis; / Utraq; quum patrios lusus, vocesq; requirat / Blandula in amplexus itq; reditq; tuos / Tà bellas Pater hand genuit per sàecula natas / Tam bellum natae non habuere patrem (p. 29).
18 P. Formoso, Carmina, ad illustrissimum excellentissimum Dominum D. Io. Antonium AlBricium Farnesium Vetranae Principem, Salicis Marchionem, Turris Susanniae Dominum, Lycii, apud Petrum Michaelem, 1631 (una copia di questo rarissimo testo è conservata presso la Biblioteca dell’Università di Lecce). Il poeta così si rivolge al Guerrieri: «Adm. rever. patri Francisco Verrerio Iesuitae. Tarenti docenti. Arcadia exortus veteres perrexit Athenas Iuppiter, has leges edocuitque suas. Urbem quò clarae Matrem Virtutis honorant, Doctorem faciunt & super astra Deum. Sic viret aebolio contermina terra Galeso, Verreri, ingenio, Moribus, arte tuis. Laus sua utrumque manet, sede eò te gloria maior, Quò sophiae praebes sanctius ipse genus».
19 Cfr. De Backer A. Sommervogel, Biblioteque de la Compagnia de Jesus, Bruxelles, Paris 1890-1909, Il. III, p. 1915, T. IX p. 446, T. XII p. 1110. Altri epigrammi s’incontrano nel carteggio epistolare tra il Realino e il Guerrieri, conservato in APG, vol. 657, ff. 122r e v, 123v-124r, 128r-128v. Riporto ad esempio quello che trovasi a carta 122, datato 24 gennaio 1599: «Dulcis Amor Jesu dignum te reddat amore / Vereri, ò dignum me quoque reddat Amore / Que vero scribis menti gratissima nostrae, / Praesentem faciunt te mihi. Scribe igitur / Scribe, licet raro id permittant tempora, crescit / Dum mora, crescit amor. Pulcraque rara. Vale» (è dedicato dal Realino al Guerrieri). Il Realino, ancora, in una lettera del 21 agosto 1607 (Lecce), loda l’epistola del Guerrieri e, insieme, la sua «insigne mente», la sua modestia che avrebbe bisogno – dice – di un encomio non umano ma angelico.
20 Di quest’opera inedita e manoscritta del Guerrieri ho già dato ampia informazione in IlPrincipe Perfetto. Giovanni Antonio Albricci III, cit., pp. 41-54. Tra le opere scritte dal Guerrieri, il manoscritto dedicato all’Albricci, è certamente quella più importante. Si tratta infatti di un lunghissimo poema di versi in latino così indicato: «Vereri Francesco d.C.d.G. Ignatius Heroicum Poema in XII libros distinctum». Sono in tutto 161 carte. Alle carte 7 e 8r vi è la lettera dedicatoria a «Exc: mo Io: Antonio / Albricio / Veteranensium Principi». L’Albricci all’epoca aveva solo 16 anni «[…] Quod si in tam tenera es aetate tantus: annos videlicet natus vix sexdecim». Trad.: «[…] Che se pur in così tenera età tu sei tanto grande: certamente hai appena sedici anni», ma il Guerrieri glielo dedica (oltre ai motivi di far parte della stirpe Farnese per parte di madre e per i vincoli di amicizia che a lui lo legano) soprattutto per le doti dell’animo, del suo ingegno veramente singolari, per la sua morigeratezza, per la diligenza con cui coltivava tutte le arti liberali, tanto da essere già in così tenera età (secondo lo stesso padre profondamente colpito da queste doti in un fanciullo di appena 16 anni) «un esempio di principe perfetto», un principe ammirato per il modo di cavalcare, per come trattava le spade, suonava la lira, competente nella pittura, e soprattutto, nelle lettere latine e greche e in filosofia.
21 Nel 1625, Alessandro Mattei II, fece da testimone, assieme all’Albricci, alle nozze di Maria Paladini con Giovanni Enriquez (primogenito di Gabriele, anch’egli dotato di vasta cultura ed eccellente dottrina, nonché di spiccate virtù civiche). Cfr., G. De Nisi, Salice terrae Hidrunti. Storia aneddotica dal X al XX secolo, Ostia MCMLXVIII, p. 46.
L’indagine che qui presentiamo vuole essere un contributo non solo sulla figura e sull’opera di san Bernardino Realino ma anche sul ruolo realmente svolto da un nobile casato salentino.
Tra le famiglie aristocratiche con cui ebbe rapporti san Bernardino Realino, si distingue, infatti, certamente la famiglia dei Mattei. Essi furono signori di Novoli, chiamato Santa Maria de Novis nel periodo storico in cui vissero, per quasi due secoli (1520-1706)1, interpretando un ruolo aristocratico e feudale caratterizzato soprattutto da un forte impegno nella cultura e nell’arte, impegno che gli si riconosce indubbiamente attraverso numerose testimonianze coeve e successive, supportate da una significativa documentazione sia letteraria che archivistica2. L’eccezionale «fontana» che l’ultimo dei Mattei – Alessandro III – il 1700 fece innalzare nel cortile della sua residenza baronale di Novoli, conserva ancora l’epigrafe in latino (egregiamente interpretata e tradotta da Mario Cazzato) che sembra perfettamente condensare la profonda tradizione umanistica della sua nobile famiglia, tradizione che il secolo prima il Marciano, nella sua Descrizione aveva contribuito a fondare con «accenti tanto ammirati da sfiorare il mito. Essa costituisce infatti l’ultimo episodio di una plurisecolare tradizione di committenza artistica, mantenuta appunto sempre su elevati livelli culturali, non casuale ma inquadrata in una particolare concezione del ruolo dell’aristocrazia fondato principalmente sul prestigio culturale come simbolo distintivo e autogiustificativo». L’epigrafe così recita: «Al Dio dell’Ospitalità Alessandro Mattei, non per desiderio di grandezza o di potere, ma per conforto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nell’anno 1700»3.
L’ascendenza di questa famiglia è comunque controversa. Secondo il Foscarini, probabilmente rifacendosi al cronista leccese Braccio, la famiglia Mattei, di origine leccese, fu aggregata al patriziato non per nobiltà di natali, ma per censo, senza tuttavia emergere o ricoprire cariche pubbliche4. Altre fonti quali il Mazzella, il Crollalanza, il Gonzaga considerano la famiglia di Matteo, Matthei o Mattei, come un ramo della casa Papereschi romana, casa molto potente in Roma da cui uscirono i pontefici Innocenzo II e Clemente III, cioè Gregorio e Paolo Papereschi. La famiglia Mattei che ritenne lo stemma dei Papereschi diramandosi in Francia e in Umbria mentre il ramo principale godeva di popolarità tra le principesche famiglie romane, ebbe origine da Matteo Papereschi che viveva nei primi anni del XIII secolo. I Mattei patrizi romani si divisero in tre rami: quello di Trastevere, di Pescaria e di Muzio e Fabio Mattei, dal primo dei quali discesero i marchesi Mattei e dal secondo i duchi di Paganica, principi romani estinti nella casa Conti. Una diramazione dei Mattei di Roma passò a stabilirsi in Gaeta e Sessa, ed un’altra in Lecce, ove ottenne appunto i titoli di conte di Novoli e marchese di Trepuzzi e si estinse, in Alessandro III ultimo conte e marito di Angela Invitti di Napoli, dei principi di Conca che non ebbe figli. Tra i Mattei “romani” si distinse il nobile Ciriaco Mattei, amante della scultura antica e della pittura contemporanea che aveva riunito sul suo palazzo a via delle Botteghe oscure e nella sua villa sul Celio una collezione ammiratissima dagli eruditi e dagli scrittori dell’epoca (il Caravaggio, all’apice della gloria, nel corso del 1601, dipinse per lui la Cena di Emmaus esposta recentemente in una mostra alla National Gallery di Londra5. La storia dei Mattei baroni di Novoli ha inizio precisamente nel primo Cinquecento).
Le antiche carte attestano che il 26 giugno del 1520 si verificò l’acquisto da parte di Paolo Mattei, dottore in leggi, di una metà del feudo di Sancta Maria de Novis e dell’altra metà da parte di Vittorio Prioli, genero dello stesso Paolo, perché marito della figlia Caterinella. Il suddetto feudo di Sancta Maria de Novis, acquistato per 6850 ducati versati al viceré Raimondo di Cordoba, apparteneva ai Maramonte, barone di Campi, ed era stato messo in vendita dalla Regia Corte, su richiesta di Cesaria Maramonte, in quanto il barone Giovanni era deceduto senza lasciare legittimi eredi. Nel 1523 Paolo Mattei acquistò anche il disabitato feudo di Nubilo o Novule, vendutogli da Aurelia di Acaia, moglie di Giovanni Maria Guarino. Nella seconda metà del XVI secolo i Mattei acquistarono da Donato Maria Prioli l’altra metà del feudo che rimase di proprietà della famiglia fino ai primi anni del Settecento quando il feudo passò nelle mani dei Carignani6.
Probabilmente, l’immediata vicinanza del casale di S. Maria de Novis alla città che li aveva accolti (il 19 dicembre del 1574), consentì certamente ai padri gesuiti di svolgervi qui, subito in maniera incisiva il loro ministero apostolico. Il padre Giovanni Barrella ci dice infatti che a Novoli i Gesuiti, fin quasi dagli inizi della loro venuta a Lecce, fondarono due “congregazioni di Spirito” (oggi confraternite), intitolate l’una al nome SS.di Gesù, l’altra alla Immacolata. Nella prima vi era una grande tela (oggi scomparsa) rappresentante nell’alto in uno sfolgorio di luce, il nome SS. di Gesù, e nel centro la figura augusta del Salvatore con ai piedi sant’Ignazio e san Francesco Saverio. Dinanzi a questa tela a cura dei fedeli, ardeva perennemente una lampada, mentre il clero locale, ogni anno celebrava in detta congregazione, a proprie spese e con grande solennità le feste dei santi Ignazio e Francesco Saverio. Quella dell’Immacolata imponeva che i confratelli fossero «di buona vita, fama e costume»7.
L’amicizia del Realino con la famiglia Mattei, si concretizzò invece soprattutto con il barone Filippo II, nipote di Alessandro I che pagò il relevio nel 15728. In un atto notarile del notaio C. Pandolfo dello stesso anno, Filippo II è detto infatti barone di S. Maria di Nove e Palmarici, quindi aveva già sposato Sibilla Ventura che gli aveva portato in dote il feudo di Palmariggi9.
Il conte Filippo II, uomo assai religioso, fu veramente (scrive Francesco Antonio De Giorgi) «Gentiluomo di molta stima e per le sue ottime qualità amato ed onorato da tutti»10. Era inoltre padre di Alessandro II, l’umanista e mecenate (punta di diamante della famiglia) ricordato dal Marciano nella sua Descrizione come «uomo di singolar dottrina, versato in tutte le scienze, nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e prudentissimo Principe», possessore di una biblioteca che non aveva pari nella provincia. Il Marciano, com’è noto, godette della sua munifica ospitalità, dei suoi preziosi suggerimenti e libri della biblioteca in un arco di tempo che va dal 1615 al 162011.
Le vicende storiche che riguardano i Mattei e il rapporto con il padre Bernardino sono contrassegnate soprattutto da un «evento prodigioso» che il santo compì in Sancta Maria de Nove presumibilmente in un periodo tra il 1580 (quando iniziò ad usufruire nella deambulazione dell’appoggio di una robusta canna) e il 1589 (morte di Filippo II)12.
Alla fine del 1500, Filippo Mattei, infatti per le esigenze della popolazione novolese fece scavare un pozzo di acqua dolce su diretta indicazione di san Bernardino Realino. Così racconta l’episodio Alessandro Mattei (questo è riportato nel Catalogo miraculorum in vita dal Venturi, biografo del Realino, nel testo Storia della vita del Beato Bernardino Realino sacerdote professo della Compagnia di Gesù): «La bonanima del Signor Conte mio padre che morse nel 1589, visitato una volta in Santa Maria dal Padre Bernardino gli disse che in quelle sue terre si pativa molto di acqua buona. E veramente pativano molto per la mancanza di acqua. Vi erano in quelle terre molti pozzi, ma tutta trista che era impossibile da bere, onde per averne erano costretti quella buona gente di andarsene lontano ad attingerne. Il P. Realino senza punto muoversi fece con la canna un segno per terra e disse: “Vossignoria faccia scavare in questo loco e troverà acqua perfettissima”. Si scavò e si trovò un’acqua eccellentissima, et abbondantissima, che basta e soverchia a tutto il Casale, e tutti la chiamano acqua ottenuta per miracolo del P. Bernardino, giacché attorno al detto pozzo ci sono più pozzi d’acqua trista».
Il pozzo, scavato di fronte al Palazzo baronale, detto Pozzo del Signore, cioè del Conte13 è venuto alla luce a Novoli nel marzo del 2008; il pozzo fu detto del Signore perché indicava un bene feudale cioè appartenente al signore del luogo e non nel significato di pozzo consacrato a Dio o a Gesù Cristo (fu distrutto nel 1928)14.
I continui e significativi rapporti tra il Realino e Filippo II Mattei sono ulteriormente testimoniati anche dal particolare tempietto eretto a poca distanza dalla chiesa matrice e nel quale su una parete venne inciso ben evidente il monogramma del Gesuiti. Negli anni settanta del XVI secolo, Filippo II infatti, ispirato certamente dallo stesso Realino, fece costruire l’ottagona chiesa del Salvatore e della Madonna delle Grazie (oggi detta di S. Oronzo), “un piccolo gioiello architettonico” dovuto probabilmente alla scuola dell’architetto-scultore Gabriele Riccardi e che nella sua volta “ad ombrello” ricorda specularmente la soluzione adottata nell’abside della leccese chiesa di Santa Croce15. Nella chiesa inoltre è presente lo stupendo altare barocco realizzato dal Cino su incarico dell’ultimo dei Mattei Alessandro III nel 1704 (durante recenti lavori di restauro e conservazione dell’altare sono state trovate incise, nella parete superiore destra, le due lettere G.C. ovvero le iniziali di Giuseppe Cino16; l’altare, in alto, a destra e a sinistra reca anche l’arme dei Mattei).
Un contributo fondamentale sui rapporti tra Realino e i Mattei sono le lettere che il Realino scrisse quando era lontano da Lecce per altre missioni e che si trovano conservate presso l’Archivio della Postulazione Generale della Compagnia di Gesù di Roma. Si consulti a tal proposito l’ottimo studio del padre M. Gioia La Grazia vocazionale di S. Bernardino Realino, in cui, tra le tante lettere dell’Elenco Cronologico dell’Epistolario Realino figurano lettere del Realino ad Alessandro Mattei e alla madre Sibilla Ventura sorella di Isabella Ventura, penitente del Realino stesso. Le lettere sono rispettivamente datate 22 feb. 1590 e 19 feb. 1593 quelle di Alessandro; quella della madre 10 feb. 159217. Queste lettere hanno una certa importanza soprattutto perché sono una testimonianza concreta che già in tenerissima età Alessandro Mattei dimostrava qualità non comuni, facendo intravedere la figura di un ragazzo capace di fare molta strada sulla via del sapere.
Scrive infatti il padre Realino nella lettera inviata il 19 febbraio 1593: «O lettera piena di interessi umanistici, o indole che si evidenzia per il valore, o spiccato ingegno di adolescente». E il santo religioso continua con l’augurio che queste doti di mente e di cuore vengano coltivate dal ragazzo e crescano con il suo costante impegno e con l’aiuto di Dio. L’altra lettera è del 22 febbraio 1590 e in questa ne esaltava le meravigliose virtù non solo sue ma anche del padre Filippo morto l’anno prima presso cui “molto spesso” era stato ospitato, confermando così quanto già il galatonese Giovanni Pietro d’Alessandro nel suo libro di epigrammi composto tra il 1589 e il 1594 gli aveva pronosticato chiamandolo «amante della Sapienza e delle Muse»18. L’epigramma così recita: «A ragione hai nell’arme l’aquila di Giove / o amante della Sapienza e delle Muse / Infatti come l’aquila vola in alto e osa guardare il sole / così tu col tuo ingegno puoi volare in alto / e conoscere i profondi misteri della natura»19.
Pubblicato in Defensor Civitatis. Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Edizioni del Grifo, Lecce 2017, pp. 325-348 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 23-40, Novoli 2024.
Note
1 Sulla successione feudale di Sancta Maria de Novis e del feudo di Nubilo si vedano gli studi di O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Novoli 1986; Id., I MatteiSignori di Novoli (1520-1706), Bibliotheca Minima, Novoli 1989; G. Spagnolo, Novoli origini, nome, cartografia e toponomastica, Tip. A. Rizzo, Novoli 1987; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Ed. del Grifo, Lecce 1990. In una memoria legale redatta da B. Tizzani e N. Turfani è riportato: «In Provincia di Lecce esiste la terra di Santa Maria di Novoli, volgarmente detta Novoli, ed il Feudo disabbitato (sic) Nubilo, Noole, Novoli, S. Onofrio, o del Convento. La Terra di Santa Maria nel 1520 fu devoluta al Fisco per la morte di Giovanna Maramonte Baronessa di Campi senza legittimi eredi, fu venduta a Paolo dei Matteis, e Vittorio de Priolo Suocero, e Genero. In seguito il solo Paolo de Matteis con istrumento per Notar Pomponio Stomeo di Lecce comperò nel 1523 da Aurelia de Acaia moglie di Gio: Maria Guarino separatamente il Feudo di Nubilo, o Noole. Questi due distinti Feudi furono nella famiglia de Matteis fino al 1706, in cui si morì Alessandro de Matteis ultimo possessore senza legittimi eredi in grado. Nel 1707 la Regia Camera per concorso de’ creditori vendé questi due feudi a Felice Carignani, e ne fu liberato il prezzo a’ creditori del de Matteis, come si rileva dall’istanza fiscale». B. Tizzani – N. Turfani, Per l’Università di Santa Maria di Novoli e suoi Naturali contro l’utile possessore di quella, Napoli 1805, p. I. (Commissario Presidente D. Vincenzo Sanseverino. Attuario D. Nicola Guerra). Il toponimo Nubilo è la più antica denominazione di tutto l’intero territorio dell’ex feudo del convento, che poi, come già detto, si chiamò Novule. In seguito ne ha indicato solo una contrada e precisamente quella che ad occidente della provinciale per Lecce, vi è tra la frazione convento e la via vicinale dell’Abbadia.
2 Relativamente a questi aspetti e sulle virtù mecenatiche e liberali di questa famiglia (la cui punta di diamante fu Alessandro II ricordato dal Marciano), i loro rapporti intellettuali che furono certamente non casuali ma inseriti in un “sistema locale ben determinato nel quale centro e periferia erano legati da rapporti e uno scambio continuo di esperienze e fermenti culturali” si rimanda ai seguenti contributi: M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei signori di Novoli, in “Camminiamo insieme”, XII, gennaio 1998, pp. 16-17; M. Cazzato, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “gallaria”: per una storia del collezionismo aristocratico in terra d’Otranto, in Atlante del Barocco in Italia. Il sistema delle residenze nobiliari. Italia meridionale, Meridionale, Roma 2010, pp. 182-l94; Id., Per la Biblioteca dei Mattei.Girolamo Marciano, l’iconografia del Ripa e la “Taranta Apula”, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XIX, 18 luglio 2012, p. 27; Id., Una Sant’Irene per Alessandro Mattei (1604), ivi, p. 15; Id., I maestri di scuole del ’500 salentino, ivi, XX, 18 luglio 2013, p. 12; Id., La fontana dei Mattei. Profili di committenza aristocratica, ivi, XII, 18 luglio 2005, pp. 6-7; G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca, frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di M. Cazzato, Ed. del Grifo, Lecce 1992; Id., Fra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del conte Alessandro Mattei, Signore di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, X, 20 luglio 2003, pp. 33-36; Id., Girolamo Marciano e iDiscorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese. Contributo per una biblioteca perduta, ivi, XVII, 18 luglio 2010, pp. 22-26; Id., Il principe Perfetto. Giovanni Antonio Albricci Terzo (testimonianze dall’Ignatiados poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), in “Quaderno di ricerca. Costumi e storia del Salento”, Grafiche Panico, Salice Salentino, ottobre 1989, pp. 21-54; Id., Francesco Guerrieri e Prospero Rendella giureconsulto e storiografo monopolitano, in “Annuario Studi e Ricerche”, I, Il Parametro Editore, 1993, pp. 115-134; Id., Bernardino Realino il Santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoriale di Lecce degli anni 1623-1624), in “lu Lampiune”, IV, 2 agosto 1990, pp. 107-111; Id., Memorie antiche di Novoli (note su un manoscritto ottocentesco della Descrizione di S. Maria de Nove di Girolamo Marciano), in “Lu puzzu te la Matonna”, XII, 17 luglio 2005, pp. 11-13; Id., Pregando Iddio per l’anima mia… Il Testamento di Filippo II Mattei Barone di S.Maria de Nove, ivi, XIX, 15 luglio 2012, pp. 16-19; Id., Francesco Guerrieri “sive verierius” sacerdote della Compagnia di Gesù (gli epigrammi greci e latini), ivi, cit., XX, pp. 13-15; O. Mazzotta, Ex Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “Camminiamo insieme”, VI, 3 marzo 1992, p. 5; L. Ingrosso, La Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “lu Lampiune”, XIII, 2, 1997, pp. 71-77; M. Cazzato, Gli ultimi Mattei e il feudo di Trepuzzi, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XXII, 19 luglio 2015, p. 10; G. Spagnolo, I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario, in E. Bruno – M. Spedicato (a cura di), Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (secc. XV-XVIII), Edizioni Grifo, Lecce 2016, pp. 3-19.
3 Con la morte di Alessandro III nel 1706, si estingueva a Novoli la stirpe dei Mattei che per circa duecento anni avevano esercitato la loro signoria sul paese: «Nel giorno 7 del mese di Marzo 1706 l’Ill(ustrissi)mo Don Alessandro Mattei conte di questa terra e del Marchesato di Trepuzzi marito di Donn’Angela Invitti di Napoli, nella sua età di anni quarantaquattro nella sede del suo palazzo patrizio, rese l’anima a Dio e il di lui corpo nello stesso giorno fu sepolto nella tomba dei suoi avi nell’interno del Convento e della Chiesa dei Frati Domenicani di questa terra reggendo l’amministrazione di detto Convento frate Ferdinando da Campi; confessò (le proprie pene) nel quinto giorno, restò privo del S.S. Viatico per smarrimento di coscienza, fu tuttavia consacrato della unzione del sacro olio del settimo giorno in cui fu sopra sostituito (nel marchesato) per mezzo del Rev(erendissi)mo Don Filippo Antonio Romano», (Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice S. Andrea di Novoli, Registro dei morti aa. 1680-1709. Sulla fontana del palazzo ducale aveva fatto incidere la seguente epigrafe: «Deo Xenio / Non Magnitudinl Aut / Dominationi / Sed / Solatio Et Ocio / Alexander Mattei / Aedes Suas / Xysto Et Fonte Excoluit / A. Mdcc», Al Dio dell’ospitalità. Alessandro Mattei, non per desiderio di grandezza o di potere, ma per conforto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nel 1700, cfr., M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; un’epigrafe «che nonostante l’epoca rigurgita ancora di echi classico-umanistici»). I Carignani tennero poi Novoli per novantadue anni e furono dunque gli ultimi signori del luogo sino alla soppressione della feudalità applicata nel Salento nel mese di agosto del 1806, cfr. O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit.; Id., Novoli (1806-1931), Bibliotheca Minima, Novoli 1990; G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, cit.; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, cit.; O. Mazzotta, I MatteiSignori di Novoli (1520-1706), cit.
4 Cfr. A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle famiglie nobili notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, premessa di Pietro De Leo, Arnaldo Forni Editore, Bologna 1971, pp. 203-204 (con “Albero genealogico”) ristampa dell’edizione di Lecce 1927; B. Braccio, Notiziario o parte d’istoria di Lecce, in appendice a “Rivista storica Salentina”, II, 1905, p. 15.
5 Cfr. S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, in Napoli, ad istanza di Gio. Battista Cappello, MDCI, p. 590; G.B. Crollalanza, Dizionario Storico-Blasonico delle famiglie nobili e notabili Italiane estinte e fiorenti, vol. II, Forni Editore, Bologna 1965, p. 408 (ristampa anastatica dell’ed. del 1866); Berardo-Candida-Gonzaga, Memorie delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, tomo II, vol. IV, Forni Editore, Bologna 1965, p. 158 (ristampa anastatica dell’edizione di Napoli 1875); G. Spagnolo, Dalle rime del Mannarino un sonetto ad Alessandro Mattei, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, XVI, Novoli 17 gennaio 1992, pp. 6-7.
6 B. Tizzani – N. Turfani, Per l’Università di Santa Maria di Novoli e suoi naturali contro l’utile possessore di quella, cit., p. I. Lo stemma dei Mattei campeggia sulla facciata della cinquecentesca chiesetta annessa al convento dei domenicani dedicata a sant’Onofrio (oggi della Vergine SS. del Buon Consiglio) e che divenne la tomba di famiglia (Cfr., G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, C.E.T.I. Editore, Teramo 1965, p. 48).
7 Cfr. G. Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie. 1574-1767, 1835-1940, R. Tipografia Editrice Salentina, Lecce p. 78. Il p. Realino, il p. Giacomo Abate e il fratello Solorzano vennero a Lecce, per impiantare una casa gesuitica nel dicembre del 1574 (M. Gioia, La grazia vocazionale in S. Bernardino (estratto della tesi di Laurea), Roma 1970, pp. 39-40.
8 P. Coco, Cenni storici di Squinzano, Lecce 1922, p. 360.
9 O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 18.
10 G. Spagnolo, Pregando Iddio per l’anima mia […] Il Testamento di Filippo II Mattei Barone di S.Maria de Nove, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., XIX, 15 luglio 2012, pp. 16-19.
11 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli 1855, pp. 471-472; G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in «Contributi», IV, n. 4, Maglie 1985, pp. 43-44.
12 R. Franchini, Il Pozzo del Signore, in “La Voce del Pastore”, I, Novoli 1958, pp. 4-6; Idem, II, nn.
13 Il Franchini riprese infatti l’episodio da E. Venturi, Storia della vita del Beato Bernardino Realino sacerdote professo d. C.d. G., Tipografia A. Befani, Roma 1895, p. 262; G. Germier, San Bernardino Realino, Firenze 1943, p. 510. Cfr. anche G. Spagnolo, Un antico insediamento rurale novolese: la masseria della Corte o del Signore, in “Lu Lampiune”, V, n. 3, dicembre 1989, pp. 5 e 7 e ss.
14 D. Gallerano, Apprezzo del feudo di Santa Maria de Nove e del feudo di Nubilo o Convento fatto nel 1707 da Donato Gallerano, copia dattiloscritta c/o Mario Cazzato (l’originale che si conservava presso l’Archivio di Napoli è andato perduto) dove il pozzo così viene descritto: «[…] in mezzo della piazza vi sta il Pozzo del Palazzo con il giro di tre grada, ornato con edificio di un pezzo di pietra a forma ovale, e nell’estremità, con due colonne, sopra de’ quali vi è Architrave, Fregio, Cornice e finimento» (p. 13). Il pozzo fu smontato nel 1928 e il Germier che pubblica la sua opera nel 1943, nel narrare l’intervento di san Bernardino, conclude affermando che «ancor oggi si mostra in Novoli il luogo dove sorse il pozzo, e si conserva pure quantunque frantumato, l’antico puteale». Nel marzo del 2008, durante i lavori di rifacimento di parte della piazza Regina Margherita, all’angolo di via Umberto I dove era ubicata la cabina telefonica, casualmente è stata scoperta la voragine del pozzo costellata di tufi che si sprofonda per circa trenta metri fino a raggiungere le falde acquifere. Il pozzo era sotto gli alti alberi che ombreggiavano l’intera piazza e probabilmente, ad eseguire l’opera decorativa esterna al pozzo, furono le stesse maestranze che avevano lavorato al tempietto ottagonale del Salvatore e della Madonna delle Grazie (Cfr. G. Germier, San Bernardino Realino, cit., p. 510; P. De Matteis, La storia ritrovata: il pozzo del Signore, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., XV, 20 luglio 2008, p. 39; F. Spada, Novoli: quando ipozzi erano più d’uno!!!, ivi, XVIII, 18 luglio 2010, pp. 64-65. La capacità culturale ed economica dei Mattei di coinvolgere nelle loro iniziative le personalità più prestigiose del tempo, è l’attribuzione all’architetto di Santa Croce Gabriele Riccardi anche dello splendido portale della chiesa dell’ex convento dei Domenicani nella frazione di Villa convento, la cui fondazione risale al 1551 per opera di Filippo I Mattei (Cfr. G. Spagnolo, I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario, cit. pp. 3-19).
