Erbe, voli e unguenti nella stregoneria salentina

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Gianfranco Mele, Erbe, voli e unguenti nella stregoneria salentina

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 75-96.

 

ITALIANO

Questo lavoro consiste in un’analisi di vari documenti e testimonianze inerenti alla stregoneria salentina tra il XVII e il XIX secolo, al fine di individuare le componenti e le tipologie delle erbe utilizzate a scopo magico. Poiché sia nelle deposizioni presso i tribunali inquisitori, che in saggi e resoconti etnografici sul tema, non sono state mai descritte chiaramente le sostanze e le misture utilizzate, l’autore si è servito della sua personale conoscenza in ambito di droghe, maturata attraverso un lavoro decennale come sociologo nei servizi pubblici per le dipendenze e la partecipazione a varie attività e studi del gruppo di ricerca S.I.S.S.C. (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), comparando gli effetti di una serie di piante presenti nella flora spontanea locale, notoriamente utilizzate in ambito magico-stregonesco, con le esperienze descritte nei vari documenti vagliati. È stato utilizzato inoltre, come riferimento e a fini comparativi, la letteratura farmacologica e farmaco-antropologica in tema di stregoneria.

 

ENGLISH

This work is an analysis of various documents and testimonies concerning the witchcraft in Salento between the fifteenth and sixteenth centuries in order to identify the components and the various types of herbs used for magical purposes.

The substances and the mixtures used, have never been clearly described in the depositions at the inquisitorial courts, in the essays and in the ethnographic reports on the topic. Therefore, the author used his personal knowledge of drugs through his ten years’work as sociologist in public services for addictions and his participation in various activities and studies of research group S.I.S.S.C. (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), to compare the effects of a series of plants that exist in the local spontaneous flora, notoriously used in the context of witchcraft, with the experiences described in the various documents examined. Moreover, the pharmacological and drug-anthropological literature was used as a reference in the field of witchcraft.

 

Keyword

Gianfrano Mele, stregoneria, erbe, incantesimi.

Le tre grazie della beneficenza magliese

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Maglie

Paolo Vincenti, Le tre grazie della beneficenza magliese

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 57-71.

 

 

ITALIANO

Le tre grazie del titolo sono Francesca Capece, Concetta Annesi e Michela Tamborino, protagoniste di una stagione esaltante della storia magliese che, per quanto indagata a fondo, si ritiene valga la pena che sia rimemorata, perché davvero, con le parole di Anneliese Knoop-Graf, “dimenticanza e sciagura, mentre memoria e riscatto”.

 

ENGLISH

The three graces on the title correspond to Francesca Capece, Concetta Annesi and Michela Tamborino, the main characters of an exciting season of Maglie’s history which is worth to be remembered regardless how

deeply it has been investigated. According to Anneliese Knoop-Graf in fact “the oblivion is a catastrophe, instead the memory is redemption”.

 

Keyword

Paolo Vincenti, Maglie, beneficenza, Francesca Capece, Concetta Annesi, Michela Tamborino.

Il bellum sallentinum ed il mistero della dea Pales

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Nazareno Valente, Il bellum sallentinum ed il mistero della dea Pales

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 7-27

 

 

ITALIANO

Il passato ha preservato poche tracce del bellum sallentinum, l’evento che stabili la fine dell’esperienza preromana nella nostra terra. In totale una quindicina di righe, facenti in aggiunta parte di compendi, che di per sè non riescono neppure a delineare per sommi capi una lotta costata ai Romani due anni d’intense attività militari. Forse a causa di questa carenza di informazioni, gli storici sono concordi nel considerare la guerra per la conquista del Salento il banale epilogo di un’altra storia, quella che aveva visto soccombere Taranto sotto i colpi dei Romani. La misteriosa presenza d’una dea pastorale, Pales, sinora emarginata dagli addetti ai lavori al ruolo insignificante di fantastico abbellimento, ci farà invece scoprire che gli avvenimenti presero una piega ben diversa da quella che da tempo si dà per scontata. E non solo, le riflessioni, che la dea invoglierà a fare sul rapporto tra religione e sistema giuridico romano, consentiranno di far emergere episodi restati sinora nell’ombra e di pervenire infine ad uno scenario a tutta prima nemmeno lontanamente prevedibile.

 

ENGLISH

The past has kept few traces of the bellum sallentinum, the event that established the end of the pre-Roman experience in our land. About fifteen lines altogether, besides belonging to abridged versions that can’t even definite summarily a struggle cost to Romans two years of intensive military activities. Maybe because of this lock of information, the historians agree on consider the struggle to conquer the Salento as the banal end of another war, the one that had seen Taranto surrender to Romans blows. The mysterious presence of a pastoral goddess, Pales, till now isolated by the experts to the meaningless role of imaginary decoration, not only will give us the opportunity to reveal that the events had taken a crease very different from that taken for granted for a long time, but also the meditations, that the goddess will induce us to make on the relation between religion and the Roman legal system, will allow some events remained unknown to come out and at first to arrive to the slightest predictable scenario.

 

Keyword

Nazareno Valente, Brindisi, bellum sallentinum, Pales

 

Il pittore alessanese Oronzo Letizia (1657-1733 ca.)

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Stefano Tanisi, Il pittore alessanese Oronzo Letizia (1657-1733 ca.)

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 31-56

 

 

ITALIANO

Il pittore Oronzo Letizia (1657-1733 ca.), nativo di Alessano nel Capo di Leuca, è da considerarsi protagonista della pittura barocca in Terra d’Otranto tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. Nella sua famiglia di pittori si annovera tra l’altro Saverio, il figlio che seguirà le sue orme, Domenico e Aniello, padre e figlio, rispettivamente zio e cugino del nostro. In questo studio e per la prima volta elencata l’estesa produzione del Letizia, partendo da quella autografa che ci ha consentito di comprendere il ductus pittorico, risolvendo cosi una grossa lacuna attributiva di tanti dipinti che erano stati arrogati ad altri o segnalati genericamente come opere di artisti ignoti.

 

ENGLISH

The painter Oronzo Letizia (1657-1733) originally from Alessano, a commune part of Capo di Leuca, could be considered as the main character of baroque painting in Terra d’Otranto during the period between the end of the seventeenth-century and the beginning of the eighteenth-century. His family includes some important painters like the son Saverio which followed in the footsteps of his old man, Domenico and his son Aniello that are respectively uncle and cousin of our character. In this work is listed for the first time the Letizia’s large production and special role is given to the original hand-signed composition that allowed us to identify the painter’s «ductus», the distinguishing features which solved enormous gaps in the allocation of many of his paints usually considered achievements of other painters or, more generally, indicated as a product of unknown artists.

 

Keyword

Stefano Tanisi, Oronzo Letizia, pittura XVII-XVII sec.

Il delfino e la mezzaluna, n°8. Editoriale

di Alessio Palumbo – direttore

 

Cara lettrice, caro lettore,

come nel 2018, la Fondazione Terra d’Otranto ha deciso di inaugurare la serie di pubblicazioni previste per quest’anno con la rivista Il Delfino e la Mezzaluna, un periodico nato, oramai nel lontano 2012, con la stessa Fondazione e con essa cresciuto. La sua longevità, pur nell’avvicendarsi delle persone, pur con piccole e grandi modifiche formali e la sua diffusione nelle principali biblioteche salentine e nazionali, dimostra quanto questa terra abbia da raccontare ed offrire a chi, come noi (e come voi lettori) voglia conoscerla. Una poliedricità di argomenti, di tematiche, di figure che rappresentano il principale stimolo a continuare, pur di fronte alle immancabili difficoltà pratiche legate all’attività editoriale. Ma diamo il bando alle premesse ed iniziamo ad inoltrarci nel nuovo numero: l’ottavo della serie.

I collaboratori che gli hanno dato vita ci consentiranno, ancora una volta, di muoverci nel tempo e nello spazio, pur nei confini dell’antica Terra d’Otranto, visitando luoghi più o meno noti, scoprendo i personaggi (reali, mitologici, di pura fantasia, viventi o vissuti) che li hanno animati e li animano; ci permetteranno di ammirare le «tracce» lasciate dal loro passaggio e di scoprire testimonianze più o meno dirette e più o meno conosciute sulla loro esistenza. In questo numero, più che in altri, il piano del reale e dell’irreale, del concreto e del fantastico si intersecheranno e compenetreranno. Ma non vogliamo anticipare altro, lasciando a voi il piacere (si spera) di questa lettura.

Nel preparare questa edizione, il nostro fine è stato quello di portare alla luce degli studi che, pur nell’estremo rigore scientifico che li contraddistingue, non siano solo degli strumenti per conoscere una specifica realtà, ma anche degli stimoli per andare oltre, per interrogarsi, per guardare con occhi diversi il Salento. Questi saggi hanno, nelle nostre intenzioni, lo stesso ruolo dato alle «parole» da Cipriano Algor e dalla figlia Marta, i due protagonisti del romanzo La Caverna. Così disquisivano i due vasai, frutto della penna del nobel portoghese Josè Saramago:

“le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lì solo per farci arrivare all’altra sponda, quella che conta è l’altra sponda, A meno che, A meno che, cosa, A meno che quei fiumi non abbiano due sole sponde, ma tante, che ogni persona che legge sia, essa stessa, la propria sponda, e che sia sua, e soltanto sua, la sponda a cui dovrà arrivare”[1].

I saggi del presente numero siano dunque per voi delle rocce poste nel fiume per scoprire un’altra sponda e uno spunto per esplorarne altre ancora. Personalmente, mi sono limitato a disporre le pietre, grandi e piccole, nella maniera più comoda possibile per il tragitto. Tutto il resto è opera, ovviamente, dei saggisti che, rimanendo nella metafora, hanno modellato questi massi di parole e li hanno offerti a noi in maniera gratuita e con eccezionale disponibilità; del presidente Marcello Gaballo, instancabile promotore e fautore delle molteplici attività della Fondazione; di Maria Costanza Baglivo, Elena Serio e, da quest’anno, del giovane Eider Arley Baglivo Castriota, che hanno fornito l’indispensabile consulenza linguistica; dei fotografi Maurizio Biasco, Rocco Castrignanò e Lino Rosponi che hanno offerto i propri scatti, anch’essi in maniera gratuita; di tutte le persone che con consigli, annotazioni o magari proponendo degli studi che per svariate ragioni non han potuto trovare spazio in queste pagine, hanno permesso ancora una volta la nascita di un nuovo numero. A tutti loro un grazie sincero.

Non mi resta dunque, cara lettrice e caro lettore, che darvi il mio «benvenuti», se per la prima volta vi accingerete a sfogliare queste pagine, o il «bentornati» se già in passato avete avuto modo di leggere Il Delfino e la Mezzaluna e, proprio per questo, avete deciso di farlo nuovamente.

Buona lettura!

 

[1] J. Saramago, La Caverna, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 76-77.

Libri| Brindisi e San Giovanni al Sepolcro

Danny Vitale

Chi varca per la prima volta questo luogo, avverte immediatamente un’atmosfera quasi mistica da contemplare silenziosamente con grande rispetto, prima di inoltrarsi e iniziare questo “viaggio” nei secoli di storia che l’uomo e artisti hanno voluto tramandare perché ne potessimo cogliere la magia, lasciando a noi il privilegio di raccogliere i messaggi che mano a mano nei secoli gli studiosi hanno voluto interpretare. Quale è la funzione dell’edificio? Un tempio, una chiesa paleocristiana, un battistero? Chi ne ordinò l’edificazione, i bizantini, San Leucio, il crociato Boemondo in persona? Chi erano gli autori dei tantissimi simboli incisi lungo le pareti e sulle colonne del tempietto?
“Queste e tante altre sono state le domande che hanno ispirato il lungo e avvincente lavoro di ricerca, che hanno avuto come esito la pubblicazione di questo libro” – scrive nella premessa Antonella Romano, vice direttore del Gruppo Archeo Brindisino e continua.. “La frammentarietà delle fonti e delle notizie relative alla chiesa ci ha spronato ad andare oltre, a insistere nella ricerca, mossi dall’entusiasmo di scoprire, investigare, trovare risposte ai tanti quesiti che il monumento di San Giovanni al Sepolcro può sollevare.
Questo lavoro certosino, viene proposto con i risultati di tali ricerche e fornisce nuove chiavi interpretative inerenti i vari aspetti storico-artistici correlati all’edificio, prescindendo (ovviamente) da una dimensione affabulatoria, volta a costruire un’immagine desiderabile e mitica del territorio, spesso presente in contesti di promozione turistica. In qualità di operatori culturali, soci fondatori del Gruppo Archeo Br e guide turistiche autorizzate dalla Regione Puglia, abbiamo avvertito come prioritaria la valorizzazione di quello che è considerato uno dei monumenti più visitati e apprezzati della città di Brindisi».
Infatti leggendo e sfogliando il libro si percepisce subito che non si tratta di una semplice descrizione, ma una vera e propria inedita rilettura del monumento in tutti i suoi aspetti, storici, architettonici e artistici arricchita da mappe, immagini, note e riferimenti bibliografici. E cosi “Il tempietto”, questo il nome con cui affettuosamente è chiamato da molti brindisini, finalmente può vantare una monografia che potrà fungere da vera e propria guida per tutti coloro che vorranno fare un viaggio nel tempo e nella storia di Brindisi.

Il volume curato e scritto da Danny Vitale – direttore del G.A.B. (Gruppo Archeo Brindisi) e Antonella Romano – vice direttore del G.A.B.- è arricchito con i preziosi contributi di Francesco Calò – Dottore di ricerca in storia dell’arte e Fabrizio Sammarco – Dottore di ricerca in civiltà e culture dell’Asia e dell’Africa e socio del Gruppo Archeo Brindisi.

Il delfino e la mezzaluna – anno VI – n° 8

Anche per il 2019 la Fondazione Terra d’Otranto, grazie alla collaborazione di numerosi studiosi, ha dato alle stampe un nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna. L’ottavo volume di una rivista che, oramai da circa sei anni, offre pagine di approfondimento su vari argomenti legati con la storia, la cultura, l’arte e, più in generale, la vita, passata e presente, dell’antica Terra d’Otranto.

In questa edizione, l’annuario, con il classico formato A/4 e la copertina a colori, dipana nelle sue circa 270 pagine, organizzate nelle sezioni inaugurate lo scorso anno, il filo di un racconto che oscilla tra realtà e fantasia, tra passato e presente, tra ricordi e scoperte. Ecco dunque a voi, l’indice del nuovo numero:

Palumbo A., Editoriale

Sezione I – Storia

Valente N., Il bellum sallentinum ed il mistero della dea Pales

 

Sezione II – Personaggi

Tanisi S., Il pittore alessanese Oronzo Letizia (1657-1733 ca.)

Vincenti P., Le tre grazie della beneficenza magliese

 

Sezione III – Natura, Ambiente e Paesaggi

Mele G., Erbe, voli e unguenti nella stregoneria salentina

 

Sezione IV – Letteratura

De Maglio G., Pietro Pellizzari: una fonte pugliese per le Fiabe italiane di Italo Calvino

Rizzo C., Luigi Maria Personè (1902-2004): la leggerezza della letteratura

Scorrano L., L’episodio otrantino del 1480: scritture sui margini

Vincenti P., Storia minima

 

Sezione V – Arte

Cleopazzo N., E Napoli cominciò a fare scuola nel Salento

Di Furia U., Gennaro Cimafonte e l’altare maggiore della chiesa del Rosario di Martano

Marzano P., La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea)

Tanisi S., L’Educazione della Vergine di Niccolò de Simone e il Sant’Oronzo di Giovanni Andrea Coppola nella chiesa di Sant’Angelo a Tricase

 

Sezione VI – Spigolature di Terra d’Otranto

Caringella M., Una proposta per Paolo de Matteis nella chiesa delle Teresiane di Nardò

Gaballo M. – Polito A., Il testamento di Nicola Massa, barone di Collepasso e Neviano, a favore della chiesa dell’Incoronata di Nardò ed altri conventi del Salento

Giacovelli D., Spicilegium Castianense II

Manieri F., I custodi della memoria: per un’indagine sui collezionisti etnografici nel Salento

Mele G., Echi e aspetti del tarantismo in Sava e nel territorio limitrofo

Nocera M., Quando Luciana Palmieri scrisse della chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano

 

La rivista, come dalle intenzioni statutarie della Fondazione, resta fuori commercio ed è riservata ai soci della Fondazione nonché alle principali biblioteche provinciali, regionali e nazionali. Può essere richiesta inviando una mail a ildelfinoelamezzaluna@gmail.com riportando l’indirizzo di spedizione ed allegando copia di un versamento di 22 euro per ciascuna copia desiderata, quale rimborso per le spese di stampa e di spedizione. Il bollettino o il bonifico dovranno essere intestati alla Fondazione Terra d’Otranto, cc postale 1003008339/ IBAN IT30G0760116000001003008339.

Chiudiamo questa breve presentazione, alla quale seguirà nei prossimi giorni la pubblicazione sul sito degli abstract di ciascun saggio, ringraziando tutti gli autori che hanno preso parte a questa nuova fatica, i fotografi (Giuliana Grassi, Maurizio Biasco, Rocco Castrignanò e Lino Rosponi), i consulenti linguistici (Maria Costanza Baglivo, Elena Serio e Eider Arley Baglivo Castriota) e tutti coloro che, in modo diverso, hanno reso possibile la nascita dell’ottavo numero de Il delfino e la mezzaluna.

Dialetti salentini: pindinu

di Armando Polito

La voce di oggi trova una doppia corrispondenza nelle italiane pendio e pendino. Con la prima la corrispondenza è perfetta dal punto di vista semantico, essendo pindinu usato a significare una pendenza più o meno accentuata del terreno, nonché nella locuzione proverbiale l’acqua vae sempre allu  pindinu (l’acqua scorre sempre verso la pendenza) dai molteplici adattamenti metaforici aventi tutti in comune ilmriferimento ad una condizione fisiologica che favorisce un particolare domportamento. La corrispondenza di pindinu con pendino, invece, è solo formale ed etimologica1 essendo entrambe le voci derivate dallo stesso verbo, pindinu da pindire e pendino da pendere.

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1 Pendino è voce tecnico-specialiastica. Ecco le definizioni tratte dal lemma presente nella Treccani on line: 1. Nelle linee elettriche, telefoniche e sim., elemento metallico mediante il quale un cavo, un conduttore, ecc. è sospeso a una fune portante; in partic. il tirante verticale, generalmente di funicella d’acciaio, che sospende il filo di contatto alla fune portante delle linee elettriche utilizzate per trazione ferroviaria. 2. Ognuno dei tiranti in tondino di acciaio che vengono lasciati sporgere dall’intradosso di un solaio a sostegno di una camera a canna o di altre opere di soffittatura. 3. Nella tecnica della costruzione dei ponti, sono chiamate pendini le funi che, attaccate in serie a grossi cavi, sorreggono il piano stradale dei ponti sospesi. 4. Parte della sospensione delle locomotive avente la forma e la funzione di un tirante.  

Faccio osservare che la definizione n. 3 sembra autorizzare a considerare pendino come sinonimo di strallo, voce resa tristemente popolare dopo il disastro del ponte Morandi a Genova. Attendo conferma o smentita da qualche lettore ingegnere.

Per completezza va detto che anche pendio è deverbale da pendere, secondo la stessa tecnica di formazione che da fottere ha dato fottio, da mormorare mormorio, etc. etc.

 

I due grandi crocifissi di Presicce

di Andrea Erroi

 

Presicce città d’arte. Credo che questo più di altri epiteti identifichi a pieno il piccolo centro del basso Salento, che sorprende il visitatore per la bellezza del suo borgo, le sue chiese, la quantità e la qualità di opere d’arte in esse racchiuse.

La parrocchiale, una delle più belle chiese tardo barocche di terra d’Otranto, vanta diversi manufatti di importazione napoletana; il pregevole altare marmoreo, i manufatti di argenteria, la statuaria lignea, come la superba scultura dell’Assunta, sono solo alcuni esempi.

Nel XVIII sec. i contatti di Presicce con la capitale erano garantiti dalla nobiltà locale: ricche famiglie e personaggi eclettici che a Napoli avevano le loro residenze e dal clero, spesso imparentato con essa.

In questo vivace contesto culturale e di profonda devozione, si colloca l’arrivo a Presicce del grande crocifisso ligneo della chiesa del Carmine.

L’opera è attualmente posizionata lungo la navata della chiesa che sino al 1809 faceva parte del monastero dei Carmelitani; in origine, però, era sicuramente collocata su di un altare oggi scomparso e sostituito dagli altari tardo settecenteschi.

I dettagli emersi con il recente restauro permettono l’attribuzione (secondo il prof. Giovanni Petrucci) al celebre scultore Francesco Antonio Picano: la scultura, intagliata nel legno di tiglio, mostra infatti un elevato livello qualitativo, caratterizzato da una poderosa volumetria del corpo sapientemente modellato, nella plasticità dell’intricato panneggio e del cartiglio del titulus crucis.

 

Il Cristo è raffigurato con il capo ruotato sulla spalla destra, con gli occhi sbarrati ma ormai esanime, reca infatti la ferita del costato, i capelli sono modellati con ampie ciocche una delle quali scende sulla spalla.

Il restauro, si è svolto in tre fasi : quella cognitiva ( studio dell’opera e analisi stratigrafica), quella conservativa ( rimozione degli strati sovrapposti ed estranei all’opera, consolidamento della materia originale e disinfestazione dagli organismi xilofagi) e quella di integrazione (i fori dell’azione dei tarli, le crepe e le lacune interpretabili sono stati risarciti plasticamente e cromaticamente).

Il manufatto presentava numerose ridipinture, tre edizioni pittoriche sovrapposte celavano la policromia originale,completamente recuperata, caratterizzata da un incarnato molto chiaro sul quale si aprono le ferite, costituite da misurati rivoli di sangue.

 

Decisamente diversa rappresentazione del Cristo in croce è quella custodita in S.M. degli Angeli: anche in questo caso siamo di fronte ad un crocifisso in legno policromo realizzato per un ordine religioso, ma la spiritualità francescana dell’autore, fra’ Pasquale da San Cesario, lo caratterizza profondamente.

Nella raffigurazione decisamente cruenta del Crocifisso, l’espressione è affidata non tanto alla qualità dell’impianto scultoreo, quanto invece alla comunicatività accessoria di laceranti ferite, che si ripetono con insistente ossessività su ogni parte del corpo di Cristo.

La figura pende dolente dalla grande croce nera caratterizzandosi per un modellato asciutto e rigido dove l’idea della realtà è unicamente suggerita da particolari espedienti: le vene e i tendini in forte rilievo, il sangue che sgorga abbondantemente dal costato ( realizzato con cera rappresa su dei fili), le numerose piaghe che lacerano l’inerme corpo (intorno alle piaghe, a simulare la pelle lacera, vi è della pergamena, stuccata e dipinta) e la colonna vertebrale che sporge da una vistosa piaga del dorso, con un gusto quasi compiaciuto per il macabro ma che in realtà riassume la profonda religiosità francescana, contemplativa della Passione, caratteristica che si trova peraltro in tutte le coeve realizzazioni interne all’ordine dei francescani riformati ( opere di Umile da Pietralia, Angelo da Pietrafitta).

