Bernardino Realino e i Mattei signori di Novoli (seconda parte)

di Gilberto Spagnolo

Il rapporto privilegiato che i Gesuiti, in un lontano passato, ebbero con Novoli, non fu solo l’amicizia con la famiglia Mattei (uno dei figli di Alessandro, Giangeronimo, si fece anche gesuita)1, ma è rappresentato anche dal fatto che a quest’ordine “militante” ha dato il suo figlio certamente più insigne (vissuto ai tempi di Alessandro II Mattei) ovvero Francesco Guerrieri, al quale ho già dedicato in passato alcune ricerche con notizie e documenti inediti sulla sua vita e sulla sua intensa attività letteraria2.

Novoli, Archivio della parrocchia S. Andrea. Registro dei Battesimi 1571-1609 (f. 119v). Documento autografo di Francesco Guerrieri sul battesimo di “Mattia Negro schiavo”.

 

Per una minima e adeguata conoscenza del dotto padre gesuita, ritengo necessario anzitutto riassumere brevemente alcune fondamentali notizie bio-bibliografiche.

Secondo una testimonianza da lui stesso fornita nei confronti di san Bernardino (ritrovata negli Atti processuali o processo informativo sulla santità del Capo dei Gesuiti che la Curia vescovile di Lecce indisse nel 1619; e nei Processi Remissoriali che la Sacra Congregazione dei riti ordinò si tennero a Napoli, Lecce e Carpi fra il 1623-1624)3 il Guerrieri «sive Verierius ut ipse scripsit nomen suum» nacque a Novoli (allora denominata S. Maria di Nove) nel 1563 da Stefano Verriero e da Catterina Ruggi4. Morì a Casalnuovo (l’attuale Manduria) durante una missione, in odore di santità (secondo quanto ha lasciato scritto il Da Lama) il 1 novembre del 16295.

“Sacerdos Societatis Iesu”: incisione da F. BONANNI, Ordinum religiosorum in ecclesia militanti catalogus etc., Romae, typis Georgii Plachi, 1706-1710 (coll. privata).

 

Divenne gesuita il 2.11.1582. Professo di tre voti a Nola il 10.10.1599, insegnò per lunghi anni rettorica e lettere greche agli studenti gesuiti di Napoli e in altri luoghi della Campania, a Chieti e in Puglia (certamente a Taranto e a Lecce), dedicandosi poi alla predicazione e alle missioni popolari. Pupillo di san Bernardino Realino (a cui poi egli stesso si unì con grande entusiasmo)6, gran letterato, eccellente scrittore, valoroso ministro della parola di Dio, ricordato ad esempio da Girolamo Marciano nella sua Descrizione di Terra d’Otranto come «filosofo, teologo, poeta, ed oratore illustre e lume nell’età nostra della greca e latina lingua in questa provincia»7 o dal padre Bonaventura Da Lama (che nella I Parte della sua Cronica ne descrive stupendamente la morte avvenuta «colloquiando con S. Antonio di Padova» – il suo nome di battesimo era Padovano, posto dai genitori perché erano devoti di tale santo) come «uomo esemplarissimo e dottissimo [… ] molto stimato dai primi letterati della Provincia e del regno per l’eloquenza greca e latina, Sensi della Sagra Scrittura, Concilii e Santi Padri, e più per l’Arte poetica»8. O ancora dall’Infantino che nel parlare di Suora Gio Donata Monticella, ricorda il Guerrieri come suo confessore e «huomo insigne sì nelle latine, e greche lettere, come di vita santissima, per mettere in ciò qualche considerazione le ordinò, che non scendesse più alle grate senza sua licenza»9.

Roma, Archivio della Postulazione Generale d.c. d.G., la prima pagina della te-stimonianza fatta da Francesco Guerrieri al processo si Santificazione di San Bernardino Realino.

 

Roma, Archivio della Postulazione Generale d.C. d.G., lettera di San Bernardino Realino a Francesco Guerrieri.

 

Roma, Archivio della Postulazione Generale d.C. d.G., epigramma di San Bernardino Realino a Francesco Guerrieri.

 

Il Guerrieri fu amico di Torquato Tasso (tale amicizia è testimoniata da alcune lettere)10 che soleva celebrarlo presso i dotti come «l’idea dell’eloquenza e della sapienza»11. Il poeta spesso frequentava le sue lezioni o gli inviava talvolta versi in latino per eventuali correzioni, come quelle apportate all’elegia Ad Juventutis Napolitanae Principes, di cui una copia si ha nel Codice Palatino 224 – f. 68, della Biblioteca Nazionale di Firenze e su cui l’Abate Saverio Gualtieri letterato napoletano (che conservava l’originale) ebbe modo di annotare «da un ms. di propria mano dello stesso padre Guerriero che conservasi nella Biblioteca del Collegio Napolitano dei PP. della Compagnia di Gesù»12.

 

Londra, British Museum. Frontespizio dell’opera di Francesco Guerrieri, Oratio in funere Margaritae Austriacae Hispaniarum, 1612.

 

Londra, British Museum. Frontespizio e Imprimatur, monogramma dei Gesuiti e note manoscritte dell’opera di Francesco Guerrieri, Oratio in funere Margaritae Austriaca Hispaniarum.

 

Ma egli fu amico anche del grande Galileo Galilei, del bolognese Claudio Achillini, del veronese Girolamo Vida13 e di tanti illustri personaggi, amicizie queste che attestano la grande stima in cui era tenuto nel mondo dei dotti, la meritata venerazione in cui l’avevano i contemporanei. Lo stesso Tasso scrisse un sonetto in sua lode che cominciava «Hai col nome Guerrier, guerrier l’ingegno», andato perduto insieme ad altre lettere conservate presso l’archivio del collegio dei gesuiti di Napoli, durante la loro espulsione avvenuta nel 176714.

Numerosi epigrammi in greco e in latino compaiono poi in opere di autori del suo tempo che lo conobbero ed ebbero modo di apprezzarlo15 (tra i salentini ad esempio Giulio Cesare Infantino16, Peregrino Scardino17, Girolamo Marciano, Filippo Formoso di Torre S. Susanna18). Scrisse in latino inoltre diverse opere tra cui si ricordano: a) Oratio Habita Lupiis in funere Serenissimae Margaritae Austriacae Hispaniarum («con sonoro applauso recitata nella Cattedrale di Lecce»); b) Oratio dicat in instauratione Studiorum; c) Epistolae graecae et latine; d) Carolus sive de Virtute Theologica Dialogus Francisci Verieri e Soc. Iesu a Carolo della Monaca editus (stampato nel 1633 dopo la sua morte); e) De Animum ornatum oratio Habita, in coll. Napolitano 1603; f) De Judiciis; g) molti trattati di diversi argomenti e soprattutto di eloquentia, nonché commenti e annotazioni sugli scrittori antichi greci e latini; altri epigrammi editi ed in editi19.

Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, Frontepizio di una delle opere a stampa di Francesco Guerrieri, ovvero il Carolus sive De Virtute Theologica, stampato nel 1633 e una pagina dell’introduzione.

 

A questo sommario elenco della sua produzione letteraria, va anche aggiunto un lunghissimo poema in versi in latino, rimasto inedito e depositato presso la Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, nel fondo Mss. Gesuitici 1638 (3767), così indicato: Vereri Francesco d.C.d.G. Ignatius Heroicum Poema in XII libros distinctum, dedicato a Giovanni Antonio Albricci III, ultimo di questa nobile famiglia feudataria di Salice ed altri feudi di Terra d’Otranto, figlio di Giovanni Antonio Albricci II e di Giulia Farnese, mecenate e uomo «di chiara intelligenza e di animo liberale»20, in amicizia anche con Alessandro Mattei II21.

Roma. Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II. Frontespizio dell’opera manoscritta di Francesco Guerrieri IGNATIAS e prima pagina del Liber Primus (Mss. Gesuitici 1638).

 

 

Pubblicato in Defensor Civitatis. Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Edizioni del Grifo, Lecce 2017, pp. 325-348 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 23-40, Novoli 2024.

 

 Note

1 Archivio di Stato Di Lecce, not. L. Lombardi, Lecce 46/38, a. 1665 f. 38 (in O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 21 n. 35.

2 Cfr. G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia, toponomastica, cit.; Id., “Il principe perfetto”. Giovanni Antonio Albricci Terzo Testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino, cit.; Id., Bernardino Realino il santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoria/e di Lecce degli anni 1623-1624), cit.; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, cit.; Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, cit., (nell’appendice iconografica vengono pubblicati alcuni epigrammi inediti del Guerrieri).

3 Questo documento è contenuto nel volume 645 (ff. 772-803) presso APG ed è datato 22 gennaio 1624. Una grande massa d’informazioni scaturiscono da queste carte processuali. Questi ultimi tre processi si svolsero lungo un periodo di circa un anno e con essi furono interrogati complessivamente ben 438 testi: 191 a Napoli, 239 a Lecce e soltanto 8 a Carpi (53 sacerdoti e 14 fratelli coadiutori gesuiti, 9 religiosi di altri ordini, 28 sacerdoti secolari, 47 religiose di diversi ordini e congregazioni, 287 laici, dei quali 153 uomini e 134 donne). Il periodo leccese (dal 4 luglio 1623 al 17 luglio 1624) è ovviamente il più ricco in quanto il Realino trascorse nella città di Lecce ben quarantuno anni e sette mesi (vi era giunto partendo da Napoli, dopo una settimana di viaggio, circa le ore 15 di domenica 19 dicembre 1574, in compagnia del fratello Alfonso Solòrzano), destando nella città “una primavera spirituale (che) come un immenso palpito diffondeva intorno per il Salento ampi soffi di vita” e un “rigoglio di vocazioni” che troverà la massima espressione in personaggi appunto come Francesco Guerrieri, Claudio Seripandi, Bernardino Piccinni, Bernardo De Angelis, Sabatino De Ursis, Gian Domenico Bilanci ed altri (per queste notizie e per un ulteriore approfondimento consultare M. Gioia, Per una biografia di San Bernardino Realino S.I. (1530-1616). Analisi delle fonti e cronologia critica, in “Archivum Historicum Societatis Iesu”, v. XXXIX, Roma 1970, e la bibliografia (vastissima e fondamentale) ivi citata; Id., Introdusse la Compagnia a Lecce S. Bernardino Realino, in “Societas”, a. XLI, nn. 4-5 Napoli, luglio-ottobre 1992, p. 97 e ss.; F. Iappelli, Gesuiti a Lecce: 1754-1767, ivi, p. 104 e ss.; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento, cit.; Id., Profili Gesuitico-Salentini (1574-1767), estratto da M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, vol. III, Napoli 1915; Id., La Compagnia di Gesù nelle Puglie (1574-1767, 1835-1940), Roma 1941; G. Broia, Cenni biografici del B. Bernardino Realino, Apostolo, Taumaturgo Compatrono della città di Lecce, Lecce 1927; Id., Il beato Bernardino Realino compatrono della città di Lecce, Torino 1930; Promotore Appulo del culto del B. Bernardino Realino, fasc. XX-XXI, Lecce 1928. La testimonianza processuale del padre Francesco Guerrieri è in APG, vol. 645, ff. 772-803.

4 All’epoca il Guerrieri aveva 61 anni e questo lo si ricava dalla sua stessa deposizione in quanto, a domanda, così risponde: «Mi chiamo Francesco figlio di Stefano Verriero e di Cattherina Ruggi, sono di Santa Maria di Nove, castello vicino a Lecce da sei miglia, sono d’anni 61 e Religioso della Compagnia di Gesù professo, et ho fatto voto di povertà, e anco del commune della mia Religione» (vol. 645, f. 772). Dopo aver risposto inizialmente a ciò che verteva sulla sua «esatta individuazione umana e cristiana», il Guerrieri fornisce quindi informazioni biografiche sul Realino. Difficilmente avremmo saputo l’anno di nascita del Guerrieri (diverse fonti sono completamente discordanti tra loro) se non fosse esistito questo documento anche perché, l’Archivio Parrocchiale Novolese conserva i registri dei battezzati a partire dal Quinterno del 1571 in cui, tuttavia, è riportato l’unico documento autografo del Guerrieri (a Novoli) e che attesta il battesimo di uno schiavo negro, un certo Mattia, ad opera dello stesso padre «[…] fu battezzato da me Francesco Guerrieri sacerdote della Compagnia di Gesù secondo il rito della chiesa nel giorno di S. Paolo Eremita 15 di gennaio 1603». Quinterno di tutti li battezzati incominciando dall’anno del Sig(nore) 1571. In S(an)ta Mari(a) di nove, f. 119v.

5 Una bella descrizione della morte del padre Francesco Guerrieri (già da me pubblicata in Novoli, origini etc.) è in B. Da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della Provincia di S. Nicolò, in Lecce, dalla stamperia di Oronzo Chiriatti, 1723-1724, parte I, pp. 134-137. Si veda anche G.A. Patrignani, Menologio di Pie Memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù dall’anno 1538 fino all’anno 1728, in Venezia, presso Niccolò Pezzana, MDCXXX, Tomo IV, pp. 10-11.

6 Qualche mese prima di morire (in odore di santità) nel luglio 1629, scrisse da Taranto la seguente lettera al Realino già morto da 14 anni, consegnandola ad un nobile giovane che andava a visitare il suo sepolcro in Lecce: «Non è cosa inaudita o padre Bernardino Realino, che si scrivano lettere a chi già morto in terra, si crede vivere in Cielo. Tanto, fra gli altri, praticò Teodosio il giovane con San Gio: Crisostomo che di fatto acconsentì a quanto in quella carta gli si chiedeva. Parte di qua il presente Giovane a gittarsi sul fortunato terreno, che cuopre le tue ossa, per quivi trovar la salute, che da più mesi li han consunta le malattie. Questi, perciò, mentre nella nostra Compagnia guadagnava i cuori di tutti, e prometteva a tutti una segnalata riuscita, fu da’ nostri Superiori rimandato a suoi genitori: ma con certa promessa, che l’avrebbero a braccia aperte nuovamente accolto in Religione, qualora, cola più libera cura della casa paterna, riparasse al suo male. Adunque, Padre mio, Padre di tutti, che vivente un tempo tra noi, a me particolarmente promettesti che assai meglio m’avresti favorito dal Cielo, odi benigno questi miei voti: e dalla luce dove tu (com’è la nostra opinione) dove tu abiti, stendi la mano a sollevare di terra questo Giovane, ed a corroborarlo in salute. Tutti entreranno a far parte del favore, e i nostri Padri, e i suoi, Congiunti, ed anche, alcune città intere in quest’angolo d’Italia, dov’esso è conosciuto. Così, Padre amatissimo, ci consoli susseguentemente Iddio, col farci vedere, mediante l’opera del suo Vicario in terra, autenticate e distese per l’Universo, le tue glorie: onde più da vicino ti rivediamo su gli altari, e possano a te ascendere, in un colle pubbliche preghiere i nostri incensi. Viva in eterno il tuo spirito a Dio, e viva non dimentico dei nostri bisogni». Non sappiamo chi fosse questo giovane ma dalla descrizione che fornisce il padre Guerrieri si può intuire che certamente doveva essere un personaggio che godeva di una certa fama: «[…] ed anche Città intere in quest’angolo d’Italia, dov’esso è conosciuto».

7 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto. Con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese, cit., Napoli 1855, p. 472.

8 B. Da Lama, Cronica…, cit., parte I, p. 134. Al Santo di Padova il Guerrieri dedicò anche alcuni epigrami: «[…] dopo aver presentito la sua morte per mezzo di Sant’Antonio di Padova che gli apparve e da lui antecedentemente commentato con vari epigrammi».

9 G.C. Infantino, Lecce sacra, appresso P. Micheli 1634, p. 178. Domenico De Angelis lo aveva inoltre inserito nel suo Catalogo degli autori, che si conterranno nella Prima Parte dell’Istoria de’ Scrittori Salentini col nome di Francesco Guerrero.

10 F. Schinosi, Istoria della Compagnia di Giesù appartenente al regno di Napoli, in Nap. nella stamperia di Michele Luigi Muzio, MDCCXI, parte II, p. 189. Si veda anche A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, vol. II, Ermanno Loescher, Torino 1895, p. 351, il quale riporta il testo della seguente lettera: «Fra Giovanni Francesco Cozzarelli al Padre Francesco Guerriero. Napoli. Il Signor Torquato Tasso sta bene; ed a quest’ora mi ha mandato il suo servidore con un viglietto, ch’io gli rimandi i suoi versi. Vostra Reverenza si privi del suo gusto per contento e sanità dell’autore; quale in quella indisposizione in cui giace, potrebbe entrare in altri noiosi pensieri, e dannevoli alla salute, quando non s’adempisce il suo desiderio. Di grazia, glieli mandi subito; e quando ella li volesse vedere più a lungo, io li tengo di buono carattere, mandatimi stamane dall’istesso autore. Con che le prego da Dio ogni contento. Di casa (Ottobre 1594)».

11 F. Schinosi, Istoria, cit., parte II, p. 189: «Nella quale congiuntura, Torquato Tasso, havendolo alcune volte udito, il chiamò Idea dell’eloquenza, e della Sapienza. E celebravane di poi l’una, e l’altra, presso i primi letterati di quel secolo, sì con la sua voce, sì con la sua penna, ed in Napoli ed in Roma: dove per questi stessi tempi andò Torquato a finire i suoi giorni».

12 Ivi: «[…] dove per questi stessi tempi andò Torquato a finire i suoi giorni. Un’anno prima che nel 1595. Ciò gli avvenisse, scrissegli quelle lettere, che tuttavia conserviamo, piene di somme lodi, e di strette preghiere, onde voleva corretti dal nostro Padre alcuni suoi componimenti. Tra’ quali, l’Elegia intitolata Ad Iuventutis Neapolitanae Principes, scritta di mano propria del Tasso, si rimase in nostro potere, una con la originale correzione del Guerrieri, a cui mancò il tempo di mandargliela, perché all’altro mancò il tempo di vivere». Si veda anche P. Serassi, Vita di Torquato Tasso, in Bergamo, stamperia Locatelli MDCCXC, p. 248 (II ed. tomo III), e A. Solerti, Vita, cit., vol. II, pp. 789-790 e p. 801 alla nota 4.

13 S. Santagata, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al regno di Napoli, Napoli 1706-11, parte IV (1707), p. 507 (anno 1629).

14 F. Schinosi, Istoria, cit., parte III, p. 189 in nota.

15 Epigrammi sono ad esempio nell’opera di Scipione Capece, De Principiis Rerum Libri Duo, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum e Antonium Pacem, 1594; in De Perscribendis Epistolis Libellus, di Aloisio Antonio Santorello, Neapoli, apud Josephum Cacchium, M. D. LXXXXI; in De Teate Antiquo Marrucinorum in Italia Metropoli Libri Tres, di Lucio Camarra, Romae, ex typographia Dominici Manelfii, 1651; in I pregi e le glorie de’ Letterati di Giovanni Manfredi Tarentino, in Roma, per Nicolò Angelo Tinassi, MDCLXXXII, in Vita della B.V. Maria di Lorenzo Maselli, Neapoli 1606; in Historia della Vita, Miracoli, Traslatione e Gloria dell’Illustrissimo Confessore di Christo S. Nicolò Arcidiacono di Mira e patrono della città di Bari di Antonio Beatillo Barese, in Napoli, nella stamperia de gli Heredi di Tarquinio Longo, 1620; in Historia della vita, morte, miracoli, e traslazione di Santa Irene, Neapoli 1609, dello stesso Beatillo.

Epigrammi in caratteri greci di Francesco Guerrieri al Padre Gesuita Antonio Beatillo autore dell’Historia della Vita, Morte, Miracoli, e Traslatione di Santa Irene da Tessalonica Vergine, e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, con le sue Annotationi dichiaratorie, in Napoli, Nella Stamperia di Tarquinio Longo 1609 (coll. privata).

 

16 G.C. Infantino, Lecce sacra, cit., p. 178.

17 P. Scardino, Epigrammatun Centuria, Neapoli, apud Constantinum Vitalem, 1603, p. 110. Ma anche lo stesso Scardino dedica al Guerrieri il seguente epigramma Dum rapis è Lethes Verreri gurgite / Athenas /. Nec finis antiquum Romae obijsse Decus / Argolica Latia agnoscit te lingua parentem / Namq; haec, delicijs crescit., illa tuis; / Utraq; quum patrios lusus, vocesq; requirat / Blandula in amplexus itq; reditq; tuos / Tà bellas Pater hand genuit per sàecula natas / Tam bellum natae non habuere patrem (p. 29).

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II. Epigramma di Francesco Guerrieri nell’opera di P. Scardino, Epigrammatum Centuria (Napoli), apud Costantinum Vitalem, 1603).

 

18 P. Formoso, Carmina, ad illustrissimum excellentissimum Dominum D. Io. Antonium Al­Bricium Farnesium Vetranae Principem, Salicis Marchionem, Turris Susanniae Dominum, Lycii, apud Petrum Michaelem, 1631 (una copia di questo rarissimo testo è conservata presso la Biblioteca dell’Università di Lecce). Il poeta così si rivolge al Guerrieri: «Adm. rever. patri Francisco Verrerio Iesuitae. Tarenti docenti. Arcadia exortus veteres perrexit Athenas Iuppiter, has leges edocuitque suas. Urbem quò clarae Matrem Virtutis honorant, Doctorem faciunt & super astra Deum. Sic viret aebolio contermina terra Galeso, Verreri, ingenio, Moribus, arte tuis. Laus sua utrumque manet, sede eò te gloria maior, Quò sophiae praebes sanctius ipse genus».

Lecce, Biblioteca Universitaria, epigramma a Francesco Guerrieri nell’opera di F. FORMOSO, I Carmina (Apud Petrum Michaelem 1631).

 

19 Cfr. De Backer A. Sommervogel, Biblioteque de la Compagnia de Jesus, Bruxelles, Paris 1890-1909, Il. III, p. 1915, T. IX p. 446, T. XII p. 1110. Altri epigrammi s’incontrano nel carteggio epistolare tra il Realino e il Guerrieri, conservato in APG, vol. 657, ff. 122r e v, 123v-124r, 128r-128v. Riporto ad esempio quello che trovasi a carta 122, datato 24 gennaio 1599: «Dulcis Amor Jesu dignum te reddat amore / Vereri, ò dignum me quoque reddat Amore / Que vero scribis menti gratissima nostrae, / Praesentem faciunt te mihi. Scribe igitur / Scribe, licet raro id permittant tempora, crescit / Dum mora, crescit amor. Pulcraque rara. Vale» (è dedicato dal Realino al Guerrieri). Il Realino, ancora, in una lettera del 21 agosto 1607 (Lecce), loda l’epistola del Guerrieri e, insieme, la sua «insigne mente», la sua modestia che avrebbe bisogno – dice – di un encomio non umano ma angelico.

20 Di quest’opera inedita e manoscritta del Guerrieri ho già dato ampia informazione in Il Principe Perfetto. Giovanni Antonio Albricci III, cit., pp. 41-54. Tra le opere scritte dal Guerrieri, il manoscritto dedicato all’Albricci, è certamente quella più importante. Si tratta infatti di un lunghissimo poema di versi in latino così indicato: «Vereri Francesco d.C.d.G. Ignatius Heroicum Poema in XII libros distinctum». Sono in tutto 161 carte. Alle carte 7 e 8r vi è la lettera dedicatoria a «Exc: mo Io: Antonio / Albricio / Veteranensium Principi». L’Albricci all’epoca aveva solo 16 anni «[…] Quod si in tam tenera es aetate tantus: annos videlicet natus vix sexdecim». Trad.: «[…] Che se pur in così tenera età tu sei tanto grande: certamente hai appena sedici anni», ma il Guerrieri glielo dedica (oltre ai motivi di far parte della stirpe Farnese per parte di madre e per i vincoli di amicizia che a lui lo legano) soprattutto per le doti dell’animo, del suo ingegno veramente singolari, per la sua morigeratezza, per la diligenza con cui coltivava tutte le arti liberali, tanto da essere già in così tenera età (secondo lo stesso padre profondamente colpito da queste doti in un fanciullo di appena 16 anni) «un esempio di principe perfetto», un principe ammirato per il modo di cavalcare, per come trattava le spade, suonava la lira, competente nella pittura, e soprattutto, nelle lettere latine e greche e in filosofia.

21 Nel 1625, Alessandro Mattei II, fece da testimone, assieme all’Albricci, alle nozze di Maria Paladini con Giovanni Enriquez (primogenito di Gabriele, anch’egli dotato di vasta cultura ed eccellente dottrina, nonché di spiccate virtù civiche). Cfr., G. De Nisi, Salice terrae Hidrunti. Storia aneddotica dal X al XX secolo, Ostia MCMLXVIII, p. 46.

 

Per la prima parte clicca qui:

Bernardino Realino e i Mattei signori di Novoli (prima parte) – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Bernardino Realino e i Mattei signori di Novoli (prima parte)

San Bernardino Realino in un’incisione del 1731, Archivum Societatis Jesu, Roma.

 

di Gilberto Spagnolo

L’indagine che qui presentiamo vuole essere un contributo non solo sulla figura e sull’opera di san Bernardino Realino ma anche sul ruolo realmente svolto da un nobile casato salentino.

Tra le famiglie aristocratiche con cui ebbe rapporti san Bernardino Realino, si distingue, infatti, certamente la famiglia dei Mattei. Essi furono signori di Novoli, chiamato Santa Maria de Novis nel periodo storico in cui vissero, per quasi due secoli (1520-1706)1, interpretando un ruolo aristocratico e feudale caratterizzato soprattutto da un forte impegno nella cultura e nell’arte, impegno che gli si riconosce indubbiamente attraverso numerose testimonianze coeve e successive, supportate da una significativa documentazione sia letteraria che archivistica2. L’eccezionale «fontana» che l’ultimo dei Mattei – Alessandro III – il 1700 fece innalzare nel cortile della sua residenza baronale di Novoli, conserva ancora l’epigrafe in latino (egregiamente interpretata e tradotta da Mario Cazzato) che sembra perfettamente condensare la profonda tradizione umanistica della sua nobile famiglia, tradizione che il secolo prima il Marciano, nella sua Descrizione aveva contribuito a fondare con «accenti tanto ammirati da sfiorare il mito. Essa costituisce infatti l’ultimo episodio di una plurisecolare tradizione di committenza artistica, mantenuta appunto sempre su elevati livelli culturali, non casuale ma inquadrata in una particolare concezione del ruolo dell’aristocrazia fondato principalmente sul prestigio culturale come simbolo distintivo e autogiustificativo». L’epigrafe così recita: «Al Dio dell’Ospitalità Alessandro Mattei, non per desiderio di grandezza o di potere, ma per conforto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nell’anno 1700»3.

Stemma nobiliare dei Mattei (da S. MAZZELLA, Descritione del Regno di Napoli, Napoli 1601).

 

L’ascendenza di questa famiglia è comunque controversa. Secondo il Foscarini, probabilmente rifacendosi al cronista leccese Braccio, la famiglia Mattei, di origine leccese, fu aggregata al patriziato non per nobiltà di natali, ma per censo, senza tuttavia emergere o ricoprire cariche pubbliche4. Altre fonti quali il Mazzella, il Crollalanza, il Gonzaga considerano la famiglia di Matteo, Matthei o Mattei, come un ramo della casa Papereschi romana, casa molto potente in Roma da cui uscirono i pontefici Innocenzo II e Clemente III, cioè Gregorio e Paolo Papereschi. La famiglia Mattei che ritenne lo stemma dei Papereschi diramandosi in Francia e in Umbria mentre il ramo principale godeva di popolarità tra le principesche famiglie romane, ebbe origine da Matteo Papereschi che viveva nei primi anni del XIII secolo. I Mattei patrizi romani si divisero in tre rami: quello di Trastevere, di Pescaria e di Muzio e Fabio Mattei, dal primo dei quali discesero i marchesi Mattei e dal secondo i duchi di Paganica, principi romani estinti nella casa Conti. Una diramazione dei Mattei di Roma passò a stabilirsi in Gaeta e Sessa, ed un’altra in Lecce, ove ottenne appunto i titoli di conte di Novoli e marchese di Trepuzzi e si estinse, in Alessandro III ultimo conte e marito di Angela Invitti di Napoli, dei principi di Conca che non ebbe figli. Tra i Mattei “romani” si distinse il nobile Ciriaco Mattei, amante della scultura antica e della pittura contemporanea che aveva riunito sul suo palazzo a via delle Botteghe oscure e nella sua villa sul Celio una collezione ammiratissima dagli eruditi e dagli scrittori dell’epoca (il Caravaggio, all’apice della gloria, nel corso del 1601, dipinse per lui la Cena di Emmaus esposta recentemente in una mostra alla National Gallery di Londra5. La storia dei Mattei baroni di Novoli ha inizio precisamente nel primo Cinquecento).

Novoli, fontana sulla terrazza del Palazzo Baronale costruita da Alessandro III Mattei nel 1700.

 

Novoli, particolare dell’architrave della fontana con epigrafe.

 

Le antiche carte attestano che il 26 giugno del 1520 si verificò l’acquisto da parte di Paolo Mattei, dottore in leggi, di una metà del feudo di Sancta Maria de Novis e dell’altra metà da parte di Vittorio Prioli, genero dello stesso Pao­lo, perché marito della figlia Caterinella. Il suddetto feudo di Sancta Maria de Novis, acquistato per 6850 ducati versati al viceré Raimondo di Cordoba, apparteneva ai Maramonte, barone di Campi, ed era stato messo in vendita dalla Regia Corte, su richiesta di Cesaria Maramonte, in quanto il barone Giovanni era deceduto senza lasciare legittimi eredi. Nel 1523 Paolo Mattei acquistò anche il disabitato feudo di Nubilo o Novule, vendutogli da Aurelia di Acaia, moglie di Giovanni Maria Guarino. Nella seconda metà del XVI secolo i Mattei acquistarono da Donato Maria Prioli l’altra metà del feudo che rimase di proprietà della famiglia fino ai primi anni del Settecento quando il feudo passò nelle mani dei Carignani6.

Probabilmente, l’immediata vicinanza del casale di S. Maria de Novis alla città che li aveva accolti (il 19 dicembre del 1574), consentì certamente ai padri gesuiti di svolgervi qui, subito in maniera incisiva il loro ministero apostolico. Il padre Giovanni Barrella ci dice infatti che a Novoli i Gesuiti, fin quasi dagli inizi della loro venuta a Lecce, fondarono due “congregazioni di Spirito” (oggi confraternite), intitolate l’una al nome SS. di Gesù, l’altra alla Immacolata. Nella prima vi era una grande tela (oggi scomparsa) rappresentante nell’alto in uno sfolgorio di luce, il nome SS. di Gesù, e nel centro la figura augusta del Salvatore con ai piedi sant’Ignazio e san Francesco Saverio. Dinanzi a questa tela a cura dei fedeli, ardeva perennemente una lampada, mentre il clero locale, ogni anno celebrava in detta congregazione, a proprie spese e con grande solennità le feste dei santi Ignazio e Francesco Saverio. Quella dell’Immacolata imponeva che i confratelli fossero «di buona vita, fama e costume»7.

L’amicizia del Realino con la famiglia Mattei, si concretizzò invece soprattutto con il barone Filippo II, nipote di Alessandro I che pagò il relevio nel 15728. In un atto notarile del notaio C. Pandolfo dello stesso anno, Filippo II è detto infatti barone di S. Maria di Nove e Palmarici, quindi aveva già sposato Sibilla Ventura che gli aveva portato in dote il feudo di Palmariggi9.

Ultima carta del testamento autografo di Filippo II Mattei Barone di S. Maria di Nove e padre di Alessandro II Mattei.

 

Il conte Filippo II, uomo assai religioso, fu veramente (scrive Francesco Antonio De Giorgi) «Gentiluomo di molta stima e per le sue ottime qualità amato ed onorato da tutti»10. Era inoltre padre di Alessandro II, l’umanista e mecenate (punta di diamante della famiglia) ricordato dal Marciano nella sua Descrizione come «uomo di singolar dottrina, versato in tutte le scienze, nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e prudentissimo Principe», possessore di una biblioteca che non aveva pari nella provincia. Il Marciano, com’è noto, godette della sua munifica ospitalità, dei suoi preziosi suggerimenti e libri della biblioteca in un arco di tempo che va dal 1615 al 162011.

Roma, Archivio della Postulazione Generale d.C. d. G., lettera di San Bernardino Realino ad Alessandro II Mattei.

 

Roma, Archivio della Postulazione Generale d.C. d. G., epigramma di San Bernardino Realino ad Alessandro II Mattei.

 

Le vicende storiche che riguardano i Mattei e il rapporto con il padre Bernardino sono contrassegnate soprattutto da un «evento prodigioso» che il santo compì in Sancta Maria de Nove presumibilmente in un periodo tra il 1580 (quando iniziò ad usufruire nella deambulazione dell’appoggio di una robusta canna) e il 1589 (morte di Filippo II)12.

Testimonianza di Alessandro II Mattei sul “miracolo del Pozzo” di S. Bernardino Realino (in E. VENTURI, Storia della vita del Beato Bernardino Realino sacerdote professo della Compagnia di Gesù, Tipografia A. Befani, Roma 1895).

 

Alla fine del 1500, Filippo Mattei, infatti per le esigenze della popolazione novolese fece scavare un pozzo di acqua dolce su diretta indicazione di san Bernardino Realino. Così racconta l’episodio Alessandro Mattei (questo è riportato nel Catalogo miraculorum in vita dal Venturi, biografo del Realino, nel testo Storia della vita del Beato Bernardino Realino sacerdote professo della Compagnia di Gesù): «La bonanima del Signor Conte mio padre che morse nel 1589, visitato una volta in Santa Maria dal Padre Bernardino gli disse che in quelle sue terre si pativa molto di acqua buona. E veramente pativano molto per la mancanza di acqua. Vi erano in quelle terre molti pozzi, ma tutta trista che era impossibile da bere, onde per averne erano costretti quella buona gente di andarsene lontano ad attingerne. Il P. Realino senza punto muoversi fece con la canna un segno per terra e disse: “Vossignoria faccia scavare in questo loco e troverà acqua perfettissima”. Si scavò e si trovò un’acqua eccellentissima, et abbondantissima, che basta e soverchia a tutto il Casale, e tutti la chiamano acqua ottenuta per miracolo del P. Bernardino, giacché attorno al detto pozzo ci sono più pozzi d’acqua trista».

Novoli, Piazza R. Margherita in una foto della fine dell’Ottocento (coll. privata).

 

 

Novoli, particolare della Piazza R. Margherita alla fine dell’Ottocento con il “pozzo del Signore” di fronte al palazzo baronale.

 

Il pozzo, scavato di fronte al Palazzo baronale, detto Pozzo del Signore, cioè del Conte13 è venuto alla luce a Novoli nel marzo del 2008; il pozzo fu detto del Signore perché indicava un bene feudale cioè appartenente al signore del luogo e non nel significato di pozzo consacrato a Dio o a Gesù Cristo (fu distrutto nel 1928)14.

I continui e significativi rapporti tra il Realino e Filippo II Mattei sono ulteriormente testimoniati anche dal particolare tempietto eretto a poca distanza dalla chiesa matrice e nel quale su una parete venne inciso ben evidente il monogramma del Gesuiti. Negli anni settanta del XVI secolo, Filippo II infatti, ispirato certamente dallo stesso Realino, fece costruire l’ottagona chiesa del Salvatore e della Madonna delle Grazie (oggi detta di S. Oronzo), “un piccolo gioiello architettonico” dovuto probabilmente alla scuola dell’architetto-scultore Gabriele Riccardi e che nella sua volta “ad ombrello” ricorda specularmente la soluzione adottata nell’abside della leccese chiesa di Santa Croce15. Nella chiesa inoltre è presente lo stupendo altare barocco realizzato dal Cino su incarico dell’ultimo dei Mattei Alessandro III nel 1704 (durante recenti lavori di restauro e conservazione dell’altare sono state trovate incise, nella parete superiore destra, le due lettere G.C. ovvero le iniziali di Giuseppe Cino16; l’altare, in alto, a destra e a sinistra reca anche l’arme dei Mattei).

Un contributo fondamentale sui rapporti tra Realino e i Mattei sono le lettere che il Realino scrisse quando era lontano da Lecce per altre missioni e che si trovano conservate presso l’Archivio della Postulazione Generale della Compagnia di Gesù di Roma. Si consulti a tal proposito l’ottimo studio del padre M. Gioia La Grazia vocazionale di S. Bernardino Realino, in cui, tra le tante lettere dell’Elenco Cronologico dell’Epistolario Realino figurano lettere del Realino ad Alessandro Mattei e alla madre Sibilla Ventura sorella di Isabella Ventura, penitente del Realino stesso. Le lettere sono rispettivamente datate 22 feb. 1590 e 19 feb. 1593 quelle di Alessandro; quella della madre 10 feb. 159217. Queste lettere hanno una certa importanza soprattutto perché sono una testimonianza concreta che già in tenerissima età Alessandro Mattei dimostrava qualità non comuni, facendo intravedere la figura di un ragazzo capace di fare molta strada sulla via del sapere.

Scrive infatti il padre Realino nella lettera inviata il 19 febbraio 1593: «O lettera piena di interessi umanistici, o indole che si evidenzia per il valore, o spiccato ingegno di adolescente». E il santo religioso continua con l’augurio che queste doti di mente e di cuore vengano coltivate dal ragazzo e crescano con il suo costante impegno e con l’aiuto di Dio. L’altra lettera è del 22 febbraio 1590 e in questa ne esaltava le meravigliose virtù non solo sue ma anche del padre Filippo morto l’anno prima presso cui “molto spesso” era stato ospitato, confermando così quanto già il galatonese Giovanni Pietro d’Alessandro nel suo libro di epigrammi composto tra il 1589 e il 1594 gli aveva pronosticato chiamandolo «amante della Sapienza e delle Muse»18. L’epigramma così recita: «A ragione hai nell’arme l’aquila di Giove / o amante della Sapienza e delle Muse / Infatti come l’aquila vola in alto e osa guardare il sole / così tu col tuo ingegno puoi volare in alto / e conoscere i profondi misteri della natura»19.

 

Pubblicato in Defensor Civitatis. Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Edizioni del Grifo, Lecce 2017, pp. 325-348 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 23-40, Novoli 2024.

 

Note

1 Sulla successione feudale di Sancta Maria de Novis e del feudo di Nubilo si vedano gli studi di O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Novoli 1986; Id., I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), Bibliotheca Minima, Novoli 1989; G. Spagnolo, Novoli origini, nome, cartografia e toponomastica, Tip. A. Rizzo, Novoli 1987; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Ed. del Grifo, Lecce 1990. In una memoria legale redatta da B. Tizzani e N. Turfani è riportato: «In Provincia di Lecce esiste la terra di Santa Maria di Novoli, volgarmente detta Novoli, ed il Feudo disabbitato (sic) Nubilo, Noole, Novoli, S. Onofrio, o del Convento. La Terra di Santa Maria nel 1520 fu devoluta al Fisco per la morte di Giovanna Maramonte Baronessa di Campi senza legittimi eredi, fu venduta a Paolo dei Matteis, e Vittorio de Priolo Suocero, e Genero. In seguito il solo Paolo de Matteis con istrumento per Notar Pomponio Stomeo di Lecce comperò nel 1523 da Aurelia de Acaia moglie di Gio: Maria Guarino separatamente il Feudo di Nubilo, o Noole. Questi due distinti Feudi furono nella famiglia de Matteis fino al 1706, in cui si morì Alessandro de Matteis ultimo possessore senza legittimi eredi in grado. Nel 1707 la Regia Camera per concorso de’ creditori vendé questi due feudi a Felice Carignani, e ne fu liberato il prezzo a’ creditori del de Matteis, come si rileva dall’istanza fiscale». B. Tizzani – N. Turfani, Per l’Università di Santa Maria di Novoli e suoi Naturali contro l’utile possessore di quella, Napoli 1805, p. I. (Commissario Presidente D. Vincenzo Sanseverino. Attuario D. Nicola Guerra). Il toponimo Nubilo è la più antica denominazione di tutto l’intero territorio dell’ex feudo del convento, che poi, come già detto, si chiamò Novule. In seguito ne ha indicato solo una contrada e precisamente quella che ad occidente della provinciale per Lecce, vi è tra la frazione convento e la via vicinale dell’Abbadia.

Novoli, Palazzo Baronale, Cappella di S. Maria della Pietà (oratorio privato dei Mattei).

 

Novoli, Palazzo Baronale, stemma dei Della Torre (foto F. Petrachi).

 

Novoli, Palazzo Baronale, stemma dei Pepoli (foto F. Petrachi).

 

2 Relativamente a questi aspetti e sulle virtù mecenatiche e liberali di questa famiglia (la cui punta di diamante fu Alessandro II ricordato dal Marciano), i loro rapporti intellettuali che furono certamente non casuali ma inseriti in un “sistema locale ben determinato nel quale centro e periferia erano legati da rapporti e uno scambio continuo di esperienze e fermenti culturali” si rimanda ai seguenti contributi: M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei signori di Novoli, in “Camminiamo insieme”, XII, gennaio 1998, pp. 16-17; M. Cazzato, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “gallaria”: per una storia del collezionismo aristocratico in terra d’Otranto, in Atlante del Barocco in Italia. Il sistema delle residenze nobiliari. Italia meridionale, Meridionale, Roma 2010, pp. 182-l94; Id., Per la Biblioteca dei Mattei. Girolamo Marciano, l’iconografia del Ripa e la “Taranta Apula”, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XIX, 18 luglio 2012, p. 27; Id., Una Sant’Irene per Alessandro Mattei (1604), ivi, p. 15; Id., I maestri di scuole del ’500 salentino, ivi, XX, 18 luglio 2013, p. 12; Id., La fontana dei Mattei. Profili di committenza aristocratica, ivi, XII, 18 luglio 2005, pp. 6-7; G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca, frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di M. Cazzato, Ed. del Grifo, Lecce 1992; Id., Fra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del conte Alessandro Mattei, Signore di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, X, 20 luglio 2003, pp. 33-36; Id., Girolamo Marciano e i Discorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese. Contributo per una biblioteca perduta, ivi, XVII, 18 luglio 2010, pp. 22-26; Id., Il principe Perfetto. Giovanni Antonio Albricci Terzo (testimonianze dall’Ignatiados poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), in “Quaderno di ricerca. Costumi e storia del Salento”, Grafiche Panico, Salice Salentino, ottobre 1989, pp. 21-54; Id., Francesco Guerrieri e Prospero Rendella giureconsulto e storiografo monopolitano, in “Annuario Studi e Ricerche”, I, Il Parametro Editore, 1993, pp. 115-134; Id., Bernardino Realino il Santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoriale di Lecce degli anni 1623-1624), in “lu Lampiune”, IV, 2 agosto 1990, pp. 107-111; Id., Memorie antiche di Novoli (note su un manoscritto ottocentesco della Descrizione di S. Maria de Nove di Girolamo Marciano), in “Lu puzzu te la Matonna”, XII, 17 luglio 2005, pp. 11-13; Id., Pregando Iddio per l’anima mia… Il Testamento di Filippo II Mattei Barone di S. Maria de Nove, ivi, XIX, 15 luglio 2012, pp. 16-19; Id., Francesco Guerrieri “sive verierius” sacerdote della Compagnia di Gesù (gli epigrammi greci e latini), ivi, cit., XX, pp. 13-15; O. Mazzotta, Ex Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “Camminiamo insieme”, VI, 3 marzo 1992, p. 5; L. Ingrosso, La Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “lu Lampiune”, XIII, 2, 1997, pp. 71-77; M. Cazzato, Gli ultimi Mattei e il feudo di Trepuzzi, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XXII, 19 luglio 2015, p. 10; G. Spagnolo, I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario, in E. Bruno – M. Spedicato (a cura di), Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (secc. XV-XVIII), Edizioni Grifo, Lecce 2016, pp. 3-19.

Sonetto di Cataldo Antonio Mannarino ad Alessandro II Mattei (Rime, in Napoli appresso Tarquinio Longo 1617, coll. privata).

 

3 Con la morte di Alessandro III nel 1706, si estingueva a Novoli la stirpe dei Mattei che per circa duecento anni avevano esercitato la loro signoria sul paese: «Nel giorno 7 del mese di Marzo 1706 l’Ill(ustrissi)mo Don Alessandro Mattei conte di questa terra e del Marchesato di Trepuzzi marito di Donn’Angela Invitti di Napoli, nella sua età di anni quarantaquattro nella sede del suo palazzo patrizio, rese l’anima a Dio e il di lui corpo nello stesso giorno fu sepolto nella tomba dei suoi avi nell’interno del Convento e della Chiesa dei Frati Domenicani di questa terra reggendo l’amministrazione di detto Convento frate Ferdinando da Campi; confessò (le proprie pene) nel quinto giorno, restò privo del S.S. Viatico per smarrimento di coscienza, fu tuttavia consacrato della unzione del sacro olio del settimo giorno in cui fu sopra sostituito (nel marchesato) per mezzo del Rev(erendissi)mo Don Filippo Antonio Romano», (Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice S. Andrea di Novoli, Registro dei morti aa. 1680-1709. Sulla fontana del palazzo ducale aveva fatto incidere la seguente epigrafe: «Deo Xenio / Non Magnitudinl Aut / Dominationi / Sed / Solatio Et Ocio / Alexander Mattei / Aedes Suas / Xysto Et Fonte Excoluit / A. Mdcc», Al Dio dell’ospitalità. Alessandro Mattei, non per desiderio di grandezza o di potere, ma per conforto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nel 1700, cfr., M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; un’epigrafe «che nonostante l’epoca rigurgita ancora di echi classico-umanistici»). I Carignani tennero poi Novoli per novantadue anni e furono dunque gli ultimi signori del luogo sino alla soppressione della feudalità applicata nel Salento nel mese di agosto del 1806, cfr. O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit.; Id., Novoli (1806-1931), Bibliotheca Minima, Novoli 1990; G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, cit.; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, cit.; O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit.

Dedica di Luigi De Simone (datata “Villa S. Antonio” 6 Ottobre 1893) allo storico novolese Giovanni Guerrieri, in cui gli augura “che rinnovelli il Conte del suo paese Alessandro Mattei, scrivendo di Terra d’Otranto” (coll. privata).

 

4 Cfr. A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle famiglie nobili notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, premessa di Pietro De Leo, Arnaldo Forni Editore, Bologna 1971, pp. 203-204 (con “Albero genealogico”) ristampa dell’edizione di Lecce 1927; B. Braccio, Notiziario o parte d’istoria di Lecce, in appendice a “Rivista storica Salentina”, II, 1905, p. 15.

5 Cfr. S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, in Napoli, ad istanza di Gio. Battista Cappello, MDCI, p. 590; G.B. Crollalanza, Dizionario Storico-Blasonico delle famiglie nobili e notabili Italiane estinte e fiorenti, vol. II, Forni Editore, Bologna 1965, p. 408 (ristampa anastatica dell’ed. del 1866); Berardo-Candida-Gonzaga, Memorie delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, tomo II, vol. IV, Forni Editore, Bologna 1965, p. 158 (ristampa anastatica dell’edizione di Napoli 1875); G. Spagnolo, Dalle rime del Mannarino un sonetto ad Alessandro Mattei, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, XVI, Novoli 17 gennaio 1992, pp. 6-7.

6 B. Tizzani – N. Turfani, Per l’Università di Santa Maria di Novoli e suoi naturali contro l’utile possessore di quella, cit., p. I. Lo stemma dei Mattei campeggia sulla facciata della cinquecentesca chiesetta annessa al convento dei domenicani dedicata a sant’Onofrio (oggi della Vergine SS. del Buon Consiglio) e che divenne la tomba di famiglia (Cfr., G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, C.E.T.I. Editore, Teramo 1965, p. 48).

7 Cfr. G. Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie. 1574-1767, 1835-1940, R. Tipografia Editrice Salentina, Lecce p. 78. Il p. Realino, il p. Giacomo Abate e il fratello Solorzano vennero a Lecce, per impiantare una casa gesuitica nel dicembre del 1574 (M. Gioia, La grazia vocazionale in S. Bernardino (estratto della tesi di Laurea), Roma 1970, pp. 39-40.

8 P. Coco, Cenni storici di Squinzano, Lecce 1922, p. 360.

9 O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 18.

10 G. Spagnolo, Pregando Iddio per l’anima mia […] Il Testamento di Filippo II Mattei Barone di S. Maria de Nove, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., XIX, 15 luglio 2012, pp. 16-19.

11 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli 1855, pp. 471-472; G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in «Contributi», IV, n. 4, Maglie 1985, pp. 43-44.

12 R. Franchini, Il Pozzo del Signore, in “La Voce del Pastore”, I, Novoli 1958, pp. 4-6; Idem, II, nn.

13 Il Franchini riprese infatti l’episodio da E. Venturi, Storia della vita del Beato Bernardino Realino sacerdote professo d. C. d. G., Tipografia A. Befani, Roma 1895, p. 262; G. Germier, San Bernardino Realino, Firenze 1943, p. 510. Cfr. anche G. Spagnolo, Un antico insediamento rurale novolese: la masseria della Corte o del Signore, in “Lu Lampiune”, V, n. 3, dicembre 1989, pp. 5 e 7 e ss.

14 D. Gallerano, Apprezzo del feudo di Santa Maria de Nove e del feudo di Nubilo o Convento fatto nel 1707 da Donato Gallerano, copia dattiloscritta c/o Mario Cazzato (l’originale che si conservava presso l’Archivio di Napoli è andato perduto) dove il pozzo così viene descritto: «[…] in mezzo della piazza vi sta il Pozzo del Palazzo con il giro di tre grada, ornato con edificio di un pezzo di pietra a forma ovale, e nell’estremità, con due colonne, sopra de’ quali vi è Architrave, Fregio, Cornice e finimento» (p. 13). Il pozzo fu smontato nel 1928 e il Germier che pubblica la sua opera nel 1943, nel narrare l’intervento di san Bernardino, conclude affermando che «ancor oggi si mostra in Novoli il luogo dove sorse il pozzo, e si conserva pure quantunque frantumato, l’antico puteale». Nel marzo del 2008, durante i lavori di rifacimento di parte della piazza Regina Margherita, all’angolo di via Umberto I dove era ubicata la cabina telefonica, casualmente è stata scoperta la voragine del pozzo costellata di tufi che si sprofonda per circa trenta metri fino a raggiungere le falde acquifere. Il pozzo era sotto gli alti alberi che ombreggiavano l’intera piazza e probabilmente, ad eseguire l’opera decorativa esterna al pozzo, furono le stesse maestranze che avevano lavorato al tempietto ottagonale del Salvatore e della Madonna delle Grazie (Cfr. G. Germier, San Bernardino Realino, cit., p. 510; P. De Matteis, La storia ritrovata: il pozzo del Signore, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., XV, 20 luglio 2008, p. 39; F. Spada, Novoli: quando i pozzi erano più d’uno!!!, ivi, XVIII, 18 luglio 2010, pp. 64-65. La capacità culturale ed economica dei Mattei di coinvolgere nelle loro iniziative le personalità più prestigiose del tempo, è l’attribuzione all’architetto di Santa Croce Gabriele Riccardi anche dello splendido portale della chiesa dell’ex convento dei Domenicani nella frazione di Villa convento, la cui fondazione risale al 1551 per opera di Filippo I Mattei (Cfr. G. Spagnolo, I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario, cit. pp. 3-19).

15 M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; M. Cazzato – V. Peluso, Melpignano indagine su un centro minore, Congedo, Galatina 1986, p. 184; O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 20.

16 F. De Pascalis, Altare con sorpresa, la firma di Cino, in “Quotidiano”, 25 novembre 2003.

17 Copia di questo carteggio si trova in Archivio della Postulazione Generale della Compagnia di Gesù di Roma, (d’ora in poi APG), vol. 657, ff. 124r-126v, 149v, e vol. 656, ff. 1Av-2A. (Cfr. M. Gioia, La grazia vocazionale di S. Bernardino Realino, cit., pp. 63 -64).

18 Ivi, pp. 63-64.

Lecce, Archivio Curia Arcivescovile, “Augustini Hipponensis Episcopi”, frontespizio (ex Bibliotheca Alexandri Mattej).

 

19 Io. Petri De Alexandro, Epigrammatum liber, in Id., Dimostratione di luoghi tolti, et imitati in più autori dal sig. Torquato Tasso nel Goffredo ovvero Gerusalemme liberata, Napoli 1604, p. 257, traduzione in O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), cit., p. 27, nota 67.

Melissano e l’antica chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova

Melissano e l’antica chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova: costruita dai primi melissanesi, abbandonata dalla parrocchia e recuperata dal Comune

di Fernando Scozzi

Quando mons. Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, visitò il casale Melissano vi trovò poche decine di abitanti  ed i ruderi delle chiese di San Pietro e di San Nicola. Non essendoci un luogo idoneo per il culto, non c’era nemmeno il parroco e quindi l’assistenza religiosa era affidata alla bontà d’animo dell’arciprete di Racale che, di tanto in tanto, si recava a Melissano per amministrare i sacramenti. Fra l’altro, il feudatario del luogo, don Andrea Gonzaga, risiedeva a Specchia, capoluogo del marchesato e non aveva alcun interesse a migliorare le condizioni economiche e sociali del casale che, ripopolato agli inizi del XVI secolo (1) , era considerato poco più di un ricetto di contadini.  Pertanto, i melissanesi non potevano fare altro che sperare in Dio e seguire il consiglio di Mons. Ambrogio Salvio  che, durante la visita pastorale, li aveva esortati  a “costruire una nuova chiesa matrice sotto il titolo della Madonna del Rosario dove conservare il Santissimo Sacramento ed i Sacramentalia per le necessità e comodità dei fedeli di Cristo”(2).  Ed i melissanesi, pur nelle ristrettezze finanziarie, iniziarono l’edificazione del nuovo tempio utilizzando il suolo ed il materiale lapideo della chiesa diroccata di San Nicola.

Passarono diversi anni e finalmente, nel 1612, la chiesa fu aperta al culto anche se la parte retrostante l’altare maggiore non era stata ancora terminata a causa – rilevò mons. Gerolamo De Franchis –  della povertà del luogo. Non avendo risorse finanziarie nemmeno per acquistare i paramenti liturgici, i melissanesi si rivolsero a Jacopo De Franchis, nuovo feudatario di Melissano, che donò alla parrocchia quanto necessario per la celebrazione delle funzioni religiose ed una tela raffigurante Sant’Antonio di Padova, successivamente individuato quale Protettore del casale. Seguì la nomina del parroco e con don Gerolamo Paschali la parrocchia di Melissano riprese il suo cammino.

Intanto, con l’affermazione del culto di Sant’Antonio, la chiesa cambiò denominazione ad attestarlo è mons. Antonio Sanfelice che nel 1719 fece il suo ingresso nella chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano, visitò l’altare del Protettore e quello della Madonna del Rosario (titolare della parrocchia) dove officiava l’omonima confraternita. Sul medesimo altare campeggiava una tela della Madonna del Rosario ed era raffigurato l’albero di carrubo, antico emblema del casale.

Nella seconda metà del XVIII secolo la popolazione di Melissano raggiunse il numero di circa 400 abitanti per cui “era cosa necessaria l’allargare detta chiesa e far la capacità della popolazione esistente per far nascere la divisione dei maschi colle femmine onde evitare l’irriverenza al Santissimo Sacramento. Allora, si riunirono i cittadini benestanti e da par loro stabilirono una tassa di contribuzione di formare il pieno di quattro in cinquecento ducati”. Fu quindi dato incarico al maestro Saverio Negro di Parabita, commorante in Presicce, il quale formò un disegno e si obbligò a realizzarlo per docati novecentodieci. Ma questo importo era di gran lunga superiore alla somma raccolta, per cui furono chiamati altri mastri muratori per riavere minore offerta. Infine, i deputati di Melissano Vitantonio Fasano e Vito Scozzi, impegnandosi nomine proprio,  sottoscrissero il contratto di appalto con il maestro Tomaso Piccinno, di Copertino, per il corrispettivo di ducati settecento. I lavori furono terminati nel 1778 come ricorda l’epigrafe affissa sulla controfacciata:

D.O.M.

PIETAS ALAM SACRAE AEDIS

A SOLO EXTRUIT

RELIQUAM QUAE ANTIQUA

EVERAT ECCLESIA

AUXIT RESTAURAVIT ORNAVIT

MDCCLXXVIII

(Dio ottimo massimo/ la devozione costruì  dalle fondamenta l’ultima parte del sacro tempio/ ingrandì restaurò ornò quel che l’antica chiesa  aveva edificato/ 1778)

Melissano, ex chiesa parrocchiale S. Antonio di Padova – La volta lunettata del presbiterio (XVIII sec.), foto F. Scozzi

 

La chiesa, quindi, risultò ampliata con la costruzione ex-novo del vano absidale (la cui bella volta lunettata è sostenuta da una larga trabeazione), della sagrestia, del campanile, dell’altare maggiore e di tre altari laterali, compreso quello del Protettore Sant’Antonio di Padova.

Melissano, anni Cinquanta del secolo scorso – Piazza del Mercato Vecchio ed ex chiesa parrocchiale (foto Velotti)

 

Quel che rimane dell’altare di S. Antonio

 

Così il tempio rimase aperto al culto fino agli anni Ottanta del XIX  secolo quando, in assenza di manutenzione, le condizioni dell’antico edificio divennero così precarie da indurre  Don Vito Corvaglia a scrivere a Pio IX supplicandolo di “provvedere per la costruzione di una nuova chiesa, non potendo ciò ottenere dai suoi parrocchiani, tutti gente agricola e di ristrette finanze”. La richiesta non ebbe alcun esito, ma in attesa di trovare le risorse necessarie  per la costruzione del nuovo tempio, nessuno pensò più all’antico, che fu chiuso con il conseguente trasferimento della sede della parrocchia presso l’oratorio dell’Immacolata.

Nel 1901 il vescovo di Nardò, Mons. Giuseppe Ricciardi, visitò l’antica chiesa parrocchiale e rimase impressionato dell’abbandono completo  in cui era tenuta. “Essa – si legge nella relazione della visita pastorale – è di bella costruzione, con abside tutta volta e stucchi, ma si è lasciata senza alcuna manutenzione, per cui dalla volta piove dell’acqua da rendere il luogo sacro veramente indecente e insalubre. Essendo tutto in stato di abbandono, Sua Eccellenza ha interdetto la detta chiesa, facendo noto al parroco il caso della seconda tavola dei Confessori riguardante la profanazione dei sacri templi”. Don Vincenzo Danisi, invece, non solo ignorò i rimproveri del vescovo, ma fece trasferire dall’antica alla nuova e bella chiesa parrocchiale (aperta al culto nel 1902) l’organo, le campane e le  suppellettili.

La chiesa “vecchia”, situata nella parte “vecchia” e per giunta periferica dell’abitato, sembrava destinata all’oblio, ma all’antica matrice ci pensò un gruppo di devoti (guidati da Francesco Corvaglia)  i quali nel 1907 “vengono alla determinazione di assumere l’impresa di fare eseguire  tutte le opere di restauro e di riparazione occorrenti all’antica chiesa parrocchiale spinti dal dovere di rispettare e far rispettare i luoghi santi, nonché dall’ideale di cautelare e mantenere quanto più è possibile e con la maggiore decenza  le opere che i loro antichi padri edificarono sottoponendosi a stenti e a sacrifici”. Alla spesa di L. 1.174,50 si provvide con le offerte dei fedeli integrate da un contributo del Comune di Casarano e quindi l’antico tempio fu reso nuovamente agibile. Ma nonostante il vescovo di Nardò, mons. Nicola Giannattasio, trovasse la chiesa idonea per essere aperta al culto nel giorno della festa del Rosario, cui la chiesa è dedicata, nella stessa non si celebrarono più funzioni religiose. Si tennero, invece, le adunanze del Circolo di Azione Cattolica Femminile (da cui la denominazione “Circolo Vecchio”), lezioni di catechismo e rappresentazioni teatrali.

Melissano, anni Cinquanta del secolo scorso – “Circoline” di Azione Cattolica nei pressi dell’ex chiesa parrocchiale con il parroco Don Antonio Palomba.

 

Poi, negli anni Sessanta del secolo scorso la chiesa fu devastata: furono asportate le tele e distrutti perfino gli altari, ma nessuno mosse un dito. Anzi, il parroco dell’epoca pensava addirittura alla demolizione del sacro edificio sulla cui area, accorpata a quella adiacente di proprietà parrocchiale, intendeva costruire un oratorio. Comunque, dopo il saccheggio, l’immobile  fu chiuso e col passare degli anni rischiò addirittura di crollare dal momento che un caprifico, lasciato vegetare per decenni, ne aveva gravemente compromesso il muro perimetrale Nord. Così fu trovato dal nuovo parroco  che, il 12 novembre 1979, con atto del notaio Giorgio Cascione, lo trasferì a titolo transattivo al Comune di Melissano. Quest’ultimo, si impegnava ad utilizzare l’antica chiesa  come “sede di conferenze e manifestazioni varie  con accesso a qualsiasi organizzazione laica o religiosa” ed a trasferire alla parrocchia la proprietà di 2.000 mq. di suolo.   Nel frattempo, la Sovrintendenza ai Beni Storici e Artistici di Bari, su iniziativa del prof. Quintino Scozzi,  dichiarò l’ex chiesa parrocchiale  “complesso monumentale” ai sensi della Legge 1.6.1939 n. 1089. Ma questo non sarebbe bastato ad evitarne il crollo se l’Amministrazione Comunale non avesse ottenuto le risorse necessarie per il restauro. Quindi, a differenza di quanto qualcuno ha scritto (chissà per quali fini)  il Comune di Melissano non ha mai progettato la demolizione dell’antico edificio.

1981 interno chiesa prima del restauro

 

Terminati i lavori, diretti dall’arch. Francesco Longo, ed accantonata l’idea di trasferirvi la Biblioteca comunale, il Comune di Melissano decise di adibire l’antico edificio (intitolato al prof. Quintino Scozzi)  a sala convegni e manifestazioni culturali. Così, l’ex chiesa parrocchiale, edificata dai primi abitanti del casale, abbandonata dalla parrocchia e recuperata dal Comune con fondi regionali, è stata restituita ai melissanesi non solo per essere utilizzata come suggestiva sala riunioni, ma soprattutto come testimonianza della storia religiosa e sociale del paese fluita fra le sue mura.

2007 facciata dell’ex chiesa

 

Interno della chiesa in occasione della presentazione di un libro

 

Bibliografia

Fernando Scozzi, Melissano, società economia, territorio fra ‘800 e ‘900, Edizioni del Grifo, Lecce, 1990

Fernando Scozzi, I cognomi dei melissanesi, PianetaStampa, Melissano, 2019

Quintino Scozzi, Storia di una chiesa, F.lli Amato, Cutrofiano, 1982

 

Note

  1. Il casale era stato abbandonato nel 1452 prima che le milizie di Giacomo Caldora, al servizio della Regina Giovanna di Napoli, scendessero nel Salento per distruggere i possedimenti degli Orsini Del Balzo, fra cui Melissano.
  2. Dopo la battaglia di Lepanto (7.10.1571), Mons. Ambrogio Salvio aveva ricevuto dal Papa Pio V la facoltà di erigere chiese ed oratori da dedicare alla Madonna del Rosario.

Tracce di “Brandici” nelle fonti letterarie

di Vito Ruggiero

Quest’ articolo parte da semplici appunti raccolti durante alcune ricerche sul nome BRANDICI, che ad un certo punto della storia è comparso, in contemporanea a tanti altri, per indicare la città di Brindisi per circa due secoli, se non di più. In particolare, le ricerche erano finalizzate ad individuare fonti storiche letterarie con la presenza di questo curioso toponimo ritrovato recentemente sulle cartografie del XVI (1) e XVII (2) secolo, per dare un confine alla finestra temporale, e possibilmente anche all’area geografica, nelle quali fosse stato in uso.

Un contributo modesto, che ha il puro scopo di condividere queste poche tracce da me individuate con i curiosi, certo però che ne devono esistere tantissime altre.

Le ricerche sono successive allo studio della carta cinquecentesca dal titolo BRANDICI (1) perché stimolate dalle riflessioni di chi si è interessato di recente all’opera a stampa ed in particolare a questo nome, in precedenza seppellito nell’oblio degli archivi bibliotecari sparsi per il mondo e da nessuna altra parte se non forse in qualche nascostissima collezione privata, come quella a cui è appartenuta la silografia che riporta cubitale BRANDICI nel titolo in cartiglio (1).

 

I recenti articoli di Armando Polito (3) ma anche alcune osservazioni condivise con Nazareno Valente nonché il suo interessantissimo studio sui toponimi che hanno identificato la città di Brindisi nella storia (4), mi hanno spinto a passare alcuni giorni in rete con l’obiettivo di reperire altre fonti dove potesse apparire il nome BRANDICI. Con un’attenzione soprattutto alle forme letterarie e non cartografiche (non essendocene altre note).

Che se voglia o no, internet ci viene molto, ma molto in aiuto. Diversi studiosi ritengono che un vero storico non dovrebbe affidarsi troppo alla rete, ma solo alle ricerche nelle biblioteche e negli archivi. Trovo però molto riduttivo sostenerlo in termini assoluti, perché alcune ricerche invece sono possibili solo ed esclusivamente grazie agli archivi digitali dei testi storici ed ai loro motori di ricerca, quindi alla rete, che permettono di visionare migliaia di testi, spesso unici, sparsi in biblioteche di tutto il mondo senza alzarsi dalla sedia! Lavoro che era assolutamente impossibile prima del mondo digitale.

Ne avrete degli esempi proprio con le ricerche su BRANDICI.

Andare in giro nelle biblioteche a cercare i testi contenenti la parola BRANDICI, allo scopo di datare le sue prime tracce, sarebbe stata un’impresa titanica che avrebbe impiegato anni, probabilmente senza risultati. Non avrei neanche saputo dove andare e da dove cominciare.

Ma la digitalizzazione di milioni di testi (pur rappresentando una minuscola parte del totale) unita alla particolarità davvero eccezionale del raro termine BRANDICI nella letteratura (e questa riconosco è la mia più grande fortuna), mi hanno permesso, in poche ore, di identificare le tracce che vedrete sotto.

Essendo certo che i testi digitalizzati sono pochissimi sul totale di quelli esistenti, mi sento di dire che il termine BRANDICI è meno raro di quello che sembra, e soprattutto che è stato utilizzato per secoli, certamente in concomitanza di molti altri.

Ho trovato che il toponimo BRANDICI per indicare Brindisi esiste da tempi piuttosto antichi, esattamente in quella forma almeno dalla fine del ‘400. È un toponimo certamente poco comune nella letteratura, ma ho trovato comunque diverse evidenze. Forse non era quello più in uso a Venezia, da dove proviene la silografia che lo riporta in cartiglio e dove a quei tempi prevalevano BRANDIZO, o BRANDIZZO come ben evidente nella cartografia a stampa italiana del ‘500.

Provo ad evidenziarlo con un brutale elenco puntato di appunti e osservazioni, una semplice serie di elementi raccolti e di ricerche, che alla fine messi insieme a mio avviso lasciano indicazioni importanti. Vediamoli andando indietro nel tempo e partendo dal fatto che certamente abbiamo due documenti cartografici di Brindisi, entrambi topografici a grande scala, che sono datati 1538 uno (1) e databile 1630 l’altro (2), dove Brindisi è chiamata inequivocabilmente BRANDICI.

Brandici – 1538

 

Molino Atlas – 1630 circa. Dagli archivi della British Library

 

  • Ho trovato una conferma dell’uso di BRANDICI nel ‘600 nel testo “Guerrino detto il Meschino…” di Andrea da Barberino, pubblicato a Venezia nel 1618. Nel libro I, Cap. 3 si dice “Ond’io, per tuo & mio honore ho pensato, che con poca fatica noi possiamo acquistar Albania, cominciando a Durazzo, il qual è l’isola del Mar adriano, dirimpetto a BRANDICI, dalla parte di Romania”. E ancora, nella pagina successiva “Milon trasse da le sue terre altre tanti cavalieri e pedoni, partitosi da BRANDICI….” E dopo “..venuti a BRANDICI andiamo a Durazzo”. Questo a provare l’uso del toponimo nei primi del XVII secolo. Ma andremo più indietro.

 

  • Ancora troviamo BRANDICI in una lettera del 1617, pubblicata ne “Guerre d’Italia tra la Serenissima Rep. Di Venezia e tra Filippo III…”. Non fornisco dettagli per non tediare il lettore visto che bene o male siamo nello stesso periodo del punto precedente.

 

  • Ne la “Descrittione di tutta Italia di F. Leandro Alberti bolognese, nella quale si contiene il sito si di essa, l’origine, et le signorie delle città….” Conservato nella biblioteca nazionale di Roma e pubblicato nel 1551, nel descrivere le vie che partono da Roma e quindi l’Appia troviamo “..Quindi poi infino a BRANDICI la fu rassetata da Traiano avendo issacatu le paludi…”. E subito dopo usa invece il termine BRINDICI: “Et talmente la rassetò da Capua a BRINDICI….”e sempre ancora dopo viene chiamata BRINDICE. In un paragrafo di poche righe troviamo chiamata la nostra città simultaneamente BRANDICI, BRINDICI e BRINDICE. Incredibile ma vero, a testimoniare che i vari termini dell’epoca venivano utilizzati del tutto indifferentemente. Successivamente, nel descrivere la Basilicata troviamo “…scacciarono Phalante e lo mandarono in esilio a BRANDICI con altri…”

 

  • Ora la testimonianza che io trovo più bella e romantica perché dall’altissimo valore figurativo e simbolico per la nostra città.

Ce lo testimonia l’“ENEIDE di VIRGILIO tradotta in terza rima da Giovanni Paolo Vasio” stampata a Venezia nel 1539 per Bernardino di Vitali e conservata nella Biblioteca dell’Università di Siviglia.

 

E’ un testo interessantissimo, che rientra tra i più antichi dell’editoria libraria a stampa veneziana, visto che parliamo del 1539. Qui il link al testo digitalizzato

La Eneide di Virgilio tradotta in terza rima : Virgilio Marón, Publio, 0070-0019 a. C. : Free Download, Borrow, and Streaming : Internet Archive

Siamo alla fine del libro, dove l’autore dedica le ultime pagine alla vita di Virgilio.

Nella penultima pagina troviamo “Et crescendo per la nasvigazione la infernitade finalmente giunse a BRANDICI, dove sentendosi già aggravato spesse fiate con grande instanza dimandò il suo scigno, et questo faceva per abbrusciar la Eneide….”

 

Ho trovato meraviglioso che una delle prime prove letterarie certe dell’esistenza del toponimo BRANDICI sia contestuale all’opera a stampa, nell’editoria veneziana e proprio legata ad un evento così simbolico per la nostra città, come quello dell’Eneide e di Virgilio che giunge, purtroppo malato, a Brindisi per terminare il resto dei suoi pochi giorni di vita.

  • Nel “La Politica di Papa Paolo III e l’Italia” di Carlo Capasso del 1901, troviamo a pag. 330 “il sig. Dio haveva presto punito il Doria della sua durezza perché la sua partita gli haveva tolto quel honore che gli avrebbe attribuito all’autorità sua se fosse andato a BRANDICI”. Questo testo si trova nei Commentari, foglio 8, e fa riferimento al fatto che Andrea Doria, dopo che Corfù fu liberata nell’ agosto del 1537, decise di tornarsene a Genova senza accettare le insistenze del Papa e di Venezia a restare nella zona. Fortunatamente i turchi si allontanarono, ma il Papa l’aveva presa male.

 

  • La parola BRANDICI compare diverse volte negli Annali Veneti di Domenico Malipiero, in corrispondenza dell’anno 1495. A pag.339 ad esempio troviamo:

 

Ho studiato la storia di questi annali, perché secondo me è una testimonianza importantissima, la traccia più antica che ho potuto identificare, pur con la considerazione del fatto che sono stati trascritti e quindi quella parola potrebbe, forse, essere stata cambiata e usata successivamente per la prima volta. La storia degli annali dovrebbe essere questa:

  1. Gli originali manoscritti dal Malipiero al tempo degli eventi sono andati dispersi.
  2. Gli stessi sono stati trascritti ed abbreviati dal senatore Francesco Longo nella seconda metà del XVI secolo (mi sembra sia morto nel 1582).
  3. Francesco Longo nel proemio dice: “Et tutto è scritto con quella forma di parola che ha usato chi primo scrisse, et che portava l’uso di quei tempi”.
  4. La sintesi di Francesco Longo (divisa in 5 parti, la prima è relativa alle guerre di Venezia contro i turchi, la seconda alle guerre d’Italia, BRANDICI è citata nella seconda) è stata pubblicata in forma autografa da Agostino Sagredo nel 1843.
  5. Agostino Sagredo ricostruisce perfettamente nella prefazione come gli originali autografi di Francesco Longo siano pervenuti direttamente a lui, ricostruendo l’intero lungo albero genealogico delle varie successioni. Non sono quindi state fatte trascrizioni intermedie.
  6. Lo stesso dichiara in più parti che “il mio testo autografo di mano del Longo ho voluto che fosse seguito fedelmente il testo” ed ancora “avrei potuto ridurre il codice a lingua italiana, ma sarebbe stata una profanazione….ho preferito apporre annotazioni.”.
  7. In corrispondenza della parola “BRANDICI”, A. Sagredo pone infatti l’annotazione “Brindisi”.
  8. Di certo la parola BRANDICI non era in uso nel 1843, quindi se pur qualcuno l’avesse proprio voluta cambiare questo è il Longo e certamente non il Sagredo, quindi quanto meno dobbiamo attribuirla a prima del 1580 (non mi è chiaro quando esattamente il Longo ha riassunto gli annali).
  9. Non possiamo non considerare che, come detto al punto c), Longo dichiara la trascrizione fedele. Non avrebbe avuto senso dichiarare questo e poi cambiare il termine di BRANDICI.
  10. Di conseguenza, è molto verosimile che la parola BRANDICI riportata negli annali trascritti, peraltro ripetuta varie volte, provenga dall’originale manoscritto di Malipiero del E comunque non può essere successiva alla trascrizione del Longo quindi direi intorno al 1570 o giù di li.

Il testo del Malipiero, seppur trascritto, è il più antico che ho trovato con il toponimo esattamente scritto come BRANDICI. Ma diversi elementi mi fanno pensare che esistesse già da prima, forse anche secoli prima. Andiamo ancora indietro.

Innanzitutto ho controllato tutta la Cartografia Italiana del ‘500 a stampa che rappresenti l’Italia, il meridione e la Puglia (il catalogo del Bifolco/Ronca è molto esaustivo), per vedere se fosse presente su altre carte. A parte che per la ormai nota tavola di Brindisi (1) il nome BRANDICI non compare, ed emerge chiaramente che i toponimi maggiormente utilizzati sulle carte sono BRANDIZO, BRANDIZZO e BRANDIZIO, certamente molto simili, indicati su circa la metà della produzione italiana cinquecentesca. Questi sono principalmente presenti sulla produzione veneziana. Troviamo anche BRINDISI, ma è ancora poco utilizzato sulla cartografia.

Appurato che BRANDIZO o denominazioni molto simili erano in uso all’inizio del ‘500, aggiungo la considerazione che anche nell’ interessante studio di Nazareno Valente sui toponimi di Brindisi (4) lo ritroviamo indicato già nel 1313 nell’ atlante di Pietro Visconte. Nello stesso studio viene indicato anche BRANDIZ nel 1384 e poi BRANDICO nel “Manoscritto Mercantile del XV secolo” di Zibaldone da Canal.

Questi termini sono molto molto vicini alla parola BRANDICI. Ora io non sono un esperto in lingue antiche, e non certo un etimologista o un latinista, però tutti questi termini apparsi già dalla fine del ‘300 hanno alla base “BRANDI…”….poi si chiudono in modi diversi. A mio avviso derivano tutti dal termine latino BRANDICIUM, che a sua volta è una variante del toponimo latino BRUNDISIUM, II. Questo lo si trova anche su Wikipedia sulla lista dei toponimi latini delle più importanti città italiane. Si potrebbe approfondire molto sulla presenza di BRANDICIUM negli antichi testi latini, ma ne cito giusto uno.

Nel testo di Pertusi “La Caduta di Costantinpoli” del 1976,  troviamo pubblicata a pag. 88,  una lettera scritta in latino a Creta il 6 luglio 1453 del Cardinale Isidoro “…et sic a Durachio transire ad BRANDICIUM disponit”. Il testo ripropone a pagine affiancate la traduzione in italiano della lettera “…e così pensa di passare per mare da Durazzo a Brindisi”. Con queste considerazioni non si può escludere che BRANDICI si sia sviluppato almeno nella seconda metà del XV secolo, come già si evince dagli Annali Veneti di Malipiero già evidenziati. Ma se BRANDIZ e BRANDICO (e come vedremo dopo soprattutto BRANDICII e BRANDICIO) sono comparsi ancora prima, è allora probabile che anche BRANDICI lo sia. Andiamo avanti, anzi indietro.

Ho trovato che certamente nel XV secolo si usava BRANDICII. E’ vero ci sono due “I” e non una, siamo nell’ambito delle lingue volgari credo, ma ora siamo vicinissimi al nostro termine. Forse proviene semplicemente dal genitivo di BRANDICIUM, II ? Voglio credere che togliere una “I” sia un passo piccolo nella evoluzione tardo medioevale dei termini volgari provenienti dal latino. Vediamo dove appare questo termine.

Una testimonianza dell’uso di BRANDICII, l’ho trovato a partire da una citazione di Carito nel libro “Contributi per la storia di Brindisi”, quando a pagina 57 cita le “Sante Parole” del “Portolano Sacro”, riportate su un testo di M. Bacci, sul quale ho ritenuto di approfondire.

Si tratta di preghiere e immagini sacre dei marinai sulle rotte di navigazione. Tra le tante invocazioni quella su Brindisi è la seguente:

“Die n’ai’ e Santa Maria del Casale di Brandizio”

Questa era la versione originale della preghiera con la riga su Brindisi (Dio ci aiuti e Santa Maria del Casale di Brindisi). Carito cita anche il Portolano Sacro Genovese, con una bella relazione di Valentina Ruzzin che lo ha ritrovato negli archivi di Genova.

(33) La Bonna Parolla. Il portolano sacro genovese. | Valentina Ruzzin – Academia.edu

Altro riferimento è Michele Bacci – Portolano Sacro, che si trova qui

(33) Portolano sacro. Santuari e immagini sacre lungo le rotte di navigazione del Mediterraneo tra tardo Medioevo e prima età moderna | Michele Bacci – Academia.edu

La Ruzzin spiega che la litania conosciuta come Sante Parole citata anche da Carito fu in sostanza una lunga preghiera in uso presso la marineria del Medioevo, invocazioni in soccorso di Dio lungo un percorso di navigazione immaginario. Il testo è stato tramandato da un codice miscellaneo del XV secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, ma presso l’Archivio di Stato di Genova è stata rinvenuta la versione genovese – la Bonna Parolla. Il testo bene o male è comune a quello fiorentino ma ha tante variazioni linguistiche. Conserva testi redatti fra il 1490 e il 1503.

Senza andare troppo per le lunghe nella versione genovese troviamo che nella litania, l’invocazione su Brindisi è trasformata in:

Dee n’aie e Sancta Maria de Brandicii

E’ molto interessante secondo me vedere questa traduzione. Da BRANDIZIO passiamo in una traduzione ligure a BRANDICII, che vedremo a breve era comunque già in uso addirittura nel ‘300.

Nel primo libro di Perri “Pagine di storia brindisina” ho trovato infatti questa citazione: a pag 153: “Nel febbraio 1341, una nave veneziana di ca’ Marcello….era stata costretta a rifugiarsi nel porto di Brindisi…e i Brindisini avevano imposto al patrono di scaricare 700 salme di frumento “ad salam BRANDICI”, che valevano…”.

Pensavo di aver fatto tombola con la citazione di Perri per datare il toponimo BRANDICI almeno al 1341, in realtà è riportata con quello che forse è un errore di stampa, ma se non è tombola è cinquina. Questa citazione proviene da G.I. Cassandro “Una controversia tra Venezia e Brindisi nel secolo XIV” del 1937. Ho avuto la fortuna di reperire integralmente il testo in rete. La frase corretta è indicata nella seconda pagina del suo scritto ed è: “…ad salmam BRANDICII”. Con più esattezza la frase estesa è “…et nunc de novo simile fecerunt de una navi de ca Marcello, que similter per tempus illuc ivit de qua abstulerunt salmas VII/C frumenti ad salmam Brandicii et super hiis….”

Ma c’è dell’altro. Alla fine del testo di Cassandro, c’è tutto un testo in latino volgare medioevale del 1342. Bene, qui compare numerose volte la parola BRANDICIO, sulla quale si è già ampiamente espresso Armando Polito con le testimonianze cartografiche del 1576 e 1526 e quelle letterarie e del portolano di Alvise da Mosto risalente al 1477 ma pubblicato quasi un secolo dopo (3) .

Lungi da me leggere per intero questi testi in lingua volgare, ma questo basta per ritenere che, se da un lato è certo che già ben due secoli prima della nostra opera cartografica titolata BRANDICI troviamo in uso BRANDICII e BRANDICIO… beh da li a credere che potesse svilupparsi in seguito o quasi contemporaneamente anche BRANDICI è quantomeno plausibile.

A conferma della mostruosa confusione dei toponimi in quei secoli ho riscontrato che nello stesso testo latino su indicato in pochi paragrafi si legge contemporaneamente: BRANDICIO, BRUNDISO, BRUNDUXI, BRUNDUXII,…è incredibile. Una impressionante miscela esplosiva di toponimi usata nello stesso tempo, nello stesso testo, per indicare lo stesso luogo. Sembra rasentare la follia, ma è nero su bianco. Credo che Brindisi abbia un vero e proprio record su questo.

A sua volta Cassandro cita Guerrieri. “Le relazioni tra Venezia e Terra d’Otranto fino al 1530, Trani 1904, pag. 28-29”. Anche qui si dovrebbe trovare la stessa fonte ma non sono riuscito a reperire online il libro.

Termino qui, pur avendo trovato diverse altre di fonti letterarie, ma io credo che queste osservazioni siano più che sufficienti ad evidenziare che l’uso della parola BRANDICI sia molto antico. Con certezza già dalla fine del ‘400 perché oltre la silografia del 1538 e il testo tradotto dell’Eneide la troviamo negli Annali Veneti. E penso che, provenendo molto probabilmente dalla derivazione latina BRANDICIUM sia ancora più antico ed incredibilmente sopravvissuto almeno fino alla prima metà del Seicento come attestano i documenti indicati nei primi punti, ma certamente molto meno usato di BRANDIZZO/BRANDIZO.