15 M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; M. Cazzato – V. Peluso, Melpignano indagine su un centro minore, Congedo, Galatina 1986, p. 184; O. Mazzotta, IMattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 20.
16 F. De Pascalis, Altare con sorpresa, la firma di Cino, in “Quotidiano”, 25 novembre 2003.
17 Copia di questo carteggio si trova in Archivio della Postulazione Generale della Compagnia di Gesù di Roma, (d’ora in poi APG), vol. 657, ff. 124r-126v, 149v, e vol. 656, ff. 1Av-2A. (Cfr. M. Gioia, La grazia vocazionale di S.Bernardino Realino, cit., pp. 63 -64).
18Ivi, pp. 63-64.
19 Io. Petri De Alexandro, Epigrammatum liber, in Id., Dimostratione di luoghi tolti, et imitati in più autori dal sig. Torquato Tasso nel Goffredo ovvero Gerusalemme liberata, Napoli 1604, p. 257, traduzione in O. Mazzotta, IMattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 27, nota 67.
Melissano e l’antica chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova: costruita dai primi melissanesi, abbandonata dalla parrocchia e recuperata dal Comune
di Fernando Scozzi
Quando mons. Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, visitò il casale Melissano vi trovò poche decine di abitanti ed i ruderi delle chiese di San Pietro e di San Nicola. Non essendoci un luogo idoneo per il culto, non c’era nemmeno il parroco e quindi l’assistenza religiosa era affidata alla bontà d’animo dell’arciprete di Racale che, di tanto in tanto, si recava a Melissano per amministrare i sacramenti. Fra l’altro, il feudatario del luogo, don Andrea Gonzaga, risiedeva a Specchia, capoluogo del marchesato e non aveva alcun interesse a migliorare le condizioni economiche e sociali del casale che, ripopolato agli inizi del XVI secolo (1) , era considerato poco più di un ricetto di contadini. Pertanto, i melissanesi non potevano fare altro che sperare in Dio e seguire il consiglio di Mons. Ambrogio Salvio che, durante la visita pastorale, li aveva esortati a “costruire una nuova chiesa matrice sotto il titolo della Madonna del Rosario dove conservare il Santissimo Sacramento ed i Sacramentalia per le necessità e comodità dei fedeli di Cristo”(2). Ed i melissanesi, pur nelle ristrettezze finanziarie, iniziarono l’edificazione del nuovo tempio utilizzando il suolo ed il materiale lapideo della chiesa diroccata di San Nicola.
Passarono diversi anni e finalmente, nel 1612, la chiesa fu aperta al culto anche se la parte retrostante l’altare maggiore non era stata ancora terminata a causa – rilevò mons. Gerolamo De Franchis – della povertà del luogo. Non avendo risorse finanziarie nemmeno per acquistare i paramenti liturgici, i melissanesi si rivolsero a Jacopo De Franchis, nuovo feudatario di Melissano, che donò alla parrocchia quanto necessario per la celebrazione delle funzioni religiose ed una tela raffigurante Sant’Antonio di Padova, successivamente individuato quale Protettore del casale. Seguì la nomina del parroco e con don Gerolamo Paschali la parrocchia di Melissano riprese il suo cammino.
Intanto, con l’affermazione del culto di Sant’Antonio, la chiesa cambiò denominazione ad attestarlo è mons. Antonio Sanfelice che nel 1719 fece il suo ingresso nella chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano, visitò l’altare del Protettore e quello della Madonna del Rosario (titolare della parrocchia) dove officiava l’omonima confraternita. Sul medesimo altare campeggiava una tela della Madonna del Rosario ed era raffigurato l’albero di carrubo, antico emblema del casale.
Nella seconda metà del XVIII secolo la popolazione di Melissano raggiunse il numero di circa 400 abitanti per cui “era cosa necessaria l’allargare detta chiesa e far la capacità della popolazione esistente per far nascere la divisione dei maschi colle femmine onde evitare l’irriverenza al Santissimo Sacramento. Allora, si riunirono i cittadini benestanti e da par loro stabilirono una tassa di contribuzione di formare il pieno di quattro in cinquecento ducati”. Fu quindi dato incarico al maestro Saverio Negro di Parabita, commorante in Presicce, il quale formò un disegno e si obbligò a realizzarlo per docati novecentodieci. Ma questo importo era di gran lunga superiore alla somma raccolta, per cui furono chiamati altri mastri muratori per riavere minore offerta. Infine, i deputati di Melissano Vitantonio Fasano e Vito Scozzi, impegnandosi nomine proprio, sottoscrissero il contratto di appalto con il maestro Tomaso Piccinno, di Copertino, per il corrispettivo di ducati settecento. I lavori furono terminati nel 1778 come ricorda l’epigrafe affissa sulla controfacciata:
D.O.M.
PIETAS ALAM SACRAE AEDIS
A SOLO EXTRUIT
RELIQUAM QUAE ANTIQUA
EVERAT ECCLESIA
AUXIT RESTAURAVIT ORNAVIT
MDCCLXXVIII
(Dio ottimo massimo/ la devozione costruì dalle fondamenta l’ultima parte del sacro tempio/ ingrandì restaurò ornò quel che l’antica chiesa aveva edificato/ 1778)
La chiesa, quindi, risultò ampliata con la costruzione ex-novo del vano absidale (la cui bella volta lunettata è sostenuta da una larga trabeazione), della sagrestia, del campanile, dell’altare maggiore e di tre altari laterali, compreso quello del Protettore Sant’Antonio di Padova.
Così il tempio rimase aperto al culto fino agli anni Ottanta del XIX secolo quando, in assenza di manutenzione, le condizioni dell’antico edificio divennero così precarie da indurre Don Vito Corvaglia a scrivere a Pio IX supplicandolo di “provvedere per la costruzione di una nuova chiesa, non potendo ciò ottenere dai suoi parrocchiani, tutti gente agricola e di ristrette finanze”. La richiesta non ebbe alcun esito, ma in attesa di trovare le risorse necessarie per la costruzione del nuovo tempio, nessuno pensò più all’antico, che fu chiuso con il conseguente trasferimento della sede della parrocchia presso l’oratorio dell’Immacolata.
Nel 1901 il vescovo di Nardò, Mons. Giuseppe Ricciardi, visitò l’antica chiesa parrocchiale e rimase impressionato dell’abbandono completo in cui era tenuta. “Essa – si legge nella relazione della visita pastorale – è di bella costruzione, con abside tutta volta e stucchi, ma si è lasciata senza alcuna manutenzione, per cui dalla volta piove dell’acqua da rendere il luogo sacro veramente indecente e insalubre. Essendo tutto in stato di abbandono, Sua Eccellenza ha interdetto la detta chiesa, facendo noto al parroco il caso della seconda tavola dei Confessori riguardante la profanazione dei sacri templi”. Don Vincenzo Danisi, invece, non solo ignorò i rimproveri del vescovo, ma fece trasferire dall’antica alla nuova e bella chiesa parrocchiale (aperta al culto nel 1902) l’organo, le campane e le suppellettili.
La chiesa “vecchia”, situata nella parte “vecchia” e per giunta periferica dell’abitato, sembrava destinata all’oblio, ma all’antica matrice ci pensò un gruppo di devoti (guidati da Francesco Corvaglia) i quali nel 1907 “vengono alla determinazione di assumere l’impresa di fare eseguire tutte le opere di restauro e di riparazione occorrenti all’antica chiesa parrocchiale spinti dal dovere di rispettare e far rispettare i luoghi santi, nonché dall’ideale di cautelare e mantenere quanto più è possibile e con la maggiore decenza le opere che i loro antichi padri edificarono sottoponendosi a stenti e a sacrifici”. Alla spesa di L. 1.174,50 si provvide con le offerte dei fedeli integrate da un contributo del Comune di Casarano e quindi l’antico tempio fu reso nuovamente agibile. Ma nonostante il vescovo di Nardò, mons. Nicola Giannattasio, trovasse la chiesa idonea per essere aperta al culto nel giorno della festa del Rosario, cui la chiesa è dedicata, nella stessa non si celebrarono più funzioni religiose. Si tennero, invece, le adunanze del Circolo di Azione Cattolica Femminile (da cui la denominazione “Circolo Vecchio”), lezioni di catechismo e rappresentazioni teatrali.
Poi, negli anni Sessanta del secolo scorso la chiesa fu devastata: furono asportate le tele e distrutti perfino gli altari, ma nessuno mosse un dito. Anzi, il parroco dell’epoca pensava addirittura alla demolizione del sacro edificio sulla cui area, accorpata a quella adiacente di proprietà parrocchiale, intendeva costruire un oratorio. Comunque, dopo il saccheggio, l’immobile fu chiuso e col passare degli anni rischiò addirittura di crollare dal momento che un caprifico, lasciato vegetare per decenni, ne aveva gravemente compromesso il muro perimetrale Nord. Così fu trovato dal nuovo parroco che, il 12 novembre 1979, con atto del notaio Giorgio Cascione, lo trasferì a titolo transattivo al Comune di Melissano. Quest’ultimo, si impegnava ad utilizzare l’antica chiesa come “sede di conferenze e manifestazioni varie con accesso a qualsiasi organizzazione laica o religiosa” ed a trasferire alla parrocchia la proprietà di 2.000 mq. di suolo. Nel frattempo, la Sovrintendenza ai Beni Storici e Artistici di Bari, su iniziativa del prof. Quintino Scozzi, dichiarò l’ex chiesa parrocchiale “complesso monumentale” ai sensi della Legge 1.6.1939 n. 1089. Ma questo non sarebbe bastato ad evitarne il crollo se l’Amministrazione Comunale non avesse ottenuto le risorse necessarie per il restauro. Quindi, a differenza di quanto qualcuno ha scritto (chissà per quali fini) il Comune di Melissano non ha mai progettato la demolizione dell’antico edificio.
Terminati i lavori, diretti dall’arch. Francesco Longo, ed accantonata l’idea di trasferirvi la Biblioteca comunale, il Comune di Melissano decise di adibire l’antico edificio (intitolato al prof. Quintino Scozzi) a sala convegni e manifestazioni culturali. Così, l’ex chiesa parrocchiale, edificata dai primi abitanti del casale, abbandonata dalla parrocchia e recuperata dal Comune con fondi regionali, è stata restituita ai melissanesi non solo per essere utilizzata come suggestiva sala riunioni, ma soprattutto come testimonianza della storia religiosa e sociale del paese fluita fra le sue mura.
Bibliografia
Fernando Scozzi, Melissano, società economia, territorio fra ‘800 e ‘900, Edizioni del Grifo, Lecce, 1990
Fernando Scozzi, I cognomi dei melissanesi, PianetaStampa, Melissano, 2019
Quintino Scozzi, Storia di una chiesa, F.lli Amato, Cutrofiano, 1982
Note
Il casale era stato abbandonato nel 1452 prima che le milizie di Giacomo Caldora, al servizio della Regina Giovanna di Napoli, scendessero nel Salento per distruggere i possedimenti degli Orsini Del Balzo, fra cui Melissano.
Dopo la battaglia di Lepanto (7.10.1571), Mons. Ambrogio Salvio aveva ricevuto dal Papa Pio V la facoltà di erigere chiese ed oratori da dedicare alla Madonna del Rosario.
Quest’ articolo parte da semplici appunti raccolti durante alcune ricerche sul nome BRANDICI, che ad un certo punto della storia è comparso, in contemporanea a tanti altri, per indicare la città di Brindisi per circa due secoli, se non di più. In particolare, le ricerche erano finalizzate ad individuare fonti storiche letterarie con la presenza di questo curioso toponimo ritrovato recentemente sulle cartografie del XVI (1) e XVII (2) secolo, per dare un confine alla finestra temporale, e possibilmente anche all’area geografica, nelle quali fosse stato in uso.
Un contributo modesto, che ha il puro scopo di condividere queste poche tracce da me individuate con i curiosi, certo però che ne devono esistere tantissime altre.
Le ricerche sono successive allo studio della carta cinquecentesca dal titolo BRANDICI (1) perché stimolate dalle riflessioni di chi si è interessato di recente all’opera a stampa ed in particolare a questo nome, in precedenza seppellito nell’oblio degli archivi bibliotecari sparsi per il mondo e da nessuna altra parte se non forse in qualche nascostissima collezione privata, come quella a cui è appartenuta la silografia che riporta cubitale BRANDICI nel titolo in cartiglio (1).
I recenti articoli di Armando Polito (3) ma anche alcune osservazioni condivise con Nazareno Valente nonché il suo interessantissimo studio sui toponimi che hanno identificato la città di Brindisi nella storia (4), mi hanno spinto a passare alcuni giorni in rete con l’obiettivo di reperire altre fonti dove potesse apparire il nome BRANDICI. Con un’attenzione soprattutto alle forme letterarie e non cartografiche (non essendocene altre note).
Che se voglia o no, internet ci viene molto, ma molto in aiuto. Diversi studiosi ritengono che un vero storico non dovrebbe affidarsi troppo alla rete, ma solo alle ricerche nelle biblioteche e negli archivi. Trovo però molto riduttivo sostenerlo in termini assoluti, perché alcune ricerche invece sono possibili solo ed esclusivamente grazie agli archivi digitali dei testi storici ed ai loro motori di ricerca, quindi alla rete, che permettono di visionare migliaia di testi, spesso unici, sparsi in biblioteche di tutto il mondo senza alzarsi dalla sedia! Lavoro che era assolutamente impossibile prima del mondo digitale.
Ne avrete degli esempi proprio con le ricerche su BRANDICI.
Andare in giro nelle biblioteche a cercare i testi contenenti la parola BRANDICI, allo scopo di datare le sue prime tracce, sarebbe stata un’impresa titanica che avrebbe impiegato anni, probabilmente senza risultati. Non avrei neanche saputo dove andare e da dove cominciare.
Ma la digitalizzazione di milioni di testi (pur rappresentando una minuscola parte del totale) unita alla particolarità davvero eccezionale del raro termine BRANDICI nella letteratura (e questa riconosco è la mia più grande fortuna), mi hanno permesso, in poche ore, di identificare le tracce che vedrete sotto.
Essendo certo che i testi digitalizzati sono pochissimi sul totale di quelli esistenti, mi sento di dire che il termine BRANDICI è meno raro di quello che sembra, e soprattutto che è stato utilizzato per secoli, certamente in concomitanza di molti altri.
Ho trovato che il toponimo BRANDICI per indicare Brindisi esiste da tempi piuttosto antichi, esattamente in quella forma almeno dalla fine del ‘400. È un toponimo certamente poco comune nella letteratura, ma ho trovato comunque diverse evidenze. Forse non era quello più in uso a Venezia, da dove proviene la silografia che lo riporta in cartiglio e dove a quei tempi prevalevano BRANDIZO, o BRANDIZZO come ben evidente nella cartografia a stampa italiana del ‘500.
Provo ad evidenziarlo con un brutale elenco puntato di appunti e osservazioni, una semplice serie di elementi raccolti e di ricerche, che alla fine messi insieme a mio avviso lasciano indicazioni importanti. Vediamoli andando indietro nel tempo e partendo dal fatto che certamente abbiamo due documenti cartografici di Brindisi, entrambi topografici a grande scala, che sono datati 1538 uno (1) e databile 1630 l’altro (2), dove Brindisi è chiamata inequivocabilmente BRANDICI.
Ho trovato una conferma dell’uso di BRANDICI nel ‘600 nel testo “Guerrino detto il Meschino…” di Andrea da Barberino, pubblicato a Venezia nel 1618. Nel libro I, Cap. 3 si dice “Ond’io, per tuo & mio honore ho pensato, che con poca fatica noi possiamo acquistar Albania, cominciando a Durazzo, il qual è l’isola del Mar adriano, dirimpetto a BRANDICI, dalla parte di Romania”. E ancora, nella pagina successiva “Milon trasse da le sue terre altre tanti cavalieri e pedoni, partitosi da BRANDICI….” E dopo “..venuti a BRANDICI andiamo a Durazzo”. Questo a provare l’uso del toponimo nei primi del XVII secolo. Ma andremo più indietro.
Ancora troviamo BRANDICI in una lettera del 1617, pubblicata ne “Guerre d’Italia tra la Serenissima Rep. Di Venezia e tra Filippo III…”. Non fornisco dettagli per non tediare il lettore visto che bene o male siamo nello stesso periodo del punto precedente.
Ne la “Descrittione di tutta Italia di F. Leandro Alberti bolognese, nella quale si contiene il sito si di essa, l’origine, et le signorie delle città….” Conservato nella biblioteca nazionale di Roma e pubblicato nel 1551, nel descrivere le vie che partono da Roma e quindi l’Appia troviamo “..Quindi poi infino a BRANDICI la fu rassetata da Traiano avendo issacatu le paludi…”. E subito dopo usa invece il termine BRINDICI: “Et talmente la rassetò da Capua a BRINDICI….”e sempre ancora dopo viene chiamata BRINDICE. In un paragrafo di poche righe troviamo chiamata la nostra città simultaneamente BRANDICI, BRINDICI e BRINDICE. Incredibile ma vero, a testimoniare che i vari termini dell’epoca venivano utilizzati del tutto indifferentemente. Successivamente, nel descrivere la Basilicata troviamo “…scacciarono Phalante e lo mandarono in esilio a BRANDICI con altri…”
Ora la testimonianza che io trovo più bella e romantica perché dall’altissimo valore figurativo e simbolico per la nostra città.
Ce lo testimonia l’“ENEIDE di VIRGILIO tradotta in terza rima da Giovanni Paolo Vasio” stampata a Venezia nel 1539 per Bernardino di Vitali e conservata nella Biblioteca dell’Università di Siviglia.
E’ un testo interessantissimo, che rientra tra i più antichi dell’editoria libraria a stampa veneziana, visto che parliamo del 1539. Qui il link al testo digitalizzato
Siamo alla fine del libro, dove l’autore dedica le ultime pagine alla vita di Virgilio.
Nella penultima pagina troviamo “Et crescendo per la nasvigazione la infernitade finalmente giunse a BRANDICI, dove sentendosi già aggravato spesse fiate con grande instanza dimandò il suo scigno, et questo faceva per abbrusciar la Eneide….”
Ho trovato meraviglioso che una delle prime prove letterarie certe dell’esistenza del toponimo BRANDICI sia contestuale all’opera a stampa, nell’editoria veneziana e proprio legata ad un evento così simbolico per la nostra città, come quello dell’Eneide e di Virgilio che giunge, purtroppo malato, a Brindisi per terminare il resto dei suoi pochi giorni di vita.
Nel “La Politica di Papa Paolo III e l’Italia” di Carlo Capasso del 1901, troviamo a pag. 330 “il sig. Dio haveva presto punito il Doria della sua durezza perché la sua partita gli haveva tolto quel honore che gli avrebbe attribuito all’autorità sua se fosse andato a BRANDICI”. Questo testo si trova nei Commentari, foglio 8, e fa riferimento al fatto che Andrea Doria, dopo che Corfù fu liberata nell’ agosto del 1537, decise di tornarsene a Genova senza accettare le insistenze del Papa e di Venezia a restare nella zona. Fortunatamente i turchi si allontanarono, ma il Papa l’aveva presa male.
La parola BRANDICI compare diverse volte negli Annali Veneti di Domenico Malipiero, in corrispondenza dell’anno 1495. A pag.339 ad esempio troviamo:
Ho studiato la storia di questi annali, perché secondo me è una testimonianza importantissima, la traccia più antica che ho potuto identificare, pur con la considerazione del fatto che sono stati trascritti e quindi quella parola potrebbe, forse, essere stata cambiata e usata successivamente per la prima volta. La storia degli annali dovrebbe essere questa:
Gli originali manoscritti dal Malipiero al tempo degli eventi sono andati dispersi.
Gli stessi sono stati trascritti ed abbreviati dal senatore Francesco Longo nella seconda metà del XVI secolo (mi sembra sia morto nel 1582).
Francesco Longo nel proemio dice: “Et tutto è scritto con quella forma di parola che ha usato chi primo scrisse, et che portava l’uso di quei tempi”.
La sintesi di Francesco Longo (divisa in 5 parti, la prima è relativa alle guerre di Venezia contro i turchi, la seconda alle guerre d’Italia, BRANDICI è citata nella seconda) è stata pubblicata in forma autografa da Agostino Sagredo nel 1843.
Agostino Sagredo ricostruisce perfettamente nella prefazione come gli originali autografi di Francesco Longo siano pervenuti direttamente a lui, ricostruendo l’intero lungo albero genealogico delle varie successioni. Non sono quindi state fatte trascrizioni intermedie.
Lo stesso dichiara in più parti che “il mio testo autografo di mano del Longo ho voluto che fosse seguito fedelmente il testo” ed ancora “avrei potuto ridurre il codice a lingua italiana, ma sarebbe stata una profanazione….ho preferito apporre annotazioni.”.
In corrispondenza della parola “BRANDICI”, A. Sagredo pone infatti l’annotazione “Brindisi”.
Di certo la parola BRANDICI non era in uso nel 1843, quindi se pur qualcuno l’avesse proprio voluta cambiare questo è il Longo e certamente non il Sagredo, quindi quanto meno dobbiamo attribuirla a prima del 1580 (non mi è chiaro quando esattamente il Longo ha riassunto gli annali).
Non possiamo non considerare che, come detto al punto c), Longo dichiara la trascrizione fedele. Non avrebbe avuto senso dichiarare questo e poi cambiare il termine di BRANDICI.
Di conseguenza, è molto verosimile che la parola BRANDICI riportata negli annali trascritti, peraltro ripetuta varie volte, provenga dall’originale manoscritto di Malipiero del E comunque non può essere successiva alla trascrizione del Longo quindi direi intorno al 1570 o giù di li.
Il testo del Malipiero, seppur trascritto, è il più antico che ho trovato con il toponimo esattamente scritto come BRANDICI. Ma diversi elementi mi fanno pensare che esistesse già da prima, forse anche secoli prima. Andiamo ancora indietro.
Innanzitutto ho controllato tutta la Cartografia Italiana del ‘500 a stampa che rappresenti l’Italia, il meridione e la Puglia (il catalogo del Bifolco/Ronca è molto esaustivo), per vedere se fosse presente su altre carte. A parte che per la ormai nota tavola di Brindisi (1) il nome BRANDICI non compare, ed emerge chiaramente che i toponimi maggiormente utilizzati sulle carte sono BRANDIZO, BRANDIZZO e BRANDIZIO, certamente molto simili, indicati su circa la metà della produzione italiana cinquecentesca. Questi sono principalmente presenti sulla produzione veneziana. Troviamo anche BRINDISI, ma è ancora poco utilizzato sulla cartografia.
Appurato che BRANDIZO o denominazioni molto simili erano in uso all’inizio del ‘500, aggiungo la considerazione che anche nell’ interessante studio di Nazareno Valente sui toponimi di Brindisi (4) lo ritroviamo indicato già nel 1313 nell’ atlante di Pietro Visconte. Nello stesso studio viene indicato anche BRANDIZ nel 1384 e poi BRANDICO nel “Manoscritto Mercantile del XV secolo” di Zibaldone da Canal.
Questi termini sono molto molto vicini alla parola BRANDICI. Ora io non sono un esperto in lingue antiche, e non certo un etimologista o un latinista, però tutti questi termini apparsi già dalla fine del ‘300 hanno alla base “BRANDI…”….poi si chiudono in modi diversi. A mio avviso derivano tutti dal termine latino BRANDICIUM, che a sua volta è una variante del toponimo latino BRUNDISIUM, II. Questo lo si trova anche su Wikipedia sulla lista dei toponimi latini delle più importanti città italiane. Si potrebbe approfondire molto sulla presenza di BRANDICIUM negli antichi testi latini, ma ne cito giusto uno.
Nel testo di Pertusi “La Caduta di Costantinpoli” del 1976, troviamo pubblicata a pag. 88, una lettera scritta in latino a Creta il 6 luglio 1453 del Cardinale Isidoro “…et sic a Durachio transire ad BRANDICIUM disponit”. Il testo ripropone a pagine affiancate la traduzione in italiano della lettera “…e così pensa di passare per mare da Durazzo a Brindisi”. Con queste considerazioni non si può escludere che BRANDICI si sia sviluppato almeno nella seconda metà del XV secolo, come già si evince dagli Annali Veneti di Malipiero già evidenziati. Ma se BRANDIZ e BRANDICO (e come vedremo dopo soprattutto BRANDICII e BRANDICIO) sono comparsi ancora prima, è allora probabile che anche BRANDICI lo sia. Andiamo avanti, anzi indietro.
Ho trovato che certamente nel XV secolo si usava BRANDICII. E’ vero ci sono due “I” e non una, siamo nell’ambito delle lingue volgari credo, ma ora siamo vicinissimi al nostro termine. Forse proviene semplicemente dal genitivo di BRANDICIUM, II ? Voglio credere che togliere una “I” sia un passo piccolo nella evoluzione tardo medioevale dei termini volgari provenienti dal latino. Vediamo dove appare questo termine.
Una testimonianza dell’uso di BRANDICII, l’ho trovato a partire da una citazione di Carito nel libro “Contributi per la storia di Brindisi”, quando a pagina 57 cita le “Sante Parole” del “Portolano Sacro”, riportate su un testo di M. Bacci, sul quale ho ritenuto di approfondire.
Si tratta di preghiere e immagini sacre dei marinai sulle rotte di navigazione. Tra le tante invocazioni quella su Brindisi è la seguente:
“Die n’ai’ e Santa Maria del Casale di Brandizio”
Questa era la versione originale della preghiera con la riga su Brindisi (Dio ci aiuti e Santa Maria del Casale di Brindisi). Carito cita anche il Portolano Sacro Genovese, con una bella relazione di Valentina Ruzzin che lo ha ritrovato negli archivi di Genova.
La Ruzzin spiega che la litania conosciuta come Sante Parole citata anche da Carito fu in sostanza una lunga preghiera in uso presso la marineria del Medioevo, invocazioni in soccorso di Dio lungo un percorso di navigazione immaginario. Il testo è stato tramandato da un codice miscellaneo del XV secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, ma presso l’Archivio di Stato di Genova è stata rinvenuta la versione genovese – la Bonna Parolla. Il testo bene o male è comune a quello fiorentino ma ha tante variazioni linguistiche. Conserva testi redatti fra il 1490 e il 1503.
Senza andare troppo per le lunghe nella versione genovese troviamo che nella litania, l’invocazione su Brindisi è trasformata in:
“Dee n’aie e Sancta Maria de Brandicii”
E’ molto interessante secondo me vedere questa traduzione. Da BRANDIZIO passiamo in una traduzione ligure a BRANDICII, che vedremo a breve era comunque già in uso addirittura nel ‘300.