A sottolineare questi sentimenti di pietà e contrizione che l’opera doveva suscitare nel fedele vi sono i tre angeli dolenti che con il calice raccolgono il sangue del Salvatore.

Anche per il gruppo scultoreo di S. M. degli Angeli è stato necessario un intervento di restauro, che si è svolto in tre fasi : quella cognitiva con le analisi stratigrafiche, quella conservativa e quella di integrazione. I manufatti (croce, crocifisso, cartillio e tre angeli dolenti) presentavano diverse ridipinture e riverniciature annerite, che celavano quasi completamente la policromia originale, diverse problematiche conservative interessavano il supporto ligneo (legno di noce) e l’aderenza di strati preparatori e pellicola pittorica.

Il precario stato conservativo dell’opera è da ricondursi alle travagliate vicende che ha conosciuto il complesso francescano, dalla soppressione risorgimentale, all’alluvione del 1957 ed il successivo abbandono. Durante gli anni di oblio i tre angeli furono trafugati, per poi essere ritrovati nel 1998 dalla Guardia di Finanza, mentre il crocifisso fu trasportato nella parrocchiale.

Dopo i restauri dell’edificio il gruppo scultoreo è stato riassemblato e ricollocato sul suo altare, nella seconda campata della chiesa.

Scriveva p. Bonaventura da Lama nel 1724: << ..In mezzo alla prima nave, a man sinistra, quando si entra in chiesa, v’è un Crocefisso scolpito da un nostro laico fr. Pasquale da S.Cesario, col P.S. Francesco inginocchiato che piange teneramente la morte di Cristo.>>, della scultura di S. Francesco non vi è più traccia ma consola il fatto di aver ricostruito, se pur parzialmente, una porzione di storia del complesso.

Il restauro è un momento tanto delicato quanto straordinario nella vita di un’opera d’arte: momento caratterizzato da una serie di operazioni atte ad arginare il naturale degrado della materia costitutiva l’opera stessa, riparare i danni inferti da interventi precedenti o dall’uso stesso dei manufatti, il recupero estetico dei contenuti formali.

È inoltre un momento unico anche per lo studio dell’opera, infatti è durante l’intervento che emergono importanti informazioni riguardo la tecnica di esecuzione, la storia manutentiva e la datazione dei vari materiali adoperati.

Il restauro eseguito su questi due crocifissi, assai simili per dimensioni ed epoca, ma tanto differenti per la tecnica esecutiva e l’interpretazione della Crocifissione stessa, ha permesso di comprenderne meglio la storia, recuperando la loro antica bellezza che il tempo aveva svilito, garantendo la loro conservazione per le generazioni future.

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Il “ritorno al futuro” del Salento sostenibile: muretti a secco e pajare

Il “ritorno al futuro” del Salento sostenibile: muretti a secco e pajare. Dall’innovazione turistica degli anni settanta alla nuova/vecchia risorsa del turismo rurale: “Il Borgo”

di Cristina Manzo

 

Tu non conosci il Sud, le case di calce

da cui uscivamo al sole come numeri

dalla faccia d’un dado.

Vittorio Bodini1

 

Fig. 1 – Casa patronale rurale, (Borgo rosso terra, contrada Masseria Bianca, Alezio)

 

Fu nelle vie di questo Borgo che nuova cosa m’avvenne.

Fu come un vano sospiro il desiderio improvviso d’uscire

di me stesso, di vivere la vita di tutti,

d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni.

Umberto Saba2

 

Il Turismo Sostenibile e Sociale è una tipologia ricca di sensibilità del tutto nuova nell’ approccio con la meta prescelta e, contrariamente a quanto si possa pensare, non è un dato scontato nella realtà dei vacanzieri e degli albergatori. Esso è frutto di un lungo lavoro di pianificazione e sensibilizzazione verso le risorse possedute dal territorio e verso l’ideologia che esse debbano essere valorizzate, rispettate e vissute nel migliore dei modi, offrendo in cambio un patrimonio inestimabile di cultura, amore, bellezza e tradizioni a chiunque accetti di usufruirne.

Il Turismo Sostenibile e Sociale è l’unica via di “scelta consapevole” che può rinnovare la crescita storico-culturale e anche economica di un territorio unico come quello del Salento, preservandone qualità e prerogative, perché solo una cura attenta per l’ambiente può assicurarne il futuro, e al tempo stesso solo una prestazione di qualità può assicurare la presenza e la fidelizzazione dei “viaggiatori consapevoli” nel lungo termine.

Il Salento, da molti anni, è la meta preferita di turisti italiani e stranieri che arrivano da tutte le parti del mondo per godere del suo meraviglioso mare, dei paesaggi bucolici, del vento, del sole, del suo folclore, dell’arte e della cucina.

Il Viaggiatore di oggi, però, appare visibilmente diverso dal Viaggiatore di ieri. Con lo stress e il caos che abitano la vita moderna, le attività giornaliere sempre più intense e impegnative e gli obblighi e i limiti che ognuno si impone come valore etico del vivere, nonché come meta personale, il concedersi un viaggio diventa, a tutti gli effetti, un premio meritato che non deve deludere le aspettative di ricompensa emozionale, sia per il Viaggiatore stesso che per chi lo accompagna durante la vacanza. L’idea di viaggio, quindi, risulta essere una priorità di esigenze e un compromesso di qualità e aspettative alle quali il luogo prescelto non può e non deve assolutamente disattendere. In un mondo dove si parla sempre più di sostenibilità, di bioenergie, di ecologia e di architettura a impatto zero e, quindi, di destinazioni turistiche sostenibili, la statistica dimostra che la scelta del Viaggiatore è orientata diffusamente verso un “turismo del benessere” e un “turismo rurale” nel quale il territorio salentino sta dimostrando di poter eccellere senza alcun timore di concorrenza.

Si deve considerare inoltre che, se fino a qualche decennio fa, erano gli adulti a poter vantare il record dei viaggi, oggi questo record è detenuto senz’altro dai bambini che, già in tenera età, vengono inseriti dai “nuovi genitori” nella dimensione del “viaggio di famiglia”; e, affinché esso possa compiersi in maniera soddisfacente, deve potersene verificare l’appagamento per tutti i suoi membri.

In tempi recenti gli strumenti necessari per questa riuscita sono stati tutti i tipi di comfort possibili e, magari, una vista mozzafiato ma, oggi, la risorsa principale che rende vincente una struttura è esattamente l’opposto: la tranquillità, l’oasi di pace, la natura, la qualità della vita e delle attività relazionali e ricettive che, all’interno della stessa, tutto il personale operante riesce a profondere e a praticare; ovvero la vacanza diventa un periodo da trascorrere in una specie di grande famiglia allargata, dove gli ospiti diventano per pochi o molti giorni, (a seconda della durata del tempo disponibile), parte integrante di questa comunità, senza sentirsi neanche per un attimo ospiti ma…”di casa”. Un luogo dove quando arriva il momento del commiato è tale la commozione e la sensazione di “mancanza” che già si pensa inconsciamente a pianificarvi un ritorno, perché è come andare a trovare quei parenti lontani che ti fanno davvero sentire amato, anche quando ti separa una grande distanza.

Una vacanza che diventi attaccamento emotivo per l’accoglienza ricevuta, la simpatia dimostrata dallo staff, le attenzioni singolari “dedicate” è intrisa di mille sfaccettature che la rendono tale: quel cane che scodinzola giocoso e che per tutta la durata della vacanza diventa il “tuo” cane, l’autista della navetta che ti porta al mare mentre ti fa da cicerone, la sensazione di pace che ti avvolge nel momento del rientro, la gratitudine per il contadino che ti offre le sue primizie, per la cucina semplice e saporita dei prodotti della terra e del mare, cotti senza mistificazioni. E ancora, per i rametti profumati di spezie della macchia mediterranea che, più di ogni altra essenza, sanno restare impresse nella memoria del cuore, per le feste popolari organizzate esclusivamente per te, che vieni a visitare queste meraviglie nuove, perché tu possa sentirti parte integrante della cultura locale, del divertimento sano, genuino e generoso. Tutte qualità in cui il Salento eccelle da sempre. La sua ospitalità è, infatti, proverbiale.

Fig. 2,3, esempi di ambienti bucolici e ospitali a impatto zero, costruiti con materiali naturali nel pieno rispetto dell’ambiente e della bioarchitettura, (Borgo rosso terra)

 

Lo stile che, meglio sembra rispondere a queste aspettative e a questi nuovi canoni del turismo responsabile è proprio la vita di “Borgo”, di un borgo rurale.

Ma che cos’è un borgo rurale? Storicamente ed etimologicamente un borgo è un piccolo agglomerato di strutture abitative disposte in maniera sparsa e non molto distanti l’una dall’altra, con degli edifici destinati all’uso comune, una piazza, dei viottoli, dei campi, un pozzo, e un orto, il tutto circondato da una recinzione che ne delimita l’accesso.

Ci sono borghi antichi, da cui è nata la bellissima iniziativa dell’albergo diffuso per recuperare luoghi ormai inusitati, di elevato potenziale storico e di rara bellezza e, ci sono i borghi turistici costruiti a immagine di questi ultimi, per permettere al Viaggiatore di rivivere quell’autentica atmosfera di quiete e magia e, nel Salento, ce ne sono veramente tanti.

I più belli sorgono attorno a case patronali datate e a costruzioni preesistenti delimitate dai muretti a secco tipici del territorio, con le pajare, che sono il simbolo della nostra cultura contadina, il pozzo e un piccolo orto biologico che basti a soddisfare le necessità degli ospiti che albergano nella struttura.

Fig. 4, esempio di Orto biologico (Borgo rosso terra, contrada Masseria Bianca, Alezio)

 

Attenzione fondamentale è quella che va posta nella rotazione delle semine in base al periodo stagionale per ottenere dalla terra ciclicamente quelli che sono i suoi prodotti naturali, senza sfruttare dannosamente il terreno sempre con le stesse colture per non impoverirne le sue componenti minerali. Come ricorda un antico proverbio Navajo: “L’uomo non eredita la terra dai propri antenati, ma la prende in prestito dai propri figli”. Quale migliore accoglienza, quindi, di quella che offre un turismo rurale con il suo orto biologico a km 0, che mostra visibilmente ai suoi ospiti il rispetto per la natura? Di un borgo dove la vita scorre lenta senza orologio se non quello biologico? Di un mondo al di fuori dal mondo che rispetta in tutto ogni elemento della terra?

Le strutture murarie sono tutte erette con calce e con pietra viva proprio per avere un impatto minimo sulla natura. Sono usi e costumi antichissimi, quelli di servirsi della pietra viva nelle costruzioni rurali e bisogna essere artigiani di grande maestria per saperlo fare. Le campagne salentine sono piene zeppe di queste capanne di pietre sia di forma conica che quadrata,(che è molto più recente e innovativa come forma di costruzione) che fungevano da ristoro per le bestie e per i contadini durante la lunga giornata di lavoro nei campi. Alcune servivano per mettere al riparo gli attrezzi agricoli, altre come deposito per la paglia, il fieno o i cereali. Oggi esse rappresentano il fiore all’occhiello dell’accoglienza per il turismo rurale salentino.

La dicitura Pajaru o Pajara che si ritrova anche nella trascrizione Pagghiaru o Pagghiara indicava, secondo come la descrisse Angelo De Fabrizio (in “Quisquiglie etimologiche intorno al nome di una costruzione tipica della campagna salentina”), una costruzione in pietra a secco con copertura di paglia, ed era diffusa nei catasti onciari della provincia di Lecce. L’architettura rurale in pietra a secco nasce da uno stretto legame con le caratteristiche del suolo e dell’ambiente3.

“Il Salento è una terra tutta piana, con le capanne dei pastori dette pagliare, a forma di cappello conico, quasi piccolissimi trulli. Le costruzioni coniche orientaleggianti sembrano essere nella Puglia del Sud la forma più naturale dell’architettura. E la pianura su cui sorgono è tutta marina, spazzata dai venti tra mare e mare. I riverberi, i luccichii, i soffi dei due mari sembrano quasi incontrarsi a mezz’aria; così tutto si presenta lucido, come se fosse avvicinato da un effetto ottico, ed insieme ingannevole. Sembra anche d’essere sul mare se si alzano gli occhi, contemplando le nuvole che galoppano velocemente tra l’Adriatico e lo Ionio. Il Salento è una terra di miraggi, ventosa; è fantastico, pieno di dolcezza; resta nel mio ricordo più come un viaggio immaginario che come un viaggio vero” (Guido Piovene)4

 

Fig.5, 6, pajare tradizionali salentine e muretti a secco, patrimonio culturale della nostra terra e ora anche dell’UNESCO. Vista dall’alto di un borgo di tipo diffuso.(Borgo Rosso Terra)

 

Il borgo turistico rurale si estende in maniera diffusa e orizzontale, a differenza delle classiche strutture verticali, favorendo l’acclimatazione degli ospiti in un’atmosfera tradizionale e familiare. Muretti e pajare sono sempre presenti dove l’ambiente possiede naturalmente la materia prima e cioè la pietra di natura calcarea. Esse sono a pieno titolo parte integrante del paesaggio architettonico,

L’impatto ambientale di una pajara è molto basso per la sua assoluta integrazione con il territorio che ne annulla l’impatto visivo, essendo le strutture perfettamente e omogeneamente contestualizzate nel paesaggio rurale.

Fig. n. 7,8,, Pajare coniche e quadrate, a impatto paesaggistico naturale. (Borgo Rosso Terra, contrada Masseria Bianca, Alezio)

 

I muretti a secco si rivestono di una funzione importantissima e impareggiabile nel paesaggio rurale e nell’ecosistema: essi racchiudono al loro interno un nicchia ecologica vitale che altrimenti avrebbe difficoltà a coesistere. Un vero e proprio “binario” che permette lo scorrimento di una microfauna plurima e multiforme di insetti, piccoli rettili ed anfibi che operano spontaneamente, in modo sinergico all’agricoltura umana, per il mantenimento di un ambiente sano e a scapito di parassiti. I loro interstizi ne divengono dimora e nascondiglio, (come nel caso del bellissimo serpente “cervone”, specie protetta e in via di estinzione che è tipico della macchia mediterranea e molto diffuso nelle campagne del Salento).

La presenza di questi muretti nelle zone aride aiuta non solo a combattere l’erosione del suolo ma, riveste una importante funzione nella lotta alla desertificazione e salificazione del suolo. In loro corrispondenza si crea un microclima particolare, favorevole alle piante mediterranee che possono così, grazie alla maggiore disponibilità idrica, superare la crisi estiva.

Sono decisamente numerose le specie botaniche che crescono lungo i muri a secco. Si va dai più comuni rovi, ai cespugli di salvione giallo o di timo, ma troviamo anche il lentisco, il mirto, l’alaterno e la quercia spinosa. Ci sono poi la rosa di S. Giovanni, il prugnolo, la reseda alba e il finocchio comune con l’asparago pungente e numerose graminacee. La ricchezza maggiore di specie botaniche si ha proprio tra le fessure delle pietre ricoperte da muschi e licheni, veri pionieri della complessa ed affascinante vita che pulsa nel muro a secco. Il substrato che si sviluppa dall’azione combinata dei licheni e dai muschi permette poi la nascita di altre piante superiori. Nelle fessure, dove si ha la condensazione della rugiada, si possono incontrare diverse aspleniaceae come l’erba ruggine, nonché l’ombelico di Venere, la draba murale, numerose scrofulariaceae e le veroniche. Specie lianose, come l’edera, e la salsapariglia nostrana, ricoprono spesso i muri a secco più vetusti, offrendo, con le loro fronde ricche di fogliame, ripari ai nidi di numerose specie di passeriformi5.

L’UNESCO ha iscritto “L’Arte dei muretti a secco” nella lista degli elementi immateriali dichiarati Patrimonio dell’umanità in quanto rappresentano “una relazione armoniosa fra l’uomo e la natura”. La notizia è stata data con un post sul profilo Twitter dell’organizzazione, che si congratula con gli otto Paesi europei che hanno presentato la candidatura: oltre all’Italia, Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Slovenia, Spagna e Svizzera. Nella motivazione dell’UNESCO si legge:

– “L’arte del dry stone walling riguarda tutte le conoscenze collegate alla costruzione di strutture di pietra ammassando le pietre una sull’altra, non usando alcun altro elemento tranne, a volte, terra a secco. Si tratta di uno dei primi esempi di manifattura umana ed è presente a vario titolo in quasi tutte le regioni italiane, sia per fini abitativi che per scopi collegati all’agricoltura, in particolare per i terrazzamenti necessari alle coltivazioni in zone particolarmente scoscese”. Soprattutto nelle zone costiere e nelle isole italiane i muri a secco sono così comuni che spesso si dimentica la loro importanza storica e sociale. In Puglia, per esempio, ci sono i muretti risalenti all’epoca dei messapi con una struttura a blocchi squadrati poggiati orizzontalmente, quelli patrizi che svolgevano il compito di delimitare tenute e poderi appartenuti a casati di gran nome, quelli del volgo, costruiti dallo stesso contadino a delimitazione della piccola proprietà chiamata chisùra. Ancora una volta i valori dell’agricoltura sono riconosciuti come parte integrante del patrimonio culturale dei popoli. I nostri prodotti agroalimentari, i nostri paesaggi, le nostre tradizioni e il nostro saper fare sono elementi caratterizzanti della nostra Storia e della nostra cultura”6 .

Ora, immaginate un bellissimo borgo rurale disseminato ad arte di questi muretti e di queste pajare, ognuna con un nome caratteristico che si rifà ai frutti e alle spezie della terra salentina, dislocate attorno ad una casa patronale imbiancata a calce; tutti i vialetti illuminati delimitati da pietre vive incastonate, una vicina all’altra, a formare preziose cinture murarie, alberi, cespugli, fiori, prati, piazzole lastricate e tante lanterne che ne disegnano ad arte i sentieri…un bar, un ristorante, una piscina e cani e gatti che scorrazzano felici…Un posto che risulti isolato e immerso nella pace pur restando tuttavia a due passi dal mare, a due passi dal paese o dalla città a cui appartiene e che consenta comunque ai suoi ospiti di evadere liberamente da quella pace per organizzare gite ed escursioni di qualsiasi tipo si abbia voglia. Un borgo rurale a misura d’uomo.

Quale posto potrebbe risultare più accogliente e romantico di questo per accogliere il nostro “Viaggiatore”? Il borgo diventa, così, un po’ casa e un po’ albergo, proprio per chi non ama i soggiorni in strutture scontate ma ha bisogno di sentirsi in un ambiente familiare anche, o soprattutto, quando è in vacanza. La struttura del borgo sottolinea una struttura orizzontale, e non verticale come quella degli alberghi tradizionali che di solito appaiono come dei veri condomini. La formula del borgo rurale offre un ritorno alle origini, alla vita sana, all’aria buona e alle radici che l’uomo ha con la terra, al gusto del mangiare bene con una scelta consapevole, nonché, in un’atmosfera familiare e ospitale.

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

Immaginate infine un’estate piena zeppa di feste, dove ogni occasione diventa un’occasione di incontro di culture e di omaggio alle tradizioni, e dove si cerca di trasmettere questa rispettosa sapienza ad ogni ospite, persino ai bambini: fare la salsa secondo la tradizione, in mezzo ai prati, cominciando di buon mattino, promuovere le nostre grandiose cantine vinicole con degustazioni di vino e di cibi locali, creare un percorso enogastronomico dove si assiste al “live” delle nonne che impastano le orecchiette, che friggono le famose pittule salentine che, in alcune zone del Salento sono conosciute come “cecamariti”, assistere al “casaro” che fa le mozzarelle davanti agli occhi increduli e adoranti degli ospiti.

Viene naturale, per esempio, lasciarsi coinvolgere dal divertentismo puro con le acrobazie di saltimbanchi, di mangiafuoco e di un’improvvisa scatenata danza di pizzica salentina o dalla musica di una tradizionale “banda di ottoni e tamburi” che attraversa le vie del borgo radunando dietro di sé tutti allegramente, e per finire, perché no, da una miriade di bellissimi fuochi d’artificio che illuminano di colore il blu cobalto del cielo. È questa la vacanza che resta impressa, quella che parla al cuore, quella che suscita emozioni uniche che riecheggiano nei ricordi del tempo come i colpi delle bacchette su quei “tamburi”… Perché in una struttura orizzontale, come quella di un agriturismo o di un borgo rurale, è veramente possibile coinvolgere tutti alla compartecipazione di un sano divertentismo e alla spensieratezza, che è quello stato emozionale che, oggi più che mai, il Viaggiatore ricerca nella sua vacanza.

ph Khalil Forssane

 

Ma, per dirla meglio con le parole rilasciate in un’intervista dal noto videomaker Fabrizio Vaghi, che dapprima insieme al padre e poi da solo ha girato il mondo:

Ogni volta in cui incontro viaggiatori approdati nel Salento (ripeto, viaggiatori non turisti), ad affascinarmi è la potenza emotiva con cui lo raccontano, il fascino con cui lo ricordano, la meraviglia con cui riempiono il loro zaino in spalla, la verità con cui ripercorrono le tappe del loro viaggio. Ché, in questi casi, di vero e proprio viaggio si tratta, di avventura, di scoperta, di intime riflessioni e di emozioni condivise. Un viaggio che ha tanto da raccontare.

  • Come vive il Salento un videomaker? Cosa provano i suoi occhi, cosa suggeriscono le emozioni, mentre vaga per il mare e la campagna, le stradine di paese e le feste popolari?

Un videomaker nel Salento non può che farsi traportare dai colori e dai profumi di questa terra, spalancare gli occhi e la mente verso il mare cristallino, le distese di uliveti, le storiche masserie, le città storiche tipicamente barocche. Un mix di emozioni che vanno catturate, vissute e raccontate.

  • Ci racconti quali sono, secondo te, le bellezze custodite nel Salento? Cos’ha di magico questa terra?

Se penso al Salento la prima cosa che mi torna alla mente è Lecce, una città d’arte che mi ha sorpreso per le sue architetture scolpite nella tenera pietra locale, famosa anche per la sua tradizione della cartapesta. La magia credo che risieda nei suoi abitanti, che hanno saputo portare avanti tradizioni e usanze popolari, senza farle invecchiare o peggio ancora estinguere, penso alla taranta e alla pizzica per esempio.

  • Qual è la località turistica costiera che più ti ha privato di fiato e di parole?