La mia ipotesi finale è che BRANDICI sia stato sicuramente poco utilizzato, ma è stato in uso per un periodo piuttosto lungo, ipotizzabile a circa due secoli almeno. Il nome proviene molto probabilmente da BRANDICII così come da li proviene BRANDICIO, a loro volta derivanti da BRANDICIUM, che successivamente hanno perso la seconda I o la O.

Quando sia nato esattamente non lo si può sapere, ma certamente prima del XVI secolo. Nasce quindi in tempi molto lontani, che si originano nel medioevo con BRANDICII e BRANDICIO, ed ha resistito in parallelo con i più noti BRANDIZIO e BRANDIZZO, per essere poi soppiantato quasi definitivamente da BRINDISI nel corso del ‘600.

Per l’accento non mi esprimo, il dilemma resta come bene lo evidenzia Armando Polito, nessun documento lo riporta purtroppo.

Queste considerazioni, secondo me, si incastrano abbastanza bene con la supposta evoluzione dei toponimi, le fonti citate, e le caratteristiche tecniche e cartografiche del documento.

Mi rendo conto di essere stato pesante, e probabilmente impreciso in diverse interpretazioni, non essendo un linguista ne uno storico, ma non volevo tenere per me il frutto di queste ore spese a cercare la parolina magica ritrovata nei testi suddetti.

Al solito mi appello a chi ha le competenze per eventuali approfondimenti e spero che qualcun altro possa completare a ritroso queste ricerche evidenziando ulteriori documenti che riportano questo toponimo.

Le mie sono semplici osservazioni, spero costruttive, che ho sentito di condividere per quanto amo l’opera che ha generato questi articoli e per la logica convinta che mi ha portato a comunicarla,  che altro non è che la versione razionale della mia passione per Brindisi, il suo porto, il suo mare, la sua storia.

 

 

 

 

A proposito di BRANDICI – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Tra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del Conte Alessandro Mattei, Signore di Novoli

di Gilberto Spagnolo

L’aver confermato l’esistenza, fino a ieri controversa, della “Biblioteca” del Conte Alessandro Mattei citata dal Marciano (“… il Museo del quale è ricchissimo di molti libri di tutte le scienze greche e latine, che non ha pari nella provincia”) poi scomparsa del tutto, grazie a un “ritrovamento fortuito” (ironia della sorte) di alcuni suoi libri presso la Biblioteca Innocenziana di Lecce, ha certamente dimostrato la veridicità della testimonianza del filosofo di Leverano, ovvero gli indubbi meriti di Alessandro nel campo culturale e le sue “virtù mecenatiche” (lo chiama, infatti, “eruditissimo, saggio e prudentissimo Principe”) nonché, come abbiamo sempre sostenuto, la profonda tradizione umanistica della sua nobile famiglia che lo stesso Marciano, nella sua Descrizione, aveva contribui­to a fondare con accenti tanto ammirati da sfiorare il mito.

ARCHIVIO DI STATO DI LECCE, “Sigillo dei Mattei” (il sigillo si trova in calce ad un documento autografo di Paolo Bonaventura Mattei, padre di Alessandro III.

 

Come annotato sui frontespizi, ben diciannove sono i volumi che provengono da questa Biblioteca (ex libris – “ex Biblioteca Alexandri Mathej”), dieci costituiti dall’Opera di Sant’Agostino pubblicata a Parigi nel 1586 e nove rappresentati dai Commentaria di Alfonso Tostati, filosofo e teologo, pubblicati a Venezia dai fratelli Sessa nel 1596; volumi puntualmente catalogati in un recente studio di Lorella Ingrosso e suscettibili, probabilmente, di ulteriori acquisizioni se si considera che il patrimonio librario della Biblioteca Innocenziana preso in esame dalla Ingrosso è composto “da circa cinquecentosessantacinque esemplari ed è riposto temporaneamente in una stanza-deposito al primo piano del Seminario in uno stato di completo abbandono, poiché i volumi presentano guasti endogeni ed esogeni”.

BIBLIOTECA PROVINCIALE LECCE, Ms. n. 63, “Libro IV di Alessandro Mattei composto nell’anno 1645” (frontespizio).

 

Dopo aver dimostrato la fondatezza della testimonianza del De Magistris, grazie al ritrovamento presso la Biblioteca Apostolica Vaticana del documento in cui l’Holstenio attesta l’esistenza del cappuccino Frate Lorenzo di Sancta Maria de Nove quale autore di una carta geografica di Terra d’Otranto edita nel 1617, questo ritrovamento, ad ulteriore dimostrazione della “provvisorietà della ricerca storiografica” mi spinge a rimeditare ed approfondire un altro aspetto non meno interessante della Vita del nostro Conte “mecenate”, quello cioè di essere anche probabile autore di un’opera geografica, fatto questo che si inserisce direttamente in una complessa questione che ancora oggi è fortemente dibattuta e non ancora certamente completamente definita, ovvero la sicura attribuzione della Descrizione, Origini e successi della Provincia d’Otranto stampata dall’Albanese a nome del Marciano.

Sensibile all’esortazione di Block a cercare comunque “l’uomo vivo sotto la polvere degli archivi e nel silenzio dei musei”, queste pagine vogliono soprattutto riunire i risultati di una ricerca che cerca di focalizzare ed analizzare meglio le fonti individuate tentando perciò di far emergere nella “giusta luce” ed obiettività anche questo argomento.

I primi riferimenti all’opera geografica di Alessandro Mattei si ritrovano nelle opere del Tasselli (Eredi di Pietro Micheli 1693) e del Montorio (Napoli 1715). Nella “nota degli Autori che si citano in questo libro” (Antichità di Leuca) si legge infatti: “Alessandro Mattei, Conte di Novole, nella sua Geografia Manoscritta”. Ed ancora “Dopo questi l’anno 1615, soperchiarono tanto le piogge, e l’acqua la nostra Provincia, ed in specialità tutto questo Capo Salentino, che le profonde voraci e meravigliose di Barbarano si empirono tutte a’ dismisura, /…/. Laonde per tali soperchiamenti di acqua, dice Girolamo Marciano, Alessandro Mattei nella sua Geografia, che si videro in quel tempo mostruosi serpenti”.

Il Montorio nella sua opera Zodiaco di Maria ovvero le dodici Province del Regno di Napoli... fa lo stesso riferimento, ma in maniera più dettagliata: “L’anno 1615 furono così direte le piogge, specialmente in quella Provincia e Promontorio, che le voraci meravigliose di Barbarano restarono affatto prive d’acqua mondanti, ed in Salve, crescendo l’acqua fuor di modo. anche in luoghi sollevati alzaransi fino ad otto palmi, restando affogate una fanciulla di anni dieci: quindi in memoria di tal prodigio diluvio Don Donato Maria de Notariis Teologo di Salve, e, Canonico della cattedrale di Castro, segnando il luogo dove arrivarono l’acque espresse in un marmo il lutto con questo distico: Lustrum aderta trinum, bisque octo saecla salutis, cum usque huc, submersa Virgine, venit aqua. Anzi come affermano Geronimo ed Alessandro Mattei nella sua Geografia, si videro in quel tempo mostruosi serpenti, uno dei quali fu osservato in Cesarea di smisurata grossezza, e lungo palmi dieci. Due se ne osservarono in Arneo con due teste per chiacheduno: Ma quando tali fondazioni parea che volessero rovinare quel sagro tempio ed impedire il concorso de’ popoli non solo restò quello intatto, ma accrebesi in quelli l’affetto, ed ossequio verso la Vergine”.

Le citazioni, come si può notare, evidenziano una netta distinzione tra le due opere e ciò trova ulteriore conferma nell’opera del Tasselli che, sempre nella “Nota degli Autori che si citano in questo libro” riporta anche, oltre alla “Geo­grafia Manuscritta” del Mattei una “Girolamo Marciano di Liberano Geografia”. E la stessa cosa fa intendere quando dice ancora “Dopo questa il sig. Alessandro Mattei Conte di Novoli, eruditissimo Cavaliere con Girolamo Marciano Medico di Liberano ci danno utilissime e erudite notizie di nostra Provincia /…/”, dove quel “ci danno” potrebbe anche intendersi come due opere distintamente consultate.

BIBLIOTECA PROVINCIALE “N. BERNARDINI” LECCE, Annotazione di L.G. De Simone sui manoscritti “Opere di Alessandro I Mattei Conte di Palmariggi”.

 

Carta 446 con i riferimenti ad Alessandro Mattei e Francesco Guerrieri (dalla Descrizione, origini e Successi della Provincia d’Otranto, manoscritto datato 1716, collezione privata).

 

Un’interessante e simile annotazione vi è anche nel manoscritto D/5 della Biblioteca Arcivescovile pubblica “Annibale De Leo” di G.B. Lezzi da cui emerge che “Mattei / Alessandro / Conte di Novole …eruditissimo Cavalier con Girolamo Marciano di Leverano ci danno utilissime ed erudite notizie di nostra Provincia”.

Nella Biblioteca Provinciale di Lecce sono conservati sei manoscritti dell’opera del Marciano. Due completi (n. 58 e n. 59), uno limitato ai libri I e II (n. 261), uno a parte del libro III oltre ai libri I e II (n. 61), due al solo libro IV (n. 62 e n. 63). Quelli che fanno riferimento al Mattei sono il n. 61 ed il n. 63. Nel n. 61, sul Frontespizio si legge: Descrizione, Origini e Successi della Provincia d’Otranto, libro p° del sig. Alessandro Mattei Conte di Palmarici. Del sito e Provincia del’Italia intentione del’Autore e del’Antichi nomi della Provincia d’Otranto. Capo p° L’Italia annosissima regione del’Europa”.

È questo un manoscritto di pp. numerate 443 seguito da due facciate non numerate. La prima contiene il seguito dell’opera che è mancante delle pp. successive, e l’altra una specie d’indice delle materie macchiato in varie pagine, ma del resto ben conservato.

Carattere leggibile, ad eccezione di quella non numerata 444 alquanto illeggibile perché molto macchiata e con qualche parola che è stata ripassata con l’inchiostro. Secondo il Foscarini “è questa una delle tante copie ms che un tempo correvano per le mani degli studiosi e la cui paternità ora era attribuita ad Alessandro Mattei, ora a Girolamo Marciano”. Nel n. 63, al Frontespizio si legge “Libro IV di Alessandro Mattei composto nell’anno 1645 delli successi ed Origine della Provincia d’Otranto. Presso alcuni Autori si riscontra che quest’opera sia di Girolamo Marciano. Per venirsi a chiaro di una tal questione si riscontra il Capo XIII del presente ms”. È questo un Ms. di pp. num. 321 seguito da 11 pp. non numerate contenenti l’indice degli uomini insigni e delle materie. Il Ms. con qualche tarlatura è discretamente conservato, il carattere è minuto, ma chiaro. Il Foscarini vi annotò che “l’autore non è Mattei, ma Marciano” mentre il Capo XIII per risolvere la questione è quello che riguarda Novoli.

Dedica autografa di Luigi Giuseppe De Simone (Datata “Villa S. Antonio, 6 ottobre 1893) allo storico novolese Giovanni Guerrieri in cui gli augura “che rinnovelli il Conte del suo paese Alessandro Mattei, scrivendo di Terra d’Otranto (collezione privata).

 

Nei manoscritti n. 62 e n. 63, a proposito del Padre Francesco Guerrieri vi è un particolare che non compare nell’edizione a stampa dell’Albanese. Nel ms n. 62 si legge, infatti: “Vive oggi parim.te di questo luogo il Dotts.mo e non a pieno lodato Padre Francesco Guerrieri dell’Ordine e Congregazione dei Padri Gesuiti, Filosofo, Teologo, Poeta ed Oratore Illustre”.

Nel Ms n. 63 si legge invece: “Vive oggi parimente di questo luogo il dottissimo, e non mai lodato Padre Francesco Guerrieri dell’Ordine e Congregatione de’ Padri Gesuiti,  filosofo, teologo, poeta ed oratore illustre, e lume dell’età nostra, singolare nella greca e latina lingua in questa Provincia”. Nel testo a stampa si legge invece: “Vive oggi parimente di questo luogo il dottissimo P. Francesco Guerrieri, Gesuita, filosofo, teologo, poeta ed oratore illustre e lume nell’età nostra, della greca e latina lingua in questa provincia”.

L’affermazione “e non a pieno lodato” o “e non mai lodato” stranamente non compare nel testo a stampa, affermazione molto importante poiché solo chi aveva conosciuto a fondo il Padre Guerrieri poteva esprimersi in tal senso. È questa una tipica dimostrazione di come il testo originario della “Descrizione” sia stato manipolato, alterato, saccheggiato e anche di come sia ancora difficile l’attribuzione o paternità poiché tale affermazione sul Guerrieri poteva farla benissimo sia il Mattei che il Marciano. Ad ulteriore riprova di tutto questo segnalo l’esistenza, presso una biblioteca privata, di un’altra copia manoscritta e completa della Descrizione datata 1716 ed appartenuta ad un giurista napoletano. Anche in questo manoscritto che si compone di 550 cc. complessive in chiara grafia ad esempio, esaminando le carte relative al maestro di Alessandro Mattei, (Donato Castiglione Oritano soprannominato l’Argentario) o quelle sul Casale di S. Maria de Nove e il padre Francesco Guerrieri si riscontrano ulteriori ed importanti differenze (“… uscirono dalle sue scuole, dottrine, come dal cavallo troiano generosi soldati… mi ridussi in questo luogo, quasi in una remota villa... e non appieno lodato Padre Francesco Guerriero Gesuita…”).

In conclusione, le fonti di riferimento esaminate ci spingono, anzitutto, realisticamente a considerare l’effettiva esistenza di due opere ben distinte e definite, di cui, quella del Mattei una Geografia della Terra d’Otranto (come la ricordano il Crollalanza e il De Simone) probabilmente dispersa (come la ricorda Michele Paone “… Alessandro Mattei autore di una dispersa opera geografica”) anche perché, come dice il De Simone “è impossibile a credere che vivente come era, il Mattei suo mecenate, il Marciano gli avesse commesso spudoratamente un plagio dell’epoca in parola” o lo stesso Marti secondo il quale “il Marciano dovette non poco attingere alla erudizione del Mattei, ragione, forse, reale per cui non si era determinato mai a pubblicare col proprio nome un libro di necessaria e continua collaborazione”.

La sorte che negò al Marciano, come sottolinea Vittorio Zacchino, la gioia del battesimo cartaceo della sua corografia” (restando manoscritta subì le varie contaminazioni ed interpolazioni) e la lunga ospitalità di Alessandro Mattei hanno poi probabilmente generato una certa confusione.

Nel Dizionario bio-bibliografico di personaggi salentini, ms. in deposito presso l’Archivio di Stato di Lecce si legge: “Alessandro Mattei Conte di Palmariggi e Signore di Novoli, fù (sic) letterato di grido nel secolo XVII. Le nostre tradizioni letterarie ci assicurano che lui fù (sic) l’autore della Descrizione, Origini e Successi di Terra d’Otranto che ora và sotto il nome del Marciano. Noi non possiamo darne un adeguato giudizio non avendo ragioni per affermarlo o negarlo però il lettore potrà giudicare da se stesso dalle seguenti parole del Marciano Medesimo” (Ed di Napoli pag. 472 segue il passo che lo riguarda).

Ed è qui che occorre ulteriormente riflettere.

Quando il Marciano viene a Novoli la sua opera è quasi conclusa (“per finire comodamente”) o perlomeno a buon punto; il Mattei con la sua vasta cultura, con la sua ricchissima biblioteca, lo aiuterà appunto “a porre l’ultima mano” (la Descrizione è, infatti, come scrive Zacchino e come testimoniano anche i libri ritrovati, ricchissima di citazioni erudite di autori antichi e moderni, salentini e non salentini).

Viene solo spontaneo chiedersi se è vero come è vero che il Marciano secondo gli studi del Cosi stette a Novoli dal 1615 al 1620, di che consistenza, di quale spessore fossero stati i suggerimenti del Mattei “all’ultima mano” della sua Descrizione.

E a tal proposito, un’ultima importante considerazione.

Quando Francesco Antonio De Giorgi nella sua opera rimasta inedita sulle Famiglie Nobili Leccesi (nella Biblioteca Provinciale di Lecce, di essa, si conservano un manoscritto datato Napoli 1780 ed un altro con aggiunte di Ermenegildo Personé) presenta il Mattei come colui che si è “sommamente delle opere cavalleresche dilettato ed è delle lettere e de’ letterati grandemente amatore e perciò ha sempre tenuto appresso di sé in gran preggio gli uomini ornati di cotali virtù” il Conte di Novoli è ancora vivente.

Che questa sia una significativa fonte coeva (si spiega quindi l’uso del tempo presente nella citazione) come il sonetto dedicatogli da Cataldantonio Mannarino, lo apprendiamo da Domenico De Angelis il quale nella sua rarissima opera sulla Vita di Scipione Ammirato scrive testualmente: “…e Francesco Antonio Giorgio anch’egli letterato leccese, come che dipendesse da’ Giorgi Nobili Veneziani, nel Compendio ms. della Nobiltà delle Famiglie di Lecce, scritto nel primo di Gennaio I 613…”.

Questa fonte ci permette infine di capire, indirettamente, le ragioni per cui L. G. De Simone attribuisce (sulla base di alcuni riscontri oggettivi) altre due opere manoscritte di diverso argomento conservate anch’esse presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, ad Alessandro II Mattei, signore di S. Maria de Novis (Novoli).

 

Lecce, Archivio Curia Arcivescovile, “Augustini Hipponensis Episcopi”, frontespizio (ex Bibliotheca Alexandri Mattej).

 

In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. X, 20 luglio 2003, pp. 33-36 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 221-226, Novoli 2024.

 

Riferimenti Bibliografici Essenziali

G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in “Contributi”, a. IV, n. 4 Maglie 1985.

G.B. Crollalanza, Dizionario Storico Blasonico delle Famiglie Nobili e Notabili Italiane estinte e fiorenti, Rist. An. del 1866, Forni, Bologna.

D. De Angelis, Vita di Scipione Ammirato scritta da Domenico de Angelis, in Lecce, dalla Stamperia Vescovile 1706.

A. Laporta, Il Cinquecento leveranese e la figura di Geronimo Marciano in Leverano e il Convento di S. Maria delle Grazie, Leverano 1984.

L. Ingrosso, Proposte per un recupero del Patrimonio librario della Biblioteca Innocenziana di Lecce. Un fondo da salvare: la biblioteca di Alessandro Mattei Signore di Novoli, in “Lu Lampiune”, a. XIII, n. 2 1997.

O. Mazzotta, Ex Biblioteca Alexandri Mathej, in “Camminiamo Insieme”, a. VI, n. 3 marzo 1999.

P. Serafino Montorio, Zodiaco di Maria, ovvero li dodici Provincie del Regno di Napoli etc, in Napoli, per Paolo Beverini, MDCCXV.

D. Novembre, Gerolamo Marciano, corografo di terra d’Otranto nel primo seicento, in “Studi Salentini”, aa. XLIII-XLIV, marzo-dicembre 1973.

M. Paone, Società e cultura in Terra d’Otranto tra Rinascimento e Barocco, in Ricerche e Studi in Terra d’Otranto, II Cellino San Marco 1987.

M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei, Signori di Novoli, in “Camminiamo Insieme”, a. XII, n. 1 gennaio 1998.

G. Spagnolo, Novoli, Origini, Nome, Cartografia e Toponomastica, Novoli 1987.

G. Spagnolo, Il Principe Perfetto “Giovanni Antonio Albricci terzo (testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), estratto da Quaderno di Ricerca, Salice Salentino ottobre 1989.

G. Spagnolo, Storia di Novoli, Note ed Approfondimenti, Lecce 1990.

G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, Introduzione di Mario Cazzato, Lecce 1992.

G. Spagnolo, Dalle Rime del Mannarino un sonetto ad Alessandro Mattei, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XVI, Novoli 17 gennaio 1992.

L. Tasselli, Antichità di Leuca città già posta nel capo salentino, in Lecce presso gli eredi di Pietro Micheli, 1693.

BRÀNDICI o BRANDÌCI? Questo è il problema!

di Armando Polito

Scomodare o, peggio, scimmiottare  Shakespare per accaparrarsi mezzo lettore in più in tempi di anoressia culturale e di bulimia mediatica con annessa irreversibile obesità cerebrale, appare a me stesso patetico. D’altra parte, anche la saggezza, che un tempo era condensata nei proverbi e tramite loro tramandata, più che latitante, è stata da tempo vilipesa, annientata e sotterrata, in attesa di un’altra improbabile riesumazione e rianimazione. Per questo non posso nemmeno mettere in campo i salentini (il primo tal quale è in italiano) Batti lu fierru quandu è ccautu (Batti il ferro quand’è caldo, traduzione, come quella del successivo,  aggiunta per gli stanieri …) e ‘Mar’allu muertu ca non è cchiantu allora (Situazione amara per il morto che non è pianto al momento). Se continuo così, però, rischio che mi mandi a quel paese anche lo sparuto gruppetto di disperati come me praticanti quella che per non pochi sarà masturbazione mentale. Infatti il titolo dovrebbe (non a caso uso il condizionale …) far intuire a qualsiasi lettore che tutta l’attenzione sarà rivolta alla posizione di  un semplice accento, una qusquilia .., direbbe (qui uso il presente del condizionale, perché i veramente grandi non muoiono mai, almeno finché non sarà morto l’ultimo in grado di capirne la grandezza) Totò, quando è invalso l’uso disinvolto della grammatica e quello casuale dei segni di interpunzione, senza che ci si renda nemmeno conto degli esilaranti (per chi ne conosce l’uso corretto) quanto inconsapevoli (per chi è vitttima di autopresunta geniale) equivoci che molto facilmente si possono creare. E allora? Avevo assunto qualche giorno fa un impegno1 connesso con un tentativo di soluzione del dilemma del titolo e, siccome, non essendo un politico, non campo, di semplici promesse  (almeno fino ad elezione avvenuta …) o (e già sarebbe il massimo dell’onestà ad elezione avvenuta …) di annunci di decisioni ridicole dall’impatto risibile sulla realtà, mi metto in gioco (ma non per interesse personale o di mangiatoia ipocritamente ergendomi a paladino del bene comune, contando sulla disperazione o la dabbenaggine, spesso in coppia con l’ignoranza, di chi mi ascolta) ed esprimo il mio parere, nella speranza che persone più competenti di me lo correggano, lo integrino, lo demoliscano pure e sulle macerie del mio costruscano il loro.

È intuitivo che in casi del genere per procedere bisognerà passare in rassegna le varie forme che inevitabilmente il toponimo ha assunto nel tempo. Nel nostro caso, in particolare, una complicazione non da poco è data non tanto dall’incredibile numero di varianti, quanto dal fatto che non poche tra loro risultano coeve. Lascio volutamente da parte ogni riferimento al mondo messapico e greco, basato sulla tradizione indiretta ed assumo come punto di partenza il latinono BRUNDÌSIUM,  per giungere all’attuale BRÌNDISI, colmandone il provvisorio vuoto in progressione cronologica con i vari toponimi, sui quali, come ho già fatto per i due estremi, porrò sempre l’accento, anche perché, come vedremo, la sua posizione non è sempre chiara, nemmeno quando, per così dire, d’istinto, il toponimo dovesse essere sembrato piano o tronco

Il mio compito sarà agevolato dall’eccellente lavoro di Nazareno Valente2, dei cui dati mi avvarrò, aggiungendo solo qualche dettaglio relativo alle fonti e qualche anello mancante (con iconografia, quando è stato possibile), consapevole, come lui e lo scopritore di Brandici, che qualcun altro, forse …, arricchirà a breve la collezione con l’aggiunta, magari, di un gioiello più o meno prezioso, anche se fatalmente non ultimo.

BRUNDISIUM

Cicerone, Filippiche, passim

Orazio, SatIre, I, 5, v. 104

 

BRANDIZIO

XIII-XIV secolo

Dante, Purgatorio III, 27): Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto

Giovanni Villani, Nuova cronica, passim.

 

XIV secolo

Giovanni Boccaccio   , Decameron, novella quarta della seconda giornata): …  montato sopra una barca, passò a Brandizio      

 

XV-XVI secolo

Gian Giorgio Trissino, L’Italia liberata dai Goti, passIm

Luca Landucci, Diario fiorentino: … E ‘l Re di Spagna in Puglia n’ aveva avute sette, insino a questo dì 8 di giugno 1509, che fu Otranto, Cuttone, Brandizio, Trani, Napoli, Fulignano, Nola

 

BRANDUZO

Portolano di Angelino Dulcert datato  1339

 

BRINDISIO

Girolamo Ruscelli, Rimario; cito dall’edizione Bigonci, Venezia, 1657,  p. 382: Branditio, Città più volgarmente Brindisio.

(…  dopo Brindisio nella napoletana Terra D’Otranto nel golfo di Venezia …)

 

BRUNDIZIO 

XV secoio

Giovanni di Antionio da Uzzano, La pratica della mercatura, trattato del 1442, in Della decima e delle altre gravesse etc., s. n., Lusbona e Lucca, 1766, tomo IV, pp. 214 e 216.

 

BRINDI

XVII secolo

Portolano di Agustin Roussin

 

Conclusione rispetto al dilemma del titolo: premesso che la forma più breve, BRINDI, al pari di BRANDIZ segnalato dal Valente, potrebbero essere  una sorta di adattamento alla lingua degli autori, il toponimo  ui sotto esame appare come il frutto di un lungo processo di dimagrimento, iniziato con BRANDÌCIO, da considerarsi forma parallela, foneticamente parlando, rispetto  a BRANDIZIO (che, da Dante continua fino al XVI secolo), BRANDÌTIO, BRUNDÌZIO, BRINDISIO e gli altri presenti nel lavoro citato di Nazareno Valente, al quale rinvio per le fonti:  BRANDIZZO3, BRANDÌTIA, BRUNDÌZIO, BRANDÌZO, BRUNDÌSIA, BRANDÌZIA, BRANDÌTIO4, BRUNDÌSIO e BRONDÙSIO. Tale dimagrimento sembra continuare nei restanti, che scrIvo per ora senza accento:  BRANDIÇO, BRANDIZI, BRINDESE, BRINDESI, BRINDISE, BRINDICI e vi aggiungo BRANDUZO5. Il lettore noterà come il fenomeno del dimagrimento coinvolge il toponimo sia quando esso mostra come prima vocale a, sia quando mostra u o i, per cui no sembra dipendere da questa. Secondo me, e lo dico consapevole del rischio di essere accusato di follia neppure tanto lucida, bisogna tornare al punto di partenza ( BRUNDÌSIUM), tenendo d’occhio contemporaneamente, però, quello di arrivo (almeno al momento attuale …), cioè BRÌIDISI.  BRUNDÌSIUM è parola di  quattro sillabe. Tale numero si sarebbe dovuto conservare nelle forme diretttamente da esso derivate prima del dimagrimento. Ma in italiano –io e –ia formano dittongo, per cui i toponimi che li contengono sono trisillabi. Finché tale dittongo si è conservato, l’accento non ha subito spostamento rispetto al latino, ma, quando il dittongo –io/-ia si è contratto, l’accento si è ritratto sulla sillaba precedente, fino a dare BRÌNDISI e non BRINDÌSI. Nella arbitrarietà capricciosa che non di rado accompagna l’uso della lingua ci sono da mettere in campo, tra le altre, motivazioni di carattere psicologico talora legate anche al pregiudizio e, voglio usare una parola grossa, al razzismo. A tal proposito mi paiono emblematicI i  casi di  ÒTRANTO e TÀRANTO, rispettivamente derivanti  dal latino HYDRÙNTUM e TARÈNTUM, da cui ci si sarebbe aspettato OTRÀNTO  e TARÀNTO. Di ciò che la toponomastica ufficiale, si presume dotta, non ha rispettato, ha conservato memoria il popolo con la pronuncia OTRÀNTO e non mi meraviglierei se qualche filologo con la puzza sotto il naso sentenziasse che si tratta di uno spostamento volgare  dell’accento attuale, essendo più semplice la pronunzia di una parola piana rispetto ad una sdrucciola, con buona pace del griko Derentò , che di origine rivendica quella quanto meno bizantina.  Sarei curioso, poi, di sentire cosa si inventerebbe per TARÀNTO, semplicemente rispettoso dell’accento latino, essendo esso dal greco Τάραντα (leggi Tàranta), accusativo di  Τάρας. TARÈNTUM, non poteva conservare l’accento della voce greca per motivi metrici: la sua penultima sillaba è lunga perché costituita da una vocale (e) seguita da due consonanti (nt), il che obbliga a pronunciare Tarèntum e non Tàrentum.

E, per decidere su BRÀNDICI o BRANDÌCI, era necessaria tutta questa pappardella? Lo era, perché potessi concludere, di fronte ai pochi rimasti a leggere queste righe ed a sorbirsi le conseguenze digestive della suddetta pappardella, come me  quanto meno diffidenti rispetto all’ipse dixit, con un atto di onestà intellettuale: al momento in cui scrivo non so dare una risposta definitiva che, forse, non esiste. Come si fa a ricostruire tutte le ragioni che hanno fatto, nel nostro caso, di un toponimo un campione di trasformismo? Come si fa a stabilire, se così è andata, quando da BRANDÌCIO si passò a BRÀNDICI  direttamente o attraverso BRANDÌCI?

Dati i precedenti  con altre carte antiche, non è dato nemmeno sperare che prima o poi ne esca una con qualche toponimo accentato, nemmeno per quelli che si presumono tronchi come succede, ad esempio, per  NARDÒ, col paradosso di trovare immancabilmente  nei manoscritti, ma anche in libri a stampa, parole latine rese tronche: ad esempio, gli avverbi vere (o vero) e vulgo scritti verè (o verò) e vulgò.

In attesa che la tecnologia sia in grado di operare quello che oggi sarebbe classificato, se riuscisse, come miracolo, cui ho accennato nel post segnalato col link di nota 1, se qualche perverso vi chiede lumi sull’esatta pronunzia, assumendo un atteggiamento consono, uscitevene col neritino E cce sso’, pèttule?, affrettandovi a tradurlo ed ad interpretarlo  al simpatico curiosone, prima che gli sia servito il sunto della pappardella, per evitare che, giunti ad un certo punto, tramite il suo telefonino di ultima generazione, chieda per voi un TSO, estensibile al sottoscritto …

___________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/06/04/a-proposito-di-brandici/

2 https://archeobrindisi.wixsite.com/archeobrindisi/i-nomi-che-hanno-identificato-brindisi-

3 Aggiungo solo che in Girolamo Brusconi, Elucidario poetico, Conzatti, Venezia, 1667a p. 78 si legge: Brandizzo è una città della Puglia sul mare Adriatico, oggi Brindisi.

4 Attestato fino al XVI secolo: Girolamo Ruscelli, Rimario; cito dall’edizione Bigonci, Venezia, 1657,  p. 382: Branditio, Città più volgarmente Brindisio.

5 Me ne ero già occupato in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/17/la-terra-dotranto-ombelico-del-mondo-nel-1339/.

 

I libretti per nozze della Biblioteca nuziale salentina

Nel teatro della memoria.

I Nuptialia del 1734
di Luigi Sanseverino Duca di S. Pietro in Galatina
e Cornelia Capece Galeota Duchessa di Sant’Angelo

 

di Gilberto Spagnolo

 

“Ma pur se brami,

che ti venga di porgere

Delle future nozze indizio

Mobile. E allo studio

Primier debbo risorgere”1

I riti nuziali de’ Greci, impressi da Jacopo Grazioli nella sua stamperia in Firenze il 29 settembre del MDCCLXXXIX. Frontespizio (coll. privata).
Il costume di scrivere poesie e versi in occasione di un evento nuziale proviene dalla letteratura greca. Il termine Nuptialia infatti indica i testi scritti in occasione delle nozze, testi riconducibili a due specie allora esistenti: l’epitalamo e l’imeneo. Nel Rinascimento questo genere letterario torna di moda in Italia. Ciò non significa che questi testi non esistessero durante il Cristianesimo. Tutt’altro2.
Olga Pinto (autrice di quel vastissimo repertorio che è Nuptialia. Saggio di bibliografia di scritti italiani pubblicati per nozze) afferma infatti che sono esistiti fino al IX secolo e poi scomparsi fino al 1484, quando a Padova Matthaeus Cerdonis diede alle stampe la poesia Carmina pro epithalamo Sigismundi archiducus di Franciscus Niger in occasione del matrimonio tra Sigismondo d’Asburgo e Caterina di Sassonia. Opere celebrative di tali eventi per nozze rappresentano un genere letterario che testimonia quanto questa abitudine sia diffusa particolarmente nella seconda metà del XVIII secolo. Abitudine che si caratterizza ulteriormente nel XIX secolo con una fioritura di pubblicazioni di inediti contenuti in particolar modo di lettere e di documenti storici, di ricerche araldiche filologiche e di ritrovamenti archeologici.
. DE DOMENICO, Una festa nuziale romana in casa della sposa, Napoli Stab. Tip. Pierro e Veraldi nell’Istituto Casanova, s.a. Copertina (coll. privata).

 

“CONTRATTO NUZIALE” della Baronessa Aurora Leuzzi e Benedetto Pagan, stipulato a Venezia il 23 dicembre del 1793. Frontespizio del manoscritto (coll. privata).

 

Nel secolo XIX, scrive ancora Olga Pinto, “le pubblicazioni per nozze furono stampate a migliaia in tutte le regioni della penisola, diventando una vera mania”3. I libretti per nozze, i Nuptialia, rappresentano, come esempio significativo, di quanto detto, “una vivace realtà dell’editoria bolognese”. Sono testimoniabili dal secolo XVI al XVIII e sono talvolta accompagnati da incisioni di pregio che vedono protagonisti gli artisti della scuola pittorica cittadina. Attraverso di essi emerge infatti, una nuova e ricca messe d’informazioni sul piano artistico, sul piano letterario, su quello sociale, nonché sulla fervente attività delle stesse tipografie bolognesi. I committenti sono ascrivibili per lo più alla classe senatoria mentre gli autori degli epitalami e delle odi encomiastiche sono gli accademici e gli scrittori in voga nel momento.
Questi testi perciò sono indubbiamente testimoni della nostra cultura e della nostra storia; sono ricchi di valori letterari e anche figurativi della nostra civiltà; sono indubbiamente protagonisti importanti e preziosi nel nostro “teatro della memoria4, perfetto nella sua dimensione e nella sua definizione.
FRANCESCO MARIA Guidano, Eustachia. Commedia. Ristampa dell’ed. di Venezia MDLXX per le nozze Caroprese-Mariano Mariano (coll. privata).

 

FRANCESCO MARIA GUIDANO, Discorso nel quale brevemente si ragiona della vera nobiltà, stampata a Venezia nel MDLXXIIII. Ristampa per le nozze Nielli-Mariano Mariano (coll. privata).

 

Miscellanea per le nozze di Armando Miele e Fiorella Palazzo, Fasano, Grafischena 1985. Copertina (coll. privata).

 

Nel campo della “Biblioteca Nuziale Salentina”, uno studio che rimane a tutt’oggi fondamentale dopo quello di Dennis E. Rhodes con il suo “Nozze e Famiglia” (pubblicato in Familiare 82 nel 1982, studi offerti per le nozze d’argento a Rosario Jurlaro e Nunzia Ditonno)5, lo ha fatto Alessandro Laporta, raccogliendo ben sessanta schede nuziali dei secoli XIX-XX e pubblicandole su “Studi di Storia e Cultura Meridionale” per le nozze d’argento di Vittorio Zacchino e Anna Orlandini, segnalando la presenza cospicua della Terra d’Otranto “in un genere ben lungi dall’essere tramontato”, smentendo “coloro che giudicavano questo costume fuori moda dimostrando come a partire dal 1970… lo stesso si fosse rinverdito e radicato negli ambienti salentini6.
Nozze Doria-Danese, Luigi Lazzaretti e figli. Copertina 1896 (coll. privata).

 

Nozze Salentine: composizione musicale di S. Coppola Juniore per le nozze di Giovanni Sorrentino e Maria De Donatis.
In quest’ottica vanno ad esempio certamente ricordate alcune raccolte censite dallo stesso Laporta nella sua ricerca, come quella che Nicola Vacca già nel 1955 realizzò per lo sposalizio della figlia Fausta Vacca, allorquando offrì agli sposi “Nuptiae Salentinae”, un’edizione privata di 101 copie numerate ad personam (estremamente rara e stampata a Lecce il 18 gennaio 1955)7. O la “Miscellanea Salentina” per le nozze di Mario Congedo e Lucia Lazzari (Edizioni dell’Almanacco del 25 luglio 1970)8. E ancora, la “Miscellanea per le nozze” di Armando Miele e Fiorella Palazzo, datata 26 Ottobre 19859. E la “Ristampa del Discorso del Sig. Francesco Guidani nel quale brevemente si ragiona della vera nobiltà”, stampato a Venezia nel 1574, edizione curata da Michele Paone per le nozze di Giuseppe Nielli ed Emanuela Mariano del 1 luglio 1989 e prim’ancora, qualche anno prima, la ristampa di Eustachia, sempre del Guidano, a cura dello stesso Paone, per le nozze di Vincenzo Caroprese e Natalia Mariano Mariano del 28 Giugno 198610.
In tale contesto intende porsi questo contributo, partendo soprattutto dal fatto che nel corso delle sue ricerche Alessandro Laporta “nulla o quasi aveva rinvenuto per i secoli dal XV al XVIII” concentrando così le sue ricerche sul XIX secolo11. L’omaggio librario collettivo composto per una occasione a tema nuziale che qui si presenta è invece settecentesco (prima metà) e oltre a riguardare una famiglia aristocratica di Terra d’Otranto ha soprattutto una particolarità, come si vedrà, molto importante in particolare per gli autori.
Vari componimenti per le nozze di D. Luigi Sanseverino e D. Cornelia Capece-Galeota. Frontespizio (coll. privata).

 

Appartenente a una collezione privata fu stampata a Padova nel 1734 per le “nozze degli illustriss. Ed eccellentiss. Signori D. Luigi Sanseverino principe di Bisignano, Paceco, S. Giorgio e Sanza, Duca di S. Marco e di S. Pietro in Galatina… e Cornelia Capece Galeota di Sant’Angelo”. Realizzata in 8°, di pp. (6) e 112, è una bella e raffinata raccolta di sonetti, odi, epigrammi e versi latini12. A Galatina, è noto, dopo i Castriota, ci furono per qualche decennio appunto i Sanseverino, e successivamente gli Spinola che durarono fino al 1801 allorquando subentrò Carlo Gallarotti Scotti13. Nella lettera dedicatoria a firma di Giuseppe Pascale Cirillo, datata Napoli 10 novembre 1734, i Sanseverino e i Capece – Galeota vengono elogiati con queste parole:
 “E chi v’ha che non sappia, che vi scorre nelle vene il più bel sangue di Francia tramandato in Voi da’ vostri Maggiori, che vennero nel Regno dintorno agli anni del Signore novecentotrenta in compagnia del famoso Ugo nipote dell’Imperador Carlo Magno? Chi non sa, che imparentarono più volte i vostri Antenati con Donne Regali, e benchè sbattuti sovente da forte nemico non lasciano giammai né per volger d’anni, né per variar di fortuna di essere illustri per lo splendore de’ titoli e de’ Baronaggi? A chi non è pervenuto il nome di Ruggieri I Conte di Marsico mandato dal Re Carlo suo vicario in Gerusalemme negli anni di nostra salute milledugentsettantotto? Di Roberto IX Conte di Marsico creato dal Re Ferdinando Principe di Salerno il dì penultimo di Gennaio dell’anno millequattrocentosessantatre? Per tacere le altre memorie più fresche, ma tutte grandi e tutte illustri del vostro Regal Casato, di cui son piene le Storie moderne, e le voci de’ Sapienti (14). Lascio adunque di annoverar partitamente le vostre Signorie di vostra famiglia, e lascio altresì di far parola della nobilissima famiglia CAPECE GALEOTA, ch’è stata sempremai, ragguardevole nella luce del Mondo per gentilezza ed onori, siccome ampia fede ne fanno ben molti valorosi Guerrieri, che salirono a i più sublimi gradi della Milizia, e tre sovrani Consiglieri di Stato, Ludovico, Ettore, e Carlo Galeota, il primo della Regina Giovanna II, il secondo del Re Renato, e ’l terzo del Re Ferrante I d’Aragona” (15). Alessandro Forges, Andrea Benincasa, Aniello Firelli, Antonio Antinori, Antonio Caracciolo, Antonio Minutolo, Ascanio di Bologna, Baldassarre de Caussis, Bonaventura de Marco, Carlo Recco, Domenico Caracciolo, Ferdinando Carafa, Francesco Caracciolo, Francesco Fontana, Francesco Magno Cavallo, Francesco Moles, Francesco Saverio Capece, Gaetano M. Brancane, Gennaro Perotti, Giambattista Capasso.
Vari componimenti etc. Versi di Giambattista Vico “Regio Professor di Eloquenza”.
 
Chiesa Matrice di Cavallino. Monumento sepolcrale dei Castromediano. Stemma Castrome-diano-Sanseverino (in M. CAZZATO, La Galleria Celeste, Mario Congedo Ed., Galatina 2016).

 

I versi e le rime degli autori presenti, “eletti spiriti” della città di Napoli, sono stati raccolti (come si legge nella lettera dedicatoria delle prime sei pagine) dal “dottissimo Cavaliere D. Antonio Minutolo soprattutto per il loro animo “di bella virtù” e per la loro “Gentilezza e Generosità. Gli autori sono infatti veramente molti e rispondono ai seguenti nomi: Achille Ambranese, Alessandro Forges, Andrea Benincasa, Aniello Firelli, Antonio Antinori, Antonio Caracciolo, Antonio Minutolo, Ascanio di Bologna, Baldassarre de Caussis, Bonaventura de Marco, Carlo Recco, Domenico Caracciolo, Ferdinando Carafa, Francesco Caracciolo, Francesco Fontana, Francesco Magno Cavallo, Francesco Moles, Francesco Saverio Capece, Gaetano M. Brancane, Gennaro Perotti, Giambattista Capasso, Giambattista Durini, Giambattista Vignali, Giannantonio Sergio, Gio. Tiresio M. Giron, Gio. Vincenzo Giron, Girolamo Biassa, Giuseppantonio de Lazzaris, Giuseppantonio Magri, Giuseppe di Stefano, Giuseppe M. Salerno degli Utili, Giuseppe Pasquale Cirillo, Idasio Cillenio, Incerto, Incerto accademico Ozioso, Isimene Promachiense, Luzio di Bologna, Matteo Egizio, Matteo Gennaro Testa, Niccolò Giliberti, Niccolò Recco, Niccolò M. di Fusco, Niccolò M. Salerno, Orazio Gaspari, P.M. Doria, Petronilla Guglielmini, P.M. Gruther, Pietro di Palma, Salvatore Caputo, Scipione Cigala, Scipione di Cristofaro, Silverio Gioseppo Cestari, Tommaso Mari, Vincenzo d’Ippolito, Urbano Vignali. Come si può notare, in questa rarissima prima edizione di tale raccolta di sonetti, figurano tra i suddetti numerosissimi autori molti esponenti delle principali famiglie napoletane (Capece, Caputo, Caracciolo, Carafa, Cigala, di Palma, Giron, Moles, Salerno, Sanseverino) oltre a una nobildonna, la principessa di Canneto Petronilla Guglielmini membro dell’Arcadia con lo pseudonimo di Euclea. Tra tutti, infine, spiccano “maestosamente” a p. 2 quattro versi latini di Giambattista Vico, “Regio Professor di Eloquenza”, sicuramente mai pubblicati e che così recitano:

 “Quidnam saeva sedens Martis super arma/

Hymenaeus/

Caelesti actat jsultus Amore facem?/

Bellica speratur taeda hac CORNELIA mater,/

Inclyte quae LODOIX, te nova nupta legit.16/

 

In Rassegna Storica del Mezzogiorno, n. 2-2017/2018, Organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, CMYK Tipografia, Alezio 2018, pp. 139-154.

 

Note

1 In Raccolta di Vari componimenti Poetici per le Nozze del Signor Conte Paolo Canale con la signora Contessa Vittoria Carleni dedicata a Monsignor Saverio Canale cherico di camera, Prefetto dell’Annona, e Pro-Commissario Generale dell’Armi Pontificie Dell’Abate Giambattista Luciani Segretario del sudetto Prelato, in Roma MDCCLV, nella Stamperia di Angelo Rotilij nel Palazzo de’ Massimi a S. Pantaleo con licenza de’ Superiori.

2 Scrive infatti Manuela Barducci: “I Nuptialia o scritti per nozze hanno origine in tempi molto lontani, probabilmente sono coevi alla nascita dell’“istituzione” matrimonio e del rito nuziale ed erano in uso nell’antica Grecia e presso i Romani. In Italia queste pubblicazioni costituiscono un genere letterario, ma forse sarebbe più corretto dire una “usanza sociale”, che si afferma a partire dal XVI-XVII secolo e che appare come un’evoluzione degli imenei greci, ossia degli inni cantati in coro da gruppi di giovani durante il trasferimento della sposa presso la dimora maritale, degli epitalami, cioè delle serenate e dei canti eseguiti la sera delle nozze davanti alla camera nuziale in segno di buon augurio e degli antichi fescennini romani, versi dal carattere tipicamente popolare, rustico espresso licenzioso cantati e recitati durante matrimoni, trionfi e feste anche agresti. Ne scrissero Saffo, Teocrito, Callimaco e Catullo per cantare e raccontare di nozze mitologiche o fantastiche. Nel Medioevo sembrano essere caduti in disuso, per trovare in auge con l’avvento e la diffusione della stampa. I Nuptialia pubblicati in Italia a partire dal XVI secolo hanno precise peculiarità: sono composizioni stampate contemporaneamente all’evento, matrimonio, dedicate a sposi reali e non mitici o, qualche volta ad uno o entrambi i loro genitori o fratelli o sorelle. Si tratta di un genere letterario considerato minore, che appare solo a margine della storia della letteratura italiana, poco studiato e trascurato dalla critica letteraria, diventando parte del rituale stesso delle nozze e rimasto in uso per ben quattro secoli (M. Barducci, “Per il giorno dellImene quattro versi ci stan bene. Una raccolta di scritti per nozze, in “invito a nozze. I Nuptialia della Biblioteca delle Oblate”, a cura di Manuela Barducci, Tipografia Bandettini, Firenze 2009, pp. 11-12; cfr., G. Rosi Maramotti, Le muse dImeneo. Metamorfosi letteraria dei libretti per nozze dal500 al900, 2 ed. accresciuta, Edizioni del Girasole, Ravenna 1996, pp. 7-8).
G. FORNARI, La festa delle nozze nell’antica Roma, Napoli 1892 (coll. privata).

 

3 Cfr., O. Pinto, Nuptialia. Saggio di bibliografia di scritti italiani pubblicati per le nozze dal 1481, al 1799, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1971, pp. I-XV.

4 Cfr., M. Pigozzi, Nuptialia: i libretti per nozze della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna, Volume 22 di Lexis; Biblioteca delle arti, Bologna, CLUEB 2010. Anche la Biblioteca dell’Archivio di Stato di Bologna conserva un fondo di pubblicazioni per nozze bolognesi costituito da ben 476 pezzi tra opuscoli, inviti e locandine stampati in occasione di nozze fra componenti delle famiglie nobili e aristocratiche della città di Bologna. In prevalenza sono nozze allo scopo di rafforzare le alleanze fra la nobiltà cittadina, ma anche alleanze esterne, con famiglie nobili di altre città. Le nozze sono celebrate con componimenti poetici (epitalami) e con odi encomiastiche per esaltare le virtù degli sposi e delle loro famiglie (Nel marzo del 2008 fu realizzata una mostra a cura di Giorgio Marconi e Francesco Nicita); cfr. anche Danielle Boillet, Il testo e l’immagine, a proposito del doppio contributo di Giovanni Luigi Valerio a raccolte per nozze (1607-1622), Linea Editoriale, Bologna 2017.

Pubblicazione per nozze stampata a Venezia nel 1590, recante un Epitalamo del poeta monopolitano Muzio Sforza (coll. privata).

 

P. Metastasio, Il Ruggero, Roma 1771. Frontespizio (coll. privata).

 

5 Dennis E. Rhodes, Nozze e famiglia: aggiunte di cinquecentine al British Museum (British Library) 1957-1982, in “Familiare ‘82. Studi offerti per le nozze d’argento a Rosario Jurlano e Nunzia Ditonno”, Brindisi, edizione amici della “A. De Leo”, Martina Franca, Arti Grafiche Pugliesi 1982.

6 A. Laporta, Bibliografia Salentina: sessanta schede nuziali (Sec. XIX-XX), in “Studi di Storia e Cultura Meridionali. Per le nozze d’argento di Vittorio Zacchino e Anna Orlandino”, Galatina, Grafiche Panico, 1992, pp. 155-167.

7 Nuptiae Sallentinae. Per lo sposalizio di Fausta Vacca con Augusto Giovannini. Lecce 18 giugno 1955, Lecce, editrice salentina, 1955, pp. 65 (figurano scritti importanti dello stesso Vacca, di Francesco Ribezzo, di Oronzo Parlangeli.

8 Miscellanea salentina per le nozze di Mario Congedo e Lucia Lazzari, Galatina, Edizioni dell’Almanacco (Galatina, Editrice Salentina), 25 luglio 1970, pp. 57 (con testi di Cesare Teofilato, Rosario Jurlaro, Vittorio Zacchino, Pietro De Leo, Nicola Vacca, Michele Paone).

9 Miscellanea per le nozze di Armando Miele e Fiorella Palazzo, 26 ottobre 1985, Fasano, Grafischena, 1985, pp. 105 (bella edizione cartonata in 4° con testi di Mario Marti, Luigi Sada, Alessandro Laporta, Mauro Spagnoletti, Donato Valli, Francesco Maria De Robertis, Orazio Bianco).

10 Francesco Maria Guidano, Eustachia. Commedia. Premessa di Michele Paone. Per le nozze di Vincenzo Lucio Caroprese e Natalia Mariano Mariano, 28 Giugno 1986, Galatina, Editrice Salentina, 1989, pp. 84. Dello stesso autore va citato anche il Discorso nel quale brevemente si ragiona della vera Nobiltà, in Venezia, appresso Gio. Battista Sessa e fratelli, MDLXXIIII. Ristampa, con premessa di Michele Paone, per le nozze di Giuseppe Nielli e Emanuela Mariano Mariano 1 luglio 1989, Galatina, Editrice Salentina 1989.

11 A. Laporta, Bibliografia Salentina: sessanta schede nuziali (Sec. XIX­XX), cit., pag. 145. Per il XIX secolo, merita una particolare citazione la pubblicazione realizzata per “le nozze Doria-Danese del dicembre 1896 e stampata a Lecce dalla “Premiata Tipografia e Litografia Luigi Lazzaretti e Figli”. Nella miscellanea sono presenti relativamente al lieto evento, importanti contributi di “illustri” amici quali Giuseppe Gabrieli, Gaetano Fiore, Ferruccio Guerrieri, Giovanni Guerrieri, Brizio De Santis.

12 VARJ/ COMPONIMENTI/ PER LE NOZZE/ Degl’Illustriss. Ed Eccellentiss. Signori/ D. LUIGI/ SANSEVERINO/ Principe di Bisignano, Paceco, S. Giorgio, e Sanza, Duca/ di S. Marco, e di S. Pietro in Galatina, Marchese di/ S. Lorenzo, Conte della Saponara, Chiaromonte, Al/ tomonte, Tricarico, Corigliano, e Mileto, Signore/ delle Terre d’Acri, Rotonda, Vingianello, Cirella, Cavaliere dell’Insigne Ordine del/ Toson d’Oro, Primo Barone, e Gran Giu/ stiziero del Regno, e Grande di Spagna/ di Prima Classe/ E/ D. CORNELIA/ CAPECE – GALEOTA/ Duchessa di Sant’Angelo/ IN PADOVA MDCCXXXIV/ Con licenza de’ Superiori.

13 Cfr., G. Vallone, Viaggi e Viaggiatori a Galatina, in “Guida di Galatina. La Storia. Il Centro Antico. Il Territorio” di G. Vallone, M. Cazzato, G. Vincenti, A. Costantini, a cura di M. Cazzato, Le Guide Verdi 15, Congedo Editore, Galatina, s. d. (2° edizione), p. 20.

14 Il Foscarini, nel suo Armerista, descrive infatti i Sanseverino come “illustre ed antica famiglia napolitana del seggio di Nido, che si vuole originaria di Normandia, la quale Contea di Sanseverino che Targisio ebbe, in Regno, circa la metà del secolo XII, da Roberto Guiscardo, trasse il proprio cognome. Fu insignita del Cavalierato di Malta nel 1537, del Grandato di Spagna di 1° classe e del Cavalierato del Toson d’oro. Possedette questa casa innumerevoli feudi, contee, Marchesati, Ducati e Principati. In Terra d’Otranto il feudo di Tafagnano, metà del casale di Morigino e parte di quelli di Giuggianello e Mianello; i casali di Parabita, Laterza, Soleto, Ceglie, Copertino, Galatone, Ginosa, Montesano, Calimera e Cannole; le Terre di Nardò e Massafra, la città di Ostuni, Castellaneta e Mottola; il Contado di Corigliano e quello di Soleto. Il Ducato di S. Pietro in Galatina lo possedette infine a seguito del matrimonio di Irene figlia di Ferrante Castriota – Scanderberg Conte di Soleto e Duca di S. Pietro in Galatina con Pietro Antonio Sanseverino Principe di Bisignano. L’Arma dei Sanseverino è: D’Argento alla fascia rossa (Cfr., A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto estinti e viventi con tavole genealogiche, premessa di Pietro De Leo, rist. Anastatica della 2° ediz. Di Lecce 1927, Arnaldo Forni ed., Bologna 1971, p. 267). Berardo Candida Gonzaga dedica diverse pagine alla casa Sanseverino, evidenziando che “è stimata per la sua illustrazione e potenza la prima del Regno ha goduto nobiltà nella città di Napoli al seggio di Nido, Milano, Genova, Vicenza, Modena, Piacenza, Capua, Lucera, Catanzaro, Cosenza e Castrovillari… La famiglia Sanseverino per la gran parte presa nei mutamenti di Governo, fu quasi che distrutta due volte. La prima dalla Casa Sveva per aver patteggiato col Papa; e la seconda da Re Ladislao, perché capitanò i Baroni napoletani che cercavano rivoltargli il Regno, allorchè egli partì per la conquista di Ungheria. Quando giunse nel Reame Carlo I D’Angiò, le potenti famiglie Sanseverino e Fasanella seguirono il suo partito per vendicarsi delle ingiurie ed infamie sotto la denominazione sveva… Dei Sanseverino sorgono monumenti in Napoli, Roma, Milano, Monferrato, Mileto, Saponara, Sanseverino, Marsico, Salerno, Diano e Pisa (B. Candida Gonzaga, Memorie delle Famiglie Nobili delle Province Meridionali d’Italia, Vol. II, Napoli, Stab. Tipog. Del Cav. De Angelis e figlio, MDCCCLXXVI, pp. 110-127). Di Luigi Sanseverino indica i seguenti titoli: “Grande di Spagna, Principe di Paceco, di Luzzi e di S. Giorgio o Grottole, Duca di S. Marco, Jelsi, Somma o Venosa, Marchese di Sansa, Sangineto e Casalbore, Conte di Potenza, Lauria, Turrito, Chiaromonte, Altomonte e Sanseverino, già Gentiluomo di Camera con esercizio e Presidente della Corte dei Conti, Cavaliere di S. Gennaro, dell’Ordine Gerosolimitano e Gran Croce di S. Gregorio Magno” (Ivi, p. 127). G.B. Di Crollalanza nel suo Dizionario storico-blasonico (Vol. II, Pisa 1888, p. 484) annota infine che “questa casa ha posseduto 384 baronie, 64 contee, 8 marchesati, 42 ducati e 40 principati ed è entrata nell’Ordine di Malta fin dal 1400. Fu insignita del Toson d’Oro e del Grandato di Spagna di 1° Classe; onorata dei titoli di Serenissima e Potentissima di Primi Casa del Regno, di principi del S. R. I., ascritta al seggio di Nido, al libro d’oro al patriziato di Venezia, Milano, Cosenza, Taverna, Catanzaro ecc.”

15 La famiglia Galeota è invece “una diramazione della Casa Capece ed è quella il cui nome tra le viventi famiglie si trova nel primo né i documenti conservati nel Grande Archivio in Napoli. Questa famiglia ha goduto nobiltà in Napoli al Seggio di Capuana, in Taranto ed in Teano. Fu insignita dall’Ordine Cavalleresco istituito nel Regno, e fu ricevuta nell’Ordine di Malta nel 1559. Sorgono monumenti dei Galeota nel Duomo e in diverse chiese di Napoli, nel duomo di Cosenza, in Liveri presso Nola e in Francia nella Cappella Reale d’Anghiers. Arma: Una sintesi composta di onde di Argento ed azzurro (Cfr., B. Candida, Gonzaga, Memorie delle Famiglie Nobili delle Province Meridionali d’Italia, op. cit., Vol. Terzo, Napoli, Cav. Gennaro De Angelis e Figlio, MDCCCLXXVI, pp. 100-109). Il Foscarini definisce i Galeota come “Nobile famiglia Tarentina originaria di Napoli, dove godeva nobiltà al Seggio di Capuana, ed importata in Taranto nel 1515 da Gio. Tomaso Galeota, già Ambasciatore al Re di Francia, a causa del suo matrimonio con la nobile Giulia Capitignani: In Terra d’Otranto possedette i feudi di Tafagnano, Saturo, Lucignano, i Casali di Salice e Guagnano, Casamassella e metà del feudo di Montemesola. Arma: una sintesi composta di onde di argento e di azzurro, al lambello di rosso nel capo attraversante sul tutto” (Cfr., A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle Famiglie Nobili, Notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, op. cit., pp. 154-155). Secondo il Crollalanza la famiglia Capece – Galeota di Napoli “Ha per capo-stipite un Galeotto Capece, figliuolo di Enrico Contestabile della Repubblica Napoletana, vissuto nel 1170. Ebbe il possesso di molti feudi, tra i quali alcuni con titolo di Conte, Duca e Principe; ed è goduto nobiltà in Napoli nel Seggio di Capuana. Ha occupato alti uffici e dignità civili; militari ed ecclesiastiche, e fu insignita di molti ordini cavallereschi. ARMA: Ondato d’argento e d’azzurro, al lambello di tre pendenti di rosso attraversante sul tutto. Alias: d’oro, a quattro fasce ondate d’azzurro” (G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Vol. primo, Pisa, presso la direzione del giornale araldico 1886 pag. 721).

Stemma araldico dei Galeota (da BERARDO CANDIDA GONZAGA, Memorie delle Famiglie delle Province Meridionali d’Italia, Bologna 1965).

 

16 Traduzione: Perché mai, sedendo sulle crudeli armi di Marte/Imeneo/ lancia la fiamma sostenuto dall’amore celeste?/ Da questa gesta guerriera si augura, o inclito LODOIX, la madre Cornelia/ Che ti sceglie come sposa novella.

 

La notte di San Giovanni nelle credenze e riti popolari

L’ACQUA E LE PIANTE DEL SOLSTIZIO

 NELLE CREDENZE MAGICHE E NEI RITI

(alle origini dell’ “acqua di S. Giovanni” e altri rituali)

 

di Gianfranco Mele

 

L’ acqua di S. Giovanni, che alcuni chiamano anche “rugiada degli dei” per rimarcare le origini pagane del rito, secondo questa interpretazione sfrutta, con la sua preparazione in una notte particolarmente magica, la notte del solstizio, il potere di piante e fiori intrisi di rugiada divina. Come noto, questo rito è ritenuto propiziatorio ai fini della fortuna, dell’amore e della salute, e al tempo stesso purificatorio.

Un’altra denominazione è proprio “acqua del solstizio”,  un’acqua preparata appunto con le piante solstiziali, così denominate perchè raggiungono nella notte del solstizio (in realtà in quel periodo) il massimo del loro potere, ovvero la maggior concentrazione di principi attivi in relazione al loro tempo balsamico.

Waterhouse- gather ye rosebuds Gather Ye Rosebuds While Ye May (Cogliete i boccioli di rosa finché potete) -1909 (101 x 82.5 cm) signed b.r.: J.W. Waterhouse. / 1909

 

Una variante (anche questa, derivata dalla tradizione magico-pagana) di questo rituale è quella del recarsi, sempre nella notte del Solstizio, o al sorgere dell’alba, quando comunque la pianta è ancora bagnata di rugiada, verso una “pianta solstiziale” bevendo la rugiada depositatasi o bagnandosene il viso. A seconda del “potere” che si vorrà acquisire ci si recherà verso una particolare pianta, per poter assumere le virtù ad essa attribuite dalla leggenda o dalle credenze magico-religiose. Si tratta di un rito oggi meno conosciuto e più in disuso rispetto a quello ritornato in auge (in maniera esemplificata) e popolare al giorno d’oggi. Vedremo, difatti, in questo veloce excursus, che le varianti utilizzate in passato sono numerose e anche più “pittoresche” e complesse rispetto alla pratica diffusa attualmente.

La “spina di San Giovanni” in Salento è l’infiorescenza del cardo che, raccolto alla vigilia di San Giovanni veniva utilizzata per un rituale piuttosto elaborato: prelevata in numero di diversi esemplari, i pappi venivano bruciati e posti  sotto il letto dopo aver recitato delle preghiere. Se al mattino le bruciature erano scomparse, la sorte sarebbe stata propizia. In particolare, questo rituale veniva utilizzato dalle ragazze per sapere se si sarebbero maritate entro l’anno.

Nella notte di San Giovanni, le piante tipiche della stagione si sarebbero dotate di poteri particolari, e alcune di esse avrebbero addirittura sviluppato caratteristiche e partorito organi non rintracciabili se non in quella specifica notte. E’ il caso, ad esempio, dell’ Artemisia: si credeva che solo e unicamente in quella notte sotto le sue radici si sarebbe formato un carbone che chiunque avesse raccolto e portato in casa, avrebbe potuto utilizzare come un potente talismano. A questo leggendario “carbone” dell’artemisia erano attribuiti poteri come portafortuna in generale, e in particolar modo ai fine della protezione della casa dai fulmini e dalle pestilenze. Tutte le altre virtù magiche attribuite all’artemisia, si sarebbero sviluppate al massimo del loro potere se la pianta veniva raccolta nella notte di San Giovanni: ad esempio, il suo potere divinatorio (veniva utilizzata per capire se una persona malata sarebbe guarita o meno: si ponevano delle foglie sotto il cuscino dell’infermo e se si fosse addormentato subito quello era da considerarsi un segnale di prossima guarigione, mentre se fosse rimasto sveglio si presagiva la morte). Allo stesso modo, un altro potere attribuito all’artemisia, quello di far innamorare, avrebbe funzionato al massimo raccogliendo la pianta nella notte del solstizio.

Artemisia vulgaris

 

Come l’artemisia soltanto nella notte di S. Giovanni produceva il suo “magico carbone”, così si credeva che in quella notte la felce potesse partorire un fiore che avrebbe portato immensa fortuna a chi lo avesse colto. In altre varianti della leggenda, in quella notte la felce produce dei semi che hanno il potere di tenere lontani i malefici e di procurare forza e buona fortuna. I “semi” potevano dare al suo fortunato possessore anche il potere dell’invisibilità e quello della profezia. Ancora, la capacità di trovare tesori nascosti, di essere usati come strumento di invocazione della pioggia. E’ appena il caso di specificare che, in realtà, le felci non producono fiori, né frutti e semi, e si riproducono tramite spore.

Una delle tante piante magico-medicinali da raccogliere nella notte di San Giovanni (al di là e al di fuori della ricetta della cosiddetta “acqua di San Giovanni”) è l’Eliotropio, al quale erano attribuiti poteri come antidoto al morso dei serpenti, come erba profetica e divinatoria, e persino come pianta in grado di procurare invisibilità a chi la portasse addosso:  queste ed altre qualità attribuite alla  pianta, raggiungevano il culmine della affidabilità se la pianta veniva raccolta nella notte magica.

Felce

 

Senz’altro la tradizione dell’acqua di San Giovanni (detta anche guazza, un termine più arcaico che designa la rugiada copiosa) è mutuata da riti e pratiche più antichi e antecedenti il cristianesimo, e nella tradizione contadina di varie regioni italiane ricorrono riti diversi tra loro ma che hanno come comune denominatore l’utilizzo della “magica acqua”.

Già nel rituale oggi diffuso e rivitalizzatosi grazie alla circolazione di questa usanza attraverso il web, un elemento importante della “ricetta” è l’acqua nel quale devono essere immersi i fiori, e molti badano a sottolineare che in realtà l’acqua dovrebbe essere la (non facilmente reperibile) acqua prelevata da un fonte.

San Giovanni battezza Gesù con le acque del fiume Giordano, e questo è un altro elemento di collegamento del rito purificatorio sia al santo che all’acqua.

L’acqua nel’ antichità, anche precristiana, ha poteri curativi e purificatori in molteplici casi e in diverse  tradizioni. Vi erano veri e propri culti delle acque, molte erano le divinità collegate alle acque, e si credeva che in esse risiedessero infondendovi anche i propri poteri.

Le aspersioni e le purificazioni con utilizzo di acqua e piante o estratti di piante sono comuni a diverse religioni, sono state utilizzate da greci e romani e son presenti a tutt’oggi nella liturgia cattolica. Tra le piante più utilizzate, l’issopo, l’olivo, il lauro.

Ritornando alla civiltà contadina, fino alla fine dell’Ottocento nell’Abruzzo e nelle Marche si usava , nella notte di S. Giovanni, immergersi nelle acque del  mare o dei fiumi  nella convinzione di acquisire salute e forza. In provincia di Pescara, in quella notte, si usava recarsi ad un fonte per lavarsi la faccia e le mani, e con un trancio di Clematis vitalba ci si cingevano i fianchi e la fronte per preservarli dal dolore. A Celano, in prov. di L’Aquila, ci si recava presso il Fonte Grande nella notte di S. Giovanni nella credenza che quell’acqua potesse guarire i reumatismi e la tigna. A Caramanico (PE) si usava attingere l’acqua dal fiume Orta, lavarsi e purificarsi con essa, darla da bere agli animali, intingervi dei rami di rovo e cingerli intorno ai fianchi. Sempre in Abruzzo, presso il fiume Giovenco ragazzi e ragazze andavano a lavarsi scambievolmente la faccia. Da Lanciano si facevano pellegrinaggi, a piedi o con gli antichi mezzi di locomozione, verso Fossacesia dove le ragazze, all’alba, si snodavano i capelli per lavarli nell’acqua del mare convinte che così sarebbero diventati folti e belli. In diversi paesi della Valle Roveto i giovani usavano recarsi a mezzanotte presso il fiume Liri per bagnarvisi e stringere il comparatico.

Clematis vitalba

 

In altri paesi dell’Abruzzo, per vincere le emorroidi ci si strofinava il sedere sull’erba dei campi bagnata di rugiada.

In molti paesi della Sardegna, nella notte di San Giovanni le ragazze si recavano in solennità a raccogliere l’acqua dei pozzi per poi spruzzarla sulle case del villaggio, a fini di purificazione anche dagli spiriti malefici. Con quella stessa acqua, ci si lavava il viso. In diverse località sarde, inoltre, i malati venivano portati al fiume o al mare e là immersi per guarire.

E sempre in Sardegna, come in altre località, si usava sfruttare il potere della rugiada magica rotolandosi nei prati bagnati con lo scopo di guarire da malattie. Stessa usanza, è documentata in Umbria, dove all’alba di S. Giovanni ci si rotolava nudi sull’avena bagnata di rugiada.

La guazza di San Giovanni era ritenuta efficace contro le malattie della pelle ma anche contro quelle degli occhi e contro il mal di testa: per vincere queste ultime patologie, bisognava recarsi all’alba nei campi e strofinare palpebre, fronte e tempie con le erbe bagnate di rugiada. Questa credenza la si ritrova anche in Piemonte dove addirittura la rugiada raccolta nella notte di S. Giovanni veniva usata per impastare focacce medicinali contro il mal di testa.

Più in generale, la rugiada raccolta e conservata poteva essere utile contro varie malattie. In alcune regioni d’Italia le lenzuola dei malati venivano imbevute di questo “rimedio”, oppure la si utilizzava per applicazioni ripetute sulle parti malate. La rugiada raccolta nella notte magica e conservata, era ritenuta efficace nello specifico anche come rimedio antirughe e contro la caduta dei capelli. In Abruzzo, le ragazze dovevano pettinarsi all’alba della festa del santo in un canneto bagnato di rugiada, e avrebbero così avuto capelli belli e folti.

In Friuli si credeva che la rugiada di San Giovanni potesse rendere fertili le donne. Le ragazze in cerca di marito usavano bagnarsene le parti intime.

Benchè cristianizzato (almeno nella denominazione), il rituale della notte di San Giovanni, come altri riti mutuati nella tradizione contadina da più antichi riti pagani, nelle sue espressioni più vicine alle pratiche originali veniva stigmatizzato dalla chiesa: nel 1753 la Corte Pontificia di Roma emette un bando che mette fuori legge e punisce chi si dedichi nella notte di S. Giovanni alla pratica di recarsi nudi nei campi e bagnare i genitali di rugiada:

“Con l’autorità del nostro ufficio, a qualsiasi persona dell’uno o dell’altro sesso proibiamo che in detta notte veruno ardisca accostarsi alle vasche, ai rigagnoli, alle fontane, togliendosi le brache e accucciandosi sull’erba, pena: gli uomini tre tratti di corda da darsi in pubblico, e scudi 50 di multa; per le donne, tre colpi di frusta a’ posteriori in pubblico, e sì per gli uni, come per gli altri, senza remissione”.

Egualmente, la raccolta della felce ai fini magici nella notte di San Giovanni viene registrata nei verbali della curia di Oria nel 1679 come un atto di stregoneria poiché i denunciati hanno attivato un rituale di raccolta della pianta, con un misto di invocazioni ai santi e ai demoni, finalizzato a ricavare l’ “herba incantata”, ovvero un composto polverizzato che avrebbe dato il potere di far innamorare o assoggettare alla propria volontà una persona: occorreva, per raggiungere questo scopo, gettare addosso alla “vittima” la polvere magica ricavata dalla felce.

Un curioso esempio di magia imitativa praticata dai contadini in Umbria tra la vigilia e il giorno di S. Giovanni è il rituale per liberarsi dai calli: bisognava andare all’alba negli orti a pestare con i piedi nudi le cipolle (le cipolle rappresentano i calli).

 

BIBLIOGRAFIA

Annamaria Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa, Dedalo ed., 1988

Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 2017

Gianfranco Mele, Piante della nostra flora spontanea: usi medicinali, magici ed afrodisiaci dell’artemisia, La Voce di Maruggio, dicembre 2018

Gianfranco Mele, Eliotropio selvatico, curiosità medicinali e magiche, La Voce di Maruggio, settembre 2019

Gianfranco Mele, La felce di S. Giovanni o del solstizio tra leggenda, magia e medicina popolare, Fondazione Terra d’Otranto, 2018

Marcella Barra Bagnasco Il culto delle acque in Magna Grecia dall’età arcaica alla romanizzazione: documenti archeologici e fonti letterarie, in: Archeologia dell’acqua in Basilicata, Consiglio Regionale di Basilicata, Soprintendenza Archeologica della Basilicata, 1997

Salvatore Bianco, Il culto delle acque nella preistoria, in: Archeologia dell’acqua in Basilicata, Consiglio Regionale di Basilicata, Soprintendenza Archeologica della Basilicata, 1997

Maria Antonietta Epifani Stregatura. Mentalità religiosa e stregoneria nel Mezzogiorno di antico regime, Besa Editrice, Nardò, 2001.

“Udite gente: il maestro non è nato a Fasano”. Spigolature sul musicista Giuseppe Tanese

di Davide Elia

La fama odierna del maestro Giuseppe Tanese (1861-1928) è legata indissolubilmente al canto “Udite figlie” che egli compose per la processione del venerdì santo, e che ancora oggi costituisce il momento più toccante e caratteristico del rito che si tiene annualmente a Copertino.

Udite figlie” è una nenia dolorosa, un compianto sul Cristo morto eseguito da un coro interamente femminile vestito a lutto (noto come “le pie donne”), accompagnato dalla banda del paese. Se le note introduttive degli ottoni richiamano quelle di una marcia funebre, il successivo e dirompente ingresso delle voci che si diffondono nell’aria della sera sembra trasportare l’uditorio indietro nel tempo, a forme ancestrali e ormai scomparse di religiosità popolare.

Non è affatto esagerato affermare che ormai questo canto è divenuto uno dei principali motivi di richiamo della processione stessa; addirittura il suo titolo è finito per sovrapporsi a quello dell’intero rito del venerdì santo a Copertino. Abbondano ormai sul web, in repositori video come Youtube, i filmati delle esecuzioni di “Udite Figlie” degli ultimi anni, con le sue note inconfondibili che alleviano la nostalgia del copertinese fuori sede o, magari, giungono a sorprendere e incuriosire il forestiero.

 

All’approssimarsi di ogni triduo pasquale, puntuali compaiono, pubblicate sui giornali o sui social con l’inveterata tecnica del “copia e incolla”, alcune laconiche informazioni biografiche su Giuseppe Tanese. Eccone un esempio tratto dal comunicato ufficiale del 2022: “[…] maestro direttore e concertatore del concerto musicale ‘Banda Rossa[1] di Copertino’ Giuseppe Tanese, nativo di Fasano ma morto a Copertino nel 1928”.

L’indicazione del 1928 come data di morte è sicuramente un prezioso dato di partenza, poiché consente di effettuare una ricerca mirata nei registri di Stato Civile di Copertino. Ritrovato dunque l’atto di morte, constatiamo che Giuseppe Tanese, “capo musico” e marito di Elisabetta Passante, era nato a San Giorgio Jonico da Ciro e da Carolina Motolese, a loro volta abitanti in quel comune[2].

 

Se da un lato, purtroppo, una verifica diretta è resa difficoltosa dal fatto che il registro dei nati a San Giorgio Jonico per il 1861 non risulta disponibile, dall’altro ci sono almeno due evidenze macroscopiche che confermano questo luogo di nascita, e cioè: 1) l’indicazione esplicita nell’atto di morte, come detto, della provenienza dei genitori, e 2) l’ulteriore atto di nascita di una sorella del maestro, Maria Maddalena, rinvenuto nel registro dei nati di San Giorgio Jonico del 1860[3]. Questi dati sgombrano il campo da ogni dubbio: il maestro Tanese non nacque a Fasano, ma a San Giorgio Jonico!

Forse l’equivoco tra i due luoghi si originò nel momento in cui il Tanese giunse a Copertino per assumere la direzione della banda, avendo già alle spalle un’esperienza analoga a Fasano[4]. È dunque molto probabile che in paese molti avessero superficialmente scambiato la località da cui il musicista proveniva in quel momento con il suo effettivo luogo di nascita.

Di certo Giuseppe Tanese, con la sua preparazione e il suo estro artistico, accrebbe notevolmente il prestigio del concerto musicale di Copertino, che portò a esibirsi anche lontano dai confini comunali. Ne troviamo eco nelle corrispondenze dei giornali di inizio Novecento, che si profusero a più riprese in magnifiche lodi della banda e del suo direttore.

 

Nel 1902, a Campi Salentina, la banda di Copertino eseguì un “Salve Regina” composto da Michele Valensise[5] e nell’occasione il maestro Tanese ricevette grandi elogi per la sua trascrizione per banda del brano[6].

Un articolo del 1903 racconta di un’esibizione della banda di Copertino per la festa di San Luigi a Lecce, rimarcando come già l’anno precedente, in occasione della festa di Sant’Oronzo “quei bravi musicanti furono fatti segno a continue ovazioni da parte del pubblico, e il valoroso direttore prof. Tanese fu molto festeggiato da numerosi cittadini[7]. Dallo stesso articolo apprendiamo anche che il sodalizio artistico tra il musicista e Copertino aveva avuto inizio due anni prima. E proprio da Copertino, nel 1904, il corrispondente della “Provincia di Lecce” riportava: “Il nostro Concerto cittadino in occasione delle feste per la Madonna del Fonte in Conversano ha riportato un nuovo e meritato successo. Il sindaco di Conversano, rendendosi interprete dell’ammirazione e del compiacimento della sua cittadinanza, ha diretto al nostro sindaco una lettera nella quale elogia vivamente il nostro concerto e il suo direttore m. Tanese. Lo stesso ha fatto il Comitato delle feste, con un telegramma pure diretto al nostro sindaco[8]. È sorprendente oltretutto vedere come questi elogi provenissero da una realtà di antica tradizione musicale come Conversano[9].

Nella primavera del 1905, dopo un’esibizione della banda di Copertino alla festa patronale di Taranto, si leggeva: “L’esimio maestro direttore del concerto sig. Giuseppe Tanese si ebbe le più vive felicitazioni da quanti ebbero occasione di sentirlo e di apprezzarne i rarissimi pregi artistici, che lo rendono di un’importanza eccezionale[10].

 

Notizie davvero esaltanti giungevano poche settimane dopo a Copertino anche da una tournée della banda cittadina in Campania: “Il nostro concerto musicale diretto dal distinto m. Tanese è da qualche mese che compie un giro artistico nelle provincie di Avellino e Napoli, ove è fatto segno a meritati applausi e distinzioni di ogni sorta. Recentemente ad un concorso a Portici ove convennero diversi concerti musicali che vanno per la maggiore, quello di Copertino ottenne il gran diploma d’onore, mentre il prof. Tanese veniva premiato con la medaglia d’oro. Il presidente della commissione giudicatrice di Portici telegrafò al nostro sindaco, felicitandosi in nome dell’intera cittadinanza. Congratulazioni vivissime[11].

Le apparizioni sulla stampa non finiscono qui: nel 1903 la banda di Copertino viene menzionata per aver suonato a Mesagne[12], nel 1906 a Fasano[13] e a San Cesario[14], nel 1909 ad Altamura[15] e a Maglie (con musiche dal “Rigoletto”, dalla “Norma” e dal “Trovatore”)[16], nel 1911 a Lecce[17].

Sempre dalla stampa dell’epoca veniamo a scoprire anche che la dedizione di Tanese al concerto bandistico di Copertino si interruppe per un breve periodo, quando nel 1909 egli venne chiamato a Lecce per un tentativo di rilancio della compagine musicale cittadina[18]. L’esperienza si rivelò breve e deludente, poiché l’amministrazione comunale del capoluogo non erogò il supporto economico promesso. Pertanto già nella prima metà del 1910 il maestro Tanese fece ritorno a Copertino, portando con sé gli elementi più validi con cui aveva avuto modo di lavorare nel periodo leccese[19].

Fin qui gli elementi che ci provengono dalle fonti dell’epoca. Disponiamo però anche dei ricordi dei discendenti, che dopo tre generazioni[20] ancora mantengono vivi alcuni piccoli ma significativi bozzetti relativi alla vita di Giuseppe Tanese e della sua famiglia. Uno racconta dell’abitudine del maestro di comporre preferenzialmente di notte, al pianoforte e al buio, nel palazzo signorile in cui abitava, in via Ruggeri, nel cuore del centro storico. La domenica, prima della messa, in segno di deferenza i vicini di casa erano soliti portare in anticipo nella chiesa matrice una sedia sulla quale avrebbe preso posto la moglie del maestro. Pare che, durante il tragitto che la famiglia compieva ogni domenica per raggiungere la chiesa, la figlia del maestro, Gioconda, nata nel 1904, giovane studentessa che i genitori avevano avviato agli studi magistrali, cominciò a notare un ragazzo di bell’aspetto, ma di condizione sociale inferiore (era contadino). Tra i due nacque un’attrazione che, come era prevedibile, venne osteggiata dalla famiglia di lei; tuttavia quell’amore riuscì infine a prevalere su tutto e venne coronato da un matrimonio celebrato nel 1930[21], dopo la morte del maestro e della moglie. Gioconda Tanese aveva dovuto abbandonare i suoi studi, ma li mise comunque a frutto ponendosi a disposizione dei propri concittadini analfabeti per aiutarli a leggere e scrivere la corrispondenza con i propri congiunti che svolgevano il servizio militare lontano dal paese.

Si tramanda che i figli del maestro Tanese fossero quattro in tutto; talvolta sul web si incontrano affermazioni secondo cui le meste note di “Udite figlie” gli vennero ispirate dallo strazio per la perdita di un figlio in tenera età. Abbiamo rinvenuto con certezza notizie sul figlio Rocco Tanese, classe 1897, ufficiale di artiglieria giunto al grado di colonnello, decorato per la partecipazione alla prima guerra mondiale[22] e, tra le altre cose, autore di un manuale di radiotelegrafia per usi militari[23].

Il rispetto e l’ammirazione dei propri compaesani, il tenore di vita piccolo-borghese, l’aver assicurato un futuro ai propri figli non devono però essere scambiati, nel contesto storico di inizio ‘900, per uno stato di florida agiatezza: si tramanda che in molte occasioni, dopo una prova o un’esibizione, il maestro Tanese non potesse ricompensare i propri strumentisti se non offrendo loro un pasto.

Sono, queste, spigolature che aggiungono colore alla figura di Giuseppe Tanese – che il tempo aveva parzialmente sbiadito – e che sono complementari a quanto abbiamo appreso dalla stampa dell’epoca sul suo ruolo pubblico, sulla sua arte e sul suo apporto alla fama della città di Copertino.

La carrellata di testimonianze che abbiamo riportato, sia pur breve e inevitabilmente incompleta, è già, tuttavia, più che eloquente e sufficiente per dimostrare come il musicista Tanese meriterebbe oggi una memoria ben più articolata e definita rispetto a quella legata unicamente al suo canto quaresimale “Udite figlie”.

 

Note

[1]  La denominazione “Banda Rossa” designava all’epoca un ensemble musicale di estrazione operaia. Sebbene non abbiamo incontrato nella stampa dell’epoca tale denominazione per quella di Copertino, la riteniamo comunque del tutto plausibile.  Viceversa, su La Provincia di Lecce del 21 agosto 1904, p. 3, leggiamo che in occasione della festa patronale di quell’anno, Copertino ospitò la “Banda Rossa” di San Severo, di fama “mondiale” secondo l’estensore dell’articolo.

[2] Archivio di Stato di Lecce, Stato civile del comune di Copertino, Registro dei Morti, a. 1928, n. 145.

[3] Archivio di Stato di Taranto, Stato civile del comune di San Giorgio Jonico, Registro dei Nati, a. 1860, n. 14. La madre morì il 31 luglio 1867, quando il futuro maestro aveva solo sei anni (Archivio di Stato di Taranto, Stato civile del comune di San Giorgio Jonico, Registro dei Morti, a. 1860, n. 42).

[4] La Democrazia del 21 novembre 1909, p. 3.