Nel primo libro di Perri “Pagine di storia brindisina” ho trovato infatti questa citazione: a pag 153: “Nel febbraio 1341, una nave veneziana di ca’ Marcello….era stata costretta a rifugiarsi nel porto di Brindisi…e i Brindisini avevano imposto al patrono di scaricare 700 salme di frumento “ad salam BRANDICI”, che valevano…”.
Pensavo di aver fatto tombola con la citazione di Perri per datare il toponimo BRANDICI almeno al 1341, in realtà è riportata con quello che forse è un errore di stampa, ma se non è tombola è cinquina. Questa citazione proviene da G.I. Cassandro “Una controversia tra Venezia e Brindisi nel secolo XIV” del 1937. Ho avuto la fortuna di reperire integralmente il testo in rete. La frase corretta è indicata nella seconda pagina del suo scritto ed è: “…ad salmam BRANDICII”. Con più esattezza la frase estesa è “…et nunc de novo simile fecerunt de una navi de ca Marcello, que similter per tempus illuc ivit de qua abstulerunt salmas VII/C frumenti ad salmam Brandicii et super hiis….”
Ma c’è dell’altro. Alla fine del testo di Cassandro, c’è tutto un testo in latino volgare medioevale del 1342. Bene, qui compare numerose volte la parola BRANDICIO, sulla quale si è già ampiamente espresso Armando Polito con le testimonianze cartografiche del 1576 e 1526 e quelle letterarie e del portolano di Alvise da Mosto risalente al 1477 ma pubblicato quasi un secolo dopo (3) .
Lungi da me leggere per intero questi testi in lingua volgare, ma questo basta per ritenere che, se da un lato è certo che già ben due secoli prima della nostra opera cartografica titolata BRANDICI troviamo in uso BRANDICII e BRANDICIO… beh da li a credere che potesse svilupparsi in seguito o quasi contemporaneamente anche BRANDICI è quantomeno plausibile.
A conferma della mostruosa confusione dei toponimi in quei secoli ho riscontrato che nello stesso testo latino su indicato in pochi paragrafi si legge contemporaneamente: BRANDICIO, BRUNDISO, BRUNDUXI, BRUNDUXII,…è incredibile. Una impressionante miscela esplosiva di toponimi usata nello stesso tempo, nello stesso testo, per indicare lo stesso luogo. Sembra rasentare la follia, ma è nero su bianco. Credo che Brindisi abbia un vero e proprio record su questo.
A sua volta Cassandro cita Guerrieri. “Le relazioni tra Venezia e Terra d’Otranto fino al 1530, Trani 1904, pag. 28-29”. Anche qui si dovrebbe trovare la stessa fonte ma non sono riuscito a reperire online il libro.
Termino qui, pur avendo trovato diverse altre di fonti letterarie, ma io credo che queste osservazioni siano più che sufficienti ad evidenziare che l’uso della parola BRANDICI sia molto antico. Con certezza già dalla fine del ‘400 perché oltre la silografia del 1538 e il testo tradotto dell’Eneide la troviamo negli Annali Veneti. E penso che, provenendo molto probabilmente dalla derivazione latina BRANDICIUM sia ancora più antico ed incredibilmente sopravvissuto almeno fino alla prima metà del Seicento come attestano i documenti indicati nei primi punti, ma certamente molto meno usato di BRANDIZZO/BRANDIZO.
La mia ipotesi finale è che BRANDICI sia stato sicuramente poco utilizzato, ma è stato in uso per un periodo piuttosto lungo, ipotizzabile a circa due secoli almeno. Il nome proviene molto probabilmente da BRANDICII così come da li proviene BRANDICIO, a loro volta derivanti da BRANDICIUM, che successivamente hanno perso la seconda I o la O.
Quando sia nato esattamente non lo si può sapere, ma certamente prima del XVI secolo. Nasce quindi in tempi molto lontani, che si originano nel medioevo con BRANDICII e BRANDICIO, ed ha resistito in parallelo con i più noti BRANDIZIO e BRANDIZZO, per essere poi soppiantato quasi definitivamente da BRINDISI nel corso del ‘600.
Per l’accento non mi esprimo, il dilemma resta come bene lo evidenzia Armando Polito, nessun documento lo riporta purtroppo.
Queste considerazioni, secondo me, si incastrano abbastanza bene con la supposta evoluzione dei toponimi, le fonti citate, e le caratteristiche tecniche e cartografiche del documento.
Mi rendo conto di essere stato pesante, e probabilmente impreciso in diverse interpretazioni, non essendo un linguista ne uno storico, ma non volevo tenere per me il frutto di queste ore spese a cercare la parolina magica ritrovata nei testi suddetti.
Al solito mi appello a chi ha le competenze per eventuali approfondimenti e spero che qualcun altro possa completare a ritroso queste ricerche evidenziando ulteriori documenti che riportano questo toponimo.
Le mie sono semplici osservazioni, spero costruttive, che ho sentito di condividere per quanto amo l’opera che ha generato questi articoli e per la logica convinta che mi ha portato a comunicarla, che altro non è che la versione razionale della mia passione per Brindisi, il suo porto, il suo mare, la sua storia.
L’aver confermato l’esistenza, fino a ieri controversa, della “Biblioteca” del Conte Alessandro Mattei citata dal Marciano (“… il Museo del quale è ricchissimo di molti libri di tutte le scienze greche e latine, che non ha pari nella provincia”) poi scomparsa del tutto, grazie a un “ritrovamento fortuito” (ironia della sorte) di alcuni suoi libri presso la Biblioteca Innocenziana di Lecce, ha certamente dimostrato la veridicità della testimonianza del filosofo di Leverano, ovvero gli indubbi meriti di Alessandro nel campo culturale e le sue “virtù mecenatiche” (lo chiama, infatti, “eruditissimo, saggio e prudentissimo Principe”) nonché, come abbiamo sempre sostenuto, la profonda tradizione umanistica della sua nobile famiglia che lo stesso Marciano, nella sua Descrizione, aveva contribuito a fondare con accenti tanto ammirati da sfiorare il mito.
Come annotato sui frontespizi, ben diciannove sono i volumi che provengono da questa Biblioteca (ex libris – “ex Biblioteca Alexandri Mathej”), dieci costituiti dall’Opera di Sant’Agostino pubblicata a Parigi nel 1586 e nove rappresentati dai Commentaria di Alfonso Tostati, filosofo e teologo, pubblicati a Venezia dai fratelli Sessa nel 1596; volumi puntualmente catalogati in un recente studio di Lorella Ingrosso e suscettibili, probabilmente, di ulteriori acquisizioni se si considera che il patrimonio librario della Biblioteca Innocenziana preso in esame dalla Ingrosso è composto “da circa cinquecentosessantacinque esemplari ed è riposto temporaneamente in una stanza-deposito al primo piano del Seminario in uno stato di completo abbandono, poiché i volumi presentano guasti endogeni ed esogeni”.
Dopo aver dimostrato la fondatezza della testimonianza del De Magistris, grazie al ritrovamento presso la Biblioteca Apostolica Vaticana del documento in cui l’Holstenio attesta l’esistenza del cappuccino Frate Lorenzo di Sancta Maria de Nove quale autore di una carta geografica di Terra d’Otranto edita nel 1617, questo ritrovamento, ad ulteriore dimostrazione della “provvisorietà della ricerca storiografica” mi spinge a rimeditare ed approfondire un altro aspetto non meno interessante della Vita del nostro Conte “mecenate”, quello cioè di essere anche probabile autore di un’opera geografica, fatto questo che si inserisce direttamente in una complessa questione che ancora oggi è fortemente dibattuta e non ancora certamente completamente definita, ovvero la sicura attribuzione della Descrizione, Origini e successi della Provincia d’Otranto stampata dall’Albanese a nome del Marciano.
Sensibile all’esortazione di Block a cercare comunque “l’uomo vivo sotto la polvere degli archivi e nel silenzio dei musei”, queste pagine vogliono soprattutto riunire i risultati di una ricerca che cerca di focalizzare ed analizzare meglio le fonti individuate tentando perciò di far emergere nella “giusta luce” ed obiettività anche questo argomento.
I primi riferimenti all’opera geografica di Alessandro Mattei si ritrovano nelle opere del Tasselli (Eredi di Pietro Micheli 1693) e del Montorio (Napoli 1715). Nella “nota degli Autori che si citano in questo libro” (Antichità di Leuca) si legge infatti: “Alessandro Mattei, Conte di Novole, nella sua Geografia Manoscritta”. Ed ancora “Dopo questi l’anno 1615, soperchiarono tanto le piogge, e l’acqua la nostra Provincia, ed in specialità tutto questo Capo Salentino, che le profonde voraci e meravigliose di Barbarano si empirono tutte a’dismisura, /…/. Laonde per tali soperchiamenti di acqua, dice Girolamo Marciano, Alessandro Mattei nella sua Geografia, che si videro in quel tempo mostruosi serpenti”.
Il Montorio nella sua opera Zodiaco di Maria ovvero le dodici Province del Regno di Napoli... fa lo stesso riferimento, ma in maniera più dettagliata: “L’anno 1615 furono così direte le piogge, specialmente in quella Provincia e Promontorio, che le voraci meravigliose di Barbarano restarono affatto prive d’acqua mondanti, ed in Salve, crescendo l’acqua fuor di modo. anche in luoghi sollevati alzaransi fino ad otto palmi, restando affogate una fanciulla di anni dieci: quindi in memoria di tal prodigio diluvio Don Donato Maria de Notariis Teologo di Salve, e, Canonico della cattedrale di Castro, segnando il luogo dove arrivaronol’acque espresse in un marmo il luttocon questo distico: Lustrum aderta trinum, bisque octo saecla salutis, cum usque huc, submersa Virgine, venitaqua. Anzi come affermano Geronimo ed Alessandro Mattei nella sua Geografia, si videro in quel tempo mostruosi serpenti, uno dei quali fu osservato in Cesarea di smisurata grossezza, e lungo palmi dieci. Due se ne osservarono in Arneo con due teste per chiacheduno: Ma quando tali fondazioni parea che volessero rovinare quel sagro tempio ed impedire il concorso de’ popoli non solo restò quello intatto, ma accrebesi in quelli l’affetto, ed ossequio verso la Vergine”.
Le citazioni, come si può notare, evidenziano una netta distinzione tra le due opere e ciò trova ulteriore conferma nell’opera del Tasselli che, sempre nella “Nota degli Autori che si citano in questo libro” riporta anche, oltre alla “Geografia Manuscritta” del Mattei una “Girolamo Marciano di Liberano Geografia”. E la stessa cosa fa intendere quando dice ancora “Dopo questa il sig. Alessandro Mattei Conte di Novoli, eruditissimo Cavaliere con Girolamo Marciano Medico di Liberano ci danno utilissime e erudite notizie di nostra Provincia /…/”, dove quel “ci danno” potrebbe anche intendersi come due opere distintamente consultate.
Un’interessante e simile annotazione vi è anche nel manoscritto D/5 della Biblioteca Arcivescovile pubblica “Annibale De Leo” di G.B. Lezzi da cui emerge che “Mattei / Alessandro / Conte di Novole …eruditissimo Cavalier con Girolamo Marciano di Leverano ci danno utilissime ed erudite notizie di nostra Provincia”.
Nella Biblioteca Provinciale di Lecce sono conservati sei manoscritti dell’opera del Marciano. Due completi (n. 58 e n. 59), uno limitato ai libri I e II (n. 261), uno a parte del libro III oltre ai libri I e II (n. 61), due al solo libro IV (n. 62 e n. 63). Quelli che fanno riferimento al Mattei sono il n. 61 ed il n. 63. Nel n. 61, sul Frontespizio si legge: Descrizione, Origini e Successi della Provincia d’Otranto, libro p° del sig. Alessandro Mattei Conte di Palmarici. Del sito e Provincia del’Italia intentione del’Autore e del’Antichi nomi della Provincia d’Otranto. Capo p° L’Italia annosissima regione del’Europa”.
È questo un manoscritto di pp. numerate 443 seguito da due facciate non numerate. La prima contiene il seguito dell’opera che è mancante delle pp. successive, e l’altra una specie d’indice delle materie macchiato in varie pagine, ma del resto ben conservato.
Carattere leggibile, ad eccezione di quella non numerata 444 alquanto illeggibile perché molto macchiata e con qualche parola che è stata ripassata con l’inchiostro. Secondo il Foscarini “è questa una delle tante copie ms che un tempo correvano per le mani degli studiosi e la cui paternità ora era attribuita ad Alessandro Mattei, ora a Girolamo Marciano”. Nel n. 63, al Frontespizio si legge “Libro IV di Alessandro Mattei composto nell’anno 1645 delli successi ed Origine della Provincia d’Otranto. Presso alcuni Autori si riscontra che quest’opera sia di Girolamo Marciano. Per venirsi a chiaro di una tal questione si riscontra il Capo XIII del presente ms”. È questo un Ms. di pp. num. 321 seguito da 11 pp. non numerate contenenti l’indice degli uomini insigni e delle materie. Il Ms. con qualche tarlatura è discretamente conservato, il carattere è minuto, ma chiaro. Il Foscarini vi annotò che “l’autore non è Mattei, ma Marciano” mentre il Capo XIII per risolvere la questione è quello che riguarda Novoli.
Nei manoscritti n. 62 e n. 63, a proposito del Padre Francesco Guerrieri vi è un particolare che non compare nell’edizione a stampa dell’Albanese. Nel ms n. 62 si legge, infatti: “Vive oggi parim.te di questo luogo il Dotts.mo e non a pieno lodato Padre Francesco Guerrieri dell’Ordine e Congregazione dei Padri Gesuiti, Filosofo, Teologo, Poeta ed Oratore Illustre”.
Nel Ms n. 63 si legge invece: “Vive oggi parimente di questo luogo il dottissimo, e non mai lodato Padre Francesco Guerrieri dell’Ordine e Congregatione de’ Padri Gesuiti, filosofo, teologo, poeta ed oratore illustre, e lume dell’età nostra, singolare nella greca e latina lingua in questa Provincia”. Nel testo a stampa si legge invece: “Vive oggi parimente di questo luogo il dottissimo P. Francesco Guerrieri, Gesuita, filosofo, teologo, poeta ed oratore illustre e lume nell’età nostra, della greca e latina lingua in questa provincia”.
L’affermazione “e non a pieno lodato” o “e non mai lodato” stranamente non compare nel testo a stampa, affermazione molto importante poiché solo chi aveva conosciuto a fondo il Padre Guerrieri poteva esprimersi in tal senso. È questa una tipica dimostrazione di come il testo originario della “Descrizione” sia stato manipolato, alterato, saccheggiato e anche di come sia ancora difficile l’attribuzione o paternità poiché tale affermazione sul Guerrieri poteva farla benissimo sia il Mattei che il Marciano. Ad ulteriore riprova di tutto questo segnalo l’esistenza, presso una biblioteca privata, di un’altra copia manoscritta e completa della Descrizione datata 1716 ed appartenuta ad un giurista napoletano. Anche in questo manoscritto che si compone di 550 cc. complessive in chiara grafia ad esempio, esaminando le carte relative al maestro di Alessandro Mattei, (Donato Castiglione Oritano soprannominato l’Argentario) o quelle sul Casale di S. Maria de Nove e il padre Francesco Guerrieri si riscontrano ulteriori ed importanti differenze (“… uscirono dalle sue scuole, dottrine, come dal cavallo troiano generosi soldati… mi ridussi in questo luogo, quasi in una remota villa... e non appieno lodato Padre Francesco Guerriero Gesuita…”).
In conclusione, le fonti di riferimento esaminate ci spingono, anzitutto, realisticamente a considerare l’effettiva esistenza di due opere ben distinte e definite, di cui, quella del Mattei una Geografia della Terra d’Otranto (come la ricordano il Crollalanza e il De Simone) probabilmente dispersa (come la ricorda Michele Paone “… Alessandro Mattei autore di una dispersa opera geografica”) anche perché, come dice il De Simone “è impossibile a credere che vivente come era, il Mattei suo mecenate, il Marciano gli avesse commesso spudoratamente un plagio dell’epoca in parola” o lo stesso Marti secondo il quale “il Marciano dovette non poco attingere alla erudizione del Mattei, ragione, forse, reale per cui non si era determinato mai a pubblicare col proprio nome un libro di necessaria e continua collaborazione”.
“La sorte che negò al Marciano, come sottolinea Vittorio Zacchino, la gioia del battesimo cartaceo della sua corografia” (restando manoscritta subì le varie contaminazioni ed interpolazioni) e la lunga ospitalità di Alessandro Mattei hanno poi probabilmente generato una certa confusione.
Nel Dizionario bio-bibliografico di personaggi salentini, ms. in deposito presso l’Archivio di Stato di Lecce si legge: “Alessandro Mattei Conte di Palmariggi e Signore di Novoli, fù (sic) letterato di grido nel secolo XVII. Le nostre tradizioni letterarie ci assicurano che lui fù (sic) l’autore della Descrizione, Origini e Successi di Terra d’Otranto che ora và sotto il nome del Marciano. Noi non possiamo darne un adeguato giudizio non avendo ragioni per affermarlo o negarlo però il lettore potrà giudicare da se stesso dalle seguenti parole del Marciano Medesimo” (Ed di Napoli pag. 472 segue il passo che lo riguarda).
Ed è qui che occorre ulteriormente riflettere.
Quando il Marciano viene a Novoli la sua opera è quasi conclusa (“per finire comodamente”) o perlomeno a buon punto; il Mattei con la sua vasta cultura, con la sua ricchissima biblioteca, lo aiuterà appunto “a porre l’ultima mano” (la Descrizione è, infatti, come scrive Zacchino e come testimoniano anche i libri ritrovati, ricchissima di citazioni erudite di autori antichi e moderni, salentini e non salentini).
Viene solo spontaneo chiedersi se è vero come è vero che il Marciano secondo gli studi del Cosi stette a Novoli dal 1615 al 1620, di che consistenza, di quale spessore fossero stati i suggerimenti del Mattei “all’ultima mano” della sua Descrizione.
E a tal proposito, un’ultima importante considerazione.
Quando Francesco Antonio De Giorgi nella sua opera rimasta inedita sulle Famiglie Nobili Leccesi (nella Biblioteca Provinciale di Lecce, di essa, si conservano un manoscritto datato Napoli 1780 ed un altro con aggiunte di Ermenegildo Personé) presenta il Mattei come colui che si è “sommamente delle opere cavalleresche dilettato ed è delle lettere e de’ letterati grandemente amatore e perciò ha sempre tenuto appresso di sé in gran preggio gli uomini ornati di cotali virtù” il Conte di Novoli è ancora vivente.
Che questa sia una significativa fonte coeva (si spiega quindi l’uso del tempo presente nella citazione) come il sonetto dedicatogli da Cataldantonio Mannarino, lo apprendiamo da Domenico De Angelis il quale nella sua rarissima opera sulla Vita di Scipione Ammirato scrive testualmente: “…e Francesco Antonio Giorgio anch’egli letterato leccese, come che dipendesse da’ Giorgi Nobili Veneziani, nel Compendio ms. della Nobiltà delle Famiglie di Lecce, scritto nel primo di Gennaio I 613…”.
Questa fonte ci permette infine di capire, indirettamente, le ragioni per cui L. G. De Simone attribuisce (sulla base di alcuni riscontri oggettivi) altre due opere manoscritte di diverso argomento conservate anch’esse presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, ad Alessandro II Mattei, signore di S. Maria de Novis (Novoli).
In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. X, 20 luglio 2003, pp. 33-36 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 221-226, Novoli 2024.
Riferimenti Bibliografici Essenziali
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G.B. Crollalanza, Dizionario Storico Blasonico delle Famiglie Nobili e Notabili Italiane estinte e fiorenti, Rist. An. del 1866, Forni, Bologna.
D. De Angelis, Vita di Scipione Ammirato scritta da Domenico de Angelis, in Lecce, dalla Stamperia Vescovile 1706.
A. Laporta, Il Cinquecento leveranese e la figura di Geronimo Marciano in Leverano e il Convento di S. Maria delle Grazie, Leverano 1984.
L. Ingrosso, Proposte per un recupero del Patrimonio librario della Biblioteca Innocenziana di Lecce. Un fondo da salvare: la biblioteca di Alessandro Mattei Signore di Novoli, in “Lu Lampiune”, a. XIII, n. 2 1997.
O. Mazzotta, Ex Biblioteca Alexandri Mathej, in “Camminiamo Insieme”, a. VI, n. 3 marzo 1999.
P. Serafino Montorio, Zodiaco di Maria, ovvero li dodici Provincie del Regno di Napoli etc, in Napoli, per Paolo Beverini, MDCCXV.
D. Novembre, Gerolamo Marciano, corografo di terra d’Otranto nel primo seicento, in “Studi Salentini”, aa. XLIII-XLIV, marzo-dicembre 1973.
M. Paone, Società e cultura in Terra d’Otranto tra Rinascimento e Barocco, in Ricerche e Studi in Terra d’Otranto, II Cellino San Marco 1987.
M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei, Signori di Novoli, in “Camminiamo Insieme”, a. XII, n. 1 gennaio 1998.
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G. Spagnolo, Il Principe Perfetto “Giovanni Antonio Albricci terzo (testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), estratto da Quaderno di Ricerca, Salice Salentino ottobre 1989.
G. Spagnolo, Storia di Novoli, Note ed Approfondimenti, Lecce 1990.
G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, Introduzione di Mario Cazzato, Lecce 1992.
G. Spagnolo, Dalle Rime del Mannarino un sonetto ad Alessandro Mattei, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XVI, Novoli 17 gennaio 1992.
L. Tasselli, Antichità di Leuca città già posta nel capo salentino, in Lecce presso gli eredi di Pietro Micheli, 1693.
Scomodare o, peggio, scimmiottare Shakespare per accaparrarsi mezzo lettore in più in tempi di anoressia culturale e di bulimia mediatica con annessa irreversibile obesità cerebrale, appare a me stesso patetico. D’altra parte, anche la saggezza, che un tempo era condensata nei proverbi e tramite loro tramandata, più che latitante, è stata da tempo vilipesa, annientata e sotterrata, in attesa di un’altra improbabile riesumazione e rianimazione. Per questo non posso nemmeno mettere in campo i salentini (il primo tal quale è in italiano) Batti lu fierru quandu è ccautu (Batti il ferro quand’è caldo, traduzione, come quella del successivo, aggiunta per gli stanieri …) e ‘Mar’allu muertu ca non è cchiantu allora (Situazione amara per il morto che non è pianto al momento). Se continuo così, però, rischio che mi mandi a quel paese anche lo sparuto gruppetto di disperati come me praticanti quella che per non pochi sarà masturbazione mentale. Infatti il titolo dovrebbe (non a caso uso il condizionale …) far intuire a qualsiasi lettore che tutta l’attenzione sarà rivolta alla posizione di un semplice accento, una qusquilia .., direbbe (qui uso il presente del condizionale, perché i veramente grandi non muoiono mai, almeno finché non sarà morto l’ultimo in grado di capirne la grandezza) Totò, quando è invalso l’uso disinvolto della grammatica e quello casuale dei segni di interpunzione, senza che ci si renda nemmeno conto degli esilaranti (per chi ne conosce l’uso corretto) quanto inconsapevoli (per chi è vitttima di autopresunta geniale) equivoci che molto facilmente si possono creare. E allora? Avevo assunto qualche giorno fa un impegno1 connesso con un tentativo di soluzione del dilemma del titolo e, siccome, non essendo un politico, non campo, di semplici promesse (almeno fino ad elezione avvenuta …) o (e già sarebbe il massimo dell’onestà ad elezione avvenuta …) di annunci di decisioni ridicole dall’impatto risibile sulla realtà, mi metto in gioco (ma non per interesse personale o di mangiatoia ipocritamente ergendomi a paladino del bene comune, contando sulla disperazione o la dabbenaggine, spesso in coppia con l’ignoranza, di chi mi ascolta) ed esprimo il mio parere, nella speranza che persone più competenti di me lo correggano, lo integrino, lo demoliscano pure e sulle macerie del mio costruscano il loro.
È intuitivo che in casi del genere per procedere bisognerà passare in rassegna le varie forme che inevitabilmente il toponimo ha assunto nel tempo. Nel nostro caso, in particolare, una complicazione non da poco è data non tanto dall’incredibile numero di varianti, quanto dal fatto che non poche tra loro risultano coeve. Lascio volutamente da parte ogni riferimento al mondo messapico e greco, basato sulla tradizione indiretta ed assumo come punto di partenza il latinono BRUNDÌSIUM, per giungere all’attuale BRÌNDISI, colmandone il provvisorio vuoto in progressione cronologica con i vari toponimi, sui quali, come ho già fatto per i due estremi, porrò sempre l’accento, anche perché, come vedremo, la sua posizione non è sempre chiara, nemmeno quando, per così dire, d’istinto, il toponimo dovesse essere sembrato piano o tronco
Il mio compito sarà agevolato dall’eccellente lavoro di Nazareno Valente2, dei cui dati mi avvarrò, aggiungendo solo qualche dettaglio relativo alle fonti e qualche anello mancante (con iconografia, quando è stato possibile), consapevole, come lui e lo scopritore di Brandici, che qualcun altro, forse …, arricchirà a breve la collezione con l’aggiunta, magari, di un gioiello più o meno prezioso, anche se fatalmente non ultimo.
BRUNDISIUM
Cicerone, Filippiche, passim
Orazio, SatIre, I, 5, v. 104
BRANDIZIO
XIII-XIV secolo
Dante, Purgatorio III, 27): Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto
Giovanni Villani, Nuova cronica, passim.
XIV secolo
Giovanni Boccaccio , Decameron, novella quarta della seconda giornata): … montato sopra una barca, passò a Brandizio
XV-XVI secolo
Gian Giorgio Trissino, L’Italia liberata dai Goti, passIm
Luca Landucci, Diario fiorentino: … E ‘l Re di Spagna in Puglia n’ aveva avute sette, insino a questo dì 8 di giugno 1509, che fu Otranto, Cuttone, Brandizio, Trani, Napoli, Fulignano, Nola
BRANDUZO
Portolano di Angelino Dulcert datato 1339
BRINDISIO
Girolamo Ruscelli, Rimario; cito dall’edizione Bigonci, Venezia, 1657, p. 382: Branditio, Città più volgarmente Brindisio.
(… dopo Brindisio nella napoletana Terra D’Otranto nel golfo di Venezia …)
BRUNDIZIO
XV secoio
Giovanni di Antionio da Uzzano, La pratica della mercatura, trattato del 1442, in Della decima e delle altre gravesse etc., s. n., Lusbona e Lucca, 1766, tomo IV, pp. 214 e 216.