 

Senza dubbio è Gallipoli, circondata dall’acqua come una città-isola. Il suo centro storico, piccolo quanto basta, sembra essere rimasto intatto nel tempo, baciato dal sole e accarezzato dall’acqua. Curioso veramente constatare che l’unica via d’accesso al borgo sia soltanto un ponte, acqua a destra, acqua a sinistra.

immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208
  • Si dice che il mal di Salento colpisca turisti e salentini costretti a vivere lontano. Cos’è che resta nel cuore del Salento?

Per rispondere con una battuta: “la voglia di tornare”.

  • Ci saluti con un tuo pensiero personale o una citazione che racconti cos’è per te il Salento?

Terra di sapori, colori e meraviglie. Terra scaldata dal sole e da un popolo che sa sempre essere ospitale, cordiale e farsi amare. Questo è il mio personale ricordo del Salento7.

Fig. 9, 10, i salentini ospitali e cordiali, si fanno amare. (Borgo Rosso Terra)

 

 

Note

1– Da Foglie di tabacco (1945-47), in La luna dei Borboni (1952), a cura di Antonio Mangione, Besa Editrice, Nardò (Lecce).

2– Umberto Saba Il Canzoniere (1900-1947) 1°Ed Di Lusso Garzanti 1951.

3– De Fabrizio Angelo, Quisquiglie etimologiche intorno al nome di una costruzione tipica della campagna salentina, (s. n.), a. I, pp.302.307, nell’Apulia di Eugenio Selvaggi (1910.1914), nella sezione glottologia e dialettologia, p.325, fondata nel 1910 a Martina Franca in Terra d’ Otranto da Eugenio Selvaggi. Essa è stata tra le più importanti riviste di storia regionale apparse nel mezzogiorno d’Italia nei primi del novecento. emeroteca a.provincia.brindisi.it/…/1975/…/L’ApuliaDiEugenioSelvaggi

4https://culturasalentina.wordpress.com/2010/09/07/lincantevole-lecce-di-guido-piovene/

5http://www.murettiasecco.com/muretti_a_secco_ecosistema_paesaggio/

6https://www.repubblica.it/cronaca/2018/11/28/news/unesco_muretti_a_secco_patrimonio_dell_umanita_-212865884/

7http://www.nelsalento.com/blog/la-vacanza-nel-salento-fabrizio-vaghi/

Nardò – Portoselvaggio

 

*Tutte le immagini numerate da 1 a 10 contenute in questo articolo sono scatti personali o di proprietà del sito turistico Borgo rosso terra.

* Tutte le immagini che recano la didascalia “Borgo rosso terra sono state scattate presso il Borgo rosso terra, borgo agrituristico sito in località Contrada Masseria Bianca, Alezio, (Gallipoli), di proprietà del signor Luca Mulino.

Viaggiatori tedeschi nel Sud Italia

di Paolo Vincenti

L’interesse dei tedeschi per il sud Italia parte da lontano. Già nel Cinquecento, Paul Schede detto Melissus (1539-1602) parlò di Rudiae negli Epigrammata in urbes Italiae del 1585 (1). Johann Heinrich Bartels (1761-1850) visita il Sud ma solo la Calabria e la Sicilia, verso la fine del Settecento, e documenta il suo viaggio nell’opera Briefe über Kalabrien und Sizilien. Dieterich, Göttingen 1787–1792 (2).
Nel Settecento, arrivano in Italia il Barone von Riedesel  e il pittore Jacob Philipp Hackert. Abbiamo già detto del tedesco Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach (1740-1785) e del suo libro, Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann, che è, come dice il titolo, un’opera epistolare, diretta al famoso archeologo Winckelmann (3).

Diplomatico e ministro prussiano, Riedesel aveva conosciuto a Roma e frequentato il Winckelmann, il quale gli aveva fatto da guida nella esplorazione dei monumenti della città. Il suo libro divenne un punto di riferimento in Germania e fu molto letto, anche da Goethe, che lo elogia nella sua opera “Viaggio in Italia”, in cui sostiene di portarlo sempre con sé, come un breviario o un talismano, tale l’influenza che quel volume, per la puntigliosità e l’esattezza delle notizie, esercitava sugli intellettuali (4).

Jacob Philipp Hackert (1737-1807), nella sua opera pittorica I porti delle Due Sicilie (Napoli 1792) inserì i porti di Gallipoli e di Otranto. Il grande artista divenne pittore di corte del re Ferdinando IV di Napoli e in questa veste fu in Italia con molti incarichi come quello di supervisionare il trasferimento della collezione Farnese da Roma a Napoli. Fu amico di Goethe che scrisse di lui nella sua opera “Viaggio in Italia”. Ma l’incarico più prestigioso che il pittore ricevette dal re Ferdinando IV fu la commissione del famoso ciclo di dipinti raffiguranti i porti del Regno di Napoli.

Le numerose vedute dei porti si articolano in tre gruppi suddivisi tra le vedute campane, pugliesi, calabresi e siciliane. Per eseguire i disegni preparatori si recò così in Puglia e in Campania. La serie comprende 17 quadri e si trova ancora oggi custodita alla Reggia di Caserta; vi sono raffigurati esattamente i porti di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Monopoli, Gallipoli, Otranto.

La serie è stata in mostra, dal 20 giugno al 5 novembre 2017, presso la Sala Ennagonale del Castello di Gallipoli (Lecce).  L’esposizione intitolata “I porti del Re”, a cura di Luigi Orione Amato e Raffaela Zizzari, prodotta dal Castello in collaborazione con la Reggia di Caserta e il Comune di Gallipoli, ha visto all’inaugurazione l’intervento dello storico dell’arte Philippe Daverio e del direttore generale della Reggia di Caserta, Mauro Felicori (5).
Nel giugno 2018, si è tenuta a Brindisi la grande mostra: “Brindisi: Porto d’Oriente”, a  Palazzo Nervegna, dove è stato possibile “ammirare per la prima volta  il celebre quadro ‘Baia e Porto di Brindisi’ che il vedutista prussiano Jakob Philipp Hackert realizzò nella seconda metà del ‘700 su incarico del re Ferdinando IV di Borbone. L’esposizione è stata organizzata nell’ambito del progetto ‘La Via Traiana’ e comprendeva una serie di opere che raccontano la storia della città attraverso alcune vedute del porto, fatte dai viaggiatori del ‘700” (6).
Anche lo scrittore Johann Wilhelm von Archenholtz (1741-1813), famoso politologo, era stato in Italia ma egli, pur essendo tedesco, aveva pubblicato un’opera intitolata England und Italien, nel 1785, nella quale contrapponeva i due paesi, appunto il Regno Unito e l’Italia, con due sistemi politici diversi, propendendo decisamente per l’Inghilterra. Tuttavia nelle critiche feroci che Wilhelm fa a Genova, Venezia, allo Stato della Chiesa e al Regno di Napoli, è facile scorgere una larvata accusa alla sua Germania (7).
Il poeta Friedrich Leopold Stolberg (1750-1819) nella sua opera Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792, 4 voll., 1794, documenta il suo viaggio nel sud Italia dove però manifesta una posizione anticlassica e irrazionalistica, che provocò la sdegnata reazione di Goethe.

L’opera è stata recentemente tradotta in italiano da Laura A. Colaci, che scrive: “Dopo il viaggio nel Sud della Germania e della Svizzera col fratello e con Goethe, Stolberg ne intraprese uno più lungo in compagnia della moglie Sophie von Redern, del figlioletto, di G.A. Jacobi e G.H.L. Nicolovius attraverso la Germania, la Svizzera e l’Italia.

Frutto di questo viaggio è il volume Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792. Viaggiò in Puglia dal 3 al 17 maggio del 1792”(9).  Si tratta di un’opera epistolare, composta cioè delle lettere che egli aveva inviato durante il suo soggiorno nel nostro Paese a vari corrispondenti tedeschi. Queste lettere però vennero rielaborate per la loro pubblicazione e ciò portò ad una certa stilizzazione, soprattutto in quelle che hanno un maggiore contenuto politico religioso. Egli visitò Brindisi, Lecce, Otranto, Gallipoli.

Il compagno di viaggio di Stolberg, Georg Arnold Jacobi (1768-1845), al ritorno dal suo viaggio pubblica Briefe aus der Schweiz und Italien nel 1796-7, ossia una raccolta delle sue lettere inviate da Brindisi, Lecce e Gallipoli.  Sempre di un’opera epistolare dunque si tratta, ma le lettere dello Jacobi sembrano essere più in presa diretta, ovverosia meno stilizzate, di quelle del suo compagno di viaggio Stolberg, e soprattutto si nota in lui una minore componete polemica, pur essendo protestante e classicista anch’egli. È molto più critico però nei confronti del governo di Napoli e del malcostume che in quella città allignava. Mentre la prosa dello Stolberg è più accattivante, controllata e in qualche modo romantica, avendo egli rimaneggiato le lettere, quella dello Jacobi è invece più scarna e realistica. Entrambi i viaggiatori comunque sono attratti dai resti dell’antichità classica, per cui, specie quando giungono in Puglia, a partire da Taranto, la loro attenzione si sofferma sulle influenze greche della nostra civiltà. Stolberg sente tutta la civiltà europea tributaria della cultura classica. Il suo classicismo però è filtrato dal cristianesimo. Questo lo porta a vedere l’Italia, e in particolare il Sud, in quanto più diretta emanazione di quella cultura, come una sorta di paradiso perduto che, con antesignano gusto romantico, egli idealizza, dandone una visione edenica, certo lontana dalla realtà. “Pur vivendo nel clima del classicismo winckelmaniano, lo Stolberg è distante dall’dea di classico alla Winckelmann”, scrive Scamardi (10).  Dunque egli ripudia ogni idea dell’arte che non sia classica, per esempio il barocco leccese. “l ruderi classici evocano, sì, l’idea della caducità della vita umana, un elemento, questo, certo presente in tanta poesia sulle rovine della fine del Settecento, solo che lo Stolberg oppone la certezza della fede cristiana[…] In questo lo Stolberg anticipa non solo taluni stilemi di un certo romanticismo, ma anche un certo kitsh romantico. Si può concordare, in definitiva, col giudizio di Helga Schutte Watt secondo la quale lo Stolberg in Italia ritorna ai fondamenti classici della cultura europea e della sua stessa formazione intellettuale e non solo non scorge alcun conflitto tra classicismo e cristianesimo, ma vede in quest’ultimo una forma di coronamento, di inveramento del primo” (11).

A Taranto sono ricevuti dal Vescovo Giuseppe Capecelatro, uomo di vastissima cultura, lo stesso che accompagnò il viaggiatore svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins (1728-1800 ) nel suo viaggio in Puglia. Come già Eberhard August Zimmermann (1743-1815), naturalista e geografo, che venne in Puglia su incarico del Regno di Napoli per studiare la nitriera naturale di Molfetta (12),  anche il conte svizzero era accompagnato dall’Abate Fortis e i suoi interessi principali erano volti all’agricoltura e all’allevamento. Abbiamo già detto del De Salis Marschlins, che pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793.  La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906 (13),  con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò (ottima traduttrice anche delle memorie di Janet Ross)(14), e poi viene più volte ripubblicato (15).


Lo storico Ferdinand Gregorovius (1821-1891) visse più di vent’anni in Italia, soprattutto a Roma. Pubblicò i suoi resoconti di viaggio in Italia nell’opera  Wanderjahre in Italien tra il 1856 e il 1877,  in cui fa una descrizione analitica, davvero minuziosa delle condizioni di vita del nostro popolo in quegli anni. Il suo è un interesse erudito, per cui alle note naturalistiche, si accompagnano le descrizioni artistiche e letterarie e soprattutto sociologiche. L’opera si compone di cinque volumi ed è nell’ultimo volume, con il titolo Apulische Landschaften, (Lipsia, F. A. Brockhaus, 1877) che si occupa del nostro territorio. Gregorovius venne in Puglia due volte, nel 1874 e 1875. La prima traduzione della sua opera è di Raffaele Mariano nel 1882 (16).  L’itinerario si snoda attraverso le città di Lucera , Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Andria, Castel del Monte, Lecce e Taranto.

“Il Gregorovius seguiva con interesse la ricezione della cultura tedesca in Italia e intratteneva rapporti cordiali con chiunque in qualche modo se ne occupasse. Ma è soprattutto la scuola filosofica hegeliana che attrae l’attenzione dello storico tedesco che, come è noto, aveva egli stesso studiato filosofia all’Università di Konigsberg. Fu proprio attraverso il Rosenkranz, suo maestro a Konisberg, che conobbe lo storico del cristianesimo e filosofo Raffaele Mariano, con cui oltre a compiere i viaggi in Puglia intrattenne sempre rapporti di amicizia. Il Mariano tradusse in italiano le  Apulische Landschaften. Nell’introduzione alla sua traduzione, nella quale il Mariano ricostruiva, attingendo alla pubblicistica meridionalistica di Pasquale Villari e Raffaele De Cesare, la situazione politico-sociale della Puglia, l’autore non nascondeva una certa animosità nei confronti dei pugliesi, che suscitò le forti proteste di Niccolò Brunetti…”. Così scrive Scamardi (17), che pubblica nel suo libro anche i Diari inediti di Gregorovius del secondo viaggio in Puglia (1875)(18).  Si rimproverava cioè al traduttore e quindi all’autore un punto di vista troppo “tedescocentrico”.

In realtà, Gregorovius dimostra grande interesse nei confronti dell’Italia meridionale, dei suoi punti di forza ma anche delle sue mancanze. Si appassiona della questione meridionale, si rammarica dell’arretratezza delle infrastrutture, si intrattiene sulla rete viaria e quella ferroviaria, sul porto di Brindisi, parla della mafia e della lotta dello stato contro la criminalità, ecc. Da storico non può non essere attratto dal fascino della storia millenaria, soprattutto a Roma, sua città elettiva. “In una pagina delle Wanderjahre in Italien fa una digressione sui paesaggi storici italiani dove si avverte, più che altrove, il respiro del passato. Dai monumenti emana come una forza elettrica per la quale il Gregorovius conia l’espressione ‘magnetismo della storia’”(19).  A lui si deve la definizione di Lecce come  “Firenze del Sud”. Gregorovius non amava il romanico e prediligeva il gotico.
Il tedesco Gustavo Meyer Graz (1850-1900), corrispondente del Sclesische Zeitung di Breslavia arriva nel 1890 per raccogliere i canti della Grecia Salentina. I suoi articoli di viaggio vennero poi tradotti da Cosimo De Giorgi (che lo accompagnò nel viaggio) nel 1895 per “Il Popolo Meridionale”, rivista leccese, e poi successivamente in volume (20).   Gli articoli si intitolano: “Da Brindisi a Lecce”; “Lecce-San Nicola e Cataldo”; “Da Lecce a Calimera”; “Taranto”.  Il Meyer è molto preoccupato dal fatto che la lingua greganica vada persa a causa dell’incuranza dei governi.

Taranto nel 1789, Incis. da Hackert

Venne in Italia anche lo storico dell’arte Paul Schubring (1869-1935) corrispondente del giornale “Frankfurter Zeitung”, il quale mandava i suoi reportage di viaggio descrivendo minuziosamente la nostra regione. I suoi articoli vennero poi raccolti in volume da Giuseppe Petraglione (21).  Secondo il traduttore, gli articoli di Schubring  potrebbero essere considerati un ampliamento del libro del Gregorovius in quanto vi sono menzionati alcuni monumenti lì assenti, come la Chiesa di Santo Stefano in Soleto, e approfonditi altri di cui era stato fatto solo un fugace cenno, come la chiesa di Santa Caterina e la Cattedrale di Troia.

Note

[1]Raffaele Semeraro, Viaggiatori in Puglia dall’antichità alla fine dell’Ottocento: rassegna bibliografica ragionata, Schena, 1991, p.73.

[2] Johann Heinrich Bartels, Lettere sulla Calabria Viaggio in Calabria Vol III, Catanzaro, Rubettino, 2007.

[3] Johann Hermann von Riedesel ,Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann, Prefazione e note di Luigi Correra, Martina Franca, Editrice Apulia, 1913, poi ristampata in Tommaso Pedio, Nella Puglia del 700 (Lettera a J.J. Winckelmann), Cavallino, Capone, 1979.

[4] Teodoro Scamardi, La Puglia nella letteratura di viaggio tedesca. Riedesel Stolberg Greborovius, Lecce, Milella, 1987, pp.35-58.

[5] http: www.famedisud.it/il-sud-settecentesco-di-philipp-hackert-in-mostra-a-gallipoli-i-porti-…

[6] http:www.brundarte.it/2018/03/23/baia-porto-brindisi-jakob-philipp-hackert/

[7] Teodoro Scamardi, op. cit., p.64.

[8] Friedrich Leopold Graf Zu Stolberg, Reise In Deutschland, Der Schweiz, Italien Und Sizilien In Den Jahren 1791 Und 1792 1794 Con traduzione italiana a cura di Laura A. Colaci, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010.

[9] Carlo Stasi, Dizionario Enciclopedico dei Salentini, 2 voll, Lecce, Grifo, 2018, p.1128.

[10] Teodoro Sacamardi, op. cit., p.76 .

[11] Idem, p.77.

[12] Idem, p.24.

[13] Carlo Ulisse De Salis Marschlins, Nel Regno di Napoli : viaggi attraverso varie province nel 1789, Trani, Vecchi, 1906.

[14] Janet Ross, La terra di Manfredi, traduzione dall’inglese di Ida De Nicolo Capriati, illustrazioni di Carlo Orsi, Trani, Vecchi, 1899, poi ripubblicato in Eadem, La Puglia nell’Ottocento : la terra di Manfredi, a cura di Maria Teresa Ciccarese, Lecce, Capone, 1997.

[15] Fra gli altri, in Carlo Ulisse De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Idem, Viaggio nel Regno di Napoli – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Idem, Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[16] Ferdinand Gregorovius, Nelle Puglie (1877), versione dal tedesco di Raffaele Mariano con noterelle di viaggio del traduttore, Firenze, G. Barbera, 1882.

[17] Teodoro Scamardi, op.cit., p.97.

[18] Idem, pp.137-147.

[19] Idem, p.127.

[20] Gustavo Meyer-Graz, Apulische Reisetage, a cura di Cosimo De Giorgi, Martina Franca, 1915. Poi ristampato in Idem, Puglia . Sud (1890), a cura di Gianni Custodero, traduzione di Cosimo De Giorgi, Cavallino, Capone Editore, 1980.

[21] Paul Schubring ,La Puglia: impressioni di viaggio (1900), traduzione e introduzione di Giuseppe Petraglione, Trani, Vecchi, 1901.

Libri| La Figlia legittima di Emilio Chirilli

 

13 aprile 2019, ore 18:00 – presentazione a cura del Club Rotary di Brindisi Valesio, presso Sala Gandhi, Grande Albergo Internazionale di Brindisi

 

 

Dopo l’apprezzato esordio con Il Concilio del Cadavere (Il Calamaio, 2003), testo drammatico in tre atti ispirato al celebre processo del IX secolo nei confronti di papa Formoso di Porto[1], ed alcuni testi brevi[2], Emilio Chirilli torna alla scrittura con La figlia legittima (Europa Edizioni, 2018), già premio della giuria per la sezione Narrativa Inedita nel “Concorso di Letteratura a carattere Internazionale Città di Pontremoli”, nonché vincitore del premio editoriale “L’Incontro”.

Il racconto è tratto, molto liberamente, da un fatto di cronaca avvenuto nei primi decenni del secolo scorso nel Salento. L’autore prende tale fatto come semplice spunto, per poi procedere in modo del tutto autonomo, dipanando in maniera brillante l’evolversi della vicenda. Come si può leggere nella quarta di copertina, si tratta di una storia di sangue, legittimo ed illegittimo, ambientata in un sud riarso dal sole, terra bellissima e atroce. È qui che si consuma la vicenda di Tore e Maddalena, due giovani condannati dall’intreccio ad un “travaglio dall’epilogo doloroso [..] in un legame antico che fa del Sud di questo romanzo, figlio di Verga come di De Martino, una madre severa e implacabile che chiede il sacrificio dei suoi figli a costo di mantenere legami ancestrali”.

Presentato dalla dott.ssa Livia Antonucci, l’autore parlerà del suo nuovo romanzo il 13 aprile 2019 presso la sala Gandhi del Grande Albergo Internazionale di Brindisi.

 

[1] Premio speciale testo teatrale al “Premio Europeo di Arti Letterarie Via Francigena di Brescia”.

[2] Cardiopatia e Il Telefonino.

Il dipinto barocco dell’Addolorata nel Museo d’Arte Sacra di Mesagne

Mercoledì 10 aprile 2019, alle ore 18:30, presso la chiesa di San Leonardo in Via Santacesaria n. 8 a Mesagne, si terrà un incontro dal titolo “Il dipinto barocco dell’Addolorata nel Museo d’Arte Sacra di Mesagne“.

Introduce il parroco della chiesa matrice don Gianluca Carriero; relazioneranno, Katiuscia Di Rocco, direttore Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo“, Giovanna Bozzi, docente di storia dell’arte e segretaria nazionale “Anisa per l’educazione dell’arte” e Domenico Ble, dottore in storia dell’arte e autore dello studio sulla tela dell’Addolorata. Modera il giornalista Angelo Sconosciuto.
L’incontro è organizzato dal Museo d’Arte Sacra “Cavaliere-Argentiero” e patrocinato dalla Città di Mesagne e dal Sum “Sistema Urbano Museale Mesagne”.

La Vergine Addolorata nei riti della Settimana Santa e il ruolo delle Confraternite (II parte)

Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901

Le Confraternite e riti della Settimana Santa in Terra d’Otranto

di Vincenza Musardo Talò

Da sempre protagoniste privilegiate e impegnate a tutelare e valorizzare la devotio fidelium verso l’Addolorata, soprattutto nella lunga Quaresima, sono rimaste soprattutto le Confraternite laicali.

Anche a Taranto le antiche confraternite sono ancora cariche di una storia intimamente intrecciata alle variegate forme della pietà popolare, in particolare le confraternite dell’Addolorata e del Carmine. Fortemente legate alla storia della religiosità popolare tarantina, esse sono state protagoniste assolute dei secolari riti della Settimana Santa; riti che hanno fatto di questa nostra Città sofferente il luogo dell’anima, quasi un immenso tempio che ogni anno invita a un appuntamento obbligato tutti i cataldiani, insieme a folle anonime di visitatori devoti. E’ un impegno ormai storico quello delle confraternite joniche nel tenere viva la tradizione dei padri verso una delle più belle espressioni dello spirito della tarentinità e della sua coscienza di appartenenza.