[5] Compositore calabrese (1822-1890).

[6] Corriere Meridionale del 30 ottobre 1902, p. 3.

[7] Corriere Meridionale del 2 luglio 1903, p. 3.

[8] La Provincia di Lecce del 5 giugno 1904, p. 3.

[9] Va detto che la banda di Conversano non aveva ancora raggiunto i livelli di eccellenza a cui l’avrebbe elevata il maestro Giuseppe Piantoni tra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo.

[10] La Voce del Popolo dell’1 giugno 1905, p. 3.

[11] La Provincia di Lecce del 16 luglio 1905, p. 3.

[12] Gazzetta delle Puglie del 3 dicembre 1904, p. 2.

[13] Il Risorgimento del 27 giugno 1906, p. 3.

[14] Corriere Meridionale del 19 luglio 1906, p. 3.

[15] Corriere delle Puglie del 9 settembre 1909, p. 4.

[16] Corriere Meridionale del 30 settembre 1909, p. 2.

[17] Corriere Meridionale dell’11 maggio 1911, p. 3.

[18] La Democrazia del 21 novembre 1909, p. 3.

[19] Corriere Meridionale del 3 marzo 1910, p. 3.

[20] Per gli aneddoti di famiglia e per l’immagine del maestro qui riportata si ringraziano Tonino e Anna Maria Nestola, nipoti ex filia di Gioconda Tanese, figlia del maestro.

[21] Archivio di Stato di Lecce, Stato civile del comune di Copertino, Registro dei Matrimoni, a. 1930, n. 48.

[22] Ministero della Guerra, Bollettino ufficiale delle nomine, promozioni e destinazioni negli ufficiali e sottufficiali del R. esercito italiano e nel personale dell’amministrazione militare, Roma, 1922, p. 919.

[23] R. Tanese, Appunti di radiotelegrafia, Potenza, 1941.

Il quadrato magico del Sator. Nuova segnalazione a Specchia

di Giovanni Perdicchia

In riferimento ad un articolo recentemente apparso su questo sito, dove si è trattato della presenza del quadrato magico del Sator nel Salento, leggendolo, mi è ritornato in mente quello visto tante volte a Specchia (Lecce).

Il “Quadrato magico del Sator” in un testo seicentesco – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

 

 

Da qui l’idea di renderlo noto per salvaguardare quantomeno la memoria storica e censire la presenza del manufatto anche in questo territorio. Quello che oggi rimane è però purtroppo una copia, piuttosto semplificata, che sostituisce l’originale asportato nel recente passato. Nella memoria collettiva, se sollecitata, può venire in mente l’originale e antico quadrato magico, così come lo ricordo bene io.

Il Sator si trova precisamente in via Lucrezia Amendolara, una delle strade principali del paese, in direzione sud, nel tratto che in passato era chiamato anche “la longa o via della longa” e forma l’asse viario principale di percorrenza del borgo medievale.

 

L’originale, al posto della copia attuale, era inserito sulla chiave di volta di un arco all’ingresso di un androne coperto e voltato a botte come ingresso di una casa a corte. Molto vicino a questa dimora si trova un’altra chiave di volta di diversa forma ma con un disegno settecentesco ed è probabile fosse in origine parte di un’unica abitazione con l’altra apertura in oggetto.

Il vecchio quadrato magico, arbitrariamente tolto dal sito, era in pietra leccese, annerito dal tempo, leggermente allungato ma con le parole inserite in una cornice perfettamente quadrata.

 

Non so se poteva essere quella la collocazione originaria o se di provenienza da altro edificio, o piuttosto di riutilizzo da un luogo sacro, in ogni caso circoscritto sempre nello stesso contesto territoriale.

Non mi soffermo in questa sede sul significato simbolico, ma premeva intanto la segnalazione come primo passo in attesa di poter recuperare ulteriori indizi sull’originale. Purtroppo non possiedo foto del vecchio quadrato magico, ma con l’occasione faccio appello a chi potesse avere delle foto riferibili alla vecchia chiave di volta in via Amendolara e perciò delle foto di almeno 15/20 anni fa circa.

 

Riapre la settecentesca chiesa di San Trifone nella piazza di Nardò

San Trifone nella tela conservata nella chiesa omonima di Nardò (foto Lino Rosponi)

 

di Marcello Gaballo

Continua il lavoro della Diocesi di Nardò-Gallipoli per valorizzare il patrimonio culturale e per contribuire alla riqualificazione del centro storico . Dopo circa sessant’anni finalmente mercoledì 19 giugno torna alla fruizione della città e dei fedeli la chiesa di San Trifone, uno dei tesori d’arte del centro storico cittadino, ubicata in uno dei punti più strategici quale è la piazza principale intitolata ad Antonio Salandra.

Il vescovo Fernando Filograna presiederà la riapertura, evidenziando con la sua presenza un momento così importante e di speranza viva per tutta la Chiesa.

Chiusa nel 1959, a causa di infiltrazioni piovane, la copertura minacciava di crollare e fu necessario chiudere il tempio al culto per le opportune riparazioni edili e impiantistiche, che si conclusero nel 1964. Dopo qualche anno fu nuovamente chiusa per urgenti restauri, conclusi nel 1997 e poi ripresi negli anni seguenti per altre emergenze interne relative alla copertura in legno e alla sicurezza strutturale messa a rischio per alcune infiltrazioni d’acqua. Più recenti gli interventi riguardanti l’impianto elettrico, gli infissi e la nuova tinteggiatura.

Grande soddisfazione anche da parte del parroco della Cattedrale don Giuliano Santantonio, che è anche padre spirituale della confraternita presente nella chiesa, oltre che direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Nardò-Gallipoli.

La chiesa fu edificata nei primi decenni del XVIII secolo, essendo vescovo Antonio Sanfelice (1708-1736). Si ignorano le origini della devozione cittadina verso questo santo, giovane greco (Kampsada, 232-Nicea 250) di fede cristiana che subì il martirio con decapitazione al tempo della persecuzione dell’imperatore Decio (249-251), avendo abiurato il paganesimo.

Il santo è festeggiato il 10 novembre, che corrisponde al giorno della traslazione del suo corpo a Roma, ove fu deposto in una chiesetta a lui dedicata in Campo Marzio, nel sec. IX.

Del tutto infondata la tradizione che lo vuole liberatore di un’invasione di bruchi di poco precedente alla costruzione della chiesa. Il suo culto in città era infatti molto più antico, visto che nel 1543 in Cattedrale già esisteva un altare a lui dedicato, di patronato dei nobili De Persona, collocato vicino alla sacrestia e poi rimosso con le modifiche apportate dal vescovo Ambrogio Salvio (1569-1577).

Nella  visita pastorale del vescovo Luigi de Franchis (1611-1616) del 1613, ma anche in quella del vicario Granafei del 1643, con questa dedicazione sopravviveva un oratorio. Il De Franchis volle dotare la Cattedrale di un reliquiario ligneo a forma di braccio per contenere una vecchia reliquia del dito medio del santo.

La chiesa è realizzata in tufo, con una facciata sobria ma elegante che si inserisce bene nel contesto urbanistico in cui sorge; si sviluppa in due ordini sovrapposti rettilinei, separati da elegante fregio con inserti ornati con festoni a rilievo e con cornice aggettante dentellata. Assai probabile che il livello superiore sia successivo al sottostante, ricostruito dopo il terremoto del 1743.

La parte centrale del prospetto, che comprende il portone ligneo di ingresso e il finestrone centrale, è delimitata da due lesene sovrapposte, sormontate da capitelli in stile corinzio.

I due corpi laterali ospitano quattro nicchie ad arco semicircolare sovrapposte e solo in apparenza uguali, tutte vuote, delle quali le inferiori sovrastano ognuna un cartiglio quadrangolare con epigrafi ormai illeggibili.

L’interno risulta formato da un’aula unica a pianta rettangolare con copertura lignea a capriate; per questa particolarità risulta unico di tal genere tra le chiese minori della città.

La navata lungo tutta la fascia perimetrale presenta una cornice aggettante ed è  scandita da semi colonne a sezione rettangolare con capitello ionico, che definiscono tre arconi disposti simmetricamente sui due lati, forse destinati ad altari laterali.

L’illuminazione è garantita dalle sei finestre emisferiche, oltre al finestrone posto sul prospetto principale, che sono in corrispondenza degli arconi.

Sulla parete di fondo del presbiterio, di fronte all’ingresso, trova posto la macchina d’altare in pietra leccese, imponente e scenografica, provvista di mensa e dossale ed inquadrata da volute laterali, come è pure il paliotto. E’ dedicato al santo martire Trifone, raffigurato nella bella tela dipinta ad olio, che è opera del pittore Nicola Maria Rossi (Napoli, 1690 – 1758), discepolo di Francesco Solimena. Il giovane santo con tunica verde e mantello rosso è rappresentato a piedi scalzi e a figura intera, di profilo e in ginocchio sulle nubi, affollate da locuste. In atteggiamento di preghiera, alle spalle del santo un angelo paffuto regge la palma del martirio, simbolo di vittoria e di immortalità; un altro è raffigurato in alto mentre gli colloca una corona sul capo.

Dello stesso secolo dovevano essere la pittura policroma della Madonna della Grazia, sovrastante la tela del Titolare e che occupava lo spazio entro la cornice modanata tuttora visibile. Un altro dipinto, attribuito a Ferdinando Sanfelice, era collocato su un piano ligneo adeso alle capriate e raffigurava il protettore cittadino San Gregorio Armeno.

In uno degli arconi era collocata una statua di legno policromo firmata dello scultore partenopeo Giovanni Bonavita raffigurante San Trifone a mezzo busto, con base dorata e reliquia nel petto, oggi restaurata ed esposta nel museo diocesano di Nardò.

Sul lato sinistro dell’edificio una piccola porta immette nella sagrestia, nella quale sopravvivono su una parete lacerti di affreschi sopravanzati dall’antica cappella di S. Eligio alla piazza.

Probabilmente fu lo stesso vescovo Sanfelice a promuovere la fondazione della confraternita, oggi titolata a “San Gregorio Armeno in San Trifone”, che in questa chiesa ha sempre avuto la sua sede e che nei secoli si è preoccupata del suo decoro e mantenimento, oltre a tenere vivo il culto del santo.

(Marcello Gaballo)

“Antichi Amori”, un bacio da… venti ducati nella Novoli del 1600

Venere dea della bellezza e dell’amore. Cartolina d’epoca non viaggiata ma primi anni del ‘900 (coll. privata).

 

di Gilberto Spagnolo

 

Fu il tuo bacio, amore, a rendermi immortale

(Margaret Fuller)

 

Nessuno sa come sia nato il bacio, “il simbolo più potente dell’amore tra due persone”, quale sia stato il primo ad essere dato da uno dei nostri antenati e, probabilmente, non lo sapremo mai. Ma la storia che qui di seguito ci accingiamo a raccontare, ora che “in piena pandemia” sta cambiando pure l’amore, ora che la nostra vita emozionale è resa meno passionale e spontanea, certamente lo rendono ancora più “mitico” e prezioso.

Un atto rogato nell’ottobre 1650 dal pubblico notaio Michele Sedato di Taranto, conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce1, ci descrive infatti un curioso e simpatico episodio accaduto nel casale di S. Maria de Novis (l’attuale Novoli) negli anni in cui era feudatario Giuseppe Antonio Mattei figlio di Alessandro II (umanista e mecenate)2, episodio in cui il protagonista eccellente è proprio il bacio e che ci rivela, nel contempo, uno spaccato di costume e di tradizione di cui attualmente non c’è più traccia.

È noto che quando “s’appressano le labbra chiuse a checchessia in segno d’amore e di riverenza”, ma anche in segno di amicizia e di riguardo tra amici, congiunti e consanguinei nell’incontrarsi dopo una lunga assenza e nello accomiatarsi, si compie l’atto comunemente definito del “baciare”.

Ai tempi d’oggi, tra due innamorati in particolare, un bacio dato “con le dovute cautele” costituisce sempre un gesto che rientra nella normalità dello stesso linguaggio amoroso, probabilmente suscettibile di ulteriori sviluppi ma non tale certamente da costituire un impegno di futuro matrimonio.

Qualche secolo fa invece le cose non andavano così, considerato quello che accadde appunto al chierico novolese Antonio Greco (fratello del reverendo D. Domenico Greco3 presente per suo conto al momento dell’atto) che fu costretto a pagare pesantemente un pudico bacio (non sappiamo poi quanto realmente) dato pubblicamente a Cecilia Sellitta, figlia di Giuseppe Sellitta e Francesca Pati di Lecce, e la cui storia emerge (seppur a grandi linee) dal documento in apertura citato e che si trascrive in sintesi qui di seguito (il titolo è Retrovenditio Vinearum prò clerico Antonio Greco di Terra Santa Maria De Novis).

ARCHIVIO DI STATO LECCE, not. M. Sedato, Lecce 46/37, atto dell’8 ottobre 1650, f. 198

 

Era l’8 ottobre, quarta indizione del 1650 e di fronte al suddetto notaio si presentano, da una parte, Cecilia Sellitta virginis in capillis (ovvero nubile) accompagnata dai suoi genitori, e dall’altra, il reverendo D. Domenico Greco de Terra Sanctae Mariae de Novis per conto del fratello chierico Antonio Greco.

Dopo i preliminari di rito, al solerte invito del notaio, la nostra povera Cecilia col cuore infranto e sconsolato comincia a raccontare coram nobis (al cospetto di tutti), come nell’anno 1646 il suddetto chierico Antonio pubblicamente li diede un bacio sub specie futuri matrimonii4, e perché veniva impedito da suoi parenti si ritirò e rifugiò in chiesa5, per il qual ritiramento essa Cecilia lo querelò nella Vescoval Corte di questa città di Lecce6, e perseguitò: ma perché conoscea aver poca ragione (il Greco) dopo alcuni mesi mediante trattato di persone da bene e timorose d’iddio, li fece la remissione et esculpatione, purché l’avesse (alla Cecilia) da donare ducati venti, quali non avendo di contanti, simulò di venderli, per detti ducati venti, siccome li vendette col patto de reemendo (ossia di ricompra), cinquanta quarantali in circa di vigne, situati e posti nel feudo di Santa Maria di Novole, nel luogo detto Lombardo7, giusta li beni del Signor Conte di Palmariggi, giusta li beni di notar Angelo Greco, via vicinale et altri confini; e confessò d’aver ricevuto esso clerico Antonio detti ducati vinti da detta Cecilia presentialmente e manualmente, si come il tutto appare da contratto rogato per notar Giordano de Giordano di Campi a’ 9 di ottobre del detto anno 1646, al quale etc.. Et volendo adesso il detto clerico Antonio in virtù del suddetto patto de reemendo sborzare li detti ducati vinti e pigliarsi le dette sue vigne, ne ha fatto richiedere essa Cecilia per le debite cautele, ideo hodie predicto die non vi etc. sed sponte etc. ipsa Cecilia retrovendit et titulo retrovenditionis iure proprio et in perpetuum dedit etc. eidem clerico Antonio absenti, et prò eodem Reverendo D. Domenico eius fratri etc. etc.. Stantes in domibus Domini Comitis Palmaricii, habitatis a Jo. Stefano Villa ianuense Litii commorante, sitis intus Litium in portaggio Rudiarum etc. etc….8.

Si concludeva così, dopo quattro lunghi anni, con un rude e venale risvolto economico, la storia d’amore di Cecilia, una storia che forse meritava ben altro epilogo considerati gli inizi. Non sappiamo le ragioni per le quali i parenti del Greco ostacolarono questo matrimonio, né tantomeno chi furono le persone da bene e timorose d’iddio che si adoperarono per convincere Cecilia ad accettare il pentimento di Antonio e ritirare la querela. Il fatto comunque che l’atto del notaio Sedato fosse stato rogato (come si evince alla fine del documento) nella casa leccese del Conte di Palmariggi sita nel Portaggio Rudiarum9, abitata dal Genovese Giovanni Stefano Villa (presente come teste insieme ad altri) farebbe supporre che lo stesso Conte avesse contribuito, con qualche suo intervento, a risolvere la controversia fra gli sposi mancati.

Lo sposalizio, dal Breviario Grimani. Cartolina d’epoca della serie I dodici mesi, non viaggiata ma inizi 1900.

 

Certamente il ritrovamento dell’atto rogato dal notaio Giordano de Giordano di Campi avrebbe forse potuto gettare maggiore luce su questa vicenda, ma la sua irreperibilità unita allo scarno documento notarile del Sedato, ci costringe a congetturare una serie di possibili situazioni e non ci permette di gustare più a fondo l’evolversi particolareggiata della vicenda. Resta comunque il “bacio” e un matrimonio mancato, un bacio (quello di Cecilia ed Antonio) a cui dedichiamo nel concludere questa breve nota (anche per sdrammatizzare questo particolare contrasto d’amore) i versi di Enrico Bozzi, conosciuto come il Conte di Luna10:

LU ASU

È forte! Nu asu cce mme rappresenta?

do’ ucche ca se uniscenu . . . e ppercene

doppu lu primu cedhi se trattene,

cedhi se binchia e cchiù spamatu ddenta?

 

Do’ ucche ca se uniscenu! E cce bete?

intra lli musi cce pputenzia nc’ete?

 

Percè ccumienzi tuttu a tremulare?

Percè lu core nu llu puei frenare?

 

A nnanti a ll’ecchi toi scinde nu velu

E ssia, cce ssacciu, ca sì rriatu a ncelu. . .

 

 E cccomu spiechi poi ca a dhi mumenti,

mentre cu nnu asu ue’ nde suchi l’arma,

mvece tte sienti nu presciu, na carma,

nu martiriu ntra ll’anima te sienti?

 

Lu sangu ntra lle ine se traugghia

E llu asu ddenta nu fuecu de mpugghia.

 

Cu ppienzi ca pe nnu asu tanti e ttanti,

ricchi, pezzienti, nobili e gnuranti

 

su ccapaci de tuttu. . . e quandu l’hanu,

lu penzieri camina cchiù lluntanu!. . .

 

Ah nu asu, nu asu ! E cci se scerra

lu nnutu ci ccappai tre giurni a rretu?

ci se scerra lu scigghiu e llu rreuetu

ci l’amore te dae quandu te nferra?

 

Ieu sprasemaa pe nnu asu de na stria:

ni lu cercaa, ma quidha nu mbulìa.

 

Purtaa na ucca comu na cerasa,

ma a lla raggione nu mbulìa cu ttrasa. . .

 

Purtaa na ucca de curadhu finu. . .

e ieu penzaa: me minu o nu mme minu?

 

E mme menai: lu diaulu m’ia tantatu!

maledezzione!!. . . ni fetia lu fiatu!

 

 

In www.spazioapertosalento.it, 14 febbraio 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Novoli 2024.

 

 Note

1 Archivio di Stato Lecce, not. M. Sedato, Lecce 46/37, atto dell’8 ottobre 1650, ai ff. 197v.-199v.

Villa Convento. Portale della chiesa del Buon Consiglio, 1576. Stemma nobiliare dei Mattei (foto P. Caricato).

 

2 Giuseppe Antonio Mattei, nato nel 1621, era uno degli undici figli della leccese D. Cornelia Condò e del conte di Novoli Alessandro Mattei II (l’umanista e mecenate che Girolamo Marciano definisce “uomo di singolar dottrina versato su tutte le scienze, nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e prudentissimo principe, proprietario di un “museo del quale è ricchissimo di molti libri di tutte le scienze greche e latine che non ha pari nella provincia. (Cfr. G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto. Con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese, Napoli 1855, p. 472). Il Mattei successe al padre Alessandro; fu designato erede dei feudi già nel 1633 e morì tra il febbraio e il novembre del 1656 (Cfr. O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli 1520/1706, Novoli 1989 pp. 32-33; L.A. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto. La Provincia di Lecce, Novoli 1994, p. 449). Giuseppe Antonio è autore di un epigramma con continui riferimenti alla classicità pubblicato in Lusus Iuveniles di Lucrezio Tafuri, stampato a Lecce dal Micheli nel 1637 (Cfr. G. Spagnolo, Storia di Novoli, Note e approfondimenti, Lecce, 1990 pp. 42-43). La scheda dei Lusus Iuveniles (giochi di gioventù) del Tafuri, con le relative indicazioni bibliografiche, è riportata negli Annali di Pietro Micheli, tipografo in Puglia nel 1600 di G. Scrimieri, Galatina 1976, pp. 42-43).

Novoli. Palazzo Baronale Mattei in Piazza R. Margherita (foto P. Caricato).

 

Novoli. Palazzo Baronale: la fontana fatta costruire da Alessandro III Mattei nel 1700 (con iscrizione al “Dio dell’Ospitalità”).

 

3 A Novoli, l’accesso alla carriera ecclesiastica fu privilegio di questa famiglia. La massima carica capitolare infatti, eccetto una brevissima parentesi, fu infatti nelle mani dei Greco per gran parte del 1600 e dei Mazzotta per tutto il 1700 (Cfr. M. De Marco, La Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo, in “Camminiamo insieme”, a. III, Novoli 1986, pp. 106-107; O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII -XVIII, Novoli 1986, pp. 106-107). Il chierico Antonio Greco e il fratello D. Domenico Greco figurano nell’elenco dei sacerdoti riportato nella S. Visita (la VI) del 1653 del Vescovo Luigi Pappacoda che descrive lo stato giuridico della Chiesa medesima e da cui si ricava la norma fondamentale che ha regolato la “Chiesa Ricettizia di Novoli” (Cfr. M. De Marco, La Chiesa Matrice di S. Andrea Apostolo cit., pp. 12-13).

4 È singolare, a tal proposito, ricordare (il volume fu stampato per la prima volta a Copenaghen alla fine del 1800 e poco dopo tradotto in inglese) la Storia del bacio di Kristoffer Nyrop (ed. Donzelli). Da questo libro (secondo una particolareggiata recensione di M. Francini) si apprende infatti che “secondo il diritto romano, baciarsi era un pò sposarsi. Il bacio, in sostanza, era considerato l’introduzione alla convivenza matrimoniale, un simbolo del matrimonio. Un preciso articolo di legge stabiliva infatti che al momento del fidanzamento, quando i due innamorati (i “contraenti” per dirla in gergo notarile) si scambiavano i doni, potevano baciarsi o no; ma se poi il fidanzamento si fosse rotto (o uno dei due “contraenti” fosse venuto a mancare), qualora i due si fossero baciati, solo la metà dei doni doveva essere restituita, se invece il bacio non c’era stato i doni dovevano essere restituiti tutti. Doveva trattarsi di un bacio ufficiale e presumibilmente poco appassionato, di cerimonia (ed è il caso, a quanto pare, di Cecilia e Antonio che appunto, come si legge nel documento notarile, “pubblicamente li diede un bacio sub specie futuri matrimonii”). È probabile, inoltre, che la formula con la quale, in certi paesi, oggi l’officiante invita lo sposo a baciare la sposa alla conclusione del rito, tragga origine proprio da quella consuetudine, che i Romani lasciarono in eredità al Medioevo passandola prima al Codice dei Visigoti e poi a quello dei Longobardi. Questa è la ragione per la quale “la donatio propter osculum” (lo scambio dei doni sancito dal bacio) sembra essere sopravvissuta più a lungo che altrove in Spagna e in Italia” (Cfr. M. Francini, Ad ogni bacio la sua storia, in “Quotidiano di Lecce”, 7 febbraio 1996.

5 Le chiese, in quell’epoca (secondo quanto risulta da un atto notarile) godevano infatti “del diritto di asilo”; gli ecclesiastici non erano sotto il controllo della giurisdizione civile e in caso di delitti comuni venivano giudicati da un tribunale ecclesiastico e scontavano la pena nelle carceri vescovili (Archivio di Stato Lecce, not. A. Tarantini, 69/3, a. 1720, c. 91).

6 Secondo quanto scrive O. Mazzotta, nella diocesi di Lecce (e quindi non solo a Novoli) specialmente nel 1600, il numero dei chierici era elevato e fra questi alcuni riuscivano a concludere la carriera sacerdotale ma molti rimanevano sempre chierici. Questo perché “i chierici, compresi i coniugati, oltre che vestire la talare, che era segno di distinzione, godevano di tutti i privilegi concessi al clero, primo fra tutti l’esenzione dai pesi fiscali” (Cfr. O. Mazzotta, Novoli etc. cit., p. 116).

7 Su questo toponimo (Lombardo, Lummarde, Lombarde) e la sua ubicazione (che può vedersi con chiarezza sulla cartina pubblicata a corredo di questo lavoro) cfr. G. Spagnolo, Novoli, Origini, Nome, Cartografia e Toponomastica, Novoli 1987, p. 59 e p. 125 (appendice sulle strade vicinali); P. Salamac, Saggio di antroponomastica e toponomastica novolese, in “Note di civiltà medievale 2”, Bari 1980, pp. 63-82. Il quarantale dovrebbe equivalere ad are 4 (Cfr. il saggio di A. Politi, Dialetto novolese a confronto, in “Lu Lampiune”, Ed. Grifo, a. XIII, n. 1, p. 114 (Quarantale vuol dire “quarantesimo”).

Ubicazione del fondo Lombarde in una cartina autografa dell’Ing. novolese Francesco Parlangeli, inizi del 1900 (Toponomastica extraurbana del territorio di Novoli, coll. privata).

 

8 Da un documento notarile dell’8 febbraio 1656 risulta che il genovese Stefano Villa era creditore nei confronti del Mattei di ben 1252 ducati (debito risolto successivamente con una transazione di soli 500 ducati – Archivio di Stato Lecce, not. L. Mezzana, Lecce 46/35 a. 1656).

Lecce, Via Libertini. La chiesetta sotto il titolo di “S. Andrea, poi dell’Assunzione della Vergine o Chiesa Nuova”, oggi di S. Elisabetta (accanto a Palazzo Zimara) fatta costruire da Filippo I Mattei (foto G. Spagnolo).

 

Lecce. Prospetto di Palazzo Zimara e, accanto, la “Chiesa Nuova”, in via Libertini (foto G. Spagnolo).

 

9 Filippo I Mattei, barone di S. Maria de Nove, successore di Paolo Mattei (primo Mattei barone di questo Casale), marito di Paola Bozzi dei baroni di Arnesano, fece edificare “nel portaggio di Rugge” una chiesetta “sotto il titolo di S. Andrea”, poi (fu detta) dell’assunzione della Vergine o Chiesa Nuova” su un suolo di proprietà della Basilica Lateranense di Roma (all’interno è presente lo stemma dei Mattei). La casa abitata dal Villa, di proprietà dei Mattei, con tutta probabilità è quella indicata da N. Vacca nell’appendice a Lecce e i suoi monumenti del De Simone a proposito di tale Chiesa e cioè “la casa dei Mattei era nel sito dov’è ora quella del Dott. Micheli preside del tribunale. Il palazzo, attualmente Guerra – Sellitto era quello di Teofilo di Marcantonio Zimara di Galatina, insigne medico, amico di Annibal Caro, che morì il 4 dicembre 1591” (L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, nuova edizione postillata da N. Vacca, Lecce 1964, p. 325 e pp. 577-578; cfr. M. Paone, Chiese di Lecce, vol. II, Galatina 1978, pp. 298-303; Idem, Palazzi di Lecce, Congedo Editore, Galatina 1978, p. 125. Il palazzo passò ai Guerra-Sellito allorquando gli Zimara si estinsero nella seconda metà del seicento (Ivi).

Francesco Hayez, Il bacio. Cartolina d’epoca viaggiata nel 1939 (coll. privata).

 

Facciata posteriore della cartolina Il Bacio di Francesco Hayez.

 

10 R. Roberti (a cura di), Ottocento poetico Dialettale Salentino, vol. II, Galatina, senza anno di stampa (ma 1954), p. 89 (poesia “Lu Asu” – il bacio) E. Bozzi (Il Conte di Luna), La Banda de la Lupa. Versi in dialetto leccese, Lecce, Stab. Tip. Giurdignano 1912, pp. 14-15. Nelle illustrazioni, la cartolina che riproduce l’opera pittorica “Il bacio” del pittore italiano Francesco Hayez (olio su tela del 1859 conservato alla Pinacoteca di Brera) è datata Lecce 10 febbraio 1939 (timbro postale) ed è indirizzata ad Antonia Piconese, deposito tabacchi greggi n. 9 Novoli (Lecce). Ad inviarla è la sua amica Ester con la seguente dedica: Ti auguro la più grande fortuna unita alla più bella felicità. Tua amica Ester (coll. privata). La cartolina postale su Venere fa parte invece della raccolta I giorni della settimana, 7 cartoline policrome, Ediz. Sborgi, Firenze (non viaggiata, inizio 1900). La cartolina è quella per il venerdì, giorno sacro a Venere che presso gli antichi era la dea della bellezza e dell’amore. (coll. privata). Infine, la cartolina “Lo Sposalizio, mese di aprile” fa parte della raccolta “I dodici mesi, dal Breviario Grimani, 12 cartoline a colori, Edizioni Ongania Libreria artistica Internazionale, piazza San Marco Venezia, Inizio 1900 (coll. privata).

 

E. BOZZI, La Banda De la Lupa. Versi in dialetto leccese, Stab. Tip. Giurdignano, Lecce 1912. Copertina (la poesia sul bacio è alle pp. 13-14, Lu Asu).

Autopsia di un proverbio salentino

di Armando Polito

LA BBONA MONGE, LA TRISTA PONGE

Pur essendo da anni un appassionato raccoglitore di proverbi, questo mancava alla mia collezione e probabilmente la lacuna non sarebbe stata colmata se un amico quasi un anno fa non mi avesse passato la sua collezione al fine, mi piace giocare con le parole, di operare una collazione, magari dopo colazione, dal momento che, lo sanno tutti, con la cultura non si mangia, ma senza cibo prima si sragiona, poi si muore.

Tra i proverbi che mi mancavano questo ha subito attratto la mia attenzione, perché, al momento di corredarlo della traduzione in italiano e di un breve commento, mi è parso subito evidente come non avesse troppo senso rendere monge con munge, nonostante sia un dato assodato (altro gioco di parola …) che la stragrande maggioranza degli antichi proverbi ha un’origine contadina, i moderni politica (basti pensare, l’avevo detto che ci sarei tornato, ma non è finita …, al tremontiano Con la cultura non si mangia).

Dopo qualche secondo di angosciosa (!) perplessità, l’illuminazione (!)  improvvisa, favorita da quello che da giovane ho considerato un’inutile e stupida fatica accettando di malavoglia, una delle tante imposizioni senza adeguata motivazione (oggi puoi motivare quanto vuoi, tanto …) alle quali in quei tempi non potevi ribellarti: l’impegno mnemonico, nella fattispecie riservato alla poesia. Senza quella che a me sembrava una tortura, non sarebbe affiorato nella mia mente né il foscoliano … e poi che nullo/vivente aspetto gli molcea la cura,/qui posava …1 né,  anteriore di 500 anni, il petrarchesco Fuor di man di colui che punge et molce2.

Questo succedeva quasi un anno fa, ma già da allora mi ero ripromesso di dare spessore e concretezza, possibilmente scientifici, a quell’intuizione che sarebbe potuta essere frutto di una suggestione fonetica e che ora ho solo in parte anticipato con la citazione dei due versi. Lascio a chi ne sa più di me giudicare la plausibilità della soluzione dell’arcano anche alla luce della metodologia seguita e dei risultati delle varie tappe che qui ripercorrò nell’esatto ordine cronologico del loro svolgimento.

Nello studio di qualsiasi testo giunto per tradizione orale o scritta, fondamentale è partire con lo studio delle varianti, che, per quanto riguarda i proverbi, deve fare i conti con gli adattamenti o stravolgimenti locali e con l’affidabilità e la correttezza di chi quel testo ha raccolto e trascritto. Se si pensa, poi, che parecchi proverbi popolari non raramente sono evoluzione o superfetazione di sentenze antiche, per lo più bibliche o greche o latine), si comprende come ogni ricostruzione, non solo testuale, sia di una complessità disarmante.

Trascurando volutamente quanto si può leggere in rete e che testimonia la diffusione del proverbio da Napoli in giù e conferma  monge e la sua traduzione in italiano con munge3, ho messo insieme tutti i pesci più o meno grossi incappati nella stessa rete e che di seguito presento.

Il più grosso di tutti è senza dubbio Domenico Ludovico De Vincentiis4:

Per ora faccio solo notare l’inserimento del proverbio come illustrazione emblematica del lemma mòngere secondo la migliore tradizione dell’Accademia della Crusca e le acrobazie concettuali in cui l’autore si esibisce per giustificare la sua interpretazione metaforica.

La sua indubbia autorevolezza avrà giocato un ruolo fondamentale se dopo tutti hanno inteso  monge come lui. Mi sorprende, però, che un semplice timore reverenziale non possa aver suscitato alcun dubbio, ammesso, al dilà dell’osoleto ipse dixit, che fossero a conoscenza dell’opera del De Vincentiis …

In Domenico Scapati5, Civiltà e vita contadina. Lavoro delle terre nelle Murge tra miti e riti, preghiere e proverbi, Youcanprint Self-Publishings,  Tricase, 2019, s. p. leggo quanto di seguito riproduco.

Da notare, rispetto al testo del De Vincentiis, le varianti dolce per bona e triste per trista. Per me si tratta di operazione del tutto arbitrarie, indotte proprio da trista che nel nostro dialetto significa cattiva (in riferimento ad essere di pochi anni significa irrequieto, capriccioso, anche in italiano tristo è sinonimo di malvagio) e l cui versione in triste abbia obbligato a sostituire bona con dolce, a ripristiinare, ribadisco arbitrariamente, la contrapposizione  con la presunta tristezza.  

In Vincenzo Pupillo6 si legge:

Da notare la variante ungi per la Calabria e ogne per la Campania, entrambe corrispondenti all’italiano unge e, per la sola Calabria, mala invece di trista. Noto come ungi/ogne possano dar vita ad un’interpretazione con la plausibilità che mana al munge del De Vincentiis, nel senso che unge beneficamente, quasi fosse un balsamo7, una pomata. Se il testo calabrese e napoletano fosse il più antico, qualcuno potrebbe ipotizzare che monge si errata trascrizione di un originario onge con concreazione del pronome personale (mi onge>m’onge>monge). Se così fosse, però, sarebbe strano che lo stesso fenomeno non abbia coinvolto anche il secondo verbo (mi ponge), rinunziando a quella espressività tutta meridionale basata sulla ripetizione dello stesso elemento.

L’idea degli effetti balsamici della buona parola mi hanno fatto pensare ad un processo molto più complicato e creativo, che coinvolge, addirittura qualcosa che a prima vista può senz’altro apparire improbabile, ma che lo è solo per pregiudizio: la contaminazione tra l’ambiente indotto e il dotto, perfino l’aulico, qual è quello evocato dai versi citati all’inizio. A questo punto è d’obbligo aprire una parentesi di natura filologica. In latino ci sono due verbi quasi omografi nel senso che foneticamente si differenziano solo per una consonante (ma sempre di una gutturale si tratta) ma semanticamente non hanno assolutamente nulla in comune:

MULGÈRE, che significa mungere

MULCÈRE, che significa toccare dolcemente, accarezzare, sfiorare, lisciare, leccar (in senso figurato) addolcire, placare, calmare, mitigare, lenire, dilettare, allietare, ricreare, blandire, sospingere delicatamente.

Dopo aver detto che i significati di entrambi i verbi li ho copiati parola per parola da un dizionario latino8 tanto pregevole da rendere infantile la voglia di fare un controllo su qualsiasi altro, concludo: vista l’incongruenza di monge con munge, appare azzardato supporre che esso sia deformazione di molce, indicativo presente di mòlcere, più raramente mùlcere, verbo di uso poetico e, per giunta, difettivo, che è, con ritrazione dell’accento (sistole)9, dal riportato latino mulcère?

La deformazione, di origine popolare, troverebbe così giustificazione nella differenza fonetica tra mulcère e mulgère, minima ma sufficiente a propiziare una confusione, direi un travaso di significato, probabilmente inconsapevole all’inizio10. Poi vennero i letterati a mettere in campo la mungitura e tutto finì in vacca …

Tuttavia, per chiudere in bellezza e fornire quello che quasi sicuramente è il testo originale e originario (credo che cronologicamente andare più indietro sia molto difficile), dopo un centinaio di accasciamenti sulla tastiera nel corso di una settimana, senza sconfessare del tutto la mia prima impressione, quella aulica, che può aver esercitato per la via descritta la sua influenza per quanto riguarda monge, esibisco la pistola fumante, anche se la metafora è anacronistica, trattandosi di Guglielmo d’Alvernia (1180-1249), che nel De moribus12, al paragrafo intitolato Consolatio così scrive:

(mentre infatti le cose cattive pungono, come volgarmente si dice, colui che è consolato, le buone lo ungono con l’unzione e questo appare dalla stessa intenzione di consolare)

Da notare il volo del vescovo: dapprima basso, con l’utilizzo di una metafora (pungunt) dichiarata da lui stesso di uso comune (ut vulgo dicitur), poi sempre più alto, con l’adozione di strumenti retorici sofisticati e di sicuro effetto,  quali l’uso degli opposti (bona/mala), il gioco enigmistico dello scarto iniziale (pungunt/ungunt), come se l’unzione avesse eliminato l’aculeo protagonista della puntura, e, infine, la figura etimologica (unctione/ungunt). Tutti espedienti retorici, questi, di impatto immediatamente suggestivo su un uditorio colto, ancor più sul cosiddetto popolo. Tuttavia mi pare doveroso sottolineare l’importanza dell’intentio consolationis (la volontà sincera di consolare), senza la quale ogni parola di conforto sarebbe solo pura ipocrisia e squallida presa in giro. E come non posso a questo punto proprio io, che considero la religione, soprattutto nei suoi dogmi, come un insieme di favolette ammannite (etimologicamente la manna qui è innocente …) per esorcizzare la paura della morte, fare a meno di ricordare la figura del comunista Don Milani, per il quale la possibilità di acculturarsi (partendo dalla parola) era alla base della democrazia e del bene collettivo? A patto, aggiungo io, che, una volta raggiunto un certo livello che consente di controllare (leggi criticare costruttivamente), non ci si lasci vincere dalla tentazione di sfruttare questa competenza per un utile personale che sia lesivo, purtroppo lo è molto spesso, degli altrui diritti, spesso difesi, oltre al danno pure la beffa, solo a parole.

Il nostro proverbio ha conservato del pensiero del primate i punti essenziali e non poteva essere diversamente, essendo la lapidarietà una delle caratteristiche fondamentali dei proverbi. E non c’è da meravigliarsi di questo travaso dal sacro al profano, dal colto all’incolto se si pensa al potere, anche semplicemente divulgativo, di trasmissione e diffusione della cultura che la Chiesa allora aveva, oltre al fatto, non secondario, che le parole che oggi noi leggiamo in un libro saranno state pronunziate, ripetutamente nel tempo, da un pulpito.  Se dobbiamo, poi, parlare di fedeltà formale a tale pensiero, è chiaro che tra tutte le formule fin qui citate si salvano solo la calabrese e la primo delle due napoletane. Tutte le altre mi sembrano, sotto questo punto di vista, da sotterrano definitivamente, senza alcuna possibilità di esumazione o, meglio, di riesumazione, di monge fatto corrispondente a munge. E con questo termina l’autopsia, che rischia di non poter essere ripetuta per perdita della salma (obsolescenza e scomparsa del proverbio dalla memoria del singolo e da quella collettiva) e, già ci siamo, per sua mancanza (con la morte della saggezza, vi pare che potranno in futuro assurgere al ruolo di salme degne di autopsia genialità del tipo del  pluricitato Con la cultura non si mangia o di altre provenienti da un pulpito, quello della pubblicità,  che ha soppiantato quello che fu di Guglielmo d’Alvernia ed è durato secoli. Relativamente alla pubblicità  mi limito ad un solo esempio, nella speranza che finisca di rompermi le scatole sul fisso e sul mobile e, nonostante mi sia iscritto nel pomposo registro delle opposizioni, senza possibilità di vaffanculo (la voce registrata ha proprio la nobile funzione di evitare all’operatore l’offesa, oltre che qualsiasi sospetto di sfruttamento quasi schiavistico da parte dell’azienda …), la multinazionale contro la quale posso usare solo il telecomando per non sentire, da una voce scelta probabilmente perché ritenuta suadente ma che me pare da deficiente (con tutto il rispetto dovut per quelli veri …), Tim, la forza delle connessioni. Quelle neuronali, nel frattempo, che fine stanno facendo?

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1 Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 192-194

2 Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto 311m v. 9

3 Per chi ha voglia di un controllo, segnalo:

https://www.gravinaoggi.it/proverbi-e-detti-popolari-gravinesi—l–.html

https://ilcapocomitiva.blogspot.com/2008/08/detti-baresi-parte-ii-la-vendetta.html

https://bari-e-le-sue-meraviglie.webnode.it/prov

4 Lettore domenicano autore oltre che del Vocabolario del dialetto tarantino in corrispondenza di quello italiano, Tipografia Salvatore Latronico e figli, Taranto, 1872, dalla p. 117 del quale ho riprodotto il dettaglio, di una Storia di Taranto uscita per i tipi di Latronico a Taranto in 5 volumi dal 1878 AL 1879 e ristampata un numero impressionante di volte fino al 1983. Anche il vocabolario ha avuto una ristampa per i tipi di Forni a Bologna nel 1967 e nel 1977 e di Ink Line a Taranto nel 2005.

5 Autore incredibilmente più prolifico del precedente Domenico:

Storia del tarantismo: identità culturale contadina, tarantismo e tarantolismo, Argìa in Sardegna, Ragnatello nero in Sicilia, Solennizzazione delle acque, Ballo, musica popolare e notte della Taranta, Saladino, Palermo, 2017

Tecnica della comunicazione: scuola e formazione, leadership, Youcanprint, Lecce, 2019

Comunicazione e arte. Ars, artis approccio alla lettura dell’arte, Youcanprint, Lecce, 2019

Migranti e comunicazione, Youcanprint, Lecce, 2019

La mafia è liquida, Youcanprint, Lecce, 2019

Il teatro russo, Youcanprint, Lecce, 2020

Il cane pastore tedesco : 21. corso cinofilo della Guardia di Finanza, vita, socialità e lavoro, istinti e comunicazione, percezione e comportamento, prossemica e aggressività, educazione e addestramento, legislazione, Youcanprint, Lecce, 2020

I poteri forti nella società liquida  gruppi di potere & politica & mafia, Youcanprint, Lecce, 2020

I santi della taranta: mondo contadino, i santi attratti nella sfera del tarantismo e danzimania, i sanpaolari, estasi, visioni e peccati, Youcanprint, Lecce, 2020

Peccaminosa Taranta, Youcanprint, Lecce, 2020

Storie di taranta: storie di tarantate e tarantati nella bassa Italia tra morsi, peccati e preghiere, ronde e musica, colori e magia, Youcanprint, Lecce, 2020

St. Thomas Becket di Canterbury: una storia complicata tra la Corona Inglese e la Chiesa, un Cancelliere del Re che diventa Arcivescovo di Canterbury, viaggio nei luoghi di culto in Europa : culto, reliquie e arte di San Tommaso Becket a Mottola, Youcanprint, Lecce, 2020

6 Altre sue pubblicazioni sullo stesso tema: Proverbi: riflessioni sulla sapienza del passato, per un corretto comportamento nel presente, Youcanprint, Tricase, 2013

Proverbi: dalla saggezza del passato, una speranza per il futuro, Youcanprint, Tricase, 2013

Proverbi: semi della tradizione, Youcanprint, Tricase, 2014.

7 Immagine evocata con la stessa contrapposizione, ma in riferimento a situazione diversa, pure in tre esametri che il Du Cange nel suo glossario al lemma villani afferma essere nel Graecismus di Eberardo de Béthune (XII-XIII secolo). Sulla sua autorevolezza e senza controllo alcuno, tanto per cambiare …, tutte le citazioni successive di innumerevoli autori ne ribadiscono l’attribuzione. Peccato, però,  che essi risultano assenti nell’edizione critica a cura di Joh. Wrobel, uscita per i tipi di Guglielmo Koebner a Uratislavia nel 1887. Ad ogni modo, eccoli: Quando mulcetur, villanus peior habetur:/pungas villanum, polluet ille manm./Ungentem pungit, pungentem rusticus ungit (Quando l’abitante in campagna viene blandito, è considerato peggiore: se pungi un villano, ti sporcherà la mano. L’abitante della campagna punge chi lo blandisce, unge chi lo punge). E più vicino a noi,  La parola punge, la lacrima unge in Pietro Fanfani, Cento proverbi e motti Italiani d’origine greca e latina, A spese dell’editore, Firenze, 1887,  p. 48).

8  https://www.dizionario-latino.com/

9 Anche in questo c’è lo zampino dell’affinità fonetica tra mulcère e mulgère. Se fosse stato rispettato l’originario accento latino, in italiano avremmo avuto molcère e mungère. È successo che mungère sotto l’influsso di emùngere (tal quale la voce latina, composto di mulgère) è passato a mùngere ed ha coinvolto nella sistole molcère, nonostante in latino non esista un composto emùlgere.

10 Non mi sentirei di escludere che alla base della deformazione molce>monge ci sia l’esigenza metrica di garantire una rima perfetta ai due quinari costituenti il proverbio.

11 Nel frontespizio del volume citato nella nota successiva si legge in latino, ma per brevità lo riporto solo tradotto: Vescovo di Parigi, matematico perfetto, esimio filosofo e validissimo teologo.           :

12 Riproduco il testo originale dall’Opera omnia, Couterot, Parigi, 1674, tomo I, p. 200.

Il “Quadrato magico del Sator” in un testo seicentesco

Storie di Libri

“Nell’archivio dell’eternità”:
il “Quadrato magico del Sator” in un testo seicentesco

 

di Gilberto Spagnolo

“(…) Il libro è lo strumento che, più di altri, trasmette il sapere; nei libri troviamo le nostre radici culturali; attraverso i libri è avvenuto il dialogo tra i popoli e culture diverse, i libri sono un legame con coloro che ci hanno preceduto e rappresentano il nostro lascito a coloro che ci seguirannoVolutamente abbiamo ritenuto di estrapolare queste significative affermazioni da alcune considerazioni sul “libro come bene culturale” di Geo Magri, per introdurre questo nostro contributo su un argomento che riveste un particolare interesse.

All’archivio dell’eternità” ha infatti affidato il suo libro, scrivendolo nella sua “Lettera Dedicatoria”, il frate carmelitano Elia Sanguineto, (pubblicandolo nel 1674 in Genova con lo stampatore Gio: Agostino di Bernardi, che aveva la sua tipografia nella Piazza dei Giustiniani (ovvero la piazza principale della città) e dedicandolo “all’illustrissimo Signore Agostino Lomellino Q(uondam) Stephaniappartenente ad uno dei casati nobiliari più importanti di Genova. Questa famiglia, secondo il Dizionario Storico-Blasonico del Crollalanza (riporto testualmente) “trae (infatti) origine certa dal secolo XII ed ebbe a capo-stipite un Vassallo da Lumello, console dei Genovesi nel 1197. Nelle fazioni che agitarono la patria seguitò sempre il partito degli Spinola, dei Doria e dei Fregosi; ed oltre le primarie dignità in paese, ebbe spesso anche il comando di armate navali; ambascerie ecc., e nel 1528 formò uno dei 28 alberghi (sic). Nel 1533 Battista Lomellini salì primo al trono dogale dignità conseguita da altri 5 della famiglia. Dette inoltre alla chiesa molti cardinali e vescovi, ed ebbe la signoria dell’isola di Tabarca che le fu tolta dai Turchi. La loro arma è rappresentata da uno “spaccato di porpora” con il motto “Manet Avita Virtus”.

E. SANGUINETO, Fascietto delle Gratie etc., 1674. Frontespizio (coll. privata).

 

Il libro, assai grazioso (“È picciolo, ma è della qualità del Diama(n)te”, lo definisce così lo stesso autore), riporta inciso sul frontespizio lo stemma araldico di Agostino Lomellino, è di piccolo formato, di complessive 52 pagine, copertina in carta avoriata, con capilettera e fregi e s’intitola FASCIETTO/DELLE GRATIE/DI/MARIA SANTISSIMA/DEL CARMINE./Dedicato all’Illustriss(mo). Sig./AGOSTINO LOMELLINO/Q. STEPHANI/IN GENOVA, Per Gio: Agostino De’ Bernardi, nella Piaz-/za de Giustiniani. Con licenza de’ Superiori/. La data di stampa, 1674, la si ricava dalla Lettera Dedicatoria di Frate Sanguineto scritta “Dal Nostro Monastero del Carmine di Genova 6 luglio 1674”. Il testo invece, che si conclude a pag. 52 con l’approvazione delle indulgenze del “Cardinale Bona”, porta la data dell’8 maggio 1673 ed è soprattutto un Sommario “delle indulgenze favori e gratie concesse da diversi pontefici sia ai Religiosi e sia ai Confratelli della Madonna del Carmine nonché a tutti i Fedeli (che) si fossero decisi a visitare le chiese dello stesso ordine”.

Il Sommario appartiene inoltre a una collezione privata ma proviene dalla residenza nobiliare degli Imperiale di Francavilla Fontana, famiglia di finanzieri genovesi giunta in Puglia con Davide dopo la Battaglia di Lepanto nel 1571 e che, nell’arco di poco più di due secoli, riuscì ad acquisire un numero piuttosto consistente di feudi, terre e casali, disponendone, per alcuni di questi disabitati, il ripopolamento. Una famiglia aristocratica che lasciò dunque in Terra d’Otranto un segno forte e indelebile del suo operato; “Feudatari illuminati” contrariamente alle abitudini dell’epoca. Al di là dei suoi contenuti di carattere squisitamente religioso e che interessano relativamente, il libro ha però una singolare particolarità. Contiene infatti, incollato sul risvolto della facciata anteriore della copertina in carta avoriata, un foglietto di forma quadrata in carta pergamenata di cm. 7×7.

E. SANGUINETO, Fascietto delle Gratie etc. Iscrizione del SATOR sul retro di copertina anteriore

 

Posto al centro della pagina, esso riporta, con inchiostro dell’epoca e con caratteri calligrafici probabilmente coevi, il disegno del “Quadrato magico del Sator”, disegno sovrastato (come si può osservare nell’illustrazione) da una firma autografa (quasi uno scarabocchio) lasciata sui margini superiori di essa. Probabilmente quella dell’esecutore materiale del disegno stesso o dell’antico possessore del libro anche se di difficile interpretazione.

E. SANGUINETO, Fascietto delle Gratie etc. Pagina iniziale della “Lettera dedicatoria”

 

E. SANGUINETO, Fascietto delle Gratie etc. Pagina iniziale della “Lettera ai fedeli di Gesù Cristo e ai devoti della Madonna del Carmine”

 

E. SANGUINETO, Fascietto delle Gratie etc. Pagina iniziale delle indulgenze plenarie concesse da Papa Clemente X “in Festis Beatiss. Virg. Mariae de Monte Carmelo” datata 8 maggio MDCLXXIII

 

E. SANGUINETO, Fascietto delle Gratie etc. Sommario “dell’Indulgenze, favori e gratie”, con-cesse da “molti sommi Pontefici”

 

Stemma araldico dei feudatari Imperiale di Francavilla Fontana (incisione seicentesca acquarellata, coll. privata)

 

L’enigma del Sator è un argomento infatti alquanto suggestivo e affascinante; ed è oltremodo singolare specialmente se si considera che tale iscrizione è riprodotta all’interno di un libro così antico. Questo è un fatto soprattutto estremamente raro come ci si può documentare in merito confrontando la sterminata bibliografia di testi, saggi e articoli che sono stati scritti e che parlano di esso.

La ricerca tra queste fonti è assai complessa tanto che se ne interessò perfino Umberto Eco, il grande scrittore, semiologo, saggista di fama planetaria proponendo un libretto di giochi linguistici che prende il nome proprio del famoso quadrato magico leggibile in qualsiasi verso e direzione.

Ad ogni modo, esaminando quelle più significative, in un breve excursus, va evidenziato fondamentalmente che il Quadrato Magico del Sator è uno straordinario mistero dell’archeologia su cui si dibatte ancora per mezzo di nuove ipotesi e interpretazioni. È un testo enigmatico che ha attraversato la storia dell’Occidente, a lungo studiato e variamente interpretato.

La disposizione spaziale delle parole in esso contenute (come si può vedere nelle immagini) allineate in un ideale quadrato di venticinque lettere, gli danno la caratteristica di essere “palindromo” (dal greco palindromos che ritorna, da palin, indietro + dromos, corsa) o un “bifronte”. Esso cioè mantiene intatto il significato in differenti direzioni di lettura, caratteristica per la quale è altresì appellato come “quadrato magico” di tipo numerico. Nei quadrati aritmetici i numeri sono generalmente collocati in celle separate e disposti in modo tale che ogni riga, ogni colonna e le due diagonali principali diano la stessa somma.

Le parole che compongono questa celebre iscrizione sono 5 ovvero: “Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas” e rappresentano “un rompicapo che, immutato, ha attraversato la storia”. È la terza parola, “tenet”, ad essere palindroma, ossia può essere letta in entrambi i sensi, come lo è la frase nella sua interezza. Non solo, se mettiamo la parola una sotto l’altra otteniamo un quadrato 5×5 in cui la frase può essere letta, da sinistra a destra e viceversa, dall’alto in basso e viceversa tranne in diagonale.

Tradotto “letteralmente (“Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas”) infine dà origine alla frase “il seminatore Arepo tiene con la sua opera le ruote”.

L’iscrizione è stata oggetto di frequenti ritrovamenti archeologici sia in epigrafi lapidee sia in graffiti ma il senso e il significato simbolico rimangono ancora del tutto oscuri nonostante le numerose ipotesi formulate e che dividono gli studiosi (che comunque tralasciamo). Va inoltre precisato che storicamente esistono due esempi di tale iscrizione. Nelle attestazioni di età romana il quadrato inizia indifferentemente con il termine ROTAS e termina con SATOR (probabilmente la versione più antica) oppure inizia con SATOR (come nel nostro caso) e termina con ROTAS che è la versione medievale quella prevalente del quadrato, ovvero con il termine SATOR all’inizio e ROTAS alla fine.

I ritrovamenti sono avvenuti un po’ ovunque in Europa. Dall’Italia all’Ungheria, passando per Francia, Spagna e Inghilterra. Esso viene riscoperto infatti tanto in siti archeologici romani e paleocristiani quanto medievali, su edifici di culto come su manoscritti secolari; sulla superficie di vasi e coppe e allo stesso tempo su mosaici pavimentali, sotto forma di incisione grafica o epigrafe; e ancora in forma quadrata ma anche rettangolare e persino circolare (come nel caso di quelli che sono stati trovati ad Aosta e Sermoneta). Insomma è venuto alla luce più volte in luoghi e reperti di epoche e popoli differenti.

Per quanto riguarda i ritrovamenti avvenuti in Italia, molto utile e interessante è il libro di Roberto Giordano “l’enigma perfetto. I luoghi del Sator in Italia”, perché presenta una catalogazione di ritrovamento di esso nelle varie regioni italiane.

Le schede che si riportano nel libro sono relative a 14 regioni comprensive di 30 segnalazioni (tra cui la Puglia) con la descrizione dettagliata dei vari contesti (chiese, archivi, siti archeologici nei quali si trova Il Palindromo). I più antichi, com’è noto, sono stati trovati in Campania negli scavi dell’antica Pompei (risalenti certamente a prima dell’eruzione del 79 d.C. che ricoprì e conservò la città) svolti dall’archeologo ed epigrafista Matteo della Corte e precisamente nell’atrio della casa di Publio Paquius (5 ottobre 1925) nelle crepe consunte dell’intonaco e sullo stucco di rivestimento della colonna LXI della Palestra Grande risalente al I secolo a.C. (nel novembre del 1936).

Seguono con le loro testimonianze e descrizioni la Valle D’Aosta (Aosta, Issogne), il Piemonte (Vercelli), Liguria (Genova), Lombardia (Amberete-Brusaporto, Pieve Terzagni), Veneto (Pescantina-Arcè, Verona due segnalazioni), Trentino Alto Adige (Bolzano), Emilia Romagna (Modena), Toscana (Campiglia Marittima, Siena, Lucca), Marche (Canovaccio, Marischio, Monterubbiano, Paggese), Lazio (Collepardo, Montecassino due segnalazioni, Roma, Sermoneta), Abruzzo (Campotosto, Capestrano, Magliano De Marzi), Molise (Acquaviva Collecroce).

Agro di Nociglia, Iscrizione del Sator del 1808 di proprietà Casto (in V. PELUSO, Iscrizioni latine del Salento leccese)

 

In Puglia ne sono stati censiti solo due e precisamente la chiesa del SS. Sacramento ad Ascoli Satriano e quella della SS. Annunziata a Deliceto, uniche in Puglia sui cui prospetti esterni compaia, incastonato il Quadrato Magico del Sator. In realtà le testimonianze nella nostra regione sono molte di più e, soprattutto, bisogna dire che il Salento è una delle aree geografiche dove il Sator è più diffuso.

Iscrizione del Sator della prima metà del XIII secolo in caratteri greci (in A. JACOB, Une bibliothéque medievale etc.)

 

Sappiamo infatti che il grande studioso André Jacob (che manifestò particolare interesse per il nostro territorio dal 1977 “lasciando una inestinguibile eredità attraverso i suoi scritti”) aveva rintracciato quello che allo stato attuale dei ritrovamenti è il suo più antico esemplare. Il Sator infatti era tra le annotazioni aggiunte in caratteri greci sui margini dei fogli di un codice greco salentino e precisamente nel codice Vat. gr. 2383 “manuscrit salentin d’Hésiode daté de 1287”. Jacob lo segnalò nel suo studio intitolato Une bibliotheque medievale de Terre d’Otranto pubblicato sulla Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici degli anni 1985-1986.

U. ECO, Sator arepo eccetera, Edizioni gransasso nottetempo, Roma 2006. Copertina

 

Un altro studioso salentino non meno importante, ovvero Vincenzo Peluso, in un contributo sulle “iscrizioni latine del Salento Leccese”, segnala anche la famosa iscrizione a lettura “bustrofedica” (cioè a serpentina ovvero, come già detto che si può leggere in varie direzioni – tranne che in diagonale –, in orizzontale come in verticale; da sinistra a destra come da destra a sinistra; alternando per ogni linea la lettura da destra a sinistra e da sinistra a destra); la segnala incisa invece nel 1808 sull’architrave all’ingresso di un fabbricato rurale in località “casino” di Nociglia. Alcuni anni fa il fabbricato fu demolito ma l’iscrizione fortunatamente fu recuperata e conservata dal proprietario Giuseppe Casto.

Iscrizione del Sator sull’architrave del Palazzo in Via Mory a Galatina (foto Santino Specchia)

 

Ancora più recentemente il quadrato del Sator è comparso a Galatina durante i lavori di restauro condotti su un edificio situato in via Mory, sull’antica facciata di un palazzo probabilmente risalente ad età tardomedievale o in stile medievale. Il Sator è stato individuato sull’architrave di una delle sue tre porte d’accesso, esattamente su quella di destra – due di esse sono contigue –, in origine certamente la porta del palazzo. Secondo Mario Cazzato infine, in passato, un altro esemplare del Sator doveva essere presente anche sulla facciata della Chiesa Madre di Cavallino, al cui interno vi è la cappella dei Castromediano con il monumento funebre di famiglia (1637), ma oggi non più reperibile.

Il ritrovamento del Sator nella forma medievale apposto quasi come un sigillo sul libretto del padre carmelitano Sanguineto, oltre a indicarlo come un documento eccezionale, chiama ora in causa l’identità dell’anonimo esecutore di esso, il significato e la funzione che voleva dargli e, soprattutto, come hanno evidenziato Pietro Giannini e Biagio Virgilio “le infinite proposte che si sono susseguite sul significato del rebus che via via evolvono dai significati cristiani a quelli magici atropopaici e perfino satanici”. 

Per maggiore chiarezza riporto l’efficace sintesi di Roberto Giordano che a tal proposito sottolinea come “ancora oggi, infatti, sull’origine e il significato di questa formula si contrappongono diverse correnti di pensiero sviluppatesi nel corso del tempo; tra le principali ricordiamo quella che sostiene l’origine pagana e ludica (nata cioè come gioco), quindi quella che vede un’equivocabile e nascosta matrice cristiana, e ancora un’altra che considera il Palindromo di estrazione pagana ma, per il significato misterico delle parole e per quel TENET a forma di croce situato nel mezzo del quadrato, lo ritiene uno strumento di riconoscimento utilizzato dai cristiani dei primi tempi. Infine l’ultima, legata a un filone mistico e occulto, che si è andata ad affermare soprattutto in tempi recenti”.

Ovviamente non sono state mai trovate prove definitive che possano dimostrare la sua appartenenza cristiana o pagana né che gettino luce su una possibile traduzione. Trattandosi di un libro dai contenuti religiosi siamo portati a pensare che chi lo ha disegnato firmandolo ha voluto forse ancorarne il suo significato proprio alla matrice cristiana, Non sarebbe però da escludere nemmeno l’uso atropopaico se si tiene presente, a nostro avviso, che il libro proviene, come già detto dalla residenza nobiliare degli Imperiale di Francavilla Fontana originaria di Genova, città in cui è conservato nell’Archivio di Stato, un documento del 1259 su cui il Sator è riportato come augurio per la buona riuscita di un parto, con l’invito a mostrarlo a una partoriente.

Il quadrato magico, nell’uso atropopaico è stato infatti utilizzato (si legge su wikipedia) “come simbolo della croce di Cristo con l’invito a far rientrare un fuggitivo (un manoscritto del XII secolo), come protettore dai fulmini, dagli incendi, da malattie varie quali l’idrofobia, il mal di denti, il morso dei cani etc.

Lo studioso emerito Jacob sottolinea proprio questo aspetto quando ne indica “une fonction prophylactique et magique et qu’on y recourait notamment pour la guerison de certaines maladies”, con utili e preziosi riferimenti bibliografici in merito al Sator in caratteri greci identificato sul manoscritto greco. In particolare l’opera di Girolamo Cardano, filosofo e medico originario di Milano dal titolo De rerum varietate, stampata a Bale (Basilea) nel 1557; opera in cui la formula del Sator è espressamente riprodotta e citata come esorcismo, rimedio alla rabbia, alla cura del morso del cane. La presenza infine dei Sator nel Salento, posti in bella mostra sugli architravi delle abitazioni, come nei casi di Nociglia e Galatina, rafforzerebbero questa ipotesi. Una formula rituale perciò in grado di prevenire le disgrazie e superare le avversità, con funzione di scongiuro. Un talismano, una sorta di amuleto portafortuna, in grado di proteggere e allo scopo di attirare le influenze benigne e allontanare quelle cattive. Con tale convincimento e a supporto di esso, nel concludere, vogliamo citare il prezioso e rarissimo saggio di Francesco Babudri, intelligente e colto studioso di cultura popolare (nato a Trieste ma Barese di adozione) pubblicato nel lontano 1946 sulla rivista Japigia con il titolo Il criptogramma pompeiano in una leggenda plutonica del Salento, Salento che lui stesso definisce “nobilissima terra a cui ci si deve inchinare non solo per le secolari sue vicende, ma anche perché il suo folklore offre aurei motivi, talora anche inattesi, di altissimo valore storico, artistico e demopsicologico”. Babudri con il suo studio ci porta a conoscenza che l’epigrafe poi scoperta a Pompei, la sua “popolarità” e la sua “venerabilità” erano già note in tempi molto antichi.

C.L. ARDITI, Santuario della Beata Vergine e Promontorio di Leuca (litografia da La Leuca Salentina di G. Arditi), Bologna 1875, coll. privata)

 

La leggenda, in cui è presente uno scongiuro contro sette diavoli e le loro vipere, è legata infatti alla famosa località di Porto Badisco ed è raccolta all’epoca da Babudri da un certo signor Donato Chiriatti pubblicandola fedelmente nel suo saggio in dialetto leccese. Lo studioso scopre nella narrazione raccolta dal Chiriatti, in particolare in alcune parole (“Satrepo-Tenopra-Rotas”), “una palesissima storpiatura popolaresca della formola famosa del criptogramma di Pompei nella sua efficacia esorcistica di funzione rituale e magica, prettamente apotropaica (liberatrice).” (…) L’uso che nella leggenda salentina se ne fa (sottolinea ancora Babudri nella sua lunga, documentata e dettagliata dissertazione) dimostra che al criptogramma, si volle annettere la funzione e l’efficacia di potente scongiuro e di esorcismo non meno efficiente”, recitato nella certezza di ottenere così la liberazione dai più gravi malanni corporali e spirituali.

Storie di libri dunque ma anche storia dell’uomo che recupera la conoscenza e ne conserva la memoria, storia di vita in cui si riannodano i fili invisibili che legano saldamente le generazioni e che si susseguono nello scorrere misterioso del tempo.

L’illustre studioso Andrè Jacob (foto da www.leccesette.it, in “Ricordo di Andrè Jacob” di Alessandro Laporta, “Nova LiberArs”, numero 0, dicembre 2019, p. 27)

 

In “spazioapertosalento.it”, 9 luglio 2023 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Novoli 2024.

 

Appendice

La leggenda plutonica di Porto Badiscu

Nu giurnu Belzebù disse alli diauli soi: – Iti currere moi cu fermati na prucessione ca sta bbae a la Madonna de Finibusterre, percè se no perdimu mute anime, ca la Mamma de Cristu ole salve. – Tutti obbedera, menu sette diauli, e Belzebù nde li cacciau de l’infiernu e pe’ quistu ibbera a scire cammenandu pe’ lu mundu. Ota de quai, ota de drai, rriara propriu a lu Capu de Lecce, nnu mutu luntanu de lu Santuariu de la Madonna, addune a principiu nnu bulianu bbàscianu. Ripa ripa a lu mare, truara nna rutta longa e stritta: trasera e dissera tra iddri, ca addrai janu stare chiù frischi de l’infiernu, addu facia sempre càutu. Nturnu, nturnu nun nc’era anima ja, nc’era sulamente qualche cosa de buenu cu mangianu. E poi a li diauli nnu’ manca mai de mangiare. Nna matina ca lu mare era ressu e nnu’ se putia pescare cu la lenza, e nterra la burrasca ja spugghiatu puru li stierpi de li pariti, li sette cumpari se misera a ruddrare nnu picca megghiu intra la rutta, e cu muta meraviglia truara, una de coste all’autra, intra la luta ntustata de la terra, sette pignate chine de ogni bene de Diu. – «Una petunu» – se misera a retare – e pensando ca nc’era ogni sorta de bene de Diu, le aprera, e cu meraviglia truara invece tanti beddri ducati de oru. Pacienza!, eppuru lu chiù piccinu de li sette diauli se mise a ballare nturnu nturnu a li pignate e terau cu iddru li cumpagni a nnu ballu de diauli. Balla, balla, tutti sette fenera cu li piedi e la panza a l’aria. De ddru momentu se persuàsera ca cu se tegnanu tuttu dr’oru nun mb’era nu fiaccu pensieru. Ccusì successe ca quandu mangiaanu o dormianu o parlaanu de li affari loro, stianu settati de coste alle sette pignate. Anzi, cu nun le pigghia nisciunu cu le spogghia, l’janu circundate de stierpi e de jipere mbelenate, ca iddri janu chiamate de intra a le crepature de la rutta fescandu.

Na sira cappau nnanzi a la rutta na ecchiareddra, e li diauli sentera stu chiantu: – Facitime la carità!… Facitime la carità!… – Iddri se misera a ridere; ma la ecchiareddra secutau lu lamentu. – Bah – disse lu diaulu cchiù bbecchiu – damuni quarche cosa… – e senza cu spettanu una risposta, scettara fore a la rutta do beddri zecchini d’oru. La ecchia li zzeccau e, zumpando pe’ lu presciu, comu nna sarmeula senza nna gamba, se nde sciu felice e cuntenta e cuntau la bona sorte a le cummari. Quandu lu giurnu doppu li sette diauli, ca sta pigghiaanu nnu picca de sule, percè era tiempu de jernu, se iddera enire de facce nnu mundu de ecchie cu cercanu la carità: sgubbate, sturpiate, ritte, rasse, mazze, seccate: de tutti li generi. Li diauli nd’ibbera paura e cursera cu se scundanu intra la rutta: de ddrai se misera a menare petre. Ista la mala parata, le ecchie scappara, mentre li diauli redianu. Ma risera pe’ picca, percè le ecchie turnara. Ci nd’era una chiù bauta, chiù longa e chiù seccata de tutte. Sta fiata nu’ cercara la carità, ma senza storie dissera cu ne descianu a retu le sette pignate d’oru. – Ueh, ueh!… – dissera tra iddri li diauli – comu facenu cu saccianu ca su’ sette? – Mandara cu parla lu diaulu cchiù furbu. Ni sciu nnanzi la cchiù longa e senza muti preambuli ni turnau a cercare le sette pignate d’oru. Lu diaulu se mise a ridere e ni musciau la lingua stritta intra li dienti, comu facenu li diauli; ma la ecchia longa longa retau alle cumpagne: – Eniti nnanzi cu mie! – Lu diaulu se dese a retu, e iddra se mise a dire a bbuce auta: Satrèpo!… Satrèpo!... – finu a quandu nnu rriau cu l’autre alla ucca de la rutta. Addrai le fimmene se ibbera ntorna nna scarecata de petre, ma la longa retau nn’autra fiata: – Satrèpo! – e continau: Satrèpo tenòpra rotàs.

Quandu ibbe ditto: – Rotàs! – le petre caddero subbra li diauli, ca se misera a fuscere, se òsera cu salvano la cuda e se menara a mare, addune natando turnara a casa lu diaulu. Ma nc’eranu le jipere ca uarddaanu le sette pignate d’oru; e allora la ecchia ’ncignau ntorna cu la uce auta lu spergiuru: – Sartrèpo tenòpra rotàs! – e le jipere cadera a nterra e se ficera cinnere niura. Ccusì le ecchie de Portu Badiscu se piggliara le sette pignate d’oru, ca dentara la fortuna de le case loro e de tutto lu paise.

 

Fonti bibliografiche di riferimento

F. Babudri, Il criptogramma pompeiano in una leggenda Plutonica del Salento, in “JAPIGIA”, a. XVII, Bari 1946, pp. 105-116 (emeroteca.provincia.brindisi.it).

Basile V., Gli Imperiale in Terra D’Otranto. Architettura e trasformazioni urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo,Mario Congedo Editore, Galatina 2008.

G.B. Crollalanza, Dizionario Storico – Blasonico delle Famiglie Nobili e Notabili Italiane estinte e fiorenti, vol. II, presso la Direzione del Giornale Araldico, Pisa 1888, pp. 30-31.

U. Eco, Sator, Arepo eccettera, Edizioni Gransasso Nottetempo, Roma 2006. Libro in cui Eco “raccoglie giochi linguistici fatti per lo più in forma privata, giochi per tenere in esercizio la lingua e divertirsi”.Non a caso il titolo del libro riproduce il contenuto del famoso quadrato magico.

R. Giordano, L’enigma perfetto. I luoghi del Sator in Italia, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2013.

P. Giannini – B. Virgilio, Il quadrato del Sator a Galatina, in “il Galatino”, venerdì 27 gennaio 2023.

A. Jacob, Une bibliothèque medièvale de Terra D’Otrante(Parisinus gr. 549), in “Rivista di studi Bizantini e Neoellenici”, n.s. 22-23 (1985-1986), pp. 285-315 con utili riferimenti bibliografici (in particolare le pagine 293-294).

A. Laporta, Ricordo di Andre’ Jacob,in “Nova LiberArs”, Argomenti Edizioni, Novoli 2019, pp. 27-29; Idem, San Vito e Vanini, in Aa.Vv., San Vito nella storia religiosa e nella devozione popolare tra Europa e Salento. Convegno di Studi per il terzo Centenario delle reliquie del Salento a Lequile, a cura di Mario Spedicato, Edizioni Grifo, Lecce 2023, pp. 87-91, in particolare le pagine 90-91 per i riferimenti a Jacob e a G. Cardano. Jacob era nato nel 1933 a Vervier in Belgio ed è venuto a mancare il 27 febbraio del 2019.

V. Peluso, Iscrizioni Latine del Salento Leccese,in “Bollettino Storico di Terra D’Otranto”, n. 8-1998, Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 114-178, p. 136 (Peluso parla di “Insospettata presenza”). 

http://www.aedon.mulino.it/ Geo Magri, Alcune considerazioni sul mercato del libro antico dopo la legge 6 agosto 2015, n.125/1. Il libro come bene culturale/.

http://www.indaginiemisteri.it/ Samuele Corrente Naso, Il quadrato del Sator Un’enigma che attraversa la storia – indagini e misteri/.

http://www.it.m.wikipedia.org/ Quadrato del Sator Uso Atropopaico.

http://www.isdmagazine.com/ Bari, storia di una città. Francesco Babudri, un Istriano nella città vecchia, 2 aprile 2021.

Va detto inoltre, che è stato ipotizzato anche un legame tra il Sator e i Templari, i quali avrebbero adattato questo simbolo per contrassegnare alcuni luoghi particolari. Infatti, molti quadrati magici si trovano nelle località che furono sedi Templari. Più specificatamente, nell’iscrizione è stato individuato il collegamento con la croce dei Cavalieri Templari. Le due parole TENET, se la si osserva attentamente, formano una croce a bracci uguali; congiungendo poi le A e le O con la N che sta al centro e tracciando il cerchio di raggio NA (o NO) si ottiene la famosa “croix pattè” (Croce Patente) dei Cavalieri Templari (https://www.edizioninisroch.it//Nuove interpretazioni del Quadrato Magico Sator, di Mauro Garbuglia, 15 luglio 2020); http://www.siena-agriturismo.it/ I Cavalieri Templari. Verità e Misteri sui Cavalieri guerrieri

A proposito di BRANDICI

di Armando Polito

Sull’etimo dell’attuale toponimo Brindisi rinvio a quanto ho riportato più di dieci anni fa1. Qui mi occupo solo della variante Brandici, della cui esistenza sono venuto a conoscenza grazie ai due recenti contributi di Vito Ruggiero2 . Incuriosito dal quasi abisso formale tra Brandici e Brindisi, mi sono avventurato in una ricerca dalla quale è emerso che il toponimo nel tempo ha subito un vero e proprio bombardamento, i cui effetti filologicamente più interessanti  riguardano la prima vocale, con passaggi disinvolti tra tutte e cinque le finora conosciute. Non è certamente un fenomeno nuovo, ma non mi attendevo simile concentrazione di colpi del detto bombardamento su un unico bersaglio. Tutto questo, dettaglio non da poco, è emerso da testi a stampa, non da manoscritti, per i quali, è intuitivo, non irrilevanti sono i rischi connessi non solo con la scrittura ma anche con la lettura. Era naturale che Brandici fosse la parola chiave della fase iniziale della ricerca e, coincidenza incredibile, subito un testo tedesco del 1526 (di seguito il frontespizio)

mi ha offerto la tavola che riproduco

e, nel dettaglio ingrandito, BRANDICIO,

Nel riquadro a sinistra col titolo Verenderlung erliche namen (cambio inevitabile del nomi) per ogni toponimo sono riportate accanto alla forma antica quella che presumo fosse  corrente alla data della tavola (alcune delle seconde forme sono tali e quali le attuali).

Per i i toponimi relativi alla Terra d’Otranto compaiono nel riquadro solo

BRUNDUSIUM BRANDITIO

TARENTUM TARANTO

 e sulla tavola

TARANTO

BRANDICIO

OTRANTO e sopra, per me incomprensibilmente (mi sarei aspettato la collocazione della coppia nel riquade), HYDRUNTUM.

Comunque, a quanto pare, a distanza di dodici anni  BRANDICI sembra aver sostituito o, più probabilmente, affiancato BRANDICIO. E la resistenza di quest’ultimo è testimoniata dalla sua presenza qua e là in Il portolano del mare,  Zanetti & C, Veneziam 1576, mentre al di fuori della cartografia, anteriore al 1526 l’ho trovato nel portolano di Alvise Da Mosto risalente al 1477, ma pubblicato quasi un secolo dopo3.

 Per la serie di l’appetito vien mangiando, spunta un altro problema: qual è la sillaba tonica di BRANDICI e, dunque la soluzione del dilemma:  BRÀNDICI o BRANDÌCI? Un’ipotesi di lavoro ce l’avrei, ma va approfondita ed adeguatamente documentata, sfruttando (e come si può fare altrimenti?) le innumerevoli varianti, oltre quelle menzionate nel primo post di  Vito Ruggiero all’inizio citato. Non mancherò, quando tutto sarà pronto, di metterne al corrente chi ancora nutre siffatti interessi, anche se non mi illudo che la mia conclusione possa essere convalidata fra qualche decennio, quando la tecnologia sarà in grado di captare da un vecchio, magari collassato, muro i residui delle onde sonore rimastevi imprigionate nel tempo. In fondo qualche decennio fa chi poteva prevedere che all’archeologia predatoria del periodo borbonico sarebbe subentrata quella moderna che, fra l’altro, grazie ai graffiti, ci ha restituito testimonianze del latino parlato quasi duemila anni fa? E chi, in tempi più vicini a noi, poteva prevedere la rivoluzione che in campi diversi avrebbe operato il DNA o l’informatica, mentre l’Intelligenza artificiale bussa già alle nostre porte? Non è un invito ad impedire la cremazione, ma a pensarci su almeno un attimo, prima di abbattere un muro che sembra fare oscena esibizione della sua età …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/05/03/brandici-la-piu-antica-e-rara-mappa-di-brindisi-che-brindisi-non-conosce/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/05/14/brandici-la-piu-antica-e-rara-mappa-di-brindisi-che-brindisi-non-conosce-gli-aspetti-topografici-della-carta/

3 In Libro del consolato de’ marinari, Ravelnoldo, Venezia, 1567.

BRANDICI II e il Molino Atlas – Un secondo inedito documento cartografico di Brindisi dal titolo “Brandici”

di Vito Ruggiero

 

Questo articolo è tratto dalla postfazione del libro “Brandici – La più antica e rara mappa di Brindisi, che Brindisi non conosce”, integralmente dedicata ad una seconda opera cartografica su Brindisi, anch’essa dal titolo “Brandici”. Anche quest’opera è del tutto inedita per la città e mai descritta in alcuna pubblicazione locale. L’ho ritrovata più o meno casualmente alla fine degli studi sulla prima opera Brandici protagonista dei due precedenti articoli pubblicati su questo sito.

In genere la postfazione di un libro viene scritta nelle edizioni successive alla prima, quando c’è un elemento nuovo che si vuole aggiungere. Può sembrare assurdo, ma mi sono praticamente trovato in questa situazione quando avevo ormai appena concluso lo studio di Brandici e la stesura di queste pagine, quindi un attimo prima di diffondere la mia ricerca.

Ero nella classica fase della revisione finale e degli ultimi accorgimenti grafici quando mi sono imbattuto casualmente in quella che posso senz’altro definire la mia seconda personale “scoperta”, per molti aspetti sorprendente quanto la prima.

I miei studi su Brandici li ritenevo oramai terminati, ma tra una cosa e l’altra mi restava ancora qualche dubbio o meglio alcune curiosità sull’opera che non avevo ancora soddisfatto. Probabilmente questo è normale, accadrà anche in futuro, ma avevo deciso che l’esito di questi approfondimenti non dovesse più modificare la mia ricerca scritta.

Invece quello che ho trovato è sorprendente e non ho potuto non menzionarlo alla fine di questa lunga ricerca, con la solita speranza di stimolare qualcuno ad approfondire.

Anche se lo studio ormai era concluso non ho mai smesso di girovagare in rete e negli archivi on-line delle maggiori biblioteche, alla ricerca di ulteriori tracce della presenza di Brandici, sotto forma di descrizione o citazione in qualche fonte che possa essermi sfuggita perché magari dispersa negli angoli più remoti del web, nonostante avessi già trascorso decine di ore a digitare la parola magica “Brandici” su tutti i motori di ricerca.

Ad un certo punto mi è tornato in mente che Rodney Shirley nel suo articolo “Rare Italian Woodcut Maps of the Sixteenth Century”, già ampiamente raccontato nel libro, concludeva che aveva depositato, nei primi anni Novanta, una copia di tutte le famose mappe ritrovate da Tibor Szathmáry nella British Library Map Library.

Ho quindi pensato di digitare la parola “Brandici” nel motore di ricerca della National British Library, una delle più grandi al mondo, sperando che saltasse fuori l’opera in forma di copia depositata da Shirley insieme a tutte le altre del famoso ritrovamento Tibor Szathmáry.

È avvenuta così la sorprendente scoperta: delle copie di Shirley nessuna traccia, ma con il nome Brandici è risultato esistere un altro documento depositato negli archivi della British Library, così censito “Map [BRANDICI] – Sloane, Hanse, Sir 1660-1753 former owner.; George III, King of Great Britain, 1738-1820 former owner.; George IV, King of Great Britain, 1762-1830, donor: Molino, Marco former owner. About 1630; Brindisi, Italy; Venice”.

Questa seconda mappa di Brindisi dal nome Brandici, pur non trattandosi di una stampa, è anche lei totalmente sconosciuta ed era indicata nel genere “Map” della British Library, così descritta: “A collection of 94 maps and plans of different places, chiefly of dependencies on the seignory of Venice; drawn by various artists in the seventeenth century, some for Marco Molino, some for Domenico Molino, whose names and arms are found on several of the plans. Publisher Venice, producer not identified, creation date about 1630, scale not given, 1 map: manuscript pen and ink over pencil with watercolor; 39×55 cm. Available at British Library maps collection location K.Top.78.31.a (vol.i.19).”

In pratica si tratta di un atlante con circa un centinaio di mappe disegnate a mano ed acquarellate, realizzato per Domenico e Marco Molino, due importanti figure politiche veneziane della prima metà XVII secolo.

A quel punto ho immediatamente contattato la British Library, per capire bene di cosa si trattasse ed anche per avere delle immagini del documento. Era evidente che per una seconda volta mi trovavo davanti ad un’opera eccezionale, unica e completamente sconosciuta alla città di Brindisi, forse ancor più della precedente, in quanto irreperibile anche sul web. E non sapevo se si trattasse di una pianta del porto, di una stampa, di una carta topografica o quant’altro. Nessuna immagine e nessuna ulteriore informazione era disponibile in rete.

Di quest’opera non esiste una copia digitalizzata, e pertanto è impossibile avere delle immagini tramite il sito della British Library.

Sappiamo già che con il nome Brandici non risulta esistere alcuna mappa della città nelle pubblicazioni locali e non solo, quindi anche questo documento ha assunto per me un valore importantissimo.

Ho preso contatto con un dipendente della British Library del team delle mappe e dei manoscritti, molto gentile e disponibile. Grazie alle informazioni che mi ha potuto fornire ho ricostruito quello che riassumo brevemente.