BRINDI
XVII secolo
Portolano di Agustin Roussin
Conclusione rispetto al dilemma del titolo: premesso che la forma più breve, BRINDI, al pari di BRANDIZ segnalato dal Valente, potrebbero essere una sorta di adattamento alla lingua degli autori, il toponimo ui sotto esame appare come il frutto di un lungo processo di dimagrimento, iniziato con BRANDÌCIO, da considerarsi forma parallela, foneticamente parlando, rispetto a BRANDIZIO (che, da Dante continua fino al XVI secolo), BRANDÌTIO, BRUNDÌZIO, BRINDISIO e gli altri presenti nel lavoro citato di Nazareno Valente, al quale rinvio per le fonti: BRANDIZZO3, BRANDÌTIA, BRUNDÌZIO, BRANDÌZO, BRUNDÌSIA, BRANDÌZIA, BRANDÌTIO4, BRUNDÌSIO e BRONDÙSIO. Tale dimagrimento sembra continuare nei restanti, che scrIvo per ora senza accento: BRANDIÇO, BRANDIZI, BRINDESE, BRINDESI, BRINDISE, BRINDICI e vi aggiungo BRANDUZO5. Il lettore noterà come il fenomeno del dimagrimento coinvolge il toponimo sia quando esso mostra come prima vocale a, sia quando mostra u o i, per cui no sembra dipendere da questa. Secondo me, e lo dico consapevole del rischio di essere accusato di follia neppure tanto lucida, bisogna tornare al punto di partenza ( BRUNDÌSIUM), tenendo d’occhio contemporaneamente, però, quello di arrivo (almeno al momento attuale …), cioè BRÌIDISI. BRUNDÌSIUM è parola di quattro sillabe. Tale numero si sarebbe dovuto conservare nelle forme diretttamente da esso derivate prima del dimagrimento. Ma in italiano –io e –ia formano dittongo, per cui i toponimi che li contengono sono trisillabi. Finché tale dittongo si è conservato, l’accento non ha subito spostamento rispetto al latino, ma, quando il dittongo –io/-iasi è contratto, l’accento si è ritratto sulla sillaba precedente, fino a dare BRÌNDISI e non BRINDÌSI. Nella arbitrarietà capricciosa che non di rado accompagna l’uso della lingua ci sono da mettere in campo, tra le altre, motivazioni di carattere psicologico talora legate anche al pregiudizio e, voglio usare una parola grossa, al razzismo. A tal proposito mi paiono emblematicI i casi di ÒTRANTO e TÀRANTO, rispettivamente derivanti dal latino HYDRÙNTUM e TARÈNTUM, da cui ci si sarebbe aspettato OTRÀNTO e TARÀNTO. Di ciò che la toponomastica ufficiale, si presume dotta, non ha rispettato, ha conservato memoria il popolo con la pronuncia OTRÀNTO e non mi meraviglierei se qualche filologo con la puzza sotto il naso sentenziasse che si tratta di uno spostamento volgare dell’accento attuale, essendo più semplice la pronunzia di una parola piana rispetto ad una sdrucciola, con buona pace del griko Derentò , che di origine rivendica quella quanto meno bizantina. Sarei curioso, poi, di sentire cosa si inventerebbe per TARÀNTO, semplicemente rispettoso dell’accento latino, essendo esso dal greco Τάραντα (leggi Tàranta), accusativo di Τάρας. TARÈNTUM, non poteva conservare l’accento della voce greca per motivi metrici: la sua penultima sillaba è lunga perché costituita da una vocale (e) seguita da due consonanti (nt), il che obbliga a pronunciare Tarèntum e non Tàrentum.
E, per decidere su BRÀNDICI o BRANDÌCI, era necessaria tutta questa pappardella? Lo era, perché potessi concludere, di fronte ai pochi rimasti a leggere queste righe ed a sorbirsi le conseguenze digestive della suddetta pappardella, come me quanto meno diffidenti rispetto all’ipse dixit, con un atto di onestà intellettuale: al momento in cui scrivo non so dare una risposta definitiva che, forse, non esiste. Come si fa a ricostruire tutte le ragioni che hanno fatto, nel nostro caso, di un toponimo un campione di trasformismo? Come si fa a stabilire, se così è andata, quando da BRANDÌCIO si passò a BRÀNDICI direttamente o attraverso BRANDÌCI?
Dati i precedenti con altre carte antiche, non è dato nemmeno sperare che prima o poi ne esca una con qualche toponimo accentato, nemmeno per quelli che si presumono tronchi come succede, ad esempio, per NARDÒ, col paradosso di trovare immancabilmente nei manoscritti, ma anche in libri a stampa, parole latine rese tronche: ad esempio, gli avverbi vere (o vero) e vulgo scritti verè (o verò) e vulgò.
In attesa che la tecnologia sia in grado di operare quello che oggi sarebbe classificato, se riuscisse, come miracolo, cui ho accennato nel post segnalato col link di nota 1, se qualche perverso vi chiede lumi sull’esatta pronunzia, assumendo un atteggiamento consono, uscitevene col neritino E cce sso’, pèttule?, affrettandovi a tradurlo ed ad interpretarlo al simpatico curiosone, prima che gli sia servito il sunto della pappardella, per evitare che, giunti ad un certo punto, tramite il suo telefonino di ultima generazione, chieda per voi un TSO, estensibile al sottoscritto …
3 Aggiungo solo che in Girolamo Brusconi, Elucidario poetico, Conzatti, Venezia, 1667a p. 78 si legge: Brandizzo è una città della Puglia sul mare Adriatico, oggi Brindisi.
4 Attestato fino al XVI secolo: Girolamo Ruscelli, Rimario; cito dall’edizione Bigonci, Venezia, 1657, p. 382: Branditio, Città più volgarmente Brindisio.
I Nuptialia del 1734 di Luigi Sanseverino Duca di S. Pietro in Galatina e Cornelia Capece Galeota Duchessa di Sant’Angelo
di Gilberto Spagnolo
“Ma pur se brami,
che ti venga di porgere
Delle future nozze indizio
Mobile. E allo studio
Primier debbo risorgere”1
Il costume di scrivere poesie e versi in occasione di un evento nuziale proviene dalla letteratura greca. Il termine Nuptialia infatti indica i testi scritti in occasione delle nozze, testi riconducibili a due specie allora esistenti: l’epitalamo e l’imeneo. Nel Rinascimento questo genere letterario torna di moda in Italia. Ciò non significa che questi testi non esistessero durante il Cristianesimo. Tutt’altro2.
Olga Pinto (autrice di quel vastissimo repertorio che è Nuptialia. Saggio di bibliografia di scritti italiani pubblicati per nozze) afferma infatti che sono esistiti fino al IX secolo e poi scomparsi fino al 1484, quando a Padova Matthaeus Cerdonis diede alle stampe la poesia Carmina pro epithalamo Sigismundi archiducus di Franciscus Niger in occasione del matrimonio tra Sigismondo d’Asburgo e Caterina di Sassonia. Opere celebrative di tali eventi per nozze rappresentano un genere letterario che testimonia quanto questa abitudine sia diffusa particolarmente nella seconda metà del XVIII secolo. Abitudine che si caratterizza ulteriormente nel XIX secolo con una fioritura di pubblicazioni di inediti contenuti in particolar modo di lettere e di documenti storici, di ricerche araldiche filologiche e di ritrovamenti archeologici.
Nel secolo XIX, scrive ancora Olga Pinto, “le pubblicazioni per nozze furono stampate a migliaia in tutte le regioni della penisola, diventando una vera mania”3. I libretti per nozze, i Nuptialia, rappresentano, come esempio significativo, di quanto detto, “una vivace realtà dell’editoria bolognese”. Sono testimoniabili dal secolo XVI al XVIII e sono talvolta accompagnati da incisioni di pregio che vedono protagonisti gli artisti della scuola pittorica cittadina. Attraverso di essi emerge infatti, una nuova e ricca messe d’informazioni sul piano artistico, sul piano letterario, su quello sociale, nonché sulla fervente attività delle stesse tipografie bolognesi. I committenti sono ascrivibili per lo più alla classe senatoria mentre gli autori degli epitalami e delle odi encomiastiche sono gli accademici e gli scrittori in voga nel momento.
Questi testi perciò sono indubbiamente testimoni della nostra cultura e della nostra storia; sono ricchi di valori letterari e anche figurativi della nostra civiltà; sono indubbiamente protagonisti importanti e preziosi nel nostro “teatro della memoria”4, perfetto nella sua dimensione e nella sua definizione.
Nel campo della “Biblioteca Nuziale Salentina”, uno studio che rimane a tutt’oggi fondamentale dopo quello di Dennis E. Rhodes con il suo “Nozze e Famiglia” (pubblicato in Familiare 82 nel 1982, studi offerti per le nozze d’argento a Rosario Jurlaro e Nunzia Ditonno)5, lo ha fatto Alessandro Laporta, raccogliendo ben sessanta schede nuziali dei secoli XIX-XX e pubblicandole su “Studi di Storia e Cultura Meridionale” per le nozze d’argento di Vittorio Zacchino e Anna Orlandini, segnalando la presenza cospicua della Terra d’Otranto “in un genere ben lungi dall’essere tramontato”, smentendo “coloro che giudicavano questo costume fuori moda dimostrando come a partire dal 1970… lo stesso si fosse rinverdito e radicato negli ambienti salentini”6.
In quest’ottica vanno ad esempio certamente ricordate alcune raccolte censite dallo stesso Laporta nella sua ricerca, come quella che Nicola Vacca già nel 1955 realizzò per lo sposalizio della figlia Fausta Vacca, allorquando offrì agli sposi “Nuptiae Salentinae”, un’edizione privata di 101 copie numerate ad personam (estremamente rara e stampata a Lecce il 18 gennaio 1955)7. O la “Miscellanea Salentina” per le nozze di Mario Congedo e Lucia Lazzari (Edizioni dell’Almanacco del 25 luglio 1970)8. E ancora, la “Miscellanea per le nozze” di Armando Miele e Fiorella Palazzo, datata 26 Ottobre 19859. E la “Ristampa del Discorso del Sig. Francesco Guidani nel quale brevemente si ragiona della vera nobiltà”, stampato a Venezia nel 1574, edizione curata da Michele Paone per le nozze di Giuseppe Nielli ed Emanuela Mariano del 1 luglio 1989 e prim’ancora, qualche anno prima, la ristampa di Eustachia, sempre del Guidano, a cura dello stesso Paone, per le nozze di Vincenzo Caroprese e Natalia Mariano Mariano del 28 Giugno 198610.
In tale contesto intende porsi questo contributo, partendo soprattutto dal fatto che nel corso delle sue ricerche Alessandro Laporta “nulla o quasi aveva rinvenuto per i secoli dal XV al XVIII” concentrando così le sue ricerche sul XIX secolo11. L’omaggio librario collettivo composto per una occasione a tema nuziale che qui si presenta è invece settecentesco (prima metà) e oltre a riguardare una famiglia aristocratica di Terra d’Otranto ha soprattutto una particolarità, come si vedrà, molto importante in particolare per gli autori.
Appartenente a una collezione privata fu stampata a Padova nel 1734 per le “nozze degli illustriss. Ed eccellentiss. Signori D. Luigi Sanseverino principe di Bisignano, Paceco, S. Giorgio e Sanza, Duca di S. Marco e di S. Pietro in Galatina… e Cornelia Capece – Galeota di Sant’Angelo”. Realizzata in 8°, di pp. (6) e 112, è una bella e raffinata raccolta di sonetti, odi, epigrammi e versi latini12. A Galatina, è noto, dopo i Castriota, ci furono per qualche decennio appunto i Sanseverino, e successivamente gli Spinola che durarono fino al 1801 allorquando subentrò Carlo Gallarotti Scotti13. Nella lettera dedicatoria a firma di Giuseppe Pascale Cirillo, datata Napoli 10 novembre 1734, i Sanseverino e i Capece – Galeota vengono elogiati con queste parole:
“E chi v’ha che non sappia, che vi scorre nelle vene il più bel sangue di Francia tramandato in Voi da’ vostri Maggiori, che vennero nel Regno dintorno agli anni del Signore novecentotrenta in compagnia del famoso Ugo nipote dell’Imperador Carlo Magno? Chi non sa, che imparentarono più volte i vostri Antenati con Donne Regali, e benchè sbattuti sovente da forte nemico non lasciano giammai né per volger d’anni, né per variar di fortuna di essere illustri per lo splendore de’ titoli e de’ Baronaggi? A chi non è pervenuto il nome di Ruggieri I Conte di Marsico mandato dal Re Carlo suo vicario in Gerusalemme negli anni di nostra salute milledugentsettantotto? Di Roberto IX Conte di Marsico creato dal Re Ferdinando Principe di Salerno il dì penultimo di Gennaio dell’anno millequattrocentosessantatre? Per tacere le altre memorie più fresche, ma tutte grandi e tutte illustri del vostro Regal Casato, di cui son piene le Storie moderne, e le voci de’ Sapienti (14). Lascio adunque di annoverar partitamente le vostre Signorie di vostra famiglia, e lascio altresì di far parola della nobilissima famiglia CAPECE GALEOTA, ch’è stata sempremai, ragguardevole nella luce del Mondo per gentilezza ed onori, siccome ampia fede ne fanno ben molti valorosi Guerrieri, che salirono a i più sublimi gradi della Milizia, e tre sovrani Consiglieri di Stato, Ludovico, Ettore, e Carlo Galeota, il primo della Regina Giovanna II, il secondo del Re Renato, e ’l terzo del Re Ferrante I d’Aragona” (15). Alessandro Forges, Andrea Benincasa, Aniello Firelli, Antonio Antinori, Antonio Caracciolo, Antonio Minutolo, Ascanio di Bologna, Baldassarre de Caussis, Bonaventura de Marco, Carlo Recco, Domenico Caracciolo, Ferdinando Carafa, Francesco Caracciolo, Francesco Fontana, Francesco Magno Cavallo, Francesco Moles, Francesco Saverio Capece, Gaetano M. Brancane, Gennaro Perotti, Giambattista Capasso.
I versi e le rime degli autori presenti, “eletti spiriti” della città di Napoli, sono stati raccolti (come si legge nella lettera dedicatoria delle prime sei pagine) dal “dottissimo” Cavaliere D. Antonio Minutolo soprattutto per il loro animo “di bella virtù” e per la loro “Gentilezza e Generosità”. Gli autori sono infatti veramente molti e rispondono ai seguenti nomi: Achille Ambranese, Alessandro Forges, Andrea Benincasa, Aniello Firelli, Antonio Antinori, Antonio Caracciolo, Antonio Minutolo, Ascanio di Bologna, Baldassarre de Caussis, Bonaventura de Marco, Carlo Recco, Domenico Caracciolo, Ferdinando Carafa, Francesco Caracciolo, Francesco Fontana, Francesco Magno Cavallo, Francesco Moles, Francesco Saverio Capece, Gaetano M. Brancane, Gennaro Perotti, Giambattista Capasso, Giambattista Durini, Giambattista Vignali, Giannantonio Sergio, Gio. Tiresio M. Giron, Gio. Vincenzo Giron, Girolamo Biassa, Giuseppantonio de Lazzaris, Giuseppantonio Magri, Giuseppe di Stefano, Giuseppe M. Salerno degli Utili, Giuseppe Pasquale Cirillo, Idasio Cillenio, Incerto, Incerto accademico Ozioso, Isimene Promachiense, Luzio di Bologna, Matteo Egizio, Matteo Gennaro Testa, Niccolò Giliberti, Niccolò Recco, Niccolò M. di Fusco, Niccolò M. Salerno, Orazio Gaspari, P.M. Doria, Petronilla Guglielmini, P.M. Gruther, Pietro di Palma, Salvatore Caputo, Scipione Cigala, Scipione di Cristofaro, Silverio Gioseppo Cestari, Tommaso Mari, Vincenzo d’Ippolito, Urbano Vignali. Come si può notare, in questa rarissima prima edizione di tale raccolta di sonetti, figurano tra i suddetti numerosissimi autori molti esponenti delle principali famiglie napoletane (Capece, Caputo, Caracciolo, Carafa, Cigala, di Palma, Giron, Moles, Salerno, Sanseverino) oltre a una nobildonna, la principessa di Canneto Petronilla Guglielmini membro dell’Arcadia con lo pseudonimo di Euclea. Tra tutti, infine, spiccano “maestosamente” a p. 2 quattro versi latini di Giambattista Vico, “Regio Professor di Eloquenza”, sicuramente mai pubblicati e che così recitano:
“Quidnam saeva sedens Martis super arma/
Hymenaeus/
Caelesti actat jsultus Amore facem?/
Bellica speratur taeda hac CORNELIA mater,/
Inclyte quae LODOIX, te nova nupta legit.16/
In Rassegna Storica del Mezzogiorno, n. 2-2017/2018, Organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, CMYK Tipografia, Alezio 2018, pp. 139-154.
Note
1In Raccolta di Vari componimenti Poetici per le Nozze del Signor Conte Paolo Canale con la signora Contessa Vittoria Carleni dedicata a Monsignor Saverio Canale cherico di camera, Prefetto dell’Annona, e Pro-Commissario Generale dell’Armi Pontificie Dell’Abate Giambattista Luciani Segretario del sudetto Prelato, in Roma MDCCLV, nella Stamperia di Angelo Rotilij nel Palazzo de’ Massimi a S. Pantaleo con licenza de’ Superiori.
2 Scrive infatti Manuela Barducci: “I Nuptialia o scritti per nozze hanno origine in tempi molto lontani, probabilmente sono coevi alla nascita dell’“istituzione” matrimonio e del rito nuziale ed erano in uso nell’antica Grecia e presso i Romani. In Italia queste pubblicazioni costituiscono un genere letterario, ma forse sarebbe più corretto dire una “usanza sociale”, che si afferma a partire dal XVI-XVII secolo e che appare come un’evoluzione degli imenei greci, ossia degli inni cantati in coro da gruppi di giovani durante il trasferimento della sposa presso la dimora maritale, degli epitalami, cioè delle serenate e dei canti eseguiti la sera delle nozze davanti alla camera nuziale in segno di buon augurio e degli antichi fescennini romani, versi dal carattere tipicamente popolare, rustico espresso licenzioso cantati e recitati durante matrimoni, trionfi e feste anche agresti. Ne scrissero Saffo, Teocrito, Callimaco e Catullo per cantare e raccontare di nozze mitologiche o fantastiche. Nel Medioevo sembrano essere caduti in disuso, per trovare in auge con l’avvento e la diffusione della stampa. I Nuptialia pubblicati in Italia a partire dal XVI secolo hanno precise peculiarità: sono composizioni stampate contemporaneamente all’evento, matrimonio, dedicate a sposi reali e non mitici o, qualche volta ad uno o entrambi i loro genitori o fratelli o sorelle. Si tratta di un genere letterario considerato minore, che appare solo a margine della storia della letteratura italiana, poco studiato e trascurato dalla critica letteraria, diventando parte del rituale stesso delle nozze e rimasto in uso per ben quattro secoli” (M. Barducci, “Per il giorno dell’Imene quattro versi ci stan bene”. Una raccolta di scritti per nozze, in “invito a nozze. I Nuptialia della Biblioteca delle Oblate”, a cura di Manuela Barducci, Tipografia Bandettini, Firenze 2009, pp. 11-12; cfr., G. Rosi Maramotti, Le muse d’Imeneo. Metamorfosi letteraria dei libretti per nozze dal ‘500 al ‘900, 2 ed. accresciuta, Edizioni del Girasole, Ravenna 1996, pp. 7-8).
3 Cfr., O. Pinto, Nuptialia. Saggio di bibliografia di scritti italiani pubblicati per le nozze dal 1481, al 1799, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1971, pp. I-XV.
4 Cfr., M. Pigozzi, Nuptialia: i libretti per nozze della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, Volume 22 di Lexis; Biblioteca delle arti, Bologna, CLUEB 2010. Anche la Biblioteca dell’Archivio di Stato di Bologna conserva un fondo di pubblicazioni per nozze bolognesi costituito da ben 476 pezzi tra opuscoli, inviti e locandine stampati in occasione di nozze fra componenti delle famiglie nobili e aristocratiche della città di Bologna. In prevalenza sono nozze allo scopo di rafforzare le alleanze fra la nobiltà cittadina, ma anche alleanze esterne, con famiglie nobili di altre città. Le nozze sono celebrate con componimenti poetici (epitalami) e con odi encomiastiche per esaltare le virtù degli sposi e delle loro famiglie (Nel marzo del 2008 fu realizzata una mostra a cura di Giorgio Marconi e Francesco Nicita); cfr. anche Danielle Boillet, Il testo e l’immagine, a proposito del doppio contributo di Giovanni Luigi Valerio a raccolte per nozze (1607-1622), Linea Editoriale, Bologna 2017.
5 Dennis E. Rhodes, Nozze e famiglia: aggiunte di cinquecentine al BritishMuseum (British Library) 1957-1982, in “Familiare ‘82. Studi offerti per le nozze d’argento a Rosario Jurlano e Nunzia Ditonno”, Brindisi, edizione amici della “A. De Leo”, Martina Franca, Arti Grafiche Pugliesi 1982.
6 A. Laporta, Bibliografia Salentina: sessanta schede nuziali (Sec. XIX-XX), in “Studi di Storia e Cultura Meridionali. Per le nozze d’argento di Vittorio Zacchino e Anna Orlandino”, Galatina, Grafiche Panico, 1992, pp. 155-167.
7 Nuptiae Sallentinae. Per lo sposalizio di Fausta Vacca con Augusto Giovannini. Lecce 18 giugno 1955, Lecce, editrice salentina, 1955, pp. 65 (figurano scritti importanti dello stesso Vacca, di Francesco Ribezzo, di Oronzo Parlangeli.
8 Miscellanea salentina per le nozze di Mario Congedo e Lucia Lazzari, Galatina, Edizioni dell’Almanacco (Galatina, Editrice Salentina), 25 luglio 1970, pp. 57 (con testi di Cesare Teofilato, Rosario Jurlaro, Vittorio Zacchino, Pietro De Leo, Nicola Vacca, Michele Paone).
9 Miscellanea per le nozze di Armando Miele e Fiorella Palazzo, 26 ottobre 1985, Fasano, Grafischena, 1985, pp. 105 (bella edizione cartonata in 4° con testi di Mario Marti, Luigi Sada, Alessandro Laporta, Mauro Spagnoletti, Donato Valli, Francesco Maria De Robertis, Orazio Bianco).
10 Francesco Maria Guidano, Eustachia. Commedia. Premessa di Michele Paone. Per le nozze di Vincenzo Lucio Caroprese e Natalia Mariano Mariano, 28 Giugno 1986, Galatina, Editrice Salentina, 1989, pp. 84. Dello stesso autore va citato anche il Discorso nel quale brevemente si ragiona della vera Nobiltà, in Venezia, appresso Gio. Battista Sessa e fratelli, MDLXXIIII. Ristampa, con premessa di Michele Paone, per le nozze di Giuseppe Nielli e Emanuela Mariano Mariano 1 luglio 1989, Galatina, Editrice Salentina 1989.
11 A. Laporta, Bibliografia Salentina: sessanta schede nuziali (Sec. XIXXX), cit., pag. 145. Per il XIX secolo, merita una particolare citazione la pubblicazione realizzata per “le nozze Doria-Danese del dicembre 1896 e stampata a Lecce dalla “Premiata Tipografia e Litografia Luigi Lazzaretti e Figli”. Nella miscellanea sono presenti relativamente al lieto evento, importanti contributi di “illustri” amici quali Giuseppe Gabrieli, Gaetano Fiore, Ferruccio Guerrieri, Giovanni Guerrieri, Brizio De Santis.
12 VARJ/ COMPONIMENTI/ PER LE NOZZE/ Degl’Illustriss. Ed Eccellentiss. Signori/ D. LUIGI/ SANSEVERINO/ Principe di Bisignano, Paceco, S. Giorgio, e Sanza, Duca/ di S. Marco, e di S. Pietro in Galatina, Marchese di/ S. Lorenzo, Conte della Saponara, Chiaromonte, Al/ tomonte, Tricarico, Corigliano, e Mileto, Signore/ delle Terre d’Acri, Rotonda, Vingianello, Cirella, Cavaliere dell’Insigne Ordine del/ Toson d’Oro, Primo Barone, e Gran Giu/ stiziero del Regno, e Grande di Spagna/ di Prima Classe/ E/ D. CORNELIA/ CAPECE – GALEOTA/ Duchessa di Sant’Angelo/ IN PADOVA MDCCXXXIV/ Con licenza de’ Superiori.
13 Cfr., G. Vallone, Viaggi e Viaggiatori a Galatina, in “Guida di Galatina. La Storia. Il Centro Antico. Il Territorio” di G. Vallone, M. Cazzato, G. Vincenti, A. Costantini, a cura di M. Cazzato, Le Guide Verdi 15, Congedo Editore, Galatina, s. d. (2° edizione), p. 20.
14 Il Foscarini, nel suo Armerista, descrive infatti i Sanseverino come “illustre ed antica famiglia napolitana del seggio di Nido, che si vuole originaria di Normandia, la quale Contea di Sanseverino che Targisio ebbe, in Regno, circa la metà del secolo XII, da Roberto Guiscardo, trasse il proprio cognome. Fu insignita del Cavalierato di Malta nel 1537, del Grandato di Spagna di 1° classe e del Cavalierato del Toson d’oro. Possedette questa casa innumerevoli feudi, contee, Marchesati, Ducati e Principati. In Terra d’Otranto il feudo di Tafagnano, metà del casale di Morigino e parte di quelli di Giuggianello e Mianello; i casali di Parabita, Laterza, Soleto, Ceglie, Copertino, Galatone, Ginosa, Montesano, Calimera e Cannole; le Terre di Nardò e Massafra, la città di Ostuni, Castellaneta e Mottola; il Contado di Corigliano e quello di Soleto. Il Ducato di S. Pietro in Galatina lo possedette infine a seguito del matrimonio di Irene figlia di Ferrante Castriota – Scanderberg Conte di Soleto e Duca di S. Pietro in Galatina con Pietro Antonio Sanseverino Principe di Bisignano. L’Arma dei Sanseverino è: D’Argento alla fascia rossa (Cfr., A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto estinti e viventi con tavole genealogiche, premessa di Pietro De Leo, rist. Anastatica della 2° ediz. Di Lecce 1927, Arnaldo Forni ed., Bologna 1971, p. 267). Berardo Candida Gonzaga dedica diverse pagine alla casa Sanseverino, evidenziando che “è stimata per la sua illustrazione e potenza la prima del Regno ha goduto nobiltà nella città di Napoli al seggio di Nido, Milano, Genova, Vicenza, Modena, Piacenza, Capua, Lucera, Catanzaro, Cosenza e Castrovillari… La famiglia Sanseverino per la gran parte presa nei mutamenti di Governo, fu quasi che distrutta due volte. La prima dalla Casa Sveva per aver patteggiato col Papa; e la seconda da Re Ladislao, perché capitanò i Baroni napoletani che cercavano rivoltargli il Regno, allorchè egli partì per la conquista di Ungheria. Quando giunse nel Reame Carlo I D’Angiò, le potenti famiglie Sanseverino e Fasanella seguirono il suo partito per vendicarsi delle ingiurie ed infamie sotto la denominazione sveva… Dei Sanseverino sorgono monumenti in Napoli, Roma, Milano, Monferrato, Mileto, Saponara, Sanseverino, Marsico, Salerno, Diano e Pisa (B. Candida Gonzaga, Memorie delle Famiglie Nobili delle Province Meridionali d’Italia, Vol. II, Napoli, Stab. Tipog. Del Cav. De Angelis e figlio, MDCCCLXXVI, pp. 110-127). Di Luigi Sanseverino indica i seguenti titoli: “Grande di Spagna, Principe di Paceco, di Luzzi e di S. Giorgio o Grottole, Duca di S. Marco, Jelsi, Somma o Venosa, Marchese di Sansa, Sangineto e Casalbore, Conte di Potenza, Lauria, Turrito, Chiaromonte, Altomonte e Sanseverino, già Gentiluomo di Camera con esercizio e Presidente della Corte dei Conti, Cavaliere di S. Gennaro, dell’Ordine Gerosolimitano e Gran Croce di S. Gregorio Magno” (Ivi, p. 127). G.B. Di Crollalanza nel suo Dizionario storico-blasonico (Vol. II, Pisa 1888, p. 484) annota infine che “questa casa ha posseduto 384 baronie, 64 contee, 8 marchesati, 42 ducati e 40 principati ed è entrata nell’Ordine di Malta fin dal 1400. Fu insignita del Toson d’Oro e del Grandato di Spagna di 1° Classe; onorata dei titoli di Serenissima e Potentissima di Primi Casa del Regno, di principi del S. R. I., ascritta al seggio di Nido, al libro d’oro al patriziato di Venezia, Milano, Cosenza, Taverna, Catanzaro ecc.”