Nel loro più generale processo storico, le confraternite sono state le prime forze laicali, organizzate e cresciute nell’ambito delle istituzioni ecclesiastiche, già al tempo dell’Europa altomedievale, quando questa – nella sua fisionomia multirazziale e con la sua rudimentale cultura – era ancora priva di una identità, che solo le comuni radici cristiane hanno poi saputo offrirle, nel trascorrere del diverse stagioni della Storia. E così, quasi una rete provvidenziale, fatta di devozione e solidarietà, i gruppi confraternali per oltre due millenni hanno coperto l’intera Europa cristiana. E là dove hanno operato nello spirito del Vangelo, promuovendo tra i confratres una perfezione di vita cristiana, esse hanno scritto pagine stupende di storia religiosa e civile, contribuendo – a partire dal lungo millennio medievale – a quel suggestivo rinascimento religioso, che spesso è risultato essere più opera della base, che dei vertici della Chiesa ufficiale[1].

Un legame che resiste e che si alimenta anche in quell’antico rapporto tra confraternita e pietà popolare, da sempre un rapporto quanto mai stretto, considerando che la confraternita – in definitiva – altro non è se non la spontanea e naturale derivazione della pietà popolare, dell’attenzione tutta cristiana dei soci nei confronti di tanti, che sono vissuti e vivono in margine alla società. Perché ogni tempo ha i suoi poveri e il volto della povertà è multiforme e non è solo quello sociale e materiale. In tal senso, le variegate associazioni laicali hanno realizzato una quotidiana azione di supporto al sociale e magistralmente hanno veicolato l’accostamento della Chiesa alla società e della società alla Chiesa.

Lo scopriamo, ascoltando la voce dei secoli, in cui è possibile cogliere l’antica e sempre viva relazione tra confraternita e devotio fidelium o religiosità popolare, a volte offesa o trascurata dalla Chiesa, perché tanto diversa dalla liturgia ufficiale, ma a fianco della quale si è sempre schierata la cultura confraternale, per tutelare e nello stesso tempo emendare o mediarne le vistose difformità.

Pertanto, una connotazione essenziale che ha caratterizzato nel tempo la fisionomia delle confraternite è fuor di dubbio l’aver svolto un ruolo sapiente di mediazione tra la pietà popolare e la complessa liturgia ecclesiastica.

Un altro momento della religiosità popolare, sempre supportato dall’opera delle confraternite, è costituito dalle feste che erano sentite (e sono) proprie dell’identità socio-religiosa di un popolo, come la festa patronale o i riti quaresimali e della Settimana Santa. Erano momenti fortemente legati alla cultura non solo religiosa di una comunità, ma il segno di una cultura liminale, sincretica, che legava sacro e profano.

Se guardiamo, ad esempio, al triduo pasquale, già a partire dal Giovedì santo con il rito della Cena Domini e la lavanda dei piedi, le confraternite erano protagoniste assolute, con quei dodici confratelli anziani, protagonisti della suggestiva liturgia. E poi c’è l’adorazione dell’Eucarestia all’altare del Repositorium o Sepolcro, un privilegio un tempo riservato alle confraternite del SS.mo, sia nel momento dell’ideazione che in quello dell’allestimento.

Tutti conosciamo la spettacolare e surreale scenografia di cui si adornano le Chiese del Tarantino nella sera del Giovedì santo, i cui tratti comuni sono gli apparati coloratissimi, fatti di drappi vellutati, gallonature dorate, ceri e lampade a olio, tappeti floreali. Una volta, vi erano angeli e figure azionati da congegni meccanici (le cosiddette “macchine barocche”) che si muovevano al suono di musiche celestiali, mentre non mancava mai quel caratteristico ornamento, costituito dai cosiddetti “piatti di Paradiso”, un delicato omaggio del popolo all’Ostia Santa[2]. E così, i tre giorni dei riti della Passione era giorni di fermento per tutti gli oratori delle congreghe, dove i confratelli già nel primo pomeriggio del giovedì santo, nella propria divisa, si preparavano al pellegrinaggio ai Sepolcri.

A Taranto, per un antico privilegio e dopo non facili contenziosi con altre congreghe, la confraternita del Carmine vedeva i suoi associati andare, scalzi, in pellegrinaggio alle chiese del Borgo e della Città Vecchia. E’ questo il primo dei tre importanti appuntamenti della Settimana Maggiore della chiesa tarantina. E’ inutile ribadire – oltre il profondo significato spirituale – l’intima commozione di chi incontra le poste del Carmine per le strade all’Isola, oltre il ponte e nelle strade affollate della Taranto del Borgo. I due confratelli di ogni posta se ne vanno scalzi e incappucciati col rosario in mano e quell’incedere di antichi e anonimi pellegrini, aiutati dal bianco bordone.

Una volta, nel loro mistico peregrinare, le poste erano solite incrociare dame velate di nero, galantuomini, ufficiali della Marina e donne del popolo, che giravano sino a notte nelle chiese della città, alla tremolante luce dei lampioni, una realtà tanto diversa dall’oggi. I perdùne invece sono rimasti sempre uguali. Il loro tempo pare essersi fermato.

Le confraternite erano parte integrante anche della processione della Desolata e soprattutto della processione dei misteri del Venerdì santo, uno dei riti più coinvolgenti dell’anno liturgico cattolico, quando a tutti pare di vivere una condizione dello spirito fuori dal tempo, nel mentre si esalta – in una tensione interiore altissima – la memoria antica di quel che accadde lungo la Via Crucis a Gerusalemme, a quell’uomo chiamato Gesù. E nella commossa atmosfera processionale, in ogni paese, tutte le congreghe – con la loro suggestiva presenza – invitavano gli astanti a una corale immedesimazione al dramma della Passione.

La notte del Venerdì santo, la processione calava tutti in un’atmosfera quasi surreale. Dopo l’interminabile sfilata dei confratelli incappucciati, al suono delle troccole (perchè le campane erano mute), seguivano le sconvolgenti statue dei Misteri, che si mostravano come rappresentazioni figurate della memoria, capaci di arrivare dritte al cuore di ognuno, per uno strano processo inconscio, che non conosceva differenze di cultura, età o condizione sociale.

Mai come in simile occasione il concetto di religiosità popolare ha significato la religione di tutti[3]; ancora oggi, lo studioso della religiosità popolare registra costantemente il riemergere di rituali e di segni antichi, connotativi dell’identità devozionale di una comunità, che per nessuna ragione intende omologarsi a una cultura dal volto globale. Legata ai riti della Quaresima era anche la devota pratica delle Quarantore[4], molto cara ai confratelli di ogni congrega. Infatti, leggendo e curiosando tra le cronache e i documenti degli archivi confraternali, si rinviene che tante feste dell’anno liturgico erano precedute dalla pia pratica delle quarantore, una pratica che addirittura venne inflazionata se alcuni arcivescovi, tra cui lo stesso mons. Capecelatro, con espliciti decreti dovettero limitarne l’uso alle sole feste patronali e a quelle dei santi titolari delle confraternite. Tanto per concludere che le confraternite sono state preziose custodi e punto di riferimento dei tanti volti storici della devotio fidelium e – nello stesso tempo – prezioso strumento di collaborazione nella pastorale delle parrocchie.

Non di rado, però, nei decreti di S. Visita, gli ordinari invitavano le congreghe a contenere certe esteriorità, che a volte facevano deviare i fedeli dalla Liturgia e spesso si predicava sobrietà[5]. Ma tanto sembrava non avere alcun seguito sui secolari riti della Settimana Santa tarantina

Un’ultima nota di devozione alla Vergine Addolorata è quella espressa nel culto domestico, attraverso la presenza dei cosiddetti “quadri di casa”. Erano questi delle oleografie di grande formato, in quadricromia che, debitamente incorniciate, ieri ornavano la misera casa contadina. Questi quadri avevano una forza empatica con le donne di casa, che cercavano il conforto della Vergine dolente anche nel culto domestico. Infatti, nella trascorsa civiltà contadina, l’Addolorata entrava a far parte del pantheon familiare proprio attraverso i santi in campana, quasi una presenza scontata tra le pareti familiari di ogni ceto sociale di quel tempo. Dalle origini settecentesche, questo manufatto pietistico appare prima tra i fasti delle dimore aristocratiche, quale contenitore privilegiato di preziose suppellettili o soggetti sacri, per poi trovare nell’Ottocento il suo periodo aureo, quando ogni donna che andava in sposa ne portava uno o più pezzi nel suo corredo dotale. E così, il santo – protetto dalla leggera trasparenza del vetro – diveniva strumento apotropaico e taumaturgico; la qual cosa esaltava e centralizzava il culto domestico alle madonne o ai santi in esso racchiusi. La Desolata sotto campana era la tipologia più diffusa. Spesso tali simulacri presentavano aggiustamenti figurativi e simbolici, mutuati dal soggettivo sentire religioso; arricchiti dalle mani devote delle donne di casa, che creavano delicate ghirlande floreali, tese a incorniciare la statuina interna, a cui si accompagnavano spesso alle foto dei defunti o di figli e mariti lontani, in guerra.

Era questo un modo tutto elementare di accorciare le distanza tra il sofferto immanente e l’ideale trascendente. E nel mentre, tutt’intorno alla campana, facevano corona una serie di santini[6], intagliati nel pizzo, il ripiano del cassettone diveniva un sacrario privato, un angolo di paradiso in terra, a cui non disdicevano anche le belle Vergini da camera, cioè quelle stupende oleografie a colori, che riproducevano volti dolcissimi di madonne, tra cui era preminente quello della Madre del dolore. Insomma, “un piccolo cielo che isola il mistero”, come l’arcivescovo Gianfranco Ravasi ha definito i santi in campana.

 

Note

[1] Uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno confraternale, il Meersseman, a ragione considera queste associazioni laicali come la terza colonna della Chiesa, dopo il clero diocesano e gli Ordini religiosi. Cfr.
G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo
, voll. 3, Roma 1977, passim. In effetti, questi sodalizi laicali hanno costantemente svolto un ruolo di rilievo nella storia della Chiesa, prima col trasformare lo stile stesso della convivenza civile tra i soci, e poi generando in ognuno di loro, una mentalità evangelica, osservata nel saper rispondere in concreto ai bisogni del popolo di Dio, specie là dove la condizione sociale ne mortificava la dignità o si mostrava dolorosamente carente; G. Duby, L’Anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Torino 1976.

[2] Erano, questi piatti, dei vasi di piantine di grano e leguminose varie, dal particolare colore pallido, diafano, perchè i chicchi di grano, seminati in un misto di terra e tufo sottile venivano fatti crescere al buio, nelle case dei confratelli, situati spesso sotto il letto grande, nel tempo della quaresima. Poi, il giorno del Giovedì santo, si portavano in chiesa, abbelliti con nastri colorati e si collocavano a corona e ornamento del Sepolcro, aperto alla devozione dei fedeli, per tutta la sera, sino alla mezzanotte, e parte del Venerdì Santo.

[3] Tanto accadeva già da secoli nell’intero Regno di Napoli. Ad esempio, è dato sapere che anche le nobildonne napoletane, al passaggio dei drammatici gruppi statuari dei misteri, si commuovevano e si scomponevano, dando in pianto e alte grida, così come facevano le popolane. E, sempre a Napoli, la regina-moglie di Carlo III di Borbone, obbligava al lutto stretto tutta le dame di corte nei giorni del triduo pasquale, così come usavano fare pure le donne nelle case dei pescatori di S. Lucia o nei quartieri spagnoli, affollati di una umanità elementare.

[4] Simile pratica di devozione si osservava sin dal IV secolo a Gerusalemme, dove le Quarantore si tenevano per commemorare la durata di tempo che il Corpo di Cristo trascorse nel Sepolcro, dall’ora nona del venerdì santo all’alba radiosa della domenica di resurrezione. Poi, a partire dall’età moderna, al tempo di S. Carlo Borromeo, le Quarantore assunsero valenza penitenziale ed espiatoria. Si riporta, infatti, che proprio a Milano, nella Quaresima del 1537, quando la città già consegnatasi a Carlo V, stava per essere attaccata dal re di Francia, Francesco I, il quaresimalista del Duomo, un cappuccino la cui parola aveva uno straordinario carisma sui fedeli, propose al popolo l’adorazione eucaristica per quaranta ore continue, come il mezzo più efficace per allontanare il re straniero da Milano. D’accordo il cardinale Borromeo, nel Duomo fu allestito un altare monumentale, alto 1dodici gradini, abbellito di fiori e con centinaia di lampade, mentre in cima, su un trono maestoso, si collocò l’ostensorio.

La prima ora di adorazione fu fatta dal santo cardinale, venuto all’altare in abito di penitenza, le altre ore furono tenute invece dal popolo e da tutte le confraternite milanesi, i cui associati giungevano ordinatamente dai diversi oratori, in devota processione, scalzi, con corona di spine, le discipline e una torcia accesa. Terminate le Quarantore nel Duomo, si tennero poi in tutte le altre chiese della città ambrosiana e sempre le confraternite si tirarono dietro il popolo dei fedeli. E non fu vana questa devota pratica, perchè – dicono le cronache del tempo – i due sovrani fecero una tregua e il re di Francia lasciò definitivamente Milano. Da qui, la devozione delle Quarantore si diffuse in tutti gli stati cattolici, con una adesione corale dei fedeli, tanto che i pontefici accordarono diverse indulgenze, tra cui è nota quella di Pio VII – che nel 1807 – riconosceva come privilegiati, per il solo tempo della divina esposizione, tutti quegli altari dove si teneva l’esposizione del Santissimo.

[5] In genere erano le processioni ad essere motivo di severi decreti di riordino da parte dei vescovi e non solo in fatto di precedenze, ma dettati anche perché, là dove convivevano più confraternite, era difficile contenere l’esuberanza di questi percorsi devozionali. Certo, non può ignorarsi, specie nel Mezzogiorno d’Italia, quanto le processioni siano un patrimonio inalienabile della religiosità popolare, una facies ancora intatta e capace di sollecitare la pietà dei fedeli. Basti ricordare, ad esempio, le processioni patronali o meglio quelle penitenziali già descritte della Settimana Santa. E non potrebbe essere diversamente, se ricordiamo che non pochi sodalizi, nei secoli del basso Medioevo, si sono originati proprio dai gruppi itineranti dei Laudari e dall’esercizio delle processioni penitenziali dei Flagellanti, fenomeni intesi come la presa di coscienza collettiva del peccato; mentre la cultura della penitenza alimentava la preghiera corale, il digiuno e la disciplina, a cui si univa l’espressione di un altro profondo legame fra confraternite e pietà popolare: ossia il sentimento della carità fraterna, tradotto in una delicata quanto utile attività assistenziale, dalla marcata impronta sociale. Lo stato sociale e il volontariato di cui oggi si parla tanto – l’hanno inventato le associazioni laicali, con l’assistenza, la condivisione e il pio esercizio della carità dei confratelli verso i loro simili più bisognosi.

[6] A. Spamer, Das Kleine andachtsbild vom XIV. bis zum XX. Jahrhundert, Monaco 1930; A. Sasso, La Passione di Cristo nei santini, Vicenza 1987; V. Musardo Talò, Contenuti ascetico-spirituali nelle preghiere dei santini della Croce in AA.VV., La Croce, simbologia nelle piccole immagini devozionali, Manduria 1992; Eadem (a cura di), Il francescanesimo nella devozione dei santini, Lecce 1993.

 

Libri| Ritorno al Sud, di Vincenzo Borlizzi

di Marcello Buttazzo

Di recente, nel 2019, è stato pubblicato da Congedo Editore il romanzo “Ritorno al Sud” di Vincenzo Borlizzi.

L’autore è un giovane salentino, nato a Tricase, insegna in Francia, ha già pubblicato un libro in francese (“Trois questions sur le modelage des films”, 2015), e diversi articoli per riviste scientifiche o testi collettivi, in Francia, Spagna e Italia.

“Ritorno al Sud” è un lungo racconto che si sviluppa in un futuro immaginario, dove lo Stato non esiste più. Non esistono più scuole, né ospedali, né ordine pubblico, né pensioni.

In questo scenario emergenziale e catastrofico, il Basso Salento è angariato da bande locali, alleate con truci pirati provenienti dall’Albania, che si stabiliscono nelle terre dell’estremo Meridione.

I telefoni non funzionano più, le varie bande si impossessano dei ripetitori per i loro traffici. Gli abitanti del posto, privati della pensione, si arrangiano e decidono di tornare al lavoro dei campi, d’una terra di zolle marroni sempre generosa.

Le vicende si svolgono nei paesi e/o luoghi incantevoli di Marittima, Andrano, Tricase, Leuca, Castro, Acquaviva, il Ponte del Ciolo, Montesardo.

Prevale, nel romanzo, l’eterna storia dei potenti e dei prepotenti contro i virtuosi, dei profittatori e dei carnefici contro le persone perbene e pulite.

Un giovane migrante, Damiano, rientra nel suo Salento natio ed imbastisce una lotta ad ampio spettro, senza quartiere, una vera e propria guerra contro i malfattori. Che sono, in particolare, il Lupo di Andrano, che vive nel suo castello dorato, e le bande di pirati albanesi.

Figure di spicco, che accompagnano Damiano nella sua paziente epopea di riscatto, sono un ragazzino, Arturo, un signore venuto dal Nord detto il Nero, e un pescatore di contrabbando detto Teto il bombarolo.

Si scatena una guerra furibonda fra i prevaricatori e le persone del posto, i contadini, che sono le anime adamantine, difensori e custodi di scrigni di terra munifica.

“Ritorno al Sud” è, tra le altre cose, una descrizione dettagliata, parcellizzata, precisa, di un lembo di Sud luminoso e incontaminato. Il lavoro dei campi viene tratteggiato con tutta l’alacrità dei contadini del Sud, che hanno un rapporto intimo e sacro con la terra.

Vincenzo Borlizzi, al cospetto della funesta bramosia di potere di certuni, per contrasto, narra la linearità e la bellezza umana dei rapporti fra i contadini, fra padri, madri, figli, fra generazioni diverse, protese a difendere la loro fulgida antropologia e i vissuti ricchi di valori.

I perdenti, in questa storia del Sud, sono i prevaricatori, le bande di mafiosi, che perpetrano i loro misfatti. Ma, alle fine, vengono sconfitti dal corso ineluttabile degli eventi. I vincitori sono i paladini del bene. Damiano e i suoi compagni fedeli, combattenti per una giusta causa e per principi di solido lignaggio.

Mi commuovono, in “Ritorno al Sud”, tre figure in particolare, che, chi avrà la ventura di leggere il romanzo, incontrerà. Il padre di Damiano, un valoroso contadino. Alì, nativo del Burkina Faso, arrivato anni addietro in Italia, che si era stabilito fra la gente ospitale del Basso Salento come venditore ambulante fra le spiagge di Torre Vado e di Pescoluse. E, infine, Chiara, una giovane contadina, che si prende cura del campo di Damiano. E che sostanzia, con il suo sorriso morbido, la speranza d’una vita futura.

Vincenzo Borlizzi, in questo suo primo romanzo, ha donato uno spaccato interessante e fascinoso d’un Basso Salento immaginifico. Un romanzo di fantasia, ma non troppo. Dal momento che la perenne controversia fra buoni e cattivi, fra giusto ed ingiusto, avviene quotidianamente con modalità diversificate e, sovente, non ben definite.

Vincenzo Borlizzi è visceralmente legato al suo Sud, che è la sua clessidra d’anima, il suo caleidoscopio d’intenti.

La Vergine Addolorata nei riti della Settimana Santa e il ruolo delle Confraternite (I parte)*

di Vincenza Musardo Talò

Nostra Signora dei Sette Dolori, prezioso santino dai bordi merlettati
(scuola francese, sec. XIX, prima metà)

 

A partire dall’anno Mille e in ogni luogo dell’Europa cattolica, il culto dell’Addolorata – elaborando un lento e lungo processo di umanizzazione di quanto in lei vi è di divino – si è radicato nella pietà popolare. Infatti, in virtù delle sue umanissime valenze simboliche, divenute paradigmatiche sia della cultura quanto della psicologia femminile, la sua immagine di Mater Dolorosa è andata accostandosi ai tanti vissuti dolorosi delle madri di ogni tempo e – nell’immaginario collettivo – si è fatta emblema assoluto non solo del dramma della Passione del Figlio-Cristo, ma anche della sofferenza senza tempo di ogni madre che ha vissuto la tragedia del suo medesimo lutto. Ovunque, Ella è la Vergine Desolata, Madre di Pietà sette volte dolente, la Madre di tutte le madri sofferenti.

In tal senso, sono i riti della Settimana Santa a richiamare ovunque e riverberare tali assunti.

A Taranto, come in ogni angolo del suo distretto, i giorni della Settimana Santa erano- e sono – giornate vissute fuori dal tempo. Si pensi, giusto un esempio, alle composte e silenziose celebrazioni della Taranto odierna, alle processioni della notte del Giovedì e del Venerdì santo, due momenti intrisi di un suggestivo misticismo e un segno e una testimonianza di fede, in cui è palpabile la tensione spirituale di tutta una città, che per oltre quaranta ore, dalla mezzanotte del Giovedì santo all’alba incerta del Sabato, di colpo perde quelle assurde connotazioni di città postmoderna. Non più rumorosa e trafficata, si trasfigura in un luogo irreale, con quella folla di figure incappucciate, dall’andatura inusitata e quasi impossibile a comprendersi, dove il tempo e lo spazio mutano di concetto e la gente assume un comportamento inconsciamente proiettato ai tempi, quando là, sulla strada del Calvario, quell’uomo straordinario che era il Cristo, portava a termine, col sacrificio estremo, la sua missione terrena. Impossibile poi non assistere, la notte del Giovedì Santo, nella Città Vecchia, alla processione della Desolata, quando, giunta la mezzanotte, al suono rauco della troccola, quasi una madre disperata, Ella esce dall’artistico duomo medievale di S. Domenico, scende la barocca scalinata e va alla ricerca del proprio Figlio. Le strade sembrano trasformarsi in un unico grande tempio e i segni della devozione popolare toccano vertici altissimi. Vestita di nero, questa Madre del pianto cammina lenta, con le vesti che ondeggiano al vento freddo della notte. L’accompagnano, sino all’alba, le meste marce funebri, la cui musica si insinua profonda, toccando l’animo di migliaia di spettatori. Poi, il Venerdì, nella processione dei Misteri, dal primo imbrunire sino all’alba cerulea del Sabato, la Desolata torna ancora ad accompagnare, seguendola, la bara del Cristo, in una sorta di rituale che l’accosta alla tragedia di tante madri dell’oggi e del passato. Non a caso, fra tutte le statue dei Misteri, è ancora quella che più commuove e si identifica con le più ancestrali movenze del dolore femminile. Ora, Ella assurge a simbolo toccante del dolore universale. La sua statua dalla straordinaria potenza espressiva si fa concetto figurale del dolore di tutte quelle donne, lacerate della perdita di un figlio, divenendone l’archetipo e la proiezione, al di fuori di ogni contesto sociale e spazio-temporale.