La tavola su Brandici individuata nella British Library, che per non confonderci ho battezzato “Brandici II”, appartiene ad un atlante manoscritto chiamato Molino Atlas, l’Atlante di Molino, scritto a Venezia intorno al 1630. Il documento non ha un titolo.

Si tratta infatti di una collezione senza titolo di 94 mappe e piani, la maggior parte dei quali di località di interesse per i veneziani dell’epoca, rilegata in copertina marrone del ventesimo secolo, che sul dorso riporta il titolo Molino Atlas of the Venetian States. I fogli misurano 445×330 mm, sui quali è presente un timbro arancione ovale ad indicare l’acquisizione del British Museum (BM) che riporta la stampa ‘GR III’.

L’opera, suddivisa in due volumi, prende il nome dal suo primo proprietario, il politico veneziano Molino al quale essa è dedicata (come indicato nella prima mappa Mare Adriaticum Sive Suprum Nunc Golfu di Venetia).

Domenico Molino era stato patrizio e senatore, sodale di Paolo Sarpi e corrispondente assiduo di dotti protestanti, promotore di studi medievistici condotti principalmente dagli ecclesiastici Felice Osio e Lorenzo Pignoria. Raccolse una celebre biblioteca, dispersa dopo la sua morte nonostante l’interessamento della stessa Repubblica di Venezia per un suo acquisto.

L’atlante divenne parte della collezione della biblioteca di Sir. Hanse Sloane per essere poi offerto alla Regina Carolina, consorte di Giorgio II, che si era molto interessata a quest’opera.

Sir. Hanse Sloane è stato un medico e naturalista britannico che nel 1727 successe a Isaac Newton nella presidenza della Royal Society. Lasciò nel testamento come una “specie” di offerta a re Giorgio II di Gran Bretagna la sua collezione di vegetali, reperti, antichità e manufatti che andò a costituire il nucleo di quello che divenne in seguito il British Museum di Londra.

I volumi divennero quindi parte della collezione Reale, per finire prima nel British Museum in seguito alla successiva donazione di Giorgio IV, e quindi nella British Library.

E‘ presente una tavola di indice per ciascun volume contenente la lista di 48 items per il primo volume e 47 per il secondo. Le mappe sono state realizzate da vari autori e rappresentano fortificazioni, città e porti sotto l’influenza diretta veneziana o comunque importanti per Venezia dal punto di vista politico o commerciale. Il secondo volume contiene soprattutto piani senza titolo di fortificazioni, delle quali alcune appaiono essere bozze di ipotetici lavori con l’indicazione di linee di fuoco a matita e di varie bozze di annotazioni.

La maggior parte delle mappe sono colorate in acquarello e datate intorno al 1630. Solo alcune sembrano essere di alcuni decenni successive, probabilmente aggiunte in un secondo momento.

Giusto a titolo di esempio, per non dilungarmi troppo nell’ indicarle tutte, nel primo volume possiamo ritrovare le mappe di Mare Adriatico (1), Candia (2), Zara (5), Castello di Milano e fortezza di Brescia (8), Trieste (9), Algeri (23), Monte Falcone e Friuli (25), Golfo di Cattaro (27), Curzola (28), Bergamo (32), e tante altre.

La tavola di Brindisi (Brandici) è la numero 37, intitolata nell’indice Pianta dela Forteza de Brandici e misura 405×565 mm.

Ritengo che si possa dire con certezza che si tratti di una copia unica, realizzata a mano, totalmente ignorata dalla nostra città e molto probabilmente ignorata da tutti coloro che si sono occupati fino ad oggi della cartografia storica della città di Brindisi.

E se la prima Brandici è certamente la più antica mappa di Brindisi, Brandici II del Molino Atlas, a poco meno di un secolo di distanza, con molta probabilità ne è la successiva in ordine temporale, perché non si può considerare la famosa rappresentazione dei Commentari di Giulio Cesare del Palladio del 1575 una vera rappresentazione di Brindisi e del suo porto, riferendosi addirittura al tempo dei romani. I disegni anonimi della fine del XVI secolo conservati a Firenze presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (dis 4284/A), a Roma presso l’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio e a Napoli presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III (Ms. XII D.69.)  si limitano invece al solo circuito murario di Brindisi ed alla pianta del porto, senza altri riferimenti topografici.

Appare evidente che Brandici II meriterebbe uno studio dedicato e dettagliato, per certi aspetti anche piuttosto complesso per la difficoltà di poterla visionare e per le poche informazioni disponibili. Ma non è lo scopo di questa ricerca, e quindi mi limito a poche osservazioni.

Casualmente, e solo grazie a Brandici, ora sappiamo che la nostra città ha anche una seconda rappresentazione grafica, in questo caso del XVII secolo, con questo nome. Spero vivamente che qualcuno voglia prendersi cura di studiarla meglio di quanto abbia potuto fare io.

Dopo un anno di ricerche dedicato alla prima opera Brandici, scoprire dell’esistenza di una seconda mappa con quel nome è stata una sorpresa incredibile e del tutto inaspettata.

Da un lato, la soddisfazione dell’aver trovato un secondo riscontro dell’uso del nome Brandici per indicare Brindisi, con l’informazione aggiuntiva che questo nome era ancora usato a Venezia nella prima metà del XVII secolo. Dall’altro, la curiosità enorme di poter vedere questa seconda mappa, essendo praticamente sicuro che, forse ancor più di quella oggetto del mio studio, questa mappa è totalmente ignota alla città ed agli storici che l’hanno studiata nei secoli.

Non essendo riprodotta digitalmente ho chiesto alla British Library come dovevo fare per vederla. Sarei stato disposto anche ad andare appositamente a Londra per farlo, ma l’opera è purtroppo classificata come “resricted items”, vale a dire che non era possibile averla in visione in una sala lettura. A questo punto ho spiegato al “Maps and Manuscripts Reference Team” tutti gli studi che avevo effettuato con le motivazioni del mio interesse ed ottenuto una gentilissima concessione: un dipendente è stato autorizzato a fare delle foto alla tavola di Brindisi per me, che mi sono state prontamente inviate dopo pochi giorni. Forse avevo nelle mani una vera e propria esclusiva.

Appena le ho visionate non nego di aver pianto per la commozione. La mappa è particolarissima: trattasi di un disegno molto colorato e bello. A mio giudizio molto diversa da tutte le altre.

Molino Atlas – 1630 circa, dagli Archivi della British Library

 

Nell’opera sono messe in risalto tutte le fortificazioni intorno al porto, mentre i dettagli topografici della città sono piuttosto trascurati.

In seguito ad apposita richiesta ho ottenuto l’autorizzazione della British Library a pubblicare l’immagine che mi hanno fornito, proveniente dal loro archivio. Due particolari di questa mappa sono già stati riprodotti nei paragrafi dedicati al nome Brandici e alle torri angioine del porto.

Abbiamo già visto come siano ben evidenti, più che in qualunque altra mappa della città, le fortificazioni intorno all’imboccatura del porto, con addirittura tre torri sulla parte di levante e diverse strutture anche sul lato di ponente.

Molino Atlas – 1630 circa., particolare, dagli Archivi della British Library

 

Molto interessante anche la parte relativa alle mura di cinta della città sull’area portuale di fronte, con la Porta Reale e le sue torri laterali. Le mura lungo la marina di ponente risultano interrotte, chiaramente dirute, all’altezza della cattedrale.

All’interno delle mura troviamo solo la cattedrale, le colonne romane, e un palazzo dietro Porta Reale sul quale non ho dedicato molto tempo per approfondimenti. Per il resto la città non viene rappresentata, ed all’interno delle mura troviamo solo un bel terreno verde. Questo a conferma che lo scopo principale della mappa, non era tanto la topografia cittadina, quanto la pianta del porto ed il sistema di fortificazione.

Infatti, è invece molto evidente e dettagliata la pianta delle fortificazioni dell’Isola di Sant’Andrea, dove oltre il Castello Alfonsino è presente il Forte a Mare, costruito da poco.

Molino Atlas – 1630 circa, particolare, dagli Archivi della British Library

 

Il porto e la sua pianta sono ben rappresentati, con l’evidenza di parte delle isole Pedagne, Fiume Piccolo e le zone paludose della parte di terminale del seno di levante.

La carta presenta anche l’orientazione, ed è orientata con sud est verso l’alto.

In generale la colorazione di tutta la mappa è molto vivace, con le fortificazioni in marrone, e tutto il territorio circostante in verde.

Presente e ben visibile anche il timbro arancione ad indicare l’acquisizione del British Museum, posto nel porto interno. Dispiace non poter approfondire ulteriormente gli studi su questa seconda Brandici, ma lo scopo della mia ricerca e di questa pubblicazione è ovviamente la prima mappa del XVI secolo. Sono sicuro, comunque, che avrò destato l’interesse di qualcuno a studiare anche questa mappa, che certamente merita ampia visibilità e tutti gli approfondi-menti storici del caso.

Ritengo che la digitalizzazione dell’Atlante di Molino possa essere una documentazione preziosa, perché come detto al suo interno sono presenti un centinaio di mappe e credo che molte di queste non siano molto note nelle località di riferimento. Proverò a farne richiesta alla British Library.

Concludo questo articolo mostrando infine un’ultima cartografia brindisina che ho ritrovato nella fase di studio della carta Brandici certamente poco conosciuta. A mio avviso anche questa è sfuggita in molte pubblicazioni ed è poco nota alla città, pertanto colgo l’occasione per mostrarla brevemente.

E’ una carta disponibile in versione digitalizzata tramite il sito www.oldmapsonline.org di Gerard van Keulen dal titolo Porto Brundisi pubblicata in Olanda nel 1720 e messa a disposizione in forma digitale dalla Leiden University Library.

Si tratta di una mappa suddivisa in 12 riquadri ciascuno rappresentante il piano di un porto di diverse città. Il nono di questi è quello di Brindisi e nella figura ho riportato il dettaglio del canale di ingresso del porto

 

Porto Brundisi – 1720 Leiden University Library

 

Su un settecentesco ritratto di Scipione Ammirato

F. ALLEGRINI, Ritratto di Scipione Ammirato, Firenze 1763 (incisione in rame, coll. privata)

 

di Gilberto Spagnolo

Nel condurre una ricerca su un argomento che chiamava anche in causa una delle più illustri figure salentine, quale quella di Scipione Ammirato, “storiografo tra i più avveduti, prosatore eccellente e poeta, attento e sensibile ai fatti politici, versato nella genealogia e nella diplomatica […] variamente impegnato nei molteplici campi della scienza, ho avuto modo di rintracciare e di acquistare dal mercato dell’antiquariato, un ritratto, seguito da quattro pagine di biografia, del grande storiografo leccese. La stupenda immagine faceva parte di una serie di grandi ritratti incisi in rame cm 30 x 20 ca., alla lastra su foglio di carta forte cm 46 x 36 raffiguranti “Personaggi illustri della Toscana” stampati a Firenze in un periodo che va dal 1763 al 1773 e incisi per lo più da Francesco Allegrini, Raimondo Faucci, Gastone Vasellini, Giuseppe e Cosimo Zocchi, da disegni di G. Zocchi e Traballo.

I ritratti (di pittori, scultori, architetti, poeti, letterati, storici ecc. fiorentini) sono straordinariamente intagliati a bulino, sono di grande effetto decorativo ed ognuno è corredato da 3/4 pagine di testo biografico a sua volta abbellito da almeno una stupenda testata, finale e iniziale e sono incisi in rame.

Non può stupire il ritrovare l’Ammirato in questa galleria di illustri Fiorentini, accanto a ingegni come Giotto, Brunelleschi, Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio, Guido Cavalcanti, Pietro Aretino, Cosimo dei Medici, tanto per fare dei nomi, in quanto egli, com’è noto, pur essendo nato a Lecce il 7 ottobre del 1531 da Iacopo e da Angiola della nobile famiglia Caracciolo di Brindisi, visse anche per più di trent’anni a Firenze e a questa città e alle sue vicende dedicò molte sue innumerevoli opere.

Entrato nelle grazie della famiglia de’ Medici (da cui ebbe l’autorizzazione ad usare la documentazione dell’archivio fiorentino istituito nel 1570), qui completò infatti le sue ricerche di genealogia, aggiungendo alle Famiglie nobili napoletane le Famiglie nobili fiorentine, qui oltre a dedicarsi alla poesia, realizzò opere di notevole importanza come le Istorie Fiorentine e i Discorsi sopra Cornelio Tacito ottenendo anche di svolgere l’incarico di canonico della Cattedrale Fiorentina dopo essersi laureato in teologia e in sacra scienza il 23 gennaio 1595, qui lo colse la morte il 31 gennaio del 1600.

Il ritratto del “canonico fiorentino”, come appare dalle indicazioni che lo accompagnano, è stato inciso nel 1763 da Francesco Allegrini su disegno di Giuseppe Zocchi e ad esso segue, come già riferito, il relativo testo biografico, o più precisamente, un “elogio” a firma di un certo G.P. (sono riportate a conclusione solo le iniziali) non identificato.

Da alcune indagini fatte, esso risulterebbe una testimonianza iconografica poco conosciuta, o più giustamente, non sufficientemente valorizzata nell’ambito dei vari studi bio-bibliografici che sono stati portati a compimento su questo Salentino dalla vasta cultura, tenuto in notevole considerazione dai contemporanei per la serietà e la profondità delle sue ricerche. Il ritratto è stato pubblicato solo nel 1959 da Rodolfo de Mattei, uno degli studiosi italiani più noti di S. Ammirato a corredo del saggio Il pensiero politico di Scipione Ammirato IV: Varia fortuna dellAmmirato. Appendici: Opere e stampe: Codici pubblicato su Studi Salentini (VIII) del dicembre dello stesso anno, con la didascalia “Ritratto di Scipione Ammirato desunto da un quadro dellepoca”. Nessun’altra nota di rilievo o esauriente spiegazione accompagnava questa fonte già pubblicata in precedenza dal Mattei, il quale aveva appunto dedicato gran parte della sua vita a compiere ricerche “non solo rivolte alla interpretazione delle dottrine (politiche, economiche, militari, storiche), ma anche alla raccolta amorevole ed appassionata di materiale bibliografico raro” sullo scrittore leccese del Cinquecento.

Occorre a questo punto ricordare, anzitutto, che si conoscono altri ritratti utilizzati a corredo di alcune sue opere o di sue biografie inserite in repertori di uomini illustri. Uno dei più interessanti (tra quelli da noi individuati) è pubblicato a piena pagina, inciso su rame, nella prima parte delle Famiglie Nobili Fiorentine, dedicate al Seren.mo Cosimo II Gran Duca di Toscana IV e pubblicate a Firenze appresso Gio. Donato e Bernardino Giunti e Compagni nel 1615. Lo stesso viene poi totalmente riproposto, ancora a piena pagina e inciso su rame, senza alcuna variazione di rilievo in apertura della seconda parte delle Istorie Fiorentine, dedicate al Serenissimo et Potentissimo Principe Ferdinando II Gran Duca di Toscana, stampate a Firenze nel 1641 nella Stamperia Nuova dAmador Massi e Lorenzo Landi. Ciò che contraddistingue questi due ritratti che raffigurano l’Ammirato (con lo sguardo orientato a sinistra) in una cornice circolare posta al centro di un’edicola arricchita da fregi, è l’iscrizione dotata dello stemma nobiliare (inquartato dal Foscarini con dargento, alla sbarra di nero caricata di un cane corrente al naturale) dalla quale si rileva l’anno in cui il ritratto stesso venne eseguito, il 1598, quando cioè l’Ammirato “CANON. CUS FLORENT. US ET RER. FLORENTINARUM SCRIPTOR” era “Agens annum LXIIX” ovvero era ancora vivente e aveva l’età di 68 anni.

L. CRASSO, Ritratto di Scipione Ammirato, in “Elogi d’huomini letterati”, Venezia Combi e La Noù 1666 (Museo Civico Correr di Venezia)

 

Per quanto riguarda i repertori troviamo raffigurato LAmmirato in Elogi dhuomini letterati scritti da LORENZO CRASSO, pubblicati a Venezia per Combi e La Noù nel 1666. Al ritratto inciso segue anche una breve biografia dello storico salentino, seguita da una strofa, elogiante lo storico, dellAccademia della Crusca per le Storie Fiorentine nonchè da una Elegia ad Scipionem Ammiratum di Bernardino Rota e da un sonetto di quest’ultimo. Viene anche riprodotta un’epigrafe latina relativa all’Ammirato collocata nell’altare maggiore della chiesa di S. Chiara in Lecce nel 1613.

D. DE ANGELIS, Ritratto di Scipione Ammirato, in “Le vite De’ Letterati Salentini”, parte prima, Firenze 1710

 

S. AMMIRATO, Orazione dedicata a Clemente VIII, Firenze, appresso gli Heredi di Iacopo Giunti, MDXCIIII. Frontespizio (coll. privata)

 

Lo ritroviamo ancora nelle Vite de Letterati Salentini scritte da Domenico De Angelis e pubblicate a Firenze nel 1716; nella Vita degli uomini illustri del Regno di Napoli a cura di Nicola Morello Gervasi inciso dal Biondi, seguito dalla biografia sull’Ammirato redatta da Andrea Mazzarella da Cerreto (le vite ornate dei rispettivi ritratti, furono compilate da diversi letterati nazionali dell’epoca e stampate ai primi dell’800); nel II volume delle Istorie Fiorentine (con l’aggiunte di Scipione Ammirato il Giovane) stampate a Firenze nel 1824-1827 per L. Marchini e G. Becherini; risulta, infine, a corredo illustrativo della ristampa dell’Apologia Paradossica di I.A. Ferrari, curata da Alessandro Laporta e tratto da il Poliorama Pittoresco stampato a Napoli nel 1838.

 

Ritratto di Scipione Ammirato nelle “Istorie Fiorentine”, Firenze, nella Stamperia Nuova di Amador Massi e Lorenzo Landi, 1641-1647, parte seconda (coll. privata)

 

Scipione OTTOLINI, Compendio delle Istorie Fiorentine di Scipione Ammirato, Lucca, mano-scritto settecentesco con appendice alle Istorie fino all’anno 1711 (coll. privata)

 

Confrontandoli tutti si nota, che essi hanno un comune punto di riferimento, la stessa e unica “matrice” figurativa, e che si differenziano tra loro quindi solo per alcuni accorgimenti “estetici ocoreografici” usati dal pittore o dall’incisore, mentre mantengono intatti la fisionomia e i costumi del personaggio immortalato in un’età ormai abbastanza avanzata. Tra questi ultimi citati, molto semplici nell’esecuzione (la solita figura nel riquadro circolare orientata invece verso destra) si distingue quello del De Angelis per l’iscrizione e lo stemma posti alla base (la stessa che risulta in quelli, già ricordati, delle Famiglie Nobili Fiorentine e nelle Istorie Fiorentine) nonchè per la grandezza della figura e il riquadro, molto più lineare e più semplice, al cui centro è collocata la figura stessa. L’analisi di tutte queste fonti era necessaria per capire l’importanza (a nostro avviso) del ritratto di cui si è parlato all’inizio, inciso come già detto nel 1763 da Francesco Allegrini su disegno di Giuseppe Zocchi.

Questa raffigurazione, posta rispetto agli altri, in una cornice di forma quadrata anzichè circolare pur conservando la consueta fisionomia e gli stessi abiti, si distingue però nettamente da quelli già esaminati, oltre che per la grandezza e la qualità dell’incisione che magistralmente e con maestosità mette in risalto la figura dell’Ammirato, soprattutto per l’iscrizione posta alla base della figura stessa che oltre a ricordare alcuni dati biografici, fornisce indicazioni su quella che diverrà la “matrice” iconografica del grande storiografo salentino.

 

Si legge testualmente:

 

“SCIPIONE AMMIRATO

CANONICO FIOREN.NO. ANTIQUARIO, E SCRITT.RE

DELL’ISTORIE FIOREN.NE E D’ALTRE OPERE,

nato in Lecce nel MDXXXVIII morto in FIRENZE nel MDC

Al merito singolare dell’Illmo Sig:re Luigi Tempi

Patrizio Fiorentino, e Marchese del Barone

Preso da un quadro in Tela lasciato dal med.mo Scipione

per legato al Clar:mo Sig:re Sen:re Andrea Minerbetti

uno degli Esecutori del suo Testamento;

oggi app(ress)o l’Ill.mo Sig. Andrea Minerbetti Boni.

 

Dall’iscrizione emerge dunque che il ritratto voluto per “merito singolare” del Patrizio Fiorentino Luigi Tempi fu preso da un quadro lasciato per legato dallo stesso Ammirato ad uno degli esecutori del testamento stesso e cioè Andrea Minerbetti e che poi è rimasto in seguito in eredità ai membri della stessa famiglia. All’epoca infatti in cui veniva eseguita l’incisione, nel 1763, il quadro era ancora presso l’illustrissimo Signore Andrea Minerbetti Boni. È, quindi, da questa tela che è stato ricavato il primo ritratto pubblicato in incisione nella prima parte delle Famiglie Nobili Fiorentine stampate nel 1615, tela che evidentemente era stata eseguita (come risulta dalla già citata iscrizione) quando l’Ammirato aveva 68 anni.

Successivamente, ad esso faranno poi riferimento come si è visto, tutti gli altri scultori e incisori, ad eccezione dell’Allegretti che si servirà appunto (e per nostra fortuna ricordandolo) della fonte originale. Per quanto riguarda l’elogio, infine, abbellito da una stupenda testata che riproduce la veduta di una città (certamente Firenze) e dall’iniziale S incisa in rame che è un piccolo capolavoro, esso è stato ricavato, come viene ricordato alla nota I in margine (!… a noi è servito di guida in questo Elogio) dalla biografia dell’Ammirato che G.M. Mazzuchelli riportò in Gli scrittori d’Italia, cioè notizie istoriche intorno alle vite e agli scritti letterati italiani, vol. I, p. II, stampati a Brescia nel 1753 presso G.B. Bossini. L’elogio è intitolato a “Scipione Ammirato il Vecchio” per distinguerlo da Cristoforo di Francesco del Bianco, che fu erede delle sue sostanze, del nome, e del cognome di Scipione.

In virtù di tale testamento egli mutò il suo nome in quello di Scipione Ammirato il Giovane. Questi seppe essere riconoscente nei riguardi dello storiografo leccese in quanto curò la pubblicazione postuma di molte sue opere alle quali “non mancavano nè l’impostazione nè il rigore filologico tipicamente suoi. Grazie a lui “la grandezza intellettuale e la sua opera continuarono così anche dopo la sua morte”.

Ad esempio curò la pubblicazione integrale delle Istorie Fiorentine con varie aggiunte e modifiche, contrassegnate con virgolette per distinguerle dal testo paterno, e nel 1637, fece pubblicare a Firenze per Amadore Massi e Lorenzo Landi, i Vescovi di Fiesole, di Volterra e d’Arezzo.

L’elogio, che pubblichiamo integralmente qui di seguito, riporta in sintesi le vicende umane e le fortune dell’Ammirato, mettendone in evidenza le capacità poetiche, politiche, elocutorie, la sua erudizione, il suo modo (all’avanguardia per quei tempi) di ricostruire la storia. Non si può negare (conclude giustamente lo sconosciuto autore) che per tutto questo l’Ammirato “è stato fornito di gran facilità nel distendere, e di molta copia di notizie acquistate nei suoi viaggi, e nell’indebita ricerca delle antiche memorie. Ma se la felicità non è riposta in queste cose, ma bensì nell’interna contentezza, doveremo conchiudere, che poco la gustò l’Ammirato, benchè le doti dell’animo suo, ed altri meriti esterni avessero dovuto essere più fortunato nel mondo, o più spregiudicato intorno al valore di quei beni, ch’esso ci può procurare independentemente dalle disposizioni del nostro cuore, e del nostro temperamento”.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

S. Ammirato, Istorie Fiorentine, Parte Seconda, in Firenze, nella Stamperia Nuova d’Amador Massi e Lorenzo Landi, MDCXLI.

Idem, Istorie Fiorentine, Parte Prima, Tomo primo, con l’aggiunta di Scipione Ammirato il giovane contrassegnate con “, in Firenze per Amador Massi Forlivese, MDCXXXXVII.

Idem, Istorie Fiorentine, parte I e II, con l’aggiunta di Scipione Ammirato il Giovane, contrassegnate in carattere corsivo, Firenze, per L. Marchini e G. Becherin, 1824-1827.

Idem, Delle famiglie nobili fiorentine, Parte Prima, le quali, per levare ogni gara di precedenza, sono state poste in confuso, in Firenze, appr. Gio. Donato e Bernardino Giunti e Compagni, MDCXV.

Idem, Vescovi di Fiesole, di Volterra e d’Arezzo, con l’aggiunte di Scipione Ammirato il giovane e nel fine i cataloghi e le tavole, Firenze, per Amadore Massi e Lorenzo Landi 1637.

U. Congedo, Vita e opere di Scipione Ammirato (Notizie e Ricerche), Vecchi, Trani 1904 (la prefazione è del 1901).

L. Grasso, Elogi d’huomini letterati, Venezia, per Combi e La Noù, 1666 (Museo Civico Correr Venezia).

D. De Angelis, Vite de’ letterati salentini, Firenze 1710.

R. De Mattei, Il pensiero politico di Scipione Ammirato. IV: varia fortuna dell’Ammirato. Appendici. Opere e stampa; Codici, in “Studi Salentini, VIII, dicembre 1959.

I.A. Ferrari, Apologia Paradossica, Lecce 1707, a cura di A. Laporta, (rist. Lecce 1982).

A. Foscarini, Armerista e Notiziario delle famiglie nobili notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Bologna 1978 (rist. Lecce 1903).

N.M. Gervasi (a cura di), Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, T. II, 1814.

G.M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, cioè notizie istoriche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, presso G.B. Bossini 1753, Vol. I, P. II.

Serie di ritratti d’uomini illustri toscani con gli elogi istorici dei medesimi, Firenze, appresso Giuseppe Allegrini 1766, vol. I.

G. Vese, Profilo biografico di Scipione Ammirato, in “Scipione Ammirato fra politica e storia”, Lecce 1985.

 

 

 

F. ALLEGRINI, Veduta della città di Firenze (incisione in apertura “dell’Elogio di Scipione Am-mirato il Vecchio”).

 

ELOGIO DI SCIPIONE AMMIRATO IL VECCHIO1


Scipione
Ammirato il Vecchio2 nacqne in Lecce Città della Terra d’Otranto nel Regno di Napoli il dì 27. Settembre 1531. da Jacopo di Francesco Ammirato Famiglia che traeva la sua origine di Firenze, d’onde gli Antenati erano usciti dopo la metà del XIII. secolo per la rotta, che i Guelfi ebbero a Montaperti, e d’Angela di Ramondo nobile Brundusiana discendente dalla Casa Caraccioli.

Doveva Egli applicarsi alla facoltà legale, ma non essendovi guidato dalla natura, la quale lo inclinava piuttosto verso la Poesia, e le belle lettere, in queste fece dei progressi considerabili. Dopo aver fatti alcuni viaggi anche per motivo di sottrarsi dall’invidia nel 1551. si risolse d’indirizzarsi per la via Ecclesiastica. Non era molto comodo di facoltà, e non riceveva dal Padre tutti quelli aiuti, che poteva sperare a motivo della sua renitenza ai voleri di lui. Quindi dovette tentare la sua fortuna con altri mezzi, profittando di ciò, che gli si presentava per aver campo di appagare quello stimolo di distinguersi nel mondo da cui era agitato.

Prima in Roma ebbe speranza di attendere favorevole incontro per le sue mire, e poi in Venezia presso Alessandro Contarini, ma la sorte non gli fu propizia, mentre di là ebbe a partire per mancanza di denaro, e di quì per avere inspirato, non saprei dire se per sua colpa, sensi di gelosa smania3 al suo Benefattore, che perciò niente meno, che torgli la vita minacciava. Ritornato al Padre, che trattenevasi a Bari, e vedendosi mal ricevuto, gli si aperse l’occasione di sperare qualche miglior fortuna nell’inalzamento seguito nel 1555. del Card. Marcello Cervini al Pontificato col nome di Marcello II.

L’immatura morte di questo Papa rovesciò le speranze di Scipione, il quale perciò ritiratosi in una casa di Campagna di suo Padre per applicare agli studj, ivi si trattenne finchè nell’elezione del Card. Caraffa, che si disse Paolo IV. credette di essere in grado di potersi lusingare di qualche cosa. In fatti presa la congiuntura di andare di nuovo a Roma con la Nipote del Pontefice Briana Caraffa, vedova del Marchese di Polignano, ebbe l’imprudenza di servire a questa Donna, ed insieme alla Zia della medesima, e sorella del Papa Caterina Caraffa, che poco con essa se l’intendeva. Ciò male gli riuscì, come doveva prevedere, onde per fuggire l’odio della seconda, prese il partito di vivere affatto lontano dalla Corte nella tranquillità, e nel riposo. Si ricondusse a quest’effetto a Lecce, e quivi divise il suo tempo fra il servizio della Chiesa, in cui prima dal Vescovo Braccio Martelli aveva ottenuto un Canonicato, e l’applicazione alle lettere, per le quali fondò allora l’Accademia dei Trasformati, prendendovi il nome di Proteo. Ma non era il suo temperamento capace di godere di placido ozio.

Durò quattro soli anni il suo ritiro, e dopo questi a nuove cose volgendosi, nuove disavventure incontrò, passando il viver suo in un continuo giro di disgrazie, di speranze, e di desiderj. Voleva in questo tempo suo Padre accasarlo, poichè non era ancor Sacerdote, ma neppur ciò accadde, perchè forse non era Scipione fatto per questo legame. Di lì a poco fu chiamato a Napoli all’effetto di incaricarlo a scrivere la Storia di quel Regno, la qual cosa poi non fece, perchè specialmente non trovò disposizioni eguali all’impresa, in chi doveva promuovere sì bella opera. Perciò ripassato a Roma, dall’Arcivescovo di Napoli Mario Caraffa fu commissionato di sostenere presso il Pontefice Pio V. le sue ragioni intorno ad alcune differenze, che fra esso, ed il Vicere Duca d’Alcalà erano insorte, e dopo essere felicemente riuscito nel carico addossatogli, non essendo soddisfatto della sua fortuna, si dette a scorrere l’Italia, ed in fine si condusse verso l’anno 1569.

A Firenze, ove stabilì di fermarsi, ponendosi ai servigj della Casa dei Medici. Quindi nel 1570. da Cosimo I. gli fu imposto di compilare la Storia di Firenze, dandogli tanto Esso, che il Card. Ferdinando suo Figliuolo tutti quelli aiuti, che poteva sperare per un lavoro così laborioso, e lungo. Nel 1595. gli fu conferito un Canonicato della Cattedrale, e perchè richiedeva questo la qualità di Dottore, ne prese le insegne in Teologia nella nostra Università il dì 25. Gennaio dell’anno dopo. Un simile stabilimento unito alle altre assistenze, ch’ebbe da varie persone, ed in specie dalla liberalità del celebre Riccardo Riccardi Gentiluomo dotto, e Protettore dei Letterati, ond’ebbe comodo di comporre la maggior parte delle Opere, che di lui abbiamo, potrebbero far credere, ch’Egli si fosse dovuto trovare soddisfatto della sua condizione, particolarmente allorchè la vivacità del suo temperamento doveva aver ceduto al peso degli anni, ma o fosse uno si quei rammarichi ripetuti tante volte da coloro, i quali mai si credono ricompensati a seconda del loro merito, o fosse un sincero sfogo dettato dalla miseria in cui si trovava involto, nelle sue Lettere assai spesso si lamentava di essere poco men che mendico, ed in una di esse chiamò il suo corpo l’Asino caduto nel fango della povertà carico di Scritture4. Giunto all’età di anni 69. compiti, dopo aver fatto testamento5, ed avere istituito erede Cristoforo del Bianco suo aiutante di studio con obbligo di prendere il suo nome, e cognome, sostituendo ad esso lo Spedale di S. Maria Nuova6, e lasciando al G.D. tutti i libri storici da Lui composti, ed anche principiati, passò a miglior vita il dì 30. Gennaio del 16017, e fu sepolto nella Metropolitana.

S. AMMIRATO, Poesie Spirituali, Firenze, Appresso Amadore Massi 1649. Frontespizio (coll. privata)

 

S. AMMIRATO, Poesie Spirituali, Firenze, Appresso Amadore Massi 1649, pagina iniziale della lettera dedicatoria

 

Molte sono le Opere di vario genere, che l’Ammirato scrisse, e pubblicò, e da queste sole, quando non si sapesse il suo tenore di vita apparirebbe, che rutti i suoi giorni avesse passati quietamente, immerso nello studiare, e nel comporre. In fatti trattò non solo la Poesia, avendo lavorati gli Argomenti all’Orlando Furioso, diverse Rime sparse in varie raccolte, le Poesie spirituali8, un Dialogo del Poeta, intitolato il Dedalione9, e le Annotazioni sopra la seconda parte dei Sonetti di Bernardino Rota in morte di Porzia Capeci sua moglie10; m’anche la Politica nei fuoi applauditi Discorsi sopra Tacito11; l’Eloquenza in molte Orazioni di vario genere; la Storia in quell’Opera, che scrisse appartenente alle cose dei Fiorentini, e ch’è la più compita, e più estesa, ch’abbiamo12, nell’altra sopra le nostre Famiglie Nobili, di cui è in luce solamente la prima parte, in quella dei Vescovi di Fiesole, di Volterra, e di Arezzo, e della Famiglia dei Conti Guidi, ed in quella delle Nobili Famiglie Napoletane13, per non dire di alcune altre piccole cose, che si ritrovano nei suoi Opuscoli14; ed in fine la Varia erudizione, come ci attestano i suoi tre Volumi di Opuscoli in 4.15, di modo che per tutto questo non si può negare essere stato fornito Scipione di gran facilità nel distendere, e di molta copia di notizie acquistate nei suoi viaggi, e nell’indefessa ricerca delle antiche memorie. Ma se la felicità non è riposta in queste cose, ma bensì nell’interna contentezza, doveremo conchiudere, che poco la gustò l’Ammirato, benchè le doti dell’animo suo, ed altri meriti esterni avessero dovuto farlo essere più fortunato nel mondo, o più spregiudicato intorno al valore di quei beni, ch’esso ci può procurare independentemente dalle disposizioni del nostro cuore, e del nostro temperamento16.

G. P.

 

Da “lu Lampiune”, Quadrimestrale di Cultura Salentina, Anno V, n. 1, Aprile 1989.

S. AMMIRATO, Della Segretezza, in Venezia, per Filippo Giunti, MDXCIX. Frontespizio (coll. privata). Opera dedicata a Don Giovanni de’ Medici

 

Note

1 Dicesi, che l’Ammirato scrivesse di se stesso la Vita, e che si conservi fra i suoi fogli MS. nella Libreria del Regio Spedale di S. Maria Nuova. Comunque sia di ciò, oltre quella, che scrisse Domenico de Angelis, e che fu stampata in Lecce nel 1704. e nel 1705. in 4., abbiamo il Sig. Conte Mazzuchelli, che di Lui parla a lungo nella sua Storia degli Scrittori d’Italia Vol. I. Par. II. pag. .635. e segg., e che a noi è servito di guida in questo Elogio.

2 Così chiamasi comunemente per distinguerlo da Cristoforo di Francesco del Bianco, il quale come si dirà, fu erede delle sostanze, del nome, e del cognome di Scipione. Di detto Cristoforo tratta il Signor Mazzuchelli loc. cir. pag. 645., ed il Novellista Fiorentino nelle Novelle del 1748. col. 371. e segg.

3 La Moglie del Contarini era detta per soprannome la Bella Loredana.

4 Tom. II, dei suoi Opuscoli p. 462.

5 Nel dì 11. Gennaio 1600. ab Incarn. per i rogiti di Ser Alessandro Guido Arrighi.

6 Per questo motivo stimo che nella Libreria del medesimo sieno passati gli Scritti tanto dell’Ammirato, che del Bianchi.

7 Secondo l’usanza nostra era l’anno 1600 ab Incarn.

8 L’Ammirato il Giovane fece stampare in Venezia queste Rime nel 1634. in 4. che l’Autore aveva composte nell’età sua decrepita.

9 Fu impresso in Napoli nel 1560. in 8. e poi inserito, nel T. III. degli Opuscoli.

10 Vennero fuori in Napoli in 4. nel detto anno 1560.

11 Furono impressi più volte dopo la prima ediz. in Fir. per Filippo Giunti del 1591.

12 È noto, che alla prima ediz. della prima Parte di quella Storia và anteposta la seconda del 1647, in cui fece considerabili aggiunte l’Ammirato il Giovane. Oggigiorno non ostante con i nuovi lumi acquistati potrebbesi di molte correzioni, e di molti accrescimenti arricchire quest’opera, se più non piacesse di compilare da capo una Storia Fiorentina secondo il progetto di un Letterato vivente, dappoichè a parlare con sincerità, e negli anni primi, e negli ultimi dei quali scrive l’Ammirato Egli per più cagioni non corrispose al resto del suo lavoro.

13 La prima Parte di quest’Opera uscita in luce in Firenze nel 1580. in foglio è assai rara. La seconda si vedde solamente pubblicata nel 1651.

14 Sono anche da rammentarsi i Discorsi delle Famiglie ‘Paladina di Lecce, e Antoglietta di Taranto stamp. in Firenze nel 1595. e 1597. in 4. e molti Alberi di Famiglie di Principi Italiani nobilmente intagliati in rame, i quali si rinvengono a parte.

15 Vennero pubblicati in Firenze in 4. portando il primo Tomo la data del 1640., il secondo del 1637., perchè l’Ammirato il Giovane ebbe riguardo ad un Tometto di Opuscoli dello stesso Autore stampato nel 1583. in 8. cui allora considerò come il primo, ed il terzo nel 1642. Contengono molte cose di diverso genere, delle quali se ne ha l’Indice presso il detto Signor Co. Mazzuchelli pag. 643. e 644.

16 È stato scritto dall’Autore delle Meditazioni sulla Felicità stamp. Con la data di Londra, che: la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione, che ne fa la nostra fantasia.

Dialetti salentini: cuteddha, ovvero la destinataria di una minaccia forse velleitaria

di Armando Polito

 

Credo di essere abbastanza mite e forse proprio per questo fin dall’infanzia mi ha fatto effetto l’espressione mo ti zzaccu pi cuteddha, locuzione oggi obsoleta e incomprensibile, ma ai miei tempi connessa con uno delle tante minacce con finalità educativa, che in concreto prevedevano l’uso di strumenti con effetti poco gradevoli. In casa mia, però, la mia cuteddha ha goduto di una sorta di immunità, ma solo perché in casa mia, all’epoca mio padre usava la curescia1,, nonostante fosse a portata di mano l’ugghina (vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/07/uno-strumento-educativo-per-bestie-e-per-figli-ribelli-2/) e in agguato il rischio che gli cadessero i pantaloni …

Oggi, a distanza di tanti anni, quell’espressione poi sentita rivolta anche ad adulti (anche nella locuzione nnu cuerpu alla cuteddha=un colpo sulla nuca), non mi fa, purtroppo, alcun effetto se non quello, sempre benefico, della curiosità di capire l’etimo di cuteddha.

Sento già qualcuno rimproverarmi di non essere ricorso a quello che nell’immaginario collettivo (molto ristretto …) di chi mi legge è quasi il santone del dialetto salentino, per quante volte l’ho citato. Ebbene, per decenni non ho battuto ciglio di fronte a quanto si legge nel suo Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, ristampato nel 2007.

 

 

Dunque la voce corrisponderebbe ad un inusitato (c’è codino, ma indica altro dettaglio anatomico, almeno per chi, essendo tutt’altro che calvo, può esibirlo) italiano codella, diminutivo di coda.

Debbo dire che per decenni non ho battuto ciglio di fronte a queste schede, ma, forse perché il numero di battiti residui è inversamente proporzionale al rincoglionimento, mi avventuro in un lancio, sperando di non aver dimenticato di indossare il paracadute …

Intanto il gemellaggio cuteddha/cùtula porta alla mia forse disastrata mente il detto cce cc’entra lu culu cu lli quattru tèmpure? o la variante sta ‘mbièschi lu culu culli quattru tèmpure?, rivolto in tono di rimprovero a chi ha appena fatto confusione con due argomenti assolutamente inconciliabili, anche per l’antiteticità dei settori cui appartengono: il profano (culo), che tutti hanno non in senso metaforico e il sacro (Quattro tempora), ormai dimenticate e sepolte. Se, infatti, la cùtula è dislocata nella regione lombo-sacrale  e corrisponde all’osso sacro (ciò che resta della coda che avevamo …), la cutèddha, invece, si trova nella regione cervicale, ma non è una vertebra e, almeno nell’uso di Nardò, equivale a collottola. Questa voce è da collo attraverso un *collotta, come pallottola è da palla attraverso un *pallotta, a sua volta da palla.  Ora, visto che è in ballo la coda, debbo aprire una parentesi sul mondo delle cosiddette bestie, a molte delle quali noi umani, cosiddetti animali superiori, la tagliamo …

Chi ha avuto, come me, l’occasione e il privilegio di osservare mamma gatta (o il compagno, con lei presumibilmente morta) trasportare un cucciolo per metterli al sicuro (non per gettarlo in un cassonetto …), avrà notato, all’inizio con legittima apprensione, la tecnica utilizzata e gli effetti visibili: il cucciolo, in pratica, appare sospeso per la pelle del collo ai denti della madre.

Credo, allora, che cuteddha non sia diminutivo di coda [(dal latino cauda(m)], ma di cute [(dal latino cute(m)] e che questa stessa voce abbia giocato al maestro un brutto scherzo per la seconda volta, a differenza della prima, in cui è plausibile un errore di stampa, per colpa dei suoi informatori (per la prima vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/).

Credo, inoltre, che la conferma finale della confusione tra cuteddha e cùtula sia da ravvisare nel tarantino cureddha dal Rohlfs considerato come variante di cuteddha, ipotizzando, forse, il fenomeno del rotacismo tipico del napoletano (caduta>caruta), dove, però, è coinvolta la dentale d, per cui si dovrebbe supporre che a cureddha si sia giunti attraverso l’altra variante cudeddha. Lascio da parte queste mie acrobazie fonetiche a beneficio reverenziale altrui, per dire che cureddha non sarebbe diminutivo di coda ma del latino còrium (=cuoio, pelle di animale), con evidente affinità semantica con cute, il che renderebbe fallace il rinvio a cùtula di tutte le altre voci registrate al lemma cuteddha. Se è così, cuteddha sarebbe il frutto di una metafora mediata dal mondo di quegli essere ai quali non a tutti riesce facile attribuire, se non sentimenti, almeno emozioni e che non sanno cos’è una metafora semplicemente perché non ne hanno bisogno e, in ogni caso, non la scomoderebbero per indicare con lo stesso concetto un gesto delicatamente protettivo, quale non è quello di un uomo che desiderasse afferrare per la collottola, sollevare di peso e spostare un altro uomo. Pura velleità, tutta e solo umana …

 

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1 È il nome dialettale della cinghia dei pantaloni ed ha il suo esatto corrispondente nell’italiano correggia e, come quest’ultimo, è connesso con il latino corium (=cuoio), che entrerà in campo più avanti. Dunque, nonostante fosse uno strumento di correzione. non ha nulla a che fare con correggere e si può facilmente prevedere come è destinato a non tornare di moda e come correggere, quale etimo non correrà il rischio di essere scomodato nemmeno dalla paretimologia.

“Santi, Madonne e Pupi da Presepe”. Giuseppe Gigli e la cartapesta a Lecce agli inizi del ‘900

Giuseppe Gigli in una foto d’epoca (da G.B. ARNO, Manduria e Manduriani, ed. Anastatica di Antonio Marzo Editore, Manduria 1983).

 

di Gilberto Spagnolo

Letterato, folklorista, scrittore di storia locale e poeta, Giuseppe Gigli nacque a Manduria nel 1862 e qui vi morì nel 1921. Tra gli uomini più illustri di Manduria, particolarmente sensibile ai problemi e alla civiltà della sua terra alla quale dedicò innumerevoli studi, Gigli si accostò appunto “all’etnografia come a quella scienza che permette di ampliare la conoscenza storica del popolo di Terra d’Otranto”.

È autore, in particolare, dell’opera “Scrittori Manduriani” (da consultarsi come una delle fonti più ricche e autorevoli di notizie biobibliografiche degli scrittori della città messapica) e soprattutto dell’opera “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto”, edito da Barbera a Firenze nel 1893, per la quale ebbe gli encomi reali e fu lodata dagli studiosi Pitrè e Borghi. Per quest’opera infatti (ristampata dall’editore Filo di Manduria con prefazione di Anna Merendino) divenne il punto di riferimento di viaggiatori stranieri dell’epoca, che oltre alle antiche rovine si interessarono a usi e costumi, come J. Ross (1899), M. Briggs (1913), O. Roux, e soprattutto P. Bourget con il quale ebbe frequenti rapporti.

G.B. Arnò, nella ricostruzione del suo profilo biobibliografico lo ricorda “buono di fervido ingegno e infaticabile nello studio ebbe l’animo di artista; se da giovane fu ribelle ad ogni vincolo, riuscì a trovare la sua via: il lavoro lo prese, lo appassionò lo assorbì tutto. Le numerose sue pubblicazioni, alcune delle quali tanto apprezzate, gli infiniti articoli apparsi sui più svariati periodici e riviste, dalla Scena illustrata a Natura ed Arte, alla Nuova Antologia, alla Rassegna Pugliese, alla Rivista contemporaneaerano tutti scritti che uscivano dalla sua penna veloce, nei ritagli di tempo che la scuola gli lasciava liberi” (pur non avendo i necessari titoli di studio, fu dal ministro della Pubblica Istruzione abilitato ad insegnare Lettere nel regio Liceo Palmieri di Lecce).

Almanacco Italiano 1909 di R. BEMPORA E FIGLIO, copertina (coll. privata).

 

Da questa “penna veloce” e da questo amore “per le cose Patrie” uscì anche il testo che riportiamo integralmente qui di seguito, dal titolo “La lavorazione della cartapesta in Lecce”, che Gigli pubblicò sull’Almanacco Italiano del 1909, una vera rarità bibliografica, lanciato all’inizio del 1896 dall’editrice Benporad di Firenze e che costituisce, sin dal suo inizio, una fonte inesauribile di informazione per la storia contemporanea. Le origini della casa editrice R. Bemporad e figlio risalgono infatti al 1840 quando Alessandro Paggi assieme al fratello Felice, aprì a Firenze, in via del Proconsolo, una libreria destinata a diventare luogo di incontro di lettori, scrittori e intellettuali liberali.

Il contributo del Gigli è estremamente importante e merita di essere maggiormente conosciuto specialmente oggi, anzitutto perché non risulta censito dalle bibliografie dei suoi scritti (come quelle di Donato Valli, del Sorrenti, dello stesso Arnò) e in secondo luogo perché è un resoconto di prima mano, un reportage vero e proprio sullo stato e sulla lavorazione della cartapesta a Lecce agli inizi del Novecento, con il suo resoconto e il suo percorso storico, con i suoi cartapestai più illustri, sia quelli deceduti che viventi, e soprattutto con un corredo fotografico d’epoca straordinario sulle opere e sui laboratori del Guacci, del Manzo, del De Lucrezi e di Giuseppe Malecore.

 

A. DE LUCREZI, L’arcangelo Michele (a sinistra), San Francesco d’Assisi (al centro), Santa Lucia (a destra).

 

A. DE LUCREZI, Mercurio moderno (a sinistra), Madonna, Angeli e Anime del Pur-gatorio (a destra).

 

A. DE LUCREZI, Immacolata (a sinistra), Santa Lucia (a destra).

 

La lavorazione della cartapesta in Lecce

Il viaggiatore che visiti per la prima volta Lecce, la caratteristica città pugliese che Paul Bourget, volle sua “Sensations d’Italie”, appellò col grazioso epiteto “di paradis du rococo”, non può non restare meravigliato nell’osservare i numerosi laboratori di statue in cartapesta, che frequentemente s’incontrano lungo le sue vie tortuose.

Innanzi a questi laboratori, che spesso sono piccole e modeste botteghe, lungo i muri delle stesse vie, talvolta in recondite piazzette, un popolo di statue, quasi sempre di soggetto sacro o biblico, sta ad asciugare tranquillamente ai raggi del caldo sole meridionale, senza dare alcuna molestia ai passanti, i quali, per la lunga consuetudine che ne hanno, non mostrano neppure di accorgersi delle belle Madonne e dei Santi, che in un non lontano giorno dovranno richiamare da cento e cento altari gli sguardi e i devoti pensieri dei fedeli di buona parte del mondo.

Quest’ultima affermazione non è per nulla esagerata, come a prima vista si potrebbe credere; le statue sacre leccesi non sono ricercate soltanto in Italia, e soprattutto nelle province meridionali, né varcano soltanto le Alpi verso la Spagna e la Francia, ma ornano moltissime chiese d’America, da dove gli emigranti di Basilicata, di Puglia e di Calabria stabiliti in New York, in San Paulo, in Buenos Aires ne fanno ogni anno larga e continua richiesta.

Al considerevole sviluppo preso specialmente in questi ultimi trent’anni, si deve se questa della lavorazione della cartapesta, che fu considerata un po’ arbitrariamente come un’arte vera e propria, quantunque a sé, sia andata diventando un’industria caratteristica e anche assai rimuneratrice. Come s’è accennato più sopra, numerosi ne sono i laboratori, ove trovano lavoro e occupazione molti e molti “scultori” e “artisti”, come dicono in Lecce. In verità, e perché non si prenda per uno scherzoso paradosso, si può dire che in Lecce l’arte della cartapesta sia stata socializzata, e che gli scultori leccesi pensino e formino in comune le loro statue.

Un laboratorio leccese di statue in cartapesta (Giuseppe Malecore).

 

* * *

La lavorazione della cartapesta leccese non è di data recente. Qualche scrittore locale ha scoperto che nella parrocchiale di Morigino, piccolo villaggio della stessa provincia, ed in alcune chiese di Lecce, esistono dei lavori che attestano la notevole vitalità a cui era pervenuta la plastica cartacea sin dalla prima metà del seicento.

Le vere origini di essa si debbono però rintracciare nel secolo XVIII, per opera principale di un “Mastro Pietro dei Cristi e d’un Mastr’Angelo De Agostinis”, entrambi cartapestai assai modesti, che soprattutto fabbricavano – e il nomignolo del primo lo dice chiaramente – Crocefissi di tutte le dimensioni e qualche statua sacra. Uno sviluppo vero si ebbe verso la metà dello scorso secolo, quando comparve Antonio Maccagnani, che può chiamarsi il caposcuola della seconda e più artistica maniera de’ cartapestai leccesi.

Nato nel 1809, studiò il disegno e la pittura con un tal Tondi, anch’egli leccese e mediocre pittore: poi si dette allo studio della plastica e apprese i primi rudimenti della lavorazione della cartapesta del ricordato De Agostinis.

Altro discepolo del Tondi, e anch’egli buon cartapestaio, fu Pasquale Letizia, compagno di lavoro del Maccagnani; essi produssero moltissimi lavori e lasciarono una vera scuola di modellatura in carta, alla quale appartiene un artista ancor vivo e vegeto, Achille De Lucrezi, che oggi ha un laboratorio de’ più accreditati. Nato da modesti genitori, il De Lucrezi ebbe una curiosa giovinezza. Cominciò ad esercitare il mestiere del barbiere, e, nelle ore d’ozio, si mise a modellare in creta pastori e santi da presepe.

Se è lecito aprire una parentesi, bisogna ricordare che in Lecce fu ed è ancor fiorente l’industria dei “pupi da presepe”, modellati con molta grazia e per lo più dai barbieri più poveri, ché gli altri, quelli che hanno raggranellato un po’ di denaro, hanno un elegante “salon”, con annesso negozio di cappelli, guanti e profumerie.

Il De Lucrezi, dunque, mostrando spiccate tendenze al disegno e alla plastica, andò a studiare con pittori e modellatori che avevano qualche nome in patria, come il Magliola e il Guerra. Poi si recò a Roma, e mentre nell’eterna città continuava i suoi studi, apprese l’arte della scherma e del ballo. Chi scrive lo ricorda ancora suo maestro di ballo nel Convitto Nazionale di Lecce, annesso a quel regio Liceo Ginnasio Palmieri, e non può dimenticarne la bontà e la gentilezza. Ritiratosi in patria, aprì un laboratorio di lavorazione della cartapesta, che ancor oggi dirige con grande amore e somma competenza. I suoi Santi e le sue Madonne hanno una grande dolcezza unita a mistica grazia, e son assai ricercati. Tra i suoi migliori discepoli son da ricordare Andrea De Pascalis e Giuseppe Manzo.

G. MANZO, Il Calvario (a sinistra), Un Crocifisso (a destra).

 

G. MANZO, Sacra Famiglia (a sinistra), Santo e Angeli (a destra).

 

Il De Pascalis, morto giovanissimo alcuni anni or sono, per le qualità dell’ingegno e per le attitudini, si sarebbe spinto molto avanti. Egli dette alla cartapesta un sentimento mondano che gli accrebbe la rinomanza e che lo rende ancora ricordato. A Parigi aveva una rappresentanza e una esposizione delle sue statue in “Rue Du Bac”. Il Manzo lavora sempre con grande successo. Se si potessero elencare i diplomi, le medaglie e i brevetti da lui ottenuti in quasi tutte le esposizioni di questi ultimi venti anni, non basterebbero parecchie colonne “dell’Almanacco Italiano” a contenerne la serie.

G. MALECORE, La Pietà.

 

G. MALECORE, Madonna della Speranza (a sinistra), San Pietro (al centro), Sant’Antonio (a destra).

 

Ma Lecce, come s’è detto, è piena di laboratori di cartapesta. Oggi hanno nome e valore Giuseppe Malecore e Raffaele Caretta, e da poco s’è costituita una “Unione Cooperativa Statuaria” che tutt’insieme producono parecchie centinaia di belle statue all’anno. Fra gli ultimi venuti – e di altri molti sono costretto a tacere – è da ricordare Luigi Guacci che studiò scultura all’Accademia di Roma, e che produsse parecchi e eccellenti lavori in bronzo e in marmo. Giovine di molto talento, ritiratosi da parecchi anni nella sua città natia, rivolse l’attenzione a quest’arte tutta paesana e tradizionale, e vi si dedicò con entusiasmo, aprendo un grande laboratorio. Egli può chiamarsi un vero riformatore giacché con le statue di soggetto sacro ne produce molte di soggetto profano le quali ultime non entravano prima di lui nella lavorazione dei cartapestai leccesi. I lavori del Guacci hanno una grande espressione di mistica verità e passano vittoriosi i confini d’Italia.

L. GUACCI, La fuga in Egitto.

 

L. GUACCI, La nascita di Gesù.

 

L. GUACCI, La Sacra Famiglia (a sinistra), Crocefisso (a destra).

 

L. GUACCI, Alla fonte.

 

L. GUACCI, Santa Teresa (a sinistra), Santa Cecilia (a destra).

 

L. GUACCI, Ritorno in paese (a sinistra), Alla fonte (a destra).

 

* * *

Non è senza interesse far conoscere ai lettori il processo di cui è sottoposta la carta prima di diventare materia di statue.

Ogni laboratorio ha la sua larga provvista di carta d’ogni specie, vecchi giornali, carta di rifiuto, ritagli d’ogni forma e colore che per molti giorni la lasciano sott’acqua in grandi e apposite vasche. Quando tutta questa materia è ben macerata è passata in una macchina impastatrice che la riduce quasi una poltiglia malleabile come l’argilla e che rende molto compatta con l’aggiunta di una certa dose di amido, cui si mescolano materie antisettiche per renderla specialmente refrattaria ai tarli.

Comincia da questo punto la vera lavorazione. Su di un dado o base in legno, dal quale si leva una specie di alto cuneo, si arma in stoppia il manichino della statua, che è rivestita con uno strato di cartapesta. Vi si fissano testa, mani e piedi per lo più usciti da apposite forme, talvolta abbozzati separatamente; segue quindi la “vestizione”, che si fa con larghe strisce di carta macerata, che si applicano lungo il corpo in modo da formare “l’andatura” delle pieghe, secondo il concetto del modellatore. Quando il lavoro è ben asciutto con ferri roventi si rimettono a posto le pieghe irrigidite e contorte per effetto dell’asciugamento, e si dà forma concreta alla testa, alle mani e ai piedi. Questa operazione è di maggiore importanza, giacché è quella che dà espressione e forma al soggetto: si può dire che ciò ch’è la stecca per lo scultore, è il ferro rovente per il cartapestaio. Segue “l’ingessatura” altra operazione che completa con uno strato di gesso, sciolto in acqua e colla, questa lavorazione, e che ha lo scopo di renderla adatta al “ricaccio” che consiste in un ultimo lavoro di stecche e di ferri taglienti, coi quali si curano e si perfezionano quei dettagli che il gesso aveva alquanto confusi o alterati.

La “dipintura” delle statue, fatta prima con un sol colore e colla, poi con colori ad olio con i quali il viso, i capelli, le mani, i piedi, le vesti prendono aspetto proprio, finalmente con la doratura della base dei simboli religiosi, è l’ultima fatica che richiede la statua, le cui tinte sono rese vive e morbide da una “inceratura” che vi si pratica. Dopo di che è lasciata per qualche tempo in una “stufa” leggermente riscaldata, e n’è pronta ad essere incassata e spedita.

Stabilimento Guacci, Sezione armatori, La vestizione.

 

Stabilimento Guacci, Sezione pittori.

 

* * *

L’arte della cartapesta leccese attraversa oggi un lieto periodo di successi, che la rendono anche economicamente fiorente. In Lecce sono centinaia le famiglie operose che v’attingono sicuro benessere. Certo con essa si supplisce, e con notevole differenza e vantaggio di prezzo, alla produzione delle statue in metallo o in legno, che un tempo ornavano comunemente le chiese, e che per lo più uscivano da officine di Venezia e di Siena. L’abbiamo chiamata “arte”, e sia pure.

L’interesse che essa ha è soprattutto questo: che, è nata in Lecce, pare non voglia varcarne i confini, pare voglia restare nel leccese.

Un esimio critico d’arte, l’illustre architetto Camillo Bòito, a proposito dell’Esposizione d’Arte Sacra tenutasi a Torino nel 1908, così scriveva de’ lavori in cartapesta mandati dai laboratori leccesi: “Può dirsi arte industriale, per esempio quella della cartapesta di Lecce, perché le Vergini, i Santi, gli Angeli i Crocifissi di cartapesta partono dalle numerose botteghe della gentile città di Puglia per viaggiare sino al settentrione d’Italia entrando nelle nicchie de’ presbiteri e adagiandosi sugli altari perfino delle nostre Alpi nevose; ed è un’industria dove un certo spirito di bellezza ed una misurata espressione non mancano”. Parole belle e buone, come si vede, e che non inorgogliscono ma incoraggiano a un sempre più alacre e proficuo lavoro gli artisti leccesi. Chi non sia vissuto qualche tempo in quella città non può immaginare di qual vero impeto ed entusiasmo artistico siano animati tanti e tanti modesti per quanto valorosi artisti. Io ne ho nominati, in queste brevi note, otto o dieci, ma essi sono legione, che cresce ogni giorno. Alla vecchia arte tradizionale, i giovani, e tra questi il Guacci, che s’è ricordato più sopra, vanno apportando uno spirito nuovo di grazia e di perfezione. Pare che in Lecce ove tanta gentilezza di costumi e di lingua, quest’arte sia come un prodotto naturale della terra, corrispondente alle tendenze più fini e più sottili de’ suoi abitanti. E pare davvero che un magnifico privilegio crei qui gli artisti e specialmente gli scultori tra i quali ultimi, basta ricordare Antonio Bortone ed Eugenio Maccagnani leccesi noti ed onorati in tutta Italia e fuori.

Giuseppe Gigli

 

Stabilimento Guacci, Sezione armatori, Lavorazione dei crocifissi.

 

Stabilimento L. Guacci, interni.

 

Lettera autografa di Luigi Guacci datata 11 settembre 1926 (coll. privata).

In “spazioapertosalento.it”, 21 dicembre 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Novoli 2024.

 

Riferimenti bibliografici essenziali

D. Valli (a cura di), Giuseppe Gigli e documenti vari di cultura, Milella, Lecce 1982.

G.B. Arnò Manduria e Manduriani, edizione Anastatica, Antonio Marzo Editore, Manduria 1983.

P. Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori Pugliesi e contemporanei,Arti Grafiche Savarese, Bari 1976.

C. Piantoni, Cronaca di una borghesia in ascesa. I primi quarant’anni dell’Almanacco Italiano, in “Charta”, anno VI, n. 26, gennaio-febbraio 1997, pp. 26-29.

G. Gigli, La lavorazione della cartapesta in Lecce, in “Almanacco Italiano”, anno XIV, R. Bemporad e Figlio, Firenze 1909, pp. 540-552.

G. Gigli, Superstizioni, Pregiudizi e Tradizioni in Terra d’Otranto, riedizione dell’opera del 1893, Filo Editore, Manduria 1998, con prefazione di Anna Merendino.

BRANDICI. La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce. Gli aspetti topografici della carta

di Vito Ruggiero

 

GLI ASPETTI TOPOGRAFICI DELLA CARTA

Ora che la carta storica di Brindisi dal titolo Brandici non è più così sconosciuta alla città, ho il piacere di riportare alcune ulteriori considerazioni sull’opera, in gran parte già evidenziate nel libro che le ho dedicato.

Ritengo di aver raggiungo il principale obiettivo di divulgare l’esistenza dell’opera e ora mi auspico che questa possa stimolare gli appassionati di storia della città a fornire il loro contributo, in particolare sugli elementi topografici in essa riportati che necessariamente vanno collegati alla storia della città.

Rivediamo prima l’opera nell’immagine sotto.

Innanzitutto vorrei soffermarmi su un punto che ho affrontato nel mio libro in merito al fatto di aver definito l’opera come “la mappa più antica della città”. Avendo approfondito molto la cartografia esistente in merito a Brindisi, non poteva certo sfuggire nel mio studio il portolano turco di Piri Reis. La vediamo nell’immagine sotto.

Nel mio libro parto dalla considerazione che la prima opera in assoluto a rappresentare il porto di Brindisi, riferito al tempo in cui veniva disegnato, è il portolano turco Kitab-i Bahriye di Piri Reis. Si tratta del portolano manoscritto a cura del cartografo, capitano e ammiraglio Piri Reis al servizio del Gran Sultano ottomano, che contiene al tempo stesso una documentazione scritta e figurata, un documento fondamentale nella storia della cartografia nautica mediterranea, ritenuto il primo vero documento marittimo a descrivere l’insieme delle coste, dei porti e delle isole con tanti dettagli. Queste rappresentazioni ad opera di Piri Reis, non sono opere a stampa e, a mio parere, non possono essere ritenute delle cartografie, topografie o vedute della città, essendo esclusivamente dei portolani manoscritti destinati ai marinai e non rappresentando alcun elemento topografico della città di Brindisi. Infatti il nucleo urbano di Brindisi nel portolano di Piri Reis appare più che altro come una semplice raffigurazione simbolica ed è assente qualunque elemento caratteristico della città. Anche le altre città dello stesso portolano sono rappresentate nello stesso simbolico modo.
L’opera Brandici invece è un documento cartografico a stampa che offre diversi dettagli del porto, della città e dei dintorni, con i relativi toponimi, ricco di elementi rappresentativi sebbene con tutti i meravigliosi ed affascinanti limiti realizzativi della cartografia italiana del XVI secolo. Si tratta dunque di due rappresentazioni molto diverse, per scopo, per veduta d’insieme e per tecnica realizzativa, distanti solo tredici anni una dall’altra.
Basta osservare che intorno al nucleo urbano di Brandici troviamo: le colonne romane, la cattedrale, la Porta Reale e la strada verso la marina, Porta Lecce, la cinta muraria come effettivamente era, il castello Svevo, l’Arsenale, Santa Maria del Casale. Tutto questo è assente nel portolano di Piri Reis che, come detto, ha tutt’altro scopo.
Per queste ragioni, a mio avviso, Brandici può essere considerata la prima vera “mappa” della città di Brindisi, intendendo l’accezione della parola “mappa” non come termine specialistico geografico ma bensì nel suo utilizzo comune, che ho voluto scegliere per il titolo del mio libro perché più immediato e comprensibile e quindi più adatto a destare l’interesse di un’ampia platea. Altri termini, come “documento cartografico”, “cartografia o topografia a stampa”, “veduta a volo d’uccello” etc., sebbene più appropriati per il tipo di opera, non ho ritenuto che fossero adatti per il titolo del libro, visto lo scopo di voler divulgare a tutti l’esistenza di questo prezioso documento della cartografia rara cinquecentesca di Brindisi.

Sebbene il portolano di Piri Reis rimane quindi la prima opera a rappresentare l’area intorno al porto di Brindisi, la tavola di Brandici è la più antica rappresentazione ad oggi conosciuta della città (oltre che del porto), con precisi elementi topografici, la sola in grado di darci una immagine cinquecentesca di Brindisi, una delle poche città italiane che possono vantare un documento cartografico a stampa così antico.

E questo è solo il primo di tre elementi stupefacenti di quest’opera.

Il secondo, è che l’esemplare in questione è unico. Non esistono altre copie al momento conosciute.

Il terzo, che la carta racconta e fa riferimento ad un avvenimento storico ben preciso che Brindisi ha vissuto nell’autunno del 1538.

Tralascio ora i dettagli che riguardano la fantastica storia, descritta nel libro, di come Brandici sia arrivata fino a noi. Coloro ai quali dobbiamo la sua introduzione nella bibliografia italiana, all’interno dell’opera di catalogazione monumentale Cartografia e topografia italiana del XVI secolo, edito da Edizioni Antiquarius nel 2018, sono due tra i più noti studiosi e massimi esperti internazionali di cartografia storica cinquecentesca italiana, Stefano Bifolco e Fabrizio Ronca, mentre oltre i confini nazionali è allo studioso ungherese Tibor Szathmáry  che dobbiamo riconoscere il suo vero e proprio ritrovamento nel 1987, e la sua prima pubblicazione nel 1992.

Tralascio anche gli aspetti storici, legati alla battaglia di Prevesa e ai successivi spostamenti dell’armata di Andrea Doria fino all’arrivo nel porto di Brindisi, anche questi ampiamente documentati e raccontati nel libro, così come tralascio gli aspetti legati al contesto storico della piccola raccolta di tavole cui faceva parte, all’editoria veneziana dl XVI secolo, al tipografo Francesco Tommaso di Salò, e alle caratteristiche tecniche delle stesse.  Sono tutti punti sviluppati nel libro.

Vorrei soffermarmi invece su quelle che sono state le mie prime considerazioni sugli aspetti topografici riportati sulla carta stessa. Non essendo io uno storico, mi sono limitato ad alcune semplici considerazioni che richiedono ulteriori verifiche da parte degli studiosi.

Ritengo infatti che conoscenze più approfondite siano necessarie per poter affrontare tutti i dettagli topografici riportati dall’opera e sono ben lieto di lasciare agli attuali studiosi locali l’approfondimento su quanto possa scaturire di nuovo sulla storia della nostra città grazie a quest’opera.

E’ questo lo scopo di questo articolo.

Vediamoli in successione, dal basso verso l’alto, i vari elementi della carta, dopo aver visto l’opera a pagina intera.

 

L’armata di Andrea Doria nel porto esterno – ARMA DE ANDREA DORIA

Sono rappresentate nove galee nella carta.

 

Non sono riuscito fino ad ora a trovare informazioni sulla effettiva composizione della flotta di Andrea Doria al momento del suo arrivo a Brindisi il 20 novembre 1538. Probabilmente erano molte di più visto che prima della battaglia di Prevesa era transitato a Corfù con 41 galee e 30 navi. Ovviamente quella sulla carta è solo una raffigurazione simbolica della sua armata.
Interessante notare i diversi simboli sulle bandiere a poppa, che spero qualche studioso possa meglio decifrare e spiegare. Quella in posizione più avanzata verso l’imboccatura del porto interno riporta abbastanza chiaramente, a mio avviso, lo stemma imperiale dell’imperatore Carlo V.

 

Le isole Pedagne – SCOI DE (F)VORA

 

Ritengo che quegli scogli indicati sommariamente, per la loro posizione, non possano che essere le isole Pedagne.

Tuttavia, qui le isole non vengono citate con il loro nome, che certamente era già in uso nel XVII secolo. A tal proposito, infatti, troviamo riscontro dell’utilizzo del termine “Pedagne” nella mappa di Blaeu (quella ben nota dal titolo errato Tarento) della fine del XVII secolo edita per la prima volta nel 1663 e poi nuovamente nel 1703 a cura di Mortier.

È molto probabile che anche in tutto il XVI secolo si chiamassero quei piccoli isolotti con il nome Pedagne, per quanto ho potuto dedurre dalla descrizione del porto di Brindisi nel portolano di Piri Reis, che intorno al 1518 riferiva: “non c’è porto più famoso di Brindisi. Infatti, davanti alla città c’è un bellissimo e grandissimo porto naturale che può dare asilo a trecento o quattrocento navi…Alla bocca del porto c’è un’isola rocciosa – l’isola di sant’Andre nella quale è stato costruito un piccolo castello fortificato da cannoni. Navi straniere non possono entrarvi: fra l’altro la bocca del porto è chiusa da catene. Ai due capi delle catene vi sono due grosse torri con cime alla sponda che danno a maestrale…Le grandi barche possono passare da questo stretto, essendo esso molto profondo verso la costa di nord ovest, distante mezzo miglio. Sulla riva dello stretto ci sono isolette che si chiamano Pedagne.” (Maria Sirago in “Il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità” cita A. Bausani, L’Italia nel Kitab-i Bahriye di Piri Reis, in Il Veltro, 1979, pp 173-175).

Probabilmente le isole Pedagne, il cui nome si attribuisce alla loro forma oppure al fatto che i fondali che le separano sono molto bassi e quindi possono essere guadati a piedi, erano così chiamate già all’inizio del XVI secolo o forse prima, ma non ho trovato riscontri e riferimenti più precisi. Di fatto nella tavola Brandici vengono citate con l’indicazione SCOI DE (F)VORA.

Su questo toponimo ho nutrito inizialmente diversi dubbi e il mio auspicio è che qualche studioso possa dare un utile contributo a spiegarne il significato in riferimento alle isole Pedagne.

La difficoltà nasce dal fatto che non ho certezza che ci sia la lettera “F” davanti alla parola “VORA”, e per questo la indico tra parentesi. Effettivamente sembra esserci un difetto di stampa nel carattere “F” stampato parzialmente, per cui il corretto toponimo sarebbe quindi SCOI DE FVORA – scogli di fuori- ad indicare propriamente gli isolotti più esterni, quelli che per primi si incontrano entrando nel porto di Brindisi. Questa è certamente la spiegazione più plausibile, forse l’unica realisticamente accettabile.

Non sono riuscito a trovare altre fonti che potessero confermare che nel Cinquecento le Pedagne potessero essere chiamate anche in quel modo, pertanto, se fosse effettivamente così, questa indicazione proveniente dal documento potrebbe essere una informazione particolare.

Inizialmente mi sono azzardato a fare anche un’altra interpretazione del tutto personale e fantasiosa, quasi certamente sbagliata, basata sull’ipotesi che non ci sia una “F” mancante e che sia effettivamente scritto SCOI DE VORA.

Descrivo brevemente questa assurda ipotesi solo per condividere con chi legge quanto ho appreso su un termine particolare che comunque esisteva su altre mappe dell’epoca, “VORA”, ma sono praticamente certo che quella corretta è la precedente.

VORA (buco) è un termine locale pugliese per indicare voragini o inghiottitoi dovuti all’erosione delle acque sui calcari o a sprofondamenti della volta di caverne. Tale toponimo era anche piuttosto diffuso nelle cartografie storiche locali.

A tal proposito vedasi la pubblicazione del 2 dicembre 2023 di Armando Polito sul sito www.fondazioneterradotranto.it dal titolo “Nardò: Vora, un toponimo perduto”. L’autore ci spiega come già nella cartografia degli inizi del XVII secolo, vedasi Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia, di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), si legge presso Nardò il termine VORA alla destra di un simbolo inequivocabile che corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato Vora del Parlatano. Un nome comune diventato un preciso toponimo. Questo termine è ancora presente in altre carte del Salento di poco successive, come quelle di Blaeu o Valck.

Stabilito quindi che, anche nella cartografia di poco successiva alla nostra tavola, esisteva questo termine per indicare una voragine, da qui la mia ipotesi estremamente fantasiosa. Ho collegato il termine “VORA” al fatto che su una delle isole Pedagne, denominata La Chiesa, si trova la Grotta dell’Eremita, con affreschi che rappresentano la Natività e che ora sono in forte degrado. Un tempo vi erano anche un vano dormitorio ed una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. L’insediamento era probabilmente utilizzato da un religioso che aveva deciso di condurre una vita solitaria ed era collegato con il monastero dell’Isola di Sant’Andrea, costruito nel basso medioevo.

Lascio agli appassionati ed esperti studiosi la verifica corretta del termine che indica le Pedagne nell’opera che stiamo osservando, ma resto fermamente convinto che sono indicate con il termine SCOI DE (F)VORA – scogli di fuori – ad indicare il gruppo di isolotti più esterni del nostro porto.

 

L’isola di Sant’Andrea – CASTEL-D-MAR e SCOIOGRANDO

 

Molto bella la rappresentazione del Castello di Mare, ovviamente il Castello Alfonsino. In questa rappresentazione lo vediamo in tutto il suo splendore.

Nel 1481 Ferdinando d’Aragona ordinò al figlio Alfonso, duca di Calabria, di costruire sull’isola di Sant’Andrea una fortezza in grado di difendere efficacemente porto e città. All’inizio fu solo una rocca, ma poi fu fatta ampliare con la costruzione di un antemurale con bastioni al torrione preesistente, con mura alte e molto spesse: alle due torri, cilindrica e quadrata, ne fu aggiunta un’altra poligonale così che il castello assunse una forma triangolare. Le torri e l’antemurale sono perfettamente rappresentati nella tavola Brandici.

L’autore indica la restante parte dell’Isola di Sant’Andrea con il nome SCOIOGRANDO, e trovo che anche questo sia un modo molto particolare, se non inedito, per indicare l’isola di Sant’Andrea. Nel 1538 non esisteva ancora il Forte a Mare, la cui costruzione fu avviata nel 1558 a cura di Filippo II d’Austria, figlio di Carlo V. Nella carta Brandici questo trova evidenza dal fatto che l’unica rappresentazione nell’isola di Sant’Andrea è appunto quella del solo Castello Alfonsino. Pertanto, con SCOIOGRANDO si indica tutta la restante parte, quella dove avvenne la successiva edificazione del Forte a Mare ed il cosiddetto Lazzaretto.

Il termine veneziano SCOIO – scoi de (f)vora, scoiogrando – indicato sulla carta, ma anche il toponimo Brandicio, davvero molto vicino alla nostra Brandici,  trovano ulteriore conferma in alcuni testi ritrovati quali ad esempio gli ordini impartiti ai difensori del castello a salvaguardia del porto di Brindisi, che ci racconta  Francesco Grassetto da Lonigo nel suo Viaggio di Francesco Grassetto la Lonigo lungo le coste dalmate , greco-venete ed italiche nell’anno MDXI e seguenti, Venezia, stabilimento tipografico Fratelli Visentini, 1886, pag. 41-2 nel quale ricorda del 1511: “Nel intrar deli scogli al porto de Brandicio, dal castello del scoglio fune trato uno pasavolante per proa, et rumpete remi et magagnò li provieri, brusò una gomena e fracasò banchi e baville; et questo ferno perché non salutamo con bonbarde avanti intrasemo.”

 

Santa Maria del Casale – S – MARIA DE CASAL

 

Sulla meravigliosa chiesa sorta presso Brindisi all’inizio del Trecento e definita come una delle più belle ed originali che nel suo stile abbia l’Italia Meridionale non mi soffermo a dare informazioni.

La tavola indica la chiesa di Santa Maria del Casale con estrema chiarezza nella sua corretta posizione ed evidenzia anche una sorta di fortificazione a proteggerla. Infatti, il luogo dove essa sorgeva era solitario ed ameno e gli arcivescovi di Brindisi vi costruirono la loro dimora estiva. Dal 1310 la chiesa e i locali annessi furono utilizzati come “cancelleria” del processo contro i Templari. Successivamente nel XVI secolo i Frati Minori Osservanti vi fondarono il convento.

 

Torre Cavallo – TORE DI CAVALI

Non sono tante le cartografie storiche della città di Brindisi che riportano la rappresentazione di Torre Cavallo contestualmente al suo toponimo. Nella maggior parte dei casi l’inquadratura delle carte non arriva infatti fino a Punta Cavallo.

La torre la ritroviamo certamente nelle tavole di inizio Cinquecento del portolano turco di Piri Reis, e molto più recentemente nella tavola di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810.

Anche la mappa di Brandici, la più antica rappresentazione della nostra città, sembra rappresentare a prima vista la torre di Punta di Cavallo.

Al registro angioino risulta che nel 1275 un tale Pasquale Faccirosso, cittadino di Brindisi, morendo, lasciava con atto testamentario la cifra di 50 once d’oro perché nel luogo detto “Scoglio del Cavallo” fosse costruita una torre con faro “onde i naviganti potessero evitaregli infortuni navigando in quei paraggi”. La zona a sud di Brindisi, infatti, per via di secche e scogli era caratterizzata da frequenti naufragi. Le origini del toponimo “Lucaballus” risalgono infatti alla fine del XIII secolo, come documentato nella cancelleria angioina del 20 giugno 1277.

Al fine di terminare l’opera nel modo più veloce possibile, il re incaricò i brindisini Ruggero Ripa e Nicola Uggento. I lavori di costruzione furono supervisionati dai Templari, ma sfortunatamente la torre crollò subito dopo il suo compimento per venti, mareggiate e forse errori di progettazione. Dopo il crollo venne nuovamente ricostruita e terminata nel 1301 sotto il regno di Carlo II d’Angiò.

La torre crollò nuovamente e nel 1567 fu ricostruita sulla stessa base cilindrica di quella angioina, per volontà del viceré aragonese Perafan de Ribera nel suo grande progetto che prevedeva, oltre alla costruzione di nuove torri, anche la riqualifica di quelle già esistenti.

Mappa aragonese del XV secolo – particolare

 

Oggi la torre non esiste più. Impegnata per vari usi, l’ultimo documento sull’esistenza della torre è datato 1842. Probabilmente già diroccata e fatiscente, fu in seguito completamente demolita. Durante la Prima Guerra Mondiale fu costruita una batteria di artiglieria della Marina Militare, e sul sito, in piena zona industriale, si notano i ruderi. Ancora nel 1966, in base alle foto realizzate da Federico Briamo, si notavano alcuni resti della muratura basamentale della torre, attualmente non più esistenti.

Una prima osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione nella carta di Francesco Tommaso di Salò, della TORE DI CAVALI e sulla possibile identificazione della stessa con la Torre di Punta Cavallo è che le diverse descrizioni e ricostruzioni grafiche ottenute grazie ai documenti angioini (in ultimo la ricostruzione con stampante 3D di Francesco Iurlaro raccontata in un articolo de il7 Magazine del  4 marzo del 2022 di Giovanni Membola) mostrano la torre su base circolare mentre nella tavola di Brandici, diversamente da quelle del porto, anch’esse angioine, sembra avere base quadrata.

Una seconda osservazione scaturisce dalla lettura dell’interessantissimo articolo di Armando Polito “Brindisi e il suo porto in una carta del XVI secolo” pubblicato da fondazioneterradotranto.it il 15 febbraio 2017.

 

L’autore presenta alcuni dettagli di una copia settecentesca, inedita, di una mappa originale aragonese disegnata alla fine del XV secolo. La copia è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia. L’autore affronta e analizza tutti i numerosissimi toponimi presenti sulla carta.

Se ci soffermiamo sull’area intorno a Brindisi ed in particolare sulla zona a sud del porto osserviamo che sono indicate, con estrema precisione, due torri e non una. Quella più a sud è indicata come Torre del Cavalloccio, presso il luogo oggi denominato Punta di Torre Cavallo. Dalla sua posizione questa è senza dubbio la torre che a Brindisi è sempre stata identificata come Torre Cavallo, cioè quella sul sito oggi noto per le sfiammate della torcia dello stabilimento petrolchimico e dove, come detto, sono anche presenti i resti di una postazione della Prima Guerra Mondiale, che sorgevano sopra quelli della antica torre tante volte nominata a partire dai documenti angioini.

L’articolo di Armando Polito ci evidenzia che la denominazione e l’indicazione della Torre del Cavalloccio non è nuova e la ritroviamo su diverse altre carte successive a scala relativamente grande, come ad esempio quelle del Magini, Jonssonius, Bulifon, Hondius del XVII secolo, ed infine di Domenico De Rossi del 1714 che forse per primo la comincia a chiamare T. del Cavallo, come nota oggi anche se non più esistente da quasi duecento anni.

Ma allora la Torre del Cavallo rappresentata poco più a nord, a est di Fiume Grande, nella carta aragonese custodita nella biblioteca francese che torre è? È evidente che trattasi di una torre distinta per la sua posizione, che risulta assente in tutte le altre carte prima accennate ed utilizzate dall’autore dell’articolo ai fini comparativi.

L’autore dell’articolo ipotizza quindi che, data l’estrema precisione della carta aragonese, questa seconda torre sia esistita e scomparsa nell’arco di pochi decenni, in quanto già mancante nelle carte del XVII secolo.

Tutto questo per dire che, a mio avviso, la posizione di quella che sulla nostra opera è indicata come TORE DI CAVALI potrebbe anche coincidere con quella indicata come Torre del Cavallo della carta aragonese custodita in Francia, che abbiamo detto essere una copia di una carta della fine del XV secolo, quindi molto vicina temporalmente alla rappresentazione di Francesco Tommaso di Salò.

 

In effetti, essa non sembra così lontana da quelle che ipotizziamo essere le Pedagne ed osservando la linea di costa non sembra essere su una punta così pronunciata come certamente era quella dove sorgeva la Torre del Cavalloccio, ossia Punta di Torre Cavallo.

Anche uno dei noti portolani turchi del Cinquecento (a destra) riporta la Torre Cavallo non sulla Punta Cavallo ma più a nord in una zona lineare della costa e non su un capo, quasi di fronte alle Pedagne. A mio avviso la sua posizione poteva essere nei pressi di Capo Bianco, ma resta tutto molto ipotetico e da verificare.