15 La famiglia Galeota è invece “una diramazione della Casa Capece ed è quella il cui nome tra le viventi famiglie si trova nel primo né i documenti conservati nel Grande Archivio in Napoli. Questa famiglia ha goduto nobiltà in Napoli al Seggio di Capuana, in Taranto ed in Teano. Fu insignita dall’Ordine Cavalleresco istituito nel Regno, e fu ricevuta nell’Ordine di Malta nel 1559. Sorgono monumenti dei Galeota nel Duomo e in diverse chiese di Napoli, nel duomo di Cosenza, in Liveri presso Nola e in Francia nella Cappella Reale d’Anghiers. Arma: Una sintesi composta di onde di Argento ed azzurro (Cfr., B. Candida, Gonzaga, Memorie delle Famiglie Nobili delle Province Meridionali d’Italia, op. cit., Vol. Terzo, Napoli, Cav. Gennaro De Angelis e Figlio, MDCCCLXXVI, pp. 100-109). Il Foscarini definisce i Galeota come “Nobile famiglia Tarentina originaria di Napoli, dove godeva nobiltà al Seggio di Capuana, ed importata in Taranto nel 1515 da Gio. Tomaso Galeota, già Ambasciatore al Re di Francia, a causa del suo matrimonio con la nobile Giulia Capitignani: In Terra d’Otranto possedette i feudi di Tafagnano, Saturo, Lucignano, i Casali di Salice e Guagnano, Casamassella e metà del feudo di Montemesola. Arma: una sintesi composta di onde di argento e di azzurro, al lambello di rosso nel capo attraversante sul tutto” (Cfr., A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle Famiglie Nobili, Notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, op. cit., pp. 154-155). Secondo il Crollalanza la famiglia Capece – Galeota di Napoli “Ha per capo-stipite un Galeotto Capece, figliuolo di Enrico Contestabile della Repubblica Napoletana, vissuto nel 1170. Ebbe il possesso di molti feudi, tra i quali alcuni con titolo di Conte, Duca e Principe; ed è goduto nobiltà in Napoli nel Seggio di Capuana. Ha occupato alti uffici e dignità civili; militari ed ecclesiastiche, e fu insignita di molti ordini cavallereschi. ARMA: Ondato d’argento e d’azzurro, al lambello di tre pendenti di rosso attraversante sul tutto. Alias: d’oro, a quattro fasce ondate d’azzurro” (G.B. Di Crollalanza,Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Vol. primo, Pisa, presso la direzione del giornale araldico 1886 pag. 721).
16 Traduzione: Perché mai, sedendo sulle crudeli armi di Marte/Imeneo/ lancia la fiamma sostenuto dall’amore celeste?/ Da questa gesta guerriera si augura, o inclito LODOIX, la madre Cornelia/ Che ti sceglie come sposa novella.
(alle origini dell’ “acqua di S. Giovanni” e altri rituali)
di Gianfranco Mele
L’ acqua di S. Giovanni, che alcuni chiamano anche “rugiada degli dei” per rimarcare le origini pagane del rito, secondo questa interpretazione sfrutta, con la sua preparazione in una notte particolarmente magica, la notte del solstizio, il potere di piante e fiori intrisi di rugiada divina. Come noto, questo rito è ritenuto propiziatorio ai fini della fortuna, dell’amore e della salute, e al tempo stesso purificatorio.
Un’altra denominazione è proprio “acqua del solstizio”, un’acqua preparata appunto con le piante solstiziali, così denominate perchè raggiungono nella notte del solstizio (in realtà in quel periodo) il massimo del loro potere, ovvero la maggior concentrazione di principi attivi in relazione al loro tempo balsamico.
Una variante (anche questa, derivata dalla tradizione magico-pagana) di questo rituale è quella del recarsi, sempre nella notte del Solstizio, o al sorgere dell’alba, quando comunque la pianta è ancora bagnata di rugiada, verso una “pianta solstiziale” bevendo la rugiada depositatasi o bagnandosene il viso. A seconda del “potere” che si vorrà acquisire ci si recherà verso una particolare pianta, per poter assumere le virtù ad essa attribuite dalla leggenda o dalle credenze magico-religiose. Si tratta di un rito oggi meno conosciuto e più in disuso rispetto a quello ritornato in auge (in maniera esemplificata) e popolare al giorno d’oggi. Vedremo, difatti, in questo veloce excursus, che le varianti utilizzate in passato sono numerose e anche più “pittoresche” e complesse rispetto alla pratica diffusa attualmente.
La “spina di San Giovanni” in Salento è l’infiorescenza del cardo che, raccolto alla vigilia di San Giovanni veniva utilizzata per un rituale piuttosto elaborato: prelevata in numero di diversi esemplari, i pappi venivano bruciati e posti sotto il letto dopo aver recitato delle preghiere. Se al mattino le bruciature erano scomparse, la sorte sarebbe stata propizia. In particolare, questo rituale veniva utilizzato dalle ragazze per sapere se si sarebbero maritate entro l’anno.
Nella notte di San Giovanni, le piante tipiche della stagione si sarebbero dotate di poteri particolari, e alcune di esse avrebbero addirittura sviluppato caratteristiche e partorito organi non rintracciabili se non in quella specifica notte. E’ il caso, ad esempio, dell’ Artemisia: si credeva che solo e unicamente in quella notte sotto le sue radici si sarebbe formato un carbone che chiunque avesse raccolto e portato in casa, avrebbe potuto utilizzare come un potente talismano. A questo leggendario “carbone” dell’artemisia erano attribuiti poteri come portafortuna in generale, e in particolar modo ai fine della protezione della casa dai fulmini e dalle pestilenze. Tutte le altre virtù magiche attribuite all’artemisia, si sarebbero sviluppate al massimo del loro potere se la pianta veniva raccolta nella notte di San Giovanni: ad esempio, il suo potere divinatorio (veniva utilizzata per capire se una persona malata sarebbe guarita o meno: si ponevano delle foglie sotto il cuscino dell’infermo e se si fosse addormentato subito quello era da considerarsi un segnale di prossima guarigione, mentre se fosse rimasto sveglio si presagiva la morte). Allo stesso modo, un altro potere attribuito all’artemisia, quello di far innamorare, avrebbe funzionato al massimo raccogliendo la pianta nella notte del solstizio.
Come l’artemisia soltanto nella notte di S. Giovanni produceva il suo “magico carbone”, così si credeva che in quella notte la felce potesse partorire un fiore che avrebbe portato immensa fortuna a chi lo avesse colto. In altre varianti della leggenda, in quella notte la felce produce dei semi che hanno il potere di tenere lontani i malefici e di procurare forza e buona fortuna. I “semi” potevano dare al suo fortunato possessore anche il potere dell’invisibilità e quello della profezia. Ancora, la capacità di trovare tesori nascosti, di essere usati come strumento di invocazione della pioggia. E’ appena il caso di specificare che, in realtà, le felci non producono fiori, né frutti e semi, e si riproducono tramite spore.
Una delle tante piante magico-medicinali da raccogliere nella notte di San Giovanni (al di là e al di fuori della ricetta della cosiddetta “acqua di San Giovanni”) è l’Eliotropio, al quale erano attribuiti poteri come antidoto al morso dei serpenti, come erba profetica e divinatoria, e persino come pianta in grado di procurare invisibilità a chi la portasse addosso: queste ed altre qualità attribuite alla pianta, raggiungevano il culmine della affidabilità se la pianta veniva raccolta nella notte magica.
Senz’altro la tradizione dell’acqua di San Giovanni (detta anche guazza, un termine più arcaico che designa la rugiada copiosa) è mutuata da riti e pratiche più antichi e antecedenti il cristianesimo, e nella tradizione contadina di varie regioni italiane ricorrono riti diversi tra loro ma che hanno come comune denominatore l’utilizzo della “magica acqua”.
Già nel rituale oggi diffuso e rivitalizzatosi grazie alla circolazione di questa usanza attraverso il web, un elemento importante della “ricetta” è l’acqua nel quale devono essere immersi i fiori, e molti badano a sottolineare che in realtà l’acqua dovrebbe essere la (non facilmente reperibile) acqua prelevata da un fonte.
San Giovanni battezza Gesù con le acque del fiume Giordano, e questo è un altro elemento di collegamento del rito purificatorio sia al santo che all’acqua.
L’acqua nel’ antichità, anche precristiana, ha poteri curativi e purificatori in molteplici casi e in diverse tradizioni. Vi erano veri e propri culti delle acque, molte erano le divinità collegate alle acque, e si credeva che in esse risiedessero infondendovi anche i propri poteri.
Le aspersioni e le purificazioni con utilizzo di acqua e piante o estratti di piante sono comuni a diverse religioni, sono state utilizzate da greci e romani e son presenti a tutt’oggi nella liturgia cattolica. Tra le piante più utilizzate, l’issopo, l’olivo, il lauro.
Ritornando alla civiltà contadina, fino alla fine dell’Ottocento nell’Abruzzo e nelle Marche si usava , nella notte di S. Giovanni, immergersi nelle acque del mare o dei fiumi nella convinzione di acquisire salute e forza. In provincia di Pescara, in quella notte, si usava recarsi ad un fonte per lavarsi la faccia e le mani, e con un trancio di Clematis vitalba ci si cingevano i fianchi e la fronte per preservarli dal dolore. A Celano, in prov. di L’Aquila, ci si recava presso il Fonte Grande nella notte di S. Giovanni nella credenza che quell’acqua potesse guarire i reumatismi e la tigna. A Caramanico (PE) si usava attingere l’acqua dal fiume Orta, lavarsi e purificarsi con essa, darla da bere agli animali, intingervi dei rami di rovo e cingerli intorno ai fianchi. Sempre in Abruzzo, presso il fiume Giovenco ragazzi e ragazze andavano a lavarsi scambievolmente la faccia. Da Lanciano si facevano pellegrinaggi, a piedi o con gli antichi mezzi di locomozione, verso Fossacesia dove le ragazze, all’alba, si snodavano i capelli per lavarli nell’acqua del mare convinte che così sarebbero diventati folti e belli. In diversi paesi della Valle Roveto i giovani usavano recarsi a mezzanotte presso il fiume Liri per bagnarvisi e stringere il comparatico.
In altri paesi dell’Abruzzo, per vincere le emorroidi ci si strofinava il sedere sull’erba dei campi bagnata di rugiada.
In molti paesi della Sardegna, nella notte di San Giovanni le ragazze si recavano in solennità a raccogliere l’acqua dei pozzi per poi spruzzarla sulle case del villaggio, a fini di purificazione anche dagli spiriti malefici. Con quella stessa acqua, ci si lavava il viso. In diverse località sarde, inoltre, i malati venivano portati al fiume o al mare e là immersi per guarire.
E sempre in Sardegna, come in altre località, si usava sfruttare il potere della rugiada magica rotolandosi nei prati bagnati con lo scopo di guarire da malattie. Stessa usanza, è documentata in Umbria, dove all’alba di S. Giovanni ci si rotolava nudi sull’avena bagnata di rugiada.
La guazza di San Giovanni era ritenuta efficace contro le malattie della pelle ma anche contro quelle degli occhi e contro il mal di testa: per vincere queste ultime patologie, bisognava recarsi all’alba nei campi e strofinare palpebre, fronte e tempie con le erbe bagnate di rugiada. Questa credenza la si ritrova anche in Piemonte dove addirittura la rugiada raccolta nella notte di S. Giovanni veniva usata per impastare focacce medicinali contro il mal di testa.
Più in generale, la rugiada raccolta e conservata poteva essere utile contro varie malattie. In alcune regioni d’Italia le lenzuola dei malati venivano imbevute di questo “rimedio”, oppure la si utilizzava per applicazioni ripetute sulle parti malate. La rugiada raccolta nella notte magica e conservata, era ritenuta efficace nello specifico anche come rimedio antirughe e contro la caduta dei capelli. In Abruzzo, le ragazze dovevano pettinarsi all’alba della festa del santo in un canneto bagnato di rugiada, e avrebbero così avuto capelli belli e folti.
In Friuli si credeva che la rugiada di San Giovanni potesse rendere fertili le donne. Le ragazze in cerca di marito usavano bagnarsene le parti intime.
Benchè cristianizzato (almeno nella denominazione), il rituale della notte di San Giovanni, come altri riti mutuati nella tradizione contadina da più antichi riti pagani, nelle sue espressioni più vicine alle pratiche originali veniva stigmatizzato dalla chiesa: nel 1753 la Corte Pontificia di Roma emette un bando che mette fuori legge e punisce chi si dedichi nella notte di S. Giovanni alla pratica di recarsi nudi nei campi e bagnare i genitali di rugiada:
“Con l’autorità del nostro ufficio, a qualsiasi persona dell’uno o dell’altro sesso proibiamo che in detta notte veruno ardisca accostarsi alle vasche, ai rigagnoli, alle fontane, togliendosi le brache e accucciandosi sull’erba, pena: gli uomini tre tratti di corda da darsi in pubblico, e scudi 50 di multa; per le donne, tre colpi di frusta a’ posteriori in pubblico, e sì per gli uni, come per gli altri, senza remissione”.
Egualmente, la raccolta della felce ai fini magici nella notte di San Giovanni viene registrata nei verbali della curia di Oria nel 1679 come un atto di stregoneria poiché i denunciati hanno attivato un rituale di raccolta della pianta, con un misto di invocazioni ai santi e ai demoni, finalizzato a ricavare l’ “herba incantata”, ovvero un composto polverizzato che avrebbe dato il potere di far innamorare o assoggettare alla propria volontà una persona: occorreva, per raggiungere questo scopo, gettare addosso alla “vittima” la polvere magica ricavata dalla felce.
Un curioso esempio di magia imitativa praticata dai contadini in Umbria tra la vigilia e il giorno di S. Giovanni è il rituale per liberarsi dai calli: bisognava andare all’alba negli orti a pestare con i piedi nudi le cipolle (le cipolle rappresentano i calli).
BIBLIOGRAFIA
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Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 2017
Gianfranco Mele, Piante della nostra flora spontanea: usi medicinali, magici ed afrodisiaci dell’artemisia, La Voce di Maruggio, dicembre 2018
Gianfranco Mele, Eliotropio selvatico, curiosità medicinali e magiche, La Voce di Maruggio, settembre 2019
Gianfranco Mele, La felce di S. Giovanni o del solstizio tra leggenda, magia e medicina popolare, Fondazione Terra d’Otranto, 2018
Marcella Barra Bagnasco Il culto delle acque in Magna Grecia dall’età arcaica alla romanizzazione: documenti archeologici e fonti letterarie, in: Archeologia dell’acqua in Basilicata, Consiglio Regionale di Basilicata, Soprintendenza Archeologica della Basilicata, 1997
Salvatore Bianco, Il culto delle acque nella preistoria, in: Archeologia dell’acqua in Basilicata, Consiglio Regionale di Basilicata, Soprintendenza Archeologica della Basilicata, 1997
Maria Antonietta Epifani Stregatura. Mentalità religiosa e stregoneria nel Mezzogiorno di antico regime, Besa Editrice, Nardò, 2001.
La fama odierna del maestro Giuseppe Tanese (1861-1928) è legata indissolubilmente al canto “Udite figlie” che egli compose per la processione del venerdì santo, e che ancora oggi costituisce il momento più toccante e caratteristico del rito che si tiene annualmente a Copertino.
“Udite figlie” è una nenia dolorosa, un compianto sul Cristo morto eseguito da un coro interamente femminile vestito a lutto (noto come “le pie donne”), accompagnato dalla banda del paese. Se le note introduttive degli ottoni richiamano quelle di una marcia funebre, il successivo e dirompente ingresso delle voci che si diffondono nell’aria della sera sembra trasportare l’uditorio indietro nel tempo, a forme ancestrali e ormai scomparse di religiosità popolare.
Non è affatto esagerato affermare che ormai questo canto è divenuto uno dei principali motivi di richiamo della processione stessa; addirittura il suo titolo è finito per sovrapporsi a quello dell’intero rito del venerdì santo a Copertino. Abbondano ormai sul web, in repositori video come Youtube, i filmati delle esecuzioni di “Udite Figlie” degli ultimi anni, con le sue note inconfondibili che alleviano la nostalgia del copertinese fuori sede o, magari, giungono a sorprendere e incuriosire il forestiero.
All’approssimarsi di ogni triduo pasquale, puntuali compaiono, pubblicate sui giornali o sui social con l’inveterata tecnica del “copia e incolla”, alcune laconiche informazioni biografiche su Giuseppe Tanese. Eccone un esempio tratto dal comunicato ufficiale del 2022: “[…] maestro direttore e concertatore del concerto musicale ‘Banda Rossa[1] di Copertino’ Giuseppe Tanese, nativo di Fasano ma morto a Copertino nel 1928”.
L’indicazione del 1928 come data di morte è sicuramente un prezioso dato di partenza, poiché consente di effettuare una ricerca mirata nei registri di Stato Civile di Copertino. Ritrovato dunque l’atto di morte, constatiamo che Giuseppe Tanese, “capo musico” e marito di Elisabetta Passante, era nato a San Giorgio Jonico da Ciro e da Carolina Motolese, a loro volta abitanti in quel comune[2].
Se da un lato, purtroppo, una verifica diretta è resa difficoltosa dal fatto che il registro dei nati a San Giorgio Jonico per il 1861 non risulta disponibile, dall’altro ci sono almeno due evidenze macroscopiche che confermano questo luogo di nascita, e cioè: 1) l’indicazione esplicita nell’atto di morte, come detto, della provenienza dei genitori, e 2) l’ulteriore atto di nascita di una sorella del maestro, Maria Maddalena, rinvenuto nel registro dei nati di San Giorgio Jonico del 1860[3]. Questi dati sgombrano il campo da ogni dubbio: il maestro Tanese non nacque a Fasano, ma a San Giorgio Jonico!
Forse l’equivoco tra i due luoghi si originò nel momento in cui il Tanese giunse a Copertino per assumere la direzione della banda, avendo già alle spalle un’esperienza analoga a Fasano[4]. È dunque molto probabile che in paese molti avessero superficialmente scambiato la località da cui il musicista proveniva in quel momento con il suo effettivo luogo di nascita.
Di certo Giuseppe Tanese, con la sua preparazione e il suo estro artistico, accrebbe notevolmente il prestigio del concerto musicale di Copertino, che portò a esibirsi anche lontano dai confini comunali. Ne troviamo eco nelle corrispondenze dei giornali di inizio Novecento, che si profusero a più riprese in magnifiche lodi della banda e del suo direttore.
Nel 1902, a Campi Salentina, la banda di Copertino eseguì un “Salve Regina” composto da Michele Valensise[5] e nell’occasione il maestro Tanese ricevette grandi elogi per la sua trascrizione per banda del brano[6].
Un articolo del 1903 racconta di un’esibizione della banda di Copertino per la festa di San Luigi a Lecce, rimarcando come già l’anno precedente, in occasione della festa di Sant’Oronzo “quei bravi musicanti furono fatti segno a continue ovazioni da parte del pubblico, e il valoroso direttore prof. Tanese fu molto festeggiato da numerosi cittadini”[7]. Dallo stesso articolo apprendiamo anche che il sodalizio artistico tra il musicista e Copertino aveva avuto inizio due anni prima. E proprio da Copertino, nel 1904, il corrispondente della “Provincia di Lecce” riportava: “Il nostro Concerto cittadino in occasione delle feste per la Madonna del Fonte in Conversano ha riportato un nuovo e meritato successo. Il sindaco di Conversano, rendendosi interprete dell’ammirazione e del compiacimento della sua cittadinanza, ha diretto al nostro sindaco una lettera nella quale elogia vivamente il nostro concerto e il suo direttore m. Tanese. Lo stesso ha fatto il Comitato delle feste, con un telegramma pure diretto al nostro sindaco”[8]. È sorprendente oltretutto vedere come questi elogi provenissero da una realtà di antica tradizione musicale come Conversano[9].
Nella primavera del 1905, dopo un’esibizione della banda di Copertino alla festa patronale di Taranto, si leggeva: “L’esimio maestro direttore del concerto sig. Giuseppe Tanese si ebbe le più vive felicitazioni da quanti ebbero occasione di sentirlo e di apprezzarne i rarissimi pregi artistici, che lo rendono di un’importanza eccezionale”[10].
Notizie davvero esaltanti giungevano poche settimane dopo a Copertino anche da una tournée della banda cittadina in Campania: “Il nostro concerto musicale diretto dal distinto m. Tanese è da qualche mese che compie un giro artistico nelle provincie di Avellino e Napoli, ove è fatto segno a meritati applausi e distinzioni di ogni sorta. Recentemente ad un concorso a Portici ove convennero diversi concerti musicali che vanno per la maggiore, quello di Copertino ottenne il gran diploma d’onore, mentre il prof. Tanese veniva premiato con la medaglia d’oro. Il presidente della commissione giudicatrice di Portici telegrafò al nostro sindaco, felicitandosi in nome dell’intera cittadinanza. Congratulazioni vivissime”[11].
Le apparizioni sulla stampa non finiscono qui: nel 1903 la banda di Copertino viene menzionata per aver suonato a Mesagne[12], nel 1906 a Fasano[13] e a San Cesario[14], nel 1909 ad Altamura[15] e a Maglie (con musiche dal “Rigoletto”, dalla “Norma” e dal “Trovatore”)[16], nel 1911 a Lecce[17].
Sempre dalla stampa dell’epoca veniamo a scoprire anche che la dedizione di Tanese al concerto bandistico di Copertino si interruppe per un breve periodo, quando nel 1909 egli venne chiamato a Lecce per un tentativo di rilancio della compagine musicale cittadina[18]. L’esperienza si rivelò breve e deludente, poiché l’amministrazione comunale del capoluogo non erogò il supporto economico promesso. Pertanto già nella prima metà del 1910 il maestro Tanese fece ritorno a Copertino, portando con sé gli elementi più validi con cui aveva avuto modo di lavorare nel periodo leccese[19].
Fin qui gli elementi che ci provengono dalle fonti dell’epoca. Disponiamo però anche dei ricordi dei discendenti, che dopo tre generazioni[20] ancora mantengono vivi alcuni piccoli ma significativi bozzetti relativi alla vita di Giuseppe Tanese e della sua famiglia. Uno racconta dell’abitudine del maestro di comporre preferenzialmente di notte, al pianoforte e al buio, nel palazzo signorile in cui abitava, in via Ruggeri, nel cuore del centro storico. La domenica, prima della messa, in segno di deferenza i vicini di casa erano soliti portare in anticipo nella chiesa matrice una sedia sulla quale avrebbe preso posto la moglie del maestro. Pare che, durante il tragitto che la famiglia compieva ogni domenica per raggiungere la chiesa, la figlia del maestro, Gioconda, nata nel 1904, giovane studentessa che i genitori avevano avviato agli studi magistrali, cominciò a notare un ragazzo di bell’aspetto, ma di condizione sociale inferiore (era contadino). Tra i due nacque un’attrazione che, come era prevedibile, venne osteggiata dalla famiglia di lei; tuttavia quell’amore riuscì infine a prevalere su tutto e venne coronato da un matrimonio celebrato nel 1930[21], dopo la morte del maestro e della moglie. Gioconda Tanese aveva dovuto abbandonare i suoi studi, ma li mise comunque a frutto ponendosi a disposizione dei propri concittadini analfabeti per aiutarli a leggere e scrivere la corrispondenza con i propri congiunti che svolgevano il servizio militare lontano dal paese.
Si tramanda che i figli del maestro Tanese fossero quattro in tutto; talvolta sul web si incontrano affermazioni secondo cui le meste note di “Udite figlie” gli vennero ispirate dallo strazio per la perdita di un figlio in tenera età. Abbiamo rinvenuto con certezza notizie sul figlio Rocco Tanese, classe 1897, ufficiale di artiglieria giunto al grado di colonnello, decorato per la partecipazione alla prima guerra mondiale[22] e, tra le altre cose, autore di un manuale di radiotelegrafia per usi militari[23].
Il rispetto e l’ammirazione dei propri compaesani, il tenore di vita piccolo-borghese, l’aver assicurato un futuro ai propri figli non devono però essere scambiati, nel contesto storico di inizio ‘900, per uno stato di florida agiatezza: si tramanda che in molte occasioni, dopo una prova o un’esibizione, il maestro Tanese non potesse ricompensare i propri strumentisti se non offrendo loro un pasto.
Sono, queste, spigolature che aggiungono colore alla figura di Giuseppe Tanese – che il tempo aveva parzialmente sbiadito – e che sono complementari a quanto abbiamo appreso dalla stampa dell’epoca sul suo ruolo pubblico, sulla sua arte e sul suo apporto alla fama della città di Copertino.
La carrellata di testimonianze che abbiamo riportato, sia pur breve e inevitabilmente incompleta, è già, tuttavia, più che eloquente e sufficiente per dimostrare come il musicista Tanese meriterebbe oggi una memoria ben più articolata e definita rispetto a quella legata unicamente al suo canto quaresimale “Udite figlie”.
Note
[1] La denominazione “Banda Rossa” designava all’epoca un ensemble musicale di estrazione operaia. Sebbene non abbiamo incontrato nella stampa dell’epoca tale denominazione per quella di Copertino, la riteniamo comunque del tutto plausibile. Viceversa, su La Provincia di Lecce del 21 agosto 1904, p. 3, leggiamo che in occasione della festa patronale di quell’anno, Copertino ospitò la “Banda Rossa” di San Severo, di fama “mondiale” secondo l’estensore dell’articolo.
[2] Archivio di Stato di Lecce, Stato civile del comune di Copertino, Registro dei Morti, a. 1928, n. 145.
[3] Archivio di Stato di Taranto, Stato civile del comune di San Giorgio Jonico, Registro dei Nati, a. 1860, n. 14. La madre morì il 31 luglio 1867, quando il futuro maestro aveva solo sei anni (Archivio di Stato di Taranto, Stato civile del comune di San Giorgio Jonico, Registro dei Morti, a. 1860, n. 42).
[9] Va detto che la banda di Conversano non aveva ancora raggiunto i livelli di eccellenza a cui l’avrebbe elevata il maestro Giuseppe Piantoni tra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo.
[20] Per gli aneddoti di famiglia e per l’immagine del maestro qui riportata si ringraziano Tonino e Anna Maria Nestola, nipoti ex filia di Gioconda Tanese, figlia del maestro.
[21] Archivio di Stato di Lecce, Stato civile del comune di Copertino, Registro dei Matrimoni, a. 1930, n. 48.
[22] Ministero della Guerra, Bollettino ufficiale delle nomine, promozioni e destinazioni negli ufficiali e sottufficiali del R. esercito italiano e nel personale dell’amministrazione militare, Roma, 1922, p. 919.
[23] R. Tanese, Appunti di radiotelegrafia, Potenza, 1941.
In riferimento ad un articolo recentemente apparso su questo sito, dove si è trattato della presenza del quadrato magico del Sator nel Salento, leggendolo, mi è ritornato in mente quello visto tante volte a Specchia (Lecce).
Da qui l’idea di renderlo noto per salvaguardare quantomeno la memoria storica e censire la presenza del manufatto anche in questo territorio. Quello che oggi rimane è però purtroppo una copia, piuttosto semplificata, che sostituisce l’originale asportato nel recente passato. Nella memoria collettiva, se sollecitata, può venire in mente l’originale e antico quadrato magico, così come lo ricordo bene io.
Il Sator si trova precisamente in via Lucrezia Amendolara, una delle strade principali del paese, in direzione sud, nel tratto che in passato era chiamato anche “la longa o via della longa” e forma l’asse viario principale di percorrenza del borgo medievale.
L’originale, al posto della copia attuale, era inserito sulla chiave di volta di un arco all’ingresso di un androne coperto e voltato a botte come ingresso di una casa a corte. Molto vicino a questa dimora si trova un’altra chiave di volta di diversa forma ma con un disegno settecentesco ed è probabile fosse in origine parte di un’unica abitazione con l’altra apertura in oggetto.
Il vecchio quadrato magico, arbitrariamente tolto dal sito, era in pietra leccese, annerito dal tempo, leggermente allungato ma con le parole inserite in una cornice perfettamente quadrata.