Per leggere e comprendere la visione del sacro nei diversi riti della Passione e nei costumi culturali delle trascorse civiltà, bisogna riferirsi proprio al suo umanissimo amore e dolore di madre che permeano quel complesso e polimorfo tessuto della pietà popolare, sostanziandolo di sedimentati e inamovibili pratiche devozionali.

Nell’alimentare la devozione alla Desolata, preminente è stato anche il contributo offerto dall’arte, che ha saputo consegnare alla storia del sacro un soggetto iconografico reiterato, ma sempre di ispirazione tipicamente popolare e fondamentalmente espresso da tre proiezioni tematiche: la Desolata con gli attributi simbolici, propri della sua condizione (l’abito e il manto di colore scuro, il cuore sanguinante, una o sette spade, il fazzoletto del pianto o la corona del Figlio); la Crocifissione, in cui Ella appare sola col Figlio o accompagnata da S. Giovanni apostolo e la Maddalena; la Deposizione o Pietà, in cui si fa palpabile il pathos del dolore materno.

Fra i tanti dipinti a tema L’Addolorata, che ornano le chiese e gli oratori confraternali di Taranto e provincia, mi piace ricordare le due pregevoli tele a firma di Paolo De Matteis (1662-1728) e di Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), in verità esposte nel sale del Museo Archeologico di Taranto.

Taranto, MarTa: Paolo De Matteis, L’Addolorata

 

La prima, che pure ricalca altre simili riproduzioni, fresca di restauro, oggi è esposta nei locali del MarTa, all’interno della Collezione Ricciardi. L’artista napoletano è oltremodo noto a Taranto, non solo per aver affrescato il Coppellone di S. Cataldo nella Cattedrale dell’Assunta. La tela in oggetto, forse destinata al culto privato, effigia l’Addolorata nel tipo della Desolata, della Mater dolorosa. Il tessuto figurativo a impianto piramidale, è tipico di gran parte della produzione artistica del De Matteis. Il tema iconografico si compone della figura della Vergine in posizione ruotata a sinistra, colta a sola col suo dolore, quasi in atteggiamento sacrificale e di accettazione, un nuovo Fiat, col quelle mani che sembrano accogliere il dolore universale. Le sembianze del volto afflitto – dalla linea purissima, con lo sguardo rivolto verso l’alto e gli occhi di pianto – esprime una elegiaca sofferenza tutta interiore e non fisica, come porterebbe a credere quella spada sottile, saettante, dagli straordinari effetti tridimensionali, che le trafigge il cuore di madre. Adagiata su uno sfondo dagli effetti luministici sommamente calibrati, ai lati superiori le fanno corona due figure angeliche risolte in tenere testine alate. La legittimata perizia coloristica impreziosisce l’esito formale della tela gioca con un insieme di effetti timbrici e tonali, propri della tavolozza di questo autore. Gli ampi e ricchi panneggi, in specie quello del manto azzurro, conferiscono all’intero tessuto figurativo un senso di movimento, che anima il tutto.

Più articolata appare la tela del maestro di Martina Franca, Leonardo Antonio Olivieri, allievo del Solimena. Il dipinto proviene dalla collezione di mons. Giuseppe Ricciardi (Taranto 1839-Nardò 1908), vescovo di Nardò, che volle donarla alla sua città natale e oggi è in bella mostra presso il MarTa.

Taranto, MarTa: Leonardo Antonio Olivieri, L’Addolorata sorretta
dagli angeli, e i Santi Nicola di Myra e Barbara

 

Anche qui – come nella tela del De Matteis – prevale un impianto figurativo piramidale, ma dall’impaginazione riccamente aggettivata da diverse figure, quali il S. Nicola vescovo di Myra e S. Barbara (o forse S. Irene) con gli strumenti del martirio. La Vergine, sorretta da due angeli, sembra quasi venir meno alla vista del Volto offeso del Figlio. Infatti, sulla sinistra, in apice, un cherubino in volo regge il Velo della Veronica, a cui è affidato un drammatico volto del Cristo flagellato come colto dalla pia donna lungo la via del Calvario. L’impostazione figurativa, dall’ampio respiro tematico, sembrerebbe tipico di una pala d’altare. La figura centrale della Vergine, sorretta da due figure alate, appare allora come il modello drammatico di madre dolorosa; il suo non è solo un dolore dell’anima, ma ne esprime anche quello fisico. E’ inutile evidenziare la elegante perizia della composita sintassi cromatica adottata dall’artista, leggibile nelle armoniose movenze luministiche e nell’equilibrato gioco timbrico-tonale del tutto.

In aggiunta al prezioso patrimonio pittorico e scultoreo, a partire dal Seicento barocco, fiorì un’arte statuaria, che dotò chiese e soprattutto gli oratori confraternali, monasteri e conventi, cappelle rurali e dimore aristocratiche del simulacro dell’Addolorata. Le botteghe napoletane apparvero quanto mai perite nel creare volti straziati di Desolate e Cristi squarciati, mentre, nei due secoli successivi, i maestri della cartapesta leccese lavoravano la duttile pasta cartacea con fisionomie dal crudo realismo, potenziato da una declinazione cromatica, espressa in ineguagliabili squilli timbrici e tonali, facendo così, delle loro addolorate, il simbolo e la sintesi di tutto il dolore del mondo.

Queste statue mariane, unitamente agli altri gruppi scultorei dei Misteri, si esibivano nelle processioni della Settimana Santa, attestate già nel Seicento in tutte le Provincie del regno di Napoli, dove i misteri mobili valevano quali rappresentazioni figurate della memoria di un evento lontano, sempre capace di toccare le emozioni più profonde del cuore dei fedeli.

In virtù di tanto, la Chiesa ha comunque risposto col solennizzare la liturgia e la devozione verso la Desolata, tanto che già nel 1423 istituiva la festa della Commemorazione dell’angoscia e dei dolori della Beata Vergine Maria. A volere fortemente questo culto mariano furono soprattutto i Servi di Maria, un ordine religioso originatosi a Firenze nel 1233, la cui fertilità spirituale verso i Sette dolori di Maria spinse i pontefici (Innocenzo II, Pio VII e Pio X) a inserire nel Calendario liturgico la festa dell’Addolorata, oggi, definitivamente datata al quindici di Settembre[1].

 

[1] Sui temi cultuali dell’Addolorata, cfr.: Morini A., Origini del culto dell’Addolorata, Roma 1893; E.M. Casalini, La Madonna dei Sette Santi, Roma 1990; L. Bertoldi Lenoci-V. Musardo Talò, La pia memoria, Manduria 1994: V. Musardo Talò, La Vergine “Desolata” nell’iconografia sacra popolare, I, 4 Manduria 1996, 19-22¸V. Musardo Talò, I santini della Passio Christi, “Santini et Similia”, III, (11), Manduria 1998, 9-16; S. De Fiores, Santa Maria Addolorata, in AA.VV., I santi nella storia, Milano 2006, 66 -70; Wilmart A., Auteurs spirituels et teste dévots du moyen age latin, Parigi 1932, 505–536; A. Rossi A., Il culto dei Sette Dolori, ”Addolorata” (1936), 68-72; C .Berti., De cultu septem dolorum S. Mariae, “Marianum”, 2 (1940), 81-86.

 

Libri| I giorni ed i versi di Franco Melissano

di Paolo Vincenti

“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.

La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.

La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.

E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.

Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.

Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.

Dialetti salentini: lliticare

di Armando Polito

Se su llliticare avessi avuto da dire solo che corrisponde esattamente all’italiano litigare, questo post non avrebbe avuto ragione di esistere. Eccomi, invece, a descrivere le differenze nell’uso. Litigare, intanto, è rimasto tal quale in italiano dal latino, composto da litem àgere (alla lettera:fare, operare, portare avanti una lite, anche giudiziaria) Litigare in latino è verbo esclusivamente intransitivo, a differenza della voce italiana, che ha uso intransitivo (ho litigato con uno per l’eredità) o transitivo (litigarsi con uno l’eredità). E lliticare?

Rispetto alla voce italiana in entrambi gli esempi per la salentina è previsto l’uso del riflessivo con l’ausiliare avere (m’aggiu lliticatu cu unu pi ll’eredità nel primo e m’aggiu lliticatu cu unu l’eredità nel secondo,  Va detto che questa seconda locuzione è usata molto meno frequentemente della prima ma ciò che differenzia lliticare da litigare è che, mentre nella la voce italiana nell’uso transitivo il complemento oggetto non è mai una persona, in quella salentina questo può avvenire e il verbo diventa sinonimo di rimproverare: ‘Ssuntina ha lliticatu marìtusa (Assuntina ha rimproverato suo marito).1

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1 Analogo uso mostra spramintare, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/27/la-creativita-in-un-termine-dialettale/

Come eravamo? Innovazione e costruzione della proposta turistica nel Salento degli anni Settanta.

di Cristina Manzo

“Apparve il porto. Più da vicino, apparve al monte in cima di Pallade il delubro.

Allor le vele colammo, e con le prove in terra demmo. È di ver l’Oriente un corvo seno in guisa d’arco, a cui di corda invece sta d’un lungo macigno un dorso avanti.

Ove spumoso il mar percuote e frange. Nei suoi due corni ha due scogli, anzi due torri, che con due braccia il mar dentro accogliendo, lo fa porto e l’asconde sopra il porto. Lungi dal lido è il tempio.”

(Eneide, libro III)

Fig.1, «Porto Badisco (Le). Approdo di Enea». Il luogo baciato dal mito traspira rusticità e affetto. I muretti a secco contengono la vegetazione spontanea e tutto si colora di mediterraneità (1)

 

La Puglia, terra di arte e di magia, terra di abbracci e di incanto, con il Salento, quella fantastica terra dove i due mari si incontrano, è la regione più bramata dal turismo ai nostri giorni, ma non è stato sempre così. La storia del turismo nel Mezzogiorno d’Italia ha cominciato a modificarsi lentamente, quando la politica e le istituzioni pubbliche hanno cominciato a capire che c’era un impellente bisogno di attenzione alle innovazioni e di elasticità nelle concessioni, per far si che degli investimenti mirati portassero il meridione al centro dell’idea di meta turistica ambita, sia nei viaggiatori del resto d’Italia che in quelli stranieri.

Agli inizi degli anni Cinquanta il Salento era un’immensa miniera d’oro a cui non veniva concessa la possibilità di essere profondamente esplorata. Un potenziale non attivo. Mancavano le strutture ricettive, la bonifica di immensi territori campestri, adiacenti alle spiagge, inselvatichiti e grezzi. Mancavano i servizi, l’acqua e la luce in moltissimi siti adiacenti al mare, che avrebbero potuto diventare dei grandi stabilimenti balneari, la capacità di accoglienza e anche la costruzione pubblicitaria della vacanza e dei territori vacanzieri. Bisogna anche dire che, fino a quel momento, l’idea di vacanza, nel senso stretto del termine, era stata prerogativa di pochi, ma un’indagine Istat svolta tra il 1958 e il 1959 cominciò ad attestare l’esistenza di una neo-formazione del flusso turistico italiano.

Inizialmente si trattava di vacanzieri che si concedevano brevi soggiorni in località termali, con pochi pernotti, o di gite organizzate appena fuori porta in cui ci si attrezzava per consumare il classico pic-nic, fai da te. Negli anni Sessanta però, le vacanze cominciano ad estendersi fino a coprire tutta la durata delle ferie, per una media di circa quindici/venti giorni, nel mese d’agosto, periodo in cui di solito uffici, scuole o fabbriche osservavano, di prassi, la classica chiusura estiva, con i fruitori che sembrano prediligere luoghi incontaminati, ma ospitali, per godere di meritato riposo.

Alle vacanze degli italiani, si affianca in questi anni una timida percentuale di turisti stranieri che cominciano a visitare con interesse le nostre città d’arte e le nostre bellissime coste, fino a trasformare in pochi decenni l’Italia nella prima meta mondiale e il Salento, in Puglia, nella prima località preferita.

Negli anni Settanta quindi si rende finalmente necessario affrontare la realtà: con l’aumento della domanda c’è un reale bisogno di arricchire anche l’offerta, che prevede agibilità, interventi e ristrutturazioni per ampie superfici dell’entroterra costiera.

La successiva indagine Istat del 1985, rivelerà che ormai è quasi il 50% della popolazione ad andare in vacanza. Sono gli anni in cui cominciano a prendere piede le agenzie turistiche e immobiliari del turismo (per un compito che fino ad allora era stato svolto da singole persone che lavoravano in autonomia, chiamati “sensali”)(2) e comincia a svilupparsi anche il mestiere di “venditore della vacanza” e di un pacchetto “all inclusive” con una copertura di orari “full time” che è una concezione tutta nuova della vacanza dedicata a tutte le fasce societarie. Così si comincerà a pensare in grande, grandi alberghi, grandi stabilimenti, e anche grandi villaggi come nel caso del primo “Club mediterranee” aperto a Otranto, nel Salento, o del complesso turistico residenziale Serra degli Alimini, sempre a Otranto.

 

Negli anni Settanta comincia il boom delle vacanze nel Salento anche per le migliaia di persone emigrate per lavoro, nel resto d’Italia o all’estero, per una vera esigenza “fisica” di contatto con il nostro meraviglioso mare, le nostre coste, la nostra cultura contadina e ospitale, le nostre tradizioni… i profumi della terra. Il Salento, da questo momento in poi comincia la sua corsa inarrestabile verso la “pole position”, la “top ten” dei luoghi più ambiti e del “sold out”. Ovviamente non prima di essere riusciti a superare una certa serie di difficoltà. Molti centri balneari, con coste meravigliose e cultura e storia degne di nota, hanno dovuto lottare duramente per potersi vedere riconosciuta la loro importanza e per emergere, nonostante fossero in possesso di tutte le qualità necessarie. Prendiamo Gallipoli, ad esempio, che in mancanza di un buon piano regolatore per il turismo, fino agli anni Settanta, come unica attrattiva, puntava sul carnevale gallipolino, sulla pesca o su qualche manifestazione estiva folkloristica o sportiva. Non aveva alcuna forma di tutela per l’artigianato locale, e le uniche infrastrutture nella cittadina e dintorni a disposizione dei viaggiatori erano: “Gran Hotel Costa Brada”, “Hotel Lido San Giovanni”, “Hotel Artù”, “Motel di Marittima” e “Camping La Vecchia Torre”. La Pro-loco cittadina non provvedeva a fare nessuna forma di campagna pubblicitaria per mancanza di fondi nelle casse. La stessa sorte vale per tantissime altre località che faticano non poco a entrare appieno nella cintura del turismo d’arte e di balneazione salentina. Infine accadrà, i comuni e le province prenderanno iniziative, e le nuove idee di turismo prenderanno forma ma, non senza il rovescio della medaglia. Come nel Giano Bifronte, infatti, guardando indietro ci saranno le meravigliose coste baciate dalla natura incontaminata e, guardando avanti, un abusivismo edilizio che una volta cominciato avanzerà veloce a suon di enormi fabbricati che come titani si ergeranno tra le romantiche dune e a picco sulle coste, offuscandone, in taluni casi, il pittoresco panorama. Gli insensibili affaristi del vista mare, infatti, non esiteranno a costruire e inquinare le acque e i territori secondo il canone dei propri interessi. Ci sono zone dove hanno vinto la natura e il buon senso e zone dove l’uomo ha alterato il suo equilibrio, qualche volta in maniera irreversibile.

Proprio di questi mesi è l’articolo pubblicato dal “Quotidiano di Puglia” su uno di questi delicati e annosi problemi: «Demolire entro trenta giorni “la casa albergo” di Tricase Porto». Il sindaco Carlo Chiuri firma l’ordinanza di abbattimento del rustico di un albergo ristorante che domina la vista del porto. Costruito negli anni ’60 e rimasto abbandonato a se stesso sino a oggi, ora l’immobile è considerato un pericolo. Questo storico immobile, che nel tempo si è trasformato in un ecomostro, nasceva come un piccolo gioiello: completato nell’estate del 1967, ospitò inizialmente i proprietari finché a fine febbraio 69, iniziò il contenzioso tra Prefettura e Comune. Da allora la struttura è stata abbandonata. Dopo più di 40 anni di “assenza e trascuratezza” un gruppo di cittadini formò un comitato per l’abbattimento ma, alla fine, a decretare la fine dell’immobile ci ha pensato la natura, che con tutta la furia del tornado ha deciso di riprendersi il costone3.

Fig.4, «Gallipoli. Spiaggia lido San Giovanni». È il lido cittadino per antonomasia: quello frequentato dalla gente che conta.
Fig.5, «Lido delle conchiglie, litorale Santa Maria al Bagno – Gallipoli». È la spiaggia dei cittadini di Sannicola che ne hanno sempre rivendicato l’esclusività.
Fig. 6, Santa Maria al Bagno, (Lecce). La montagna spaccata. Benvenuti nel mare di Gallipoli
Fig. 7, S. Maria al bagno. Lungomare. La Rotonda e la piccola Promenade qualificano urbanisticamente la località nota per i bagni salutari e …affollatissimi.
Fig.8, “Santa Caterina di Nardò”, panorama e pineta. Lo sguardo abbraccia il vasto orizzonte che si posa sin sulla torre “D’altolido”.
Fig. 9, «Nardò, (Lecce). Panorama dalla Torre Dell’Alto». Riviera sullo Jonio. Veduta suggestiva dalla sommità della serra che domina la ridente costiera dove si adagiano le ambite località di soggiorno estivo di Santa Caterina e Santa Maria al Bagno

 

Con istanza del 20 dicembre 1972 il sindaco del Municipio di Lecce, in esecuzione della deliberazione adottata dall’assise cittadina nella seduta dell’11 dicembre 1970, chiese alla regione Puglia il riconoscimento della stazione di soggiorno e turismo del territorio comunale in tutta la sua estensione e in ogni area urbana. La Giunta regionale, in data 30 maggio 1973, espresse parere di approvazione e accolse l’istanza. Nelle ragioni che promossero la storica capitale di Terra D’Otranto ad area di pregnante valore turistico giocò un ruolo determinante la ricchezza di monumenti e di testimonianze storico-artistiche della “città-chiesa”, in quanto denominata, alternativamente la “Firenze del sud” e l’”Atene delle Puglie”: grazie all’inconfondibile tocco d’architettura del suo barocco gentile, che ne ha reso celebri i sontuosi templi della fede e i possenti palazzi del notabilato. Ebbe, parimenti, la sua importanza la dotazione, nel casalingo e lungo litorale, di una serie continua di località balneari che conobbero, negli anni sessanta, un deciso sviluppo turistico-residenziale: «con vari impianti ricettivi che integrano efficacemente i motivi di richiamo nel centro capoluogo». Ne discese un movimento di viaggiatori che, durante il 1972, raggiunse livelli ritenuti considerevoli dall’Ufficio regionale istruente la caldeggiata pratica. Si ritenne, allora, soddisfatta la condizione prioritaria per la concessione dell’ambito titolo come indicava nella normativa vigente: e cioè il “concorso dei forestieri” che «deve costituire l’elemento essenziale all’economia della località». L’Assessorato regionale al Turismo dette il via ufficiale all’avventura di Lecce città ospitale, d’arte e di cultura. Con decreto del presidente dell’ente del 22 marzo 1974, n. 779, venne, alfine, istituita l’Azienda autonoma di soggiorno e turismo, con sede nel comune. Dopo la lontana istituzione (1928) della prima Azienda autonoma (di cura) di Santa Cesarea terme, la Puglia meridionale tutta, con Lecce si pose al centro dell’attenzione dell’esigente ampio mercato dei consumi turistici (nazionali e non solo) di qualità certificata. La più orientale città dell’ultima penisola accolse, entusiasta, la palma di prima Azienda turistica sorta in un capoluogo di provincia della Puglia.

Fig. 10, «Santa Cesarea Terme (Lecce). Panorama dagli Archi». É il posto prediletto per i bagni in un contesto di rocce precipiti.
Fig. 11, «Santa Cesarea Terme. Piscina olimpionica Carmen Longo». Blu dolce e blu salmastro folgorano i bagnanti felici immersi in uno scenario di roccia e acqua esaltante

 

Nel mentre ci si disponeva a raffigurare su carta patinata i paesaggi di solare mediterraneità, l’attacco del mattone alle coste procedeva a ritmi sostenuti. Le “saracinesche sul mare” ne occultavano le visuali. Cortine di tufo rendevano arduo l’accesso alla battigia. Il disordine dell’edilizia delle “seconde case” andava montando. Un problema, questo dell’abuso dei litorali, che suscitava vivo allarme nell’opinione pubblica informata. Già lanciato dalla stampa negli anni del boom, del primo sacco costiero, fu particolarmente avvertito ad avviamento dei Settanta allorquando la situazione degli squilibri ecologici dell’interfaccia terra-mare stava precipitando.

«I fatti noti: lungo tutto il litorale jonico tra l’Oasi delle Quattro Colonne e S. Maria al Bagno, nei pressi delle numerosissime costruzioni abusive sorte in questi ultimi anni come funghi, il Pretore di Nardò […] ha fatto piantare dei cartelli con i quali impedisce l’accesso agli addetti ai lavori [di quei cantieri]. Poi c’è il caso della lottizzazione di “Baia Verde” a Gallipoli, a farla da primo attore. Poi Otranto per la questione dell’amplissima zona pinetata denominata Mari-Frassanito. Poi nella verdeggiante e silente campagna di Ortelle, sul rilievo che guarda a Castro Marina, dove sorge un centro turistico-alberghiero che, differenziandosi arbitrariamente dal progetto originale, finisce col causare un guasto irreparabile del paesaggio in una zona completamente boschiva ancora vergine.

Poi fu la volta di Porto Cesareo, nel frattempo divenuto meta preferita da coloro che risiedevano a Copertino, Veglie, e Leverano. La sua costa fu stravolta dai saccheggiatori di sabbia fino a perdere la naturale barriera protettiva delle mobili gibbosità della esaltante fascia marittima “un richiamo diverso da quello offerto dalle scogliere di S. Caterina e S. Maria al Bagno. La devastazione dell’ambiente retrodunale salentino procedette spedita per tutto il decennio considerato e, quella bellissima costa, devastata dall’abusivismo edilizio e dall’inquinamento provocato dall’incuria degli uomini. Si stavano letteralmente mettendo i lucchetti al mare.