Portolano turco XVI secolo – particolare

 

Questa delle due torri è una affascinante ipotesi che lascio approfondire eventualmente a chi ha tempo e strumenti per fare ulteriori indagini ma, se così fosse, la nostra carta sarebbe, insieme a quella studiata da Armando Polito e forse al portolano turco suddetto, l’unica di mia conoscenza a rappresentare questa torre vissuta così poco tempo dal nome Torre del Cavallo, ben distinta da quella del Cavalloccio che in seguito le “rubò” il nome.

E forse questa ipotesi spiegherebbe anche la sezione quadrata e non circolare come quasi certamente era quella della Torre del Cavalloccio collocata a Punta di Torre Cavallo, denominata in seguito Torre del Cavallo quando la prima era ormai scomparsa.

Ad ogni modo, certo è che quella indicata sull’opera che stiamo studiando non può che essere una di quelle due torri.

Spero di aver spronato qualcuno a dare un riscontro più oggettivo di queste mie avventate teorie, almeno per capire se questa ipotesi è plausibile, o se effettivamente la torre della nostra tavola è quella di Punta Cavallo.

 

Le torri angioine – LITORE DEL PORTO

Sull’esistenza delle torri angioine all’imboccatura del porto si è scritto molto e si trovano diverse informazioni e citazioni storiche, per cui non mi soffermo troppo.

Le due torri furono realizzate da Carlo II d’Angiò nel 1301 lungo le due sponde del canale.

 

La torre maggiore era posta sul lato di ponente, mentre quella di minore era sul lato opposto a levante e tra le due torri era collegata una catena di ferro.

La catena, denominata catena angioina, è ben visibile nell’opera che stiamo esaminando, così come è chiaramente indicata nelle antiche piante della città già conosciute, ad esempio quella del 1703 di G.B. Pacichelli o la successiva di Orlandi, o quella del 1663 di J. Blaeu.

Le due torri avevano degli ingranaggi che permettevano di tendere la catena e chiudere l’ingresso nel porto interno; la stessa veniva mollata in acqua quando una nave si apprestava ad accedere o ad uscire. Questo tipo di sistema a catene era utilizzato all’epoca per chiudere gli ingressi anche di altri porti, come quello di Trani.

Un simile metodo di difesa con il passare del tempo divenne anacronistico e le due torri subirono nei secoli successivi riadattamenti. All’inizio dei lavori sul canale del sig. Pigonati, siamo nel 1779, si attesta ancora l’esistenza della maggiore, risistemata ad alloggiare le guardie della finanza, mentre quella di levante è quasi completamente distrutta e ne rimangono pochi avanzi. Il famoso dipinto di Hackert, che ci offre una fantastica e dettagliatissima vista del porto nel 1789, riporta la stessa situazione 10 anni dopo. Attualmente la catena angioina è conservata all’interno del Castello Svevo.

Unica osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione delle torri angioine nell’opera di Francesco Tommaso di Salò, che a mio avviso meriterebbe ulteriori approfondimenti, è il fatto che sul lato di levante sono rappresentate due torri e non una sola, come invece compare nella maggior parte delle altre citate piante storiche o nelle tavole dei portolani turchi di Piri Reis, in assoluto i più antichi a rappresentarle.

A parte la torre destinata a ricevere uno dei due capi della catena, è infatti rappresentata una seconda torre un po più arretrata.

Esistevano quindi, agli inizi del Cinquecento, due torri sulla sponda di levante mentre a ponente ne avevamo una sola, la maggiore, come così chiaramente riportato nell’opera Brandici?

La presenza così evidente di due torri a levante è abbastanza particolare e differente da tante altre piante; tuttavia, bisogna osservare che esistono anche alcune rappresentazioni nelle cartografie che non evidenziano una sola torre in corrispondenza di ciascun lato, ma una serie di costruzioni.

È il caso del portolano pubblicato dal cosmografo Coronelli Specchio di mare nel 1686. Troviamo riportato a lato un particolare dell’immagine del porto presente sul portolano.

Coronelli 1686 – Specchio di mare – particolare

 

Brindisi è circondata dal suo sistema difensivo e dai due seni, con i dettagli della costa indicati nel porto esterno, oggi porto medio, quali l’isola Sant’Andrea e le Pedagne. Sono chiaramente indicati i bassi fondali causati dai depositi di terra in corrispondenza dell’imboccatura che quasi ostruiscono il canale di ingresso al porto interno, e le torri ai lati. Ebbene, si può chiarissimamente notare che anche qui le torri indicate sul lato di levante sono due e non una. Anche sul lato di ponente sembrano esserci altre costruzioni nei pressi della torre.

Un secondo portolano, questa volta quello ben più noto del Roux Recueil des principaiux plans, des ports, et rades de la Mediterranee del 1764 sembra mostrare sul lato di levante una seconda torre affianco al toponimo “Petit tour”.

Roux 1764 – particolare

 

Analogamente, la bellissima rappresentazione del nostro porto nella tavola del portolano di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810, sicuramente molto ben dettagliata per l’epoca, mostra ancora una torre (Tower) sul lato di levante più arretrata all’interno rispetto al canale, probabilmente ormai ridotta a rudere o addirittura non più esistente, che certamente non poteva quindi essere quella che un tempo reggeva uno degli estremi della catena.

Heater 1810 – particolare

 

Sembra abbastanza evidente quindi che le due torri angioine ai lati dell’ingresso al porto erano state affiancate nel tempo da altre costruzioni e da un’altra torre sul lato di levante, anche se non è semplice ricostruire come fosse esattamente lo scenario ai lati del canale angioino nel 1538.

Che ci fossero altre edificazioni oltre alle due torri lo sostiene anche Ferrando Ascoli in La storia di Brindisi che a pag. 103, dopo aver descritto le due torri che reggevano la catena, dice “Oltre le torri, e probabilmente intorno a queste, il re Carlo dovè far costruire delle fortilizie di piccola mole; chè; il 6 di novembre del 1284, ordina al giustiziero di terra d’Otranto, Erberto d’Orleans, che da ora in avanti le torri del porto di Brindisi siano custodite da 10 inservienti.”

E ancora troviamo una conferma da una ulteriore mappa molto interessante, perché anch’essa non presente sulle pubblicazioni locali esaminate, ma disponibile in versione digitalizzata tramite il sito www.oldmapsonline.org di Gerard van Keulen dal titolo Porto Brundisi int groodt pubblicata in Olanda nel 1720 e messa a disposizione in forma digitale dalla Leiden University Library.

Porto Brundisi int groodt – 1720 Leiden University Library – particolare

 

Si tratta di una mappa suddivisa in 12 riquadri ciascuno rappresentante il piano di un porto di diverse città. Il nono di questi è quello di Brindisi e nella figura ho riportato il dettaglio del canale di ingresso del porto.  Si possono vedere chiaramente due torri sul lato di levante e altre fortificazioni a ponente. Anche questa mappa nel suo complesso richiederebbe uno studio approfondito, essendo certamente poco nota se non quasi sconosciuta.

Ulteriore riscontro della presenza di altre torri nei dintorni lo ritroviamo in una mappa del tutto inedita del 1630, anch’essa certamente del tutto sconosciuta alla città di Brindisi e a chi ha finora pubblicato cataloghi e articoli ed organizzato mostre sulla cartografia locale. In quest’opera sembrerebbero esserci addirittura tre torri sul lato di levante del canale, con diverse altre fortificazioni anche sul lato di ponente dell’imboccatura del canale.

Questa mappa l’ho ritrovata quando avevo praticamente concluso questo mio studio, è anch’essa di origine veneziana ed a mio avviso meriterebbe uno studio a sé perché di grande rilievo per la storia cartografica della città e perché mai comparsa nelle pubblicazioni locali. Maggiori dettagli e la sua inedita immagine sono forniti nella postfazione del mio libro.

Probabilmente esistono ulteriori descrizioni storiche specifiche che possono confermare la presenza di altre torri magari con più precisione in riferimento alla data del nostro documento, ma lascio anche questa verifica a chi eventualmente è interessato ad approfondire sulla storia di quella seconda torre a levante nel documento che stiamo descrivendo.

 

Il titolo in cartiglio – BRANDICI

È molto interessante e forse inedito, almeno nella cartografia, il nome che Francesco Tommaso di Salò attribuisce alla nostra città con il cartiglio dedicato. Non ho trovato alcuna pubblicazione o documento storico cartografico che chiama esattamente con il nome di Brandici la nostra città, anche se ci avviciniamo molto con altri toponimi.

 

Io credo che questo sia addirittura uno dei motivi per cui non è poi così immediato reperire la carta sui motori di ricerca del web, in quanto sappiamo che l’unico riferimento negli ultimi anni sono le informazioni dei siti delle gallerie che la propongono in vendita, giustamente con il nome indicato nella tavola, che però non è associato a Brindisi in nessun altro documento facilmente accessibile in rete.

È stato piuttosto divertente stilare un elenco di tutti i nomi che hanno identificato la città di Brindisi, partendo dalle sue origini. BRANDICI non l’ho mai trovato nelle fonti storiche esaminate.

Ci viene incontro una interessantissima ricerca di Nazareno Valente, I nomi che hanno identificato la nostra città (Brindisi), pubblicata sul sito Gruppo Archeo di Brindisi. Riassumo i nomi da lui identificati nell’articolo, senza indicare tutti i riferimenti bibliografici agli atlanti e portolani dell’epoca. Questi riferimenti sono ovviamente indicati dall’autore nella sua pubblicazione.

Innanzitutto, come ben noto, da “Bréntion”, che in lingua messapica indicava la testa di un cervo che molto probabilmente ha dato il nome alla nostra città per la particolare forma del porto, abbiamo le derivazioni greca di Brentésion e romana Brunda e quindi Brundisium. Questo toponimo nel medioevo ha subito numerosissime varianti: Brandisium, Brandisi, Blandizia e Branditia, poi Brundizio e Brandizio nel XIII e XIV secolo.

Brandizio è il toponimo utilizzato da Dante nella Divina Commedia che nel Purgatorio fa esclamare a Virgilio, “Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”. Nello stesso periodo si ritrovano anche altri toponimi come: Blandizo, Brandizo, Brundisia, Brandizia, Brandiz e Brandiço, mentre nel XV secolo i toponimi utilizzati furono: Branditio, Brandizi, Brundusio, Brondusio.

Alla fine del secolo XV compaiono Brindese o Brindise e, dal 1519 anche Brindisi. In quello stesso periodo ritroviamo anche Brindesi (la stampa di G.B. Pacichelli riporta questo nome) e Brindici, voce usata nell’History of Venice di P. Bembo.

In tutta questa lunga carrellata di identificativi nei secoli fino alle prime comparse del termine Brindisi, quasi contemporanee alla data della nostra carta, BRANDICI risulta assente. Ci siamo arrivati molto vicini con Brandizi e Brindici, ma possiamo affermare che alla lista suddetta si debba necessariamente aggiungere anche BRANDICI, citato sull’esemplare unico di cui stiamo parlando e forse su pochi altri documenti di origine veneziana che io non sono stato in grado di reperire ma che sicuramente esisteranno.

Abbiamo una incredibile e forse unica conferma dell’utilizzo di questo nome nella cartografia della nostra città anche nell’altra eccezionale mappa già accennata nel paragrafo dedicato alle torri del porto raccontato nella postfazione del mio libro. Risale al 1630 circa ed è quindi la conferma di come BRANDICI fosse certamente il toponimo usato per indicare la città di Brindisi sulle carte veneziane tra il XVI e il XVII secolo.

Maggiori informazioni su questa carta veneziana, come abbiamo detto, sono indicate nella postfazione del mio libro.

Il toponimo stesso BRANDICI per la sua particolarità è certamente un’altra ragione che rende unico e prezioso il documento in questione. La conferma che tale nome fosse effettivamente utilizzato a Venezia tra il XVI e il XVII secolo, grazie al ritrovamento di una seconda mappa con quello stesso nome, anche questa praticamente sconosciuta, è stato motivo di grande soddisfazione.

 

Cartiglio di sinistra – EL VERO SITO DI BRANDICI IN PVGLIA

Nel cartiglio di sinistra si possiamo leggere:

  1. VER. SITO. DI. BRANDICI. IM PUGLIA. STAMPATO IN VENETIA. PER. FRANCESCO LIBRAR. DALA. SPERANZA. A. M.DXXXVIII.

 

L’arsenale nel seno di levante ­– L ARSENAL

Questa è forse la novità più rilevante sugli elementi topografici della carta. A mio avviso, non esistono altre rappresentazioni nella cartografia storica di Brindisi fino ad oggi conosciuta che mostrino questo grande arsenale costruito in epoca angioina ed ampliato nel tempo sul seno di Levante nei pressi della stazione marittima. Ho trovato diverse indicazioni sulla sua esistenza provenienti dai registri angioini e poi riprese da Ferrando Ascoli ne La storia di Brindisi. Nicola Vacca in Brindisi Ignorata ipotizza anche la sua esatta posizione.

 

Riporto testualmente quanto reperito sul sito della Provincia di Brindisi, nell’articolo pubblicato mercoledì 10 settembre 2008 relativamente al castello a mare angioino (o di S. Maria del Monte), che conferma la posizione di un arsenale nei pressi della stazione marittima, seppur non sia indicata la fonte specifica. Lo stesso testo virgolettato è riportato su brindisiweb.it nella scheda storica a cura di Roberto Piliego relativa al Castello Alfonsino o Aragonese.

“Carlo I d’Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, prima re di Sicilia, poi anche d’Albania e di Gerusalemme, vincitore degli Svevi nel 1266 a Benevento e nel 1268 a Tagliacozzo (sarebbe poi stato sconfitto dagli Aragonesi nel 1284), fece costruire a Brindisi, nel 1268, un castello con sei torri merlate che si affacciava sul seno di levante, in località Belvedere. Fu questo il Castello di S. Maria del Monte (nel quale era incorporato il palazzo reale), detto Castello a mare per distinguerlo da quello di “terra”, lo Svevo di Federico II, che pure si affaccia sul mare. Nel 1410 il castello aveva già bisogno di riparazioni e divenne inutile (fu disarmato e demolito) dopo la costruzione del Castello Alfonsino ad opera degli Aragonesi. Carlo I d’Angiò, che attuò con scarsa fortuna una politica espansionistica in Oriente, costruì ai piedi del Castello un grandioso arsenale, nello stesso luogo dove si trovava l’arsenale romano e dov’è ora la stazione marittima.”

Ferrando Ascoli a pag. 106 del suo libro La storia di Brindisi riferisce “Oltre il castello, dov’è oggigiorno il bagno penale, conosciuto sotto il nome di castello di terra, un altro castello era dalla parte opposta, nelle vicinanze dell’attuale ufficio del porto. Qui, infatti, si sa essere stato l’arsenale costruito dai Romani, e rifatto da Carlo I. Fabbricandovi si scopersero diversi oggetti, varie opere che dimostrano questo. Inoltre, nell’ordinazione di lavori di riparazione in questo castello si nomina la torre che sta nell’arsenale. Quest’altro castello doveva essere assai importante, a giudicare dai lavori che il re, l’8 maggio del 1277, stando a Brindisi, stabiliva vi si dovessero fare dai Brindisini Ruggero De Ripa, e Nicolò di Ugento.”

A questo punto Ferrando Ascoli riporta da pag.106 a pag.109 il dettagliatissimo elenco dei lavori al castello, al palazzo al suo interno, alle torri, e a quella “che sta nell’arsenale, che è della stessa grandezza ed altezza si faranno le stesse costruzioni.”

Sempre Ascoli, a pag. 111 ci dice che “Importantissimo era a questi tempi l’arsenale marittimo, riattazione, e ampliazione dell’arsenale romano, che sorgeva nella località, dove ora termina il tronco ferroviario alla marina.” A seguire ne descrive molto in dettaglio tutti i lavori di ampliamento.

Anche lo storico Nicola Vacca in Brindisi Ignorata a pag. 155-158 e 161-162 ci parla del Castello della collina di Santa Maria del Monte, affermando che “Il castello era costituito da ben 6 torri merlate: …2) una torre dalla parte dell’Arsenale (ch’era, come vedremo, contiguo al palazzo)”.

Già all’inizio del ‘400 il castello doveva essere malridotto e infatti nel 1410 fu ordinato di eseguire riparazioni alla fortezza di mare nonché ai suoi ponti ed alla sua catena. Vacca sostiene che probabilmente fu disarmato e demolito dopo la costruzione del castello dell’isola, poiché “il nuovo castello difendeva più razionalmente del primo il porto e la città dalla parte di mare”.

Ed infatti a pag. 161 Vacca conclude che, “…sul Belvedere stesso era il torrione, non so perché chiamato del sangue, registrato come Belvedere al n.12 delle didascalie della stampa del Blaeu, in cui graficamente viene riportata una torre diruta; non è azzardato congetturare che sia una delle relitte torri del castello angioino”.

Il Vacca a pag. 158 descrive con chiarezza l’arsenale, posizionandolo con molta precisione. “A piè della collinetta di Santa Maria del Monte, dove è oggi la stazione ferroviaria del porto, sorgeva l’arsenale angioino (domus tarsianalus). Invero qui era stato l’arsenale dei tempi di Roma. Nello stesso sito sorse poi quello di Federico II di Svevia. Carlo d’Angiò, per la sua politica di espansione in Oriente, fece sorgere come abbiamo visto un altro castello, e potenziò ed allargò notevolmente il vecchio arsenale svevo”. Di seguito il Vacca riporta che il Moricino scriveva: “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico arsenale, e vi dura anche il nome, opera certo magnifica degli antichi romani… era stato doppo ristorato per l’occasioni continue di navigare in Terra Santa per tutto il tempo di Federico e ultimamente Carlo l’aveva molto ben risarcito e quasi rifatto di nuovo…Era questo arsenale nel sinistro corno delli due che cingono la città sotto l’istesse mura , luogo però diritto alla bocca di esso porto…” Il Vacca ci dice quindi che i documenti angioini confermano quanto scriveva il Moricino, poiché il re Carlo d’Angiò ordinò il rifacimento del vecchio arsenale e lo ingrandì con altri 37 edifici, che furono costruiti nel luogo cosiddetto “Pizzuto”, come indicato nei registri angioini (a. 1272 fol. 210).

Vacca critica quindi Ascoli, il quale aveva sostenuto (pag.115) che “Pare impossibile ora con sì pochi dati, e senza alcun vestigio di questo arsenale, lo stabilire la ubicazione, la forma e l’importanza.” Il Vacca, infatti, sostiene che “E’ ovvio riconoscere il luogo detto “Pizzuto” nell’estremità a forma di angolo quasi acuto (“pizzuto” nel dialetto salentino ha questo preciso significato) che nella cortina muraria della città forma uno sperone e che nella Mappa del 1739 è chiamato “Bastione dell’Espontone”, che credo traduzione in spagnolo della dialettale parola “puntone” (angolo, cantone). Il “torrione dello Spontone” esisteva ancora nel 1864. In quell’angolo, dunque, erano i 37 edifici del tarsianatus costruiti dall’angioino.”

Vacca conclude l’argomento sull’arsenale riferendo che “Nulla si sa circa l’epoca del disarmo e della demolizione dell’arsenale”.

Ed è qui che torniamo alla nostra carta di Brandici, che a mio avviso sul tema arsenale risulta essere una testimonianza importantissima. La carta di Brindisi che stiamo esaminando, che ricordiamo è riferita al 1538, non riporta nulla del castello se non, forse, i torrioni già citati, ma mostra invece in grande evidenza l’arsenale nella posizione descritta da Vacca.

L’arsenale era dunque l’unica struttura di origine angioina ancora esistente almeno fino alla data del 1538.  Sono certo che il Vacca avrebbe molto apprezzato questo documento se lo avesse potuto vedere.

Un ulteriore studio sulla presenza e l’evoluzione dell’arsenale ci viene fornita con parecchi dettagli e riferimenti bibliografici anche da Maria Sirago ne il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità in un testo scritto in occasione di una conferenza tenutasi il 31 ottobre 1996 presso la Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi.

Citando i registri angioini (cit. VIII 1272) e Ferrando Ascoli (cit. pag. 111-114) viene evidenziato che nel 1272 Carlo I D’Angiò ordinava che fossero risistemati i più importanti arsenali, tra cui quello di Brindisi. Brindisi in quel tempo divenne infatti il centro della ricostruzione della flotta Regia. Ferrando Ascoli, a pag. 111-114, cita una lettera del 12 aprile 1274, in cui si parla di due officine già costruite per i diversi gruppi di operai addetti all’arsenale e si ordina di costruire 7 piloni e fra un pilone e l’altro sei archi e sulla facciata marina un arco capace di far passare galere e teridi. Poco dopo ordinò di ampliare con altri 17 edifici l’arsenale di Brindisi che, dopo quello di Napoli, era il più importante del regno (Ascoli, pag. 114-115).

Maria Sirago ci dice anche che, nel periodo Aragonese, il re Alfonso decise di potenziare ulteriormente gli arsenali di Brindisi e Taranto, anche perché è a Brindisi che il Grande Ammiraglio, da cui dipendeva tutta la marina del regno, aveva la casa dell’Ammiragliato (C. Massaro, cit. p. 295, e I Schappoli, Napoli aragonese: traffici e attività marinare, Napoli 1972).

Tutto questo a conferma che il nostro arsenale non solo è “sopravvissuto” certamente fino all’epoca Aragonese, ma che invece in quell’epoca veniva ancora potenziato. La sua imponente presenza sulla carta di Brandici lo evidenzia pienamente.

Poiché l’arsenale non è più rappresentato nelle più note mappe del Seicento e poiché lo stesso Moricino scrive “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico Arsenale”, io credo si possa supporre che il disarmo e quindi la demolizione sia avvenuta tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del successivo.

 

Il Castello Svevo – EL CASTEL

Ovviamente non poteva mancare il Castello Svevo di Federico II nella nostra carta. Voluto da Federico II di Svevia fu fatto poi restaurare da Carlo I che, come ci attestano i registri angioini, provvide ad innalzare le torri e costruire un palazzo reale all’interno.

 

Il primo vero e proprio ampliamento si deve a Ferdinando I di Napoli che nella seconda metà del XV secolo fece costruire un’ulteriore cinta muraria, più bassa e spessa della precedente munita di torrioni bassi e circolari.

Il disegno nell’opera che stiamo esaminando è molto semplificato, ma visto il periodo della tavola e visto che sono evidenti le costruzioni all’interno delle mura, desumo che voglia rappresentare il castello con l’inclusione dell’antemurale.

 

Le Colonne Romane, Porta Reale e la Cattedrale – VES COVA

All’interno della cinta muraria appaiono alcuni elementi caratteristici della nostra città, sebbene il loro reciproco posizionamento risulti abbastanza approssimativo.

 

Innanzitutto, troviamo le due colonne romane, stranamente in una posizione piuttosto arretrata rispetto al porto, quasi ad evidenziare la loro centralità (erano già il simbolo della città). Una delle due colonne risulta chiaramente crollata, essendo rappresentata con il solo basamento più una piccola parte ancora eretta.

Siamo esattamente a 10 anni di distanza dal suo crollo, avvenuto il 20 novembre 1528, senza apparente motivo. L’episodio fu pronosticato come l’arrivo di prossime sciagure.

È molto probabile, ma andrebbe meglio verificato, che quello che stiamo esaminando è in assoluto il primo documento della storia di Brindisi a rappresentare graficamente le due colonne romane, di cui una caduta.

In primo piano, davanti all’imboccatura del porto, possiamo osservare chiaramente la Porta Reale fatta edificare insieme alla cinta muraria intorno al 1474 da Alfonso, figlio del re Ferdinando, perciò chiamata Reale, già scomparsa tra la fine del XVIII e l’inizio del successivo.

In posizione leggermente arretrata rispetto alle colonne troviamo poi la Cattedrale, identificata dal toponimo VES COVA, ad indicare appunto la cattedra del vescovo della città, consacrata da Urbano II nel 1089, completata nel 1143 e poi quasi completamente ricostruita in seguito al terremoto del 1743. La chiesa è infatti anche l’unica nella tavola a presentare annesso un grande campanile.

I pozzi o le fontane

All’interno della cinta muraria sono ben evidenti due elementi caratteristici, purtroppo privi di descrizioni o toponimi. A mio avviso rappresentano dei pozzi o delle fontane.

Da quel che sappiamo (Andrea Della Monica Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi) nel 1538 ancora non esistevano fontane vere e proprie che potessero distribuire acqua corrente all’interno della città, queste erano infatti collocate fuori dalle mura.

Si deve infatti al governatore spagnolo Pietro Aloysio de Torres la costruzione, nel 1618, delle condotte finalizzate a portare l’acqua alle prime fontane all’interno delle mura.

Tuttavia,  almeno un pozzo all’interno della città certamente già esisteva dai tempi del periodo imperiale, anche se nel 1885 alcuni esperti in condotte attribuirono la sua costruzione ad epoca medioevale (XIII o XIV secolo). Si tratta del  Pozzo di Traiano che, almeno fino al 1700, era ancora il serbatoio idrico a cui attingevano i cittadini di Brindisi. Il Moricino diceva che Traiano, durante la sua attesa in città prima di imbarcarsi da Brindisi per l’impresa contro gli Armeni e Parti, probabilmente fece costruire il pozzo “che fino al giorno d’oggi somministra copiosissime acque ai Brundusini” (cito Brundarte.it, Via Pozzo Traiano a Brindisi, 13 agosto 2021).

Questo pozzo, quasi certamente in funzione fino a che non furono realizzate le prime fontane, potrebbe essere quello indicato nella figura a sinistra. L’alimentazione era collegabile a sorgive ma analisi eseguite nel 1828 e 1928 evidenziarono la loro non potabilità.

 

Ne troviamo poi un altro sul lato destro, più a occidente, non lontano dalle mura nella zona del castello, ma non riesco a fare alcuna ipotesi in merito.

Entrambi i pozzi sembrano sorgere in delle piazze sulle quali si affaccia anche una chiesa.

 

La città, le fortificazioni e la chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte

Ho descritto tutti i particolari dell’opera a mio avviso degni di rilievo e chiudo la carrellata con un commento generale sulla visione di insieme della città, sulle fortificazioni e qualche ulteriore dettaglio sulla possibile identificazione di una chiesa.

La cinta muraria è perfettamente definita. Era stata appena potenziata da Carlo V intorno al 1530 con la costruzione dei bastioni di San Giorgio, San Giacomo (fuori dalla mappa), i fortilizi e le cortine di Porta Lecce.

 

Possiamo certamente affermare che l’opera di Francesco Tommaso di Salò ci presenta davvero una città dalla cinta muraria appena ristrutturata e potenziata, alla sua massima efficienza, tanto che il nuovo sistema difensivo di Brindisi era ritenuto veramente difficile da espugnare ed infatti i turchi rinunciarono ad invaderla nel 1537.

Sul lato di levante vediamo poi i bastioni ormai scomparsi (probabilmente Bastione Arruinado, Bastione dell’Espontone e Bastione dell’Escorciatore, citati nella famosa mappa spagnola di Amat Poulet del 1739).

All’interno della città, oltre alla Cattedrale chiaramente identificata, si possono scorgere altre chiese grazie alla presenza di una croce sul tetto, ma ritengo sia impossibile attribuire un nome se non con ipotesi piuttosto azzardate che preferisco evitare.

Forse l’unica altra chiesa a cui possiamo dare un nome è quella appena al di fuori dalle mura in prossimità della fine del seno di levante e quindi di Porta Lecce, chiaramente visibile nell’angolo alto a sinistra della figura successiva, che a mio avviso è la Chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte, in stile romanico con annesso un monastero. La chiesa fu fondata da Margarito da Brindisi, ammiraglio normanno, come rilevasi da una lettera di Celestino III del 4 febbraio 1195, e fu un monastero di padri premonstratesi ai quali era affidata l’educazione dei bambini poveri della città. Il grande complesso, secondo Ascoli, fu in gran parte demolito intorno al 1777 durante i lavori di colmamento e bonifica delle paludi e poi distrutta del tutto verso la fine del XIX secolo.

Fuori dalle mura infine qualche casetta nelle campagne ed alcune barche locali nel porto interno.

Le mie considerazioni sugli aspetti topografici terminano qui.  Per tutte le altre considerazioni ed aspetti inerenti quest’opera rimando al libro appositamente dedicatole.

Sono perfettamente cosciente e quasi sicuro di aver commesso anche errori nelle mie interpretazioni, forse grossolani, che spero possano essere corretti da chi ne ha invece le giuste competenze.

Ma il primo obiettivo, quello di comunicare alla mia città l’esistenza di un documento di enorme rilevanza, del tutto assente in tutte le precedenti pubblicazioni e ricerche locali, è stato pienamente raggiunto.  Questo è il mio personale tributo alla città nella quale sono cresciuto.

Ho sentito il dovere di fare il possibile per divulgare, quasi gridare, l’esistenza di questa opera cinquecentesca su Brindisi, al fine di stimolare chi invece ha le competenze e la passione per approfondire molto meglio di quanto abbia potuto fare io, come il rarissimo documento certamente merita.

Accettando qualunque possibile critica, mi auguro vivamente che tutto il mio lavoro sia seguito dall’apporto di studiosi ed appassionati locali, che spero di aver stimolato e che certamente conoscono bene quali fonti, cartografie, documentazioni pastorali, notarili o di qualsivoglia tipo serve interpellare per approfondire gli elementi che provengono da questo documento.

La tavola in questione, se da un lato fornisce tante certezze e trova riscontri storici ben precisi, dall’altro lascia diversi dubbi o meglio curiosità che meriterebbero una risposta o magari l’approfondimento di studiosi preparati.

Ho voluto esplicitare i più evidenti di questi riscontri, lanciando anche qualche azzardata ipotesi, con la certezza che non siano gli unici e con la consapevolezza di non avere gli strumenti e la padronanza adeguati per affrontarli meglio.

Mi auguro che qualcuno voglia esporsi su questi punti che per me restano piuttosto oscuri, aggiungendo le proprie conoscenze e certezze. Il mio è un vero e proprio appello agli storici locali a verificare, rettificare ed integrare quanto da me riportato in queste pagine.

Ed infine il mio è soprattutto un appello alle amministrazioni della Città e della Provincia di Brindisi, affinché vogliano raccogliere e contestualizzare tutte le informazioni possibili per fare tesoro dell’esistenza di questo documento rarissimo fino ad oggi sconosciuto alla stragrande maggioranza dei brindisini e degli appassionati di storia locale.

 

Articolo tratto dal testo BRANDICI – La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce, pubblicazione indipendente a cura di Vito Ruggiero. Brandici di Vito Ruggiero | Cartaceo (youcanprint.it)

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Per una storia della scuola a Ruffano nell’Ottocento: ricognizioni archivistiche

 

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

Molta attenzione ha dedicato nei suoi studi Aldo de Bernart al mondo della scuola e dei maestri di scuola a Ruffano fra Otto e Novecento[1]. È in omaggio alla sua memoria che si offrono queste ricognizioni archivistiche sulla storia della scuola ruffanese.

L’affermazione di un sistema scolastico di base in età moderna è stato inevitabilmente vincolato al ruolo svolto dalle istituzioni ecclesiastiche: così in tutta l’Italia meridionale e non fa certo eccezione Ruffano, sul cui territorio hanno operato due diverse tradizioni monastiche già a partire dall’età greco-bizantina fino al XVI secolo, quando si pose fine al rito greco anche in Ruffano, con una tradizione che qui annoverava, fra gli altri, il monaco copista Giorzio Laurezios, la cui opera è giunta fino a noi[2]. È con l’arrivo degli ordini monastici latini che possiamo parlare di una qualche forma di istruzione istituzionalizzata anche in Ruffano e Torrepaduli. A Torrepaduli è attestata fin dal 1550 la presenza dell’ordine dei Carmelitani con il relativo convento, e del 1621 è l’arrivo a Ruffano dei padri Francescani di cui resta traccia anche nell’importante lascito della biblioteca dei Cappuccini[3].

Come evidenziato da Rosanna Basso, uno degli effetti secondari della soppressione dei monasteri fu di “interrompere quelle attività ispirate alla pietas conventulale”, che nei fatti andavano a “costituirsi come zone di Impegno Pubblico dello Stato laico”[4].

Tra queste incombenze vanno certamente annoverate l’istruzione pubblica e le opere di assistenza per orfani e bisognosi, i “figli dello Stato”, come venivano definiti, che nei disegni dell’intendente Saverio Palmieri avrebbero potuto trovare nel “padre collettivo” una guida sicura, il tutto per la pubblica felicità di cui parla lo stesso Palmieri, il pensiero del quale, insieme a quello del Genovesi, è la sottotraccia delle scelte politiche del tempo[5].

L’interesse regio per l’alfabetizzazione delle masse si concretizzò nel 1778 con la promulgazione del Real Dispaccio, secondo cui all’interno dei conventi appartenenti agli ordini mendicanti si dovevano istituire pubbliche scuole, che avviassero soprattutto la plebe, che non aveva mezzi finanziari, all’alfabetizzazione, ovvero ai primi rudimenti della grammatica e del catechismo.

La nascita della scuola moderna è il frutto illuminato delle scelte politiche settecentesche, in particolare di Maria Teresa d’Austria, nell’area di influenza tedesca, dove nasce il prototipo della scuola come la intendiamo oggi, ossia la “Scuola Normale”. Il termine “normale” era tratto dal latino norma, un’unita di misura alla quale originariamente si riferivano i carpentieri, e derivava probabilmente dall’uso fattone dall’abate Giovanni Ignazio Felbiger (1724-1788), ispiratore della riforma scolastica varata appunto da Maria Teresa nel 1774, che prevedeva tra l’altro l’obbligatorietà della scuola elementare per i bambini dai 6 ai 12 anni e l’istituzione di apposite scuole normali per la preparazione dei maestri. Sulla scia del riformismo teresiano, il 22 agosto del 1784 Ferdinando IV fece pubblicare un reale dispaccio nel quale dichiarò la propria intenzione di stabilire nel Regno le Scuole normali; nello stesso anno i celestini Ludovico Vuoli e Alessandro Gentile furono mandati a spese della Corona a Rovereto per apprendere il nuovo metodo[6].

La storia delle istituzioni scolastiche nel territorio del Comune di Ruffano può essere fatta iniziare il 25 settembre 1725 quando venne rogato il legato Piccinni[7]. Secondo le ultime volontà del Piccinni viene fissata come “universale e particolare erede la cappella sotto il titolo beatissima Vergine della Misericordia situata e posta e da me eretta nella Parrocchiale Chiesa di Ruffano”[8]. Piccinni dispone  in primis “che si abbia a pagare  in ogni anno in perpetuo ad un maestro  di scuola ducati 80”; il maestro però deve celebrare una messa  al giorno in suffragio del testatario, il che lascia intendere che il maestro sia un sacerdote, “e che abbia a insegnare alli figlioli di Ruffano e Torre paduli  tantum e  anche ai forestieri”, ma dietro pagamento degli interessati “Grammatica, umanità ed aritmetica”; la scelta del maestro viene demandata alla discrezione del Vescovo di Ugento, il che anticipa la normativa regnicola, e si precisa che il maestro non all’altezza del compito debba essere rimosso.

Nel quarto capitolo del testamento si dispone inoltre che “un padre dotto e detto padre sia tenuto a leggere filosofia e teologia e morale per i giovani di Ruffano e Torrepaduli”.

I beni dell’Opera Pia Misericordia [d’ora in poi OPM] verranno quindi incamerati dalla Amministrazione comunale degli Ospizi nel 1806 e dal 1862 dalla Congregazione di Carità.

Tralasciando qui tutte le questioni inerenti alle disposizioni circa le messe, oggetto di contrasto tra la Congregazione e il clero ruffanese e tra questo e l’ordinario diocesano, le volontà di natura caritativa verranno esplicitamente richiamate dallo Statuto Organico Speciale dell’Opera Pia Misericordia (15 febbraio 1880)[9].  Nel soppresso Convento dei Carmelitani di Torrepaduli era la scuola nelle more del Legato Piccini fino al 1810, come si riporta nella lettera del 15 ottobre 1854 della Congregazione di Carità[10].

Allo stato delle ricerche possiamo stabilire con certezza l’attivazione a Ruffano della scuola normale, come previsto dal decreto napoleonico del 21 Aprile 1813 n.1705, “relativo alle scuole di Ruffano e Presicce”, che a seguito di rapporto del Ministro dell’Interno (Giuseppe Zurlo) stabilisce all’Art. 1 che “le due scuole di Ruffano e di Presicce nella Provincia di Terra D’Otranto saranno riunite e costituiranno una sola scuola secondaria stabilita nel Comune di Presicce”[11]. Inoltre, “la nominata scuola avrà un corso complementare di grammatica e belle lettere e il numero di istruttori che sarà fissato dal nostro Ministro dell’Interno”[12].

In merito alle politiche dell’istruzione si evidenzia una sostanziale continuità tra le scelte della restaurata monarchia borbonica con il Decennio Francese. Dai dati desunti dagli Stati discussi comunali, Petrilli ricava che nel 1848 nel Regno delle due Sicilie dei 170 Comuni che facevano parte della Terra d’Otranto -terza per numero di Comuni -, Ruffano non è indicata tra i 37 che erano senza scuole[13].

Il 16 febbraio 1843 sono nominate tre maestre a Torrepaduli e come riporta Inguscio, che cita le Conclusioni Decurionali, probabile sede della scuola è Palazzo Pasanisi[14]. Il 6 aprile 1858 la Commissione degli Ospizi invia al vescovo di Ugento (Vincenzo Bruni) una terna di maestri fra i quali, come prevedeva il Real Rescritto del 19 giugno 1821 (ma anche ottemperando alle volontà di Aloisio Piccinni, che è il vero movente di questa disposizione), l’ordinario doveva sceglierne uno di suo gradimento[15]. I tre nomi sono quelli dei sacerdoti Aurelio Pepe di Taurisano, Angelo Antonio Guglielmi e Luigi Vitali di Ugento[16].

È documentabile l’attività di docenza pubblica a Ruffano del sacerdote Alfonso Mellusi che “esercita dal 1856”, come riferisce il consigliere Giuseppe Santaloja nella seduta del Consiglio comunale del 30 giugno 1883[17].

Possiamo inoltre attestare quale sia stato il primo edificio scolastico ruffanese. La commissione amministrativa degli Ospizi di pubblico beneficio di Ruffano rappresentata da don Pietro D’Urso, Sindaco Presidente, Don Antonio Licci e Don  Achille Valente da una parte, Don Francesco Antonio Licci dall’altra, su autorizzazione  del Governatore della Provincia datata 15 novembre, col numero1709, firmano il 29 novembre 1860 il contratto di locazione dell’immobile di Francesco Antonio Licci sito in “una casa a volta nella contrada Porta dei Diavoli (probabilmente l’attuale Via Liborio Romano) per uso della scuola secondaria istruita in questo Comune”,  per ducati 8 di affitto, a decorrere dal 1 dicembre per anni due[18].

 

Il 28 ottobre 1856, il Ministero e Real Segreteria di Stato dell’Interno Ludovico Bianchini autorizza lo stabilimento a Ruffano di 4 Figlie della Carità per assistere ed “educare le donzelle di quel Comune”, inoltre autorizza l’acquisizione della casa, per residenza di Vito Donato Pisanò, al prezzo di 740 Lire[19]. Ma la casa Pisanò non era al momento disponibile sicché il 20 febbraio 1859 viene stilato dall’ Avv. De Pandis un contratto per una “casa destinata provvisoriamente a queste Figlie della Carità”, con “due stanze a tetto con accesso dalla pubblica strada, rimpetto alla porta massima della Chiesa Madre”. Il locatore è Carmelo Pio[20].

Nel 1860 in data non riportata la Congregazione nella persona del Presidente Pomponio D’Urso ottiene da Antonio Leuzzi l’uso della “Cappella di Santa Lucia”, contigua al nuovo fabbricato destinato alle Figlie della Carità per uso delle stesse suore[21].

L’8 aprile 1866 “è stabilito nel Comune di Ruffano un Asilo Infantile, sostenuto in tutto e per tutto dalla Congregazione di Carità”, come appunto recita l’Art.1 dello Statuto per l’Asilo Infantile Margherita[22].  Sono ammessi 30 alunni equamente ripartiti tra maschi e femmine in base ad un sorteggio degli aventi diritto; dei tre, un maschio e una femmina provenienti da Torrepaduli (art 3-6), ma dietro il pagamento della retta annua di L.1,50 sono ammessi tutti gli altri. Prova ne sia che l’Ispettore scolastico provinciale Paolo Massone, nel suo Sunto dello Stato morale e materiale dell’istruzione popolare1867-1868, segnala che in media l’asilo di Ruffano ospitava 70 bambini[23]. Il prefetto Murgia il 5 dicembre 1866 autorizza l’adeguamento di ambienti dell’ex convento dei Cappuccini da destinarsi all’asilo[24].

Prima direttrice dell’Asilo infantile di cui abbiamo notizia è Antonietta Nicoli, bergamasca, che viene congedata dalla Congregazione di Carità nel 1869 in seguito a gravidanza; da questo scaturisce un contezioso con la Congregazione di Carità per quello che oggi definiremmo licenziamento senza giusta causa[25]. Nel periodo della gravidanza la Nicolì venne sostituita da Concetta Margarito come la stessa riferisce in una lettera al Prefetto di Lecce del 24 Giugno 1871 nella quale lamenta “dispiacevolmente di tante fatiche prestate a beneficio dell’Umanità per l’educazione ed istruzione dei poveri figli del popolo”, di non aver mai “ricevuto “compenso di sorte” quale maestra assistente dell’asilo dal 1868 al1869 e precisa che per parecchi mesi ha anche diretto l’asilo stesso “stante la gravidanza e malattia della Direttrice di allora”[26].

In realtà, la prima nominata con lettera del 25 maggio 1866 n.904 del Regio Ispettorato Sopra le scuole primarie e magistrali è Candido Marianna, che rinuncia per motivi di salute. Per non attardare oltre l’apertura del “patriottico Istituto”, sono nominate la Nicoli, Direttrice, con uno stipendio di L. 800, e Carrera Angelina, Maestra assistente a L. 500[27].

In una comunicazione al Ministro dell’Istruzione, il Prefetto di Lecce il 7 gennaio 1866 riferisce con entusiasmo dell’apertura degli asili in provincia: “mercè l’attività e solerzia di questo instancabile Ispettore scolastico Cav. Manfredi spero di poterne inaugurare altri tre nel corrente mese in Gallipoli, cioè, Brindisi e Latiano. E se si rinverranno abili Direttrici se ne potranno aprire altri quattro nel prossimo febbraio nei Comuni di Taranto, Grottaglie, Maglie e Ruffano ove si stanno portando a compimento le pratiche relative”[28]. Nella sua Relazione al Consiglio Provinciale del 1 dicembre 1865, in effetti, il Prefetto Ignazio Murgia aveva dato notizia della imminente apertura in Provincia di alcuni asili tra cui Ruffano[29]. Nel 1867 è già attivo l’“Educatorio femminile” in cui: “Vi si ricevono alunne dai sei ai diciotto anni, pagando l’annua retta di lire 153 oltre il corredo. Direttrice Sacarcan Agostina. Maestra Lantelegne suor Rosa, Assistente Pastore Concetta”[30].

Ritorniamo alla Nicoli. Il contenzioso che scaturì tra la direttrice, difesa dall’avvocato Luigi Villani, e la Congregazione, patrocinata da Giuseppe Foscarini, aveva un retroscena alquanto scabroso che diede scandalo in tutto il paese.

Nella denuncia del 30 agosto 1869 il procuratore legale della direttrice Benedetto Bodini, riferisce di “una deliberazione del Consiglio Provinciale Scolastico del 25 Luglio 1868” che aveva sancito  “pel S.r Mellusi come ispettore dell’Asilo Infantile la interdizione di dare lezioni in tutti i comuni del circondario di Gallipoli”; per la Signorina Carrera la sospensione di sei mesi e di tre mesi “per la S.ra Nicoli come colei che aveva la Direzione dell’Asilo e che aveva l’incarico di guardare tutto il personale insegnante perché aveva mostrata la carenza negli abusi avvenuti per sì lungo tempo poco curandosi di riferire alle autorità superiori quando non aveva ottenuto alcuni risultati dalle relazioni fatte all’Ispettore ed al delegato e continuando ad usare col Mellusi espressioni affettuose, fatti che mostrano la sua tolleranza”. In altri punti della pratica, più esplicitamente si riferisce di “Lunghi trattenimenti da solo a solo (del Mellusi) colla Carrera nelle ore notturne”. Insomma, viene fuori un ritratto del Mellusi un po’ diverso da quello conosciuto finora, meno ligio al dovere sacerdotale e più attento ai piaceri di Venere[31].

La nascita di un asilo a Ruffano è significativa della temperie sociale di quegli anni. Il progressivo ingresso della donna nel sistema produttivo industriale tra fine ‘700 e inizi ‘800 determinò la necessità di una assistenza che non fosse esclusivamente legata all’ambito parentale o al mutuo aiuto fra vicini, anche in una piccola realtà agricola come il comune ruffanese.

 

Nell’Italia liberale si assiste alla “scoperta dell’infanzia”[32]. La presenza delle Figlie della Carità o suore vincenziane non fu duratura; infatti non mancarono insofferenze verso l’affido di istituzioni educativo-caritative alle suore; gli esponenti del Risorgimento salentino, in primis Castromediano, puntavano alla laicizzazione delle istituzioni scolastiche.

Sintomatico fu lo scontro con il Provveditore agli studi della Terra d’Otranto in servizio dall’ottobre 1871, il trapanase ed ex garibaldino Salvatore Calvino (1820-1883), il quale ci consegna un’immagine molto critica delle scuole in Provincia in una delle sue note, in cui si sofferma particolarmente sui maestri privi di titoli: “su 170 scuole diurne maschili, 87 soltanto hanno il maestro patentato, e quelli delle 162 scuole private si possono dire quasi tutti sforniti della patente. Nè gli 87 che hanno il titolo legale, fatta qualche rarissima eccezione, si possono dire veri maestri”[33]. Inoltre scrive: “Gli educandati privati sono tenuti dalle Figlie della Carità. In essi s’insegnano le materie delle classi elementari senza attenersi di fatto ai programmi governativi. La classificazione delle alunne non è regolare, l’istruzione è meschina, la parte educativa è a ritroso della civiltà e delle libere istituzioni. Questi Educandati hanno sede nei Comuni di Galatina, Maglie, Oria e Ruffano e Taranto”[34].

La presenza a Lecce di Calvino coincide con un momento critico nella storia del giovane Regno d’Italia all’indomani della presa di Roma e dell’esplosione della “Questione Romana” che portò ad un esacerbarsi dello scontro tra clericali e anticlericali.  Ben diversi sono i toni di Calvino in una lettera privata da Lecce il 1 maggio 1872 al Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti (1815-1888) in cui lamenta gli ostacoli frapposti dalle suore alla laicizzazione degli istituti educativi. Calvino presenta un quadro per niente edificante del livello di alfabetizzazione, delle donne in particolare: “le donne che sanno leggere e scrivere, anche nelle classi agiate, possono contarsi sulle dita; tutte sono prive di qualsiasi educazione”[35].

Gli strali di Calvino sono per le religiose e per il loro operato. Egli parla di una vera e propria “azione malefica delle Figlie della Carità cui alcuni Comuni importanti hanno affidato le loro scuole”, con “un’invasione che fu potentemente aiutata dal prefetto Winspeare, il quale ha fatto un lavoro funesto di regresso che non si riuscirà agevolmente a distruggere”[36].  Lamenta l’azione discriminatrice delle Suore che di fatto favoriscono solo le figlie delle persone agiate e che “nei Consigli  Comunali e nelle Congregazione di Carità proteggono le monache perché le proprie figlie nelle dette scuole sono preferite e accarezzate…”, e si scaglia contro “quel demonio di prussiano che è suor Giuseppina Schone la superiora delle Figlie della Carità, appollaiata nel palazzo comunale di Lecce”; quindi riferisce che è stato avviato un repulisti generale e che su indicazione ministeriale si doveva “procedere con prudenza e riguardi ma direttamente e con fermezza verso il giusto fine (ossia laicizzare le scuole). L’opera è avviata, malgrado gli ostacoli che s’incontrano ad ogni piè sospinto; ed il fatto di Taranto ne è una luminosa prova. La Congregazione di Carità di Ruffano, che mantiene quasi interamente scuole comunali e asilo si dispone a seguire l’esempio”[37].

In realtà, nel periodo immediatamente dopo l’Unificazione, l’Italia si trovò ad affrontare il problema della carenza di insegnanti come risultò evidente dall’Inchiesta sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia, proposta nel 1864 da Carlo Matteucci, vicepresidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, da cui emerse che a fronte di un fabbisogno stimato di 50.000 maestri si poteva disporre di soli 16.770. Ciò, come sottolinea Covato, inevitabilmente determinò un approccio pragmatico al processo di scolarizzazione, tra cui la scelta di consentire l’insegnamento anche ai privi di titoli e tollerare la massiccia presenza di ecclesiastici[38].

Il problema venne affrontato dal Prefetto Murgia che il 12 febbraio1866 fissò a Lecce una sessione speciale di esami per i maestri che esercitavano in provincia privi di titoli[39].

Il Sottoprefetto di Gallipoli il 17 aprile 1872 scrive a Ruffano per richiamare la normativa che proibiva la direzione della pubblica istruzione alle congregazioni religiose con l’aggravante che “le superiore appartengono ad estere nazioni”, e ordina di bandire un pubblico concorso per la nomina delle nuove maestre imponendo l’obbligo di mantenere l’incarico per un anno e se “suore” di sottostare ai doveri dei pubblici impiegati. Il Sottoprefetto richiama il caso di una suora che nel corso d’anno è stata trasferita dai superiori e ricorda inoltre l’obbligo di sottoporre le nomine delle maestre all’approvazione del Consiglio Scolastico Provinciale[40]. Nel 1872 le Suore vengono cacciate e si apre così una fase laica dell’istruzione a Ruffano fino al 1881, anno di arrivo delle Figlie di Sant’Anna[41].

La Congregazione di Carità stabilirà la sua sede nell’attuale Via Regina Margherita come riporta l’epigrafe in rilievo sulla facciata: “Congregazione di Carità 1872”. Inoltre, l’Educandato femminile nella Delibera n.1 del 30 ottobre 1873 è indicato con il nome di “Principe Umberto”[42]. La suora vincenziana nell’atto della consegna l’11 novembre 1872 è Giuseppina Gatteschi invece della superiora Emiliana Sacaleoni impossibilitata a presenziare[43].

Semeraro segnala anche un “Carteggio tra Prefettura e Ministro” (1872) circa la minaccia di chiusura delle scuole di Ruffano gestite dalle suore di Carità[44]. Il Prefetto con lettera del 12 ottobre 1872 su richiesta della Congregazione di Carità nomina direttrice dell’asilo infantile Zanoni Giuseppina e maestre dell’educandato femminile Raffi Erminia e Bornati Carolina, queste ultime di Cremona. Raffi parte il 30 gennaio per Lecce, come riferisce il Sindaco di Cremona il 27 Gennaio alla Congregazione di Carità dopo aver precisato che L. 50 di viaggio sono a carico della Congregazione; la Bornati rinuncia all’incarico ma è disposta a riconsiderare l’offerta solo se “lo stipendio venga elevato a Lire 900”[45].

Breve è la permanenza a Ruffano di Erminia Raffi che ha soli 17 anni ed è stata assunta senza l’autorizzazione del tutore, il professor Pollini Eugenio, come comunica il Consiglio Provinciale Scolastico il 28 /07/1873, con Prot. n.1086[46], quando chiede l’immediato licenziamento della maestra[47]. Il 14 luglio 1874 Zanoni redige un inventario dell’educandato e riporta che la direttrice percepisce uno stipendio di L. 850 e la maestra di L. 600 e che le due persone di servizio percepiscono L.150 e risultano “conviventi”, ossia ospiti, 15 persone, per un bilancio complessivo di L. 5712. Le lettere della Zanoni sono inviate da Arluno (Milano)[48].  Il 19 marzo 1875 il Consiglio Scolastico Provinciale, tenuto conto che la Congregazione il 15 dicembre 1874 aveva delegato allo stesso le operazioni di nomina della “Maestra assistente”, dà l’incarico ad Angela Guindani di Antonio di Cremona, dichiarando, quali titoli posseduti dalla stessa, “patente normale di grado superiore, altri requisiti voluti dalla legge, ha pure un attestato d’idoneità all’insegnamento negli asili e nei giardini d’infanzia”.

Nel decreto prefettizio di nomina del 19 marzo è precisato che la durata del contratto è di un triennio con stipendio annuo di L. 700 ed il “semplice alloggio gratuito nello stabilimento stesso dov’è l’asilo”[49]. Il 1 aprile 1875 la maestra Angela, scrive alla CdC da Ossolaro (Cremona): “tra poco tempo sarò costì a funzionare e siano certi che cercherò di controcambiare della fiducia che hanno posto in me con assiduità e amore alla scuola alla quale mi hanno affidato. Spero che alla metà di Aprile sarò in codesto paese. Maestra Guindani Angela”.  Quindi avanza i suoi desiderata[50]. La donna scrive 15 giorni dopo una nuova lettera in cui precisa il ruolo affidatole di “maestra dell’asilo infantile” e di essersi informata sui costi del viaggio che ammontano a 70 lire, somma che può sostenere solo a metà, “giacché le condizioni economiche attuali della mia famiglia sono critiche […] le altre 35 non so ove trovarle […] se non si fidano della mia persona”, e chiede di inviare la somma per il tramite del Comune[51].

Del 25 aprile 1875 è un’altra lettera della Guindani da Ruffano che avvisa la Congregazione di essere arrivata in paese[52]. Risale molto probabilmente agli anni in cui la Guindani è direttrice la lettera non datata ma presumibilmente del mese di luglio che ella indirizza alla CdC sollecitando la stessa a fissare la data dell’“esperimento finale”, ossia il saggio di fine anno poiché l’asilo incominciava a svuotarsi per l’arrivo dell’estate che spingeva i bambini con le famiglie al mare[53].

Il 30 aprile 1881 non viene rinnovato il contratto della Guindani che passa alle scuole elementari, dove risulta in servizio dal 6 aprile 1883, come da delibera del Consiglio Comunale del 30/06/1883. Inoltre Angiola Guindani, Mellusi, Marzo Marina e Carmelo Arnisi vengono confermati nel ruolo di maestri elementari sulla base dell’art. 3 della Legge 9 luglio 1876, n. 3250 “Sul miglioramento delle condizione dei maestri elementari”[54].

Nel frattempo una importante tappa era stata segnata nella storia scolastica. Con la Legge Coppino del 15 Luglio 1877 venne introdotto l’obbligo scolastico: “I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuta l’età di sei anni […] dovranno essere inviati alla scuola elementare del comune” (art 1). Gli oneri della scuola ricadono sui comuni che percepiscono fondi statali”. Nelle norme transitorie è fissata la quota di un insegnate ogni mille abitanti.

Ad un anno dall’emanazione del provvedimento viene condotta un’indagine ministeriale da cui risulta che il territorio di Ruffano ha una popolazione di 3290 abitanti, il dato sulla frequenza per Ruffano non è riportato, e che operano 3 scuole e 3 insegnanti[55]. Sulla base della norma sul numero delle scuole, si ebbe uno scambio epistolare tra le autorità scolastiche e il Comune di Ruffano a cui fu fatta richiesta “dell’impianto di altre due scuole elementari maschili”. La questione fu portata alla discussione del Consiglio Comunale che nella seduta del 29/12/1878 la rigettò poiché il comune non aveva disatteso la normativa in quanto contava 3290 abitanti compresa Torrepaduli (di 543 abitanti). Disaggregando il dato su Torre, la sola Ruffano ne contava 2747 e il numero dei maestri rispondeva quindi ai dettami della legge[56].

Il 18 aprile 1883 la Deputazione Provinciale di Lecce propone il commissariamento della Congregazione di Carità di Ruffano e nomina il commissario a seguito di un’inchiesta ordinata dalla Prefettura, “stante il ripetersi frequente di irregolarità ed abusi per parte di quella amministrazione, malgrado i richiami”. Pertanto “il governo delle opere pie è affidato ad un delegato straordinario da nominarsi da parte dal prefetto di Lecce con l’incarico di riordinare e rimuovere, nel più breve termine possibile, le irregolarità e gli abusi esistenti”[57]. Nella seduta del Consiglio Comunale del 23 Luglio 1883 si acquisisce una Relazione “contenente le irregolarità” della Congregazione, non vi è alcun riferimento all’asilo ma sull’ospedale è impietosa l’immagine dei degenti poveri che “si fanno uscire pria che si fosse avverata la perfetta guarigione”, e si invoca lo scioglimento della Congregazione. La proposta è approvata con sei voti e favore e con l’astensione di Pomponio D’Urso[58]. Con decreto regio del 30 Luglio 1883, la Congregazione della Carità di Ruffano è sciolta.

Il 20 ottobre 1883, il Regio delegato Straordinario, avvocato Achille Massa, assistito da Giuseppe Santaloja, prende in consegna i locali dell’Ospedale e dell’asilo infantile dalle mani del signor Grasso Marchetti Vincenzo, in qualità di ex Membro della disciolta Congregazione quale delegato di Tommaso Villanova, ex presidente della Congregazione stessa, alla presenza della “Superiora delle Suore di Santa Anna Signora Ariel Girolama in qualità di Direttrice dell’Ospedale e dell’Asilo”. Dall’inventario si presenta l’immagine di una scuola non certo priva di arredi e sussidi didattici[59]. Il 2 Novembre, alla presenza del Sindaco Pomponio d’Urso e con l’assistenza del Segretario Comunale Santaloja Giuseppe, l’avvocato Massa chiede di prendere visione dell’inventario dei beni a norma dell’art. 3 della L. 3 agosto 1862. Il presidente uscente e il nuovo eletto dovevano redigere l’inventario dei beni con “riscontro in contraddittorio quando avvengano cambiamenti di amministrazione”[60]. Nel verbale di visita il presidente è Sebastiano Pasanisi il quale sostieneche l’inventario suddetto non fu eseguito né in quel momento né durante il tempo in cui il sig. Villanova sostenne la carica di Presidente di questa Congregazione”[61].

La CdC verrà nuovamente commissariata il 20 ottobre 1891, quando il Regio delegato Maggiulli Cav. Luigi (1828-1914), dopo dieci mesi, rimette il suo mandato. Egli incoraggia i nuovi amministratori con considerazioni moralistiche di carattere generale ma che inevitabilmente fanno riferimento alla realtà locale. “Il sentimento morale attutito dall’ozio/odio infingardo e ciarliero che è la cancrena dell’attuale società”, dice Maggiulli[62].

Nel contesto del Basso Salento, Ruffano non poteva certo dirsi un realtà marginale, essendo sede di Mandamento, Giudicatura e Pretura. La struttura amministrativa fino al 1927 era composta su base locale dalla Provincia al cui capo era il Prefetto, i Circondari con a capo il Sottoprefetto (Gallipoli, nel caso di Ruffano), e i Mandamenti che avevano le competenze dell’istruzione. Nei Mandamenti il punto di riferimento era l’Intendente. L’esistenza di tali uffici sul territorio comportava anche la presenza di funzionari, quindi di un ceto impiegatizio non sempre originario di Ruffano ma proveniente da fuori. L’affluenza di burocrati anche dal Nord Italia incide sugli andamenti demografici del paese e sulle sollecitazioni culturali.

Il piccolo centro si trova attraversato da una rete di informazioni che in qualche modo lo connettono ulteriormente al neonato Regno. Lo stesso Pietro Marti (1863-1933), in uno scritto autobiografico pubblicato da Alfredo Calabrese, rievocando i tempi dell’infanzia, ricorda il padre, Pietro, che era stato funzionario (“usciere”) presso la Pretura di Ruffano. Egli, a detta di Pietro, appassionato liberale, iscritto alla mazziniana Giovane Italia e fra i principali collaboratori di Liborio Romano, aveva introdotto fin da piccolissimo il figlio al cospetto di personaggi di spicco del Salento di allora fra i quali il patriota Giuseppe Pisanelli che Pietro conobbe in casa del nobiluomo di Ruffano Antonio Leuzzi, “anche lui educato alla scuola del puro liberalismo”. Ruffano, spiega Pietro, era all’epoca uno dei pochi centri attivi dell’intellettualità salentina e il magnifico Castello Leuzzi, già Brancaccio, il centro ideale di quel movimento socio politico culturale[63]. Agente privilegiato di questo fermento culturale fu il personale scolastico dei maestri/e e dei dirigenti. Semeraro parla di “emigrazione al rovescio […], una penetrazione massiccia di funzionari dell’alfabeto”, a cui aggiunge le “suore francesi” e un “corpo variegato di missionari dell’educazione”, in un quadro legislativo non del tutto chiaro tra corpus borbonico e sabaudo; “vi erano tutte le premesse perché l’avvio fosse faticoso e irto di incomprensioni e di reciproche ostilità”, dice[64].

Come è facile ipotizzare, il posto di maestre o maestre assistenti all’asilo era molto ambito e perciò la CdC, che in passato aveva delegato alle autorità scolastiche provinciali l’individuazione del personale, ricorre alla formula concorsuale. Nel 1885 infatti anche le Figlie di Sant’Anna vennero espulse da Ruffano e si ritornò ad una fase laica.

Il primo concorso di cui ci è pervenuta la documentazione venne deliberato dalla CdC il 10 aprile 1885 e si svolse il 25 giugno di quell’anno. Nel maggio del 1885, viene pubblicata una “inserzione per l’incarico di direttrice dell’asilo di Ruffano con lo stipendio L. 800”[65]. Fra le concorrenti ammesse nel 1885: Chiarillo Cristina, Nassisi Addolorata, Russo Elena. La CdC è composta da: Agostino Marzo Presidente, Giannuzzi Francesco, De Pasca Giacobbe, Solidoro Vito, Barbara Vincenzo e Santaloja Giuseppe Segretario, probiviri i “signori” Mellusi e Carmelo Arnisi[66]. Le prove prevedevano un tema a scelta su una terna proposta e la risoluzione di un problema di computisteria. Il tema è “Dite quale sia l’opera dell’Asilo Infantile”; Addolorata Nassisi nel suo elaborato, mezza facciata che non lascia dubbi sul ruolo che affida all’Asilo, ossia quello di sopperire alle carenze educative delle famiglie, scrive: “Raddrizza l’alberello [il bambino] quando è tenerello […] che è come un consiglio al trascurabile agricoltore [La famiglia]”, ed esplicita nella chiusa finale: “Ecco l’Istituzione più civile, la più santa dell’Asilo Infantile pronto a riparare ai difetti dei genitori”. Successivamente invia una lettera di ringraziamento alla Congregazione “per avermi prescelta ad Assistente dell’asilo Infantile”, in cui dopo i convenevoli scrive: “voglio operare in modo da fare la buona mamma dei fanciulli […] cercando con amore d’infondere nelle loro tenere menti quei primi raggi d’istruzione, ed educazione che poi ben fecondati renderanno l’uomo onesto e buon cittadino”[67].

Russo Elena sceglie il tema “Dite in modo chiaro e non prolissamente quali arredi abbisognano ad un asilo Infantile”. Ella ingenuamente scrive: “Sebbene non abbia frequentato le scuole normali pure cercherò fare scorgere qualche cosa appreso nello studio e [dopo avere fatto un rapidissimo inventario degli arredi] non far mancare il ritratto dei nostri sovrani”[68].

Il concorso fu vinto dalla Nassisi, “avendo presentato maggiori titoli”[69], rispetto agli altri, ma la Russo con lettera bollata del 11/05/1891 fa presente che la Nassisi lascerà il posto per motivi di famiglia e pertanto rivendica l’attribuzione dell’incarico[70]. Ma alla base della scelta della Nassisi c’era anche il motivo dello stipendio mensile che se pur elevato da L. 20 a 30, comunque non era ritenuto dall’interessata congruo, perché inferiore a quello “di una donna del volgo che si è portata a raccogliere le ulive” e iniquo rispetto a quelli percepiti da “altri addetti al servizio di codeste opere pie”, come nella sua del 22 marzo 1885[71].

Intanto l’asilo nel 1886 è oggetto di una ulteriore ispezione. Per l’occasione Mellusi scrive in una Relazione, 8 colonne di foglio protocollo, il 19 settembre 1886, alla CdC, che l’asilo a seguito di una ispezione del Regio Ispettore scolastico evidenziava gravi carenze igieniche e strutturali e che non fu disposta la chiusura dello stesso solo per pura deferenza personale nei suoi riguardi e che era presente il Sindaco di Supersano (Rocco Frascaro); procede a descrivere lo stato di degrado in cui versa la struttura, sottolineandone la fatiscenza. Ricorda quindi l’importanza delle Vincenziane per la nascita degli asili ed in particolare il primo asilo di Ferrante Aporti[72].

Un secondo concorso è del 1895, deliberato il 18 gennaio sotto la presidenza del Cav. Rocco Frascaro. Il bando è destinato a “giovanette” maggiori di 15 anni che presentano i titoli e siano residenti a Ruffano. L’incarico è per due anni per uno stipendio di lire 180. Il concorso venne bandito sulla base delle più che legittime rimostranze della Direttrice Quaini poiché l’assistente in carica Rachele Cantoro, assunta il 25 settembre 1894[73], aveva soli 12 anni: “avrebbe bisogno piuttosto di istruzione”, quando l’asilo aveva 132 bambini[74].

Il concorso si svolge il 14 Marzo 1895[75]. Fra le tante domande, le tre ammesse sono quelle di Elena Russo, Luigia Torsello e Francesca Bianchi[76]. La commissione è così composta: Rocco Frascaro Presidente, Quaini Antonietta Direttrice dell’asilo Infantile, le maestre Marzo Marina[77], Toma Addolorata, Cito Antonietta[78], e il “conte Castriota Giorgio Scandenberg nella qualità di Delegato Scolastico Mandamentale”[79]. La commissione dichiarò vincitrice Elena Russo a cui è assegnato uno stipendio annuo di L. 180.

Il ruolo di maestra offrì anche alle donne salentine la possibilità di un primo ingresso nel mondo del lavoro. Queste donne erano spesso figlie della nascente burocrazia statale; si prenda il caso delle sorelle Quarta, Vittoria e Chiara, figlie di Luigi, Segretario Comunale dal maggio 1883 al 7 dicembre 1885[80]. La moglie di Luigi era Addolarata Arnisi, sorella del maestro poeta ruffanese Carmelo. E le sorelle Quarta sono legate a quella che dovette essere una delle prime scuole elementari di Ruffano, ubicata proprio nel retro della loro abitazione.

Ce ne parla Vincenzo Vetruccio che in un testo sul maestro Carmelo Arnisi scrive: “Sul retro della casa, in fondo al giardino della famiglia Arnisi, attraversato da una stretta corsia, a trenta passi dal cancelletto aperto sul vasto largo dei cappuccini, sorgeva la scuola del maestro Carmelo: un salone corrispondente a due stanze con volte a stella, la porta d’ingresso con una finestra sul muro di levante e una finestra in alto aperta nella parete volta a ponente […] Non è stato reperito alcun documento relativo a un canone corrisposto dal Comune per l’affitto del locale adibito a scuola pubblica. La Legge vigente appariva all’avanguardia in Europa, perché affermava l’obbligo e la gratuità della frequenza della scuola, ma avendone lasciato ai Comuni l’onere della gestione e del mantenimento, poiché essi avevano scarsissime risorse e pochissimi mezzi, la gestione fu purtroppo disattesa”[81].

Nel 1894 la CdC pone fine alla presa in carico della scuola elementare superiore, come nelle more del legato Piccinni, con delibera del 21 settembre 1894, ritenendole superflue rispetto alle esigenze di Ruffano, con considerazioni dalla chiara natura conservatrice: “i giovani insuperbiti dalle lettura e dall’abbicci si sono vergognati di porsi all’arte e mestiere qualsiasi, ed oggi per vivere  si tengono attaccati come piattole alla pubblica amministrazione”; inoltre precisa che l’asilo è nato proprio per rispettare lo spirito del testastore Piccinni accomodato con l’assetto legislativo scolastico in vigore[82]. Nel 1896 rientrarono a Ruffano le Figlie della Carità, come ricorda la lapide posta sulla facciata del Convento dei Cappuccini: “Espulse nel 1872 ritornarono desiderate dal popolo nel 1896”[83].

Sempre nel 1896 si avvia il “Restauro all’ex convento dei cappuccini e lavori di ampliamento e modifiche all’Asilo Infantile (1896-1935)”[84].

Una pagina a se meriterebbe la sede di Torrepaduli: sullo stato in cui versava ci basti quanto scrive l’ispettore scolastico di Maglie Renato Moro, padre di Aldo Moro, che riporta una nota del 2 marzo 1921, virgolettata, del provveditore di Lecce con cui si dispone l’immediata chiusura dell’asilo in quanto manca di arredi e del personale idoneo[85]. Il 16 dicembre dello stesso anno, l’ispettore effettua una visita di persona e il 19 riferisce alla Congregazione che: “l’insegnante Sofia Pepe fu Pietro è priva di qualsiasi certificato di studi, e quasi affatto analfabeta […] ed inesperta  a dirigere un asilo, sia anche esso ridotto ad una semplicissima e modestissima sala di custodia” e consiglia la chiusura dell’asilo[86]; il 26 gennaio ordina la sostituzione della maestra pena la chiusura della struttura “a salvaguardia della dignità dell’istituto e del rispetto che si deve all’infanzia”[87]. L’asilo, sia nella sede di Ruffano che in quella di Torre, negli anni della Grande Guerra e postbellici ospitò i figli dei “richiamati” anche al di sotto dei tre anni e in orario non scolastico[88].

Tra i molteplici documenti che il fondo d’archivio offre è possibile ricostruire le vicende del processo di secolarizzazione nel comune di Ruffano. Tra le carte, un documento, che segna l’avvio di una “scuola di telaio” nel 1864: si tratta di un contratto stipulato il 31 dicembre 1864 dalla CdC con la casaranese Marina Ucini “Maestra di telaio” per un quinquennio. Marina Ucini è chiamata a condurre questa scuola che è riservata “a tutte le fanciulle della classi operose e medie del Comune di Ruffano Torrepaduli e si precisa che le fanciulle devono aver compiuto nove anni, le lezioni giornaliere sono 3 ore la mattina e 2 il pomeriggio”[89]. Ma ci fermiamo qui, certi di aver abusato della pazienza dei lettori. Tutti gli spunti offerti in questo saggio andrebbero seguiti ed approfonditi per ricostruire le vicende della scuola di Ruffano fra Ottocento e Novecento, ricongiungendo i punti già tracciati dagli studi di Bernart con le nuove rilevanze archivistiche.

 

Note

         [1] A. de Bernart, Nel primo centenario della nascita di Pietro Marti, in «La Zagaglia», Lecce, n. 21, 1964, pp. 63-64; Il maestro di scuola nel Salento borbonico, Matino 1965; Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in «Nuovi Orientamenti», Gallipoli, marzo-aprile 1984, n.85, p. 25; Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca -Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990; Carmelo Arnisi e il suo tempo, in  Carmelo Arnisi, un maestro poeta dell’Ottocento (con E. Inguscio e L. Scorrano), Galatina, Congedo, 2003, pp. 13-20; In margine alla figura di Pietro Marti, in «NuovAlba», aprile 2006, Parabita, 2006, p. 15; Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2012; ed altri.

     [2] A. de Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale (Memorabilia 28), plaquette, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, aprile 2011; D. Arnesano, Giorgio Laurezio, copista ed intellettuale del secolo XV, in Circolazione di testi e scambi culturali in Terra d’Otranto tra Tardoantico e Medioevo, a cura di Alessandro Capone, con la collaborazione di Francesco G. Giannachi e Sever J. Voicu, Città del Vaticano, 2015 (Studi e Testi, 489), pp. 59-93. Si veda inoltre G. Lisi, Per la storia del rito greco in Terra d’Otranto. Una lettera inedita dell’arcivescovo di Otranto del 1580, in «Brundisii res», n. 13, 1981, pp. 167 e 174 e R. Durante, Iniziali e immagini a confronto: alcuni esempi tratti da codici salentini, in Le livre manuscrit grecécrituresmatériauxhistoireActes du IXe Colloque international de Paléographie grecqueParis10-15 septembre 2018, éd. par M. Cronier, B. Mondrain, Paris, Collége de France, Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, 2020 (Travaux et Mémoires, 24/1), pp. 113-134.

     [3] A. de Bernart, Il convento dei Cappuccini di Ruffano, in «Nuovi Orientamenti», a. XIII, n. 75, Gallipoli, Tipolito Pacella 1982, pp. 9-13; Idem, Il fondo residuo della biblioteca dei Cappuccini di Ruffano, in «Contributi», III, n. 3-4, Galatina, Congedo Editore, 1984, pp. 45-50; F.Trane, La biblioteca dei cappuccini di Ruffano. Profilo storico e catalogo, Galatina, Congedo, 1993.

     [4] R. Basso, La pietà secolarizzata, Galatina, Congedo editore, 1993, p. 56.

          [5] Ivi, p. 62.

     [6] Di Alessandro Gentile si segnala la presenza anche nel convento di Lecce e di Monopoli: ASNa, Cappellano Maggiore. Registri di relazioni della Cappellania, vol. 764, c. 28v, citato in L. Terzi, Le scuole normali a Napoli tra Sette e Ottocento. Documenti e ricerche sulla “pubblica educazione” in antico Regime, Napoli, L’Orientale editrice, 2001, pp. 33-34. I servigi resi alla corona borbonica gli valsero anche una pensione che il religioso rivendicò di fronte ai governanti francesi, come riportato in data 20 settembre 1806 quando, secondo il documento, sarebbe stato dimorante “alla Carità, Casa di Ruffano numero 85”: ASNa, Commissione liquidatrice del debito pubblico, Pensioni francesi, b. 827 inc. 6, cit. in Ivi, p. 48.  

     Veramente vasta la bibliografia nazionale sulla storia della scuola e dell’educazione. Per restare in ambito salentino, fra i contributi più significativi che riguardano il mondo della scuola e alcuni suoi protagonisti/e: O. Colangeli, Istituto Marcelline. Notizie storiche, in «La Zagaglia», n.35, Lecce, 1967, pp.306-322; G. Bino, La maestra nella letteratura: uno specchio della realtà, in L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, F. Angeli, 1989, pp. 331-362; R. Basso, Le scritture di Oronzina Tanzarella (Ostuni 1887-Roma 1940), in Aa.Vv., Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX), a cura di R. Basso e M. Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.109-126; G. Caramuscio, Virtuosi ed operosi. Modelli educativi e pratiche didattiche nella scuola salentina tra Ottocento e Novecento, in «L’Idomeneo», Università del Salento, Società Storia Patria Sezione Lecce, n.6-2004, Lecce, Grifo Editore, 2004, pp.81-127; Idem, Giulia Lucrezi-Palumbo: soggettività femminile e cultura tra Risorgimento e Guerra fredda (1876-1956), in «L’Idomeneo – Storie di donne», Università del Salento- Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce, n.8, Galatina, Panico, 2005, pp. 117-156; Idem, “Tanto gentile e tanto onesta pare…” L’educazione delle fanciulle secondo uno scrittore scolastico leccese di fine Ottocento, in AA. VV., Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro, a cura di Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo”, III, Galatina, EdiPan, 2008, pp. 241-263; M. G. Calogiuri, “Colla ragione come col cuore”. Autrici meridionali tra modernità e tradizione, Lecce, Milella, 2008, pp.73-111; D.  Levante, Maria De Matteis Luceri, insegnante e scrittrice salentina tra Otto e Novecento. Primo approccio, in Humanitas et civitas, Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società Storia Patria sezione Lecce, Galatina, Edipan, 2010, pp. 79-100; P. Manca, «Benedite chi, con infinita pazienza, v’insegnò a tener la penna». La didattica dell’italiano in Maria Attisani Vernaglione (1870-1955)Ivi, pp.101-122; F. De Paola, S. Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, Ivi, pp. 123- 184; F. Capoti, A. D’Antico, “Le cose per imparararle ci sono due modi…”. La sperimentazione del Tempo pieno a Taurisano (1980-83), Ivi, pp. 185-203; G. Caramuscio, Progettazione della cultura e cultura della progettazione. La scuola primaria di Taurisano nell’autonomia, Ivi, pp. 205-238; A. E. Carrisi, Il greco e il latino nell’era dei social network, Ivi, p. 303-310; L. Marrella, Fratelli d’Italia, compagni di scuola. Quaderni scolastici e immaginario infantile tra Risorgimento e fascismo, Manduria, Edizioni Note a margine, 2011; P. Manca, Per una pedagogia della narrazione “Memorie didattiche” del Liceo Statale “F- Capece” di Maglie, in FILOI LOGOI. Studi in memoria di Ottorino Specchia a vent’anni dalla scomparsa (1990-2010), a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Galatina, Edipan, 2011, pp. 189-204; R. Basso, La prima professoressa salentina Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), in Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec. XV-XX), a cura di R.  Basso, Copertino, Lupo, 2012, pp. 200-203; Eadem, La sfida della professione, il richiamo del privato Giulia PosoIvi, pp. 204-214; Eadem, Vestale della scuola pubblica Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940), Ivi, pp. 242-247; M. G. Calogiuri, Impegno educativo e milizia politica Maria Luigia Quintieri (1881-1973)Ivi, pp. 216-221; M. R. Filieri, Oltre la scuola, la parola pubblica, Ivi, pp. 254-259; G. Caramuscio, Scuola e lavoro attraverso le pagine di Istruzione Tecnica e Professionale (1959-1995), in Umanesimo della terra. Studi in memoria di Donato Moro, a cura di Mario Spedicato, Giuseppe Caramuscio e Vittorio Zacchino, “Quaderni de L’Idomeneo 16”, Galatina, EdiPan, 2013, pp. 151-184; Idem, La memoria della Scuola come scuola della Memoria: Galatina e il suo Liceo, in Quando Ippocrate corteggia la Musa. In memoria di Rocco De Vitis, a cura di Maria A. Bondanese e Francesco De Paola, “Quaderni de L’Idomeneo” 30, Lecce, Edizioni Grifo, 2017, pp. 113-144; V. De Luca, Le suore “Marcelline” di Lecce e l’ospedale militare di riserva nell’Educandato “Vittorio Emanuele II”, in La Grande Guerra in Terra D’Otranto. Un progetto di Public History, a cura di G. Iurlano, L. Ingrosso, L. Marulli, Monteroni di Lecce, Edizioni Esperidi, 2018, pp. 313-324; G. Caramuscio, Immagini della Scienza attraverso le tracce d’Italiano assegnate agli esami (1957-2017), in UT SOL IN MEDIO UNIVERSO… Scritti in onore di Ennio De Simone, a cura di Livio Ruggiero e Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo 35”, Lecce, Edizioni Grifo, 2018, pp. 267-332; Idem, Le carte della (nella) scuola. L’insegnamento dell’Italiano attraverso l’archivio della scuola elementare di Monteroni (1925-1960), in Una passione per le cose e per la storia. Omaggio a Carlo Miglietta per i suoi settant’anni, a cura di Mario Spedicato, Castiglione (LE), Giorgiani, 2020, pp. 85-135. G. Caramuscio-P. Morciano, La voce leccese della Patria: Giulia Lucrezi Palumbo, in L’officina del sentimento Gesti voci segni di donne in Terra d’Otranto dalla Grande Guerra al fascismo, a cura di Giuseppe Caramuscio, “Medit Europa”, Società di Storia Patria per la Puglia sezione Lecce, Castiglione, Giorgiani, 2021, pp. 143-199; P. Morciano, La guerra antiretorica di Oronzina Quercia Tanzarella, Ivi, pp. 83-107.

     [7] Nella Santa visita di Mons. De Rossi del 1711, Piccinni è indicato come uno dei quaranta sacerdoti di Ruffano, ha circa 70 anni (A. de Bernart, M. Cazzato, Una chiesa un centro storico, Galatina, Congedo, 1989, p.39), è laureato a Salerno in “Filosophia et medicina” nel 1668 (ASSa, Acta doctoratus, Anno 1668, Volume 22, Fascicolo 12, p. 211).

     [8] Testamento di L. Piccinno relativo all’assegnazione in dote di beni stabili alla Cappella di S. Maria della Misericordia, eretta nella chiesa di Ruffano, ASLe, Congregazione di Carità [d’ora in poi CdC] Ruffano, Sez. I, Opere pie, b.1, ff. 1,2,3. Notaio rogatore, Pomponio D’Urso. Apertura del testamento di L. Piccinno di Ruffano (solo copie del 1765; 1875; 1911); Regolarizzazione dello Stato giuridico del legato Piccinno 1912-1913, in ASLe, Sez. II, CdC, b.90, f.717. L’Inventario si trova on line sul sito dell’Archivio di Stato di Lecce: La Congregazione di Carità ed ente comunale di Assistenza di Ruffano, Inventario a cura di Franca Tondo, https://archiviodistatolecce.cultura.gov.it/.

La cappella fu edificata nel 1722 con interventi dello scultore coriglianese Gaetano Carrone: S. Tanisi, Visita nella Chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/17/visita-alla-chiesa-della-nativita-della-vergine-di-ruffano-lecce/. Piccini è ritratto nella tela dell’altare orante ai piedi della Vergine: A. de Bernart e M. Cazzato, Santa Maria della Serra a Ruffano Galatina, Congedo Editore, 1994, p. 49.

     [9] Art 1: L’Opera “trae le sue origini dal testamento mistico che fu del D. Aloysio Piccinni”: Statuto Organico Speciale dell’Opera Pia Misericordia Amministrata dalla Congrega di Carità di Ruffano, Pei tipi di Luigi Carra, Matino, 1897, p.1. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 786, Statuto organico e progetto di revisione.

     [10] ASLe, Sez. II, Cdc, b. 93 f. 725, Copia Lettere 1854, n. 175 28r.

     [11] Tra gli anni 1799 e 1802 gli abitanti di Ruffano erano circa 2000. ASLe, Scritture delle Università e feudi di Terra d’Otranto Comune di Ruffano, busta 23/77, 63r-80r, cit. in S. Vinci, Dal parlamento al decurionato. L’amministrazione dei comuni del Regno di Napoli nel decennio francese, in «Archivio Storico del Sannio», anno XIII, n.2, luglio-dicembre 2008, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2008, p. 198.