Non so se poteva essere quella la collocazione originaria o se di provenienza da altro edificio, o piuttosto di riutilizzo da un luogo sacro, in ogni caso circoscritto sempre nello stesso contesto territoriale.
Non mi soffermo in questa sede sul significato simbolico, ma premeva intanto la segnalazione come primo passo in attesa di poter recuperare ulteriori indizi sull’originale. Purtroppo non possiedo foto del vecchio quadrato magico, ma con l’occasione faccio appello a chi potesse avere delle foto riferibili alla vecchia chiave di volta in via Amendolara e perciò delle foto di almeno 15/20 anni fa circa.
Continua il lavoro della Diocesi di Nardò-Gallipoli per valorizzare il patrimonio culturale e per contribuire alla riqualificazione del centro storico . Dopo circa sessant’anni finalmente mercoledì 19 giugno torna alla fruizione della città e dei fedeli la chiesa di San Trifone, uno dei tesori d’arte del centro storico cittadino, ubicata in uno dei punti più strategici quale è la piazza principale intitolata ad Antonio Salandra.
Il vescovo Fernando Filograna presiederà la riapertura, evidenziando con la sua presenza un momento così importante e di speranza viva per tutta la Chiesa.
Chiusa nel 1959, a causa di infiltrazioni piovane, la copertura minacciava di crollare e fu necessario chiudere il tempio al culto per le opportune riparazioni edili e impiantistiche, che si conclusero nel 1964. Dopo qualche anno fu nuovamente chiusa per urgenti restauri, conclusi nel 1997 e poi ripresi negli anni seguenti per altre emergenze interne relative alla copertura in legno e alla sicurezza strutturale messa a rischio per alcune infiltrazioni d’acqua. Più recenti gli interventi riguardanti l’impianto elettrico, gli infissi e la nuova tinteggiatura.
Grande soddisfazione anche da parte del parroco della Cattedrale don Giuliano Santantonio, che è anche padre spirituale della confraternita presente nella chiesa, oltre che direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
La chiesa fu edificata nei primi decenni del XVIII secolo, essendo vescovo Antonio Sanfelice (1708-1736). Si ignorano le origini della devozione cittadina verso questo santo, giovane greco (Kampsada, 232-Nicea 250) di fede cristiana che subì il martirio con decapitazione al tempo della persecuzione dell’imperatore Decio (249-251), avendo abiurato il paganesimo.
Il santo è festeggiato il 10 novembre, che corrisponde al giorno della traslazione del suo corpo a Roma, ove fu deposto in una chiesetta a lui dedicata in Campo Marzio, nel sec. IX.
Del tutto infondata la tradizione che lo vuole liberatore di un’invasione di bruchi di poco precedente alla costruzione della chiesa. Il suo culto in città era infatti molto più antico, visto che nel 1543 in Cattedrale già esisteva un altare a lui dedicato, di patronato dei nobili De Persona, collocato vicino alla sacrestia e poi rimosso con le modifiche apportate dal vescovo Ambrogio Salvio (1569-1577).
Nella visita pastorale del vescovo Luigi de Franchis (1611-1616) del 1613, ma anche in quella del vicario Granafei del 1643, con questa dedicazione sopravviveva un oratorio. Il De Franchis volle dotare la Cattedrale di un reliquiario ligneo a forma di braccio per contenere una vecchia reliquia del dito medio del santo.
La chiesa è realizzata in tufo, con una facciata sobria ma elegante che si inserisce bene nel contesto urbanistico in cui sorge; si sviluppa in due ordini sovrapposti rettilinei, separati da elegante fregio con inserti ornati con festoni a rilievo e con cornice aggettante dentellata. Assai probabile che il livello superiore sia successivo al sottostante, ricostruito dopo il terremoto del 1743.
La parte centrale del prospetto, che comprende il portone ligneo di ingresso e il finestrone centrale, è delimitata da due lesene sovrapposte, sormontate da capitelli in stile corinzio.
I due corpi laterali ospitano quattro nicchie ad arco semicircolare sovrapposte e solo in apparenza uguali, tutte vuote, delle quali le inferiori sovrastano ognuna un cartiglio quadrangolare con epigrafi ormai illeggibili.
L’interno risulta formato da un’aula unica a pianta rettangolare con copertura lignea a capriate; per questa particolarità risulta unico di tal genere tra le chiese minori della città.
La navata lungo tutta la fascia perimetrale presenta una cornice aggettante ed è scandita da semi colonne a sezione rettangolare con capitello ionico, che definiscono tre arconi disposti simmetricamente sui due lati, forse destinati ad altari laterali.
L’illuminazione è garantita dalle sei finestre emisferiche, oltre al finestrone posto sul prospetto principale, che sono in corrispondenza degli arconi.
Sulla parete di fondo del presbiterio, di fronte all’ingresso, trova posto la macchina d’altare in pietra leccese, imponente e scenografica, provvista di mensa e dossale ed inquadrata da volute laterali, come è pure il paliotto. E’ dedicato al santo martire Trifone, raffigurato nella bella tela dipinta ad olio, che è opera del pittore Nicola Maria Rossi (Napoli, 1690 – 1758), discepolo di Francesco Solimena. Il giovane santo con tunica verde e mantello rosso è rappresentato a piedi scalzi e a figura intera, di profilo e in ginocchio sulle nubi, affollate da locuste. In atteggiamento di preghiera, alle spalle del santo un angelo paffuto regge la palma del martirio, simbolo di vittoria e di immortalità; un altro è raffigurato in alto mentre gli colloca una corona sul capo.
Dello stesso secolo dovevano essere la pittura policroma della Madonna della Grazia, sovrastante la tela del Titolare e che occupava lo spazio entro la cornice modanata tuttora visibile. Un altro dipinto, attribuito a Ferdinando Sanfelice, era collocato su un piano ligneo adeso alle capriate e raffigurava il protettore cittadino San Gregorio Armeno.
In uno degli arconi era collocata una statua di legno policromo firmata dello scultore partenopeo Giovanni Bonavita raffigurante San Trifone a mezzo busto, con base dorata e reliquia nel petto, oggi restaurata ed esposta nel museo diocesano di Nardò.
Sul lato sinistro dell’edificio una piccola porta immette nella sagrestia, nella quale sopravvivono su una parete lacerti di affreschi sopravanzati dall’antica cappella di S. Eligio alla piazza.
Probabilmente fu lo stesso vescovo Sanfelice a promuovere la fondazione della confraternita, oggi titolata a “San Gregorio Armeno in San Trifone”, che in questa chiesa ha sempre avuto la sua sede e che nei secoli si è preoccupata del suo decoro e mantenimento, oltre a tenere vivo il culto del santo.
Nessuno sa come sia nato il bacio, “il simbolo più potente dell’amore tra due persone”, quale sia stato il primo ad essere dato da uno dei nostri antenati e, probabilmente, non lo sapremo mai. Ma la storia che qui di seguito ci accingiamo a raccontare, ora che “in piena pandemia” sta cambiando pure l’amore, ora che la nostra vita emozionale è resa meno passionale e spontanea, certamente lo rendono ancora più “mitico” e prezioso.
Un atto rogato nell’ottobre 1650 dal pubblico notaio Michele Sedato di Taranto, conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce1, ci descrive infatti un curioso e simpatico episodio accaduto nel casale di S. Maria de Novis (l’attuale Novoli) negli anni in cui era feudatario Giuseppe Antonio Mattei figlio di Alessandro II (umanista e mecenate)2, episodio in cui il protagonista eccellente è proprio il bacio e che ci rivela, nel contempo, uno spaccato di costume e di tradizione di cui attualmente non c’è più traccia.
È noto che quando “s’appressano le labbra chiuse a checchessia in segno d’amore e di riverenza”, ma anche in segno di amicizia e di riguardo tra amici, congiunti e consanguinei nell’incontrarsi dopo una lunga assenza e nello accomiatarsi, si compie l’atto comunemente definito del “baciare”.
Ai tempi d’oggi, tra due innamorati in particolare, un bacio dato “con le dovute cautele” costituisce sempre un gesto che rientra nella normalità dello stesso linguaggio amoroso, probabilmente suscettibile di ulteriori sviluppi ma non tale certamente da costituire un impegno di futuro matrimonio.
Qualche secolo fa invece le cose non andavano così, considerato quello che accadde appunto al chierico novolese Antonio Greco (fratello del reverendo D. Domenico Greco3 presente per suo conto al momento dell’atto) che fu costretto a pagare pesantemente un pudico bacio (non sappiamo poi quanto realmente) dato pubblicamente a Cecilia Sellitta, figlia di Giuseppe Sellitta e Francesca Pati di Lecce, e la cui storia emerge (seppur a grandi linee) dal documento in apertura citato e che si trascrive in sintesi qui di seguito (il titolo è Retrovenditio Vinearum prò clerico Antonio Greco di Terra Santa Maria De Novis).
Era l’8 ottobre, quarta indizione del 1650 e di fronte al suddetto notaio si presentano, da una parte, Cecilia Sellitta virginis in capillis (ovvero nubile) accompagnata dai suoi genitori, e dall’altra, il reverendo D. Domenico Greco de Terra Sanctae Mariae de Novis per conto del fratello chierico Antonio Greco.
Dopo i preliminari di rito, al solerte invito del notaio, la nostra povera Cecilia col cuore infranto e sconsolato comincia a raccontare coram nobis (al cospetto di tutti), come nell’anno 1646 il suddetto chierico Antonio pubblicamente li diede un bacio sub specie futuri matrimonii4, e perché veniva impedito da suoi parenti si ritirò e rifugiò in chiesa5, per il qual ritiramento essa Cecilia lo querelò nella VescovalCorte di questa città di Lecce6, e perseguitò: maperché conoscea aver poca ragione (il Greco) dopo alcuni mesi mediante trattato di persone da bene e timorose d’iddio, li fece la remissione et esculpatione, purché l’avesse (alla Cecilia) da donare ducati venti, quali non avendo di contanti, simulò di venderli, per detti ducati venti, siccome li vendette col patto de reemendo (ossia di ricompra), cinquanta quarantali in circa di vigne, situati e posti nel feudo di Santa Maria di Novole, nel luogo detto Lombardo7, giusta li beni del Signor Conte di Palmariggi, giusta li beni di notar Angelo Greco, via vicinale et altri confini; e confessò d’aver ricevuto esso clerico Antonio detti ducati vinti da detta Cecilia presentialmente e manualmente, si come il tutto appare da contratto rogato per notar Giordano de Giordano di Campi a’ 9 di ottobre del detto anno 1646, al quale etc.. Et volendo adesso il detto clerico Antonio in virtù del suddetto patto de reemendo sborzare li detti ducati vinti e pigliarsi le dette sue vigne, ne ha fatto richiedere essa Cecilia per le debite cautele, ideo hodie predicto die non vi etc. sed sponte etc. ipsa Cecilia retrovendit et titulo retrovenditionis iure proprio et in perpetuum dedit etc. eidem clerico Antonio absenti, et prò eodem Reverendo D. Domenico eius fratri etc. etc.. Stantes in domibus Domini Comitis Palmaricii, habitatis a Jo.Stefano Villa ianuense Litii commorante, sitis intus Litium in portaggio Rudiarum etc. etc….8.
Si concludeva così, dopo quattro lunghi anni, con un rude e venale risvolto economico, la storia d’amore di Cecilia, una storia che forse meritava ben altro epilogo considerati gli inizi. Non sappiamo le ragioni per le quali i parenti del Greco ostacolarono questo matrimonio, né tantomeno chi furono lepersone da bene e timorose d’iddio che si adoperarono per convincere Cecilia ad accettare il pentimento di Antonio e ritirare la querela. Il fatto comunque che l’atto del notaio Sedato fosse stato rogato (come si evince alla fine del documento) nella casa leccese del Conte di Palmariggi sita nel Portaggio Rudiarum9, abitata dal Genovese Giovanni Stefano Villa (presente come teste insieme ad altri) farebbe supporre che lo stesso Conte avesse contribuito, con qualche suo intervento, a risolvere la controversia fra gli sposi mancati.
Certamente il ritrovamento dell’atto rogato dal notaio Giordano de Giordano di Campi avrebbe forse potuto gettare maggiore luce su questa vicenda, ma la sua irreperibilità unita allo scarno documento notarile del Sedato, ci costringe a congetturare una serie di possibili situazioni e non ci permette di gustare più a fondo l’evolversi particolareggiata della vicenda. Resta comunque il “bacio” e un matrimonio mancato, un bacio (quello di Cecilia ed Antonio) a cui dedichiamo nel concludere questa breve nota (anche per sdrammatizzare questo particolare contrasto d’amore) i versi di Enrico Bozzi, conosciuto come il Conte di Luna10:
LU ASU
È forte! Nu asu cce mme rappresenta?
do’ ucche ca se uniscenu . . . e ppercene
doppu lu primu cedhi se trattene,
cedhi se binchia e cchiù spamatu ddenta?
Do’ ucche ca se uniscenu! E cce bete?
intra lli musi cce pputenzia nc’ete?
Percè ccumienzi tuttu a tremulare?
Percè lu core nu llu puei frenare?
A nnanti a ll’ecchi toi scinde nu velu
E ssia, cce ssacciu, ca sì rriatu a ncelu. . .
E cccomu spiechi poi ca a dhi mumenti,
mentre cu nnu asu ue’ nde suchi l’arma,
mvece tte sienti nu presciu, na carma,
nu martiriu ntra ll’anima te sienti?
Lu sangu ntra lle ine se traugghia
E llu asu ddenta nu fuecu de mpugghia.
Cu ppienzi ca pe nnu asu tanti e ttanti,
ricchi, pezzienti, nobili e gnuranti
su ccapaci de tuttu. . . e quandu l’hanu,
lu penzieri camina cchiù lluntanu!. . .
Ah nu asu, nu asu ! E cci se scerra
lu nnutu ci ccappai tre giurni a rretu?
ci se scerra lu scigghiu e llu rreuetu
ci l’amore te dae quandu te nferra?
Ieu sprasemaa pe nnu asu de na stria:
ni lu cercaa, ma quidha nu mbulìa.
Purtaa na ucca comuna cerasa,
ma a lla raggione nu mbulìa cu ttrasa. . .
Purtaa na ucca de curadhu finu. . .
e ieu penzaa: me minu o nu mmeminu?
E mme menai: lu diaulu m’ia tantatu!
maledezzione!!. . . ni fetia lu fiatu!
In www.spazioapertosalento.it, 14 febbraio 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Novoli 2024.
Note
1 Archivio di Stato Lecce, not. M. Sedato, Lecce 46/37, atto dell’8 ottobre 1650, ai ff. 197v.-199v.
2 Giuseppe Antonio Mattei, nato nel 1621, era uno degli undici figli della leccese D. Cornelia Condò e del conte di Novoli Alessandro Mattei II (l’umanista e mecenate che Girolamo Marciano definisce “uomodi singolar dottrina versato su tuttele scienze, nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e prudentissimo principe”, proprietario di un “museodel quale è ricchissimo di molti libri di tutte le scienze greche e latine che non ha pari nella provincia”. (Cfr. G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto. Con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese, Napoli 1855, p. 472). Il Mattei successe al padre Alessandro; fu designato erede dei feudi già nel 1633 e morì tra il febbraio e il novembre del 1656 (Cfr. O. Mazzotta, IMattei Signori di Novoli – 1520/1706, Novoli 1989 pp. 32-33; L.A. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto. La Provincia di Lecce, Novoli 1994, p. 449). Giuseppe Antonio è autore di un epigramma con continui riferimenti alla classicità pubblicato in Lusus Iuveniles di Lucrezio Tafuri, stampato a Lecce dal Micheli nel 1637 (Cfr. G. Spagnolo, Storia di Novoli, Note e approfondimenti, Lecce, 1990 pp. 42-43). La scheda dei Lusus Iuveniles (giochi di gioventù) del Tafuri, con le relative indicazioni bibliografiche, è riportata negli Annali di Pietro Micheli, tipografo in Puglia nel 1600 di G. Scrimieri, Galatina 1976, pp. 42-43).
3 A Novoli, l’accesso alla carriera ecclesiastica fu privilegio di questa famiglia. La massima carica capitolare infatti, eccetto una brevissima parentesi, fu infatti nelle mani dei Greco per gran parte del 1600 e dei Mazzotta per tutto il 1700 (Cfr. M. De Marco, La Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo, in “Camminiamo insieme”, a. III, Novoli 1986, pp. 106-107; O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII -XVIII, Novoli 1986, pp. 106-107). Il chierico Antonio Greco e il fratello D. Domenico Greco figurano nell’elenco dei sacerdoti riportato nella S. Visita (la VI) del 1653 del Vescovo Luigi Pappacoda che descrive lo stato giuridico della Chiesa medesima e da cui si ricava la norma fondamentale che ha regolato la “Chiesa Ricettizia di Novoli” (Cfr. M. De Marco, La Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo cit., pp. 12-13).
4 È singolare, a tal proposito, ricordare (il volume fu stampato per la prima volta a Copenaghen alla fine del 1800 e poco dopo tradotto in inglese) la Storia del bacio di Kristoffer Nyrop (ed. Donzelli). Da questo libro (secondo una particolareggiata recensione di M. Francini) si apprende infatti che “secondo il diritto romano, baciarsi era un pò sposarsi. Il bacio, in sostanza, era considerato l’introduzione alla convivenza matrimoniale, un simbolo del matrimonio. Un preciso articolo di legge stabiliva infatti che al momento del fidanzamento, quando i due innamorati (i “contraenti” per dirla in gergo notarile) si scambiavano i doni, potevano baciarsi o no; ma se poi il fidanzamento si fosse rotto (o uno dei due “contraenti” fosse venuto a mancare), qualora i due si fossero baciati, solo la metà dei doni doveva essere restituita, se invece il bacio non c’era stato i doni dovevano essere restituiti tutti. Doveva trattarsi di un bacio ufficiale e presumibilmente poco appassionato, di cerimonia (ed è il caso, a quanto pare, di Cecilia e Antonio che appunto, come si legge nel documento notarile, “pubblicamente li diede un bacio sub specie futuri matrimonii”). È probabile, inoltre, che la formula con la quale, in certi paesi, oggi l’officiante invita lo sposo a baciare la sposa alla conclusione del rito, tragga origine proprio da quella consuetudine, che i Romani lasciarono in eredità al Medioevo passandola prima al Codice dei Visigoti e poi a quello dei Longobardi. Questa è la ragione per la quale “la donatio propter osculum” (lo scambio dei doni sancito dal bacio) sembra essere sopravvissuta più a lungo che altrove in Spagna e in Italia” (Cfr. M. Francini, Ad ogni bacio la sua storia, in “Quotidiano di Lecce”, 7 febbraio 1996.
5 Le chiese, in quell’epoca (secondo quanto risulta da un atto notarile) godevano infatti “del diritto di asilo”; gli ecclesiastici non erano sotto il controllo della giurisdizione civile e in caso di delitti comuni venivano giudicati da un tribunale ecclesiastico e scontavano la pena nelle carceri vescovili (Archivio di Stato Lecce, not. A. Tarantini, 69/3, a. 1720, c. 91).
6 Secondo quanto scrive O. Mazzotta, nella diocesi di Lecce (e quindi non solo a Novoli) specialmente nel 1600, il numero dei chierici era elevato e fra questi alcuni riuscivano a concludere la carriera sacerdotale ma molti rimanevano sempre chierici. Questo perché “i chierici, compresi i coniugati, oltre che vestire la talare, che era segno di distinzione, godevano di tutti i privilegi concessi al clero, primo fra tutti l’esenzione dai pesi fiscali” (Cfr. O. Mazzotta, Novoli etc. cit., p. 116).
7 Su questo toponimo (Lombardo, Lummarde, Lombarde) e la sua ubicazione (che può vedersi con chiarezza sulla cartina pubblicata a corredo di questo lavoro) cfr. G. Spagnolo, Novoli, Origini, Nome, Cartografia eToponomastica, Novoli 1987, p. 59 e p. 125 (appendice sulle strade vicinali); P. Salamac, Saggio di antroponomastica e toponomastica novolese, in “Note di civiltà medievale 2”, Bari 1980, pp. 63-82. Il quarantale dovrebbe equivalere ad are 4 (Cfr. il saggio di A. Politi, Dialetto novolese a confronto, in “Lu Lampiune”, Ed. Grifo, a. XIII, n. 1, p. 114 (Quarantale vuol dire “quarantesimo”).
8 Da un documento notarile dell’8 febbraio 1656 risulta che il genovese Stefano Villa era creditore nei confronti del Mattei di ben 1252 ducati (debito risolto successivamente con una transazione di soli 500 ducati – Archivio di Stato Lecce, not. L. Mezzana, Lecce 46/35 a. 1656).
9 Filippo I Mattei, barone di S. Maria de Nove, successore di Paolo Mattei (primo Mattei barone di questo Casale), marito di Paola Bozzi dei baroni di Arnesano, fece edificare “nel portaggio di Rugge” una chiesetta “sotto il titolo di S. Andrea”, poi (fu detta) dell’assunzione della Vergine oChiesa Nuova” su un suolo di proprietà della Basilica Lateranense di Roma (all’interno è presente lo stemma dei Mattei). La casa abitata dal Villa, di proprietà dei Mattei, con tutta probabilità è quella indicata da N. Vacca nell’appendice a Lecce e i suoi monumenti del De Simone a proposito di tale Chiesa e cioè “la casa dei Mattei era nel sito dov’è ora quella del Dott. Micheli preside del tribunale. Il palazzo, attualmente Guerra – Sellitto era quello di Teofilo di Marcantonio Zimara di Galatina, insigne medico, amico di Annibal Caro, che morì il 4 dicembre 1591” (L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, nuova edizione postillata da N. Vacca, Lecce 1964, p. 325 e pp. 577-578; cfr. M. Paone, Chiese di Lecce, vol. II, Galatina 1978, pp. 298-303; Idem, Palazzi di Lecce, Congedo Editore, Galatina 1978, p. 125. Il palazzo passò ai Guerra-Sellito allorquando gli Zimara si estinsero nella seconda metà del seicento (Ivi).
10 R. Roberti (a cura di), Ottocento poetico Dialettale Salentino, vol. II, Galatina, senza anno di stampa (ma 1954), p. 89 (poesia “Lu Asu” – il bacio) E. Bozzi (Il Conte di Luna), La Banda de la Lupa. Versi in dialetto leccese, Lecce, Stab. Tip. Giurdignano 1912, pp. 14-15. Nelle illustrazioni, la cartolina che riproduce l’opera pittorica “Ilbacio” del pittore italiano Francesco Hayez (olio su tela del 1859 conservato alla Pinacoteca di Brera) è datata Lecce 10 febbraio 1939 (timbro postale) ed è indirizzata ad Antonia Piconese, deposito tabacchi greggi n. 9 Novoli (Lecce). Ad inviarla è la sua amica Ester con la seguente dedica: Ti auguro la più grande fortuna unita alla più bella felicità. Tua amica Ester (coll. privata). La cartolina postale su Venere fa parte invece della raccolta I giorni della settimana, 7 cartoline policrome, Ediz. Sborgi, Firenze (non viaggiata, inizio 1900). La cartolina è quella per il venerdì, giorno sacro a Venere che presso gli antichi era la dea della bellezza e dell’amore. (coll. privata). Infine, la cartolina “Lo Sposalizio, mese diaprile” fa parte della raccolta “I dodici mesi, dal Breviario Grimani”, 12 cartoline a colori, Edizioni Ongania Libreria artistica Internazionale, piazza San Marco Venezia, Inizio 1900 (coll. privata).
Pur essendo da anni un appassionato raccoglitore di proverbi, questo mancava alla mia collezione e probabilmente la lacuna non sarebbe stata colmata se un amico quasi un anno fa non mi avesse passato la sua collezione al fine, mi piace giocare con le parole, di operare una collazione, magari dopo colazione, dal momento che, lo sanno tutti, con la cultura non si mangia, ma senza cibo prima si sragiona, poi si muore.
Tra i proverbi che mi mancavano questo ha subito attratto la mia attenzione, perché, al momento di corredarlo della traduzione in italiano e di un breve commento, mi è parso subito evidente come non avesse troppo senso rendere monge con munge, nonostante sia un dato assodato (altro gioco di parola …) che la stragrande maggioranza degli antichi proverbi ha un’origine contadina, i moderni politica (basti pensare, l’avevo detto che ci sarei tornato, ma non è finita …, al tremontiano Con la cultura non si mangia).
Dopo qualche secondo di angosciosa (!) perplessità, l’illuminazione (!) improvvisa, favorita da quello che da giovane ho considerato un’inutile e stupida fatica accettando di malavoglia, una delle tante imposizioni senza adeguata motivazione (oggi puoi motivare quanto vuoi, tanto …) alle quali in quei tempi non potevi ribellarti: l’impegno mnemonico, nella fattispecie riservato alla poesia. Senza quella che a me sembrava una tortura, non sarebbe affiorato nella mia mente né il foscoliano … e poi che nullo/vivente aspetto gli molcea la cura,/qui posava …1né, anteriore di 500 anni, il petrarchesco Fuor di man di colui che punge et molce2.
Questo succedeva quasi un anno fa, ma già da allora mi ero ripromesso di dare spessore e concretezza, possibilmente scientifici, a quell’intuizione che sarebbe potuta essere frutto di una suggestione fonetica e che ora ho solo in parte anticipato con la citazione dei due versi. Lascio a chi ne sa più di me giudicare la plausibilità della soluzione dell’arcano anche alla luce della metodologia seguita e dei risultati delle varie tappe che qui ripercorrò nell’esatto ordine cronologico del loro svolgimento.
Nello studio di qualsiasi testo giunto per tradizione orale o scritta, fondamentale è partire con lo studio delle varianti, che, per quanto riguarda i proverbi, deve fare i conti con gli adattamenti o stravolgimenti locali e con l’affidabilità e la correttezza di chi quel testo ha raccolto e trascritto. Se si pensa, poi, che parecchi proverbi popolari non raramente sono evoluzione o superfetazione di sentenze antiche, per lo più bibliche o greche o latine), si comprende come ogni ricostruzione, non solo testuale, sia di una complessità disarmante.
Trascurando volutamente quanto si può leggere in rete e che testimonia la diffusione del proverbio da Napoli in giù e conferma monge e la sua traduzione in italiano con munge3, ho messo insieme tutti i pesci più o meno grossi incappati nella stessa rete e che di seguito presento.
Il più grosso di tutti è senza dubbio Domenico Ludovico De Vincentiis4:
Per ora faccio solo notare l’inserimento del proverbio come illustrazione emblematica del lemma mòngere secondo la migliore tradizione dell’Accademia della Crusca e le acrobazie concettuali in cui l’autore si esibisce per giustificare la sua interpretazione metaforica.
La sua indubbia autorevolezza avrà giocato un ruolo fondamentale se dopo tutti hanno inteso monge come lui. Mi sorprende, però, che un semplice timore reverenziale non possa aver suscitato alcun dubbio, ammesso, al dilà dell’osoleto ipse dixit, che fossero a conoscenza dell’opera del De Vincentiis …
In Domenico Scapati5, Civiltà e vita contadina. Lavoro delle terre nelle Murge tra miti e riti, preghiere e proverbi, Youcanprint Self-Publishings, Tricase, 2019, s. p. leggo quanto di seguito riproduco.
Da notare, rispetto al testo del De Vincentiis, le varianti dolce per bona e triste per trista. Per me si tratta di operazione del tutto arbitrarie, indotte proprio da trista che nel nostro dialetto significa cattiva (in riferimento ad essere di pochi anni significa irrequieto, capriccioso, anche in italiano tristo è sinonimo di malvagio) e l cui versione in triste abbia obbligato a sostituire bona con dolce, a ripristiinare, ribadisco arbitrariamente, la contrapposizione con la presunta tristezza.