In un articolo apparso su “La Tribuna del Salento”, a. XIX, n. 30, 4 ottobre 1977, di Ugo Tapparini, dal titolo “Porto Cesareo, l’abusivismo diventa paradossale. La spiaggia sotto chiave” si legge «Cancelli dovunque, la consegna è “Non si passa”. Timidi turisti, stranieri inconsapevoli di trovarsi in un’altra “Repubblica”, diversa da quella italiana, vengono sistematicamente respinti solo che osino varcare, in cerca del mare, la soglia della proprietà». I proprietari del villaggio Tabù, non si fecero scrupoli nel proibire l’accesso al loro esclusivo stabilimento, il doppio cancello praticamente vieta ai cittadini e ai turisti, stranieri compresi, di recarsi su un tratto di spiaggia candida e bellissima di proprietà pubblica. Con gli steccati tra Porto Cesareo e Torre Lapillo, si sbarrò la strada al turismo accogliente e sostenibile.
Ma, a onor del vero, non tutti gli imprenditori del settore sono state persone prive di coscienza, di accortezza e di amore nell’approccio a questa nuova impresa, in cui bisognava anche crederci, e investire capitali propri con tutti in rischi connessi.
La storia del turismo salentino l’hanno fatta soprattutto quelle persone che, dotate di un’idea imprenditoriale lungamente elaborata hanno davvero scommesso sulla carta, tutta da scoprire. Tra gli alti e bassi degli inizi, un pugno di innovatori – che non seguirono la solita strada dell’improvvisazione di operatori rapaci senza retroterra culturale- si spese per svecchiare veramente il comparto della vendita di pacchetti-vacanza, in comode stanze in bellavista, nell’ultima penisola baciata dal Mediterraneo più fulgido.

A Castro come a Leuca, a Gallipoli come a Porto Cesareo (a Otranto la storia prese, più che altro, il verso degli impianti villaggistici di matrice esogena e dirigisticamente concordata) andarono a localizzarsi ben fatti complessi per confortevoli soggiorni tutto mare e spiaggia. Il caso di studio dell’imprenditore Attilio Caroli (1910-1987) chiarisce benissimo il percorso seguito per arrivare al traguardo odierno, con l’inventiva di uno degli antesignani dell’”industria alberghiera” quale egli è stato, insieme alla sua famiglia, giunta alla quarta generazione, a perseguire e ad ampliare questo grandioso progetto (4).
Siamo nel 1965 quando Attilio Caroli e Gilda Nuzzolese decidono di intraprendere a Santa Maria di Leuca una nuova scommessa. Attilio è originario del comune di Taurisano, centro agricolo del Capo di Leuca, e Gilda è una maestra di scuola elementare nata a Bari, e trasferitasi a Taurisano per insegnare. Essi erano del tutto nuovi al mondo dell’ospitalità alberghiera quando vi si affacciarono; Attilio insieme al padre Cosimo e ai fratelli, seguiva l’azienda agricola di famiglia che commerciava in vino e olio del Salento, ma era nota soprattutto per la raccolta dei fichi secchi che venivano impiegati dalle aziende di trasformazione per produrre distillati e surrogati del caffè, per poi essere esportati finanche oltre confine, sul mercato austriaco. Attilio e Gilda quando decisero di lanciarsi in questo sogno neofita, dove avrebbero investito il capitale dei profitti della loro impresa rurale, erano supportati dalla figlia Maria Domenica e dal genero Mario, un medico chirurgo anch’egli all’oscuro del nuovo mondo turistico, ma passo dopo passo con il loro entusiasmo portarono la piccola “Portici”, di Leuca, il piccolo gioiellino ricco di colori e di casette con terrazze e giardini privati simbolo dell’aristocrazia di fine secolo a non essere più solo un centro vacanziero per pochi membri d’élite. I Caroli, potenziarono il centro vacanze con l’innesto di una nuova grande struttura, modernissima con tantissimi posti letto che rendevano confortevole il soggiorno pur senza avere i lussi e l’esclusività delle ville. Nacque l’”Hotel Terminal” di Santa Maria di Leuca. I loro buoni rapporti con gli agenti di viaggio, sia nazionali che esteri, quelli che oggi chiamiamo tour operator la grande capacità di saper già trattare con il pubblico e il privato per il commercio, l’apertura mentale alle innovazioni e l’inventiva nel sapersi presentare e pubblicizzare fecero il resto. La nuova struttura in Santa Maria De Finibus Terrae, portò in breve al raddoppio, e oltre, del fenomeno turistico nel basso Salento. Nel 1976 questa nuova impresa di famiglia si arricchirà con la nascita del Complesso alberghiero “Le Sirenuse” di Gallipoli. Siamo appena all’inizio dell’industria turistica salentina ma la scommessa è vinta!

Con l’arrivo della terza generazione della famiglia Caroli-Caputo, Annamaria, Attilio, Gilda e Pierluigi, nella perla dello Jonio si acquisiscono altre strutture ricettive: a Santa Maria di Leuca, “Villa La Meridiana” e a Gallipoli, il “Joli Park Hotel” ed il “Bellavista Club” (5).
Nasce la “Caroli Hotels”, che oggi affianca alla gestione di oltre mille posti letto la commercializzazione con il marchio “Caroli House & Boat” di immobili di pregio in Puglia e “charter in barca a vela” e con “La Dispensa di Caroli” promuove le prelibatezze enogastronomiche salentine, riprendendo la tradizione di famiglia, quella tradizione rurale e genuina, legata alle radici della terra da cui tutto era partito, in un felice connubio “fichi-hotellerie”. Ed ora la quarta generazione della famiglia rappresentata dai pronipoti di Attilio, Mario e Gabriele, continua la tradizione innovandola con nuove idee6.

Fig. 12, Preso dal mare, l’Hotel terminal mette in bella mostra il suo volto fresco e confortevole. Negli anni dell’avvio dell’attività ricettiva, l’avere una discesa diretta alla dirimpettaia spiaggia privata rappresentò l’elemento di spicco dell’offerta alberghiera leucana: un must dell’ospitalità dell’estremo Salento. Per essere visibili, invidiati e alla moda si doveva dimostrare . una volta tornata a casa dalle vacanze mirifiche – di essere à la page. Cosa di meglio di un ludico insediamento nell’arenile dorato, piantonato dal camerino da bagno di primo Novecento appartenuto alla villa di una famiglia in vista della “Leuca dei signori”?
Fig. 13, I fondatori del “Terminal”, i coniugi Caroli, nella reception nei primi tempi dell’operatività alberghiera (1967). Telefono centralizzato e macchina da scrivere in primo piano ci dicono che tutto è pronto per non sfigurare con i turisti che prenotano le loro vacanze degli agi in albergo
Fig.14, Con l’”Hotel Terminal”, il lungomare di santa Maria di Leuca acquisisce ancora di più la veste di moderna promenade in linea con i tempi esigenti della villeggiatura di livello medio-alto. L’affaccio diretto all’ultimo spettacolare mare a oriente d’Italia fa dell’albergo nuovissimo un sito privilegiato di ludica osservazione per il turista che si vuole godere veramente la vacanza a due passi dal bacio dell’onda: nella tranquillità riservata della spiaggia servita di tutto punto. Per elevare l’ospitalità bisognava, d’altronde, offrire tutti i comfort a cui il montante benessere di una fetta consistente della popolazione italiana . a cavallo tra i sessanta e i settanta – aspirava velocemente. Ci si sintonizzò, quindi, sulla frequenza allora in voga, delle richieste di qualità: si irrobustì così l’offerta alberghiera di buon livello. Leuca poté soddisfare un target in sintonia col suo passato splendore vacanziero. Fig. 15. Dépliant dell’”Hotel Terminal”. Nei primi anni settanta di crescita lenta, ma costante, del movimento turistico nazionale, occorreva dare indicazioni precise sull’area prescelta per le vacanze “decentrate”. Il pieghevole pubblicitario assolve al suo compito itinerario mettendo in dovuta evidenza le distanze chilometriche da percorrere, dai principali centri urbani regionali e dell’Italia di mezzo e del Nord, per arrivare alla mèta leucana, dalla quale poi è possibile agevolmente raggiungere, via Litoranea Salentina, le località balneari delle due costiere del Sole (opportunamente segnalate)

Fig.16, lo scatto di metà dei settanta riprende la struttura edilizia in via di completamento del complesso alberghiero “Le Sirenuse”, ubicato nel retro-duna del seno meridionale di Gallipoli, in Contrada “Li Foggi”.
Fig. 17, l’albergo “Le Sirenuse” è ormai una realtà sul finire del decennio degli anni settanta. Dotato di spiaggia privata e pineta, accoglie turisti provenienti da ogni dove

 

Di recente, cercando libri in biblioteca, mi sono imbattuta in un piccolo romanzo dal titolo “Salento nel cuore” stampato negli anni Ottanta, che ha toccato il mio, di cuore, riportandomi alla memoria la storia di tanti, anche miei parenti, che tra gli anni Venti e gli anni Settanta dovettero lasciare il Salento per cercare un futuro lavorativo e una migliore speranza di vita.

È una storia autobiografica ma, raccontata in terza persona, di un ragazzo, Giorgio, che rimasto orfano viene adottato dalla zia, che per salvaguardare la sua eredità da altri parenti perfidi, scappa con lui dal paese d’origine portandolo nel capoluogo salentino, dove il ragazzo frequenterà il collegio, sino alla sua maggiore età, per poi trasferirsi altrove, in Italia, dove completerà gli studi diventando medico, e dove si sposerà mettendo su famiglia. Un giorno, però, venendo a sapere che la zia era sul punto di morire, torna nel Salento, per restare al suo capezzale sino alla fine.
“L’emigrazione verso la Svizzera e la Germania aveva allontanato i giovani contadini dai poderi dei vecchi genitori, rimasti soli a sfiancarsi in mezzo alle viti che non rendevano più come una volta, anche perché il mercato non assorbiva totalmente il prodotto, a causa delle solite crisi agricole. Altre bevande surrogavano il buon vino del Salento, varie miscele sostituivano il magnifico olio pugliese. Prodotti artefatti o sofisticati , lanciati reclamisticamente alla televisione, gettavano nello sgomento molte famiglie di contadini, i cui figlioli preferivano inurbarsi alla ricerca di un lavoro presso industrie del nord o verso più lontane metropoli europee, anche se il cuore rimaneva nel Salento, il quale malgrado le grandi metamorfosi socio-economiche restava immutevole nella sua arcaica bellezza. […] Certo qua e là le spiagge salentine presentavano un aspetto diverso, più mondano. Ma la svolta nel meridione era assolutamente necessaria. Chalets e ristoranti, pensioni ed alberghi richiamavano stranieri e genti del nord, incantate nella scoperta di spiagge naturali, fatte di soffice bianca sabbia, di scogliere invitanti a tuffarsi tra le onde trasparenti. La mitica terra del sud apriva le sue corolle, faceva conoscere le splendide bellezze inesplorate: Castro, Santa Cesarea, Santa Caterina…Campomarino, Torre Ovo, Lido Silvana: autentiche perle dalle iridescenze opalescenti fra soli…ed azzurri interminabili. Dal maggio al settembre inoltrato durava la lunga estate salentina, smagliante di luce e di colori, di forza generosa, di atavica genuinità. […] Ricordava bene quella sera: partito con il treno alla volta del Garda, avvertì uno strano inspiegabile malessere, per cui sceso a Brindisi, raggiunse in taxi Lecce, rientrando in casa inaspettato. Egli non se la sentiva di allontanarsi dai cari luoghi; ancora una volta il Salento lo tratteneva…al mattino seguente, Giorgio si riconciliò con la vita, il malessere era scomparso. Ogni pomeriggio il nostro attraversava la città dalle quattro porte: solo, per le vie solitarie, Giorgio riscopriva la “capitale del Salento”, non si stancava di ammirarla e ne comprendeva la vera sostanza che ora maternamente lo avvolgeva. Aveva rivisto i vecchi compagni, insieme ridevano con il Salento nel cuore, il loro passato, le inveterate tradizioni, la vecchia Lecce delle giravolte, le carrozze, caracollanti tra stazione e piazza Vittorio Emanuele; il profumo di caffè tostato; i dolci dell’Alvino; il campo sportivo Carlo Pranzo con partite di pallone tra studenti. Tutto questo passato veniva confrontato con i problemi attuali, con la realtà presente, a volte drammatica, fino a coinvolgere i figli, dopo il cruccio di tante illusioni cadute. Le ansie umane svaniscono al cospetto della genuina dolcezza del Salento, invitante i suoi figli a restare; a continuare una vita più autentica, a cogliere il profumo di un’arcaica terra, dove realtà e leggenda s’intrecciano, sciogliendosi nei contorni diafani di un’esistenza ineffabile”7.
Ci deve essere un motivo se tutti coloro che vi sono nati o, hanno conosciuto il Salento, non riescono a starne lontani. C’è sempre l’idea fissa di tornarci e quando ciò non si compie, quell’idea si trasforma in un macigno adagiato sul cuore, in un vuoto da colmare, in un nostalgico e sopito dolore. Si può viaggiare, partire, tornare, riandare, girare il mondo intero, ma nessun paese potrà eguagliare la magia che il nostro mare e i nostri “trecento kilometri” di costa infondono nell’animo del Viaggiatore. E quindi…Arrivederci dall’incantato Salento.

BAIA DI PUNTA DELLA SUINA, GALLIPOLI, PUGLIA

 

immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208

 

Note:

1La caletta di Porto Badisco si chiama effettivamente “ Approdo di Enea”, anche se ormai varie teorie e ricerche storiche aggiungono a questo sito altre tre probabili candidate location per l’avvenuto sbarco di Enea nel Salento, ovvero Castro, Otranto e Leuca.

2Il sensale era già conosciuto dai persiani e dagli arabi dove rispettivamente era denominato “sapsar” e “simsar”, mentre nell’antica Grecia la figura del sensale era conosciuta con il termine proxenètes, dal quale trae origine la parola “proxenèta”, utilizzata sia in epoca romana che nel periodo medievale. Inizialmente la sua funzione consisteva nel mettere in contatto persone del luogo per soddisfare esigenze anche diverse da quelle di carattere commerciale, mentre successivamente, nell’antica Roma, il “proxenèta” assunse la figura di “intermediario di matrimoni” e di “conciliatore di dissidi familiari”. Solo successivamente, grazie allo sviluppo dell’impero romano, la sua figura assunse la più importante funzione di “mediatore in affari commerciali”. Già ai tempi dei Romani la figura del proxenèta era giuridicamente conosciuta e codificata: a testimoniarlo è il Corpus Iuris Civilis o Corpus Iuris Iustinianeum. .Il 1º gennaio 1866 nacque il Codice di Commercio del Regno d’Italia, nella cui legislazione i sensali divennero “mediatori” e vennero distinti in due categorie: quelli pubblici, i quali erano muniti di mandato, e i “mediatori in altre specie di mediazione”, ovvero i sensali di merci, di assicurazione, per noleggio navi e quelli per trasporto per terra e acqua. La legge del 20 marzo 1913, n.272 sancì che la professione di mediatore fosse libera e senza necessità di iscrizione ai Ruoli della Camera di Commercio, eccezion fatta per gli agenti di cambio e coloro che svolgevano incarichi pubblici. Nel 1958 venne invece reintrodotto l’obbligo dell’iscrizione al Ruolo della Camera di Commercio: agli iscritti per la prima volta venne attribuita la qualifica di “agenti di affari in mediazione”. https://it.wikipedia.org/wiki/Sensale

3 https://quotidianodipuglia.it/lecce/tricase_porto_via_lo_storico_ecomostro_demolito_entro_un_

4 Michele Mainardi, “Camere con vista mare. Enti di promozione ed imprese nell’innovazione turistica del Salento, degli anni settanta”, Edizioni Grifo, Lecce, 2010.

5Tutte le notizie riguardanti la storia d’impresa e la biografia di Attilio Caroli e famiglia provengono dalle fonti dell’archivio familiare.

6 https://www.carolihotels.com/storia/

7 Luigi Camassa, Salento nel cuore, pp.72-82 I.T.E.S. Lecce, 1973.

8 Tutte le immagini (in bianco e nero) contenute nell’articolo sono presenti all’interno del libro di Michele Mainardi, Camere con vista mare. Enti di promozione ed imprese nell’innovazione turistica del Salento, degli anni settanta”, Edizioni Grifo, 2010.

Dialetti salentini: còcchia, ‘ccucchiare e scucchiare

di Armando Polito

 

La voce di oggi mi sembra emblematica della ricchezza semantica del dialetto rispetto alla lingua nazionale.

Questa volta parto dal latino còpula, che significa legame. L’analoga voce italiana si è specializzata nel significato di unione sessuale, alias coito, conservando, però, quello originario nella marca grammaticale (copula, appunto) che contraddistingue il verbo essere in unione ad un sostantivo o ad un aggettivo (nome del predicato). La voce latina, però oltre a còpula ha dato vita pure all’italiano  coppia attraverso la trafila còpula>*copla (sincope)>coppia ed al salentino còcchia attraverso la parallela trafila còpula>*copla>còcchia. Aggiungo che còcchia trova il suo uso quasi esclusivo in campo alimentare: la còcchia ti fiche (il fico tagliato a metà, seccato, poi richiuso dopo averlo farcito con una   mandorla tostata e buccia di limone prima di infornarlo); la còcchia ti friseddhe, per cui vedi la nota 3 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/.

Con riferimento agli umani il salentino usa coppia in locuzioni del tipo cce bbella coppia! (che bella coppia!) e in riferimenro alle bestie e ai capi d’abbigliamento paru (paio) in locuzioni del tipo ‘nnu paru ti cazzetti (un paio di calze).

Da còpula è nato in latino copulare, che significa genericamente  unire, mentre l’identica voce italiana ha assunto il significato sessuale già visto per copula.

Da copulare, con aggiunta in testa della preposizione ad (che indica direzione p scopo) è nato *adcopulare, da cui l’italiabo accoppiare attraverso la trafila *adcopulare>*adcoplare (sincope)>*accoplare (assimilazione)>accoppiare e nel dialetto salentino ‘ccucchiare attraverso l’analoga trafila *adcopulare>*adcoplare>*accoplare>‘ccucchiare (aferesi).

In aggiunta al significato base di unire ‘ccucchiare mostra una sfera semantica abbastanza estesa essendo usato nei seguenti significati traslati:

1) quello di ragionare in espressioni del tipo quiddhu no ‘ccocchia, cioè non è in grado di mettere insieme due concetti.

2) quello di trovare il tempo per andare da qualcuno o in un luogo in locuzioni del tipo itimu ci ‘ccòcchiu crammatina (vediamo se ce la faccio a venire domani mattina).

3) quello di risparmiare in espressioni del tipo àggiu ‘ccucchiatu centu eru (ho messo insieme cento euro).

4) quello di non avere denaro sufficiente per pagare o per dare il resto in locuzioni del tipo  noccòcchiu (non ce la faccio a pagare o a dare il resto).

Infine segnalo il contrario scucchiare (da ex privativo+copulare)usato:

1) nel significato di separare in locuzioni del tipo sta ssi li minavanu e l’aggiu scucchiati (stavano dandosele di santa ragione e li ho separati) e in forma riflessiva per indicare la fine di un rapporto affettivo o di affari in locuzioni del tipo s’onu scucchiati (si sono separati),

2) nel significato di scegliere in locuzioni del tipo sti ‘nieddhi mi piàcinu tutti ma tocca ‘ndi scòcchiu unu (questi anelli mi piacciono tutti ma mi tocca sceglierne uno).

Dialetti salentini: scàncaru e stàntulu

di Armando Polito

Sono due elementi fondamentali di qualsiasi porta. Scàncaru ha il suo corrispondente italiano in ganghero, che è dal greco tardo κάγχαλος (leggi càngalos) così attestato nel glossario  Esichio di Alessandria (V secolo): κάγχαλος κρίκος ὁ ἐπὶ ταῖς θύραις. Σικελοί (κάγχαλος anello sulle porte. Siciliani).

Detto che κρίκος è forma epica di κίρκος (da cui il latino circus, che ha dato vita all’italiano circo col suo diminutivo circulus, che ha dato vita agli italiani circolo e cerchio), stando ad Esichio la forma sarebbe stata in uso in Sicilia. Appare evidente, solo a pronunciare le due voci scàncaru e ganghero che esse hanno qualcosa in comune, che non può essere se non la voce greca appena riportata.

Sorprenderebbe che questo sia sfuggito ad un maestro della statura del Rohlfs che nel suo dizionario da me citato centinaia di volte riporta il lemma che riproduco di seguito in formato immagine.

E per chiàncari:

Sorprenderebbe, ho detto (e il condizionale non è CASUALE), l’assenza di qualsiasi indicazione etimologica se nella definizione di entrambe le voci non entrasse la parola gangheri per la prima, ganghero per la seconda in conformità, credo, con quanto si legge nell’introduzione (v. I, p. 9) della sua opera: Per tutte le parole che i nostri dialetti hanno in comune con la lingua nazionale italiana, il lettore vi potrà trovar utili chiarimenti nei vocabolari etimologici della lingua italiana.

Al maestro tedesco, perciò, si potrà imputare tutt’al più, di aver risparmiato spazio e propiziato, soprattutto nei non addetti ai lavori, l’affrettata conclusione dell’omessa etimologia per i lemmi in questione. Ma, si chiederà il lettore, se tra chiàncaru e ganghero le affinità fonetiche sono evidenti, come si spiega la s iniziale di scànchiri e delle altre varianti (compresa la neretina scàncaru) in cui essa è presente? A parer mio quiella s- può avere lo stesso valore espressivo che si nota in scarciòppula rispetto a carciofo o, forse più attendibilmente, è dovuto ad incrocio con scancu , deverbale da scancare che significa allargare le gambe, scavalcare. Escluderei lqualsiasi collegamento con scancu che non sia un incrocio perché una derivazione unica e diretta da scancu avrebbe dato non scàncaru ma scancàru, come in picuràru (pecoraio) da pècura (pecora) o fumàru (fumaiolo) da fumu (fumo) e proprio la posizione dell’accento confermerebbe, secondo me,  l’origine greca della voce.

Passo ora a stàntulu che semanticamente ha il suo corrispondente nell’italiano stipite ma che etimologicamente è diminutivo di stante, participio presente con valore sostantivato di stare.Non a caso, a differenza dello scàncaru è la parte fissa di  una porta e questo concetto è alla base pure di stipite, che è dal latino stipite(m), che significa tronco d’albero, palo, Così, pur fuorviati da una moderna porta blindata con guarnizioni stagne e, qualora non ad anta scorrevole, con cerniere su cuscinetti a sfera o ad aria compressa, non ci sarà troppo complòicato immaginare il modello più semplice e primitivo di cancello (da considerarsi, molto probabilmente, l’antenato della porta) con :lo stipite costituito da due pali (stàntuli)  e una sola grata apribile grazie a due anelli di collegamento (scàncari)  con uno dei due stàntuli, mentre l’altro funge da battente.

Il Galateo e i brucolachi

di Armando Polito

Il Galateo del titolo non è l’opera di monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e neppure quel complesso di norme di buone maniere che, come nome comune, da esso trae origine. Si tratta, invece, dello pseudonimo, tratto dal centro (Galatone) in cui nacque, del più famoso umanista salentino: Antonio De Ferrariis (1444-1517).