     [12] Bullettino delle leggi del Regno di Napoli 1813, Volume 1, p. 234. Inoltre, P. Liberatore, Della pubblica educazione. Trattato del professore Pasquale Liberatore, Napoli, Tipografia G. Palma, 1840, p. 7. L’autore classifica quella di Ruffano come “Scuola secondaria di prima classe”. Sulla Scuola di Presicce, A. Stendardo, Radici. Presicce nella storia, Lecce, Edizioni Grifo, 2022, p. 81. Risale all’agosto del 1806 il provvedimento che stabilisce all’Art. 1: “Tutte le città, terre, ville ed ogni altro luogo abitato di questo regno, saranno obbligate a mantenere un maestro per insegnare i primi rudimenti, e la dottrina cristiana a’ fanciulli: saranno inoltre tenuti a stabilire una maestra per fare apprendere, insieme colle necessarie arti donnesche, il leggere, scrivere e la numerica alle fanciulle”; all’Art. 2 che: “Le somme necessarie pel pagamento di tali individui, dovranno annualmente ascriversi tra pesi detti comunitativi di ogni Università”; all’Art.3 che: “Ne’ luoghi che contengono popolazione minore di 3000 abitanti sarà permesso a’ maestri di serbare il metodo ordinario antico. Ne’ luoghi poi, ove la popolazione sarà maggiore i maestri dovranno insegnare col metodo normale”: riportato in CNR, Collezione delle Leggi, dei Decreti e altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, Volume I, 1806-1820, con introduzione e nota tecnica, Responsabile Paola Avallone, Roma, 2014.

     [13] ASNa, Ministero degli affari interni Stati discussi, cit. in V. Petrilli, Leggere, scrivere e far di conto. La scuola primaria nel Mezzogiorno preunitario attraverso gli Stati discussi comunali 1818-1821 e 1848-1852, in L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Dal Regno di Sardegna alla Sicilia borbonica. Istituzioni scolastiche e prospettive educative, a cura di Angelo Bianchi, Vol. I, Brescia, Morcelliana, 2019, pp. 303-304.  Tra l’atro, viene riportato che i maestri in Terra d’Otranto erano i meno pagati del Regno: Ivi, p. 314. Ancora un decennio dopo, sotto il Regno di Francesco II (1859-1860), il 35 % dei comuni ha una scuola e solo il 27% una sezione femminile. H. A. Cavallera, Storia della scuola italiana, Le Lettere, Università Firenze, 2013, p. 93. Gli stati discussi erano i bilanci preventivi degli enti locali (Decurioni) nei quali compariva anche la voce “scuola primaria”. M. Lupo, L’istruzione nel Mezzogiorno, in L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento, cit., Volume II, p. 39, e Tavola “Scuole primarie e pubbliche in Terra d’Otranto”, Ivi, p. 62.

     [14] E. Inguscio, Risorgimento nella periferia del Mezzogiorno. Ruffano e Torrepaduli dalla Rivoluzione napoletana del 1799 all’Unità d’Italia, Galatina, EdiPan, 2011, p. 93, con Postfazione di Aldo de Bernart.

     [15] Art. 4: “I Sindaci e Decurioni debbono formare la terna de’ Maestri, e passarla per mezzo dell’Intendente al Vescovo della rispettiva Diocesi”; Art. 11: “I Parrochi avranno l’immediata vigilanza sulle scuole primarie delle rispettive parrocchie”: Real Rescritto Riguardante alcune modifiche al Regolamento per le scuole primarie del Regno del 21 dicembre 1821.

     [16] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 786, Scuola elementare superiore: istituzione, e b.126 f. 788, Proposta di terna  a  maestro. Il maestro nominato “della scuola secondaria istituita in Ruffano per testamento di D. Aloisio Piccini” è Guglielmi, come pubblicato in Notizie interne estratto da Giornale del regno delle Due Sicilie dal 2 al 10 dicembre, Anno 1859, n. 43, p. 338. Il sacerdote secolare Angelo Antonio Guglielmi tenterà invano di ottenere il riconoscimento dalle autorità scolastiche della sua “Scuola Classica di Ruffano”, richiamando le disposizioni del Legato Piccinni, ma le autorità scolastiche, pur riconoscendone il diritto al godimento dei benefici del legato, tuttavia gli negheranno sempre il riconoscimento della sua scuola.  Il 30 luglio del 1862 fa richiesta di “normalizzazione” della sua “Scuola classica”, dichiarando che essa era già operativa con il seguente programma: “Prima Classe Grammatica inferiore Italiana / idem latina / Catechismo della storia d’Italia Geografia   d’Italia. Storia Sagra. Seconda Classe Grammatica superiore Italiana / idem latina Seguito del Catechismo della storia d’ Italia. Geografia d’Europa. Aritmetica Elementare”. ASLe, Sez. II, CdC- O.P.M., b. 126, f. 788, fl. 6r, Scuola elementare superiore: istituzione. Si veda inoltre ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 793, Indice di tutte le carte relative al maestro di scuola Guglielmo Angelantonio 1876.

     [17]Archivio Storico Comunale Ruffano [d’ora in poi ASCr], Deliberazione del Consiglio Comunale Tornata 15 del 30/06/1883. Su Mellusi si veda: A. de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca, cit. Si rinvia inoltre a P. Vincenti, Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento (prima parte), in «Nuova Taurisano», a. XXX, n.2, novembre 2019, pp. 2-3 e Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento (seconda parte), Ivi, a. XXXI, n.1, luglio 2020, pp. 2-3. Nell’anno scolastico 1862-1863 sono attive in Ruffano due scuole pubbliche, una maschile e una femminile, con 140 maschi e 91 femmine. Statistica del Regno d’Italia Istruzione primaria Istruzione elementare pubblica per Comuni, anno scolastico 1862-1863, Modena, Tipografia di Antonio ed Angelo Cappelli, 1865, tavola 189.

     [18] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 788, Locale per scuola- Contratto – Carte diverse, fl 5r/v.

     [19]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126 f. 789, Educandato laicale femminile istituzione. Il documento fa riferimento alle libere elargizioni del Vescovo Francesco Bruni (Vincenziano come le suore) e del Sindaco Pomponio D’Urso.

     [20]ASLe, Sez II, CdC- O.P.M., b.127, f 809. Si tratta molto probabilmente della casa di Aldo de Bernart.

     [21] ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 126, f. 787, Uso di una cappella di proprietà Leuzzi da parte delle suore. 

     Quando nel 1896 le Figlie della Carità saranno riammesse, tale disposizione verrà rinnovata con un nuovo atto del 12 gennaio 1896, registrato il 14 gennaio, tra Congregazione della Carità e il commendatore Pasquale Leuzzi fu Antonio per una cappella “sita nell’abitato di Ruffano via di mezzo contigua al fabbricato di questa congregazione già destinato alle Figlie della Carità […]”: Ibidem.

     [22] Lo statuto consta di 50 articoli, la copia qui citata è dell’8 luglio 1918, e si conserva in duplice formato nell’ASCr, una dattiloscritta, non datata, la seconda autografa, la terza di 5 copie, come annotato sul frontespizio; nell’ultimo foglio a calce del testo originale è riportato Per copia conforme ad uso amministrativo”, firmatari il Presidente Maselli e il Segretario Viva Raffaele. Nel testo si riportano anche i nominativi dei firmatari dell’originale ottocentesco: Pasquale Leuzzi, Presidente, Alfonso Mellusi, Vito Santo, Francescantonio D’Urso, Raffaele Viva, Segretario. ASCr, Asilo infantile Margherita, e E. Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano 1861-199 Profilo Storico, Galatina, Congedo,1999, pp. 144-145. In ASLe si conserva la Notifica pubblica che annuncia l’apertura della struttura: “Istituzione eminentemente filantropica, e tre volte santa e cristiana va ad inaugurarsi”. Nel 1909 l’asilo si dota di un nuovo statuto, secondo un modello ministeriale: ASLe, Sez II, Cdc -O.P.M, b.127, f. 801, Statuto dell’asilo infantile.

     [23] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Ottocento e Novecento, Lecce, Milella, 1984, p. 98.

     [24] ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b.127, f. 799.

     [25] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Istanze diverse, e Ivi, b. 89, f .684.

     [26] Ibidem.

     [27] Regio Ispettorato sopra le scuole Primarie e Magistrali del 25 maggio 1866, prot. n. 904, “Direttrice asilo Infantile Ruffano”: ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 127, f 798. I colloqui per la selezione sono stati fatti da Mellusi.

     [28] Relazione sugli Asili Infantili della Provincia inviata dal Segretario della seconda divisione della Prefettura di Terra d’Otranto al Ministero della Pubblica Istruzione, s.d. (ma 1869). ACS, MPI Direzione generale istruzione primaria e popolare (1784-1920), b. 92, cit. in B. Carbè, Gli asili infantili in Terra d’Otranto nella seconda metà dell’Ottocento, in «Quaderni di Intercultura», Anno XI/2019, ISSN 2035-858, X, p. 318.

     [29] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di terra d’Otranto, cit., p. 96. Murgia fu Prefetto dal 24 giugno 1863 al l0 ottobre 1867. M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del regno d’ Italia, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, pubblicazioni degli Archivi di Stato, Roma, 1973, p. 499. Il Prefetto Murgia nei Rapporti sullo spirito pubblico 1865 pone particolare attenzione alla scuola e alla laicizzazione della stessa, evidenziando la forte influenza degli ecclesiastici, soprattutto dei gesuiti, e sottolineando come “i costumi della popolazione sono «corrotti» e la prole è spesso abbandonata a se stessa”: ASLe, Prefettura, Gabinetto, vol. 301, fasc. 3648, 1 maggio 1867,  cit. in R. Ibba, A. Piras, A. Sanna, D. Sanna, I Murgia da Villamar all’Unità d’Italia, Cagliari, AM&D, 2019, p. 97. O. Colangeli, L’istruzione pubblica in Terra d’Otranto prima e dopo l’Unità d’Italia, in «La Zagaglia», n.33, marzo 1967, pp. 28-39. La mancanza di personale laico formato porterà le autorità scolastiche a tollerare anche la presenza delle religiose, come appunto scrive il Regio Ispettore delle scuole della Terra d’Otranto Manfredi che con lettera del 30 novembre 1865 sollecita l’apertura dell’asilo a Ruffano, una “santa istituzione”, affidandone la direzione a una figlia della Carità. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Proposta di un asilo infantile in Ruffano, 30 novembre 1865, prot. n. 289. L’affidamento alle suore della direzione venne deliberato il 28 dicembre 1867 su proposta de Delegato Straordinario e sindaco Pomponio D’Urso sulla base di considerazioni finanziarie: ASLE, Sez. II, CdC -O.P.M., b.89, f. 684, Produzione di parte nella c.c. fra la Congr. di Carità e Antonietta Nicolì di Ruffano per opposizione a congedo da direttrice dell’Asilo Infantile.

     [30] L’Annuario della Istruzione Pubblica del Regno d’Italia 1867-1868, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1868, p. 525.

     [31] ASLE, Sez. II, CdC -O.P.M., b.89, f. 684, Produzione di parte nella c.c. fra la Congr. di Carità e Antonietta Nicoli di Ruffano per opposizione a congedo da direttrice dell’Asilo Infantile. Il 02/05/1875 Il Consiglio Comunale di Mesagne con delibera n. 10 riconferma la Sig.ra Antonietta Nicoli come Direttrice dell’Asilo Infantile e il Sig. Antonio Franchetti come Maestro della Prima Elementare: Busta 2, Categoria I, Classe VIII, Fascicolo 1, Anni 1869-1876, Serie 16  http://archiviostorico.comune.mesagne.br.it:8888/index.cfm?stato=visualizzadocumento&iddoc=5780&categoria=I&classe=VIII&busta=2&fascicolo=1&anni=18691876&registro=12&anniregistro=1874-1875&passo=49&n=50&serie=16.

Come si vede, il marito della Nicoli è un maestro elementare e non possiamo escludere che abbia esercitato anche Ruffano. Nel 1895 Nicoli è direttrice della scuola Normale femminile di Bari e collaboratrice di «La missione della donna», periodico letterario educativo fondato e diretto da Olimpia Saccati.

     [32] F. Cambi, S. Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’Italia Liberale, Firenze, La Nuova Italia,1988. Gli autori evidenziano il ruolo “catechistico” che assume la scuola nel processo di integrazione risorgimentale; non a caso il volume reca come immagine di copertina l’opera di Giacchino Toma I figli del popolo (1862) che rappresenta due fanciulli scalzi che giocano a fare i garibaldini salutando militarmente l’effigie del generale.

     [33] S. Calvino, Relazione sull’istruzione secondaria e primaria della provincia di Terra d’Otranto per l’anno 1871-72 presentata al Consiglio Provinciale scolastico nella tornata del 16 novembre 1872, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1872, p. 12.

     [34]Ivi, p. 20.

     [35] Lettera privata qui integralmente trascritta e commentata da V. C. Manacorda, Testimonianze di un provveditore agli studi sull’educazione femminile nel Mezzogiorno, in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 265-269. Su Calvino, che fu «nel 1866, al fianco di Garibaldi, ed ebbe da lui l’ordine di trasmettere il famoso “obbedisco”», si veda F. L. Oddo, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 17, 1974 (on line).

     [36] Antonio Winspeare (1822- 1918), duca di Salve, fu prefetto di Lecce dal 1868 al 1870: M.M. Rizzo, Potere e grandi carriere. I Winspeare, secc. XIX-XX, Galatina, Congedo, 2004, pp. 134-167.

     [37] V. C. Manacorda, Testimonianze di un provveditore agli studi sull’educazione femminile nel Mezzogiorno, cit.

     [38] C. Covato, Un’identità divisa. Diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento, Archivio Guido Izzi, Roma, 1996, p. 42. Si veda anche M. Dei, Colletto bianco, grembiule nero. Gli insegnanti elementari italiani tra l’inizio del secolo e il secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino,1994. Sempre della Covato, Educata ad educare: ruolo materno ed itinerari formativi, in L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, F. Angeli, 1989, pp.180-186.

     [39] Il bando è integralmente riportato in A. de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento borbonico, cit., p. 10. Già dal 1861 sono operanti a Lecce scuole preparatorie per allieve maestre, ma bisogna attendere il decreto del Ministero della PI del 23 Luglio 1877 per il pareggiamento. L. Bruno, D. Ragusa, M. R. Tamblè, Inventario dell’Archivio Storico, in L. Bruno, D. Ragusa, C. Stefanelli, M. R. Tamblè, Patrimonio di Carta. Il fondo della Biblioteca e l’Archivio storico del Liceo “Pietro Siciliani” di Lecce, Lecce, Edizioni Del Grifo, 2017, p. 464.

     [40] ASLe, Educandato laicale femminile: Istituzione, 1872-1875, b. 126, f. 789, lettera del 17 aprile 1872, prot. n. 422, ff. 12-13 r/v. La lettera, se pure fa richiami a norme generali, si riferisce chiaramente a situazioni concretizzatesi in Ruffano.

     [41] Data l’8 ottobre 1881 la scrittura privata tra la Congregazione e la Madre generale Rosa Gattorno, oggi beata, fondatrice dell’Ordine Figlie di Sant’Anna nel 1866. Presidente della CdC all’epoca è Sebastiano Pasanisi. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 806, Spese alle Figlie della Carità delle religiose di Sant’Anna.

     [42] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 791, Ammissione alunne 1873-1909.

     [43] ASLe, Sez. II, Congregazione di Carità Verbali di consegna dell’Asilo Infantile di Ruffano alla Congregazione di Carità, b. 1, f.  4.

     [44] Archivio Centrale dello Stato, Titolo VI, Scuole femminili normali e magistrali, busta 35, cit. in A. Semeraro, Cattedra, trono, cit., p. 246.

     [45] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 788, Maestre.

     [46] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 790, Sussidio all’educandato laicale femminile.

     [47]ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 790, Educandato laicale femminile: istituzione. Il professore /sacerdote Pollini Eugenio è autore, insieme a Luigi Mangili e Senofonte Pessina, di Progetto di riordinamento della scuola magistrale femminile di Cremona, Tipografia Ronzi e Signori, 1869.  Sempre il Consiglio Provinciale Scolastico con lettera del 27 gennaio 1874, n. 429 nomina maestra assistente la piacentina Piva Giovannina. Ibidem.

     [48] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 789, Educandato laicale femminile: istituzione. È più che plausibile ipotizzare che Zanoni abbia frequentato ad Arluno il Collegio del Sacro Cuore presso cui era attiva una scuola Normale Femminile dove si diplomerà maestra e maturerà la sua vocazione religiosa Santa Francesca Saverio Cabrini (1850-1917): https://www.cabriniroma.it/la-fondatrice/.

     [49] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796.  Lettera al Consiglio Scolastico Provinciale del 19/03/1875, prot. n. 147.

     [50]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Asilo Infantile. Come scrive de Bernart, Angela o Angiola, o Angiolina, come altrove si firma, sarà un’“apprezzata maestra delle classi femminili”: A. de Bernart Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca-Alfonso Mellusi, cit., p. 10.

     [51] Ossolaro è oggi frazione del Comune di Paderno Ponchielli  https://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/4051518/.  A Cremona è nato l’abate Ferrante Aporti che è considerato il padre del primo Asilo Infantile italiano a pagamento.

     [52]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Asilo Infantile.

     [53] Dello stesso argomento e tenore è quella della direttrice Giuseppina Zanoni del 25 luglio1877 in cui riferisce alla CdC che i frequentanti vanno “decrescendo giorno per giorno a motivo che vari si stabiliscono in campagna”, preoccupata per le sorti del saggio in programma per il 2 agosto e tantissimi sono, nel fondo d’archivio da cui attingiamo, i biglietti di scuse dei notabili locali per non potere presenziare al saggio finale. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Corrispondenza 1866-1877. L’11 agosto 1877 risultano Zanoni direttrice, Guidani assistente e Chiarillo Maria praticante (tirocinante): Ivi, b.127, f. 798, Personale direttrice e maestra (1866-1877). Il 30 gennaio 1878 Chiarillo scrive lamentando “uno stipendio tanto meschino da far vergognare”: Ivi, b. 126, f. 796. Istanze diverse.  Ritroviamo il nome della Zanoni nella seduta del Consiglio Comunale di Ruffano del 4 gennaio 1894: “Giuseppina Zanoni è nominata maestra a Torre per gli anni 1894-1895”. La Zanoni è autrice del libro Cose d’ogni giorno all’asilo, Milano, A. Vaillardi, 1920.

     [54] Nella stessa seduta, il consigliere Giuseppe Santaloja propone e il Consiglio all’unanimità approva la “Conferma a vita dell’insegnante Mellusi Alfonso nella carica di maestro elementare inferiore”, poiché “con zelo e puntualità […] la sua opera fu sempre rivolta all’incremento e progressivo sviluppo del benessere degli abitanti di questo Comune”. Gli viene confermato lo stipendio annuo di 770 lire. ASCr, Deliberazione del Consiglio Comunale tornata 15 del 30/06/1883 ff. 52r/v-53r. A. de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca, cit., p. 8. Della maestra Guindani non vi è traccia nell’archivio della scuola che pure conserva i registri a partire dal 1899, ma una “Angiola Guindani” è indicata nel 1894 come “Maestra – direttrice coll’insegnamento nella 2a sezione” del Regio Giardino d’infanzia di Beirut. Bollettino del Ministero degli Affari esteri. Parte amministrativa e notiziario 1894, Roma, 1894, p. 16.  Per l’anno scolastico 1913-1914 ricopre lo stesso incarico a Susa, Turchia. Annuario del Ministero degli Esteri, Scuole italiane all’estero. Governative e sussidiate Anno scolastico 1913-1914, Tipografia editrice nazionale, Roma, 1914, p. 76. Il 20 maggio 1925 con prot. n. 7776, il Provveditorato agli Studi di Bari chiede informazioni alla Congregazione sul servizio prestato dalla signora Guindani in qualità di maestra e direttrice dell’asilo per pratica di pensionamento. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Corrispondenza 1866-1872. Nella risposta da Ruffano si certifica che la Guindani è stata in servizio dal 20 aprile 1875 al 30 aprile 1881 con stipendio di L.700 e casa ammobiliata. Ibidem.

     [55] G. Buonazia, Sullobbligo della istruzione elementare nel regno d’Italia: attuazione della legge 15 luglio 1877, Roma, Tipografia eredi Botta,1878, tabella a p. 249.

     [56] ASCr, Deliberazione del Consiglio Comunale. Tornata 24 del 29 /12/1878.

     [57] Gazzetta Ufficiale del Regno D’Italia 10 settembre1883, n. 212, pp. 3947-3948.

     [58] I sei consiglieri redattori della Relazione sono: Giuseppe Santaloja, Licci Agostino, Gianuzzi Francesco, De Santis Carmelo, Giaccari Gennaro, Morello Lucio. ASCr, Tornata 17 del 23-07-1883, ff. 58v-60 r.  E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., pp. 118-121. Il Sottoprefetto di Gallipoli il 25 febbraio 1885 con prot. n.1287, scrive alla Congregazione di Carità evidenziando che l’Ospedale era abusivo, non essendo stato riconosciuto con “Decreto sovrano”. ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 2, f. 32. La chiusura definitiva avverrà il 9 aprile 1886, quando la Prefettura approva la Delibera della Congregazione del 14 febbraio dello stesso anno. Ibidem.

     [59] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 1, f. 8, Verbale di consegna dell’Ospedale e dell’asilo Infantile di Ruffano.

     [60] Secondo l’art. 8 della legge n. 753, Opere pie, del 3 agosto 1862.

     [61] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 1, f. 8.

Tommaso Villanova, farmacista, viene eletto Sindaco di Ruffano nel 1882 mentre Pomponio d’Urso è Presidente della Congregazione in sostituzione di Alfonso Mellusi dichiarato decaduto dal Prefetto per incompatibilità.  E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 118. Mellusi ricoprì la carica di Tesoriere dal gennaio all’aprile 1883, come risulta dal verbale della seduta del 19 aprile 1893 dove si discute dei rimborsi per il sacerdote al tempo del suo incarico. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 2, f. 46.

Il 15 gennaio Giuseppe Santaloia subentra in qualità di Sindaco facente funzioni al Villanova che si è dimesso. Il 23 dello stesso mese D’Urso si dimette da presidente della citata Congregazione e gli succede con la stessa carica Tommaso Villanova. E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 28.

     [62] ASLe, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Asilo infantile 1866-1920 e Ivi, b. 127, f.799, Lavori vari all’edificio dell’Asilo infantile (1866-1891).

     [63] A. Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in «lu Lampiune», n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp. 27-34. Si veda anche E. Inguscio, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in «Note di storia e cultura salentina», Società Storia Patria Basso Salento, A. XII, Lecce, Argo Editore, 2000, pp. 193-203. Come osserva Cavallera, la “piemontesizzazione” del Sud Italia fu il frutto di una “politica realistica e forse un po’ cinica” legittimata non solo militarmente ma anche dal fatto che la Torino sabauda aveva assunto in quegli anni “la leadership culturale”: H. A. Cavallera, Storia della scuola italiana, cit., pp. 99-100.

     [64] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Ottocento e Novecento, cit., pp.12 e 13. C’è anche la rivendicazione identitaria, per esempio nelle parole di Salvatore De Pace che evidenzia la necessità di avere libri di testo “fatti per le nostre Provincie […] in vece di prendere le mosse da Torino e Firenze”. S. de Pace, Libro per le scuole elementari, Gallipoli, Tipografia Municipale, 1879, cit. in Ivi, pp. 160-166.

     [65] Inserzione in La scuola elementare marchigiana, anno II, Montegiorgio, 15/05/1885, n.11.

     [66] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Istanze al posto di assistente, verbale del 21/06/1885.

     [67] Ivi, temi.

     [68] Ibidem.

     [69] Ivi, verbale del 21/06/1885.

     [70] Ivi, Istanze al posto di assistente, lettera dell’11/05/1891.

     [71] Ivi, Istanze diverse.

     [72] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., Carte diverse.

     [73]ASLe, Sez. II, CdC- O.P-M., b. 2, f. 5. Ivi, Sez. II, Congregazione di Carità, b.2, f. 78.

     [74] Ivi, b.2, f. 78, Aprirsi concorso per assistente dell’Asilo infantile.

     [75] Ivi, b. 126, f. 796, Istanze al posto di assistente, verbale del 14 /03/1895.

     [76] Francesca Bianchi è la sorella di Eteocle Bianchi al quale con delibera del 16 Ottobre 1895 la CdC destina una somma per l’apertura delle “Scuole elementari superiori” ma la Regia prefettura, sentita per parere il 29 novembre, non approva perché tale elargizione sarebbe da considerarsi una distrazione di fondi destinati alla beneficienza”. ASLe, Sussidio al Sig. Bianchi per scuola elementare del Comune, b. 126, f. 788.  Il 10 dicembre la sottoprefettura invia copia della deliberazione del Consiglio scolastico provinciale “che non approva l’impianto della scuola”. Nella seduta del 12 novembre 1898 il Consiglio comunale nomina lo stesso Bianchi Direttore Dittatico (E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., pp. 158 e 169) ma la nomina risulterebbe non confermata dal Consiglio scolastico provinciale di Lecce, contro il quale il 19 dicembre 1898 Bianchi presenta ricorso, che viene respinto. Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, anno XXVI; V. I, n. 16-17 Roma 20-27 aprile 1899, p. 826. Nell’Archivio della scuola si conservano i registri d’epoca del maestro Bianchi, l’ultimo è dell’anno scolastico 1902-1903, quarta e quinta maschile, sita in “Piazza san Francesco”. Il maestro Eteocle muore l’8 /6/1908 a soli 33 anni.  ASCr, Registro degli atti di morte 1908, n.35.

     [77] Alla maestra Marzo Marina il Consiglio Comunale il 25 Giugno 1889 conferisce l’attestato di lodevole servizio: E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 220.

     [78] Cito Antonietta nativa di Sogliano Cavour (27/06/1872) sarà la maestra elementare a Torrepaduli fino al 1 ottobre 1935, anno del “collocamento a riposo” dopo 41 anni di servizio. Archivio Scolastico Ruffano, fascicolo personale “pensionamento”, Lettera del Provveditorato agli studi di Bari n. 5276, 24 Marzo 1935. Nel 1902 è nominata “mastra a vita” con delibera n. 117 del Consiglio comunale. Ivi, nota 107, p. 157. Nel 1936 le verrà conferito il “Diploma di benemerenza. Ministero delleducazione nazionale, Bollettino ufficiale dell’anno 63, Volume 2, 29 ottobre 1936, anno XV, n. 44, p.1476. Il marito è Giovanni Maselli che nel 1918 ricopre la carica di Presidente della CdC, il figlio è Mario Maselli che si laureerà in Farmacia il 18/07/1929 a Napoli. G. Carruggio, Rassegna annuale della vita e del pensiero salentino, Volume VII per l’anno 1933, Lecce, Editrice “L’Italia Meridionale”, 1933, p. LIX; E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 76.

     [79] R. Basso, Donne in provincia. Percorsi di emancipazione attraverso la scuola nel Salento tra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2007, p.74.

     [80] L. Quarta, Relazione sullo stato dell’amministrazione del Comune di Ruffano e sull’andamento di essa nel biennio 1882-1883, Lecce, 1884, cit. in A. de Bernart, Un maestro di scuola, cit., nota 1, p. 2. Su Chiara Quarta, insegnate dal 1922 al 1949, Archivio Scolastico Ruffano, fascicolo personale Chiara Quarta.

     [81] V. Vetruccio, Discorso letto il 21 Giugno 2012, in occasione della prima “stella” posata nel cortile della Scuola Primaria, in onore del maestro-poeta Carmelo Arnisi, Inedito. Vetruccio riporta un inventario stilato da Carmelo Arnisi degli arredi della scuola da lui diretta e cita altri colleghi venuti prima di lui, quali don Alfonso Mellusi, Ferdinanda Calì e Anna Maria Casaluce. Una foto dell’antica Casa Quarta-Arnisi, oggi proprietà Frisullo, è riportata da A. de Bernart in Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800, cit., p. 16 e riprodotta in un disegno di Pasquale Ricchiuto riportato da E. Inguscio in Carmelo Antonio Arnisi. L’uomo e il poeta, Ivi, p.25.

     [82] ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 2, f. 71.

     [83] Nel verbale del 5 dicembre 1895 la Congregazione presieduta da Michele Cagnazzo delibera appunto il rientro delle suore per affidare la gestione della farmacia e sottolinea lo zelante operato delle stesse “durante l’epidemia colerica di cui fu funestato il nostro Comune nel 1867”. ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 2, f. 94, Istituzione delle Figlie della Carità. 

     [84] ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 25, f. 289. Il 6 luglio 1897 in seduta straordinaria presieduta da Luigi Rubino la Congregazione prende atto della rinuncia per motivi famigliari da direttrice dell’asilo di Antonietta Quaini e delibera di affidare l’asilo alle Figlie della Carità. ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 2, f. 98, Affidarsi l’asilo Infantile alle Figlie della Carità. La direttrice Quaini comunica che a seguito della morte della madre rinuncia all’incarico. La madre è Grossi Teresa, vedova di Giuseppe Quaini, di Brembio (Lodi), morta a Ruffano il 25 aprile 1897. Comune di Ruffano, Registro Atti di Morte Parte I, 1897, n. 33. Dalla lettera dell’assistente Russo Elena del 26 marzo 1900 apprendiamo che la Congregazione con sua del 24 marzo n.154 comunica il licenziamento del personale laico dell’asilo Infantile “essendo stato affidato lo stesso Asilo alle distinte Figlie della Carità”. ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 126, f. 796, Istanze diverse.

     [85]ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M. b. 126, f. 796, 2 marzo 1921, prot. n.3325.

     [86] Ivi, 19/12/1919, prot. n.8092.

     [87] Ivi, 26 /01/1920, prot. n. 520.

     [88] La Direttrice Concetta De Benedictis nel 1918 ricevette una menzione ministeriale. Benemeriti dell’assistenza scolastica a favore dei figli dei militari, in Bollettino ufficiale del Ministero dell’istruzione pubblica, anno XLV, vol I. n.14, del 4 aprile1918. La Congregazione si fece carico anche di ospitare due orfane del terremoto di Messina con telegramma del 24/11/1909 e il Ministero degli Interni comunicò l’assegnazione delle piccole sorelle Visciano, Angela di 11 anni e Elvira di 10 anni. ASLe, Sez II, b.126, f. 791, Ammissione alunne 1873-1909.

     [89] ASLe, Sez II, CdC – O.P-M-, b.126, f. 788, Maestre.

Spigolature araldiche a Veglie. I De Dominicis

 

di Antonio De Benedittis

A Veglie, in via Spani, anticamente strada delli Hispani, si trova l’abitazione che un tempo apparteneva alla famiglia Favale-De Dominicis, oggi conosciuta come casa Lillo dal nome della famiglia che l’ha posseduta per ultimo.

In passato questa era l’abitazione del dottore fisico Francesco Favale la cui figlia Anna (Veglie 1702, ivi 1739) aveva sposato a Veglie il 7 luglio 1732 il dottore fisico Domenico De Dominicis di Copertino, appartenente a una nobile famiglia originaria di Valencia stabilitasi poi nel Regno di Napoli.

In occasione del matrimonio viene collocato sopra al portone di ingresso lo stemma araldico della famiglia De Dominicis, tuttora ben conservato, recante impressa la data del matrimonio. (A. D. 1732).

stemma de dominicis

 

L’arma ufficiale dello stemma De Dominicis è: “di rosso all’alabarda d’argento posata su un monte di tre colli verde, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro con la coda controrivoltata e sormontata da tre stelle d’argento”. (da internet).

Lo stemma riprodotto nell’abitazione di Veglie contiene alcune varianti nel senso che non sono visibili i tre colli e le stelle sono due e non tre; probabilmente la famiglia stabilitasi a Veglie apparteneva ad un ramo cadetto

Da Domenico De Dominicis la casa viene ereditata dal figlio Nicola, poi da Giovanni Battista e infine da Francesco, la cui figlia donna Rosina, (Veglie 1876, ivi 1953) sposa il messo esattoriale Lillo Luigi Salvatore Santo originario di Monopoli. Mentre era in vita Salvatore Lillo era solito mostrare ai suoi amici e conoscenti la divisa e le armi appartenute al padre Filippo che nel 1866 aveva preso parte alla Terza Guerra d’Indipendenza.

L’editore leccese Pietro Micheli per le Cappuccine di Napoli e Lecce (1664)

Una nuova edizione di Pietro Micheli:
la
Regola di Santa Chiara per le suore Cappuccine di Napoli e Lecce (1664)

 

di Gilberto Spagnolo 

Con la pubblicazione, nel 1631, dei Carmina di Filippo Formoso, avvocato di Torre S. Susanna, opera dedicata al Signore del suo paese il principe Giovanni Antonio Albricci Farnese, che precedette di poco il famoso Tancredi di A. Grandi, il tipografo Pietro Micheli, nato a Dole in Borgogna, introduceva ufficialmente la stampa nella città di Lecce, ottenendo per tale servizio “casa franca” nonché particolari privilegi per se stesso e per i suoi familiari1, avviando così nel contempo “(la) stagione aurea della stampa salentina2, operando tra gli anni 1631 e 1697 e producendo non meno di 234 edizioni3.

Su tale cospicua produzione tipografica, che costituisce certamente un momento cruciale dell’arte tipografica pugliese, l’enorme ed esauriente lavoro di ricerca compiuto da Gianfranco Scrimieri e pubblicato nel 1974 sotto il titolo di Annali di Pietro Micheli, resta il contributo fondamentale (pur essendo passati oltre 40 anni), un’opera indubbiamente di grande pregio in quanto attraverso un lavoro di anni, minuzioso e capillare, sulla catalogazione e reperimento delle varie edizioni micheliane, nonché sui documenti d’archivio, dà un’ampia informazione sulla vita e sulla complessa attività del tipografo di origini francesi, già attivo a Bari prima di trasferirsi definitivamente nel capoluogo salentino4.

Uno studio comunque, come ebbe a precisare lo stesso Scrimieri (e come in effetti è stato) non definitivo e suscettibile di ulteriori scoperte e ritrovamenti bibliografici5.

La ricerca sulla storia della tipografia del Micheli e più ampiamente salentina è stata, infatti, poi ulteriormente arricchita da importanti contributi ed eccellenti studi che hanno consentito infatti di catalogare altre opere sconosciute stampate dal Micheli, “fortunati e casuali ritrovamenti” di nuove edizioni nelle biblioteche pubbliche e soprattutto private di Terra d’Otranto6.

Partendo perciò dall’assunto che il lavoro di ricerca sull’editore attivo nel Seicento in Lecce, figura di primo piano della cultura salentina, è ancora lungi dall’essere completato (compito non certamente facile) e che pertanto va ancora necessariamente continuato, a conferma soprattutto che “i privati detentori” (come ha evidenziato Elio Pindinelli)7 possono consentire un ulteriore recupero di altre opere stampate dal “Borgognone” (in nome di un collezionismo perciò non fine a se stesso bensì un utile strumento di tutela e promozione culturale), queste brevi note intendono apportare, come già fatto in altre personali e precedenti ricerche8, un ulteriore contributo sulle vicende editoriali della principale bottega tipografica pugliese e sul completamento degli Annali della sua stessa produzione. Riprendendo così un discorso avviato anni or sono, collaborando alla benemerita rivista “lu Lampiune9 edita dalla casa editrice Del Grifo, presentiamo i risultati pressoché definitivi di quella ricerca scaturiti ora attraverso alcune utili indicazioni acquisite ed emerse grazie a contributi di estremo interesse sul tipografo borgognone Pietro Micheli10.

1. Napoli, Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Regola di Santa Chiara, edizione di Pietro Micheli 1664. Frontespizio

 

In quel nostro precedente lavoro veniva infatti segnalata un’edizione assolutamente sconosciuta della bottega tipografica micheliana, scoperta in una biblioteca privata e datata 1664, non localizzata a suo tempo da Gianfranco Scrimieri e quindi descritta per la prima volta.

L’esemplare (mm 120 x 180, pp. 68), pur essendo mutilo del frontespizio e di alcune pagine (iniziava da pag. IX), era attribuibile al Micheli grazie al Colophon riportato nell’ultima pagina dove appunto poteva leggersi: “IN LECCE MDCLXIV. Appresso Pietro Micheli. Con licenza de’ superiori”.

Il contenuto dell’opera si sviluppava attraverso vari capitoli introducendo poi in particolare, alle pagine 23-32 le “Constituzioni / delle monache dell’Ordine di / Santa Chiara / nel Monastero di San Francesco / delle Cappuccine di Napoli / le quali si devono osservare nel / Monastero di Santa Maria di Loreto / della Città di Lecce./

Privo del frontespizio il volumetto infine, al di là di una sterile descrizione di alcuni aspetti tecnici, non consentiva allora di fornire nessun’altra importante e significativa informazione. Il testo lo si è potuto ora finalmente identificare grazie a uno studio di Francesco Quarto sulle “Nuove emergenze tipografiche Leccesi”, pubblicato negli Studi in memoria di Michele Paone (opera collettanea stampata nel 2011) e che illustrava un prodotto micheliano sconosciuto dal titolo “Mundus Traditus11. L’edizione è in realtà la “Regola di Santa Chiara confermata da Papa Urbano IIII. Con le constituzioni, che si osservano nel Monastero di San Francesco delle Cappuccine di Napoli, e si osserveranno dalle monache del nouo Monastero erigendo delle Cappuccine della città di Lecce, in vigore della Bolla di Nostro Signore Papa Alessandro Settimo, spedita alle 17 di dicembre 1663, in Lecce, Appresso Pietro Micheli, 1664”.

2. Regola di Santa Chiara. Pagina di apertura della lettera del Vescovo Urbano

 

3. Regola di Santa Chiara. Prima pagina delle Costituzioni per le monache di Santa Chiara di Napoli e Lecce (Esemplare coll. privata).

 

Il Quarto ha potuto individuare l’edizione che ci interessa (assieme ad altre due “rimaste ignote, sopravvissute in un unico esemplare per ciascuna in tre diverse biblioteche”) grazie alla consultazione (come scrive egli stesso) “di cataloghi on line, gli opac di SBN che possono essere consultati in remoto, senza essere costretti a lunghe ed estenuanti trasferte in altre località senza peraltro la garanzia del successo”. Questo perché “la consultazione degli Opac consente quindi di modificare in alto anche le cifre dello Scrimieri sia per quanto riguarda la localizzazione di quelle edizioni date per non ritrovate, sia per quanto riguarda addirittura la scoperta di edizioni sconosciute” (come appunto in questo caso)12.

Questo esemplare della Regola di Santa Chiara confermata da Papa Urbano IIII etc., è stato localizzato in Napoli presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria che ha sede nel Maschio Angioino13.

Dalla consultazione effettuata del testo (resa possibile dalla sua catalogazione elettronica), si è constatato che l’esemplare risulta però anche incompleto come quello posseduto dalla biblioteca privata (che come si è detto è sprovvisto di frontespizio e delle prime otto pagine). La parte mancante all’esemplare napoletano è infatti quello che va dalla pag. 40 alla pag. 68 contenente il Modo che si ha da osservare dalle suore cappuccine, articolato a sua volta nei seguenti punti: Nel vestire delle Novitie, Modo, e forma di far la professione delle Suore Cappuccine, Modo di tener Capitolo, Modo come si eliggono La Madre Abbadessa, Officiali, e Discrete.

In buona sostanza, attraverso i due esemplari entrambi incompleti ma che comunque si completano vicendevolmente in un unico esemplare, si può ora effettuare qui di seguito la descrizione di questo prodotto tipografico micheliano in tutta la sua interezza sia nel frontespizio e sia nel suo intero apparato testuale:

REGOLA DI/ SANTA CHIARA./ CONFERMATA DA PAPA URBANO IIII./ Con le Constituzioni, che si osservano nel Monastero/ Di SAN FRANCESCO delle Capuccine di Napoli, /E si osservaranno dalle Monache del nouo Monastero/ erigendo delle Capuccine della Città di LECCE,/ in vigore della Bolla di Nostro Signore Pa-/pa Alessandro Settimo, spedita alli/17. di Decembre 1663.

IN LECCE. Appresso Pietro Micheli, 1664.

4. Regola di Santa Chiara. Pagina di apertura del Vescovo di Lecce “Alexander dilecto filio Vicario Venerabilis nostri” (Esemplare coll. privata).

 

NOTE TIPOGRAFICHE

Vignetta ornamentale raffigurante S. Francesco sul frontespizio i cui caratteri sono in una cornice (simile più o meno a quella di Mundus Traditus)14 creata mediante piccoli punzoni. La misura della pagina (foglio di carta) è di cm 120 x 180; pagine complessive 68. All’ultima pagina è presente il Colophon: IN LECCE, MDCLXIV. Appresso Pietro Micheli. Con licenza de’ superiori. Il libro presenta alla pag. 4 un fregio con un’anfora a due manici e due pregevoli capilettera: la L che introduce la lettera di “Urbano Vescovo Servo delli Servi di Dio” alle suore di Santa Chiara e la lettera R che introduce, a pag. 33, la Bolla del Papa Alessandro Settimo spedita alli 17 di dicembre del 1663 al Vescovo di Lecce, Luigi Pappacoda sull’erezione del Monastero di Santa Maria di Loreto. I capilettera sono gli stessi pubblicati dallo Scrimieri nel suo studio fra le illustrazioni sui caratteri tipografici15. Una parte del testo è in corsivo. Le righe di testo sono circa 39 compresa quella di paginazione e quella del richiamo a piè di pagina. Le righe comprendono circa 49 caratteri comprendendovi anche gli spazi albi tra le parole e i loro tratti impressi sulla carta sono abbastanza distinti.

 

PROSE

Alle pp. [3-5]: URBANO VESCOVO SERVO DELLI SERVI DI DIO, ALLE DILETTE IN CHRISTO FIGLIVOLE, e tutte l’Abbadesse, e Suore rinchiuse dell’Ordine di Santa Chiara Salute, e Apostolica benedittione.

Alle pp. [6-22]: COMINCIA LA REGOLA DI SANTA CHIARA CONFERMATA DA URBANO QUARTO (sono indicati complessivamente 20 capitoli)

Alle pp. [23-32]: CONSTITUTIONI DELLE MONACHE DELL’ORDINE DI SANTA CHIARA NEL MONASTERO DI SAN FRANCESCO delle Capuccine di Napoli, LE QUALI SI DEVONO OSSERVARE NEL Monastero DI LORETO della Città di Lecce.

Alle pp. [33-39]: ALEXANDER EPISCOPUS SERVUS SERVORUM DEI. Dilecto Filio Vicario Venerabilis Fratris nostri Episcopi Lycien. In Spiritualibus generali; Salutem, et Apostolicam benedictionem.

Alle pp. [41-60]: MODO CHE SI HA DA OSSERVARE DALLE SUORE CAPPUCCINE (Nel Vestire delle Novitie, Modo e forma di far la professione delle Suore Cappuccine, Modo come si eliggono la Madre Abbadessa, Officiali e Discrete, Modo di Tener Capitolo). (Parte mancante all’esemplare della Società di Storia Patria).

5. Regola di Santa Chiara. Pagina di apertura del “Modo che si ha da osservare delle suore capuccine” (Esemplare coll. privata).

 

Alle pp. [61-62] con carattere corsivo: LE RELIGIOSE DELLA REGOLA DI SANTA CHIARA GODONO TUTTE L’INFRASCRITTE INDULGENZE (parte mancante all’esemplare della Società di Storia Patria).

6. Regola di Santa Chiara. Pagina dell’elenco di apertura delle Indulgenze concesse dal romano Pontefice Paolo Quinto (Esemplare coll. privata).

 

7. Regola di Santa Chiara. Pagina dell’elenco di apertura delle Indulgenze concesse dal romano Pontefice Paolo Quinto (Esemplare coll. privata).

 

Alle pp. [63-68]: INDULGENZE CONCEDUTE DA PAOLO QUINTO à tutti i Religiosi, e Religiose (parte mancante all’esemplare della Società di Storia Patria). Sull’ultima pagina è presente il Colophon: IN LECCE, MDCLXIV, Appresso Pietro Micheli. Con licenza de’ Superiori.

I contenuti del libro (da ritenersi certamente “un unico esemplare sopravvissuto” ricostruito, come si è visto, grazie alle due copie mutile) sono indubbiamente una testimonianza di particolare interesse sull’Ordine monastico delle Monache Clarisse Cappuccine di Napoli probabili committenti dell’opera (tra l’altro Micheli prima di giungere nel Salento era stato anche a Napoli)16 e delle “Cappuccinelle” di Lecce, istituzioni religiose notevoli ovvero di quell’apparato ecclesiastico (“Cittadino ma anche di altre località della Provincia di Terra d’Otranto e non solo”) che per il Borgognone rappresentava la committenza maggiore17.

8. Regola di Santa Chiara. Colophon (Esemplare coll. privata).

 

L’Ordine delle monache clarisse Cappuccine, importantissima istituzione religiosa della città, nasce con la fondazione del Protomonastero di Santa Maria in Gerusalemme di Napoli, ad opera della Serva di Dio Maria Lorenza Longo, nobildonna catalana, approvata dal Papa Paolo III con la Bolla “Debitum pastoralis officii” del 19 febbraio 1535 che si propone, in sintonia con la riforma maschile cappuccina, di rivivere nel XVI sec. l’esperienza evangelica di Chiara. Con la bolla di Papa Paolo III la Longo ottenne il benestare per fondare un nuovo monastero femminile: il 30 aprile 1536 la bolla Alias nos le concedeva di elevare il numero delle monache a 33 in omaggio agli anni di vita terrena di Gesù. Originariamente ospitate in un’ala di Santa Maria del popolo degli incurabili, sottoposte alla Regola del Terz’ordine Francescano ed alla direzione dei padri Teatini, nell’agosto del 1538 Maria Lorenza Longo e le consorelle presero possesso di Santa Maria in Gerusalemme (detto popolarmente delle Trentatrè). Adottarono quindi la Regola di Santa Chiara (approvata da Papa Innocenzo IV nel 1253) e delle Costituzioni modellate su quelle dei Frati Minori Cappuccini, ai quali passò anche la direzione spirituale delle Religiose (bolla cum Monasterium del 10 dicembre 1538 e di cui le monache adottarono il nome).

La fama di santità di vita e dell’austerità delle Trentatrè cappuccine non tardò così a spargersi fuori di Napoli. Iniziarono a sorgere altre fondazioni un po’ ovunque in tutta Italia e non solo (come a Roma, Milano e finanche a Parigi) seguendo lo stesso modello trasmettendosi il corpus legislativo18.

Sul Monastero delle Cappuccinelle di Lecce, cominciato ad edificarsi nel 1636 per testamento del Sac. Giulio Cesare Prato del 6 Aprile 1632 (con esso il Prato lasciava suo erede lo “Spedale dello Spirito Santo di Lecce, con l’obbligo appunto di fondare un Monastero di DD. Monache Cappuccine Urbaniste sotto il titolo della Beatissima Vergine Santa Maria di Loreto”) il De Simone, il Paladini e il Paone forniscono alcune interessanti notizie.

Nel 1636 fu messa la prima pietra del Monastero; nel 1639 fu fabbricata la chiesa, nel 1665 le Monache presero possesso dell’uno e dell’altra. Il monastero fu soppresso sui principi del 1800 e le superstiti suore si rifugiarono nel vicino Convento delle Suore Benedettine di S. Giovanni Evangelista.

La chiesa cadente fu abbattuta e l’altare maggiore dedicato alla Vergine di Loreto, con bellissime statue in legno della Vergine e di Santi, fu trasportato nella Chiesa del Gesù (è il primo altare a sinistra). Sulla porta principale del Monastero infine, in Via Vittorio Prioli si leggeva la seguente iscrizione: “Capuccinellarum Virginum nobile Asceterium, Caesaris Prati V. Cl. munifica pietate excitatum an. a fundatione salutis MDCXLII” (Nobile Monastero delle Vergini Cappuccine, fondato per la munifica pietà di Cesare Prato, uomo chiarissimo,  l’anno della Resurrezione 1642)19.

Un’ultima considerazione è da farsi sul fatto che l’operetta qui segnalata ricalca nei contenuti e nell’impostazione tipografica l’opera di Francesco D’Estrada Arcivescovo di Brindisi pubblicata sempre dal Micheli nello stesso anno (e censita dallo Scrimieri) e intitolata: “Constitutioni/ e regole/ per il Governo Spirituale/ e Temporale di Monasterij delle RR. Monache della Città di Brindisi/ e sua Diocesi;/…” della quale sono stati individuati dallo Scrimieri ben tre esemplari20.

Stessa annotazione va fatta per le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, da noi rintracciate in forma manoscritta e con l’indicazione del tipografo Micheli nella Platea del Conservatorio di S. Anna datata 1748 e conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce21.

In conclusione, la Regola di Santa Chiara può definirsi un prodotto tipografico del Micheli certamente minore, appartenente a quella tipologia di edizioni micheliane stampate in piccole tirature e che essendo di argomento religioso (e quindi con una “circolazione” ridotta) diventare più facilmente irreperibili o perdersi del tutto. È comunque anche un ulteriore testimonianza della “fama” di Pietro Micheli e cioè del fatto che “stampasse per un’ampia committenza oltre quella nota dell’ambiente intellettuale salentino e leccese in particolare22.

 

Da Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a c. di A. Laporta, Lecce, Edizioni Grifo 2020.

9. Sentenza sulla “Terra di Ruffano”, edizione degli Eredi di Pietro Micheli 1696. Frontespizio (Coll. privata).

 

10. ANDREA LANFRANCHI, Tractatus De Beneficiis Ecclesiasticis, edizione di Pietro Micheli 1653. Frontespizio (Coll. privata).

 

Note

1 G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Galatina, Editrice Salentina, 1976, p. XIV.

2 A. Laporta, Saggi di Storia del Libro, Lecce, Ed. del Grifo, 1994, p. 7.

3 F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus traditus. Bottega di Pietro Micheli 1686, in “Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011, p. 210 (“Ma la cifra tiene conto anche di edizioni non ritrovate delle quali non è stata accertata la reperibilità di almeno un esemplare effettivamente sopravvissuto fino ad oggi”, nota 11).

4 G. Scrimieri, Annali, cit., pp. XI-XIV; cfr. anche dello stesso autore Introduzione a Pietro Micheli Tipografo del 1600 (con Bibliografia) in “la Zagaglia”, XVI, 1974, 63-64, pp. 3-22; Id., Per gli Annali di Pietro Micheli. Edizioni salentine del Seicento nella Biblioteca “Caracciolo” di Lecce, Premessa di Donato Valli, Università degli Studi di Lecce, “Quaderni della Biblioteca Centrale” a cura di D. Valli e G. Scrimieri Lecce, Ed. Salentina, 1976; Id., Il ’600 tipografico a Lecce, in “Atti del Congresso Internazionale di Studi sull’età del Viceregno”, Bari, 1977; Id., voce Pietro Micheli in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, http:/www.treccani.it//enciclopedia/Pietro_Micheli_Dizionario_Biografico); A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, Lecce, Milella, 2006, pp. 21-28 (cap. II, Dall’ultimo Micheli alla vendita della tipografia).

5 G. Scrimieri, Introduzione, cit., p. 7.

11. Decreto “In favore dei canonici contro l’Arcidiacono” sormontato dallo stemma papale di Urbano VIII, edizione di Pietro Micheli 1642 (Coll. privata).

 

12. Xilografia di S. Oronzo che correda l’edizione di Lecce con la sua Provincia de’ Salentini stampata dagli Eredi di Pietro Micheli nel 1691 (Coll. privata).

 

13. Xilografia “Vergine del Rosario”, edizione di Pietro Micheli 1675 (Coll. privata).

 

14. “Missa in Solemnitate Rosarii Beatae Mariae Virginis”, edizione di Pietro Micheli 1675 (Coll. privata).

 

6 A tal proposito cfr. E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi Orientamenti”, XX, 113-114, marzo-giugno 1989, pp. 11-20; A. Laporta, Saggi di Storia del libro, cit., pp. 7-29 (la stampa in Terra d’Otranto fra Sei e Settecento); A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, cit.; pp. 21-28; E. Panarese (a cura di), Una ricerca nella scuola dell’obbligo (Visita alla Biblioteca Piccinno di Maglie), Erreci Edizioni, 1990; M.T. Tafuri Di Melignano, Materiali tipografici pugliesi. Una miscellanea per la chiesa di Brindisi nella Biblioteca “De Leo”, in “Brundisii Res”, XIII, 1981, pp. 111-119, Id., La Biblioteca vescovile di Nardò, in “Curia Vescovile di Nardò”, Bollettino Ufficiale, XXXIII, 1984, 1, p. 78; M.T. Tafuri Di Melignano – Maria Virno, Edizioni pugliesi dei secoli XVI-XVIII nella Biblioteca Nazionale di Bari, in “Archivio Storico Pugliese” 36 (1983); M.T. Tafuri Di Melignano, Ulteriori contributi alla storia della stampa in Puglia, ivi, 37 (1984), pp. 123-130; M. Paone, Lecce segreta, Galatina, Ed. Salentina, 1992, pp. 31-34, 35-36; Id., Incisori Leccesi del Seicento, Galatina, Congedo ed., 1974, p. 25; A. Laporta, Una introvabile edizione leccese del ’600, in “Sapere Aude” Studi in onore di P. Luigi De Santis, Lecce, Ed. Grifo, 2010, pp. 157-168; F. Quattro, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus Traditus. Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., pp. 207-220; M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, in “Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Ed. Grifo, 2011, pp. 175-205.

7 E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, cit., pp. 11-12. Alla catalogazione delle opere del Micheli un contributo importante è stato dato anche da E. Dimitri con la segnalazione (Libreria Messapica, catalogo n. 5, Manduria, autunno 1976, p. 3) del rarissimo poemetto di Tommaso D’Aquino (stampato nel 1684) e il libretto (altrettanto raro) dell’arciprete manduriano Castorio Sorano (stampato nel 1669).

15. Breve Sommario delle Indulgenze, Privilegii Et Gratie…, in Roma, nella Rev. Camera Apostolica e di nuovo in Lecce appresso gli Eredi di Pietro Micheli 1694 (Coll. privata).

 

16. OCHOAY Y SAMANIEGO FRANZISCO, Arismetica Guarisma, edizione di Pietro Micheli e Nicola Francesco Russo, 1644. Frontespizio (Libreria Antiquaria Gutemberg).

 

8 Cfr. G. Spagnolo, Un poeta salicese del ’600: Epifani Pietrantonio, in “Quaderno di ricerca Costumi e storia del Salento”, Galatina, Panico, marzo 1986, pp. 47-62; Id., Per la storia dell’Editoria Salentina del ’600. Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento del tipografo Pietro Micheli, in “Studia Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri”, a cura di Dino Levante, Manduria, Barbieri Selvaggi Editore, 2010, pp. 325-336; Id., Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, in “Il Bardo, XXI, 1, Luglio 2011, p. 2; Id., Per la storia dell’editoria salentina del’600: l’ultimo Micheli?, in “Il Bardo”, XV, dicembre 2005, 3, p. 7; Id., Un’opera dispersa di Pietro Micheli: il trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (1653), in “Il Bardo, XXV, 2, maggio 2015, p. 6; Id., Edizioni di Pietro Micheli nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in “Il Bardo”, XXIV, 1, Marzo 2015, p. 5; Id., I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine, del Rosario, estratto da “Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (sec. XV-XVIII), a cura di Eugenio Bruno e Mario Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2016, pp. 3-19; Id., M. Cazzato – G. Spagnolo, Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario, in “Rotary Club Lecce, 60 anni di “service”. Omaggio alle Eccellenze Salentine”, Galatina, Congedo Editore, 2013, pp. 103-116; Id., Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario (e un’erede salvese), in “Annu Novu Salve vecchiu”, 20, 2017, pp. 89-102.

In sintesi, nei suddetti contributi vengono segnalate e descritte le seguenti sconosciute edizioni di Pietro Micheli:

  • Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento (L’esemplare pur essendo privo del frontespizio, ricco di numerosi capilettera – ben 9 – e di diversi fregi – sei in tutto, di cui uno non conosciuto, per la freschezza e la qualità tipografica è da collocarsi negli anni centrali della sua attività).
  • Costituzioni per il Conservatorio di S. Anna di Lecce fatte da Monsignor D. Michele Pignatelli Vescovo della medesima città. Per il buongoverno delle Gentildonne che ivi vi dimorano. In Lecce appresso Pietro Micheli 1685. Con licenza de’ superiori.
  • Tractatus De Beneficiis Ecclesiasticis scilicet quid iuris habeant Beneficiarii in suorum Beneficiorum fructibus. Auctore ADM. R. D. Andrea Lanfranchi Clerico Regulari: Ad eminentissimum, e reverendissimum Dominum Cardinalem Franciscum Mariam Brancacium, Lycii, Apud Petrum Michaelem. M. DC. LIII.
  • SENTENZIA TRIUM CONFIRMATORIA Super exemptionem praestandi Quindecimam seu Undecimam A. R. P. D. PARACCIANO Iudice Commissario Lata ad favorem Ecclesiasticorum Terrae Ruffani. Lycij, Ex Officina Haeredum Petri Michaelis 1696. Superiorum facultate. (è la sentenza in merito alla lunga lite che oppose nel Sacro Regio Consiglio l’Università di Ruffano al suo barone Francesco D’Amore I Principe di Ruffano secondogenito di Giovan Battista e di Elena Barracani, negli anni settanta del Cinquecento su un contenzioso costituito da ben 39 “gravanima”. Nel 1693 gli eredi di Pietro Micheli, come risulta dal repertorio dello Scrimieri, avevano già accolto nelle loro stampe un opuscolo (opera del Sacro Regio Consiglio) per la Terra di Ruffano contro appunto i soprusi del barone locale, cioè i “DECRETA S. R. C/ IN FAVOREM UNlVERSITATIS/ RVFFANI,/ CONTRA BARONEM DICTAE TERRAE/ Extracta in anno 1596/ Lycij, Apud Haeredes Petri Michaelis, 1693./ Superiorum facultate/.”).
  • Foglio a stampa di cm 24×16 recante da un lato la “Missa/ IN SOLEMNITATE SANCTISSIMI ROSARII/ BEATAE MARIAE VIRGINIS” e dall’altro una xilografia raffigurante la Madonna del Rosario. Lycij, Apud Petrum Michaelem, 1675, Superiorum permissu.
17. Bando di Luigi Pappacoda Vescovo di Lecce, edizione di Pietro Micheli 1669 (Coll. privata).

 

18. Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento. Pagina di apertura del VII capitolo, pp. 146-149, edizione di Pietro Micheli mutila del frontespizio e del Colophon da collocarsi negli anni centrali della sua attività presumibilmente (Coll. privata).

 

9 Cfr. G. Spagnolo, Una sconosciuta edizione leccese (1664) del tipografo Pietro Micheli, in “lu Lampiune”, X, 3, dicembre 1994, pp. 5-9.

10 F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus Traditus. Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., in particolare pp. 213-214; M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in terra salentina, cit., in particolare pp. 182 e 190.

11 F. Quarto, Nuove emergenze, cit., pp. 213-214.

12 Ivi, pp. 212-213. A Francesco Quarto si deve anche la scoperta del libro Historia della città de Leuche allo capo della provintia di Terra d’Otranto alla golfo de capo de Lupo, pubblicato a Padova nel 1588 da Lorenzo Pasquati, testo che ha consentito di “retrodatare” di oltre cento anni l’inizio della storiografia municipale salentina, tradizionalmente attribuita a Luigi Tasselli che fece stampare proprio dagli eredi di Pietro Micheli nel 1693 le “Antichità di Leuca città già posta nel capo salentino” etc. (Ivi, p. 210, nota 10). Il Quarto segnalò la sua scoperta con la pubblicazione Historia della città de Leuche, presentazione di A. Laporta, Tricase, Edizioni dell’Iride, 2008.

13 La società Napoletana di Storia Patria, con sede in Castelnuovo (o anche Maschio Angioino), è tra le società storiche nazionali una delle più importanti sia per l’antichità delle sue origini, sia per la ricchezza del patrimonio librario che custodisce. sia per la vitalità delle sue iniziative scientifico-editoriali. L’Istituzione sorta nel dicembre 1875, riconosciuta Ente Morale con il R. D. 29 Giugno 1882, fu fondata da alcuni illustri studiosi e s’inserisce in quel complesso di iniziative che portarono alla nascita di una rete di Deputazioni (organismi a nomina statale) e di Società (organismi costituiti per iniziativa locale), con l’ideale intento di contribuire con lo studio del passato, a cementare l’unità morale degli Italiani. È una società storica privata che promuove gli studi di storia e storiografia del Mezzogiorno, cura edizioni di fonti e di studi specializzati. Il patrimonio della sua Biblioteca è composto in prevalenza da materiale di interesse meridionalistico: circa 350.000 tra volumi a stampa, periodici e opuscoli, manoscritti, pergamene, stampe e disegni. Conserva uno dei primi libri stampati in Italia (il quarto), il De Civitate Dei di Sant’Agostino realizzato nel giugno del 1467 a Subiaco da due chierici tedeschi: Sweynheym e Pannartz. (http://www.storiapatrianapoli.it/ Società Napoletana di Storia Patria Approfondimento; http://www.it.m.Wikipedia.org.Wiki, Società Napoletana di Storia Patria). La consultazione dell’opera del Micheli è stata resa possibile grazie al servizio della sua “Biblioteca Digitale” (si ringrazia vivamente la dottoressa Renata De Lorenzo, direttrice della Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, per la sua preziosa collaborazione).

19. Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento. Pagina di apertura dell’VIII capitolo (pp. 170-186) edizione di Pietro Micheli (Coll. privata).

 

20. Costituzioni per il Conservatorio di Sant’Anna di Lecce, copia manoscritta dell’edizione di Pietro Micheli del 1685 (Archivio di Stato di Lecce, Platea di Sant’Anna 1748, fasc. 333).

 

14 Cfr., F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi Mundus Traditus Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., p. 217.

15 Cfr., G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, cit., pp. 347 e 348.

16 Cfr., M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, cit., p. 182. A Napoli Micheli si sposta in un anno “imprecisato” dopo essere stato a Roma “dove verosimilmente aveva conosciuto il suo maestro Lorenzo Valeri” (la Tamblè ricava quest’informazione dalla deposizione che il Micheli, in data 22 Aprile 1640, aveva reso al vicario generale della diocesi di Lecce per rendere la propria testimonianza in favore dell’amico Giovanni Collari, pp. 177 e 182, atto facente parte di un fascicolo del 1640 contenente notizie biografiche sullo stampatore, rinvenuto da Angela Frascadore presso l’Archivio storico della Curia Arcivescovile di Lecce).

21. D’ESTRADA FRANCESCO, Costituzioni e regole per il Governo spirituale e temporale de’ Monasterij delle RR. Monache della città di Brindisi e sua diocesi, edizione di Pietro Micheli 1664. Frontespizio (Coll. privata).

 

22. C. VALIO, Teatro morale e politico…, Bari, Appresso Pietro Micheli e G. Gaidone, 1630. Frontespizio (Coll. privata).

17 Cfr., F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi Mundus Traditus Bottega di Pietro Micheli, 1686, cit., p. 212.

18 Http://www.altaterradilavoro.com/Le Trentatrè Monastero Clarisse Cappuccine di Napoli; http://www.grandenapoli.it/Annunziata Buggio, il Monastero delle Trentatrè; http://www.ospedaleincurabili.jimdo.com/ Le Suore dette 33; http://www.clarissecappuccinegenova.it/ L’Ordine delle monache clarisse cappuccine.

19 Cfr., L.G. De Simone, Lecce e i suoi Monumenti, vol. primo La Città, nuova edizione postillata da Nicola Vacca, Lecce, Centro di Studi Salentini 1964, pp. 271, 273 nota 8; G. Paladini, Guida Storica ed Artistica della città di Lecce. Curiosità e Documenti di Toponomastica locale, Lecce, Editrice Salentina, 1952, p. 226; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina, Congedo editore, 1974, pp. 92-93. La denominazione del Monastero “Santa Maria di Loreto” si riferisce certamente all’episodio in cui Maria Lorenza Longo rimasta vedova si recò in pellegrinaggio a Loreto e qui decise di entrare nel Terz’Ordine di San Francesco, assumendo il nome religioso di Lorenza (cfr. http://www.clarissecappuccinegenova.it/ L’Ordine delle monache clarisse cappuccine, cit.).

20 Cfr., G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli, tipografo in Puglia nel 1600, cit., pp. VIII­XL (introduzione) e pp. 152-153 (n. 149 – D’Estrada Francesco). A pag. 70 è presente lo stesso fregio utilizzato da Pietro Micheli nella “Regola di Santa Chiara” a pag. 5.

21 Cfr., G. Spagnolo, Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, cit., p. 2.

23. MVNDUS TRADITVS, edizione di Pietro Micheli 1686. Frontespizio (esemplare collezione privata).

 

22 Ad ulteriore dimostrazione che il lavoro di ricerca su questo primo editore leccese sia ancora ben lontano dall’essere completato, segnalo un’altra sconosciuta edizione apparsa sul Catalogo n. 125 della Libreria Antiquaria Gutenberg di Milano contrassegnata con il numero 184, e così descritta: “OCHOA Y SAMANIEGO FRANZISCO, Arismetica Guarisma, en la qual se muestra El uso manual de la siete reglas maestras de faber hazer todas las quese reduzen a cuenta, con la variedad que ay hazerse Contratazion Mercantil de compras, y ventas de mercadurias in varios Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa, Remisiones de commisiones de dinero de monedas en ellos, Fundazion de banco, Negoziazion de el., Dividido en quatro partes, Lecce, Pedro Micheli, y Nicolao Francisco Russo, 1644. In 4°, (mm. 200 x 160) ottima pergamena coeva con titoli manoscritti sul dorso, pagg. 12 + 493 + 1. Edizione originale, di insigne rarità, si conosce l’esistenza di un solo esemplare al mondo, presso la Columbia University. Opera di economia fondamentale, che diede origine alle banche pubbliche, spiegandone il loro funzionamento nella gestione del denaro, ogni fase è spiegata in dettaglio, l’opera si riferisce alle banche pubbliche di tutto il mondo. Tale è la rarità di questa opera che risulta sconosciuta a Einaudi e alle bibliografie consultate. Splendido esemplare freschissimo (B406). In 4°, (mm. 220 x 160), very good coeval parchment with hand script titles on the back, pages 12 + 493 + 1. First edition, very rare, it is know only one copy in the world, care of Columbia University. Essential work about economy, it gives origin to modern public banks, explaning their functioning in money management. It’s so rare that result disowned to consulted bibliographies. Perfect and splendid copy (B406). Quotazione Euro 19.000,00”. L’opera al di là della sua rarità e dell’importanza dei suoi contenuti descritti, come si può notare ha anche la particolarità di essere una delle poche edizioni stampate dal Micheli con la collaborazione del genero tranese Nicola Francesco Russo che sposò la figlia Elisabetta nata a Trani, e con cui costituirono una società tipografica che iniziò la sua attività nel 1644 e già presente nel contratto di consegna della dote della figlia stipulato il 13 Novembre 1643 (Cfr. G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli, cit., pp. XXI-XXII, 262, 265-267: “collaboratore e consocio del tipografo per alcuni anni (1644-45) e poche edizioni”).

Giovanni Donato Maritato, teologo neritino del XVII secolo

di Armando Polito

L’internazionalità emersa dall’esame di un prodotto dell’editoria salentina e leccese in particolare operato qualche tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/30/lecce-resto-del-mondo-1-0-un-rarissimo-libro-stampato-a-lecce-nel-1644/) continua a manifestarsi, anche se in misura enormemente meno diretta e più sfumata, ma con un pizzico in più di salentinità, perché,  se allora il protagonista è stato un libro scritto da uno spagnolo e pubblicato da una coppia di editori operanti a Lecce, qui è la volta di un libro scritto da un neritino, pubblicato  dagli stessi due editori due anni dopo e dedicato a dedicato ad un vescovo operante in Italia, in particolare nel Salento. ma di nazionalità spagnola..

Non sorprenda quanto appena  detto, tenuto conto del dominio di Filippo IV e della fisioogica inflenzam leggi controllo, che qualsiasi potere tende, per sopravvivere, ad esercitare in tutti i settori, amministrativi e non. Ne riproduco il frontespizio un dettaglio dell’interno dall’esemplare digitalizzato custodito, come si nota dal relativo timbro nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò.

Il volume è da considerarsi raro, poiché l’OPAC registra la presenza di soli tre altri esemplari, rispettivamente a Manduria nella Biblioteca comunale “Marco Gatti” e a Lecce nella  Biblioteca “Nicola Bernardini” e nella Biblioteca comunale ‘San Francesco”. Purtroppo non son riuscito a decifrare quanto vi si vede scritto a mano, probabilmente una nota di possesso,  e a tal proposito debbo far notare a me stesso  come qualsiasi nota apposta su un libro può sembrare al momento quasi come uno sfregio rozzo e crudele, ma col passare dei secoli può diventare una preziosa fonte d’informazione.

 

Fortunatamente altri dati, che sarebbe stato laborioso se non impossibile recuperare, emergono da ciò che si legge dopo il titolo vero e proprio, nel chilometrico, anche questo è fisiologico nella stampa del tempo, sia pur in palese contrasto con la produzione poetica che si pasceva di metafore spesso di problematica interpretazione con i loro riferimenti alla portata solo dei più dotti.  Apprendiamo così che l’autore al tempo era suddiacono (cioè appartenente al primo degli ordini maggiori, da cui cominciava l’obbligo del celibato e della recita dell’Ufficio divino), che il libro era indirizzato a sua sorella Suor Antonia di San Francesco Monaca Scalza di Santa Teresa e dedicato a D. Consalvo de Rueda Vescovo di Gallipoli con, a seguire, la sempre consueta processione di titoli.

Il dettaglio che avevo preannunciato è collocato, fatto anche questo più che normale nella parte che precede il testo vero e proprio e che contiene quelle che possono essere delle vere e proprie recensioni, tutte, allora come ora …, estremamente positive. La lunga serie si chiude proprio con quella del vescovo destinatario, che di seguito riproduco e traduco.

Al molto reverendo e amato figlio, il suddiacono Giovanni Donato Maritato, Nostro Signore  salvi.

Molto amato figlio, ho letto con gusto particolare il libro che avete composto sul primo capitolo dei cantici divini, la composizione mi è sembrata ammirevole e che sarà diu molta utilità per le persone perfette nella via de Signore e a tutti quelli che pregano. Mi colpisce che tenti di stamparlo e spero che sarà letto con gusto, per la molta varietà di cose che contiene. Nel resto mi rimetto all’opinione di padre Minioti1 vostro confessore e per entrambi chiedo a Nostro Signore la sua santa grazia e felicità. Da Gallipoli 27 maggio 1645. Devotissimo in Cristo Consalvo vescovo di Gallipoli.

 

Sospetto che il giudizio vago e generico del superiore abbia indotto il neritino a riflettere piuttosto a lungo sull’opportunità di continuare, perché a quasi sette mesi dopo (1 gennaio 1646) risale il messaggio inviato al Minioti, al giudizio del quale il vescovo, giocando quasi a scaricabarile, si era rimesso. Il Minioti non fece attebdere il suo giudizio evidentemente positivo, perché dopo poche settimane (30 gennaio 1646) Giovanni Donato annunziava al vescovo l’uscita del lavoro confermandone la dedica che si legge nel frontespizio. Tutti i messaggi cui fino ad ora ho fatto riferimento sono riportati nelle pagine iniziali del libro.

Se, in fondo, il legame del Maritato con la Spagna può essere ricondotto alla sfera più o meno burocratica della scontata riverenza ad un superiore, meno scontato, anche se non originale (ma scientificamente ineccepibile), appare il metodo seguito, che, come ha rilevato Bruno Pellegrino: Juan de la Cruz riporta le citazioni scritturali prima in latino e poi, tout de suite, le traduce, chiosandole secondo il contesto. Medesima prassi in Giovanni Maritato …2.

Oltre a Le divine corrispondenze il neritino pubblicò tre altre opere, delle quali riporto gli estremi bibliografici:

Sacro gioiegliere dell’anima devota, incastonato d’alcuni Spitituali Opuscoli. Del Reverendo D. Gio. Maritato di Nardò Sacerdote Teologo,  Pietro Micheli, Lecce, 1656

Lucido specchio ò vero Celesti inviti dell’anima, alla christiana perfettione. Di Gioan Donato Maritato. Sacerdote, e dott. teologo della congreg. de chierici ritirati dal secolo, Zannetti, Bari, 1665-

Svegliatoio de’ tiepidi al divino amore. Overo Meditationi divotissime dell’appassionato, morto, e redivivo Giesu amor nostro, coll’aggionta d’un breve modo di confessarsi, … Operetta composta per commune utilita da Gio. Donato Maritato dr. teologo, prete della vita commune, e dedicata all’ill.ma sig.ra d. Maria Celestina Caraffa, Heredi del Valeri, Trani, 1667

Si tratta di titoli ancor più rari di quello prima presentato: dei primi due è reperibile, per ciascuno, solo un esemplare custodito presso la Biblioteca “Roberto Caracciolo” di Lecce, del terzo sempre un solo esemplare presso la Biblioteca “Nicola Bernardini” di Lecce.

Anche questi titoli contengono preziose informazioni sull’autore: il Suddiacono della prima pubblicazione del 1646 è alla data del 1656 Sacerdote Teologo, a quella del 1665 Sacerdote, e dott. teologo della congreg. de chierici ritirati dal secolo e quella del 1667 dr. teologo, prete della vita commune.  L’abbandono dello stato laicale, inequivocabilmente attestato dal titolo del 1665. Tuttavia, doveva essere avvenuto già nel 1659, quando le monache  del monastero delle Carmelitane scalze di Bari incaricarono il neritino della stesura di una biografia della consorella Francesca Teresa, indispensabile per  preparare il processo informativo.  L’operazione non andò in porto, ma resta la relazione redatta dal nostro nell’ACDF (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (S. O. St. St., B4   fasc. 25)  col titolo 1659 et sequent. Circa impressionem Vitae compositae a sacerdote Ioanne Donato Maritato, sororis Franciscae Theresae a Iesu Maria Carmelitana Excalceatae Monasterii Barensis ad instantiam Sororum dicti Monasterii.

Probabilmente la lettura delle ultime tre pubblicazioni citate avrebbe aggiunto altri dati alla biografia del nostro. Purtroppo solo il Sacro gioiegliere è reperibile in rete (digitalizzazione dell’unico esemplare prima ricordato) e, essendo impossibilitato a muovermi, faccio con questo la stessa operazione fatta con Le divine corrispondenze, lasciando a chi ne ha tempo e voglia ulteriori indagini sul campo. Prima, però, invito ad una riflessione sulla parte iniziale dei tre titoli (Le divine corrispondenze tra l’anima orante e Dio/Sacro gioiegliere dell’anima/Lucido specchio ò vero Celesti inviti dell’anima/Svegliatoio de’ tiepidi al divino amore): a parte la parole-chiave anima, assente solo nell’ultimo, spiccano nel loro immaginifico valore metaforico, quasi in un climax ascendente, gioiegliere, specchio e svegliatoio, anche se specchio ha un famoso precedente nello Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti (sec. XIV) e svegliatoio sara ripreso da Antero Maria da San Bonaventura (al secolo Filippo Micone) in Svegliatoio de’ sfaccendati, e stimolo d’affaccendati per ben’impiegare il tempo, resultanti da prattiche meditationi, fondate in vere ragioni, autorità di Sacre Scritture, sentenze de’ Padri, e familiari similitudini, Franchelli, Genova, 1679.

Campeggia lo stemma della famiglia Marescallo3 , come conferma la dedica.

 

Ogni tentativo di ricostruire quel tessuto di generazioni che il tempo inevitabilmente logora e molto spesso distrugge è puramente velleitario, se non è suffragato almeno da indizi. Nel nostro caso uno di pura partenza potrebbe essere il cognome Maritati4, a Nardò ancora abbastanza diffuso, nonché l’omonimo palazzo. E non è detto che un’indagine mirata negli archivi notarili non riesca a ricostruire la trama temporale e ad aggiungere a questa nota bibliografica qualcosa in più su Giovanni Donato.5

__________________

1 Giovanni Maria Minioti, teatino di Lecce, autore di Vita del virtuoso, e laudabile giouane Tomaso Perrone gentil’huomo della citta di Lecce, Micheli, Lecce, 1641 (ristampa per i tipi della Stamperia Simoniana, Napoli, 1757). Notizia di un suo manoscritto è in Gioacchino Di Marzo, I manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo, Stabilimento tipografico Virzi, Palermo, 1878, v. III, p. 136 (di seguito la relativa scheda).

2 Bruno Pellegrino, Giovanni Maritato, un mistico sanjuanista del Seicento tra Salenrto e Spagnam in Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e nuovo mondo (secoli XV-XVII), Associazione italiana per lo studio dei santi dei culti dell’agiografia Congresso internazionale (5 : 2003 : Lecce), Congedo, Galatina, 2009, p. 475

3 “MARESCALLI di Lecce. Detti pure Marescalchi e Mariscalchi … I Marescalli ebbero il marchesato di Arnesano ed i feudi di Lequile, Pisanello, Pisignano, Ripacandida, Strudà, Maglie, Surano, Vanze, Castrignano. ARMA: Scaccato d’oro e d’azzurro.” (G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Direzione del Giornale araldico, Pisa,  1886, v. I, p. 79, alla voce Marescalli)

4 È assolutamente irrilevante la differenza tra Maritato e Maritati. Tale alternanza, salvo rarissime eccezioni sempre in agguato e di non facile individuazione, è dovuta alla latinizzazione del cognome (al singolare) alternata (al plurale) ad indicare collettivamente la famiglia. Emblematico, a tal proposito, per restare a Nardò, Tafuro/Tafuri.

5 Da Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo Galatina, 1999:

Chiesa abbazia della B. V. del rosario e dei santi Bartolomeo e Marcello papa nel pittagio S. Paolo in via Angelo Delle Masse, distrutta. Fu edificata nel 1629 tra il cortile di Scipione Però e di Domenico Maritati … (p. 69)

Chiesa dell’Angelo custode nel pittagio S. Paolo, oggi via Angelo Custode, profanata. Fu costruita tutta in muratura nel 1676 o 1677 dal sacerdote Vincenzo Maritati, che trasmise il diritto di patronato ai suoi eredi … (p. 71)

Chiesa di S. Anttonio dei Bellotti nel pittagio S. Paolo, crollata … nella visita del Lettieri (1830) vi celebra Michele Maritati … (p. 99)

Sarà puramente casuale il fatto che i Maritati qui ricordati gravitano tutti nell’antico pittagio S. Paolo, lo stesso in cui è sito il ricordato palazzo?

Brandici. La più antica e rara mappa di Brindisi, che Brindisi non conosce

di Vito Ruggiero

Ritrovata una carta topografica storica di Brindisi fino ad ora completamente sfuggita in tutte le pubblicazioni locali, nei cataloghi e nelle raccolte che negli ultimi decenni hanno elencato e passato in rassegna meticolosamente tutta la cartografia storica della città di Brindisi e del suo porto.

Un appassionato studioso e collezionista di cartografia storica brindisina, Vito Ruggiero, l’ha scoperta sul web nel catalogo di una galleria specializzata nella vendita di incisioni di antichi maestri e cartografia rara, e successivamente l’ha studiata in modo molto approfondito fino al punto di dedicarle un libro.

L’opera è una silografia della prima metà del XVI secolo, su carta vergata coeva delle dimensioni di 40×30 cm, e fa parte della produzione e diffusione cartografica a stampa veneziana, giunta fino ai nostri giorni in perfetto stato di conservazione.

Il ritrovamento è straordinario per la città di Brindisi, perché la stampa in questione è la rappresentazione della città più antica e rara ad oggi conosciuta, pervenuta fino ai nostri giorni in un unico esemplare.

Un documento prezioso, molto antico e rarissimo, che poche città possono vantare e che, per ironia della sorte, Brindisi ignora di possedere in quanto non risulta citata in alcuna pubblicazione locale.

Lo straordinario documento ci racconta che, nell’anno 1538, l’armata dell’ammiraglio Andrea Doria ancorava nel porto di Brindisi dopo gli eventi della battaglia di Prevesa. Una precisa testimonianza di un evento realmente accaduto ai tempi delle battaglie navali tra la Lega Santa e l’impero ottomano.

Il 28 settembre 1538 una flotta cristiana della Lega Santa (la coalizione militare voluta da papa Paolo III per contrastare l’invadenza navale ottomana nel Mediterraneo, e sottoscritta nel febbraio di quell’anno da Spagna, Repubblica di Genova, Repubblica di Venezia ed i Cavalieri di Malta) era finalmente riuscita a bloccare il Barbarossa nel canale di Corinto presso Prevesa. La battaglia di Prevesa avrebbe probabilmente avuto un esito diverso, risolvendo definitivamente i problemi creati da Khayr al-Din Barbarossa, se Doria, ritiratosi dal combattimento, non avesse lasciato campo libero al corsaro ottomano. Lo sganciamento operato dall’ammiraglio era giustificato dalle difficoltà di manovra, per la mancanza di vento, dei velieri cristiani e in particolare della poderosa nave ammiraglia Galeone di Venezia, contrapposti all’agile e veloce naviglio avversario.

Il titolo nel cartiglio di destra riporta il nome Brandici, come veniva chiamata a quel tempo la città dai veneziani.

Nel cartiglio di sinistra invece si legge: EL. VER. SITO. DI. BRANDICI. IM PUGLIA. STAMPATO IN VENETIA. PER. FRANCESCO. LIBRA[RIA] DALA. SPERANZA. A. M.DXXXVIII.

La tavola è firmata da Francesco Tommaso di Salò nel 1538, un tipografo attivo a Venezia che lavorò quasi sempre con soci non identificati e del quale si hanno poche notizie. Si firmava con l’imprint In Venetia: per Francesco de Tomaso di Salo e compagni, in Frezzaria, al segno della Fede. Il suo nome appare su ristampe delle opere di Matteo Pagano, del quale probabilmente acquisì la tipografia.

L’opera fu ritrovata nel 1987 dallo studioso ungherese Tibor Szathmáry presso il mercato antiquario di Arezzo in una piccola raccolta di silografie del 500, tutte rarissime e mai conosciute prima. La tavola era parte di una piccola raccolta di incisioni silografiche firmate da Matteo Pagano, Giovanni Andrea Vavassore e Francesco Tommaso di Salò.

Subito dopo il ritrovamento però la tavola finì all’estero, e successivamente la raccolta fu dispersa in varie aste. Quella di Brindisi fu parte della famosa collezione privata del noto politico tedesco Fritz Hellwig e solo di recente è riapparsa, prima in un catalogo di una casa d’asta e poi in quello di una galleria specializzata. Attualmente fa di nuovo parte di una collezione privata.

La bibliografia sulla quale Vito Ruggiero ha potuto fare riferimento per i suoi studi è estremamente limitata. In Italia la tavola è descritta nella monumentale opera di catalogazione Cartografia e topografia italiana del XVI secolo, edito da Edizioni Antiquarius nel 2018, a cura di Stefano Bifolco e Fabrizio Ronca, due tra i più noti studiosi e massimi esperti internazionali di cartografia storica cinquecentesca italiana.

L’opera è conosciuta solo attraverso questo esemplare che, per la prima volta, Szathmáry pubblica nel primo numero di Cartographica Hungarica del 1992. Successivamente, nel 1994, Rodney Shirley la cita nell’articolo “Rare Italian Woodcut Maps of the Sixteenth Century” sulla rivista specialistica IMCoS – Journal of the International Map Collectors Society, n°58.