In Vincenzo Pupillo6 si legge:
Da notare la variante ungi per la Calabria e ogne per la Campania, entrambe corrispondenti all’italiano unge e, per la sola Calabria, mala invece di trista. Noto come ungi/ogne possano dar vita ad un’interpretazione con la plausibilità che mana al munge del De Vincentiis, nel senso che unge beneficamente, quasi fosse un balsamo7, una pomata. Se il testo calabrese e napoletano fosse il più antico, qualcuno potrebbe ipotizzare che monge si errata trascrizione di un originario onge con concreazione del pronome personale (mi onge>m’onge>monge). Se così fosse, però, sarebbe strano che lo stesso fenomeno non abbia coinvolto anche il secondo verbo (mi ponge), rinunziando a quella espressività tutta meridionale basata sulla ripetizione dello stesso elemento.
L’idea degli effetti balsamici della buona parola mi hanno fatto pensare ad un processo molto più complicato e creativo, che coinvolge, addirittura qualcosa che a prima vista può senz’altro apparire improbabile, ma che lo è solo per pregiudizio: la contaminazione tra l’ambiente indotto e il dotto, perfino l’aulico, qual è quello evocato dai versi citati all’inizio. A questo punto è d’obbligo aprire una parentesi di natura filologica. In latino ci sono due verbi quasi omografi nel senso che foneticamente si differenziano solo per una consonante (ma sempre di una gutturale si tratta) ma semanticamente non hanno assolutamente nulla in comune:
MULGÈRE, che significa mungere
MULCÈRE, che significa toccare dolcemente, accarezzare, sfiorare, lisciare, leccar (in senso figurato) addolcire, placare, calmare, mitigare, lenire, dilettare, allietare, ricreare, blandire, sospingere delicatamente.
Dopo aver detto che i significati di entrambi i verbi li ho copiati parola per parola da un dizionario latino8 tanto pregevole da rendere infantile la voglia di fare un controllo su qualsiasi altro, concludo: vista l’incongruenza di monge con munge, appare azzardato supporre che esso sia deformazione di molce, indicativo presente di mòlcere, più raramente mùlcere, verbo di uso poetico e, per giunta, difettivo, che è, con ritrazione dell’accento (sistole)9, dal riportato latino mulcère?
La deformazione, di origine popolare, troverebbe così giustificazione nella differenza fonetica tra mulcère e mulgère, minima ma sufficiente a propiziare una confusione, direi un travaso di significato, probabilmente inconsapevole all’inizio10. Poi vennero i letterati a mettere in campo la mungitura e tutto finì in vacca …
Tuttavia, per chiudere in bellezza e fornire quello che quasi sicuramente è il testo originale e originario (credo che cronologicamente andare più indietro sia molto difficile), dopo un centinaio di accasciamenti sulla tastiera nel corso di una settimana, senza sconfessare del tutto la mia prima impressione, quella aulica, che può aver esercitato per la via descritta la sua influenza per quanto riguarda monge, esibisco la pistola fumante, anche se la metafora è anacronistica, trattandosi di Guglielmo d’Alvernia (1180-1249), che nel De moribus12, al paragrafo intitolato Consolatio così scrive:
(mentre infatti le cose cattive pungono, come volgarmente si dice, colui che è consolato, le buone lo ungono con l’unzione e questo appare dalla stessa intenzione di consolare)
Da notare il volo del vescovo: dapprima basso, con l’utilizzo di una metafora (pungunt) dichiarata da lui stesso di uso comune (ut vulgo dicitur), poi sempre più alto, con l’adozione di strumenti retorici sofisticati e di sicuro effetto, quali l’uso degli opposti (bona/mala), il gioco enigmistico dello scarto iniziale (pungunt/ungunt), come se l’unzione avesse eliminato l’aculeo protagonista della puntura, e, infine, la figura etimologica (unctione/ungunt). Tutti espedienti retorici, questi, di impatto immediatamente suggestivo su un uditorio colto, ancor più sul cosiddetto popolo. Tuttavia mi pare doveroso sottolineare l’importanza dell’intentio consolationis (la volontà sincera di consolare), senza la quale ogni parola di conforto sarebbe solo pura ipocrisia e squallida presa in giro. E come non posso a questo punto proprio io, che considero la religione, soprattutto nei suoi dogmi, come un insieme di favolette ammannite (etimologicamente la manna qui è innocente …) per esorcizzare la paura della morte, fare a meno di ricordare la figura del comunista Don Milani, per il quale la possibilità di acculturarsi (partendo dalla parola) era alla base della democrazia e del bene collettivo? A patto, aggiungo io, che, una volta raggiunto un certo livello che consente di controllare (leggi criticare costruttivamente), non ci si lasci vincere dalla tentazione di sfruttare questa competenza per un utile personale che sia lesivo, purtroppo lo è molto spesso, degli altrui diritti, spesso difesi, oltre al danno pure la beffa, solo a parole.
Il nostro proverbio ha conservato del pensiero del primate i punti essenziali e non poteva essere diversamente, essendo la lapidarietà una delle caratteristiche fondamentali dei proverbi. E non c’è da meravigliarsi di questo travaso dal sacro al profano, dal colto all’incolto se si pensa al potere, anche semplicemente divulgativo, di trasmissione e diffusione della cultura che la Chiesa allora aveva, oltre al fatto, non secondario, che le parole che oggi noi leggiamo in un libro saranno state pronunziate, ripetutamente nel tempo, da un pulpito. Se dobbiamo, poi, parlare di fedeltà formale a tale pensiero, è chiaro che tra tutte le formule fin qui citate si salvano solo la calabrese e la primo delle due napoletane. Tutte le altre mi sembrano, sotto questo punto di vista, da sotterrano definitivamente, senza alcuna possibilità di esumazione o, meglio, di riesumazione, di monge fatto corrispondente a munge. E con questo termina l’autopsia, che rischia di non poter essere ripetuta per perdita della salma (obsolescenza e scomparsa del proverbio dalla memoria del singolo e da quella collettiva) e, già ci siamo, per sua mancanza (con la morte della saggezza, vi pare che potranno in futuro assurgere al ruolo di salme degne di autopsia genialità del tipo del pluricitato Con la cultura non si mangia o di altre provenienti da un pulpito, quello della pubblicità, che ha soppiantato quello che fu di Guglielmo d’Alvernia ed è durato secoli. Relativamente alla pubblicità mi limito ad un solo esempio, nella speranza che finisca di rompermi le scatole sul fisso e sul mobile e, nonostante mi sia iscritto nel pomposo registro delle opposizioni, senza possibilità di vaffanculo (la voce registrata ha proprio la nobile funzione di evitare all’operatore l’offesa, oltre che qualsiasi sospetto di sfruttamento quasi schiavistico da parte dell’azienda …), la multinazionale contro la quale posso usare solo il telecomando per non sentire, da una voce scelta probabilmente perché ritenuta suadente ma che me pare da deficiente (con tutto il rispetto dovut per quelli veri …), Tim, la forza delle connessioni. Quelle neuronali, nel frattempo, che fine stanno facendo?
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1 Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 192-194
2 Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto 311m v. 9
4 Lettore domenicano autore oltre che del Vocabolario del dialetto tarantino in corrispondenza di quello italiano, Tipografia Salvatore Latronico e figli, Taranto, 1872, dalla p. 117 del quale ho riprodotto il dettaglio, di una Storia di Taranto uscita per i tipi di Latronico a Taranto in 5 volumi dal 1878 AL 1879 e ristampata un numero impressionante di volte fino al 1983. Anche il vocabolario ha avuto una ristampa per i tipi di Forni a Bologna nel 1967 e nel 1977 e di Ink Line a Taranto nel 2005.
5 Autore incredibilmente più prolifico del precedente Domenico:
Storia del tarantismo: identità culturale contadina, tarantismo e tarantolismo, Argìa in Sardegna, Ragnatello nero in Sicilia, Solennizzazione delle acque, Ballo, musica popolare e notte della Taranta, Saladino, Palermo, 2017
Tecnica della comunicazione: scuola e formazione, leadership, Youcanprint, Lecce, 2019
Comunicazione e arte. Ars, artis approccio alla lettura dell’arte, Youcanprint, Lecce, 2019
Migranti e comunicazione, Youcanprint, Lecce, 2019
La mafia è liquida, Youcanprint, Lecce, 2019
Il teatro russo, Youcanprint, Lecce, 2020
Il cane pastore tedesco : 21. corso cinofilo della Guardia di Finanza, vita, socialità e lavoro, istinti e comunicazione, percezione e comportamento, prossemica e aggressività, educazione e addestramento, legislazione, Youcanprint, Lecce, 2020
I poteri forti nella società liquida gruppi di potere & politica & mafia, Youcanprint, Lecce, 2020
I santi della taranta: mondo contadino, i santi attratti nella sfera del tarantismo e danzimania, i sanpaolari, estasi, visioni e peccati, Youcanprint, Lecce, 2020
Peccaminosa Taranta, Youcanprint, Lecce, 2020
Storie di taranta: storie di tarantate e tarantati nella bassa Italia tra morsi, peccati e preghiere, ronde e musica, colori e magia, Youcanprint, Lecce, 2020
St. Thomas Becket di Canterbury: una storia complicata tra la Corona Inglese e la Chiesa, un Cancelliere del Re che diventa Arcivescovo di Canterbury, viaggio nei luoghi di culto in Europa : culto, reliquie e arte di San Tommaso Becket a Mottola, Youcanprint, Lecce, 2020
6 Altre sue pubblicazioni sullo stesso tema: Proverbi: riflessioni sulla sapienza del passato, per un corretto comportamento nel presente, Youcanprint, Tricase, 2013
Proverbi: dalla saggezza del passato, una speranza per il futuro, Youcanprint, Tricase, 2013
Proverbi: semi della tradizione, Youcanprint, Tricase, 2014.
7 Immagine evocata con la stessa contrapposizione, ma in riferimento a situazione diversa, pure in tre esametri che il Du Cange nel suo glossario al lemma villani afferma essere nel Graecismus di Eberardo de Béthune (XII-XIII secolo). Sulla sua autorevolezza e senza controllo alcuno, tanto per cambiare …, tutte le citazioni successive di innumerevoli autori ne ribadiscono l’attribuzione. Peccato, però, che essi risultano assenti nell’edizione critica a cura di Joh. Wrobel, uscita per i tipi di Guglielmo Koebner a Uratislavia nel 1887. Ad ogni modo, eccoli: Quando mulcetur, villanus peior habetur:/pungas villanum, polluet ille manm./Ungentem pungit, pungentem rusticus ungit (Quando l’abitante in campagna viene blandito, è considerato peggiore: se pungi un villano, ti sporcherà la mano. L’abitante della campagna punge chi lo blandisce, unge chi lo punge). E più vicino a noi, La parola punge, la lacrima unge in Pietro Fanfani, Cento proverbi e motti Italianid’origine greca e latina, A spese dell’editore, Firenze, 1887, p. 48).
8 https://www.dizionario-latino.com/
9 Anche in questo c’è lo zampino dell’affinità fonetica tra mulcère e mulgère. Se fosse stato rispettato l’originario accento latino, in italiano avremmo avuto molcère e mungère. È successo che mungère sotto l’influsso di emùngere (tal quale la voce latina, composto di mulgère) è passato a mùngere ed ha coinvolto nella sistole molcère, nonostante in latino non esista un composto emùlgere.
10 Non mi sentirei di escludere che alla base della deformazione molce>monge ci sia l’esigenza metrica di garantire una rima perfetta ai due quinari costituenti il proverbio.
11 Nel frontespizio del volume citato nella nota successiva si legge in latino, ma per brevità lo riporto solo tradotto: Vescovo di Parigi, matematico perfetto, esimio filosofo e validissimo teologo. :
12 Riproduco il testo originale dall’Opera omnia, Couterot, Parigi, 1674, tomo I, p. 200.
“Nell’archivio dell’eternità”: il “Quadrato magico del Sator” in un testo seicentesco
di Gilberto Spagnolo
“(…) Il libro è lo strumento che, più di altri, trasmette il sapere; nei libri troviamo le nostre radici culturali; attraverso i libri è avvenuto il dialogo tra i popoli e culture diverse, i libri sono un legame con coloro che ci hanno preceduto e rappresentano il nostro lascito a coloro che ci seguiranno”. Volutamente abbiamo ritenuto di estrapolare queste significative affermazioni da alcune considerazioni sul “libro come bene culturale” di Geo Magri, per introdurre questo nostro contributo su un argomento che riveste un particolare interesse.
“All’archivio dell’eternità” ha infatti affidato il suo libro, scrivendolo nella sua “Lettera Dedicatoria”, il frate carmelitano Elia Sanguineto, (pubblicandolo nel 1674 in Genova con lo stampatore Gio: Agostino di Bernardi, che aveva la sua tipografia nella Piazza dei Giustiniani (ovvero la piazza principale della città) e dedicandolo “all’illustrissimo Signore Agostino Lomellino Q(uondam) Stephani”, appartenente ad uno dei casati nobiliari più importanti di Genova. Questa famiglia, secondo il Dizionario Storico-Blasonico del Crollalanza (riporto testualmente) “trae (infatti) origine certa dal secolo XII ed ebbe a capo-stipite un Vassallo da Lumello, console dei Genovesi nel 1197. Nelle fazioni che agitarono la patria seguitò sempre il partito degli Spinola, dei Doria e dei Fregosi; ed oltre le primarie dignità in paese, ebbe spesso anche il comando di armate navali; ambascerie ecc., e nel 1528 formò uno dei 28 alberghi (sic). Nel 1533 Battista Lomellini salì primo al trono dogale dignità conseguita da altri 5 della famiglia. Dette inoltre alla chiesa molti cardinali e vescovi, ed ebbe la signoria dell’isola di Tabarca che le fu tolta dai Turchi. La loro arma è rappresentata da uno “spaccato di porpora” con il motto “Manet Avita Virtus”.
Il libro, assai grazioso (“È picciolo, ma è della qualità del Diama(n)te”, lo definisce così lo stesso autore), riporta inciso sul frontespizio lo stemma araldico di Agostino Lomellino, è di piccolo formato, di complessive 52 pagine, copertina in carta avoriata, con capilettera e fregi e s’intitola FASCIETTO/DELLE GRATIE/DI/MARIA SANTISSIMA/DEL CARMINE./Dedicato all’Illustriss(mo). Sig./AGOSTINO LOMELLINO/Q. STEPHANI/IN GENOVA, Per Gio: Agostino De’ Bernardi, nella Piaz-/za de Giustiniani. Con licenza de’ Superiori/. La data di stampa, 1674, la si ricava dalla Lettera Dedicatoria di Frate Sanguineto scritta “Dal Nostro Monastero del Carmine di Genova 6 luglio 1674”. Il testo invece, che si conclude a pag. 52 con l’approvazione delle indulgenze del “Cardinale Bona”, porta la data dell’8 maggio 1673 ed è soprattutto un Sommario “delle indulgenze favori e gratie concesse da diversi pontefici sia ai Religiosi e sia ai Confratelli della Madonna del Carmine nonché a tutti i Fedeli (che) si fossero decisi a visitare le chiese dello stesso ordine”.
Il Sommario appartiene inoltre a una collezione privata ma proviene dalla residenza nobiliare degli Imperiale di Francavilla Fontana, famiglia di finanzieri genovesi giunta in Puglia con Davide dopo la Battaglia di Lepanto nel 1571 e che, nell’arco di poco più di due secoli, riuscì ad acquisire un numero piuttosto consistente di feudi, terre e casali, disponendone, per alcuni di questi disabitati, il ripopolamento. Una famiglia aristocratica che lasciò dunque in Terra d’Otranto un segno forte e indelebile del suo operato; “Feudatari illuminati” contrariamente alle abitudini dell’epoca. Al di là dei suoi contenuti di carattere squisitamente religioso e che interessano relativamente, il libro ha però una singolare particolarità. Contiene infatti, incollato sul risvolto della facciata anteriore della copertina in carta avoriata, un foglietto di forma quadrata in carta pergamenata di cm. 7×7.
Posto al centro della pagina, esso riporta, con inchiostro dell’epoca e con caratteri calligrafici probabilmente coevi, il disegno del “Quadrato magico del Sator”, disegno sovrastato (come si può osservare nell’illustrazione) da una firma autografa (quasi uno scarabocchio) lasciata sui margini superiori di essa. Probabilmente quella dell’esecutore materiale del disegno stesso o dell’antico possessore del libro anche se di difficile interpretazione.
L’enigma del Sator è un argomento infatti alquanto suggestivo e affascinante; ed è oltremodo singolare specialmente se si considera che tale iscrizione è riprodotta all’interno di un libro così antico. Questo è un fatto soprattutto estremamente raro come ci si può documentare in merito confrontando la sterminata bibliografia di testi, saggi e articoli che sono stati scritti e che parlano di esso.
La ricerca tra queste fonti è assai complessa tanto che se ne interessò perfino Umberto Eco, il grande scrittore, semiologo, saggista di fama planetaria proponendo un libretto di giochi linguistici che prende il nome proprio del famoso quadrato magico leggibile in qualsiasi verso e direzione.
Ad ogni modo, esaminando quelle più significative, in un breve excursus, va evidenziato fondamentalmente che il Quadrato Magico del Sator è uno straordinario mistero dell’archeologia su cui si dibatte ancora per mezzo di nuove ipotesi e interpretazioni. È un testo enigmatico che ha attraversato la storia dell’Occidente, a lungo studiato e variamente interpretato.
La disposizione spaziale delle parole in esso contenute (come si può vedere nelle immagini) allineate in un ideale quadrato di venticinque lettere, gli danno la caratteristica di essere “palindromo” (dal greco palindromos che ritorna, da palin, indietro + dromos, corsa) o un “bifronte”. Esso cioè mantiene intatto il significato in differenti direzioni di lettura, caratteristica per la quale è altresì appellato come “quadrato magico” di tipo numerico. Nei quadrati aritmetici i numeri sono generalmente collocati in celle separate e disposti in modo tale che ogni riga, ogni colonna e le due diagonali principali diano la stessa somma.
Le parole che compongono questa celebre iscrizione sono 5 ovvero: “Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas” e rappresentano “un rompicapo che, immutato, ha attraversato la storia”. È la terza parola, “tenet”, ad essere palindroma, ossia può essere letta in entrambi i sensi, come lo è la frase nella sua interezza. Non solo, se mettiamo la parola una sotto l’altra otteniamo un quadrato 5×5 in cui la frase può essere letta, da sinistra a destra e viceversa, dall’alto in basso e viceversa tranne in diagonale.
Tradotto “letteralmente” (“Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas”) infine dà origine alla frase “il seminatore Arepo tiene con la sua opera le ruote”.
L’iscrizione è stata oggetto di frequenti ritrovamenti archeologici sia in epigrafi lapidee sia in graffiti ma il senso e il significato simbolico rimangono ancora del tutto oscuri nonostante le numerose ipotesi formulate e che dividono gli studiosi (che comunque tralasciamo). Va inoltre precisato che storicamente esistono due esempi di tale iscrizione. Nelle attestazioni di età romana il quadrato inizia indifferentemente con il termine ROTAS e termina con SATOR (probabilmente la versione più antica) oppure inizia con SATOR (come nel nostro caso) e termina con ROTAS che è la versione medievale quella prevalente del quadrato, ovvero con il termine SATOR all’inizio e ROTAS alla fine.
I ritrovamenti sono avvenuti un po’ ovunque in Europa. Dall’Italia all’Ungheria, passando per Francia, Spagna e Inghilterra. Esso viene riscoperto infatti tanto in siti archeologici romani e paleocristiani quanto medievali, su edifici di culto come su manoscritti secolari; sulla superficie di vasi e coppe e allo stesso tempo su mosaici pavimentali, sotto forma di incisione grafica o epigrafe; e ancora in forma quadrata ma anche rettangolare e persino circolare (come nel caso di quelli che sono stati trovati ad Aosta e Sermoneta). Insomma è venuto alla luce più volte in luoghi e reperti di epoche e popoli differenti.
Per quanto riguarda i ritrovamenti avvenuti in Italia, molto utile e interessante è il libro di Roberto Giordano “l’enigma perfetto. I luoghi del Sator in Italia”,perché presenta una catalogazione di ritrovamento di esso nelle varie regioni italiane.
Le schede che si riportano nel libro sono relative a 14 regioni comprensive di 30 segnalazioni (tra cui la Puglia) con la descrizione dettagliata dei vari contesti (chiese, archivi, siti archeologici nei quali si trova Il Palindromo). I più antichi, com’è noto, sono stati trovati in Campania negli scavi dell’antica Pompei (risalenti certamente a prima dell’eruzione del 79 d.C. che ricoprì e conservò la città) svolti dall’archeologo ed epigrafista Matteo della Corte e precisamente nell’atrio della casa di Publio Paquius (5 ottobre 1925) nelle crepe consunte dell’intonaco e sullo stucco di rivestimento della colonna LXI della Palestra Grande risalente al I secolo a.C. (nel novembre del 1936).
Seguono con le loro testimonianze e descrizioni la Valle D’Aosta (Aosta, Issogne), il Piemonte (Vercelli), Liguria (Genova), Lombardia (Amberete-Brusaporto, Pieve Terzagni), Veneto (Pescantina-Arcè, Verona due segnalazioni), Trentino Alto Adige (Bolzano), Emilia Romagna (Modena), Toscana (Campiglia Marittima, Siena, Lucca), Marche (Canovaccio, Marischio, Monterubbiano, Paggese), Lazio (Collepardo, Montecassino due segnalazioni, Roma, Sermoneta), Abruzzo (Campotosto, Capestrano, Magliano De Marzi), Molise (Acquaviva Collecroce).
In Puglia ne sono stati censiti solo due e precisamente la chiesa del SS. Sacramento ad Ascoli Satriano e quella della SS. Annunziata a Deliceto, uniche in Puglia sui cui prospetti esterni compaia, incastonato il Quadrato Magico del Sator. In realtà le testimonianze nella nostra regione sono molte di più e, soprattutto, bisogna dire che il Salento è una delle aree geografiche dove il Sator è più diffuso.
Sappiamo infatti che il grande studioso André Jacob (che manifestò particolare interesse per il nostro territorio dal 1977 “lasciando una inestinguibile eredità attraverso i suoi scritti”) aveva rintracciato quello che allo stato attuale dei ritrovamenti è il suo più antico esemplare. Il Sator infatti era tra le annotazioni aggiunte in caratteri greci sui margini dei fogli di un codice greco salentino e precisamente nel codice Vat. gr. 2383 “manuscrit salentin d’Hésiode daté de 1287”. Jacob lo segnalò nel suo studio intitolato Une bibliotheque medievale de Terre d’Otranto pubblicato sulla Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici degli anni 1985-1986.
Un altro studioso salentino non meno importante, ovvero Vincenzo Peluso, in un contributo sulle “iscrizioni latine del Salento Leccese”, segnala anche la famosa iscrizione a lettura “bustrofedica” (cioè a serpentina ovvero, come già detto che si può leggere in varie direzioni – tranne che in diagonale –, in orizzontale come in verticale; da sinistra a destra come da destra a sinistra; alternando per ogni linea la lettura da destra a sinistra e da sinistra a destra); la segnala incisa invece nel 1808 sull’architrave all’ingresso di un fabbricato rurale in località “casino” di Nociglia. Alcuni anni fa il fabbricato fu demolito ma l’iscrizione fortunatamente fu recuperata e conservata dal proprietario Giuseppe Casto.
Ancora più recentemente il quadrato del Sator è comparso a Galatina durante i lavori di restauro condotti su un edificio situato in via Mory, sull’antica facciata di un palazzo probabilmente risalente ad età tardomedievale o in stile medievale. Il Sator è stato individuato sull’architrave di una delle sue tre porte d’accesso, esattamente su quella di destra – due di esse sono contigue –, in origine certamente la porta del palazzo. Secondo Mario Cazzato infine, in passato, un altro esemplare del Sator doveva essere presente anche sulla facciata della Chiesa Madre di Cavallino, al cui interno vi è la cappella dei Castromediano con il monumento funebre di famiglia (1637), ma oggi non più reperibile.
Il ritrovamento del Sator nella forma medievale apposto quasi come un sigillo sul libretto del padre carmelitano Sanguineto, oltre a indicarlo come un documento eccezionale, chiama ora in causa l’identità dell’anonimo esecutore di esso, il significato e la funzione che voleva dargli e, soprattutto, come hanno evidenziato Pietro Giannini e Biagio Virgilio “le infinite proposte che si sono susseguite sul significato del rebus che via via evolvono dai significati cristiani a quelli magici atropopaici e perfino satanici”.
Per maggiore chiarezza riporto l’efficace sintesi di Roberto Giordano che a tal proposito sottolinea come “ancora oggi, infatti, sull’origine e il significato di questa formula si contrappongono diverse correnti di pensiero sviluppatesi nel corso del tempo; tra le principali ricordiamo quella che sostiene l’origine pagana e ludica (nata cioè come gioco), quindi quella che vede un’equivocabile e nascosta matrice cristiana, e ancora un’altra che considera il Palindromo di estrazione pagana ma, per il significato misterico delle parole e per quel TENET a forma di croce situato nel mezzo del quadrato, lo ritiene uno strumento di riconoscimento utilizzato dai cristiani dei primi tempi. Infine l’ultima, legata a un filone mistico e occulto, che si è andata ad affermare soprattutto in tempi recenti”.
Ovviamente non sono state mai trovate prove definitive che possano dimostrare la sua appartenenza cristiana o pagana né che gettino luce su una possibile traduzione. Trattandosi di un libro dai contenuti religiosi siamo portati a pensare che chi lo ha disegnato firmandolo ha voluto forse ancorarne il suo significato proprio alla matrice cristiana, Non sarebbe però da escludere nemmeno l’uso atropopaico se si tiene presente, a nostro avviso, che il libro proviene, come già detto dalla residenza nobiliare degli Imperiale di Francavilla Fontana originaria di Genova, città in cui è conservato nell’Archivio di Stato, un documento del 1259 su cui il Sator è riportato come augurio per la buona riuscita di un parto, con l’invito a mostrarlo a una partoriente.
Il quadrato magico, nell’uso atropopaico è stato infatti utilizzato (si legge su wikipedia) “come simbolo della croce di Cristo con l’invito a far rientrare un fuggitivo (un manoscritto del XII secolo), come protettore dai fulmini, dagli incendi, da malattie varie quali l’idrofobia, il mal di denti, il morso dei cani etc.”
Lo studioso emerito Jacob sottolinea proprio questo aspetto quando ne indica “une fonction prophylactique et magique et qu’on y recourait notamment pour la guerison de certaines maladies”, con utili e preziosi riferimenti bibliografici in merito al Sator in caratteri greci identificato sul manoscritto greco. In particolare l’opera di Girolamo Cardano, filosofo e medico originario di Milano dal titolo De rerum varietate, stampata a Bale (Basilea) nel 1557; opera in cui la formula del Sator è espressamente riprodotta e citata come esorcismo, rimedio alla rabbia, alla cura del morso del cane. La presenza infine dei Sator nel Salento, posti in bella mostra sugli architravi delle abitazioni, come nei casi di Nociglia e Galatina, rafforzerebbero questa ipotesi. Una formula rituale perciò in grado di prevenire le disgrazie e superare le avversità, con funzione di scongiuro. Un talismano, una sorta di amuleto portafortuna, in grado di proteggere e allo scopo di attirare le influenze benigne e allontanare quelle cattive. Con tale convincimento e a supporto di esso, nel concludere, vogliamo citare il prezioso e rarissimo saggio di Francesco Babudri, intelligente e colto studioso di cultura popolare (nato a Trieste ma Barese di adozione) pubblicato nel lontano 1946 sulla rivista Japigia con il titolo Il criptogramma pompeiano in una leggenda plutonica del Salento, Salento che lui stesso definisce “nobilissima terra a cui ci si deve inchinare non solo per le secolari sue vicende, ma anche perché il suo folklore offre aurei motivi, talora anche inattesi, di altissimo valore storico, artistico e demopsicologico”. Babudri con il suo studio ci porta a conoscenza che l’epigrafe poi scoperta a Pompei, la sua “popolarità” e la sua “venerabilità” erano già note in tempi molto antichi.