La parte finale del De situ Iapygiae, pubblicato postumo per i tipi di Pietro Perna a Berna nel 1558, Antonio rivolge la sua attenzione al territorio neretino e da par suo dà un colpo decisivo a a quella che ritiene  interpretazione superstiziosa e fasulla dei due fenomeni dei Fuochi fatui1 e della Fata Morgana2 osservati frequentemente nel territorio del Salento.

Riproduco di seguito dell’editio princeps il frontespizio e la parte che ci interessa di p. 117 evidenziata dalla sottolineatura, certo di fare cosa gradita ai bibliofili, ai quali segnalo che l’opera è integralmente scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/objdownload?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE003363&teca=MagTeca%20-%20ICCU&resource=img&mode=all.

Prima di procedere alla traduzione è d’obbligo una nota di natura filologica relativa proprio alla strana parola (brucolachi) che compare nel titolo di questo post. In questa prima edizione compare Brocolarum, come si può leggere più chiaramente nel dettaglio che segue.

non nativo, cioè dell’autore, ma di trascrizione da manoscritto più che di stampa) per Brocolacum, genitivo plurale, che, come vedremo, appare come trascrizione dal greco. L’errore si perpetuò per lungo tempo nelle edizioni successive, di seguito documentate.

Maccarani, Napoli, 1624

p. 90

 

Chiriatti, Lecce, 1727

Di questa edizione curata dal neretino Giovanni Bernardino Tafuri non posso fornire il dettaglio che ci interessa, ma posso assicurare che continua il Brocolarum delle precedenti edizioni, perché esso permane nell’edizione, a cura dello stesso Tafuri, inserita nella collana curata da Angelo Calogerà appresso indicata.

Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo VII, Zane, Venezia, 1722

  1. 194

 

Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, Ricciardi, Napoli, 1735

 

colonna 620

 

Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851

p. 89

A p. IV dello stesso volume Michele Tafuri così si esprime sull’edizione leccese del 1727 curata dall’antenato.

Da notare l’errata indicazione del tomo della raccolta del Calogerà (VII e non IX).

 

La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867

p. 93

 

Abbiamo la conferma che il Brocolarum sopravvisse fino al 1867. Non so a quale editore è da ascrivere il merito di averlo corretto per primo in Brocolacum. Bisognerebbe passare in rassegna tutte le edizioni del De situ Iapygiae successive al 1851, ricerca, purtroppo, non fattibile, com’è noto,  in rete con testi anche relativamente recenti, ferma restando la mia impressione che in questi ultimi anni il processo di digitalizzazione del patrimonio librario ha subito un rallentamento, probabilmente per motivi di ordine non solo burocratico ma anche finanziario.

Dopo questa lunga parentesi, che lascio volentieri aperta ad ogni integrazione altrui, ecco la traduzione del brano da cui tutto è partito.

Simile è la favola dei brucolachi, che invase tutto l’oriente. Dicono che le anime di coloro che vissero scelleratamente di  notte come globi di fiamme sono solite sorvolare i sepolcri, apparire a persone note ed amici, nutrirsi di animali, succhiare il sangue ai fanciulli ed ucciderli, tornare poi nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture, squarto il cadavere, ne estrae il cuore e lobrucia e getta la cenere ai quattro venti, cioè verso le quattro regioni del mondo e crede che così la maledizione cessi. E se la favola è quella, tuttavia ci offre l’esempio di quanto invisi ed esecrabili siano a tutti coloro che vissero malamente, e vivendo e da morti. Simile è anche la favola di Ermontino di Clazomene citata da Plinioe da Seneca sul sepolcro incantato. Nè mancarono nei tempi antichi simili sciocchezze e illusioni dei sensi umani.

Stando alla descrizione, a parte il tratto iniziale che sembra riguardare i fuochi fatui, il resto evoca il vampirismo, per cui il brucolachi della traduzione è sinonimo di vampiri, voce con cui è reso in tutte le traduzioni meno e più recenti.

Un comune destino sembra unire dal punto di vista etimologico la voce vampiro e quella relativa al suo antenato, il brucolaco. La loro origine, infatti, è incerta. In particolare per la prima l’ipotesi più accreditata è che derivi dal serbo-croato vampir. E per brucolaco? L’attestazione più antica che sono riuscito a trovare è in una relazione di viaggio del 1717..

Alle p. 131-133 si legge quanto di seguito riproduco.

(Vedemmo una scena ben differente e ben tragica nella stessa isola in occasione di uno di questi morti che si crede ritornino in vita dopo il loro seppellimento. Colui del quale mi accingo a raccontare la storia era un cittadino di Micono5 per natura di cattivo umore e lamentoso; questo è un dettaglio da sottolineare in rapporto a pari soggetti. Fu ucciso in campagna, non si sa da chi e come. Due giorni dopo che era stato sepolto in una cappella della città, corse la voce che lo si vedeva la notte passeggiare a gran passi, che veniva nelle case a rovesciare mobili, spegnere lampade, abbracciare le persone alle spalle e fare mille piccoli tipi di dispetti. Lì per lì successe che se ne rise ma l’affare divenne serio quando le persone più sensibili cominciarono ad avere compassione: i papi stessi convenivano sul fatto e senza dubbio che essi avessero le loro ragioni. Non si mancò di far dire delle messe: nel frattempo il cittadino continuava la sua piccola vita senza correggersi. Dopo parecchie assemblee degli ottimati della città, dei preti e dei religiosi giunsero alla conclusione che bisognava, seguendo un non so quale antico cerimoniale, attendere nove giorni dopo il seppellimento. Il decimo giorno si disse una messa nella cappella dov’era il corpo al fine di scacciare il demonio che si credeva esservisi rinserrato. Il suo corpo fu riesumato dopo la messa e si decise di dovergli strappare il cuore. Il macellaio della città, assai vecchio e poco esperto, cominciò ad aprire il ventre invece del petto: frugò a lungo tra le interiora senza trovarvi ciò che cercava; alla fine qualcuno l’avvertì che doveva bucare il diaframma. Il cuore fu strappato tra l’ammirazione di tutti i presenti. Il cadavere nel frattempo puzzava tanto che si fu obbligati a bruciare dell’incenso; ma il fumo misto alle esalazioni del cadavere non fece che aumentarne la puzza e cominciò a riscaldare il cervello di questa povera gente. La loro immaginazione colpita dallo spettacolo si riempì di visioni. Ci si azzardò a dire che il fumo denso usciva da quel corpo: noi non osiamo dire che era quello dell’incenso. Non si credeva esserci che brucolachi nella cappella e nella piazza che è sul davanti: è questo il nome che si da a questi pretesi resuscitanti. La voce si diffuse nelle strade come attraverso ululati e questo nome sembrava essere fatto per far tremare la volta della cappella. Parecchi dei presenti assicuravano che il sangue di questo malvagio era molto vermiglio, il macellaio giurava che il corpo era ancora tutto caldo; da questo si concludeva che il morto aveva il gran torto di non esser morto bene o, per meglio dire, di essersi lasciato rianimare dal diavolo; è precisamente l’idea che hanno di un brucolaco. Si faceva allora risuonare questo nome in maniera incredibile. Entrò in quel tempo una folla di persone che affermavano ad alta voce che essi non erano ben sicuri che quel corpo fosse diventato rigido quando lo si portò dalla campagna in chiesa per seppellirlo e che di conseguenza era un vero brucolaco; questo era lì il ritornello.)

In margine a p. 131  si legge la nota che riproduco ingrandita.

 

Al Vroucolacas iniziale seguono le varianti greche, cioè Βρουκόλακος (leggi Breucòlacos), Βρουκόλακας (leggi Brucòlacas), Βουρκολάκας (leggi Burcolàcas. Subito dopo vien ripetuto Βρουκόλακας per introdurre la definizione: Spettro composto da un corpo morto e da un demone. C’è chi crede che  Βρουκόλακος significa carogna. Βρούκος (leggi Brucos) o Βοῦρκος (leggi Burcos) è questo limo così puzzolente che marcisce sul fondo dei vecchi pozzi, poiché Λάκκος (leggi Laccos) significa fossa.

La nota mi appare preziosa almeno quanto il testo principale  perché costituisce, a quanto ne so, il primo ed ultimo tentativo di ricostruire l’etimo di questa voce misteriosa. L’ipotesi del De Tournefort trova conforto, ma secondo me trae pure origine dalla conoscenza e consultazione del Glossarium ad scriptores mediae et infimae Graecitatis di Charles Du Cange uscito per i tipi di Anissonios, Joan. Posuel & Cl. Rigaud a Lione nel 168 (due volumi)..

Di seguito la parte iniziale delle schede relative rispettivamente dalle olonne 222 e  783 del primo volume.

(Βορκα, βορκος limo, non qualsiasi ma quello che macerato  in acqua già putrescente e mana una pessima fetore. Così l’Allacci nel libro sulle opinioni dei Greci al numero 12)

(Λάκκος [leggi lakkos], per i Greci è la fossa. Presso i medici però viene inteso come la parte del collo che chiamano σφαγλώ [leggi sfaglò), i Latini iugulum. Ipato in un manoscritto sulle parti del corpo umano: σφαγή, ὁ λάκκος τοῦ τραχήλου [gola, la fossa del collo]. Presso lo stesso ἰνίον [leggi inìon; significa nuca] viene spiegato come ὀπισθόλακκος [leggi opistòlaccos; alla lettera fossa che sta dietro], occipite. Λάκκος è pure il pozzo. Glosse manoscritte ai racconti di Gabria: πρός φρέαρ, εἱς λάκκον [verso il pozzo, verso la fossa])

Sembrebbe che l’etimo del nome della spaventosa creatura sia stato trovato, per cui brucolaco alla lettera significherebbe limo della fossa. Sarebbe così privilegiato il dettaglio del fetore che domina alla fine del racconto del Tournefort.

Faccio notare che il primo significato medico di Λάκκος (gola) riportato dal Du Cange evoca suggestivamente il dettaglio del corpo delle vittime dei vampiri ma mal si accorda (anzi, non si accorda proprio) con la prima parte Βορκα (limo puzzolente) e che le altre due varianti registrate nella relazione di viaggio (Βρουκόλακος e Βρουκόλακας) presentano rispetto a Βορκα la metatesi di –ρ-. Non crea, invece, problemi lo scempiamento dell’originario  -κκ- di Λάκκος dal momento che lo stesso glossario registra il derivato λακάζω (leggi lacazo) col significato di seppellire.

Fermo restanto il fatto che la nostra parola appare senz’ombra di dubbio composta, quali potrebbero essere le voci componenti alternative?. Per la prima parte metterei in campo la radice del verbo βρὐκω (leggi briùco), che siggnifica mordere e per la seconda la radice del verbo λακίζω (leggi lachìzo) che significa lacerare, uccidere.

 

Pur nell’incetezza delle sue componenti, credo di poter affermare che il brocolacum del Galateo è la trascrizione del greco  Βρουκολάκων (leggi brucolàcon) genitivo plurale di Βρουκόλακος, con conservazione dunque, della desinenza del genitivo greco

Rimane (per chi ci crede …) il fascino misterioso di questa creatura, ma anche la certezza che più di due secoli prima del De Tournefort del brucolaco aveva scritto il  salentino Galateo e che lo scetticismo da umanista del salentino (dopo tanta fatica mi si perdoni un pizzico di campanilismo …) anticipava quello da illuminista del francese.

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1  Per Fuoco fatuo s’intende il fenomeno costituito da fugaci fiammelle, per lo più bluastre che un tempo si potevano osservare nei cimiteri e in luoghi paludosi. Le mutate condizioni ambientali ed igieniche lo hanno fatto pressochè scomparire, come, con  il cambiamento di quelle culturali e più specificamente sociali, è avvenuto per il tarantismo.

2 il fenomeno della Fata Morgana, volgarmente detto miraggio, è un’illusione ottica dovuta alla rifrazione di immagini lontane in particolari condizioni atmosferiche. Non escluderei, visti i cambiamenti climatici in corso, la loro scomparsa o evoluzione …

3 Plinio, Naturalis historia, VII, 73: Reperimus inter exempla Hermontini Clazomenii animam relicto corpore errare solitam, vagamque e longiquo multa annuntiare, reperimus inter exempla hermotimi clazomenii animam relicto corpore errare solitam vagamque e longinquo multa adnuntiare, quae nisi a praesente nosci non possent, corpore interim semianimi, donec cremato eo inimici, qui Cantharidae vocabantur, remeanti animae veluti vaginam ademerint.  (Troviamo tra gli esempi che l’anima di Ermontino di Clazomene, lasciato il corpo, era solita errare e dopo aver reduce da paesi lontani dare molte notizie che non potevano essere conosciute se non da chi era tato presente, mentre il corpo frattanto restava semianimato, finchè i nemici, che si chiamavano Cantaridi, dopo averlo cremato, non sottrassero come una sorta di guaina all’anima che tornava)

Faccio notare un altro errore, anche questo perdurante nelle edizioni successive documentate per Brocolarum,  presente nell’editio pronceps, dove si legge Hermotini per Hermontini. Per quanto riguarda Seneca al momento non sono in grado di dire a quale sua opera il Galateo si riferisce. Anche per questo non dispero dell’aiuto di qualche volenteroso lettore.

Dialetti salentini: èrtula

di Armando Polito

Va detto prima di tutto che la voce dialettale di oggi è usata, parlo per Nardò,  solo al plurale e solo nella locuzione ota li èrtule e sciàndile! (alla lettera: gira le bisacce e andiamocene!), invito rivolto anche ad un compagno immaginario quando non è il caso, per motivi vari, di trattenersi oltre, Anche le locuzioni dialettali, come le singole parole, diventano progressivamente obsolete, come la nostra, pagando l’inesorabile tributo al tempo e a quello che progresso. Debbo confessare che di questa voce molto probabilmente non mi sarei occupato se non avessi avuto l’occasione di incontrarla a p. 59 del volontariamente leggero ma prezioso Con decenza parlando di Pasquale Chirivì, uscito per i tipi di Kurumuny a Calimera nel 2010.  Non è la prima volta che cito questo lavoro come ispiratore, sia pur epidermico ed occasionale, di qualche mia escursione linguistica (la partenza è sicura, il ritorno alla base con qualche risultato non sempre è garantito …).  Così questa parola e l’intera locuzione sono riaffiorate nella mia memoria e ho sentito il bisogno di renderla per un attimo meno volatile, visto che è sempre più raro sentirla, sostituita, come è stata da qualche decennio, da riccugghi li fierri, ota l’Ape e sciàndile (alla lettera: raccogli i ferri, fai conversione di marcia con l’Ape e andiamocene!)1. In riferimento alla mia età chi dei nostri nonni avrebbe potuto immaginare che l’ertula sarebbe stata sostituita dall’Ape e chi dei nostri padri che il nome di un modello di veicolo ispirato per la sua forma dall’ìnsetto2 e dalla capacità,se non di volare, almeno di spostarsi, sarebbe diventato un acronimo con la vezzosa aggiunta dell’anglico social, che, in verità, riscuote paradossalmente maggiore successo quando resta da solo …

In attesa della nascita di un altro acronimo simile che, sommandosi agli altri, farà della la nostra lingua un osceno e incomprensibile mescolio di grugniti, sbadigli, rutti e scorregge, mi pare sensato rifugiarmi nel passato di èrtula e, quando si parla della storia di una parola, inevitabilmente entra in campo l’etimologia.

Un aiuto fondamentale, come ben sanno gli addetti ai lavori, possono fornirlo le varianti. Nel nostro caso la voce vertulari presente nel Catasto onciario di Lecce del 1755 e segnalata da Nicola Vacca in Professioni e mestieri a Lecce nel 1700, articolo comparso in Rinascenza salentina, anno I, 1933, pp. 196-201. A p. 197 leggo; “Cosa facevano i vertolari? Erano molti. Vertola, mi si dice, era la bisaccia. Ѐ rimasta tra noi la frase : otu le ertule e me ‘ndiau, per dire faccio fagotto e me ne vado. Il vertolaro sarebbe, dunque, portatore di bisacce o vastasi, o, italianamente, facchino?”.

Al di là della sua conclusione dubitativa, al Vacca, che non era un filologo,  va ascritto il merito di aver enucleato, sia pure di passaggio, questa voce, e molto probabilmente senza di lui il Rholfs, del quale era amico, non l’avrebbe inserita nel suo Dizionario dei dialetti salentini3.

Ecco come il filologo tedesco ha utilizzato il suo contributo:in II, p. 208:

vertularu (L ces) m. venditore di roba fatta al telaio [cfr. il calabrese vèrtula bisaccia, dal latino averta idem] v. vèrtula.

vèrtule [1](L ar, ru) f. pl. masserizie, attrezzi in disordine [cft. il calabrese vèrtula bisaccia, dal latino averta idem.

e in I. p. 216:

èrtula otu le èrtule e mme ndi àu (L 19, l, sq) locuzione faccio fagotto e me ne vado.

Apprendiamo così che all’epoca in cui il Rholfs raccoglieva sul campo,  e di persona, i fiori del nostro dialetto,le tre voci erano in uso solo nel Leccese e più precisamente: vertularu a SanTa Cesarea Terme (L ces), vèrtule ad Aradeo e Ruffano  (L ar, ru), èrtula a Lecce e Squinzano (L l, sq) con citazione dell’articolo del Vacca (L 19).

Non è da escludere che la locuzione sia ignota alle nuove generazioni di quei centri in cui essa era in uso ai tempi del Rohlfs, tant’è che essa è assente nel Dizionario leccese-italiano di Antonio Garrisi uscito per i tipi di Capone a Cavallino nel 1990. Il lemma presente “èrtule sf. pl. I vari prodotti dell’orticello” è chiaramente altra cosa.

Senza la presunzione di rallentare gli inesorabili effetti del trascorrere del tempo, a questo punto non mi è parso fuori luogo cercare di saperne di più sulla voce latina averta dal Rohlfs segnalata, anticipando le conclusioni nella trafila: averta>*avertula (diminutivo del precedente)>*vèrtula (dal precedente con aferesi di a-4 e usato solo al plurale vèrtule)>èrtula (dal precedente per aferesi di v-5).

Ecco come esso è trattato nel glossario del Du Cange:

(AVERTA, nella legge 12 del codice sulla viabilità pubblica 1.47, 48, Codice teodosiano sotto lo stessi titolo, Ѐ una bisaccia o zaino; così infatti interpreta questa voce un antico interprete di Orazio nella satira 6 del libro I: Averta è una bisaccia o zaino per riporvi i vestiti da viaggio e altro necessario. [Confronta il glossario della media grecità alla voce Ἀβέρτα]- Da qui

AVERTARIUS Cavallo, nella legge 22 del codice teodosiano sotto lo stesso titolo; Cioè (il cavallo) che viene impiegato per trasportare l’averta, il cavallo da soma, mallier6).

La prima attestazione di averta, dunque, sarebbe contenuta nel codice di Teodosio, che fu promulgato nel 438. Tuttavia i tre passi che  che ci interessano contenenti disposizioni sulla circolazione sulle pubbliche vie e che di seguito riporto dall’edizione Mommsen e Meyer, Widman, Berlino, 1905 (VIII, 5, 47 e 48, p. 388 e VIII, 5, 22, p. 381), risalgono, riSpettivamente, al consolato di Arcadio e Bautone (388), di Onorio ed Evodio (389) e di Valentiniano e Valente (368).

Quoniam veredorum quoque cura pari ratione tractanda est, sexaginta libras sella cum frenis, triginta quinque vero averta non transeat, ea condicione, ut, si quis praescripta moderaminis imperatorii libramenta transcenderit, eius sella in frusta caedatur, averta vero fisci viribus deputetur. (Poiché dev’essere trattata con pari criterio anche la cura dei cavalli di posta, la sella con le redini non superi le sessanta libbre, trenta non superi le sessanta libbre, trentacinque la bisaccia,  con la condizione che, se qualcuno abbia superato i pesi prescritti della disposizione imperiale, la sua sella sia fatta a pezzi, la bisaccia invece sia confiscata)

Si aurum sacrarum largitionum vel argentum ad comitatum nostrum destinatur, una raeda quingentis auri libris, mille vero argenti, si vero privatarum, auri trecentis, quingentis vero argenti lib(ris) oneretur. Sint praeterea duo palatini prosecutores singularum raedarum cum tribus servi[s,] habentes quinquagenarum librarum avertas et saga, quibus par erit eos pro itineris necessitate muniri, ita ut, si quid ultra praescriptum nostrae serenitatis inventum fuerit, ad comitatum nostrum protinus dirigatur. (Se l’oro o l’argento di sacre elargizioni è destinato alla nostra scorta, una sola carrozza sia caricata di cinquecento libbre di oro, di mille d’argento; se di offerte private, di trecento libbre di oro, cinquecento d’argento. Ci siano inoltre due due guardie del palazzo imperiale per ogni singola carrozza con tre servi aventi bisacce di cinquanta libbre ciascuno e mantelli dei quali sarà conveniente che siano muniti per le necessità del viaggio, così che, se qualche cosa oltre il prescritto per la nostra sicurezza si sia presentato, ci si rivolga alla nostra scorta)

Praeterea illud adiungimus, ut parhippum vel avertarium nullus accipiat, nullus inpune praesumat, nisi eum nostrae serenitatis arbitrio aliqua necessitate cogente vir inl(ustris) magister officiorum textui evectionis addiderit. (Inoltre aggiungiamo che nessuno prenda un cavallo supplementare o da soma, nulla presuma di farlo impunemente se ad arbitrio della nostra sicurezza l’ufficiale addetto costretto da qualche necessità non l’abbia aggiunto al contesto del trasporto).   

Qui avertarius, derivato di averta, non è altro che l’antenato animale dell’umano vertolaro modellato su vertola. Facilmente intuibile è, però, come averta fosse in uso già prima del 368. Infatti la voce è presente in un editto sui prezzi (De pretiis rerum) di Diocleziano che fu imperatore, da solo,  dal 284 e, dal 286 come Augusto d’Oriente con Massimiano, come Augusto d’Occidente, fino al 305. Ce lo tramanda un’iscrizione (CIL 12, 69) replicata in più zone dell’impero: … de lor[amentis]/averta primae formae in caruca (denariis) mill]e quingent[is] … (sulle corregge: una bisaccia di prima forma su carrozza millecinquecento denari …)

Purtroppo non è dato sapere quale fosse questa prima forma (probabilmente, vista la tariffa, era quella più voluminosa) ma dalle fonti fin qui riportate, si evince che l’averta era, sostanzialmente, quello che è il bagaglio dei viaggi attuali.

Alla fine del lemma AVERTA il Du Cange rinvia al suo glossario greco e precisamente al lemma Ἀβέρτα. Lo riproduco, lo traduco e commento, come ho appena finito di fare per AVERTA.