Con i suoi dettagli, la tavola ci rende una immagine sconosciuta di Brindisi nel Cinquecento che Vito Ruggiero ha voluto studiare approfonditamente, avendo anche avuto l’opportunità di visionare personalmente l’esemplare unico.

Lo studio è durato più di un anno ed ha riguardato gli avvenimenti collegati al suo ritrovamento, il contesto storico con particolare riferimento alla battaglia di Prevesa ed alle successive imprese di Andrea Doria, la scarsa bibliografia esistente ed ovviamente gli aspetti topografici locali.

Gli elementi ed i dettagli raccolti sono stati talmente interessanti e numerosi che Vito Ruggiero ha deciso di raccoglierli in un libro autopubblicato in questi giorni, scritto senza scopo di lucro al solo fine di farla conoscere nel migliore dei modi ai brindisini, sperando di stimolare gli storici a studiarla ulteriormente.

L’auspicio dell’autore è che questo storico ed importantissimo documento della città abbia tutta la rilevanza e l’attenzione che merita, da parte degli studiosi di storia locale, delle associazioni culturali e soprattutto delle istituzioni locali.

Con l’augurio che un giorno possa ritornare “a casa” per mettersi in mostra a Brindisi davanti ai suoi abitanti.

Segue la riproduzione fotografica dell’opera ed il link della pubblicazione.

 

 

Contenuti multimediali di supporto al giornalista

Link al libro: Brandici di Vito Ruggiero | Cartaceo (youcanprint.it)

 

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Libri| Pietro Marti e i suoi tempi

Pietro Marti e i suoi tempi. Atti dell’Incontro di Studi (Casarano di Lecce, 21 aprile 2023), a cura di Fabio D’Astore e Paolo Vincenti.

 

È stato presentato Martedì 23 aprile, presso l’ex Convitto Palmieri a Lecce, il volume Pietro Marti e i suoi tempi (pp. 222, Giorgiani editore), che raccoglie gli Atti dell’Incontro di Studi svoltosi a Casarano il 21 aprile 2023.

Come ha acutamente sottolineato Mario Spedicato nella Presentazione, il volume, che si incastona al n. 121 della Collana Cultura e Storia, magistralmente diretta dallo stesso Spedicato, rappresenta una prima e significativa tappa di un più ampio progetto che dovrà essere sviluppato tenendo insieme «gli interessi plurimi, le particolari attitudini e la ricca oltre che variegata fertilità letteraria» del Marti (Ruffano di Lecce 1863 – Lecce,1933).

Nei vari contributi, gli studiosi (P. Vincenti, E. Inguscio, L. Marrella, L. Montonato, A. Laporta, A.L. Giannone), con rigore e metodo, hanno rivolto le loro attenzioni alla multiforme e prolifica attività scrittoria (letteraria, giornalistica, critica) dell’intellettuale di Ruffano, senza trascurare al contempo la funzione, attiva e costante, da lui svolta nell’ambito della temperie culturale, civile e politica tra fine ‘800 e primo trentennio del ‘900.

Impreziosiscono il volume due saggi dedicati a due dei numerosi fratelli di Pietro: Luigi, fecondo poeta e scrittore, a firma di Fabio D’Astore, e Raffaele, insigne naturalista, la cui intensa attività didattico-scientifica viene puntualmente analizzata da Ennio De Simone.

Di seguito la Prefazione del libro.

Il 21 aprile del 2023, novant’anni dopo la scomparsa di Pietro Marti (1863-1933), il Comitato di Casarano della Società Dante Alighieri, in collaborazione con la Sezione di Lecce della Società di Storia Patria e con il Liceo Docet di Casarano, ha organizzato un Incontro di Studi intitolato Pietro Marti. Un intellettuale inquieto tra Otto e Novecento. L’evento, più che la pretesa di affrontare nel suo complesso la cospicua produzione letteraria, giornalistica, critica di Marti, aveva l’obiettivo di sottoporre a rigoroso esame critico alcuni aspetti della multiforme e prolifica attività scrittoria dell’intellettuale di Ruffano e la funzione, attiva e costante, da lui svolta nell’ambito della temperie culturale, civile e politica tra fine Ottocento e primo trentennio del Novecento: a partire da una ricognizione degli studi finora dedicati all’intellettuale di Ruffano, necessaria per cercare di emendare le non poche inesattezze contenute in tali studi e, quindi, suggerire nuove prospettive d’indagine.

Nel corso dell’incontro, coordinato da Mario Spedicato, Presidente della Sezione di Lecce della Società di Storia Patria, si sono succedute le relazioni di Paolo Vincenti, Ermanno Inguscio, Alessandro Laporta, Luigi Marrella, Luigi Montonato, Lucio Giannone, Fabio D’Astore e Ennio De Simone; queste ultime due hanno riguardato rispettivamente l’attività letteraria di Luigi Marti e la produzione scientifica di Raffaele Marti, due dei numerosi fratelli di Pietro. A quest’ultimo, autore di saggi d’argomento vario, fondatore e direttore di numerose testate giornalistiche, rinomato conferenziere, impegnato docente e dirigente scolastico, instancabile promotore culturale, sono state rivolte le attenzioni degli studiosi, ai fini di una più attenta e ravvicinata rivisitazione della sua parabola esistenziale e intellettuale. Ora le relazioni di quell’incontro, seguito da un attento e folto pubblico, sono raccolte in questo volume di Atti.

Nel saggio d’apertura, intitolato Pietro Marti: profilo bio-bibliografico, Paolo Vincenti ricostruisce la parabola esistenziale del Marti, avviando nel contempo anche un’accurata ricognizione della sua produzione; operazione faticosa, talvolta per la difficile reperibilità delle fonti, più spesso per le non poche inesattezze e/o approssimazioni dei repertori esistenti.

Ermanno Inguscio, nel suo agile contributo, intitolato Pietro Marti e la scuola. Il maestro-professore, il dirigente scolastico nel Polesine ed in Puglia tra Otto e Novecento, ripercorre le fasi legate all’attività professionale del Marti, a far data dal 1879.

Luigi Marrella, nel suo intervento, intitolato Pietro Marti e gli «Almanacchi» di Gregorio Carruggio, ricostruisce il sodalizio Marti-Carruggio sulla base della collaborazione del primo agli «Almanacchi» compilati dal Carruggio e di quest’ultimo alla rivista «Fede», fondata e diretta dal Marti.

Dal canto suo, Luigi Montonato in Pietro Marti. Giornali e polemiche nel Salento fascista analizza a fondo il complesso e non di rado spigoloso rapporto del Marti con il regime fascista nella prima metà degli anni Trenta, evidenziando il conflitto interiore dell’intellettuale di Ruffano scaturito da una sorta di ‘condivisione formale’ del fascismo.

Il contributo di Alessandro Laporta, Il sodalizio Marti-Bortone: scrittura e scultura, propone un’interessante ricostruzione del duraturo e proficuo rapporto amicale e culturale stabilitosi tra i due concittadini: Antonio Bortone, scultore di fama, e Pietro Marti, rinomato giornalista e scrittore.

Nel denso e acuto contributo «Una chiara comprensione e affettuosa bontà»: Pietro Marti e Vittorio Bodini, Antonio Lucio Giannone ricostruisce con dovizia di documentazione e con la consueta acribia il ‘complicato’ ma affettuoso rapporto tra il nonno (Pietro) e il nipote (Bodini), che del nonno serberà sempre grata memoria, pure con riferimento alla «passione per la propria terra».

Fabio D’Astore, nel saggio Luigi Marti poeta analizza la produzione poetica di uno dei fratelli di Pietro, Luigi, prolifico scrittore in prosa e in versi. Le tre raccolte, pubblicate nel corso di oltre un decennio e oggetto del contributo che appare in questo volume, recano testimonianza del percorso poetico, umano e intellettuale compiuto da Luigi Marti.

Chiude il volume un interessantissimo saggio di Ennio De Simone, intitolato Raffaele Marti (1859-1945): un naturalista outsider salentino, nel quale l’autore esplora l’intensa attività didattico- scientifica di un altro fratello di Pietro, Raffaele, con specifica attenzione alle pubblicazioni riguardanti «gli aspetti naturalistici del Salento».

Donne di potere nell’Alto Medioevo

di Paolo Vincenti

Nel libro Donne di potere nell’Alto Medioevo. Elena-Teodora-Irene-Marozia[1], ci si occupa di quattro donne di potere, tre delle quali, Elena, Teodora e Irene, sono state fatte sante.

La domanda che si pone nella Premessa è come mai queste donne, protagoniste del volume, dalla dubbia moralità, ree di congiure di palazzo, epurazioni ed assassinii, siano potute essere santificate. Ma gli interrogativi sulle modalità di santificazione vengono facilmente fugati se si dà un’occhiata prospettica alla letteratura di settore, in parte già elencata nel volume stesso[2]. Come poi questi culti siano giunti in Italia e assorbiti anche dai nostri calendari romani, non è difficile immaginare se si tiene conto dei proficui rapporti commerciali fra le due sponde del Mediterraneo e ancor di più del profondo scambio culturale che a cavallo del secolo Mille diventa quasi osmotico, in particolare fra l’Italia meridionale e Bisanzio[3].

Siamo a cavallo fra due mondi caratterizzati da riti e culti diversi che però con la dominazione bizantina si compenetrano fra loro. In particolare, con lo scisma del 1054, le due chiese, invece di dividersi definitivamente, si ritrovano, anche se ciò può sembrare paradossale.

La cultura greca è profondamente radicata nel Meridione d’Italia e in questa sedimentazione sono da ritrovare le origini di molti culti come per esempio quello di Sant’Irene a Lecce, di San Cataldo a Taranto, di San Teodoro a Brindisi.

Mario Spedicato sottolinea il ruolo centrale svolto dal mare nell’alimentare i traffici e gli scambi di varia natura fra i due mondi, quello bizantino orientale e quello latino occidentale. Anche se le varie città di Puglia, Basilicata, Calabria seguono protettorati diversi, questo, scrive Spedicato, “non oscura i segni di una presenza bizantina a lungo predominante […], segni che, per restare solo alle superstiti tracce artistiche, richiamano con pochissime eccezioni quasi sempre il culto dei santi di origine orientale, come a Lecce che si affida alla protezione della santa di Tessalonica [Irene]”[4].

A proposito della beatificazione di Elena, madre di Costantino, Teodora, moglie di Giustiniano e Irene, Imperatrice di Costantinopoli, ci si è chiesto come si possa essere giunti alla santificazione di donne e uomini di potere che certo modello di una specchiata moralità non erano. Eppure, nonostante alcuni regnanti abbiano fatto dell’intrigo, della corruzione politica e finanche del delitto la propria cifra, essi sono saliti agli onori degli altari e la chiesa occidentale ha accettato ed incluso nei propri calendari religiosi certe beatificazioni. È sicuramente una forte contraddizione, un alternarsi di intransigenza e compromessi. Del resto, «ogni processo di acculturazione necessita in realtà di questa mescolanza di rigorismo e di lassismo.

Nella sua ultima opera, il filosofo Jacques Maritain si servì del concetto di “inginocchiarsi di fronte al secolo” per designare il comportamento ambiguo della Chiesa di fronte ai valori non cristiani, che rispetta fino a capitolare di fronte a loro»[5].

Se non vogliamo in questa sede riprendere una simile riflessione, ci basti d’altro canto aver instillato nel lettore, su un argomento così spinoso, la curiosità per approfondirlo.

 

Note

   [1] Paolo Vincenti, Donne di potere dell’Alto Medioevo. Elena-Teodora-Irene-Marozia, Lecce, Capone, 2024.

[2] In aggiunta alla bibliografia indicata nel libro: Agiografia altomedievale, a cura di S. Boesch Gajano, Bologna, 1976; R. Grégoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, Fabriano, 1987; C. Leonardi, I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica al medioevo, in Passaggio dal mondo antico al medioevo. Da Teodosio a San Gregorio Magno. Atti dei Convegni Lincei, 45, Roma, 1980, pp. 435-476; Idem, Il problema storiografico dell’agiografia, in Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità. Atti del Convegno di Studi (Catania 20-22 maggio 1986), a cura di S. Pricoco, Soveria Mannelli, Rubettino, 1988, pp. 13-23; S. Boesch Gajano, Le metamorfosi del racconto, in Lo spazio letterario di Roma antica, III, La ricezione del testo, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, Roma, 1990, pp. 217-243; Eadem, Tra bilanci e prospettive, in «Cassiodorus», n. 2, 1996, pp. 231-242; Eadem, L’agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, XLV Settimana di Studio del CISAM (3-9 aprile 1997), Spoleto, 1998, pp. 797-843; G. Philippart, Le manuscrit hagiographique latin comme gisement documentaire. Un parcours dans les “Analecta Bollandiana”, in Manuscrit hagiographiques et travail des hagiographes, a cura di M. Heizelmann, Sigmaringen, 1992, pp. 17-48; Idem, Martirologi e leggendari, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo Latino, II, La circolazione del testo, a cura di Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò, Roma, 1994, pp. 605-648; Idem, Hagiographes et hagiographie, hagiologues et hagiologie: des mots et des concepts, in «Hagioghraphica», n. 1, 1994, pp. 1-16; Idem, Pour une histoire générale, problématique et sérielle de la littérature et de l’édition hagiographiques latines de l’antiquité et du moyen âge, in «Cassiodorus», n. 2, 1996, pp. 197-213.

[3] Sull’importazione di santi e culti orientali in Occidente: Oriente cristiani e santità. Figure e storie di santi tra Bisanzio e l’Occidente (Biblioteca Nazionale Marciana, 2 luglio-14 novembre 1998), a cura di S. Gentile, Roma, 1998; Pasquale Corsi, Ai confini dell’impero. Bisanzio e la Puglia dal VI all’XI secolo (Terzo Millennio. Collana di Fonti e Studi storici, 2), Bari, 2003; G. Luongo, Itinerari di santi italo-greci, in Pellegrinaggi e itinerari dei santi nel Mezzogiorno medievale, a cura di G. Vitolo, Napoli, 1999, pp. 129-163; G. Vitolo, Santità, culti e strutture socio-politiche, Ivi, pp. 23-38; Idem, Il mezzogiorno come area di frontiera, Ivi, pp. 11-20. J. Durand, Reliquie e reliquiari depredati in Oriente e a Bisanzio al tempo delle Crociate, in Le Crociate. L’Oriente e l’Occidente da Urbano II a San Luigi. 1096-1270, Catalogo della Mostra, a cura di M. Rey-Delqué, Milano 1997, pp. 378-389; A. Benvenuti, Le leggende d’Oltremare: reliquie, traslazioni, culti e devozioni della Terrasanta. Il processo di sacralizzazione dell’Occidente medievale, in Il cammino di Gerusalemme, Atti del II Convegno Internazionale di studio (Bari- Brindisi- Trani, 18-22 maggio 1999), a cura di M. S. Calò Mariani, Bari, 2002, pp.529-546; I Santi venuti dal mare, Atti del V Convegno Internazionale di studio (Bari-Brindisi, 14-18 dicembre 2005), a cura di M. S. Calò Mariani, Bari, 2009; S. Di Sciascio, Reliquie e reliquiari in Puglia fra IX e XV secolo, Galatina, 2009; Maria Stella Calò Mariani, Tesori sacri venuti dal mare, in «Archivio Storico Pugliese», n. LXXIII, Società Storia Patria Puglia, Bari, 2020, pp. 7-80; Dubravka Preradovic´, Donato Di Zara, Teodosio di Oria e le traslazioni delle reliquie nelle città bizantine dell’Adriatico nel IX secolo, in Bisanzio sulle due sponde del Canale d’Otranto, a cura di Marina Falla Castelfranchi, Manuela De Giorgi, CISAM, Spoleto, Byzantina Lupiensia 3, 2021, pp. 87-111.

[4] Mario Spedicato, Una santa di frontiera. Il protettorato di S. Irene a Lecce tra Medioevo ed Età Moderna, in «Itinerari di ricerca storica», Università del Salento, Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età contemporanea, n. XX-XXI, Primo Tomo, 2006-2007, p. 257. Si veda: A Ovest di Bisanzio. Il Salento Medioevale (Atti del Seminario Internazionale di Studio, Martano, 29-30 aprile 1988), a cura di Benedetto Vetere, Galatina, Congedo, 1990.

[5] Michel Rouche, L’Alto Medioevo occidentale, in Philippe Ariès e Georges Duby, La vita privata dall’Impero romano all’anno Mille, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 416.

Sulla storia delle confraternite a Copertino

Copertino, chiesa matrice, sagrestia, particolare della tela del SS.mo Sacramento (foto Fabrizio Suppressa)
Sabato 4 maggio alle 19:00, presso la libreria Mondadori Point in piazza Venturi (Lago Rosso) a Copertino, si terrà un incontro sulla storia delle confraternite a Copertino, a cura di Davide Elia, Giovanni Greco e Fabrizio Suppressa.
Dalla loro genesi all’importanza socio-religiosa raggiunta nei secoli, le Confraternite si sono caratterizzate soprattutto per i loro scopi caritatevoli finalizzati alla salvaguardia della dignità umana.
Tra il XVI e il XX secolo a Copertino se ne costituirono in tutto dieci. Nessuna di queste, però, è riuscita a sopravvivere.
A tal proposito si può parlare di un vero e proprio “caso Copertino”, costituito dal fatto che – a differenza di gran parte dei comuni circostanti – questi sodalizi sono tutti scomparsi nell’ultimo secolo.
Perché si estinsero? Quali erano le loro prerogative e tradizioni? Chi furono i protagonisti? Cosa è rimasto della loro presenza? Quanto incisero sul piano economico?
Tutto questo verrà raccontato, in modo snello e accattivante, attraverso un’intensa ricerca condotta su numerosi atti notarili e nelle principali sedi archivistiche.
Il racconto dovrà per forza di cose intrecciarsi anche con i luoghi che ospitarono queste congreghe e che spiccano tuttora nel panorama artistico cittadino.

L’incontro rappresenterà pertanto un momento per condividere tracce di storia e di arte della città di Copertino.

Copertino, chiesa matrice, particolare della tela della Pietà dello Strafella con un confratello (foto Fabrizio Suppressa)

LECCE-RESTO DEL MONDO 1-0. Un rarissimo libro stampato a Lecce nel 1644

di Armando Polito

Chi qualcosa che ha a che fare con la sfera/del calcio di leggere crede o spera,/lasci perdere, abbandoni la lettura/e cerchi altrove su magia e fattura/o tra tanta scelta succulenta e varia,/l’attenzione volga all’arte culinaria.

Dopo questo aulico inizio presento il protagonista assoluto di questa storia. Sarà  l’unico, o quasi, del quale  le sembianze sono a portata di occhio e, volendolo, pure a portata di mano, anche se bisognerebbe affrontare un viaggio all’estero e, probabilmente anche lì, difficoltà burocratiche di non poco conto. Ne basta e avanza, tuttavia, la conoscenza solo virtuale, com’è successo a me per puro caso. Nel compilare un catalogo di tutte le pubblicazioni reperibili di un editore del passato arcinoto ai bibliofili salentini, mi sono imbattuto nell’opera che mi accingo a presentare, cominciando dal frontespizio.

 

A differenza delle copertine di oggi, che con immagini di facile, direi rozza, presa ed espedienti grafici tentano spesso di vendere il nulla, lasciando alla controcopertina la funzione di divulgare mirabolanti dati sulla vita ed eventuali altre opere dell’autore, i frontespizi dei secoli passati, grazie alla loro spesso chilometrica estensione, contenevano una serie di informazioni che, insieme con quelle presenti nelle dediche, avvisi al lettore e imprimatur, rappresentano una fonte preziosa per qualsiasi approfondimento di carattere storico e non solo. Per questo motivo mi soffermerò sui dettaglio principali.

ARISMETICA GUARISMA1

È la prima avvisaglia che il libro in questione è in spagnolo e potrebbe essere tradotto con Operazioni aritmetiche. Arismetica è voce del latino medioevale (a sua volta dal greco ἀριθμητική, leggi arithmetichè), madre di aritmetica e guarisma è dal latino medioevale algorithmus (a sua volta dall’arabo al-Khuwārizmī =originario della Corasmia, appellativo del matematico arabo del IX secolo Muḥammad ibn Mūsao), da cui algoritmo. Il carattere, se non scientifico almeno tecnico, del libro si definisce meglio con quel che segue.  

En la qual se muestra el uso manual de las siete reglas maestras de saber hazer todas las que se reduzen a cuenta, con la variedad que ay de hazerse Contractation Mercantil de compras, y ventas de mercaturias en varios Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa, Remisiones de dinero por via de Cambios, Ajustamiento de ellos. Estilo de hazerse Pesos, y medidas, valor de monedas en ellos, Fundazion de Banco, Negoziazion de el.   

DIVIDIDO EN QUATRO PARTES POR FRANZISCO OCHOA de Samaniego de la Zuidad de Vitoria, Caveza de la Provinzia de Alaba.

(nella quale si mostra l’uso manuale delle sette regole maestre di saper fare tutto ciò che si riduce a conto, con la varietà con cui si può fare contrattazione mercantile di compravendita e vendita di merci in vari regni e provincie di Europa, Asia, Africa, rimesse di denaro attraverso il cambio, loro regolazione. Modo di variare pesi e misure, valore delle misure in essi, fondazione di banca, sua negoziazione. Diviso in quattro parti, di Francisco Ochoa di Samaniego della città di Vitoria, capitale della provincia di Alava.

Nulla da allora è cambiato nelle toponomastica (a parte Alaba, oggi Alava), ma di Francisco Ochoa nulla son in più rispetto a quanto riportato nel frontespizio son riuscito a sapere.

 

Questa sorta di anonima e primitiva marca editoriale appare come frutto di un sincretismo politico-religioso, con la commistione tra potere temporale (l’aquila degli Asburgo, la casa di Filippo IV all’epoca re di Spagna e di Napoli e potere spirituale (il cristogramma, logo dei Gesuiti, nello scudo). Una o l’altra delle due componenti ricorrono separatamente prima e dopo, come mostra la serie di frontespizi che seguono.

 

Tra di loro, però, spicca l’ultimo, in cui sembra campeggiare solo lo stemma dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinal d’Aragonam dedicatario della pubblicazione in onore dell’Augusto Monarca Filippo IV il Grande, che era deceduto nel settembre dell’anno precedente e celebrate da Monsignor Luigi Pappacoda vescovo di Lecce. C’è, però, un trucco con cui l’editore sembra salvare, come in Arismetica, capra e cavoli (il morto, ormai …) perché lo stesso  frontespizio ci informa che il detto cardinale era pure Vicere (sic!) di Napoli e Capitano generale di questo Regno.

Passo all’ultimo dettaglio.

EN LECHE, MDCXXXXIIIII Por Pedro Micheli, y Nicolao Fran çisco Russo  Con Licencia de los Superiores

(In Lecce, 1644 di Pietro Micheli e Nicola Francesco Russo Con licenza dei Superiori)

Le tenebre che avvolgevano il titolo del post cominciano a diradarsi: dopo quel Resto del mondo che all’epoca poteva essere ben rappresentato dal potere degli Asburgo, affiora il nome di Lecce e quello di Pietro Micheli.

Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, entrato giovanissimo in Italia, lavorando prima a Roma come tipografo apprendista presso Lorenzo Valeri, con il quale nel 1619 si trasferì a Trani, dove lavorò come allievo e socio. Sciolta la società, a Bari nel 1629 pubblicò Nuova, et facil prattica di abaco, per trovare ogn’uno il conto suo, di quello che guadagnerà à ragion di mesi, giorni, et anni, secondo che più accade in uso di Giulio Della Gatta (sul frontespizio lo stemma della città di Bari sormontato da San Nicola di Myra e a carta A12r ancora un’immagine del santo, a riprova dell’originarietà, l’originalità è altro, delle scelte che ho messo in risalto nei frontespizi prima presi in considerazione).

Dopo una parentesi di nove mesi in cui stampò in società col bresciano Giacomo Gaidone, iniziò nel 1631 la sua attività che, con monopolio assoluto, continuò fino al 1688.

L’Arismetica, stampata nel 1644, appartiene alla sparuta serie (non più di cinque le certe) di pubblicazioni realizzate con Francesco Russo, il suo socio tranese col quale sua figlia Elisabetta si era sposata nel 1643.

Se una parte preponderante delle pubblicazioni del Micheli riguarda la sfera religiosa, l’Arismetica sembra un ritorno nostalgico, mai più ritentato, ai tempi della Nuova, et facil prattica di abaco. Non è dato sapere le circostanze che convinsero lui e il Russo a lanciarsi nell’avventura.

Nulla si sa pure dell’Ochoa, ma doveva essere una figura non di secondo piano, se per raccomandarlo si scomodarono figure di primo piano della burocrazia napoletana del tempo, secondo quanto testimoniato, come da consuetudine, nelle pagine iniziali. Riporto i singoli dettagli, ognuno volta per volta seguito da una breve scheda relativa al personaggio corredata, laddove è stato possibile, di una sua immagine.

Exzelentisimo Señor

Franzisco Ochoa dize a V. E.  que a compuesto un libro de arismetica contratazion de Mercaderes de remisiones de denero por via de cambio, ajustamento de ellos con todos los Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa; Suplica a V. E. mande remitille surrevision a quien fuere servido, paraque visto se le de el Reggio asenso para imprimillo, que en ello rezevira gratia, ut Deus etc.    

Magnificus Alphonsus de Cardenas recognoscat, et in scriptis relationem faciat. Neapoli die 10 Novembris 1642. Casanate Regens.

(Eccellentissimo Signore

(Francesco Ochoa dice a V. E. che ha composto un libro di aritmetica contrattazione di mercanti di rimesse di denaro per mezzo di cambi, loro aggiustamento con tutti i regni e provincie d’Europa, Asia, Africa; supplica V. S. che provveda a rimettere la revisione a chi è stato incaricati, perché, una volta visto, gli si dia il regio assenso a stamparlo, che in quello riceverà gratitudine, affinché Dio, etc.

Il magnifico Alfonso de Cardenas ne prenda per iscritto faccia relazione. Napoli 19 novembre 1642. Casanate Reggente)

Il messaggio, dunque, è inviato dal reggente Casanate ad Alfonso de Cardenas.

MATTIA CASANATE Padre meno noto e benemerito di Girolamo, alla cui munificenza si deve la nascita della biblioteca romana che da lui prese il nome. Dopo essersi stabilito a Napoli nel 1619, Matteo fece carriera nell’amministrazione (presidente della Regia Camera della Sommaria, membro del Collaterale, reggente di cancelleria).

 

 

ALFONSO  DE CARDENAS (1592-1666) 6° marchese di Laino e conte d’Acerra.  L’immagine è tratta da Gregorio Leti, Historia, e memorie recondite di Oliviero Cromvel, Pietro e Giovanni Bòaeu, Amsterdam, 1692.

La risposta giunse dopo appena due giorni (oggi, invece, nell’era della digitalizzazione …):

Por mandado de V. E. he visto el libro que refiere el suplicante que he tenido en mi casa muchos dias, y leido todo, y allo segun mis pocas noticias de las materias que contiene, que el facarlo a luz sera de gran util no solo conti ma , pero a todo jenero de Mercaderes, y tratantes, y no tiene materia contra la juridizion Reggia. Napoles 12 de Noviembre 1642. Alfonso de Cardenas. 

(Su mandato di V. E. ho visto il libro cui si riferisce il supplicante, che ho tenuto in casa mia molti giorni e letto tutto e lì secondo le mie poche nozioni sulle materie che contiene il portarlo alla luce sarà di grande utilità non solo ad ogni sorta di conti ma ad ogni genere di commercianti e concessionari e non contiene materia contro la giurisdizione regia. Napoli 12 novembre 1642. Alfonso de Cardenas)

Seguono, infine, le autorizzazioni alla stampa.

Visa retroscripta relatione imprimatur. Tapia Reg. Brancia Reg. Zufia Reg. Sanfelicius Reg. Azcon Reg. Capycius latro Pro Reg. Barilius

                                                            IMPRIMATUR

M. Pijssimus Maceratensis Vic. Gen. Lyciensis.

(Vista la retroscritta relazione, si stampi. Reggente Tapia Reggente Brancia Reggente Zufia Reggente Sanfelice Reggente Azcon Capecelatro per il Reggente.

SI STAMPI

Piissimo di Macerata Vicario Generale di Lecce)

Anche su questi firmatari qualche notizia e immagine, cominciando dalla sfilza di Reggenti del primo decrerto.

CARLO TAPIA (1565-1644), giurista, spagnolo d’origine, napoletano di nascita, autore di parecchie pubblicazioni, reggente del Supremo Consiglio d’Italia, contribuì alla stesura ed all”attuazione di diversi progetti di riforma dell’amministrazione e della giustizia nel Regno di Napoli.  L’immagine che segue è tratta da Caroli Tapiae iureconsulti origine Hispani, ortu Neapolitani commentarius …, Salvio, Napoli, 1676. L’immagine è una stampa custodita nella Biblioteca Nazionale Spagnola a Madrid.

 

 

FERDINANDO BRANCIA Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, dal 1632 duca di Belvedere, Reggente soprannumerario Decano del Collaterale dal 1636 (nell’immagine il suo cenotafio nel Duomo di Napoli).

 

 

DIEGO BERNARDO DE ZUFIA Dal 1640 Reggente subentrato al Casanate e presidente del Sacro Regio Consiglio.

GIOVAN FRANCESCO SANFELICE Conte di Bagnoli,  Principe di Monteverde, Reggente della Gran Corte della Vicaria, autore di Praxis iudiciaria, Napoli, Mollo, 1647 e di Decisiones supremorum tribunalium Regni Neapolitani, Anisson, Lione, 1675. A seguire il suo ritratto in una stampa custodita nell’Österreichische Nationalbibliothek a Vienna.

 

 

FERDINANDO AZCO (o Ascon) Marchese di Torello, reggente di cancelleria in Sardegna e luogotenente della Regia Camera della Sommaria.

ETTORE CAPECELATRO (1580-1654) Giurista, autore di numerose pubblicazioni. Dopo le rivolte della metà del secolo XVII fu inviato in Puglia per ristabilire l’ordine nella dogana di Foggia. Nella scheda a cura di Aurelio Musi nel Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, v. XVIII, 1975 si legge: la condotta del C. nella pratica di questo ufficio non dovette essere irreprensibile, se si deve attribuire un qualche valore alle violente satire che circolavano sul suo conto tra la popolazione pugliese, piene di insinuazioni sui sistemi e sulle fonti di accumulazione della sua fortuna”.  L’autore della scheda, purtroppo, non riporta la fonte di tale gustosa notizia e di essa non v’è la minima traccia nei testi citati in bibliografia. Un vero peccato per uno come me non poter trovare la conferma, se la notizia è fondata (troppo, forse, sarebbe pretendere di rinvenire pure la testimonianza scritta di almeno una di queste composizioni che suppongo di paternità popolare) che non sia passata inosservata, magari da qualcuno un po’ più colto la possibilità di giocare col nome, dando applicazione pratica al detto latino, anch’esso un gioco di parole, nomina omina (i nomi sono presagi). Accanto a Capecelatro, infatti, non è raro trovare la grafia Capece Latro (in latino Capicius Latro, come si legge nell’ovale dell’immagine precedente) e se Latro è  la seconda parte del nome del casato, latro in latino può essere verbo e più precisamente prima persona singolare del presente indicativo di latrare (da cui, tal quale, la voce italiana), ma anche sostantivo e più precisamente nominativo singolare in un vasto ventaglio di significati tra i quali sarà agevole a chiunque individuare quello o quelli più in linea con la stigmatizzata circostanza: soldato mercenario, guardia del corpo, bandito, predone, brigante, ladro, assassino, (detto di animali) predatore, (poetico) cacciatore, pedina nel gioco degli scaccchi. Delle due immagini del Capecelatro di seguito riprodotte la prima è stata reperita su ebay, dov’è descritta come acquaforte di Domenico Gargiulo (1609-1675), come si legge in basso a sinistra; la seconda, invece, è una stampa custodita nell’Österreichische Nationalbibliothek a Vienna.

 

 

GIOVANNI ANGELO BARILIO Compare con la qualifica di segretario, spesso insieme con uno o più dei reggenti qui firmatari,in molti atti consimili di quel periodo.

MARCELLO PIISSIMO DI MACERATA Vicario Generale di Lecce. Lo scioglimento di M. è provato dalla scrittura estesa che si legge in un’altra pubblicazione del Micheli (De Deo trino et uno di Gregprio Scherio)
uscita nel 1644, cioè nello stesso anno di Arismetica. Circa due anni, dunque intercorrono tra l’imprimatur e la stampa. Se si pensa agli intralci burocratici e a certi imprevisti operativi di oggi …

  

Alcuni dei personaggi ricordati compaiono insieme nel decreto principale e in quello integrativo di concessione di privilegi alla città di Napoli dopo i moti del 1646-1647 da parte del vicerè Rodrigo Ponce de León duca di Arcos (), che era il vicerè (li riproduco dall’edizione Caffaro, Napoli, 1647.

L’esame autoptico appena terminato lascia senza risposta ogni domanda relativa al suo autore, a come e per quali vie e da chi il Micheli venne contattato, l’entità della tiratura, che in ragione dell’argomento trattato dovette essere abbastanza limitata rispetto a quella di un testo di carattere religiosoi e finanche letterario, il che spiega la sua quasi unicità più che rarità, visto che al momento reperibili risultano  solo due esemplari, uno custodito presso la biblioteca dell’Universidad Complutense di Madrid e l’altro presso la Biblioteca del Banco de España.

Una cosa, però, è emersa incontrovertibilmente: Lecce, grazie ad una formazione con centravanti-capitano francese riuscì a battere in un solo incontro (!), rispettivamente in casa e fuori, l’editoria napoletana e quella spagnola.

Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Novoli

San Lorenzo da Brindisi garante dell’Ordine dei Cappuccini in un’incisione del 1783 (coll. privata).

 

“Io fra Lorenzo da Santa Maria di Novole, predicatore Capuccino e guardiano”*

 

di Gilberto Spagnolo

Il mio interesse per la Storia di Novoli, anni fa mi portò a svolgere una lunga ma entusiasmante ricerca sul Frate cappuccino “Fratre Laurentio è Sancta Maria de Nove” personaggio novolese per alcuni ritenuto leggendario e assolutamente inesistente ma citato dal letterato galatonese Pietrantonio de Magistris nel concludere la sua introduzione “Lectori” messa innanzi alla vita di Antonio de Ferraris detto il Galateo che pubblicò nel 1624 a fronte della edizione del De Situ Japigiae fatta a Napoli ex Typographia Dominici Maccarani da Antonio Scorrano, arciprete di Galatone.

ANTONII GALATEI, Liber de SITU IAPYGIAE, Basileae Per Petrum Pernam MDLVIII, testo citato nel suo elenco dall’Holstenio (coll. privata).

 

Le mie ricerche portarono invece a risultati concreti e significativi tanto che ne nacque e fu dato alle stampe il libro dal titolo Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove pubblicato con le Edizioni del Grifo nel 1992 e con un’esaustiva introduzione di Mario Cazzato.

Con questo libro veniva definitivamente confermato per via assolutamente documentaria la “sua esistenza controversa” di un uomo di fede com’era giusto che fosse ma anche, e per questo più interessante, uomo di scienza, cartografo autore di una carta di Terra d’Otranto “che a meno di un fortuito ritrovamento dobbiamo tenerla come dispersa o rifusa nel mare magnum dell’enorme produzione cartografica del tempo e seriore (dall’introduzione).

Più dettagliatamente, un documento rintracciato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana dimostra infatti in maniera inequivocabile che quel cappuccino “…Fratre Laurentio è Sancta Maria de Nove”, ricordato dal De Magistris, è veramente esistito, era effettivamente un cartografo autore di una carta geografica di Terra d’Otranto forse andata perduta.

Nel Codice Barberiniano Latino contrassegnato con il numero 3074 vi è un elenco scritto di proprio pugno da Luca Holste (questa è la forma originaria del cognome, latinizzato poi in Holstinius o Holstenius) noto geografo amburghese custode della Biblioteca Barberini, la più grande biblioteca privata di Roma che possedeva tra l’altro un ricco fondo di manoscritti, ma anche “uno dei bibliofili più appassionati che siano mai vissuti” (sono parole dell’Almagià) possessore di una cospicua biblioteca privata in Sant’Onofrio sul Gianicolo.

Si tratta (in sintesi) di un elenco dettagliato di opere relative al Regno di Napoli, un elenco di fonti di riferimento per la sua attività geografica. Nel documento, per la Terra d’Otranto, si ha menzione de “La Cartha della Provincia de Terra d’Otranto fatta da fra Lorenzo di S. Maria Nova Capuccino. In fol. 1617”.

Assieme alla carta di frate Lorenzo, per quanto ci riguarda, è elencato il De Situ Japigiae e il De Situ urbis Gallipolis del Galateo, l’Antichità di Leccie di Peregrino Scardino stampata a Bari nel 1607, il De Antiquitate et varia Tarentinorum Fortuna di Giovanni Giovene stampata nel 1589 a Napoli, opere corografiche di un certo rilievo, all’epoca, per quanto attiene la descrizione di fatti o fenomeni di Terra d’Otranto.

IOANNE IVVENE, De Antiquitate et Varia Tarentinorum Fortuna, Napoli 1589, testo citato nel suo elenco dall’Holstenio (coll. Privata).

 

Che questa carta, menzionata dall’Holstenio in questo documento fosse la Descriptione a cui fa riferimento il De Magistris non possono esserci dubbi. Eravamo più che sicuri che il Galatonese non mentiva e soprattutto che con la parola “edita” intendeva dire come la Descriptione fosse stata realmente impressa (e d’altra parte l’indicazione “in fol.” (in folio) data dall’Holstenio è oltremodo significativa poiché è un termine che veniva riportato sui testi (nel 1500 e nel 1600) per indicare appunto la stampa tipografica di volumi di forma grande quale il foglio piegato. Ma ora lo siamo ancora di più!

Prove ulteriori della sua esistenza e del suo operato, oltre alla citata particola documentaria dell’Holstenio, sono infatti emerse recentemente grazie al monumentale e prezioso lavoro di Rosa Anna Savoia, già direttrice dell’Archivio di Stato di Brindisi, terziaria francescana e studiosa della storia cappuccina della Provincia religiosa di Puglia, intitolato Il Catalogo De’ Soggetti più illustri tra’ Capuccini della Provincia D’Otranto. Santità di Vita e fatti straordinari (secoli XVI-XVII), pubblicato con le Edizioni Grifo nel 2017. Con questo lavoro Rosa Anna Savoia ha portato a termine la trascrizione integrale dei manoscritti, conservati nell’Archivio di Stato di Milano, riguardanti i frati “più illustri” della Provincia francescano – cappuccina d’Otranto, vissuti tra il XVI e il XVII secolo e che possono essere considerati “i fondatori della Provincia, a motivo della loro vita virtuosa e della testimonianza che hanno dato”.

Da FILIPPO BUONANNI, Ordinum religiosorum in ecclesia militanti catalogus etc., Romae, Typis Georgii Plachi 1706-1710 (coll. privata)

 

È nella Provincia d’Otranto (scrive Rosa Anna Savoia), lì dove è iniziata la storia cappuccina in Puglia, che, tra la fine del XVI secolo e i primi decenni del XVII, quindi nel periodo della sua massima espansione, si sono mossi i 132 frati catalogati dagli annalisti dell’Ordine nei manoscritti oggetto del presente lavoro. Le testimonianze sulla loro vita ci indicano figure di frati la cui attività era interamente orientata a venire incontro alle necessità materiali e spirituali del popolo salentino.

Carta della Provincia Hydruntina con indicazioni degli insediamenti cappuccini, To-rino 1649 (coll. privata).

 

Le testimonianze raccolte si estendono per un arco di tempo di 121 anni, dal 1534 al 1655 e questo perché fin dai primi anni della vita dell’Ordine cappuccino, “i superiori generali ordinarono che in ogni Provincia fosse nominato un frate annalista con il compito di raccogliere le memorie e le gesta di frati esemplari della Provincia stessa e di inviare ogni cosa agli annalisti milanesi. Nel corso degli anni nel convento milanese della Concezione confluirono da tutte le Province dell’Ordine moltissimi documenti, soprattutto biografie di frati esemplari… È per questa ragione, quindi, che i manoscritti, oggetto del presente lavoro, si conservano attualmente nell’Archivio di Stato di Milano (Fondo: Religione, busta 6502 (già 19) tomi I-III)”.

I tomi sono rispettivamente intitolati: Catalogo dei soggetti più illustri tra i Cappuccini della Provincia d’Otranto (Tomo I); Raccolta per le croniche cappuccine della Provincia d’Otranto (Tomo II); Raccolta per le croniche cappuccine della Provincia d’Otranto (Tomo III). “Fra Lorenzo da Santa Maria di Novole predicatore, cappuccino e guardiano” compare più volte nel I Tomo che è il risultato di tre manoscritti rilegati insieme e rinumerati.

Nel I manoscritto vi è infatti la sua testimonianza a proposito del Padre Pacifico da Sant’Eufemia (casale presso Tricase), predicatore cappuccino il cui compilatore è Antonio da Ruffano, datata “Die 23 octobris et coram eisdem”.

Nel secondo manoscritto, indicato come “la Raccolta delle cose più memorabili e dei fatti più illustri operati da’ nostri frati cappuccini di questa nostra Provincia d’Otranto”, scritta da Francesco da Pulsano, vi sono invece riportate le testimonianze rese personalmente per il Padre fra Lodovico da Giovinazzo, Predicatore Cappuccino (quest’ultime particolarmente importanti perché viene indicata di Frate Lorenzo l’età “..di 40 anni in circa di Religione”), per il padre Fra Thomaso Da Caravigna (Carovigno) Sacerdote Cappuccino e per Fra Donato da Lecce laico Cappuccino.

Nel Tomo III infine che riporta anche (oltre alla Raccolta per le croniche cappuccine della Provincia d’Otranto) due parti intitolate “Castighi di Dio contra Trasgressori della Regola” e “Castighi di Dio contro agli ingrati contro alla Vocatione” sono annotate invece le sue testimonianze rese a proposito di “un giovane di Carmiano” e di un tal “Marco Aurelio Madaro da Campie, datate 1609.

In alto: BIBLIOTECA ARCIVESCOVILE “A. DE LEO” – Brindisi, G.B. LEZZI, Memorie dei letterati salentini, Ms D/5. In basso: BIBLIOTECA PROVINCIALE LECCE, La citazione su Frate Lorenzo fatta da Pietro Antonio de Magistris nella pagina al lettore che precede l’edizione napoletana del De Situ Iapigiae (1624).

 

Probabilmente, un’intensa attività di predicazione lo portò a percorrere le strade di numerosi paesi della Terra d’Otranto fino a delinearli con precisione nella sua carta geografica eseguita nel 1617, carta posseduta dall’Holstenio e che servì al geografo amburghese anche per restaurare le pitture geografiche della Galleria Vaticana.

R. ALMAGIÀ, L’opera geografica di Luca Holstenio, copertina, 1942 (coll. privata).

 

6. BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA, Codice Barberiniano Latino 3074, f. 139v. Elenco di opere relative al Regno di Napoli redatto dall’Holstenio in cui è men-zionata la Carta di Terra d’Otranto di Frate Lorenzo.

 

APPENDICE

A completamento del presente lavoro si riportano qui di seguito le testimonianze rese da Frate Lorenzo in merito alla vita vissuta di frati esemplari e innanzi citati.

Padre Pacifico da San’Eufemia

Il padre fra Lorenzo da Santa Maria di Novole, predicatore capuccino e guardiano, riferisce ch’era sì grande la divotione delle genti verso il padre fra Pacifico che le donne a gara toccavano i loro veli su li panni del padre, e l’huomini li faccioletti, per servarseli poi per divotione.

Io fra Lorenzo da Santa Maria di Novole ho deposto come di sopra.

Die 23 octobris 1611 et coram eisdem.

 

Padre Lodovico da Giovinazzo

“Dammi del pane e dell’acqua el resto portalo via, altrimente non vorrò nulla, e tanto faceva la madre. Questo modo di vivere tenne alcuni giorni con pensiero anco sempre di tornar rivestirsi de nostri, com’ei fece. Confermano il padre fra Pietro da Lecce el padre fra Lorenzo da Novole, sacerdoti capuccini, il sudetto capo per udito quanto al suo star dentro la torre”.

Segno di croce della detta Sancia di propria mano.

Io fra Lorenzo da Novole ho deposto ut supra.

* * *

Il padre fra Lorenzo da Novole, predicatore capuccino, di 40 anni in circa di Religione, riferisce Haver [I f. 289a] udito da più frati degni di fede, e veduto anche in parte, qualmente il padre fra Lodovico sudetto fu huomo dotato di molte virtù e fra l’altre hebbe un gran zelo dell’osservanza e per questa s’opponeva a tutti gli abusi della Provincia e nel suo governo di provincialato, il quale fece più anni rigorosamente, gli correggeva e, non potendolo soffrire, gli trasgressori gli fecero di molte insidie per ucciderlo poiché, apostatando loro da noi pigliandone mezzi di secolari, lo fecero appostare in un luogo per dargli morte. Onde, nel passar egli dall’appostato luogo, in udir che l’appostanti dimandavan di lui, il suo compagno sopraggiungendo, egli “sono io – disse il provinciale – eccomi, che volete?” et, in udir quella cattiva gente tali parole, rimase confusa senza saper risolversi né poter essi adoprar armi né parole, ond’egli, senz’esser tocco né offeso, da loro passò franco e libero con l’aiuto d’Iddio, con la fiducia del quale caminava sempre sicurissimo.

Io Fra Lorenzo da Novole ho deposto ut supra.

* * *

Il padre fra Lorenzo da Novole sudetto riferisce dell’istesso qualmente ei faceva i suoi governi di provincialati e guardianati con molt’osservanza, onde haveva ridotto questa Provincia a un viver assai osservante e, perciò, tutti i rilassati si temean di lui et, apostatandone di molti, gl’ordivan poi insidie per danneggiarlo nella persona, come l’occorse più volte, però non piacque mai a Iddio fusse tocco da lor neanco un pelo. L’istesso dell’istesso riferisce qualmente nelle fatighe, disagi del suo provincialato ritenne sempre la sua antica astinenza, cominciata sin dal novitiato, onde faceva tutte le quaresime del Padre San Francesco e dopo il primo pasto nell’arrivo, che faceva ne luoghi, prohibiva affatto le fusse portata qualche cosa di particolare alla mensa, benché minima, e così osservò sempre i suoi governi osservanti.

 

DEL PADRE FRA THOMASO DA CARAVIGNA, SACERDOTE CAPUCCINO

[I f. 325b] Il padre fra Lorenzo da Novole, predicatore guardiano, el padre fra Francesco d’Ostuni, sacerdote, e fra Vito da Martina capuccini riferiscono del padre fra Thomaso da Caravigna, sacerdote capuccino, qualmente fu dotato di molte virtù. S’esercitò grandemente nella via di spirito e costumava da dir molte sue orationi tra il giorno et una, fra l’altre, ne faccia che s’inginocchiava più di 200 volte il giorno. S’esercitò anco grandemente nell’oratione tanto che di rado dopo il matutino usciva da chiesa, trattenendovisi per orare. Fu assai povero in tutto quel che adoprò; frate anco patiente, di rado s’accostava [I f. 326a] al fuoco nelle più freddi staggioni dell’anno, fu frate di molto buon esempio con i frati e secolari, fu assai divoto della Madonna Santissima, di coscienza anco assai timorata si faceva scrupolo sin di cose minime, e fu d’animo assai semplice, tranquillo e pacifico.

Segno di croce di detto fra Vito di mano propria.

Io fra Francesco d’Ostuni ho diposto ut supra.

Io fra Lorenzo di Novole ho diposto ut supra.

 

DI FRA DONATO DA LECCE, LAICO CAPUCCINO

[I f. 328b] Il padre fra Lorenzo da Novole, predicatore e guardiano, riferisce di fra Donato da Lecce de Calicci qualmente quand’ei morì nel luogo di Ruggie l’anno 1534, essendo esso riferente fanciullo, udiva dalle genti, le quali concorsero in gran numero dalla città di Lecce e da casali del contorno a venerarlo come santo, che il suo corpo, mentre insepolto in chiesa, gittava un odor suavissimo, oltre l’odore del suo gran buon esempio, che lasciò a quelle genti, del quale raggionavano a bocca piena.

Io fra Lorenzo da Novole capuccino ho diposto ut supra.

* * *

CASTIGHI DI DIO CONTRA TRASGRESSORI DELLA REGOLA

Il padre fra Lorenzo di Novole, predicatore e guardiano capuccino, riferisce qualmente conobbe un frate di questa Provincia, il qual non si restava mai di mormorar di mancamenti de frati e d’altri, onde è da credere che tutto il tempo di sua vita fusse vissuto in disgrazia di Dio, non vedendosi in lui riforma veruna di questo difetto, benchè fusse sacerdote e continuasse di celebrar ogni mattina. Dopo, molti anni infine di Religione, essendo sempre in questo modo vissuto, fu travolto dal castigo di Dio, poiché, oltre essersi ammalato di febre, gli venne un mal nella lingua e per tutta la bocca, per la quale perdè affatto la favella e morì senza mostrar segni di vera contrizione. Io fra Lorenzo di Novole capuccino ò deposto ut supra.

* * *

Fra Lorenzo da Novole, predicatore e guardiano, riferisce qualmente un giovane di Carmiano si vestì de’ nostri e, dopo alcuni mesi, fu svolto da’ suoi, se ne tornò in casa, ove li diedero subito moglie et la prima sera delle nozze li fu tirata un’archibusciata avanti sua madre e spirò subito.

* * *

L’istesso riferisce anco qualmente Marco Aurelio Madaro da Campie fu ricevuto et andò a vestirsi de nostri, ma si pentì subito e, tornato in sua casa, finì poi malamente la sua vita, essendo stato ucciso e il suo corpo non si trovò mai più.

Io fra Lorenzo da Novole capuccino ho deposto ut supra.

* * *

L’Ordine francescano fu fondato nei primi anni del XIII secolo da San Francesco d’Assisi, la cui Regola fu approvata da Onorio III nel 1223.

* * *

Se consideriamo come punto di riferimento che l’Ordine del M. R. padre fra Sebastiano da Putignano di “Raccogliere e annotare gli esempii e fatti illustri de’ frati di questa nostra Provincia” fu fatto a Francesco da Pulsano l’8 giugno 1627, la testimonianza non datata di Frate Lorenzo su fra Lodovico da Giovinazzo in cui si dichiara che “il padre fra Lorenzo da Novole predicatore capuccino è di 40 anni in circa di Religione” può indicativamente farci risalire alla sua data di nascita che si attesterebbe intorno al 1587. Va aggiunto infine che a Novoli esistevano due Ospizi: “uno dei Padri Alcantarini e l’altro dei Padri Riformati”. Uno era ubicato (quello degli Alcantarini) al civico 53 dell’attuale via Pendino (l’edificio, che possedeva sulla facciata lo stemma con la tipica rappresentazione dell’Ordine Francescano, è stato recentemente abbattuto). L’altro quello degli ex-Riformati era invece “in Via Castello” (attuale Via Umberto I).

 

* In “Nova LiberArs”, numero 0, Argomenti Ed., Novoli 2019, pp. 30-33.

Disegno dell’Holstenio con Terra d’Otranto probabilmente ricavata dalla Carte di Frate Lorenzo (Biblioteca Apostolica Vaticana).

 

Riferimenti bibliografici essenziali

R. Almagià, Monumenta Italiae Cartographica. Riproduzione di carte generali e regionali d’Italia dal sec. XIV al sec. XVII raccolte e illustrate, Firenze 1929.

Id., L’opera geografica di Luca Holstenio, Città del Vaticano, Studi e Testi 102, 1942. Ho potuto individuare il documento dell’Holstenio nel Codice Barberiniano Latino contrassegnato con il numero 3074 consultando in Roma, presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele, questa monografia assai rara dell’Almagià. Essa infatti è il risultato dell’analisi dei materiali della sua attività in campo geografico in buona parte inediti e che si conservano nel suddetto Fondo Barberiano della Biblioteca Apostolica Vaticana. L’Almagià non essendo a conoscenza dell’identificazione di S. Maria de Nove con Novoli, tradusse all’epoca S. Maria Nova riportata dall’Holstenio letteralmente con il corrispondente S. Maria Nuova. Scrive infatti l’Almagià: “Per la Terra d’Otranto si ha menzione di una carta di un Fra Lorenzo da Santa Maria Nuova, cappuccino, stampata in folio nel 1617; l’Holstenio stesso la ricorda (Cod. Barb. Lat. 3074, fol. 138v e seg.) in un elenco di opere relative al Regno di Napoli, ma a me non è stato possibile di rintracciarla. La carta del Parisio e le opere del Barrio e del Marafioti sono spesso ricordate dall’Holstenio”.

P. De Magistris, Galatei vita a Petro Antonio De Magistris descripta, Napoli 1624.

G. Gabrieli, Bollettino Bibliografico, in “Japigia”, a. VIII, aprile 1930.

R.A. Savoia (a cura di), Il Catalogo De ‘Soggetti più illustri tra’ Capuccini della Provincia d’Otranto. Santità di vita e fatti straordinari (secoli XVI XVII), Collana di Studi “Studia PACS S. Lorenzo da Brindisi Parola Arte Cultura Storia”, Ed. Grifo, Lecce 2017. Il volume è stato pubblicato “in felice coincidenza con le celebrazioni laurenziane, per il 4° centenario della morte di San Lorenzo da Brindisi, patrono della Provincia cappuccina d’Otranto”.

G. Spagnolo, NOVOLI. Origini, nome, cartografia e toponomastica, tipografia A. Rizzo 1987.

Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Edizioni Del Grifo, Lecce 1990.

Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di Mario Cazzato, Edizioni del Grifo, Lecce 1992. Nel testo viene pubblicato integralmente l’elenco di opere relative al Regno di Napoli redatto dall’Holstenio (conservato presso la Biblioteca Vaticana, Codice Barberiniano Latino 3074, ff. 138v-139v) come fonti di riferimento per la sua attività geografica e in cui è menzionata la Carta di terra d’Otranto di Frate Lorenzo. Per avere comunque un’idea della straordinaria biblioteca del cardinale Francesco Barberini (1597-1679) (tanto da ritenere che l’Holstenio avesse avuto veramente tra le mani la carta di Frate Lorenzo) si può consultare l’Index Bibliothecae qua magnificentissimas suae Familiae ad Quirinalem aedes magnificentiores redditit, Rome: Typis Barberinis, Excudebat Michael Hercules 1681. L’opera due volumi in folio (646 e 596 pagine) elenca oltre 31.000 volumi. Un terzo volume, annunciato al frontespizio, inoltre non fu mai pubblicato (avrebbe dovuto contenere “Indice” dei manoscritti). Alla stesura di questo catalogo parteciparono Leone Allacci e appunto Luca Holstenius. Della Biblioteca Barberini, l’Holstenio fu nominato custode nel 1636 e fino alla sua morte non smise mai la sua opera indefessa di ricercatore di manoscritti e libri. Copiò (scrive infatti l’Almagià) egli stesso o fece copiare da scrittori da lui stipendiati, da amici e conoscenti, codici greci e latini, cercò di procurarsene per acquisto, in dono o in prestito; fece anche larghi acquisti di libri a stampa d’ogni genere, arricchendo così la Biblioteca Barberiniana, quella Vaticana ma anche la sua “cospicua” biblioteca privata in Sant’Onofrio sul Gianicolo (alla sua morte vi erano 3500 opere di grande interesse; soprattutto per la parte geografica – in quantità maggiore rispetto alle altre – aveva raccolto opere molto preziose, atlanti, e appunto carte geografiche rarissime).

Id., Novoli tra ‘700 e ‘800: gli “Ospizi” degli Alcantarini e dei Riformati e un Ospedale, in “Lu Puzzu te la Matonna”, secolo IX, 21 luglio 2002.

 

Su alcuni toponimi bizantini e longobardi in Terra d’Otranto: Marancicappa tra Sava e Fragagnano

di Gianfranco Mele

 

A sostegno della testi dell’esistenza del Limes bizantino altrimenti detto Limitone dei Greci, una serie di storici e ricercatori salentini della prima metà del Novecento indagano sulle località e sui toponimi a ridosso del tracciato di quella che era ritenuta la muraglia.

Così, ad esempio, il Racioppi e l’ Antonucci riferiscono sui toponimi Camarda e Camardella (due masserie nel territorio di Mesagne immediatamente a sud del cosiddetto Paretone o Limitone), di inequivocabile derivazione bizantina (καμάρδα = tenda, accampamento). Allo stesso modo, sia l’Antonucci che il De Giorgi notano l’esistenza in agro di Latiano, a nord di quello che era stato identificato come il Limitone, di un toponimo ritenuto di derivazione longobarda: Morgingappa (da Morgincap o Morgengabe) designante una masseria. Ancora, a nord di Mesagne, verso S. Vito, un esplicito riferimento ad un insediamento longobardo con il toponimo Campi dei Longobardi.[1]

Il tragitto del Limitone dei Greci nella ipotesi di Giovanni Uggeri

 

Anche il nome della masseria Guardiola nelle campagne di Francavilla Fontana è messo in relazione con  con utilizzi militari dei siti e delle strutture un tempo là presenti[2], mentre il già citato toponimo Camarda oltre che in territorio di Mesagne è presente anche in agro di Sava, proprio a ridosso di quel tratto di muraglia ancora presente e identificata come un residuo del cosiddetto Limitone.[3]

Analogamente, la contrada Farai in San Pancrazio Salentino è stata vista come di probabile derivazione da un termine longobardo, Fara, indicante un insediamento di tipo militare.[4] A sostegno di questa ipotesi, anche il fatto che in Italia sono numerosi i toponimi che riportano alla presenza documentata di insediamenti longobardi e che inglobano il termine Fara.

Tornando al termine Morgincap ed ai toponimi da questo probabilmente derivati,  oltre che in agro di Latiano è presente anche in agro di Francavilla Fontana (in questo caso con “Maraciccappa”, che dà nome ad una masseria ed una località individuata sempre in zona di confine tra Longobardi e Bizantini). Ne ho parlato dettagliatamente nell’articolo intitolato “Morgincap o “mar’a a ci ccappa”? Toponimi di confini, strade contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare” pubblicato nel luglio 2020 sul sito web di Fondazione Terra d’Otranto, e a quello rimando per  approfondimenti (qui il link: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/04/confini-strade-contrade-e-masserie-tra-interpretazioni-storiche-e-tradizione-popolare/ ). Basti qui ricordare che, secondo il De Giorgi e l’Antonucci, che “Morgingappa” in agro di Latiano, riportato e “tradotto” (o meglio, storpiato secondo i due studiosi) anche con “Mar’a ci ccappa”, “Mali a ci ccappa”, “Malch’incappa”, deriverebbe dal longobardo  mongergabe  che sta a significare “dote”, “dono del mattino”: il riferimento è ad una tradizione, ovvero il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze.[5] Della stessa opinione sono il Teofilato[6],  il Rohlfs[7] e il Pichierri[8] riferendosi alla omonima località in agro di Francavilla Fontana.

A distanza di pochi giorni dalla pubblicazione del mio sopracitato articolo su Fondazione Terra d’Otranto, mi ritrovai a parlare con un caro amico di Fragagnano[9] che mi segnalò l’esistenza, anche in agro fragagnanese, del toponimo Marancicappa, fornendomi anche copia di una mappa. Tale termine sta ad indicare una strada, più conosciuta oggi come “strada vecchia per Sava”, nei pressi della contrada denominata Pozzopalo. L’amico Gianni mi riferì anche che la strada era un tempo denominata anche, dai fragagnanesi, Marcincap, avvicinandosi così il toponimo ancor  più sorprendentemente all’etimo longobardo.

Stralcio di una mappa del territorio fragagnanese, in cui è riportata la strada comunale Marancicappa

 

La Marancicappa fragagnanese si trova anch’essa in prossimità del presunto tracciato del Paretone (o Limitone) cosiddetto Bizantino (a poca distanza da Agliano), e attraversa le località Pozzopalo e Acquacandida. Si trova dunque a ridosso di quel confine che, partendo da Borraco, risaliva attraversando il feudo di Maruggio e il monte Maciulo[10] per poi raggiungere la zona della cappella della SS. Trinità (agro di Torricella) e giungere sul monte Magalastro,[11]  Proseguendo, il confine andava da Magalastro verso il casale di Pasano[12], poi verso Agliano per proseguire verso il “castello Vecchio” di S. Marzano. Questo percorso corrispose anche (di sicuro e in epoca successiva) al confine tra Foresta Oritana e Principato di Taranto, come rilevato attraverso documentazione storica nel lavoro del Carducci.[13] E’ proprio nel mezzo del tratto che va da  Agliano verso la zona de il “castello Vecchio” di San Marzano, che si trovano le contrade fragagnanesi attraversate dalla strada “Marancicappa”.

Fragagnano, strada “Marancicappa”, scorcio

 

In rosso, un tratto del confine (delimitato dal “Paretone”) tra Principato di Taranto e Foresta Oritana nella mappa allegata al testo del Carducci: è visibile la strada vecchia per Sava, in zona Masseria Pozzuolo e Masseria Acquacandida (qui tratteggiata in giallo)

 

Fragagnano, scorcio della Masseria Acquacandida

 

Note

[1]Giovanni Antonucci,  Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933,  pp. 79-80

[2]Gaetano Pichierri, Altre notizie sul “Limitone dei Greci” nell’agro di Sava, in: “Omaggio a Sava”, a cura di Vincenza Musardo Talò, Edizioni Del Grifo, Lecce, 1994, pag. 66

[3]Gaetano Pichierri,  Sava, il “Limitone dei Greci”, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pp. 152-153

[4]Cfr: https://it.wikipedia.org/wiki/Fara_(Longobardi)

[5]Giovanni Antonucci,  Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933,  pp. 79-80

[6]Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22)

[7]Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322. Scrive qui il Rohlfs nel definire il vocabolo  Maru-c’incappa : “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgengaba ‘dote’?)”.

[8]Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, cit., pag. 152

[9]Ringrazio l’amico Gianni Bosco per la segnalazione e le informazioni fornitemi

[10]Gianfranco Mele, Monte Maciulo in agro di Maruggio e località viciniori. Tracciati storico-archeologici, La Voce di Maruggio, luglio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/monte-maciulo-in-agro-di-maruggio-e-localita-viciniori-tracciati-storico-archeologici.html

[11]Gianfranco Mele, Monte Magalastro fra Sava e Torricella. Resti archeologici, ricerche, documentazione e fonti storiche, Fondazione Terra D’Otranto, aprile 2022 https://www.fondazioneterradotranto.it/2022/04/22/monte-magalastro-tra-sava-e-torricella/

[12]Gianfranco Mele, Pasano e dintorni: aspetti storico-archeologici, La Voce di Maruggio, Marzo 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/pasano-e-dintorni-aspetti-storico-archeologici.html

[13]Giovangualberto Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Mandese Editore, 1993

Scianne: un toponimo neritino/sospeso tra olio e vino?

di Armando Polito

 

Non sorprenda la barra (slash per chi sa parla meglio di me), che serve a separare due decasillabi (nella mia presunzione perfetti). Il titolo in versi è l’ultimo espediente per attirare l’attenzione e già mi sto tormentando (!) ad immaginare cosa sarò costretto ad escogitare la prossima volta. Probabilmente mi impegnerò a versare ad ogni comprovato lettore la somma di sessanta (l’inflazione non va trascurata …) euro o, a scelta, il pagamento delle ultime bollette del gas e della luce (sono le più pericolose e bisogna evitare che qualcuno per farla finita si attacchi, rispettivamente, alla canna o alla presa, il che obbliga a tenerle in considerazione entrambe. Oltretutto, se dovessi essere denunziato, il mio avvocato avrebbe la possibilità di dimostrare che non sono un corruttore ma un benefattore e sicuramente troverebbe qualche giudice disposto ad accettare la sua tesi …

Bando alle divagazioni! Siccome siamo animali abitudinari, nello studiare un qualsiasi fenomeno bisogna tener conto dell’esperienza pregressa e delle regole, per quanto, come tutte, non definitive, che ne sono state tratte. Anche se a dar vita ad un toponimo possono essere i motivi più disparatI (da un caratteristica fisica del sito ad una specie vegetale che vi è o vi è stata particolarmente diffusa), per quelli riguardanti le masserie l’etimo è da ricercare anzitutto tra il nome di uno dei proprietari succedutisi nel tempo (non è detto, poi, che quello del primo sia privilegiato) o in qualche dettaglio di natura economica. Può succedere, poi, che entrambe le ipotesi siano plausibili, in assenza di prove incontrovertibili a favore dell’una o dell’altra. Scianne, a tal proposito, costituisce un esempio emblematico.

PRIMA IPOTESI

In Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 1999 una nota (n. 67 a p. 390) del curatore si legge: “… probabilmente prese il nome da una famiglia Scianno, di cui  si ha notizia in un atto notarile del 1572 del notaio Tollemeto (c. 24v), in cui si legge: in loco dicto lo Verneo, iuxta bona Georgii Sciannu“. Sul piano strettamente teorico e metodologico, per quanto detto in premessa, l’ipotesi i appare inizialmente plausibile, ma poi non molto attendibile per ragioni storiche legate al patriarcato, per cui mi riesce difficile immaginare una trasmissione di proprietà, soprattutto di natura ereditaria, coniugata al femminile.

 

SECONDA IPOTESI

Scianne, potrebbe (anche qui il condizionale è d’obbligo ad accompagnare l’aleatorietà espressa dal verbo in sé) essere plurale di scianna (varianti: ciuvanna, giuanna, sciuanna, sciuvanna), designante il recipiente di lamiera usato un tempo nei trappeti per travasare l’olio (l’immagine è tratta da Gerard Rohlfs, Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, v. I, p, 155).

 

La voce è deformazione di Gianna (variante di Giovanna), nome di donna utilizzato scherzosamente per dar vita a damigiana, che è notorio essere dal francese dame-jeanne (alla lettera signora Giovanna). Nonostante la damigiana faccia pensare al vino (non era è non è consigliabile conservarvi l’olio perché, essendo quest’ultimo, oggi come allora, di maggior valore economico, in caso di rottura del contenitore il danno sarebbe maggiore) l’allusione del toponimo alla olivicoltura (e non alla viticoltura) appare confermata da scianni (questa volta deformazione di Giovanni), che nel Tarantino (Manduria) scianni è il recipiente, sempre di latta, usato, sempre nei trappeti, sempre per l’olio, non per travasarlo ma per trasportarlo. Il cambio di genere del suo etimo rispetto a quello di scianna è inequivocabilmente legato alle sue maggiori dimensioni, conformemente a quanto succede, per esempio, nel caso di limba (bacile) rispetto a limbu (grande catino). Sul piano strettamente fonetico, poi, il passaggio gia->scia– è da manuale nel dialetto salentino basta citare sciardinu (giardino), sciamu (italiano letterario giamo) e, per restare nell’ambito delle masserie neritine, Sciogli, plurale del nome della famiglia Giulio, a conferma filologica della notizia storica  data al riguardo, ancora una volta, da Marcello Gaballo in  Un palazzo, un monastero: i baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, congedo, Galatina, 2018, p. 70.

Ricordo poi, a proposito del trasformismo di Giovanni, che appare in buona compagnia in giampàulu (brocca di creta a bocca larga per versare il vino, che il Rohlfs registra pure per Nardò, voce che ignoravo, mentre attendo lumi da chi è in grado di dirmi qualcosa in più sull’identità dei Gianna, Giovanni e Giampaolo coinvolti nella faccenda;  e a tal proposito del vezzo tutto francese di dare, non a caso viste le forme rotonde, un nome di donna ad un contenitore del tipo in questione,  in dizionari dei secoli scorsi jacqueline e christine designano due bottiglie in grès grandi e panciute.

Le sepolture dei D’Amato, duchi di Seclì

Rettoria di Sant’Antonio di Padova (già Santa Maria degli Angeli).

 

Sepultus est in monasterium Sanctae Mariae Angelorum terrae Seclì

di Antonio Epifani

L’edificazione della chiesa e del convento di Santa Maria degli Angeli, oggi Sant’Antonio di Padova, in Seclì comportò una serie di trasformazioni sociali e culturali che ebbero una risonanza enorme nel piccolo centro di Terra d’Otranto. Dal ritorno dalla battaglia di Lepanto, Guido D’Amato e la moglie Giulia Mugia Spinelli vollero dedicare alla Vergine come voto per lo scampato pericolo di morte,  un luogo di culto lontano dal paese che poi sarà amministrato dalla comunità minoritica in seguito alla realizzazione del convento sempre su iniziativa dei coniugi D’Amato sul finire del 1500.

In questa sede quello che risulta importante notare e che è sconosciuto ai più è un fatto importante suffragato dai pochi ma preziosi documenti che si conservano nell’archivio parrocchiale di Seclì.

La cara e tanto frequentata chiesa di S. Antonio, che accoglie da secoli i fedeli e i devoti del Santo di Padova ospita le tombe dei personaggi che hanno fatto la storia del piccolo centro urbano di Seclì.

Dall’analisi dei documenti emerge che nel 1687 die undicesimo nono m. Decembris l’illustrissima donna D. Antonia de Acugna duchessa della terra di Seclì dopo aver ricevuto il Santo Viatico dai frati minori osservanti nel die trigesimo di questo mese fu sepolta nel convento di S. Maria degli Angeli. Antonia D’Acugna era la terza moglie del duca Antonio D’Amato e vedova di Cristoforo De Los Olivos grande consigliere militare. Il figlio Giuseppe De Los Olivos De Acugna morto all’età di sedici anni riposa nella Chiesa Matrice di Seclì.

In un altro documento del 1688 si legge che il die vigesimo m. Novembris l’illustrissimo Antonius de Amato et Acugna Dux huius Terrae Seclì, salì la sua Anima a Dio in piena comunione dopo aver ricevuto il Santo Viatico dal frate Vincenzo monaco Sancti Petri de Alcantara. Lo stesso duca fratello della Serva di Dio Suor Chiara fu sepolto in monasterio S. M. Angelorum. 

La chiesa dunque fu il luogo di sepoltura privilegiato dalla famiglia feudataria e questo emerge anche dalle sepolture non solo dei membri della famiglia D’Amato, ma anche dai feudatari Severino che oltre ad essere sepolti nel luogo suddetto, dotarono la chiesa e la statua di S. Antonio di pregevoli manifatture in argento fra le quali il Reliquiario del Santo dono del duca D. Antonio Maria Severino intorno al 1750, della corona in argento e del giglio sempre in argento trafugato nella seconda metà del 1900 e realizzato ex novo per devozione della comunità di Seclì lo scorso anno e benedetto alla presenza di sua Santità Papa Francesco in Vaticano il 17 maggio 2023.

Anche la duchessa Severino molto probabilmente Camilla Filomarino sepolta anch’essa nella chiesa di S. Antonio nell’anno Domini 1732, donò a Sant’Antonio una collana in oro ancora oggi conservata dalla locale Parrocchia. Lo stretto legame tra la chiesa del convento e i feudatari di Seclì è un legame non soltanto spirituale ma anche affettivo.

Nel 1705 nel giorno settimo del mese di giugno muore il duca Francesco Severino che sarà sepolto, dopo aver ricevuto l’estrema unzione e il Ss. Sacramento dall’Arciprete don Gaetano Tarallo, nel monastero di Santa Maria degli Angeli extra moenia.

L’analisi di altri fogli del libro dei morti oltre alla citata Duchessa Camilla Filomarino ci riporta anche la morte e la sepoltura del coniuge il duca Giulio Maria Severino che muore nel die vigesimo primo mensis Ianuarii 1752 e dopo aver ricevuto il Sacro Viatico nel die vigesimo secundo dello stesso mese fu sepolto in Conventus Sanctae Mariae Angelorum Fratibus Minores Observantes extra moenia. A Giulio Maria succedette Antonio Maria Severino alla cui morte avvenuta nel 1795 passò nelle mani del figlio Francesco Maria Severino nato dalla moglie Nicoletta Samuelli. Francesco Maria nel 1796 vendette il feudo di Seclì a don Liborio Rossi, ricco mercante d’olio gallipolino e proveniente da una ricca famiglia napoletana che in seguito all’accumulo di ricchezze acquisì una serie di feudi tra i quali Caprarica di Lecce, Neviano e la stessa Seclì. Con Nicola Rossi che sposò Oronza Carlino nacque Angiola Rossi andata in sposa nel 1853 a Giacomo Papaleo da Bagnolo. Anche questa famiglia ebbe una particolare dedizione per la chiesa del convento, tant’è che Angiola fece modellare la statua di Sant’Oronzo da Lecce, opera in cartapesta della seconda metà del 1800 che alla base porta il nome della committente. Sempre dall’analisi dell’archivio parrocchiale emerge la sepoltura nella chiesa di S. Antonio del barone Giacomo Papaleo morto nel 1883. Una lapide posta a destra del presbiterio di fianco alla porta che ci conduce nella piccola sacrestia della chiesa ci ricorda inoltre la sepoltura del barone Achille Papaleo. L’iscrizione riporta la seguente dicitura: “ Papaleo Achille nato a Gallipoli il 15 maggio 1861, qui riposa dal 16 ottobre 1879”.

Purtroppo i lavori effettuati nel 1960 hanno cancellato ogni traccia di queste antiche sepolture.

Archivio Parrocchiale di Seclì, Atto di morte e di sepoltura del Duca Antonio D’Amato.

 

A testimonianza rimangono le fonti d’archivio, alcune immagini d’epoca che ci permettono di notare la posizione delle botole che permettevano l’accesso nell’area sepolcrale sottostante lo stesso edificio sacro, ma anche un basamento in pietra leccese con piedi leonini databile alla prima metà del 1600 che faceva parte del cenotafio della famiglia D’Amato collocato nella zona presbiteriale a ridosso del pulpito così come due lastre marmoree conservate nella cantoria che molto probabilmente segnalavano le antiche e vetuste sepolture.

basamento con piedi leonini dell’antico cenotafio della famiglia D’Amato nella Rettoria di S. Antonio

 

La chiesa di Sant’Antonio, già Santa Maria degli Angeli è parte integrante della storia di Seclì.

Una chiesa tanto amata dal popolo secliota per la presenza del suo Santo per il quale nutre una devozione profonda ma soprattutto una chiesa ricca di testimonianze che deve trasmettere il profumo della particolare storia locale con un’attenzione rivolta anche al fatto che la suddetta chiesa è stata frequentata da personalità del calibro di Suor Chiara D’Amato e del Beato Francesco da Seclì uomo dotto, grande studioso e uno dei più celebri e grandi scrittori salentini del 1600 autore del Viaggio a Gerusalemme e non a caso dell’Opuscolo in Lode di Sant’Antonio di Padova.

 

Bibliografia

 1 Archivio Parrocchiale di Seclì, Liber Defuncti  1600, 1700, 1800

2 ANTONIO EPIFANI,“Omnia Vincit Amor” Il Palazzo Ducale di Seclì nel contesto delle residenze nobiliari. Tesi di laurea triennale in storia dell’Architettura. Relatori Chiar.mo VINCENZO CAZZATO  e Chiar.mo FRANCESCO DEL SOLE.

3 MARCELLO GABALLO Genealogia dei D’Amato duchi di Seclì la residenza di Francesco D’Amato nel monastero neretino di S. Chiara, in VITTORIO ZACCHINO, Seclì almanacco di storia arte e società, 2003-2004.

4 ROBERTO SPAVENTA Successioni feudali a Seclì dal XIII  al XIX secolo, in Fondazione Terra d’Otranto, il delfino e la mezzaluna, luglio 2012.

La recensione tra passato (Giuseppe Domenichi Fapane di Copertino) e presente (?)

di Armando Polito

 

Niente di nuovo sotto il sole, anche quello della letteratura, ma alcuni dettagli, analizzati alla luce della necessaria storicizzazione degli eventi, andrebbero comunque approfonditi. In riferimento alla parola-  chiave del titolo va subito detto che oggi, paradossalmente, una stroncatura può decretare il successo editoriale, dunque di mercato inteso nel significato più rozzo di profitto, di un’opera, come una campagna pubblicitaria furbesca, in cui non solo la recensione gioca un ruolo importante, può in un immaginario collettivo sempre più incolto e passivo, decretarne il trionfo, per quanto effimero.

Siamo un popolo che legge poco o niente ma scrive tanto, troppo, da un decennio a questa parte. E, cavalcando un diffuso ed epidemico narcisismo che si manifesta in velleità artistiche ad esibizione di un talento inesistente, capace solo di dimostrare, senza saperlo …, che c’è sempre uno più imbecille di te, sta proliferando l’editoria fai da te con presunte case editriici che fanno concorrenza ai funghi, quelli velenosi, non solo perché ne spuntano di nuove dalla mattina alla sera, ma perché, perseguendo unicamente  il profitto, sono solo imprenditrici dell’invadente sopravvalutazione di se stessi e della dilagante perdita del senso del limite.

Anche le case editrici tradizionali hanno da tempo abbandonato la finalità di promozione culturale e, a differenza di quelle appena considerate (che pubblicherebbero qualsiasi testo, anche se l’autore pretendesse che esso fosse stampato utilizzando l’estratto della sua merda), danno credito e spazio solo a titoli che, almeno teoricamente, possano avere un riscontro di vendite, ligi al risultato di indagini tese a captare il gusto presente e a prefigurarsi quello futuro, per non correre il rischio di essere bruciati sul tempo dalla concorrenza.

Torno alla recensione. Volutamente tralascio quelle orali che di regola accompagnano le immancabili presentazioni e che non di rado tradisco l’avvenuta lettura del solo titolo e notti insonni sprecate per studiare locuzioni che, per dare un’idea della profondità di un libro non letto, sprofondano nella nullità (fosse ambiguità, già sarebbe meglio ..) del significato. Da queste non differiscono quelle scritte, tra le quali colloco anche le prefazioni. Se in una sola qualcuno di voi ha mai letto qualche osservazione negativa, me la segnali. Certo che sono un grande ingenuo a credere che uno sia disposto a pubblicare un suo lavoro con una prefazione, a firma, magari, dello scemo del paese, che lo gettasse a terra e non lo elevasse al cielo. Sarò pure un ingenuo, ma capace di apprezzare, per contrasto, ciò che in passato (oggi bisognerebbe parlare di consorterie).

L’esempio che fra poco mostrerò, vecchio di 352 anni, appartiene ad un periodo in cui la letteratura encomiastica aveva uno spazio privilegiato e sfruttava tutte le risorse retoriche per celebrare i detentori del potere. Per questo era regola leggervi già nel frontespizio l’elenco dei titoli dell’autore dedicante e del dedicatario. Da quest’ultimo, naturalmente, ci si attendeva riconoscenza, se non nell’immediato o, almeno, in un futuro non troppo lontano. Anche se nessuno, a quanto ne so, ha indagato a fondo sui rapporti tra autori, editori e  politici di quel tempo, ho il sospetto, per non dire la certezza, che proprio questo o quel detentore del potere fosse una sorta di sponsor ante litteram, neppure tanto ante, se si pensa a Virgilio e all’entourage di Augusto. La libertà dell’artista, quello vero …, però, è tale da consentirgli quanto meno di allentare le pastoie del momento e di dare vita, destinata a durare nel tempo, a quei valori che tempo non hanno.

Perfino io so, dopo Virgilio, chi è Dante, ma fino a pochissimi anni fa di Giuseppe Fapane di Copertino ignoravo nome e, di conseguenza, esistenza. Poi una fortuita, fortunosa ma fortunata circostanza me lo ha fatto scoprire e sentire il bisogno di approfondire la conoscenza di un poeta che, secondo la mia modesta opinione, meriterebbe nei manuali di letteratura un posto nella foltissima schiera dei marinisti subito a ridosso dell’inventore e maestro di questa corrente. E se su questo blog tempo fa ne ho parlato genericamente1 e di recente mi sono occupato del suo nome e ho messo in risalto l’enigmista2, oggi è la volta del recensore. Gli lascio la parola dopo aver riprodotto il frontespizio del libro recensito e, da pagina non numerata, il dettaglio che qui interessa, con la solita trascrizione del testo, espediente per aggiungervi la traduzione e le note di commento.

 

Illustrissimo, et excellentis. domino Bartholomaeo de Capua, Altavillae Madno Comiti, cui Ioseph Campanile Historias Familiarum dicat. 

Iosephi Domenichi

Historias Ioseph texit: priscique Triumphos

temporis; et nostrae stemmata Parthenopes.

Haec nulli poterat scriptor monumenta dicare

quam tibi, qui Heroum vincere facta soles.

Tu Calami, et gladii superasti nomine famam;

tu Calamo, et gladio tempora clarificas.

Hinc Campanilis, pennam dat iure, columba:

ut tua gesta sones: ut sua scripta canas.

 

All’illustrissimo ed eccellentissimo signore Bartolomeo da Capua gran conte d’Altavilla, al quale Giuseppe Campanile dedica le storie della famiglie

di Giuseppe Domenichi

Giuseppe tesse le storie: e i trionfi del tempo antico e gli stemmi della nostra Partenope. Uno scrittore non avrebbe potuto dedicare queste testimonianze a nessun (altro) che a te, che sei solito superare le gesta degli eroi. Tu con la gloria della penna e della spada hai oltrepassato la fama, tu  con la penna e con la spada rendi illustri i tempi. Per questo la colomba del Campanile dà giustamente la penna, affinché tu faccia risuonare le tue gesta, affinché tu renda celebri i suoi scritti.a 

a Qui il Fapane raggiunge probabilmente l’acme nell’uso della metafora, strumento espressivo privilegiato della poesia del XVII secolo e lo fa da maestro in un pirotecnico gioco di parole, che coinvolge diversi piani, da quello puramente linguistico e, direi, filologico, a quello storico, con i relativi addentellati che partono dalla botanica per giungere alla musica e alla letteratura, per concludersi con l’esplosione finale di un’ironia arguta, ma tutt’altro che irrispettosa o dissacrante. Le parole-chiave di questa sorta di recensione (di fronte alla quale quelle di oggi dovrebbero arrossire di vergogna, non solo per i connotati formali …), coinvolgente in un solo magistrale colpo dedicante e dedicatario, sono:

1) calami del quinto verso e calamo del sesto, rispettivamente genitivo e ablativo di calamus, trascrizione latina del greco κάλαμος (leggi càlamos), che dal significato originario di canna è passato a quelli traslatoi di flauto  (basta fare una serie di buchi su una canna), zampogna (le canne, insieme con l’otre, ne costituiscono i componenti), penna da scrivere (canna tagliata trasversalmente), canna da pesca (si raccomanda di montare il filo, su questo l’amo e di collocarvi l’esca …), canna da misura. Nei versi in questione la voce ha il significato di penna da scrivere.