La leggenda, in cui è presente uno scongiuro contro sette diavoli e le loro vipere, è legata infatti alla famosa località di Porto Badisco ed è raccolta all’epoca da Babudri da un certo signor Donato Chiriatti pubblicandola fedelmente nel suo saggio in dialetto leccese. Lo studioso scopre nella narrazione raccolta dal Chiriatti, in particolare in alcune parole (“Satrepo-Tenopra-Rotas”), “una palesissima storpiatura popolaresca della formola famosa del criptogramma di Pompei nella sua efficacia esorcistica di funzione rituale e magica, prettamente apotropaica (liberatrice).” (…) L’uso che nella leggenda salentina se ne fa (sottolinea ancora Babudri nella sua lunga, documentata e dettagliata dissertazione) dimostra che al criptogramma, si volle annettere la funzione e l’efficacia di potente scongiuro e di esorcismo non meno efficiente”, recitato nella certezza di ottenere così la liberazione dai più gravi malanni corporali e spirituali.
Storie di libri dunque ma anche storia dell’uomo che recupera la conoscenza e ne conserva la memoria, storia di vita in cui si riannodano i fili invisibili che legano saldamente le generazioni e che si susseguono nello scorrere misterioso del tempo.
In “spazioapertosalento.it”, 9 luglio 2023 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Novoli 2024.
Appendice
La leggenda plutonica di Porto Badiscu
Nu giurnu Belzebù disse alli diauli soi: – Iti currere moi cu fermati na prucessione ca sta bbae a la Madonna de Finibusterre, percè se no perdimu mute anime, ca la Mamma de Cristu ole salve. – Tutti obbedera, menu sette diauli, e Belzebù nde li cacciau de l’infiernu e pe’ quistu ibbera a scire cammenandu pe’ lu mundu. Ota de quai, ota de drai, rriara propriu a lu Capu de Lecce, nnu mutu luntanu de lu Santuariu de la Madonna, addune a principiu nnu bulianu bbàscianu. Ripa ripa a lu mare, truara nna rutta longa e stritta: trasera e dissera tra iddri, ca addrai janu stare chiù frischi de l’infiernu, addu facia sempre càutu. Nturnu, nturnu nun nc’era anima ja, nc’era sulamente qualche cosa de buenu cu mangianu. E poi a li diauli nnu’ manca mai de mangiare. Nna matina ca lu mare era ressu e nnu’ se putia pescare cu la lenza, e nterra la burrasca ja spugghiatu puru li stierpi de li pariti, li sette cumpari se misera a ruddrare nnu picca megghiu intra la rutta, e cu muta meraviglia truara, una de coste all’autra, intra la luta ntustata de la terra, sette pignate chine de ogni bene de Diu. – «Una petunu» – se misera a retare – e pensando ca nc’era ogni sorta de bene de Diu, le aprera, e cu meraviglia truara invece tanti beddri ducati de oru. Pacienza!, eppuru lu chiù piccinu de li sette diauli se mise a ballare nturnu nturnu a li pignate e terau cu iddru li cumpagni a nnu ballu de diauli. Balla, balla, tutti sette fenera cu li piedi e la panza a l’aria. De ddru momentu se persuàsera ca cu se tegnanu tuttu dr’oru nun mb’era nu fiaccu pensieru. Ccusì successe ca quandu mangiaanu o dormianu o parlaanu de li affari loro, stianu settati de coste alle sette pignate. Anzi, cu nun le pigghia nisciunu cu le spogghia, l’janu circundate de stierpi e de jipere mbelenate, ca iddri janu chiamate de intra a le crepature de la rutta fescandu.
Na sira cappau nnanzi a la rutta na ecchiareddra, e li diauli sentera stu chiantu: – Facitime la carità!… Facitime la carità!… – Iddri se misera a ridere; ma la ecchiareddra secutau lu lamentu. – Bah – disse lu diaulu cchiù bbecchiu – damuni quarche cosa… – e senza cu spettanu una risposta, scettara fore a la rutta do beddri zecchini d’oru. La ecchia li zzeccau e, zumpando pe’ lu presciu, comu nna sarmeula senza nna gamba, se nde sciu felice e cuntenta e cuntau la bona sorte a le cummari. Quandu lu giurnu doppu li sette diauli, ca sta pigghiaanu nnu picca de sule, percè era tiempu de jernu, se iddera enire de facce nnu mundu de ecchie cu cercanu la carità: sgubbate, sturpiate, ritte, rasse, mazze, seccate: de tutti li generi. Li diauli nd’ibbera paura e cursera cu se scundanu intra la rutta: de ddrai se misera a menare petre. Ista la mala parata, le ecchie scappara, mentre li diauli redianu. Ma risera pe’ picca, percè le ecchie turnara. Ci nd’era una chiù bauta, chiù longa e chiù seccata de tutte. Sta fiata nu’ cercara la carità, ma senza storie dissera cu ne descianu a retu le sette pignate d’oru. – Ueh, ueh!… – dissera tra iddri li diauli – comu facenu cu saccianu ca su’ sette? – Mandara cu parla lu diaulu cchiù furbu. Ni sciu nnanzi la cchiù longa e senza muti preambuli ni turnau a cercare le sette pignate d’oru. Lu diaulu se mise a ridere e ni musciau la lingua stritta intra li dienti, comu facenu li diauli; ma la ecchia longa longa retau alle cumpagne: – Eniti nnanzi cu mie! – Lu diaulu se dese a retu, e iddra se mise a dire a bbuce auta: Satrèpo!… Satrèpo!... – finu a quandu nnu rriau cu l’autre alla ucca de la rutta. Addrai le fimmene se ibbera ntorna nna scarecata de petre, ma la longa retau nn’autra fiata: – Satrèpo! – e continau: Satrèpo tenòpra rotàs.
Quandu ibbe ditto: – Rotàs! – le petre caddero subbra li diauli, ca se misera a fuscere, se òsera cu salvano la cuda e se menara a mare, addune natando turnara a casa lu diaulu. Ma nc’eranu le jipere ca uarddaanu le sette pignate d’oru; e allora la ecchia ’ncignau ntorna cu la uce auta lu spergiuru: – Sartrèpo tenòpra rotàs! – e le jipere cadera a nterra e se ficera cinnere niura. Ccusì le ecchie de Portu Badiscu se piggliara le sette pignate d’oru, ca dentara la fortuna de le case loro e de tutto lu paise.
Fonti bibliografiche di riferimento
F. Babudri, Il criptogramma pompeiano in una leggenda Plutonica del Salento, in “JAPIGIA”, a. XVII, Bari 1946, pp. 105-116 (emeroteca.provincia.brindisi.it).
Basile V., Gli Imperiale in Terra D’Otranto. Architettura e trasformazioni urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo,Mario Congedo Editore, Galatina 2008.
G.B. Crollalanza, Dizionario Storico – Blasonico delle Famiglie Nobili e Notabili Italiane estinte e fiorenti, vol. II, presso la Direzione del Giornale Araldico, Pisa 1888, pp. 30-31.
U. Eco, Sator, Arepo eccettera, Edizioni Gransasso Nottetempo, Roma 2006. Libro in cui Eco “raccoglie giochi linguistici fatti per lo più in forma privata, giochi per tenere in esercizio la lingua e divertirsi”.Non a caso il titolo del libro riproduce il contenuto del famoso quadrato magico.
R. Giordano, L’enigma perfetto. I luoghi del Sator in Italia, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2013.
P. Giannini – B. Virgilio, Il quadrato del Sator a Galatina, in “il Galatino”, venerdì 27 gennaio 2023.
A. Jacob, Une bibliothèque medièvale de Terra D’Otrante(Parisinus gr. 549), in “Rivista di studi Bizantini e Neoellenici”, n.s. 22-23 (1985-1986), pp. 285-315 con utili riferimenti bibliografici (in particolare le pagine 293-294).
A. Laporta, Ricordo di Andre’ Jacob,in “Nova LiberArs”, Argomenti Edizioni, Novoli 2019, pp. 27-29; Idem, San Vito e Vanini, in Aa.Vv., San Vito nella storia religiosa e nella devozione popolare tra Europa e Salento. Convegno di Studi per il terzo Centenario delle reliquie del Salento a Lequile, a cura di Mario Spedicato, Edizioni Grifo, Lecce 2023, pp. 87-91, in particolare le pagine 90-91 per i riferimenti a Jacob e a G. Cardano. Jacob era nato nel 1933 a Vervier in Belgio ed è venuto a mancare il 27 febbraio del 2019.
V. Peluso, Iscrizioni Latine del Salento Leccese,in “Bollettino Storico di Terra D’Otranto”, n. 8-1998, Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 114-178, p. 136 (Peluso parla di “Insospettata presenza”).
Va detto inoltre, che è stato ipotizzato anche un legame tra il Sator e i Templari, i quali avrebbero adattato questo simbolo per contrassegnare alcuni luoghi particolari. Infatti, molti quadrati magici si trovano nelle località che furono sedi Templari. Più specificatamente, nell’iscrizione è stato individuato il collegamento con la croce dei Cavalieri Templari. Le due parole TENET, se la si osserva attentamente, formano una croce a bracci uguali; congiungendo poi le A e le O con la N che sta al centro e tracciando il cerchio di raggio NA (o NO) si ottiene la famosa “croix pattè”(Croce Patente)dei Cavalieri Templari (https://www.edizioninisroch.it//Nuove interpretazioni del Quadrato Magico Sator, di Mauro Garbuglia, 15 luglio 2020); http://www.siena-agriturismo.it/ I Cavalieri Templari. Verità e Misteri sui Cavalieri guerrieri
Sull’etimo dell’attuale toponimo Brindisi rinvio a quanto ho riportato più di dieci anni fa1. Qui mi occupo solo della variante Brandici, della cui esistenza sono venuto a conoscenza grazie ai due recenti contributi di Vito Ruggiero2 . Incuriosito dal quasi abisso formale tra Brandici e Brindisi, mi sono avventurato in una ricerca dalla quale è emerso che il toponimo nel tempo ha subito un vero e proprio bombardamento, i cui effetti filologicamente più interessanti riguardano la prima vocale, con passaggi disinvolti tra tutte e cinque le finora conosciute. Non è certamente un fenomeno nuovo, ma non mi attendevo simile concentrazione di colpi del detto bombardamento su un unico bersaglio. Tutto questo, dettaglio non da poco, è emerso da testi a stampa, non da manoscritti, per i quali, è intuitivo, non irrilevanti sono i rischi connessi non solo con la scrittura ma anche con la lettura. Era naturale che Brandicifosse la parola chiave della fase iniziale della ricerca e, coincidenza incredibile, subito un testo tedesco del 1526 (di seguito il frontespizio)
mi ha offerto la tavola che riproduco
e, nel dettaglio ingrandito, BRANDICIO,
Nel riquadro a sinistra col titolo Verenderlung erliche namen (cambio inevitabile del nomi) per ogni toponimo sono riportate accanto alla forma antica quella che presumo fosse corrente alla data della tavola (alcune delle seconde forme sono tali e quali le attuali).
Per i i toponimi relativi alla Terra d’Otranto compaiono nel riquadro solo
BRUNDUSIUM BRANDITIO
TARENTUM TARANTO
e sulla tavola
TARANTO
BRANDICIO
OTRANTOe sopra, per me incomprensibilmente (mi sarei aspettato la collocazione della coppia nel riquade), HYDRUNTUM.
Comunque, a quanto pare, a distanza di dodici anni BRANDICIsembra aver sostituito o, più probabilmente, affiancato BRANDICIO. E la resistenza di quest’ultimo è testimoniata dalla sua presenza qua e là in Il portolano del mare, Zanetti & C, Veneziam 1576, mentre al di fuori della cartografia, anteriore al 1526 l’ho trovato nel portolano di Alvise Da Mosto risalente al 1477, ma pubblicato quasi un secolo dopo3.
Per la serie di l’appetito vien mangiando, spunta un altro problema: qual è la sillaba tonica di BRANDICIe, dunque la soluzione del dilemma: BRÀNDICIo BRANDÌCI? Un’ipotesi di lavoro ce l’avrei, ma va approfondita ed adeguatamente documentata, sfruttando (e come si può fare altrimenti?) le innumerevoli varianti, oltre quelle menzionate nel primo post di Vito Ruggiero all’inizio citato. Non mancherò, quando tutto sarà pronto, di metterne al corrente chi ancora nutre siffatti interessi, anche se non mi illudo che la mia conclusione possa essere convalidata fra qualche decennio, quando la tecnologia sarà in grado di captare da un vecchio, magari collassato, muro i residui delle onde sonore rimastevi imprigionate nel tempo. In fondo qualche decennio fa chi poteva prevedere che all’archeologia predatoria del periodo borbonico sarebbe subentrata quella moderna che, fra l’altro, grazie ai graffiti, ci ha restituito testimonianze del latino parlato quasi duemila anni fa? E chi, in tempi più vicini a noi, poteva prevedere la rivoluzione che in campi diversi avrebbe operato il DNA o l’informatica, mentre l’Intelligenza artificiale bussa già alle nostre porte? Non è un invito ad impedire la cremazione, ma a pensarci su almeno un attimo, prima di abbattere un muro che sembra fare oscena esibizione della sua età …
Questo articolo è tratto dalla postfazione del libro “Brandici – La più antica e rara mappa di Brindisi, che Brindisi non conosce”, integralmente dedicata ad una seconda opera cartografica su Brindisi, anch’essa dal titolo “Brandici”. Anche quest’opera è del tutto inedita per la città e mai descritta in alcuna pubblicazione locale. L’ho ritrovata più o meno casualmente alla fine degli studi sulla prima opera Brandici protagonista dei due precedenti articoli pubblicati su questo sito.
In genere la postfazione di un libro viene scritta nelle edizioni successive alla prima, quando c’è un elemento nuovo che si vuole aggiungere. Può sembrare assurdo, ma mi sono praticamente trovato in questa situazione quando avevo ormai appena concluso lo studio di Brandici e la stesura di queste pagine, quindi un attimo prima di diffondere la mia ricerca.
Ero nella classica fase della revisione finale e degli ultimi accorgimenti grafici quando mi sono imbattuto casualmente in quella che posso senz’altro definire la mia seconda personale “scoperta”, per molti aspetti sorprendente quanto la prima.
I miei studi su Brandici li ritenevo oramai terminati, ma tra una cosa e l’altra mi restava ancora qualche dubbio o meglio alcune curiosità sull’opera che non avevo ancora soddisfatto. Probabilmente questo è normale, accadrà anche in futuro, ma avevo deciso che l’esito di questi approfondimenti non dovesse più modificare la mia ricerca scritta.
Invece quello che ho trovato è sorprendente e non ho potuto non menzionarlo alla fine di questa lunga ricerca, con la solita speranza di stimolare qualcuno ad approfondire.
Anche se lo studio ormai era concluso non ho mai smesso di girovagare in rete e negli archivi on-line delle maggiori biblioteche, alla ricerca di ulteriori tracce della presenza di Brandici, sotto forma di descrizione o citazione in qualche fonte che possa essermi sfuggita perché magari dispersa negli angoli più remoti del web, nonostante avessi già trascorso decine di ore a digitare la parola magica “Brandici” su tutti i motori di ricerca.
Ad un certo punto mi è tornato in mente che Rodney Shirley nel suo articolo “Rare Italian Woodcut Maps of the Sixteenth Century”, già ampiamente raccontato nel libro, concludeva che aveva depositato, nei primi anni Novanta, una copia di tutte le famose mappe ritrovate da Tibor Szathmáry nella British Library Map Library.
Ho quindi pensato di digitare la parola “Brandici” nel motore di ricerca della National British Library, una delle più grandi al mondo, sperando che saltasse fuori l’opera in forma di copia depositata da Shirley insieme a tutte le altre del famoso ritrovamento Tibor Szathmáry.
È avvenuta così la sorprendente scoperta: delle copie di Shirley nessuna traccia, ma con il nome Brandici è risultato esistere un altro documento depositato negli archivi della British Library, così censito “Map [BRANDICI] – Sloane, Hanse, Sir 1660-1753 former owner.; George III, King of Great Britain, 1738-1820 former owner.; George IV, King of Great Britain, 1762-1830, donor: Molino, Marco former owner. About 1630; Brindisi, Italy; Venice”.
Questa seconda mappa di Brindisi dal nome Brandici, pur non trattandosi di una stampa, è anche lei totalmente sconosciuta ed era indicata nel genere “Map” della British Library, così descritta: “A collection of 94 maps and plans of different places, chiefly of dependencies on the seignory of Venice; drawn by various artists in the seventeenth century, some for Marco Molino, some for Domenico Molino, whose names and arms are found on several of the plans. Publisher Venice, producer not identified, creation date about 1630, scale not given, 1 map: manuscript pen and ink over pencil with watercolor; 39×55 cm. Available at British Library maps collection location K.Top.78.31.a (vol.i.19).”
In pratica si tratta di un atlante con circa un centinaio di mappe disegnate a mano ed acquarellate, realizzato per Domenico e Marco Molino, due importanti figure politiche veneziane della prima metà XVII secolo.
A quel punto ho immediatamente contattato la British Library, per capire bene di cosa si trattasse ed anche per avere delle immagini del documento. Era evidente che per una seconda volta mi trovavo davanti ad un’opera eccezionale, unica e completamente sconosciuta alla città di Brindisi, forse ancor più della precedente, in quanto irreperibile anche sul web. E non sapevo se si trattasse di una pianta del porto, di una stampa, di una carta topografica o quant’altro. Nessuna immagine e nessuna ulteriore informazione era disponibile in rete.
Di quest’opera non esiste una copia digitalizzata, e pertanto è impossibile avere delle immagini tramite il sito della British Library.
Sappiamo già che con il nome Brandici non risulta esistere alcuna mappa della città nelle pubblicazioni locali e non solo, quindi anche questo documento ha assunto per me un valore importantissimo.
Ho preso contatto con un dipendente della British Library del team delle mappe e dei manoscritti, molto gentile e disponibile. Grazie alle informazioni che mi ha potuto fornire ho ricostruito quello che riassumo brevemente.
La tavola su Brandici individuata nella British Library, che per non confonderci ho battezzato “Brandici II”, appartiene ad un atlante manoscritto chiamato Molino Atlas, l’Atlante di Molino, scritto a Venezia intorno al 1630. Il documento non ha un titolo.
Si tratta infatti di una collezione senza titolo di 94 mappe e piani, la maggior parte dei quali di località di interesse per i veneziani dell’epoca, rilegata in copertina marrone del ventesimo secolo, che sul dorso riporta il titolo Molino Atlas of the Venetian States. I fogli misurano 445×330 mm, sui quali è presente un timbro arancione ovale ad indicare l’acquisizione del British Museum (BM) che riporta la stampa ‘GR III’.
L’opera, suddivisa in due volumi, prende il nome dal suo primo proprietario, il politico veneziano Molino al quale essa è dedicata (come indicato nella prima mappa Mare Adriaticum Sive Suprum Nunc Golfu di Venetia).
Domenico Molino era stato patrizio e senatore, sodale di Paolo Sarpi e corrispondente assiduo di dotti protestanti, promotore di studi medievistici condotti principalmente dagli ecclesiastici Felice Osio e Lorenzo Pignoria. Raccolse una celebre biblioteca, dispersa dopo la sua morte nonostante l’interessamento della stessa Repubblica di Venezia per un suo acquisto.
L’atlante divenne parte della collezione della biblioteca di Sir. Hanse Sloane per essere poi offerto alla Regina Carolina, consorte di Giorgio II, che si era molto interessata a quest’opera.
Sir. Hanse Sloane è stato un medico e naturalista britannico che nel 1727 successe a Isaac Newton nella presidenza della Royal Society. Lasciò nel testamento come una “specie” di offerta a re Giorgio II di Gran Bretagna la sua collezione di vegetali, reperti, antichità e manufatti che andò a costituire il nucleo di quello che divenne in seguito il British Museum di Londra.
I volumi divennero quindi parte della collezione Reale, per finire prima nel British Museum in seguito alla successiva donazione di Giorgio IV, e quindi nella British Library.
E‘ presente una tavola di indice per ciascun volume contenente la lista di 48 items per il primo volume e 47 per il secondo. Le mappe sono state realizzate da vari autori e rappresentano fortificazioni, città e porti sotto l’influenza diretta veneziana o comunque importanti per Venezia dal punto di vista politico o commerciale. Il secondo volume contiene soprattutto piani senza titolo di fortificazioni, delle quali alcune appaiono essere bozze di ipotetici lavori con l’indicazione di linee di fuoco a matita e di varie bozze di annotazioni.
La maggior parte delle mappe sono colorate in acquarello e datate intorno al 1630. Solo alcune sembrano essere di alcuni decenni successive, probabilmente aggiunte in un secondo momento.
Giusto a titolo di esempio, per non dilungarmi troppo nell’ indicarle tutte, nel primo volume possiamo ritrovare le mappe di Mare Adriatico (1), Candia (2), Zara (5), Castello di Milano e fortezza di Brescia (8), Trieste (9), Algeri (23), Monte Falcone e Friuli (25), Golfo di Cattaro (27), Curzola (28), Bergamo (32), e tante altre.
La tavola di Brindisi (Brandici) è la numero 37, intitolata nell’indice Pianta dela Forteza de Brandici e misura 405×565 mm.
Ritengo che si possa dire con certezza che si tratti di una copia unica, realizzata a mano, totalmente ignorata dalla nostra città e molto probabilmente ignorata da tutti coloro che si sono occupati fino ad oggi della cartografia storica della città di Brindisi.
E se la prima Brandici è certamente la più antica mappa di Brindisi, Brandici II del Molino Atlas, a poco meno di un secolo di distanza, con molta probabilità ne è la successiva in ordine temporale, perché non si può considerare la famosa rappresentazione dei Commentari di Giulio Cesare del Palladio del 1575 una vera rappresentazione di Brindisi e del suo porto, riferendosi addirittura al tempo dei romani. I disegni anonimi della fine del XVI secolo conservati a Firenze presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (dis 4284/A), a Roma presso l’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio e a Napoli presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III (Ms. XII D.69.) si limitano invece al solo circuito murario di Brindisi ed alla pianta del porto, senza altri riferimenti topografici.
Appare evidente che Brandici II meriterebbe uno studio dedicato e dettagliato, per certi aspetti anche piuttosto complesso per la difficoltà di poterla visionare e per le poche informazioni disponibili. Ma non è lo scopo di questa ricerca, e quindi mi limito a poche osservazioni.
Casualmente, e solo grazie a Brandici, ora sappiamo che la nostra città ha anche una seconda rappresentazione grafica, in questo caso del XVII secolo, con questo nome. Spero vivamente che qualcuno voglia prendersi cura di studiarla meglio di quanto abbia potuto fare io.
Dopo un anno di ricerche dedicato alla prima opera Brandici, scoprire dell’esistenza di una seconda mappa con quel nome è stata una sorpresa incredibile e del tutto inaspettata.
Da un lato, la soddisfazione dell’aver trovato un secondo riscontro dell’uso del nome Brandici per indicare Brindisi, con l’informazione aggiuntiva che questo nome era ancora usato a Venezia nella prima metà del XVII secolo. Dall’altro, la curiosità enorme di poter vedere questa seconda mappa, essendo praticamente sicuro che, forse ancor più di quella oggetto del mio studio, questa mappa è totalmente ignota alla città ed agli storici che l’hanno studiata nei secoli.
Non essendo riprodotta digitalmente ho chiesto alla British Library come dovevo fare per vederla. Sarei stato disposto anche ad andare appositamente a Londra per farlo, ma l’opera è purtroppo classificata come “resricted items”, vale a dire che non era possibile averla in visione in una sala lettura. A questo punto ho spiegato al “Maps and Manuscripts Reference Team” tutti gli studi che avevo effettuato con le motivazioni del mio interesse ed ottenuto una gentilissima concessione: un dipendente è stato autorizzato a fare delle foto alla tavola di Brindisi per me, che mi sono state prontamente inviate dopo pochi giorni. Forse avevo nelle mani una vera e propria esclusiva.
Appena le ho visionate non nego di aver pianto per la commozione. La mappa è particolarissima: trattasi di un disegno molto colorato e bello. A mio giudizio molto diversa da tutte le altre.
Nell’opera sono messe in risalto tutte le fortificazioni intorno al porto, mentre i dettagli topografici della città sono piuttosto trascurati.
In seguito ad apposita richiesta ho ottenuto l’autorizzazione della British Library a pubblicare l’immagine che mi hanno fornito, proveniente dal loro archivio. Due particolari di questa mappa sono già stati riprodotti nei paragrafi dedicati al nome Brandici e alle torri angioine del porto.
Abbiamo già visto come siano ben evidenti, più che in qualunque altra mappa della città, le fortificazioni intorno all’imboccatura del porto, con addirittura tre torri sulla parte di levante e diverse strutture anche sul lato di ponente.
Molto interessante anche la parte relativa alle mura di cinta della città sull’area portuale di fronte, con la Porta Reale e le sue torri laterali. Le mura lungo la marina di ponente risultano interrotte, chiaramente dirute, all’altezza della cattedrale.
All’interno delle mura troviamo solo la cattedrale, le colonne romane, e un palazzo dietro Porta Reale sul quale non ho dedicato molto tempo per approfondimenti. Per il resto la città non viene rappresentata, ed all’interno delle mura troviamo solo un bel terreno verde. Questo a conferma che lo scopo principale della mappa, non era tanto la topografia cittadina, quanto la pianta del porto ed il sistema di fortificazione.
Infatti, è invece molto evidente e dettagliata la pianta delle fortificazioni dell’Isola di Sant’Andrea, dove oltre il Castello Alfonsino è presente il Forte a Mare, costruito da poco.
Il porto e la sua pianta sono ben rappresentati, con l’evidenza di parte delle isole Pedagne, Fiume Piccolo e le zone paludose della parte di terminale del seno di levante.
La carta presenta anche l’orientazione, ed è orientata con sud est verso l’alto.
In generale la colorazione di tutta la mappa è molto vivace, con le fortificazioni in marrone, e tutto il territorio circostante in verde.
Presente e ben visibile anche il timbro arancione ad indicare l’acquisizione del British Museum, posto nel porto interno. Dispiace non poter approfondire ulteriormente gli studi su questa seconda Brandici, ma lo scopo della mia ricerca e di questa pubblicazione è ovviamente la prima mappa del XVI secolo. Sono sicuro, comunque, che avrò destato l’interesse di qualcuno a studiare anche questa mappa, che certamente merita ampia visibilità e tutti gli approfondi-menti storici del caso.
Ritengo che la digitalizzazione dell’Atlante di Molino possa essere una documentazione preziosa, perché come detto al suo interno sono presenti un centinaio di mappe e credo che molte di queste non siano molto note nelle località di riferimento. Proverò a farne richiesta alla British Library.
Concludo questo articolo mostrando infine un’ultima cartografia brindisina che ho ritrovato nella fase di studio della carta Brandici certamente poco conosciuta. A mio avviso anche questa è sfuggita in molte pubblicazioni ed è poco nota alla città, pertanto colgo l’occasione per mostrarla brevemente.
E’ una carta disponibile in versione digitalizzata tramite il sito www.oldmapsonline.org di Gerard van Keulen dal titolo Porto Brundisi pubblicata in Olanda nel 1720 e messa a disposizione in forma digitale dalla Leiden University Library.
Si tratta di una mappa suddivisa in 12 riquadri ciascuno rappresentante il piano di un porto di diverse città. Il nono di questi è quello di Brindisi e nella figura ho riportato il dettaglio del canale di ingresso del porto
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