2) Campanilis del penultimo verso. Qui bisogna partire dall’italiano  campanile, forma aggettivale derivata dal latino latino tardo campana, a sua volta abbreviazione della locuzione vasa campana=vasi campani. Dunque, qui campanilis (genitivo di un nominativo neutro campanile plausibilmente inventato, perché in latino non è attestato ma la formazione è corretta) vale come nome comune ma anche come latinizzazione del cognome dell’autore del libro. Tra l’altro, anche se nella produzione barocca gli autori, se avessero potuto farlo, avrebbero scritto in maiuscolo pure le virgole, la voce in questione, proprio a servizio del detto valore ambiguo, è stata, volutamente, collocata all’inizio.

3 columba, sempre nel penultimo verso,  può essere alla lettera la colomba del campanile ma, per traslato, pò simboleggiare il volo poetico del letterato Campanile.

4 pennam, accusativo di penna che in latino significa solo piuma, ala e non è mai attestato nel senso di penna da scrivere, come in italiano, dove, addirittura può sostituire scrittore (una buona penna).Tuttavia qui per una sorta di proprietà transitiva o, se si preferisce, di ragionamento sillogistico applicato alla poesia, per quanto detto nelle due note precedenti, in particolare nelle ultime due, la penna intesa come piuma della colomba del campanile, una volta che tale colomba si identifica col Campanile, diventa il noto strumento per scrivere.

 

Quale recensore di oggi, ammesso che per assurdo fosse capace di mettere insieme non distici elegiaci (tanto, chi li capirebbe?…) ma due endecasillabi in un italiano corretto condito dalla raffinata ironia del Fapane? Me lo chiedo, anche se non sono tanto ingenuo da ritenere apprezzabile il numero di coloro che sarebbero in grado, non dico di capirli, ma, almeno, di leggerli correttamente …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/06/lenigmatico-enigmista-di-copertino-1-2/

 

I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario

di Gilberto Spagnolo

L’insediamento domenicano di Novoli, collocato in origine in aperta campagna nel feudo di Nubilo1, è senz’altro uno dei meno conosciuti. Il Cappelluti ci informa che la sua fondazione risale al 15512 per opera del feudatario locale, il barone Filippo I Mattei3, coltissimo personaggio noto alla letteratura dell’epoca per essere stato, tra l’altro, un committente dalle spiccate ambizioni artistiche. Sembra che il titolo del nuovo insediamento sia stato quello di S. Onofrio che progressivamente lasciò il posto a quello di S. Maria delle Grazie con il quale è comunemente indicato4.

1. S. Onofrio, in un’incisione di Francesco Valesio 1661

 

Il titolo di S. Onofrio però, potrebbe significare molto di più: è quasi impossibile che a un santo medievale, tra l’altro assai raro come iconografia e devozione, sia stato dedicato un nuovo insediamento domenicano in pieno Cinquecento (S. Onofrio è un santo eremita, forse egiziano come Sant’Antonio: viene rappresentato con una lunga barba e con una folta e maestosa capigliatura che confondendosi avvolgevano tutto il suo corpo, quasi rivestendolo5 – di lui abbiamo degli affreschi che lo rappresentano solo nella cripta del Crocifisso di Ruffano)6.

L’ipotesi è che questo sia sorto su un antico luogo di culto dedicato a S. Onofrio, né più né meno come a Copertino i domenicani sorsero sul sito della cappella dell’Idria e quelli di Muro sul luogo dell’insediamento italo-greco dedicato a S. Zaccaria7: se tutto questo fosse vero saremmo di fronte ad una precisa strategia domenicana di occupare luoghi di devozionalità obsoleta e comunque ormai in contrasto con la nuova sensibilità religiosa del tempo.

2. Facciata esterna della Chiesa napoletana del Pontano, incisione in Roberto Sarno Joannis Joviani Pontani Vita, Neapoli MDCCLXI.

 

Per ritornare al committente di Novoli, ricordiamo che il Mattei dopo appena dieci anni, nel 1561, era stato il committente a Lecce della Chiesa Nuova, uno dei primi edifici rinascimentali della città esemplificato addirittura sulla napoletana chiesa del Pontano8 come ha dimostrato M. Cazzato, nella quale non fu estraneo l’intervento di G. Giacomo dell’Acaya9 (affianco del quale – come ricorda Iacopo Antonio Ferrari nell’Apologia Paradossica della città di Lecce – lo stesso Filippo I aveva combattuto contro i Francesi nel 1528)10 che dimostra la capacità culturale ed economica dei Mattei di coinvolgere nelle loro iniziative le personalità più prestigiose del tempo. Lo stesso accadde per Novoli11.

I recenti restauri ai quali è stata sottoposta la chiesa ex domenicana ha fatto emergere per il portale, l’anno di esecuzione, il 1576 e conferma le ipotesi dell’attribuzione dell’opera a Gabriele Riccardi, l’architetto di Santa Croce, allora ancora attivissimo12. Il restauro ha fatto emergere anche un portale secondario che ha la stessa fattura e cronologia di quello principale. Le fonti attestano che il nuovo convento, sostenuto ancora dalle sostanze dei Mattei, fu censito come vicariato nel 1573 e priorato nel 1600, anche se nel Seicento conosce una sensibile crisi tanto che fu soppresso con la riforma innocenziana del 1652 ma riaperto nel 1654 con decreto del 26 febbraio13.

3. Villa Convento, facciata ex Chiesa di S. Onofrio oggi della Vergine SS. Del Buon Consiglio

 

4. Villa Convento, ex Chiesa di S. Onofrio oggi della Vergine SS. Del Buon Consiglio, portale.

 

In un Apprezzo del 1707 è scritto: «nel feudo di Novoli, o del Convento, vi sta un convento della religione di S. Domenico. Chiesa magnifica, chiostro, dormitorio, campanile e tutte l’occorrenze necessarie ad un convento di proporzionata famiglia. Vi stanno poi giardini, territori per uso del medesimo; al presente sta abitato da un sacerdote e da un laico e dissero che detto convento fosse stato edificato dalla casa de Matteis padrone del feudo»14.

Nel frattempo i Mattei avevano imboccato la strada del declino e l’anno prima avevano venduto il feudo: sembra proprio che il declino della famiglia coincida con quello del convento la cui età d’oro, specialmente dal punto di vista artistico, come abbiamo visto e come vedremo, coincide con il Cinquecento15.

Dalla visita pastorale del Vescovo Sersale del 1746 ricaviamo che la chiesa aveva, oltre all’altare maggiore, sei altari, tre per lato sull’unica navata, collocati sotto altrettanti arconi, ossia della Madonna del Rosario, di Santa Maria della Neve, della Madonna di Costantinopoli, di S. Onofrio, di S. Domenico e, ultimo, della Circoncisione di Cristo16.

Nella visita di Sozy Carafa, del 1783 gli altari erano: il maggiore, della Vergine del Rosario, di Santa Maria della Neve, della Vergine di Costantinopoli, di S. Onofrio, di S. Domenico e della Circoncisione di Cristo17.

La presenza ancora alla fine del ‘700 dell’altare dedicato a S. Onofrio conferma l’ipotesi che è stata fatta e cioè che questo sia la “memoria” di un omonimo edificio di culto demolito per la costruzione del convento. Conosciamo abbastanza bene la storia di quest’edificio che abbandonato come l’annesso convento nella seconda metà dell’‘800, fu ristrutturato in seguito alla sua nuova funzione di parrocchia, fatto che avvenne nel 192218.

C’è da osservare che la chiesa e il dismesso convento divennero, in quegli anni, il centro di una frazione che oggi amministrativamente appartiene parte a Novoli e parte a Lecce e che significativamente viene chiamato “Villa Convento19 ma il toponimo “convento” lo ritroviamo già a partire dal Seicento come segno indelebile della presenza domenicana nel luogo. Gran parte dell’arredo della chiesa è andato perduto o nascosto sotto strati e strati di calce. Sotto la calce, per esempio, appare in un ambiente conventuale un bellissimo affresco con “Cristo di pietà” cinquecentesco20.

Alla stessa epoca appartiene un altro affresco, ancora in corso di restauro, mutilo della parte inferiore: raffigura la Vergine affiancata da due Santi e, in basso, una figura femminile, sicuramente quella della committente, forse la moglie di Filippo Mattei. A destra di questo si vedono chiaramente alcune navi in tenuta di combattimento con la bandiera della mezzaluna. Quasi sicuramente, come è accaduto a Ugento, l’affresco della Vergine è stato modificato in Vergine del Rosario21 con l’apposizione di quelle navi da guerra che sicuramente vogliono rappresentare la Battaglia di Lepanto. Altre osservazioni e precisazioni si potranno fare quando sarà concluso definitivamente l’intervento di restauro. Per adesso sono soltanto questi gli affreschi che si sono salvati dalla distruzione e dall’abbandono, e questo sembra avere quasi del miracoloso.

Per quanto attiene poi all’immagine in xilografia che qui si pubblica, c’è da specificare che essa appartiene ad un foglio volante stampato a Lecce da Pietro Micheli nel 1675: l’iconografia è nota, a sinistra S. Domenico, a destra S. Pietro Martire, in alto la Vergine col bambino e due angeli che offrono corone del Rosario. È un’immagine rarissima, forse l’unica incisione del genere del Seicento leccese di cui, per adesso, se non possiamo indicare l’autore rileviamo però la qualità e, soprattutto, il grande interesse storico22.

 

In Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (secc. XV-XVIII), a cura di Eugenio Bruno e Mario Spedicato, Edizioni Grifo Lecce 2016.

* Le foto sono di Piero Caricato. Un sentito ringraziamento va al parroco di Villa Convento Massimiliano Mazzotta, a mia figlia Serena Spagnolo per il suo contributo di carattere tecnico e, soprattutto, all’amico Mario Cazzato per avermi consentito, con la sua collaborazione, di realizzare questa ricerca.

 

Note

1 Sulla successione feudale di Sancta Maria de Novis e del feudo di Nubilo si vedano gli studi di O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Novoli 1986; Id., I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), Bibliotheca Minima, Novoli 1989; G. Spagnolo, Novoli origini, nome, cartografia e toponomastica, Tip. A. Rizzo, Novoli 1987; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Ed. del Grifo, Lecce 1990. In una memoria legale redatta da B. Tizzani e N. Turfani è riportato: «In Provincia di Lecce esiste la terra di Santa Maria di Novi, volgarmente detta Novoli, ed il Feudo disabbitato (sic) Nubilo, Noole, Novoli, S. Onofrio, o del Convento. La Terra di Santa Maria nel 1520 fu devoluta al Fisco per la morte di Giovanna Maramonte Baronessa di Campi senza legittimi eredi, fu venduta a Paolo de Matteis, e Vittorio de Priolo Suocero, e Genero. In seguito il solo Paolo de Matteis con istrumento per Notar Pomponio Stomeo di Lecce comperò nel 1523 da Aurelia de Acaia moglie di Gio: Maria Guarino separatamente il Feudo di Nubilo, o Noole. Questi due distinti Feudi furono nella famiglia de Matteis fino al 1706, in cui si morì Alessandro de Matteis ultimo possessore senza legittimi eredi in grado. Nel 1707 la Regia Camera per concorso de’ creditori vendè questi due feudi a Felice Carignani, e ne fu liberato il prezzo a’ creditori del de Matteis, come si rileva dall’istanza fiscale». B. Tizzani – N. Turfani, Per l’università di Santa Maria di Novoli e suoi Naturali contro l’utile possessore di quella, Napoli 1805, p. I. (commissario Presidente D. Vincenzo Sanseverino. Attuario D. Nicola Guerra). Il toponimo Nubilo è la più antica denominazione di tutto l’intero territorio dell’ex feudo del Convento, che poi, come già detto, si chiamò Novule. In seguito ne ha indicato solo una contrada e precisamente quella che ad occidente della provinciale per Lecce, vi è tra la frazione Convento e la via vicinale dell’Abbadia.

2 Per tutti cfr., ora, C. Longo, I Domenicani nel Salento meridionale secoli XIV-XIX, Ed. Salentina, Galatina 2005, pp. 123-124.

3 Scrive G. Marciano nella sua Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto (Stamperia dell’Iride, Napoli 1855): «Era sì bene il Casale Nobile non molto di là lontano, oggi feudo disabitato così detto dalla vaghezza del sito e nobiltà del luogo di molti giardini adorno, abbondante di frutti, olii e vini; dove dopo fu edificato il monastero de’ PP. Predicatori dell’Ordine di S. Domenico, e dotato di alcune entrate da Filippo Mattei bisavolo dell’illustrissimo Alessandro Mattei Conte di Palmerigi e signor di questi luoghi…», p. 472. Filippo I intorno al 1527 era già succeduto al padre Paolo e nel 1529 si unì con Paola Bozzi figlia di Antonio Bozzicorso, barone di Arnesano (cfr., O. Mazzotta, I Mattei signori di Novoli 1520-1706, cit., pp. 16-17, studio da cui emerge un giudizio negativo alquanto discutibile sulla loro storia e sul loro ruolo e oggi, alla luce di nuove ricerche e documenti, ampiamente superato).

5. Villa Convento, ex Chiesa di S. Onofrio oggi della Vergine SS. Del Buon Con-siglio, Architrave, Stemma Nobiliare della famiglia Mattei.

 

4 Lo stemma dei Mattei campeggia sulla facciata della cinquecentesca chiesetta annessa al convento dedicata a S. Onofrio e che divenne la tomba di famiglia (cfr., G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, C.E.T.I. Editore, Teramo 1965, p. 48). La tomba era all’interno della chiesa (indicata nei verbali delle S. Visite comunemente come Chiesa della Madonna delle Grazie) e dinanzi ad essa vi era il cimitero (Archivio Curia Arcivescovile Lecce (in seguito Acal), Visite Pastorali (in seguito Vvpp), vol. 141, c. 95, visita pastorale di Mons. Scipione Sersale a. 1746). Il monastero, affidato ai Padri Domenicani, aveva un chiostro, un dormitorio con sedici celle, giardino, cucina per il refettorio con sedili in legno infissi nel muro, torre campanaria con due campane («La chiesa è ad una navata di conveniente grandezza ed è coperta a volta, ha un pavimento di pietre quadrate nel quale vi sono sei sepolture, una delle quali viene utilizzata per seppellire i frati del convento. Ci sono due finestre, una circolare sita sopra la porta della chiesa, l’altra vicino all’altare maggiore. Davanti alla porta della chiesa vi è il cimitero circondato da ogni parte da pareti…Vicino a questa chiesa dalla parte laterale, a nord è situato il convento di detti frati, che ha una porta maggiore che si affaccia sulla via pubblica. Nel piano inferiore c’è un chiostro intatto, che consta di quattro corridoi, di 70 piedi di lunghezza e di 10 di larghezza ciascuno, ed al centro di esso ci sono molti alberi da frutto. C’è un Refettorio di conveniente grandezza con mensa dalle panche fisse. C’è inoltre un ospizio, che è un luogo utilizzato per dare la carne ai malati. C’è il magazzino, la dispensa, il capitolo, la cucina, una stanza antistante la cucina, una stanza sita dietro la cucina nella quale si conservano i vasi e gli strumenti della cucina, e in essa vi sono due forni, cioè uno più grande e uno più piccolo. Nel piano superiore del convento, al quale si sale per una scala di pietra, ci sono due dormitori, uno dei quali è a volta, l’altro è coperto da canne, e in uno di questi ci sono otto celle per i frati, cosicché sono sedici, accanto c’è un luogo in un angolo nel quale ci sono i luoghi per uso comune e non mancano due corridoi scoperti», Acal, Vvpp, vol. 15, CC. 362-364, visita Pastorale di Mons. Luigi Pappacoda a. 1654). Davanti alla chiesa si estendeva il sagrato che godeva dell’immunità ecclesiastica (Acal, Vvpp, vol. 16, cc. 447-452, visita Pastorale di Mons. Luigi Pappacoda a. 1655).

6. Villa Convento, ex Chiesa di S. Onofrio oggi della Vergine SS. Del Buon Con-siglio, Particolare dell’architrave con la data 1576 rinvenuta.

 

7. Villa Convento, interno ex Convento dei Domenicani, affresco cinquecentesco raffigurante il “Cristo di Pietà” (Christus patiens).

 

5 Cfr., G. Cavaccio, Illustrium anachoretarum elogia sive religiosi viri musaeum, typis Iacobi Dragondelli, Romae 1661, pp. 138-143 con una splendida immagine del Santo incisa da Francesco Valesio. Sul culto di S. Antonio Abate che a Novoli ancora oggi ha una rilevanza notevole, cfr., G. Spagnolo, Il fuoco sacro. Tradizione e culto di S. Antonio Abate a Novoli e nel Salento, Tip. Corsano, Alezio 1998 (I edizione); Tip. Publigrafic, Trepuzzi 2004 (II edizione) e Fondazione Focara 2018 (III edizione).

6 Cfr., A. de Bernart – M. Cazzato – E. Inguscio, La cripta del Crocifisso di Ruffano. Storia e geografia sconosciute, Congedo, Galatina 1998.

7 Per questi aspetti cfr., M. Cazzato, I Domenicani a Copertino: profili storici e urbanistici, in In nomine Domini Canis. I Domenicani nel Salento e a Copertino tra espansione e declino (secc. XV-XIX), a cura di E. Bruno e M. Spedicato, Maffei Editore, Trepuzzi 2014, pp. 161-171.

8 Cfr., M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, in “Camminiamo insieme”, XII, gennaio 1998, pp. 16-17. Come attestò per primo l’Infantino (1634) la piccola chiesa dell’Assunta (la chiesa nuova) fu eretta sul principale asse viario della città accanto ad una sua proprietà e poco discosto dal vescovato, esemplata, in quanto alle dimensioni e all’organizzazione strutturale della facciata, alla napoletana cappella appunto del grande umanista Giovanni Pontano (cfr., l’illustrazione in R. Sarno, Vita Joannis Joviani Pantani, Neapoli Fratres Simonii, MDCCLXI, p. 94; G.C. Infantino, Lecce Sacra, in Lecce, appresso Pietro Micheli, MDCXXXIIII, p. 25: «Dell’Assuntione della Vergine volgarmente detta la chiesa nuova». Secondo l’Infantino inoltre anticamente era sotto il titolo di S. Andrea.

9 Cfr., M. Cazzato, Giangiacomo dell’Acaya e un disegno del castello di Lecce, in Il castello Carlo V. Tracce, memorie, protagonisti, Congedo ed., Galatina 2014, pp. 52-54.

10 I.A. Ferrari, Apologia Paradossica della città di Lecce, Mazzei, Lecce 1707, Rist. anast. a cura di A. Laporta, Capone ed., Lecce 1997, pp. 54, 55, 343, 479-480 («chiesa di santa Maria dell’Assuntione nel portaggio di Rugge»); P. De Matteis, Filippo I Mattei e le battaglie in terra d’Otranto ai tempi di Lautrec, in “Lu Puzzu te la Matonna”, XVII, 18 luglio 2010, pp. 18-21. Filippo I ebbe anche un figlio illegittimo, tal Francesco e che “con la forza dei suoi danari” brigò affinché lo stesso divenisse vescovo di Lecce contemporaneamente al fiorentino mons. Braccio Martelli, 1552-1560 (cfr., P. Nestola, I grifoni della fede. Vescovi inquisitori in Terra d’Otranto tra ‘500 e ‘600, Congedo ed., Galatina 2008, pp. 203-204.

11 Relativamente a questi aspetti e sulle virtù mecenatiche e liberali di questa famiglia (la cui punta di diamante fu Alessandro II ricordato dal Marciano), i loro rapporti intellettuali che furono certamente non casuali ma inseriti in un “sistema locale ben determinato nel quale centro e periferia erano legati da rapporti e uno scambio continuo di esperienze e fermenti culturali” si rimanda ai seguenti contributi: M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei signori di Novoli, cit., pp. 16-17; M. Cazzato, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “gallaria”: per una storia del collezionismo aristocratico in terra d’Otranto, in Atlante del Barocco in Italia. Il sistema delle residenze nobiliari. Italia meridionale. Meridionale, Roma 2010, pp. 182-194; Id., Per la Biblioteca dei Mattei. Girolamo Marciano, l’iconografia del Ripa e la “Taranta Apula”, ivi, cit., XIX, 18 luglio 2010, p. 27; Id., Una Sant’Irene per Alessandro Mattei (1604), ivi, cit., XIX, 18 luglio 2012, p. 15; Id., I maestri di scuole del ‘500 salentino, ivi, cit., XX, 18 luglio 2013, p. 12; Id., La fontana dei Mattei. Profili di committenza aristocratica, ivi, cit., XII, 18 luglio 2005, pp. 6-7. G. Spagnolo, Un cartografo in età barocca, frate Lorenzo di Santa Maria de Nove, introduzione di Mario Cazzato, Ed. del Grifo, Lecce 1992; Id., Fra fonti letterarie e fonti manoscritte: sulla “Geografia di Terra d’Otranto” del conte Alessandro Mattei, Signore di Novoli, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., X, 20 luglio 2003, pp. 33-36; Id., Girolamo Marciano e i Discorsi di Guillaime Du Choul, gentiluomo lionese. Contributo per una biblioteca perduta, ivi, cit., XVII; 18 luglio 2010, pp. 22-26; Id., Il principe Perfetto. Giovanni Antonio Albricci Terzo (testimonianze dall’Ignatiados poema eroico inedito di Francesco Guerrieri illustre letterato salentino), in Quaderno di ricerca. Costumi e storia del Salento, Grafiche Panico, Salice Salentino ottobre 1989, pp. 21-54; Id., Francesco Guerrieri e Prospero Rendella giureconsulto e storiografo monopolitano, in “Annuario Studi e Ricerche”, I, Il Parametro Editore, 1993, pp. 115-134; Id., Bernardino Reatino il Santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoriale di Lecce degli anni 1623-1624), in “Lu Lampiune”, IV, 2, agosto 1990, pp. 107-111; Id., Memorie antiche di Novoli (note su un manoscritto ottocentesco della Descrizione di S. Maria de Nove di Girolamo Marciano), ivi, cit., XII, 17 luglio 2005, pp. 11-13; Id., Pregando Iddio per l’anima mia… Il testamento di Filippo II Mattei Barone di S. Maria de Nove, ivi, cit., XIX, 15 luglio 2012, pp. 16-19; Id., Francesco Guerrieri “sive verierius” sacerdote della Compagnia di Gesù (gli epigrammi greci e latini), ivi, cit., XX, 18 luglio 2013, pp. 13-15; O. Mazzotta, Ex Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “Camminiamo insieme”, cit., VI, 3, marzo 1992, p. 5; L. Ingrosso, La Biblioteca di Alessandro Mattei, signore di Novoli, in “Lu Lampiune”, cit., XIII, 2, 1997, pp. 71-77; M. Cazzato, Gli ultimi Mattei e il feudo di Trepuzzi, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., XXII, 19 luglio 2015, p. 10.

12 Allo stesso architetto scultore Gabriele Riccardi ma più probabilmente alla sua scuola, va riferita anche l’ ottagonale chiesa novolese del Salvatore (poi di S. Oronzo) voluta da Filippo II Mattei (figlio di Filippo I e padre di Alessandro II l’umanista e mecenate) negli anni settanta appunto del XVI secolo su ispirazione del gesuita Bernardino Realino (su una parete vi è inciso il monogramma dei Gesuiti) e secondo un linguaggio architettonico che nella volta «ad ombrello» ricorda specularmente la soluzione adottata nell’abside della citata chiesa di Santa Croce. In questa chiesa inoltre nel 1704, su incarico di Alessandro III Mattei, venne realizzato lo spumeggiante altare maggiore che ancora oggi possiamo ammirare nell’esuberante ricchezza ornamentale tipica del gusto decorativo dell’epoca (durante alcuni lavori di restauro e conservazione dell’altare sono state trovate incise, nella parte superiore destra le due lettere G.C. ovvero le iniziali di Giuseppe Cino).

Ma ancora prima di quel 1704, precisamente il 1700, Giuseppe Cino era ritornato a Novoli e sempre per Alessandro III ultimo dei Mattei, per ristrutturare quel braccio del palazzo baronale che fronteggiava, come fronteggia l’ingresso nel quale fu collocata la fontana con la sua epigrafe (M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; M. Cazzato – V. Peluso, Melpignano indagine su un centro minore, Congedo ed., Galatina 1986, p. 184). Il portale della chiesa di Villa Convento per impostazione tipografica e per schema decorativo è simile a quello della chiesa Matrice di S. Giorgio di Melpignano, della chiesa Matrice di Manduria (1532), della chiesa dell’Annunziata in Mesagne (1552), della cappella di S. Marco dei Veneziani in Lecce (1543) della cappella di S. Chiara in Galatina (1579), delle Parrocchiali di Parabita, di Surbo (1586) e di Corigliano (1573); F. De Pascalis, Altare con sorpresa, la firma di Cino, in “Quotidiano”, 25 novembre 2003.

13 Cfr., C. Longo, I domenicani nel Salento meridionale secolo XIV­-XIX, cit., p. 123; G. Cappelluti, L’Ordine domenicano in Puglia, cit., p. 48; O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit., p. 158; Id., La pazienza tentata. La soppressione innocenziana dei piccoli conventi di Terra d’Otranto a metà Seicento, Ed. Panico, Galatina 2003, pp. 46, 53, 57; A. Caputo, Sviluppo e dispersione di un patrimonio ecclesiastico. I domenicani nel Salento e a Copertino tra espansione e declino (secc. XV-XIX), cit., pp. 85-86. Tra il giugno e l’agosto del 1686, l’Università della terra di Santa Maria di Nove in “pubblica conclusione” e tutto il capitolo “in sacristia parochialis” decisero all’unanimità di mettere a disposizione la chiesa di San Antonio Abate, “per l’utile tanto spirituale quanto temporale che risulta al pubblico”, per il trasferimento nella stessa, del monastero dei Padri Domenicani di Santa Maria delle Grazie. Questa iniziativa fallì a seguito dell’opposizione dello stesso Ordine Domenicano (cfr., G. Spagnolo, Onomastica novolese: la supplica dell’università e del clero di Santa Maria di Nove nel 1686, in “Le fasciddre te la focara”, 42, 17 gennaio 2004, pp. 9-11. I relativi documenti sono conservati presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Lecce negli Instrumenta miscellanea dei secoli XVII-XVIII).

14 D. Gallerano, Apprezzo del feudo di Santa Maria de Nove e del feudo di Nubilo o Convento fatto il 24 marzo 1707 da Donato Gallarano, copia dattiloscritta c/o Mario Cazzato (l’originale che si conservava presso l’Archivio di Stato di Napoli è andato perduto).

15 Con la morte di Alessandro III nel 1706, si estingueva a Novoli la stirpe dei Mattei che per circa duecento anni avevano esercitato la loro signoria sul paese: «Nel giorno 7 del mese di Marzo 1706 l’Ill(ustrissi)mo Don Alessandro Mattei conte di questa terra e del Marchesato di Trepuzzi marito di Donn’Angela Invitti di Napoli, nella sua età di anni quarantaquattro nella sede del suo palazzo patrizio, rese l’anima a Dio e il di lui corpo nello stesso giorno fa sepolto nella tomba dei suoi avi nell’interno del Convento e della Chiesa dei Frati Domenicani di questa terra reggendo l’amministrazione di detto Convento frate Ferdinando da Campi; confessò (le proprie pene) nel quinto giorno, restò privo del S.S. Viatico per smarrimento di coscienza, fu tuttavia consacrato della unzione del sacro olio del settimo giorno in cui fu sopra sostituito (nel marchesato) per mezzo del Rev(erendissi)mo Don Filippo Antonio Romano», (Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice S.Andrea di Novoli, Registro dei morti aa. 1680-1709. Sulla fontana del palazzo ducale aveva fatto incidere la seguente epigrafe: «Deo Xenio / Non Magnitudini Aut / Dominationi / Sed / Solatio Et Ocio / Alexander Mattei / Aedes Suas / Xysto Et Fonte Excoluit / A. Mdcc»; (Trad.: «Al Dio dell’ospitalità. Alessandro Mattei, non per desiderio di grandezza o di potere, ma per conforto e agio ornò la sua dimora con la terrazza e la fontana nel 1700», cfr., M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, cit., pp. 16-17; un’epigrafe “che nonostante l’epoca rigurgita ancora di echi classico-umanistici”). I Carignani tennero poi Novoli per novantadue anni e furono dunque gli ultimi signori del luogo sino alla soppressione della feudalità applicata nel Salento nel mese di agosto del 1806 (O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit.; Id., Novoli (1806-1931), Novoli, Bibliotheca Minima, 1990; G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, cit.; Id., Storia di Novoli. Note e approfondimenti, cit.; O. Mazzotta, I Mattei Signori di Novoli (1520 -1706), cit.

16 Acal, Vvpp, vol. 141, c. 95. Visita Pastorale di Mons. Scipione Sersale a. 1746, cit.

17 Cfr., F. De Luca, La diocesi leccese nel Settecento attraverso le visite Pastorali. Regesti, Congedo, Galatina 1988, pp. 129-130.

18 Alla soppressione del 1809, quando vi risiedevano solo un padre e un converso, fu ceduto al Vescovo di Lecce Mons. Gennaro Trama che lo diede in enfiteusi a privati che lo trasformarono parte in fattoria e parte in villa. Finalmente il 22 settembre 1922 erigeva la parrocchia di Maria SS. Del Buon Consiglio e nominava parroco Don Giuseppe De Luca. La Baronessa Luisa della Ratta provvide alla congrua, offrendo il podere denominato Pizzo, e Vincenzo De Pandis donò l’antica chiesa di S. Onofrio di cui era proprietario (cfr., C. Longo, I Domenicani nel Salento meridionale secoli XIV-XIX, cit. p. 125; O. Mazzotta, Novoli (1806-1931), cit., p. 17; Id., I conventi della soppressione nel decennio francese (1806-1815), Ed. Tipografica, Bari 1996; Id., Il naufragio dei chiostri. Conventi di Terra d’Otranto tra Restaurazione Borbonica e soppressione sabauda, Besa editrice, Nardò 1999; In un inedito manoscritto sulla storia del feudo di Nubilo, D. Giuseppe De Luca, si legge, prese possesso di primo parroco di Villa Convento il 13 luglio 1924. Il manoscritto datato Convento 10 giugno 1925 a firma dello stesso parroco Giuseppe De Luca ha titolo Breve cenno storico intorno alla Contrada Feudo o Convento nel territorio di Lecce presso Novoli ed è certamente una copia con alcune varianti di quello con il titolo Breve Storia di Villa Convento già pubblicato a cura di L. Carlino in “Lu Lampiune”, XIII, 1, 1997, pp. 119-125. Sulla figura e sull’opera del primo parroco di Villa Convento cfr., D. Levante, Intitolata a don Giuseppe De Luca la Piazza di Villa Convento, in “L’ora del Salento”, X, 9, 11 marzo 2000, p. 10; M. Rossi, Don Giuseppe De Luca sacerdote dalla fede incrollabile, in “Lu Puzzu te la Matonna”, cit., VI, 24 dicembre 1999, pp. 10-13; P. Salamac, Cenni storici di Villa Convento, in “Studi Linguistici Salentini”, vol. 33, Edizioni Grifo, Lecce 2012, pp. 27-64.

19 In questa questione che coinvolse “l’Università di Santa Maria di Novoli e l’Università di Lecce” negli anni 1747-1752 si veda la memoria legale Per l’Università di Santa Maria di Novoli e Suoi naturali contro l’utile possessore di quella, cit., pp. 17-18.

20 Cfr., C. Longo, I Domenicani nel Salento meridionale secoli XIV-­XIX, cit. p. 124: «Vi rimane un affresco forse cinquecentesco raffigurante il Christus patiens».

21 Cfr., L. Antonazzo, Guida di Ugento, Galatina 2005, pp. 107-112 e, ovviamente, l’intervento dello stesso autore in questa sede. Dai restauri fino ad oggi compiuti da Daniela Guida sull’affresco (Anna Calabrese quelli sul portale) non è emersa alcuna firma che ne identifichi l’autore e né tantomeno l’anno della sua esecuzione. Pur tuttavia, incerte datazioni quasi coeve alla Battaglia di Lepanto (1571) e non documentate si rilevano in alcune fonti. Il Levante ad esempio nel suo intervento sull’intitolazione della nuova piazza di Villa Convento a Don Giuseppe De Luca, riporta anche un interessante e anonimo articolo pubblicato su “L’Ordine” del 17 ottobre 1942, che descrive l’inaugurazione fatta dal vescovo Mons. Alberto Costa il 13 settembre 1942 della ricostruita chiesa dedicata alla Vergine del Buon Consiglio. L’anonimo articolista nella sua cronaca, menzionando l’altare dedicato alla Vergine SS. del Rosario lo descrive “il primo a sinistra dell’ingresso, con i pregevoli affreschi del 1576 assai ben conservati, intorno a cui da Mons. Nicola Caputo fu fatto ricostruire un piccolo vano a volta, ove si continuò a celebrare la S. Messa nelle domeniche per i villeggianti ed i coloni che abitano nei dintorni” (D. Levante, Intitolata a don Giuseppe De Luca la piazza di Villa Convento, cit., p. 10). Anche il Salamac (citando le Visite Pastorali del Vescovo Scipione Sersale dell’ottobre 1746 e Sozy Carafa dell’ottobre 1754) riporta una datazione dell’affresco scrivendo invece testualmente che “raffigura la battaglia di Lepanto, è anonimo il suo creatore, ma l’esecuzione, come risulta in basso all’opera è dell’anno 1578” (P. Salamac, Cenni storici di Villa Convento, in “Studi Linguistici Salentini”, cit., p. 52). Va detto comunque che l’affresco, come si può notare, ha subito una mutilazione nella parte inferiore per far posto nel 1930 alla realizzazione dell’attuale altare ed è possibile perciò che in tale circostanza queste indicazioni (autore ed anno), se esistenti, possano essere andate perdute. La datazione dell’affresco al 1578 riportata dal Salamac è comunque confermata (evidentemente perché all’epoca ancora perfettamente visibile) da un contributo con la sua descrizione di Romeo Franchini, studioso e sindaco di Novoli dal titolo Novoli fine ‘500 pubblicato nel “Bollettino Santuario S. Antonio Abate ottobre-novembre 1958”. Così scrive infatti il Franchini intitolandolo La visione di S. Pio V; “L’affresco, pregevole opera d’arte… contiene anche una vivace rappresentazione della famosa battaglia: l’artista lo datò 1578 ma non lo sottoscrisse per cui è rimasto ignoto”.

8. Villa Convento, ex Chiesa di S. Onofrio oggi della Vergine SS. Del Buon Con-siglio, altare e affresco della Madonna del Rosario.

 

9. Villa Convento, ex Chiesa di S. Onofrio oggi della Vergine SS. Del Buon Con-siglio, affresco Madonna del Rosario, particolare delle navi con la bandiera della mezzaluna.

 

10. MISSA in Solemnitate Sanctissimi Rosarii Beatae Mariae Virginis, Lecce, Pietro Micheli 1675.

 

22 L’immagine in Xilografia appartiene ad una collezione privata. È un foglio a stampa di cm 24xl6 recante da un lato la “Missa/In Solemnitate Sanctissimi Rosarii/Beatae Mariae Virginis”, con Introitus, Oratio, Lectio Libri Sapientiae, Graduale, Offertorium, Secreta, Communio, Postcommunio, Lycij, Apud Petrum Michaelem, 1675 Superiorum permissu, e dall’altro lato la xilografia sopra descritta. Questo foglio, esemplare fino ad oggi probabilmente unico nel suo genere per tipologia e contenuto, compilato e firmato in chiari caratteri a stampa della tipografia di Pietro Micheli, va inserito certamente in quell’aspetto della sua produzione tipografica (non ancora sufficientemente indagato come ha rilevato E. Pindinelli) caratterizzato da “alcuni fogli a stampa…realizzati a cura e spese di vari uffici periferici nella chiara funzione di duplicazione e di capillare diffusione di ordini e di disposizioni che investivano vasti e vari settori della vita civile, e pertanto, ancora più interessanti per quanti voglia leggere attraverso essi con freschezza documentaria uno spaccato di vita salentina nel cuore del XVII secolo” (come per esempio Bandi e Indulti Reali). Materiale a stampa prodotto dal Micheli “che per le finalità e caratteristiche proprie si discosta dalla vera e propria produzione editoriale ma pur importante per una più dettagliata definizione dell’attività tipografica, della committenza e soprattutto di penetrazione e di uso della ormai quasi consolidata prassi della duplicazione a mezzo stampa” (E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi Orientamenti”, XX, 113-114, marzo-giugno 1989, pp. 11-20. Sulla lunga attività e produzione tipografica di Pietro Micheli e dei suoi eredi si vedano i contributi di G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Editrice Salentina, Galatina 1976; E. Panarese (a cura di), Una ricerca nella scuola dell’obbligo (Visita alla Biblioteca Piccinno di Maglie, Erreci Edizioni, 1990; A. Laporta, Saggi di Storia del libro, Edizioni Grifo, Lecce 1994; A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal cinquecento alla metà dell’ottocento, Milella, Lecce 2006; M.R. Tamblè, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Edizioni Grifo, Lecce 2011, pp. 175-205; F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus traditus. Bottega di Pietro Micheli 1686, ivi, pp. 207-220; G. Spagnolo, Una sconosciuta edizione leccese (1664) del tipografo Pietro Micheli, in “Lu Lampiune”, X, 3, dicembre 1994, p. 5-10; Id., Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, in “Il Bardo”, XV, 3, dicembre 2005, p. 7; Id., Per la storia dell’Editoria Salentina del ‘600. «Dell’Orazioni e Sermoni dell’Avvento» del tipografo Pietro Micheli, in Studia Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri, a cura di Dino Levante, Barbieri Selvaggi Editori, Manduria 2010, pp. 325-336; M. Cazzato – G. Spagnolo, Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario, in Rotary Club Lecce 60 anni di “service” Omaggio alle Eccellenze Salentine, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 103-116; G. Spagnolo, Edizioni di Pietro Micheli nella “Biblioteca Salita dei Frati” di Lugano, in “Il Bardo”, XXIV, I, Marzo 2015, p. 5. Id., Un’opera dispersa di Pietro Micheli: il trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (1653), in “Il Bardo”, XXV, 2, maggio 2015, p. 6.

11. Xilografia Vergine del Rosario, Lecce, Pietro Micheli 1675.

Tra bastioni e feritoie.  Le armi dei Castriota nel castello di Copertino

 

di Giovanni Greco

Del castello di Copertino si conosce quasi tutto. Fu abitato da esponenti della dinastia sveva, seguiti da quella angioina e dalla stirpe dei Brienne. Tra le sue mura dimorò saltuariamente la contessa Maria d’Enghien e sua figlia Caterina Orsini del Balzo, andata in sposa al cavaliere francese Tristano di Clermont.

La tradizione vuole che tra queste mura abbia visto la luce la loro figlia Isabella che impalmata da re Ferrante d’Aragona divenne a sua volta regina di Napoli.

Agli inizi del XVI secolo, quando i titolari del maniero divennero i Granai-Castriota fu il marchese Alfonso, figlio del conte Bernardo e  di Maria Zardari, uomo dai miti e gentili costumi abbelliti dalle lettere come lo ricorda il Galateo nella sua epistola “Ad Pyrrum Castriotam”; giureconsulto di cappa corta, marchese di Atripalda, duca di Ferrandina e conte di Copertino, che nel decennio compreso tra il 1530-40, affidò al noto architetto militare Evangelista Menga, l’incarico di progettare la trasformazione della struttura 400esca in una fortezza che dimostrasse la sua potenza sul piano economico, giuridico e militare, ma soprattutto capace di respingere qualsiasi assalto armato.

Difatti, fu costruita secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Ovvero, un profondo fossato scavato nella roccia, una spessa muraglia, quattro imponenti bastioni lanceolati e novanta feritoie distribuite su tre ordini di costruzione (fig. 1 e 2).

Fig. 2, il cortile interno del castello oggi

 

Essendo una struttura difensiva Don Alfonso si premurò di dotarla di un’adeguata guarnigione e un discreto apparato di armi da fuoco: cannoni, colubrine, schioppi e armi bianche di vario genere. Ma in che misura quegli armamenti avrebbero consentito di respingere il nemico è difficile stabilirlo. E soprattutto di quante unità era composta la guarnigione che presidiava il castello? Un’idea in tal senso la si potrebbe ricavare da un atto notarile del 21 febbraio 1553 allorquando il castellano nonché governatore di Copertino, Hernando de Bolea, originario di Saragozza consegnò al suo vice, Stefano de Ayala nativo di Toledo, una quantità di beni alimentari tra cui diversi tomoli di grano, orzo, fave, 700 barili di vino, 10 di aceto, 10 di sarde salate contenenti ciascuno  25.900 unità, 600 forme di formaggio e 100 staia di olio destinati a sfamare la guarnigione e la servitù presente nel castello, per un arco temporale presumibilmente lungo. Essendo le cronache del tutto avare di avvenimenti riconducibili ad attività militari abbiamo ragione di ritenere che da quelle feritoie non fu mai sparato un solo colpo di arma da fuoco e per lungo tempo i soldati dovettero restare pressoché inattivi, fino ad una verosimile riduzione numerica. (fig. 3)

Fig. 3, il mastio

 

Ipotesi non del tutto peregrina se il 17 aprile dello stesso anno avvenne la cessione di armature di cavalleria leggera a favore di militari dislocati nel castello di Lecce. Per ordine di Ferdinando Loffredo, vicerè delle province di Otranto e Bari, Hernando de Bolea incaricò Tommaso Caputo e Mauro Greco a trasportare 25 spalle (spallacci) e piedi (scarpe d’arme) con le corchette (uncini), 25 calotte, 25 brazzali e spallarde (avambracci e cubitiere), 25 morioni (elmetto di origine spagnola) e diademi; 13 elmi di ferro e mezze calotte alla burgognone.

Più tardi, il 16 maggio è ancora Stefano de Ayala che provvede al trasferimento di importanti pezzi di artiglieria. Il regio commissario di Terra d’Otranto, Ascanio de Maya, infatti, prese in consegna una quantità di armi spedite da Copertino che fece trasportare nel castello di Brindisi dove si registravano intermittenti rivolte popolari a cui gli Aragonesi rispondevano anche con armi da fuoco. Si trattava di due cannoni, gli unici di cui era dotato il castello che sarebbero stati spostati lungo la spessa muraglia a seconda dei dispacci che avrebbero annunciato imminenti pericoli.  Uno dei due cannoni era adatto al lancio di palle di pietra ed era contrassegnato con l’aquila bicipite, l’arma dei Castriota, mentre l’altro, idoneo allo sparo di palle di ferro, era marchiato con il leone di S. Marco. Unitamente ai due cannoni fu trasportata anche una quantità di palle in ferro e di pietra e una colubrina (fig. 4).

Fig. 4, rappresentazione grafica di cannoni e colubrine

 

Ecco il testo: Uno cannone petrero et le arme castriote, due casce ferrate e due rote ferrate. Un altro cannone di bronzo  serpentino et le arme di S. Marco  et casce e rote ferrate. Una mezza colubrina di ferro et una cascia ferrata  e più palle di ferro, grocchi, cintruni, sarandri. Palle 64 di ferro curate del cannone serpentino e palle 105 di petra del cannone petrero. (Fig. 5).

Fig. 5, falconetto del XVI sec

 

Intanto, scomparsi anche gli ultimi eredi di Don Alfonso la Contea tornò sotto la giurisdizione del Viceregno. A nulla valsero gli forzi del sindaco Virgilio Della Porta di lasciarla nell’amministrazione del Regio Demanio perché nel frattempo il genovese Uberto Squarciafico l’aveva acquistata per 29.700 ducati.

Un passaggio di consegne del 1556 tra il castellano uscente Stefano de Ayala e il suo successore Pedro Lopez de Marca inviato da Ludovico de Bariento, consente di conoscere tanto la consistenza delle riserve alimentari quanto i dispositivi destinati alla difesa del maniero.

In primis viene descritta un’asta con lo stendardo sul quale erano riportate le insegne di Carlo V (l’aquila imperiale con un Crocifisso in mezzo alle due teste); una campana collocata sopra lo campanile di detto castello che serve a fare la guardia di notte” (si tratta della campana situata nell’edicola al vertice del portale d’ingresso).

Tutta l’artiglieria in bronzo che consisteva in un falconetto di nove palmi (due metri e mezzo); altro falconetto di tre palmi e mezzo con le insegne di S. Marco; un carro di otto palmi e mezzo con cassa dotata di ruote di ferro nuove; un carro rinforzato di dieci palmi e mezzo; un curtaldo (piccolo cannone trainato da cavalli) di sette palmi; 27 smerigli (piccoli pezzi di artiglieria) di varie grandezze su alcuni dei quali è incisa la figura di S. Barbara, un altro smeriglio rinforzato di poco meno di cinque palmi, uno scudo e una croce. Dell’artiglieria in ferro facevano parte: 5 bombarde, 26 mascoli grandi e altri 26 più piccoli, 26 archibugi (fig. 6), 24 fiaschette (piccoli recipienti per conservare polvere da sparo), 46 tenaglie, altri 98 archibugi, 53 chilogrammi di polvere da sparo, 2000 chilogrammi di salnitro contenuto in cinque casse, 23 cantàre di zolfo e 70 palle di ferro.

Fig. 6, soldato spagnolo con archibugio

 

Tra le armi bianche si contavano alabarde, lance e punte di lance. E ancora: zappe, picconi, numerosi attrezzi in ferro, corde, funi, 2800 fascine, 29 carrette di legna e 362 canestri.  Non appaia inverosimile, dunque, la notizia riportata dall’anonimo cronista del ‘700 contenuta nelle  “Memorie dell’antichità di Copertino” secondo cui “Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artigliaria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro.

Nell’aprile del 1557 a Hernando de Bolea subentrò un altro spagnolo,  il governatore Bartolomeo Diez al quale, il 23 maggio seguente, su disposizione di Carlo V, fu ordinato di consegnare ai marinai Giorgio de Candia e Marco de Michele una quantità indefinita di munizioni per essere trasportate, via mare nel porto di Pescara a disposizione della guarnigione di soldati presenti nella fortezza pentagonale progettata dall’architetto militare Gian Tommaso Scala e terminata di costruire proprio il 1557.

Ma, se il castello cominciò a perdere la funzione difensiva le sue mura continuarono ad offrire un tetto a coloro che a vario titolo erano stati destinati alla sua difesa tra cui Giovanni de Sisegna, alfiere di armatura pesante della compagnia del duca di Urbino; il suo collega Gaspare della Porta, soldato di armatura pesante; il lombardo Alessandro de Valbona che aveva servito Hernando de Bolea; Pietro de Valandia, spagnolo di Ordegna e Stefano de Ayala che nel frattempo aveva sposato Laura Roccia di Gallipoli.

Quando nel maggio del 1603 la genovese Nicoletta Grillo – vedova di Cosimo Pinelli iunior, II duca di Acerenza, III marchese di Galatina e V conte di Copertino – stabilì di procedere all’inventario dei beni presenti nel castello di Copertino, armi e armature si erano notevolmente ridotte. L’incarico fu affidato a notar Pietro Torricchio  che il 2 giugno inventariò  16 pietti forti da combattere (fig. 7), dispensati ad altrettanti soldati a cavallo incaricati di sorvegliare le campagne del feudo e 50 pistole con altrettanti foderi.

Fig. 7, pettorale in cuoio

 

Dissolto il pericolo turco  e nella certezza che il castello non sarebbe mai stato al centro di assalti gli Squarciafico scelsero di renderlo più accogliente facendo edificare nuovi ambienti e una cappella intitolata a S. Marco al cui interno collocare i loro sarcofagi. Nel 1602, essendo già scomparsi Livia e suo figlio Cosimo Pinelli, il maniero e le possessioni feudali passarono a Galeazzo Pinelli che, data la tenera età, furono amministrati dalla madre, la genovese Nicoletta Grillo. L’anno dopo costei – che nel frattempo con la figlia Clementina aveva eletto a residenza stabile la lussuosa dimora di Giugliano in provincia di Napoli – stabilì di procedere all’inventario dei beni del palazzo marchesale di Galatone (dimora preferita dai suoi predecessori) e quelli presenti nel castello di Copertino.

Il documento ci restituisce la presenza di arredi e attrezzi di uso comune presenti negli ambienti destinati alla preparazione dei cibi e delle sale destinate al riposo notturno il cui mobilio risentiva delle influenze stilistiche spagnole e veneziane che non si modificarono mai del tutto e rapidamente. I costi, la scarsezza della materia prima, l’assenza di maestranze locali specializzate ne rendevano difficile l’aggiornamento e gli arredi erano rimasti pressoché quelli del secolo precedente. Non sappiamo se la trabacca  principale fu la stessa sulla quale Alfonso Castriota ci dormì con la prima moglie Cassandra Marchese, sposata il 1499. Ma non possiamo escludere che dovette preferire queste mura lontane dagli occhi indiscreti della corte partenopea per incontrarsi con la gran dama napoletana, Giulia de Gaeta. Di certo l’imponente dimora rinascimentale la dovette includere tra le tappe del viaggio di nozze con la seconda moglie, Camilla Gonzaga il cui rito nuziale fu celebrato il 1518 nel castello di Casalmaggiore.

Fig. 8, una sala del piano nobile

 

La camera da letto situata al piano nobile (fig. 8) era arredata con  elementi in cuoio turchino e oro con fregi rossi. Alle finestre e ai vani di porta vi erano in tutto sette tende lavorate in oro e argento. Il  proviero (padiglione del letto con cortina e zanzariera) era di seta verde di Calabria con cappitella (copertura), tornaletto  (larga striscia di tessuto decorato posto intorno al letto). Tre teli di cuoio  di colore rosso con frange in oro; tre materassi ripieni di lana finissima, mentre altri sette erano destinati alla servitù.  Vi erano due coperte di lana bianca fine, una di lana rossa, cinque coperte di lana paesana bianca, un capizzale di lana (stretto guanciale che va da un lato all’altro del letto), cinque cuscini di dimensioni diverse foderati di taffetà verde ed altri due di tipo ordinario. Il mobilio era costituito da una trabacca a mezze colonne di noce, alle cui estremità vi erano pomi e barre indorate. Altre due trabacche  di noce, semplici e a mezze colonne erano dislocate in altra stanza, insieme a due lettère (letti costituiti da tavole poggiate su tristelli); un torciero di legno per la sala; una torcia; tre appendiabiti in ferro;  undici sedie imperiali di noce; quattro sedie veneziane vecchie di legno; tre sedie di velluto verde; due sedie di velluto giallo; cinque tavolini di noce usati; due banchi di noce lunghi con ferri indorati; due sgabelli di noce lavorati; un tavolo di noce lungo un metro e mezzo sorretto da piedi con catene; una seditoia di legno con il suo vaso da notte; un tavolino di legno con tre piedi.

Notevole la quantità di attrezzi e utensili presenti nei locali a piano terra adibiti a lavanderia e cucine. Nell’elenco vengono riportati un porta coltelli di legno; due grandi cofanaturi di creta per fare la colata e una pressa di legno per strizzare salvietti e musali; due alari di cucina grandi; uno scaldacrusca; un grande stipo per contenere alimenti; tre appendiabiti; due canestri per contenere sprovieri. Al centro dell’ampia cucina c’era un grande tavolo da lavoro in legno poggiato su due tristelli in ferro. Il camino era dotato da un paio di capifuoco con pomi in ottone, due palette, un grosso ciocco, un paio di molle, due treppiedi di misure diverse, una zagaglia. E ancora: un grande calderotto in rame; una grattugia; un recipiente in rame per contenere vino; cinque fiaschi in rame; due grandi bracieri di diversa misura di cui uno con base di legno. La preparazione e la somministrazione del cibo non avveniva in stoviglie di creta bensì in contenitori di rame. Quindi vi erano tre vecchie teglie, trenta piatti tra grandi e piccoli; due contenitori di liquidi destinati alla servitù; due scalda vivande di ottone;  due saliere in peltro; tre coperchi per pignatte; due coperchi per teglie; una cucuma di rame grande per scaldare acqua;  altra cumumella in latta bianca; un secchio di rame con rispettiva catena e una carrucola per attingere acqua dal pozzo; una grande cassa di legno destinata al contenimento di orzo.

Nei decenni successivi l’imponente fortezza veniva lentamente svuotata. Non sapremo mai se si trattò di saccheggi o dispersioni agevolate da guardiani distratti. Ai “distaccati” Pinelli seguì la dinastia dei Pignatelli che si legò ai marchesi Di Sangro e ai Ravaschiero. Infine fu la volta dei principi Granito di Belmonte a cui vanno ascritti i tentativi di “rianimare” il castello tra cui il conte Angelo Granito che vi dimorò con i figli e la moglie Adelaide Serra di Corsano. Costoro affittarono diversi ambienti a contadini e artigiani del luogo i cui ricavi non furono mai abbastanza per consentire il ritorno del castello agli sfarzi di un tempo (fig. 9 e 10). Da qui ebbe inizio il lento declino del maniero che si arrestò solo nel 1885 quando fu dichiarato Monumento nazionale, seguito con l’acquisizione al demanio dello Stato il 1956.

Fig. 9, scorcio del cortile interno del castello agli inizi del ‘900

 

Fig. 10, facciata della cappella di san Marco nel castello agli inizi del ‘900

Fonti essenziali

ARCHIVIO DI STATO LECCE, notar Bernardino Bove, coll. 29A, atto del 16 giugno 1553, cc 191v-192r; 175r-176v;  atto del 17 aprile 1553, 152r ;  atto del 21 febbraio 1553 cc 67r-69r.

S. CALASSO, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966.

A. LAPORTA, Copertino, Suppl. in “Rassegna Salentina”, a, III, n, 1 1978.

AA. VV. Fonti per il Barocco Leccese, a c. di C. Piccolo Giannuzzi, Congedo , Galatina 1995.

AA. VV. I castelli della difesa Otranto – Copertino, a cura di M. Milella, Martano Editrice, Lecce 2003.

M. CAZZATO, Evangelista Menga e l’architettura del Cinquecento copertinese, Besa, Nardò, 2002.

L’enigmatico enigmista di Copertino (2/2)

di Armando Polito

Dimostrerò ora come in Giusepp il talento poetico fosse in grado di andare oltre le metafore, ingrediente caratteriizante tutta la produzione barocca, coniugando abilmente la finalità encomiastica (caratteristica anch’essa tutt’altro che secondaria della cultura di quell’epoca) col divertissement. Nella fattispecie il gioco enigmistico è l’anagramma numerico.

Chi legge avrà senz’altro incontrato almeno una volta la forma più corrente, quella alfabetica,  che, com’è noto, consiste nell’utilizzare i fonemi di una parola di partenza per dare vita, disponendoli in diverso ordine, ad un’altra parola di senso compiuto. uno degli esempi più banali sarebbe il caso di Roma/amor, ma, volendosi complicare la vita, non ci si deve lasciar sfuggire pure ramo, mora, orma, Omar e (tronco come amor) arom, senza far torto, a questo punto, a marò; e poi, per chi è masochista, perché non pensare di inserire le quattro parole in un componimento in rima, senza trascurare, magari, la polisemanticità di mora (donna bruna/frutto del rovo/ritardo)? Oggi, se vuoi fare qualcosa del genere, c’è il pc che ti fornisce tutti gli anagrammi della parola (o delle parole, in tal caso si parla di frase anagrammata) che gli hai digitato.

Spetta poi a te tra tutte le parole proposte quelle che più si adattano al contesto che vuoi creare. Troppo complicato? Se per qualcuno  è così, fra poco ci sarà l’ IA (acronimo di Intelligenza Artificiale o di Idiozia Acquisita?) alla quale non sfuggirà certamente la possibilità di tener conto degli acronimi, sovente impronunciabili, che si saranno aggiunti alla miriade di quelli esistewnti, noti e pure registrati. E così, per tornare al nostro esempio, potranno essere utilizzati MRAO (Mirabile Raccolta Rifiuti Ospedalieri), RMAO (Retribuzione Misurata A Orario), lasciando alla fantasia del lettore il compito di anticipare lo scioglimento di MRAO, MROA, MAOR, OMRA e ORAM. Mentre i solenni soloni della UE, dopo aver meticolosamente valutando i rischi connessi con l’IA hanno disposto gli adeguati provvedimenti (a tutti “raccomandazioni” senza sanzioni, all’Italia imposizioni e processi per infrazione), l’IA sarebbe già ora in grado pure di mettere in rima gli impronunciabili acronimi di cui sopra, destinati, come gli altri, a competere  con i grugniti, con ogni possibile rispetto per i porci, che saranno l’unico linguaggio comprensibile per un’umanità sempre più, irreversibilmente , decerebrata.

C’è da giurare  che nessuno sarà in grado di anagrammare una parola di quattro fonemi (magari l’impotenza si limitasse a questo!), figurarsi se dovesse cimentarsi, magari in una sfida con se stesso, in un anagramma numerico , del quale il copertinese ci fornisce tre esempi (i primi due sono in Castaliae stillulae). Esso consistente nel costruire due frasi con parole dalle lettere diverse assegnando ad ognuna di esse un valore numerico (nel nostro caso ogni lettera assume quello corrispondente al suo posto nell’alfabeto), in modo tale che la somma dei valori delle prima frase coincida con quello della seconda.

Come se non bastasse, entrambi gli anagrammi del Fapane sono seguiti da una dedica in distici elegiaci che funge da commento esplicativo dell’anagramma. Mi auguro che la mia traduzione  e le relative note riesca a far comprendere anche al lettore digiuno di latino la difficoltà di dar vita ad un gioco enigmistico più complicato del solito con esiti così felici.

Il primo è dedicato a Cesare Miraballo, principe di Castellaneta e marchese di Bracigliano. A seguire la trascrizione del testo:

Prima di passare alla traduzione faccio notare (tramite le due sottolineature aggiunte,che nessuno, nemmeno il Fapane, è perfetto. Pure lui è stato costretto da ragioni metriche a far seguire al Caesar (forma corretta) iniziale il successivo Cesar (formalmente scorretto, anche se ricalcante la pronuncia ecclesiastica). In fatti la conservazione del dittongo ae, lungo per natura, sarebbe stato inconciliabile con la struttura del verso.

Don Cesare Miraballo principe di Catellaneta

O fulmine che si abbatte sulle arni dei Gallia

Se desideri conoscere l’Augusto dei tempi antichi, già redivivo c’è ai nostri giorni. Colonna di virtù, a nessuno secondo per sensibilità, amore della religione, onore della nobiltà. chi è tuttavia costui? Il nome mostra prodigi in guerra, è colui al quale la fama è minore del nome, questo è maggiore. Cesare splendente in entrambi i campi, nella spada e nella penna, sia che risuonarono le trombe, sia le lire. Ma numerando le lettere avrai un presagio più grande, Bagliori ai nomi, nomi ai bagliori. Sia che cosa? O fulmine che si abbatte sulle armi dei Gallia. Ciò è di Giove, da qui Cesare, tu sarai più grande di Cesare.

a Allude alla strage di Francesi che al comando del duca di Guisa nel 1654 aveva tentato di conquistare Torre Annunziata difesa pure da Cesare Miroballo.

Passo al secondo anagramma, dedicato a Geronimo De Choris, che fu vescovo di Nardò dal 1656 al 1669.

Anche qui, prima di tradurre traduziome, faccio notare come il Fapane, sempre per motivi metrici, è stato costretto a sopprimere la preposizione de che precede Choris. Infatti essa, sillaba lunga, sarebbe stata inconciliabile con la struttura del verso. Inoltre, per quanto riguarda la parte numerica, il 135 suppone un errore di stampa (o frutto di una piccola distrazione dell’autore) nella corrispondente sezione grafica (D. Hieronimus), nella quale D. (abbreviazione epigrafica di Dominus) va emendato in Dn (altra abbreviazione epigrafica di Dominus, al pari di DNS e di DNUS . Così il totale della sezione è 135 e non 123, quale risulterebbe senza l’emendamento.

All’Illustrissimo Signore Don Geronimo De Choris senese già vescovo di Nardò anagramma numerico

Don Geronimo De Choris

Egli (è) il vescovo di Nardò

Bisognava trovare un pastore che pascesse benevolmente con la dolcezza dell’amore il gregge di Nardò, Alessandroa valuta: alla fine assegna a te l’onore, poiché tu sei autorevole con la devozione, devoto con l’autorevolezza. Ma quale motivo d’indugio c’era? Il volere divino mostrava il nome e se conti bene i presagi tuttavia sono noti. Geronimo De Choris Egli è vescovo di Nardò. Non basta solo che il responso l’abbia dichirato piuttosto chiaramente, ma sotto il nome si nasconde una volontà divina più grande e Geronimo è vicino alla porpora della quale è assai degno di essere decorato. Allora è questo il destino di Nardò; e se una forza raddoppiata potentemente si dedica all’opera, che rimane da succedere?

a Papa Alessandro VII.

Il terzo anagramma numerico è in Giuseppe Battista, Delle giornate accademiche, Combi & La Noù, Venezia, 16733, p. 305.

Prima di pasare alla traduzione, faccio notare che i due totali qui non coincidono. Si tratta di un errore di stampa in quanto Iosephus ha comecorrispondente numerico 102 e non 202.

Don Giuseppe Domenichi

Anagramma numerico

 

Don Giuseppe Battista da Grottagliea

Per gli dei Orfeob del nostro tempo

 

a  Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

b Persnaggio della mitologia greca, in grado di ammaliare col suono della sua lira gli animali e tutta la natura-

Lavorando un po’ di fantasia e mettendomi nei panni del Fapane, mi sono chiesto quale anagramma numerico avrebbe creato in onore di Copertino. Per evidentidenti ragioni cronologiche non avrebbe poturto  sfruttare il riferimento prima al santo dei voli e poi alla città californiana    (vedi      ) . Improvvisamente, però, mi son sentito afferrare la mano e guidare le dita sulla tastiera del pc a digitare quanto segue:

Chi avrebbe mai potuto immaginare

che tutto si sarebbe combinato

perché alla storia fosse consegnato

il nome tuo che già era rinomato?

Lo era già per il tuo Giuseppe santo,

di studenti e aviator provvido manto,

ma bisognava a completar l’incanto

che internazional diventasse il vanto.

Il millesettecentoseantasei eraa,

quando fra’ Pedro, giunto alla frontiera

di California, a mane o forse a sera,

senza piantare ombra di bandiera,

a un fiume che scorreva pian pianino

senza esitare, fattosi vicino,

della culla del santo salentino

gli diè lo stesso nome: Cupertino.

passaron gli anni e una città vi sorse.

Preveder nemmen san Peppino forse

potuto avrebbe quel che ieri occorse

con Silico valley e le sue risorse.a

a Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/02/s-giuseppe-da-copertino-1603-16639-in-due-ulteriori-testimonianze-della-sua-internazionalita/

Al lettore che dovesse accusarmi di aver aggiunto ai due espedienti dei quali ho detto all’inizio della prima pare, un terzo, quello della dissacrazione, voglio solo dire, com ampia possibilità di replica, per quanto mi riguarda sempre graditissima, che l’ironia e il sarcasmo, anche dissacranti, nascondono più amore e rispetto di quelli esibiti da tante ipocrite santificazioni.

 

PER LA PRIMA PARTE

https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/06/lenigmatico-enigmista-di-copertino-1-2/

 

 

L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

L’enigmatico enigmista di Copertino (1/2)

di Armando Polito

 

Dichiaro senza vergogna di aver voluto ricorrere fin dall’inizio a due espediente che, soprattutto il primo,  io stesso, s ho stigmatizzato  ripetutamente  su questo blog e non solo: il titoli “sparato” e la diluizione in più puntate, per attrarre il lettore impegnato pure nell’attesa speranzosa del prosieguo se l’inizio non lo avesse entusiasmato, stimolandone la curiosità, che può essere animata dai più disparati interessi, tutti astrattamente connessi al teoricamente nobile fine della conoscenza oscillante, però,  da quella dell’ultimo amorazzo del vip di turno, a quella di un’opera letterario degno di questo nome.

Perciò, se avessi scelto un titolo diverso, avrei perso l’occasione di tentare di dare il giusto rilievo ad un salentino il cui nome stranamente non è citato nei manuali di letteratura italiana nella schiera, pur folta, dei poeti marinisti, nella cui ammucchiata il letterato di Copertino avrebbe meritato, secondo me, di occupare un posto appena appena a ridosso del caposcuola Giambattista Marino.

Anzi, se la qualità fosse direttamente proporzionale alla quantità, Giuseppe Domenichi Fapane  non avrebbe rivali con i suoi epigrammi di Castaliae stillulae1, opera in sei volumi, pubblicati il primo nel 1654, l’ultimo nel 1671, per un totale di ben 1770 pagine, senza calcolare le mon poche non numerate.

Si tratta di un’opera rara (e da questo potrebbe esser dipeso il disinteresse degli studiosi) e gli esemplari per ciascun volume si contano sulle dita di una sola mano. Addirittura del sesto libro, dal quale ho tratto il gioco enigmistico che presenterò a breve, esisterebbe una sola copia custodita nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò , la cui esistenza, insieme con quella del secondo, pure l’OPAC mostra di ignorare. Quegli stessi appunti a suo tempo presi, che qualche anno fa mi consentirono di riesumare la memoria di questo figlio del Salento2, mi danno oggi la possibilità di chiarire il significato di enigmatico e di enigmista dominanti nel titolo.

Dell’enigmista tratterò nella seconda parte e dico preliminarmente che enigmatico è usato impropriamente per esigenze del titolo sparato, anche se in realtà rientra nella figura retorica dell’ipallage, per cui il mistero non riguarda la personalità del nostro ma solo il suo nome e cognome.

Ma, se ho già scritto Giuseppe Domenichi Fapane, non è evidente che il cognome del copertinese consta di due elementi? Nei manoscritti di una stessa opera, è cosa arcinota,  le varianti e la collazione, cioè il confronto, serve per la scelta della forma più attendibile, che teoricamente dovrebbe essere quella del manoscritto più antico, ma non sempre la teoria trova corrispondenza nella pratica. Lo stesso mi accingo a fare con l’autore di Castaliae stillulae, sfruttando, proprio il titolo completo che si legge nel frontespizio (riprodotto nel secondo link di nota 2) e che di seguto trascrivo:

Castaliae stillulae quingentae quae sextum rivulum Permessi conficiunt hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Fapane à Cupetino (Cinquecento gocce di poesia che formano il sesto affluente del Parnasso [fiume sul monte Elicona sacro alle Muse], ciòè degli epigrammi di Giuseppe Domenichi Fapane da Copertino). Questa prova schiacciante (quasi un autografo, più avanti ne vedremo un altro) del doppio cognome, trova conferma  nella lettera indirizzata da Antonio Muscettola ad Angelico Aprosio, custodita nella Biblioteca dell’Università di Genova (Ms. E.IV.14, Muscettola Antonio), che di seguito riproduco, mettendo in rilievo con la sottolineatura il dettaglio e trasctivendone la parte che ci interessa.

 

Appena giunto in Napoli, mi sono accinto a servir Vostra Paternità e perché so quanto le siano care le lettere degli amici, ho dolcemente violentato il nostro Battista, il Crasso, a risponderle, come vedrà dall’incluse. In quanto alle notizie per l’Atene Italica, speriamo mandargliene a dovizia. Per Giuseppe Domenichi, tutte l’opere sue sono stampate in octavo. La parte prime in Lecce appresso Pietro Michiele l’anno 1654 da lui dedicata alla Maestà d’Apollo. La seconda in Napoli presso Luca Antonio de Fusco, 1658 all’illustrissimo don Giovanni Vargas. La terza in Padova per Paulo Frambotto ad Alomso Vargas Principe di Carpino, Duca di Cagnano. Con questo la riverisco ..

La citazione del 1658, data di pubblicazione del terzo libro, ci consente di collocare cronologicamente la lettera tra dopo il 1659 (data in cui uscì il terzo libro).  Importante, ai fini di questa indagine, è il fatto che i precedenti citati Battista e Crasso sono cognomi (con i rispettivi nomi di Giuseppe e Lorenzo) e sarebbe strano che Domenichi non fosse la prima parte di un cognome.

A questo si aggiunga che in tutti i componimenti del nostro non facenti parte di Castaliae stillulae  e pubblicati sparsamente in altre raccolte di vari autori coevi (una sorta di antologia è nel primo link segnalato in nota 2, ma i successivi non pochi rinvenimenti mi hanno convinto dell’opportunità di un aggiornamento, che fornirò a breve) compare sempre Giuseppe Domenichi e l’assenza di Fapane dà la certezza che Domenichi era il cognome, anche se è poco probabile che, a questo punto un po’ di ironia non guasta (come, spero, quella che evoca l’ambientazione della vignetta della prossima seconda e ultima puntata, alla cui lettura nessuno vorrà rinunciare …), che Fapane fosse il soprannome legato all’attività di fornaio esercitata non da lui ma da qualche antenato.

E ppure, nonostante questo, le varianti, sia pure di epoca posteriore, non mancano.

In Nicola Toppi. Biblioteca Napoletana, 1678 a p. 172 si legge Giuseppe Domenico Fapano (sic!), più avanti (p. 245) Domenichi Giuseppe, che infine nell’indice generale (s. p.) diventa Fapane Giuseppe Domenichi.

In Domenico De Angrelis, Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710: nella parte finale, pagina non numerata, dell’elenco dei letterati che l’autore  si riprometteva di trattare nella prima parte di Istoria de’ scrittori salentini, opera che mai vide la luce, si legge Giuseppe Domenico Fapane.

In Giovanni Bernardino Tafuri, Serie cronologica degli scrittori nati nel Regno di Napoli in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, tomo XVI, Venezia, Zane, 1738,  p. 206:  Giuseppe Domenichi Fapane.

In Camillo Minieri Riccio, Notizia delle accademie istitute nelle provincie napolitane,  in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 294: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Napoli nobilissima, volume XIV, fascicolo II, s. n. Napoli, 1905, p. 27: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Michele Maulender, Storia delle accademie d’Italia, Cappelli, Bologna, 1930, p. 10: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Luisa Cosi e Mario Spedicato, Vescovi e città nell’epoca barocca, Congedo, Galatina, 1995, p. 122: Giuseppe Domenico Fapane.

 In Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto a cura di a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza e F. Rizzo, Congedo, Galatina, 2003, p, 12: Giuseppe Domenico Fapane.

In Le antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 91: Giuseppe Domenico Fapane.

Dalla collazione, lasciando da parte il Toppi che con le sue tre varianti, soluzione diplomaticamente irresponsabile, mostra, facendo onore non al cognome del copertinese ma al suo, di aver toppato, risulta che merita attenzione il Domenico del De Angelis. Egli mostra di intenderlo come traduzione del Domenichi del titolo del libro del copertinese. Anche se la forma latina di Domenico è Dominicus (il cui genitivo è Dominici) sono attestate fin dal secolo XIV le varianti Dominichus  (con genitivo Dominichi) e Domenichus (con genitivo Domenichi). Da questo probabilmente è nato il Domenico del letterato leccese contro il Domenichi che abbiamo visto ricorrere puntualmente nella cronologia a lui precedente.

C’è da aggiungere, dettaglio non secondario, che sicuramente la maggior parte della vita, come tanti letterati del suo tempo, il Fapane la trascorse lontano da Copertino e che i rapporti stretti con l’ambiente napoletano, del quale il Muscettola della lettera è uno dei rappresentanti, come tutti napoletani sono gli altri letterati (Giuseppe Campanile, Baldassarre Pisani, Tommaso di S. Agostino e Pietro Casaburi Urries, per loro vedi il primo link di nota 2), tutti suoi contemporanei,  che lo ricordano come Giuseppe Domenichi Fapane.

E, a dare poca credibilità al Giuseppe Domenico Fapane del salentino De Angelis c’è il Giuseppe Domenichi di un altro letterato salentino, Giuseppe Battista di Grottaglie (pure per lui vedi il link appena segnalato), contemporaneo del copertinese e posteriore, dunque, al De Angelis. Appare credibile che essi abbiano concordemente propalato un dato fasullo? Fuori gioco, per quanto prima detto, resta il Toppi che, pur essendo nato a Chieti, trascorse la parte più significativa della sua vita a Napoli, dove morì.

Se il Domenichi del frontespizio di Castaliae stillulae (al pari di Iberi fulminis scintilla breuia poemata. D. Iosephi Domenichi Phapanis a Cupertino. Poetae, et academici furibundi, Micheli, Lecce, 1654) continua a lasciare qualche dubbio, la pistola ancora fumante il valore di cognome di Domenichi la offre il frontespizio della terza ed ultima opera pubblicata autonomamente (le altre due sono quelle che avevo appena citato), quasi una seconda (non nel senso di alternativa) firma, dopo la prima di Cataliae stillulae.

Si tratta di Musarum lessus in obitu. Iosephi Baptistae. À Iosepho Domenichi, Cavallo, Napoli, 1675  (Il pianto delle Muse in morte di Giuseppe Battista. Da Giuseppe Domenichi). Se Domenichi fosse stato nome, avremmo letto,  À Iosepho Domenico(o, al limite, Domenicho) e, oltretutto, l’assenza di Fapane conferma la natura di cognome di Domenichi.

La demolizione dell’enigmatico del titolo è stata completata. Mi auguro che la mia fatica serva almeno ad apportare la dovuta correzione almeno ai due cataloghi considerati un punto di riferimento3. Appuntamento a breve con l’enigmista.

 PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/11/lenigmatico-enigmista-di-copertino-2-2/?fbclid=IwAR2yAqYaB2OHfEgOBZY0aVSLPaS50ZeoMPekSFlAr038FV3xbcvMRbRXEqw_aem_Abye8qV6DFwRycNFNi1GZHgU31caxiAQ7ngnk1y-OQcvDNVZtM29dgZ_rJSxnmkbPkUV7YRp4viTJEBdb_eJ_r9L 

_________________________

1 Traduzione: Gocce di poesia. Castalia è una fonte che prende il nome da quello della ninfa che in essa si gettò per sfuggire alla libidine di Apollo. Secondo una variante del mito fu Apollo a trasformarla in fonte conferendo alle sue acque il potere d’infondere ispirazione poetica a chi avesse bevuto le sue acque.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/26/galeazzo-pinelli-il-marchese-fatuo-di-galatone-nella-celebrazione-di-giuseppe-domenichi-fapane-di-copertino/

 

3 https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata?fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40&fieldvalue%5B1%5D=Domenichi+Fapane&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016#1712050322253

https://www.beweb.chiesacattolica.it/benilibrari/libro/859871116/Castaliae+stillulae+trecentae%2C+quae+quintum+riuulum+permessi+conficiunt.+Hoc+est+epigrammaton+Iosephi+Domenichi+Phapanis+a+Cupertino+liber+quintus#action=ricerca%2Frisultati&view=griglia&locale=it&ordine=&ambito=XD&liberadescr=Castaliae+stillulae&liberaluogo=&highlight=Castaliae&highlight=stillulae

 

Una nuova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese

di Santo Venerdì Patella

Sino a non molto tempo fa l’unico pittore conosciuto del tardo manierismo napoletano a Muro era, secondo quanto si evince dall’Antonaci, il neretino Donato Antonio D’Orlando con le tele della Madonna con bambino tra il Battista e San Francesco (firmata e datata 1596), il San Giovanni Battista (senza firma) ed il Perdono di Assisi (datata 1608, senza firma) conservate nella chiesa di Maria S.ma Annunziata matrice della città[1].

Da buon murese e per motivi di passione e studio, essendo al termine degli studi universitari in beni culturali, ammiro di frequente queste tele e spesso mi son domandato come mai una delle tre tele, il Perdono di Assisi fosse, a mio parere, diversamente bella dalle altre due.

Anche il De Giorgi ne aveva intuito la diversa bellezza e scrive, nei Bozzetti di Viaggio: “Due altri quadri sono collocati… (nella chiesa dell’Annunziata)…, uno S. Gio. Battista, l’altro Gesù Cristo che benedice S. Francesco (il Perdono). Sotto quest’ultimo si scorgono, alla base del dipinto, le effigie votive dei donatori. Sono del 1608 e di buon pennello, specialmente l’ultimo dei summentovati”.

Dopo questo breve preludio arrivo immediatamente all’oggetto del contendere.

Antonio Donato D'Orlando
Fig. 1 tratta da “La Puglia, il manierismo e la controriforma / a cura di Antonio Cassiano, Fabrizio Vona”, Congedo, Galatina 2013

 

Propenderei ad attribuire la tela del “Perdono di Assisi” [fig. 1] non più al D’Orlando bensì al Catalano, anche alla luce delle molteplici prove di seguito fornite.

Anzitutto faccio una sintetica descrizione dell’opera: la scena è pensata geometricamente; l’ipotetica metà verticale, che bipartisce in due la composizione del Perdono, a prima vista sembrerebbe passare tra le figure di Maria e Cristo con la mano destra alzata (vertice dell’altrettanto ipotetica piramide che inscrive le due figure), e per la croce greca al centro dell’altare damascato, su cui esse sono assise in trono.

In realtà la linea, che bipartisce la composizione, passa attraverso il centro della figura della Vergine ed il mazzo di fiori posto davanti al San Francesco, che in ginocchio contempla a bocca aperta, quasi inebetito, le divinità sovrastanti.

Ai lati sono presenti due scenette con paesaggi riguardanti la storia del Perdono: nella parte superiore schiere d’angeli (alcuni musicanti) completano l’opera bilanciandola ed impreziosendola; in quella inferiore i tre busti dei committenti.

Ora addentriamoci nell’analisi delle prove.

-Dato di non poco conto, è la presenza a Muro sempre nella chiesa matrice, della tela della Madonna con bambino tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola, attribuita tempo fa da Mario Cazzato al gallipolino Catalano[2] ritenuta dall’Antonaci di autore ignoto (opera su cit.).

Grazie a M. Cazzato sfatata è quindi la presenza del solo D’Orlando come unico pittore conosciuto ed attivo tra il 500 e 600 a Muro (oltre la tela della Madonna del Carmine attribuita allo Strafella, ritrovata poco tempo fa dopo il furto del 1987).

Perciò, ad arricchire la schiera degli artisti che hanno onorato Muro con le loro opere, v’è già il Catalano artista locale tra i più interessanti se non il più importante del suo periodo storico.

La Madonna con bambino è la prova del contatto dei committenti muresi col Catalano. Altro dato interessante è che la tela, anche se non datata, non è stata compiuta prima della canonizzazione di San Carlo Borromeo, anno 1610, pertanto realizzata dopo il Perdono di Assisi, datato 1608 che diviene la prima opera murese conosciuta del gallipolino.

-Anche se simile è l’impostazione originale nel trattare il Perdono, in confronto con le altre due tele del D’Orlando, non si ritrova però quello stile leggermente “arcaizzante” del modo di presentare i personaggi del neretino.

La linea delle figure del Perdono si presenta meno rigida, più fluente e sinuosa, bellissima ed elegante nei tratti dei visi e dei panneggi, specie nella maniera di dipingere le varie figure angeliche e le nubi.

Tipiche del Catalano le capigliature bionde ed ondulate delle creature celesti leggermente stempiate (quasi una “firma” dell’artista), disposte in cerchio sovra le nuvole, anche se nel gruppo di destra si potrebbe ipotizzare l’intervento della bottega.

-Altra “firma” si ritrova nelle scene con paesaggi poste ai lati dell’opera, specie nella città che è sita in alto a destra, usuale paesaggio fantastico dell’artista.

Quasi costante è la presenza dell’edificio a pianta centrale con cupola e relativa lanterna e la chiesa con facciata a capanna di gusto romanico, strutture simili a quelle dipinte nella tela dell’Annunciazione nella chiesa del Rosario, a Gallipoli.

Pongo all’attenzione dei lettori due curiosità:

1) questi paesaggi sono tanto interessanti che un altro grande pittore presente a Muro, il settecentesco Serafino Elmo, nella sua gigantesca tela del David che danza davanti al trasporto dell’Arca (posta nel coro della chiesa matrice) riprende quasi fedelmente l’architettura che il Catalano dipinse sulla tela della Santa Caterina d’Alessandria (conservata nell’oratorio di S. Giuseppe, a Gallipoli) specie nella struttura difensiva della torre; tutto questo quasi 130 anni dopo!

2) non manca a Muro anche la copia di un’altra tela del Catalano, la Salita al Calvario, il cui originale e conservato a Scorrano: anche se riprende in massima parte lo schema compositivo della tela scorranese, viene però realizzata col gusto di un’icona bizantina, opera curiosa e affascinante d’un artista “Bizantino-Naif”, esempio ultimo in città del gusto stilistico orientale del meridione; già il Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese menziona queste pitture in tal modo: “…sono da rimarcarsi alcune pitture di antichissima data condotte alla maniera greca del mezzo tempo”.

-Altra caratteristica del nostro artista è di riutilizzare in più opere i cartoni o disegni preparatori; questo lo si noti nelle figure del San Domenico e del committente nella tela di Madonna con bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino [fig. 6], ex chiesa dei domenicani: identiche le teste effigiate di profilo del nostro San Francesco e del San Domenico matinese, come identica la postura dei committenti maschili, specie nelle mani giunte, tanto simili da sembrar fratelli (per il nostro Perdono, l’opera matinese attribuita giustamente al Catalano, rappresenta quasi una pietra di paragone che avvalora le attribuzioni di entrambe.

Anche uno degli angeli posti a destra della Madonna nella tela murese è identico ad uno degli angeli posto a destra sopra l’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione della chiesa matrice di Specchia, come simili sono alcuni degli angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli.

Si noti che equivalenti sono i posti, ed in parte le posture, che queste figure hanno nelle rispettive opere.

Ora è fuor di dubbio che questa tela appartenga al Catalano; possiamo anche escludere che essa appartenga al D’Orlando che imita lo stile del gallipolino, perché semmai così fosse, in questa opera esso si sarebbe in realtà annullato come produttore d’opere originali, divenendone solo un “emulo-falsario” e verrebbe meno pure la loro ipotizzata rivalità, fatto questo che dichiarerebbe la “vittoria”, in termini artistici, del Catalano sul D’Orlando.

Pertanto possiamo ora esser certi della veridicità di quanto scritto, ed affermare che il Perdono di Assisi sia anche tra le migliori opere realizzate dal Giandomenico Catalano.

A Muro la partita tra i due grandi pittori, alla luce dei fatti sin ora scoperti, ebbe com’esito un salomonico risultato di parità: CATALANO – D’ORLANDO: 2 a 2.

 

(pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 1, ottobre 2003, p. 2)

 

Note

[1] cfr. A. Antonaci, Muro Leccese Storia e Arte, Galatina 1994, p. 364.

[2] cfr. E. Pendinelli – M. Cazzato, Il Pittore Catalano, Alezio 2000, p. 41.

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