(ΑΒΈΡΤΑ, Ἀβέρτης. Glosse laline-greche Liba, Ἀβέρτης. Glosse di Servio: Averta, Ἀβέρτης. Suida: molti ora chiamano Ἀβέρτα la ἀορτἠ. È un contenitore e un nome macedone. Da Esichio invero è spiegato ἀορτἠ come la cinghia della spada (è chiamata) dai Macedoni. Ma averta significa altro per i latini: è infatti la bisaccia o zaino per i vestiti da viaggio, come affermiamo nel glossario della media latinità. Libro 57 della Basilicorum synopsis maior titolo 17 dal libro 12 Codice sulla pubblica viabilità: Poiché è necessario trattare pure dei cavalli, di sessanta libbre siano la sella e il freno. La bisaccia, cioè lo zaino che si porta sulla schiena (è chiamata bisaccia dal fatto che è volta all’indietro) sia anche questa di sessanta libbre. Se qualcuno andrà oltre questa misura stabilita, la sua sella sarà fatta a pezzi e la bisaccia confiscata. Dove le Ecloghe hanno βέρτα)

Al di là dei dubbi espressi dal Du Cange sui rapporti tra la latina averta e le greche Ἀβέρτα/βέρτα/ἀορτἠ, mi pare che la cronologia parli chiaramente sull’origine latina della voce: Esichio fiorì nel V secolo: la Suda, pur rifacendosi a fonti antiche, risale al X secolo e così pure la Basilicorum synopsis, il cui brano riportato è quello dell’editto teodosiano. Si hanno, dunque, buoni motivi per ritenere che la latina averta, da voce comune, abbia assunto una sorta di nobilitazione giuridica e come tale si sia diffusa nel mondo bizantino con la trascrizione Ἀβέρτα/βέρτα.

A riprova, comunque, della sua sopravvivenza basti considerare, oltre alle salentine vertola e èrtula, la variante bèrtola presente nella letteratura napoletana del XVII secolo:

Giambattista Basile, Le Muse napoletane, Polinnia overo lo vicchio nnammorato, Egroca settema (cito dall’edizione Mollo, Napoli, 1693, p. 106): :… ch’è tiempo d’allestire/le bertole da fare lo viaggio … ( … è tempo d’allestire i bagagli; per fare il viaggio …); Pentamerone, IX, 3  (cito dall’edizione Lupardi, Roma, 1679, pp. 906-907: Cossì decenno, puostose no capopurpo ncuollo, li calantrielle à li piede, na vertola a travierzo le spalle … (Così dicendo, postosi sul collo una rete per la pesca dei polpi, gli stivali ai piedi, una vertola sulle spalle …).

Filippo Sgruttendio di Scafato, La tiorba a taccone, corda IX, A Cecca la catubba (cito dall’edizione Porcelli, Napoli, p. 247: … Tene janche doie zizzelle7,/che ne ncaca8 a Galione:/si se move fa squaselle9,/fanno mpietto tordeglione10/e le puoie tenere mbraccia/comm’a bertola, o vesaccia ... ( … Ha bianche due mammelle con cui fa schifo a Galeone: se si muove fa moine, sembrano mosconi che danzano in petto e le puoi tenere in braccio come bertola o bisaccia …). E non posso non citare,  oltre al sardo bèrtula,  il proverbio siciliano Aviri li vertuli chini e la panza vacanti (Avere le bisacce piene e la pancia vuota), icastico quadretto di chi pensa solo ad accumulare ricchezza risparmiando, magari, sui bisogni fondamentali.

Così il nostro èrtula, pur nella relativa ed inevitabile incertezza di alcuni passaggi semantici e non solo, è la tappa finale di un lungo viaggio quasi sicuramente, per quanto ho detto all’inizio, destinato a perdersi nelle tenebre, nelle quali il tempo lentamente ma inesorabilmente avviluppa le nostre memorie e, con esse, le nostre parole.

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1 Anche questa locuzione è registrata nel libro del Chirivì a p. 128 nella variante Riccogghi li scercule ca giramu l’Apu. Per scèrcule vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/06/sscercule/.

2 Prodotto, com’è noto, ancora oggi dalla Piaggio, che a suo tempo lanciò, con ispirazione onomastica simile, la mitica Vespa.

3 Verlag der Bayer. Akad. d. Wiss., München, 2 volumi (1956-1957) e 1 suppl. (1961), ristampato da Congedo Editore, Galatina, nel 1976.

4 L’aferesi di a- potrebbe essere stata indotta dal fenomeno dell’errata concrezione dell’articolo (avertula>l’avertula>la vertula>vertula). Tale fenomeno è presente pure in italiano: lastrico (da astrico>l’astrico>lastrico>il lastrico, forse per incrocio con lastra).

5 L’aferesi, questa volta di v– è altro fenomeno ricorrente: basti ricordare che il leccese vastasi citato dal Vacca diventa astasi a Nardò.

6 Voce francese antica che definiva il cavallo da posta.

7 Formalmente è diminutivo di zizza, ma qui, secondo me, assume un valore dispregiativo in linea con quanto segue.

8 Alla lettera: riempie di cacca.

9 Da Parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1789:

10 Corrisponde all’italiano tortiglione, che designa genericamente un oggetto avvolto a spirale; in particolare è un tipo di acconciatura femminile, una decorazione architettonica a forma di treccia o si corda ritorta, una candela spiraliforme, un tipo di pasta e, in entomologia, l’insetto chiamato anche sigaraio. Nella mia traduzione ho voluto mettere in campo quest’ultimo per recuperare, con l’idea del volo fastidioso,  un’efficacia espressiva che, secondo me, l’autore voleva dare alla similitudine.

Dialetti salentini: sciana

Dante Rossetti, La voce del mare

 

di Armando Polito

Sinonimo di umore, sciana è in uso in locuzioni del tipo osce sto ti sciana (oggi sto di umore giusto, ho voglia di fare) ma anche in unione all’aggettivo che ne definisce esplicitamente il valore positivo (sto ti bona sciana) o negativo (sto ti malesciana). Il derivato scianaru (prevalentemente e, come dirò, non a caso, usato al femminile scianara) come sinonimo di volubile. Ecco come i due lemmi sono trattati dagli autori di riferimento che spesso cito  nei miei contributi di questo tipo. Comincio dal Rohlfs.

Continuo con il Garrisi.

Chiudo col Presicce.

Per quanto riguarda il Garrisi osservo che non mi è stato possibile reperire jena/jana in nessun vocabolario dello spagnolo, nemmeno in quello della Real Academia Española (https://dle.rae.es/?w=diccionario).

Noto, invece, un filo sottile che collega il Rohlfs ed il Presicce, costituito dal lunatico che si legge nel primo e da Luna nel secondo. In particolare, però, la proposta del Presicce σελάνα>sciana suppone una trafila che credo immaginata attraverso la sincope di –ε- (σλάνα) ma che comporta un esito finale σλ->sci- del quale non conosco esempio.

Passando al Rohlfs, direi, invece, che il Diana messo in campo non fa una piega dal punto di vista fonetico, tanto meno da quello semantico. Comincio dal primo: l’esito di- (seguito da vocale)>sci– è da manuale, come dimostrano due tra i tanti esempi possibili. Per il primo  ricordo i derivati italiani e salentini da dies=giorno: diurno, giorno, giornata in italiano e giurnu e sciurnata in salentino; per il secondo i derivati italiano e salentino da iugum, rispettivamente gioco e sciùu. Qualcuno mi chiederà dov’è la d- in iugum. Mi vien da dire che è rimasta cancellata dal logorio del tempo se penso che il verbo derivato da iugum, cioè iùngere (da cui l’italiano giungere e suoi composti), ha il suo gemello nel greco ζεύγνυμι (leggi zèugniumi); la consonante ζ è frutto di incontro tra δ (delta) e j (jod), per cui ζεύγνυμι in origine era *δjέϝγνυμι, giunto alla forma finale non solo col passaggio δj>ζ ma anche con la vocalizzazione in –υ– del digamma (ϝ). Lo stesso è avvenuto per Ζεύς (leggi Zèus) che originariamente era *Δjέϝς. Il fenomeno è presente pure nel vocativo Ζεῦ (leggi Zeu) da *Δjέϝ. Il δj – sopravvive, invece, con vocalizzazione di j, negli altri casi: genitivo Διός (leggi Diòs) da *Διϝός (leggi Divòs), dativo Διί  (leggi Diì) da Διϝί (leggi Divì), accusativo Δία (leggi Dia)  Noto è che allo Zeus greco corrisponde il latino Iùppiter, caso nominativo da un precedente *Iovspater composto da *Iovs (Giove) e dall’apposizione pater (padre); tale apposizione è presente pure nel vocativo (che è uguale al nominativo), mentre è assente negli altri casi: Iovis (genitivo), Iavi (dativo), Iovem (accusativo) e Iove (ablativo). La sopravvivenza del greco δj- è chiaramente percepibile nel latino deus (dio), mentre l’aggettivo divus (divino) si collega alla forma originaria dei casi obliqui di di Ζεύς prima riportati.

E proprio su questo dettaglio fonetico non posso omettere di ricordare una nota di Publio Nigidio Figulo (I secolo a. C.) giunta a noi per tradizione indiretta grazie a    Teodosio Ambrogio Macrobio (V secolo), Saturnalia, I, 9.

Dianae vero ut Triviae viarum omnium iidem tribuunt potestatem, sed apud nos Ianum omnibus praeesse ianuis nomen ostendit, quod simile θυραίῳ. Nam et cum clavi ac virga figuratur, quasi onium et portarum custos et vector viarum.  Pronuntiavit Nigidius Apollinem Ianum esse Ianamque Dianam, apposita d, litera quae saepe literae i causa decoris apponitur, ut reditur, redhibetur, redintegratur.

(A Diana in verità, come a Trivia, gli stessi (i Greci) attribuiscono il potere di tutte le vie . Ma presso di noi il nome Giano mostra di presiedere a tutte le porte poiché simile ad uno che sta alla porta. Infatti è raffigurato con una chiave ed un bastone, quasi custode di tutte le porte e guida delle vie. Nigidio ci ha fatto sapere che Giano è Apollo e Giana Diana con l’aggiunta della lettera d che spesso viene anteposta alla lettera per decoro, come avviene, si crede, in reditur, redhibetur, redintegratur).

Diana, com’è noto era gemella di Apollo, entrambi figli di Zeus e Latona, Nel passo di Macrobio Iana/Diana conserva la sua parentela grazie all’identificazione di Giano con Apollo.

Comunque, per tornare al dettaglio fonetico, Iana con prostesi di d- per motivi eufonici avrebbe dato Diana.

Ciò non mi convince perché gli esempi fatti (reditur e compagni) sono tutte parole composte, verbi in cui il primo componente è la particella ripetitiva re-. Non conosco parola, che non sia verbo, in cui compaia tale fenomeno. E poi: se Iana ha dato Diana, perché lo stesso non è avvenuto per Ianus, la cui forma eufonica sarebbe stata Dianus?

Tuttalpiù si può pensare che Iana sia alla base delle forme ricordate dal Rohlfs (jana, sciana, gene) e che da un un suo derivato aggettivale (col significato di sacerdotessa, devota o seguace di Diana) abbia dato vita alla scianara salentina come alla napoletana janara (strega).

E qui ci attendono il terreno viscido e l’aria nebulosa dell’occultismo, che continua ad avere i suoi proseliti in piena era digitale; quando. poi, queste incrostazioni irrazionali sedimentano nei millenni, districarsi è ancora più difficile. E la stessa etimologia arranca più del solito. Proprio a proposito di Giano (e, dunque, il discorso varrebbe pure per Iana/Diana) sulla base della testimonianza di Cicerone (I secolo a. C.).) riportata dal suo contemporaneo Cornificio citato ancora da Macrobio (più tradizione indiretta di così …) poco dopo il brano di lui prima riportato: alii mundum, id est, caelum esse voluerunt Ianumque ab eundo dictum, quod mundum semper eat, dum in orbem volvitur et ex se initium faciens in se refertur, unde et Cornificius Etymorum libro tertio Cicero, inquit, non Ianum sed Eanum nominat ab eundo.

(… altri vollero che Giano fosse il mondo, cioè il cielo, e che Giano fosse detto dall’andare, poiché il mondo sempre va mentre ruota in cerchio e in sé facendo inizio in sé ritorna, per cui anche Cornificio nel terzo libro degli Etimi dice: “Cicerone lo chiama non Ianum ma Eanum da eundo“).

Faccio notare che eundo è il gerundio di ire (che significa andare) rimasto tal quale in italiano come forma poetica e nel salentino scire (come l’italiano poetico gire da *jire).

Alla stessa radice, sulla scorta del primo pezzo di Macrobio, vien collegato il latino ianua, che significa porta, quale elemento attraverso il quale si va, entrando ed uscendo. A tal proposito mi pare opportuno riportare quanto in propositi dice il Galateo (1444-1517) nel De situ Iapygiae, uscito postumo nel 1558 Sunt qui credunt mulieres quasdam maleficas, seu potius veneficas, medicamentis delibutas, noctu in varias animalium formas verti, et vagari, seu potius volare per longinquas regiones, ac nuntiare quae ibi aguntur, choreas per paludes ducere, et demonibus congredi, ingredi et egredi per clausa ostia et foramina, pueros necare.

(Vi sono coloro che credono che certe donne malefiche,  o piuttosto venefiche cosparse di  unguenti assumono varie forme di animali e vagano o piuttosto volano per lontane regioni, annunziano ciò che ivi si fa, danzano per le paludi, si accoppiano con i demoni, entrano attraverso le porte chiuse e le fessure, uccidono i fanciulli)

Riaffiora il legame tra Iana/Diana e le porte, anche se il ruolo della vigilanza benefica appare ribaltato in quello della violazione malefica. E per scianaru sinonimo di volubile, lunatico?

Mi pare basti pensare che Diana era la dea della Luna (come suo fratello Apollo lo era del Sole), astro al quale fin dai tempi più antichi è stato attribuito il potere di esercitare un’influenza sulla vita di animali (fra cui l’uomo e, in particolare il suo umore), vegetali e pure sulle cose (maree). Aggiungo il rapporto esistente tra il ciclo lunare e il mestruo e che Diana era protettrice delle donne. Questo quasi esclusivo appartenere di Diana all’universo femminile spiega forse il prevalere nell’uso di masciara rispetto a masciaru: insomma, a parer mio, uno dei tanti pregiudizi legati al sesso e per il quale mancherebbe solo intonare La donna è mobil qual piuma al vento …

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1 Opere a stampa:

Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990

In rete:

Giuseppe Presicce, Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/a_1.html)

Tarantismo e musiche per le tarantate in un testo del 1819

LE OSSERVAZIONI DI ANTOINE LAURENT CASTELLAN SUL TARANTISMO E LES AIRS DE LA TARENTULE (DA UN SUO VIAGGIO IN PUGLIA NEL 1797)

 

di Gianfranco Mele

In un precedente articolo ho parlato di Antoine-Laurent Castellan, in riferimento ad una “versione del Mito di Aracne” presente su alcuni siti web, che in realtà non è altro che un racconto di Castellan, ambientato in Brindisi e trasmesso a questo viaggiatore dalla gente che là ha incontrato, nel lontano 1797.[1]

Trattavasi (secondo le testimonianze del popolo), di una storia accaduta in quei tempi, pochi anni prima, in quanto protagonista era una ragazza che lo stesso Castellan aveva visto danzare da tarantata. Questo racconto si snoda all’interno di un’opera del Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, edita a Parigi nel 1819.

L’opera è interessantissima, e narra di un viaggio in Italia da parte dell’autore francese, che fu scrittore e valente pittore. Le prime tappe del Castellan sono Otranto e Brindisi; a Brindisi, oltre che nell’apprezzare il paesaggio e i monumenti, si sofferma nella descrizione del tarantismo e di un episodio di tarantismo da lui direttamente osservato. Mosso dalla curiosità intorno al fenomeno, raccoglie ulteriori informazioni al riguardo. Dedica, perciò, un intero capitolo della sua opera a questo argomento (Lettre IX. Tarentule , effets de sa piqûre ; guérison du tarentisme par la danse ; formalités observées à cet égard ; histoire de la malade).

Nel mio articolo precedente ho inserito unicamente la traduzione dei passi relativi alla storia della tarantata Ginevra, in questo, riporto integralmente la Lettera IX del Castellan, che si apre con una lunga dissertazione sugli effetti del morso della tarantola, sulla danza, sugli effetti terapeutici della musica, sul contesto del rituale. Inserisco, inoltre, gli spartiti delle Airs de la Tarentule che si trovano nel terzo tomo dell’opera, e che sarebbero, secondo quanto riportato dall’autore, le arie che ascoltò durante il suo soggiorno a Brindisi e che si fece trascrivere.

Tavole del Castellan inserite nella sua opera – Otranto

 

L’opera del Castellan è ricca di spunti ed osservazioni interessantissime: si ritrovano elementi comparabili con altri resoconti, come il ruolo dell’acqua nel rituale,[2] una descrizione minuziosa dell’ambiente, del ballo e dello stato psicofisico della tarantata; riemerge quella convinzione comune a molti altri autori (sia precedenti che della sua epoca) secondo cui “tarantola” prende il nome dalla città di Taranto, e, sebbene la suggestiva storia della tarantata Ginevra sia l’argomento principale, poiché è questa ad ispirare l’esposizione del Castellan (e ad occupare più della metà dello scritto), tra le annotazioni troviamo la fugace descrizione di un’altra interessante storia di tarantismo (che Castellan mutua da altro autore), quella di Giovanni di Tommaso da San Vito dei Normanni, un caso maschile di tarantismo, la cui singolarità è nel fatto che la “malattia” si manifesta attraverso violenti attacchi di priapismo,[3] tanto che “per impedirgli che facesse movimenti troppo sconci” a quest’uomo venivano legate le mani durante la crisi e durante il ballo.

Tavole del Castellan inserite nella sua opera

 

Come ci fa notare Salvatore Epifani,[4] qui il Castellan riprende una descrizione di Andrea Pigonati (già citato altrove nell’opera del Castellan) nella sua Lettera sul tarantismo che risale al 1779.[5]

L’opera dalla quale è tratto il brano presentato a seguire è una trilogia: nel primo volume si ritrova questa sua descrizione del tarantismo inserita nei resoconti della sua tappa in Puglia.[6] Lo scritto è inframezzato da suggestivi bozzetti pittorici dell’autore, che ritraggono paesaggi, scorci e monumenti dei luoghi visitati. Nel terzo volume, come preannunciato dall’autore nella sua dissertazione sul tarantismo, si trovano gli spartiti delle arie eseguite durante i balli dei tarantolati.[7]

N.B.: mentre le note da 1 a 7 del presente scritto sono le mie, da 9 a 12 trattasi delle note originali inserite da Castellan nel suo testo.

Tavole del Castellan inserite nell’opera

 

 LETTERA IX

Tarantola, effetti della sua puntura; guarigione del tarantismo tramite la danza; formalità osservate a tale riguardo; storia di una malata.

Lo strano uso della danza per diversi giorni alla volta, e con il pretesto di curarle, di persone che sono state, o che credono di essere, morse dalla tarantola, è stato spesso messo in discussione. Abbiamo appena assistito a questa pratica. Posso quindi affermarne l’esistenza, senza tuttavia garantire i risultati.

Sappiamo che la tarantola è una specie di ragno, che prende il nome dalla città di Taranto, dove si dice che sia molto comune. Si trova in alcuni altri cantoni del regno di Napoli; ma quello della Puglia è il più pericoloso, soprattutto durante l’estate. Si dice che dopo essere stato morso, il malato non impieghi molto a cadere in una profonda malinconia, e muoia se non viene salvato. Tra tutti i rimedi che vengono utilizzati, il più efficace, e persino l’unico che guarisce completamente, è la musica.

La puntura della tarantola è mortale? Non vi sono per guarirla altre medicine se non i suoni armoniosi e l’esercizio della danza, o il pericolo è solo nell’immaginazione esaltata degli ammalati?

Se consultiamo gli abitanti del paese, risponderanno affermativamente alle prime due domande, e diverse opere accademiche[8] possono fornire nozioni molto ampie su questo argomento. Per quanto riguarda quest’ultima proposizione, la storia che mi è stata raccontata sembra confermare l’opinione di coloro che ritengono che il morso del grosso ragno di Taranto è una favola, e che la maggior parte di coloro che affermano di esserne stati raggiunti in realtà soffrono di una sorta di mania malinconica, verso la quale un intenso esercizio fisico e i suoni della musica possono dissipare momentaneamente sintomi, se non far guarire del tutto.

Anche gli antichi considerano la musica come il rimedio più appropriato per calmare i bollori del sangue e l’asprezza degli umori,[9] e quando anche questa risorsa è stata impotente, hanno usato ricorrere ad incantesimi, verso i quali la moltitudine ripone più fiducia. È noto che gli Asclepiadi hanno liberato l’arte della guarigione da queste puerilità superstiziose. Tuttavia, anche nei tempi moderni si tende a una fede nell’efficacia della musica come rimedio calmante: si citano esempi di suoi effetti, tra cui[10] quello di un famoso musicista che una ripetuta febbre continua aveva gettato nel delirio. Nel calore dell’accesso ha chiesto un concerto. Alcuni amici che erano presenti gli hanno eseguito una cantata di Bernier: dai primi accordi, il volto del paziente ha ripreso serenità, i suoi occhi erano tranquilli, le convulsioni cessarono, ha versato lacrime di piacere: non appena la musica terminava, ricadeva nel precedente stato. L’uso di tale rimedio, il cui successo fu così fortunato, non fu perso. La febbre e il delirio erano sempre sospesi durante l’ascolto della musica; e il paziente fu così sollevato dalla musica, che fece cantare e ballare anche i suoi genitori, notte e giorno, e persino la sua guardia.

Torniamo al tarantismo e ai suoi sintomi. La malattia attribuita alla puntura della tarantola, può derivare dalla cattiva natura del clima, l’aridità del suolo, la scarsità dei boschi, e il calore eccessivo. In effetti, queste cause tendono a sviluppare e rendere pericolose diverse altre indisposizioni; è persino riconosciuto che l’idrofobia regna in Puglia più che altrove; e l’umidità dell’aria calda, e la sua gravità durante l’estate, fanno sì che le minime malattie diventino più cupe in questo paese.

Ma il tarantismo, che è stato creduto essere l’effetto di uno spirito colpito, non è meno reale, secondo l’opinione dei medici eruditi; e qui ci sono le ragioni per cui non può essere considerato una finzione e trasformato in un gioco: colui che è stato punto dalla tarantola cade presto in un profondo, malinconico e assoluto sconforto; il suo volto assume un aspetto cadaverico, il suo respiro è molto difficile, ha languore e spasmi di stomaco, le sue membra si raffreddano, il suo corpo emana un sudore freddo e gelatinoso, gli occhi fissi e immobili, si ricoprono di un velo, il suo respiro e il suo polso diventano sempre più deboli, la coscienza diminuisce; infine, perde completamente i sensi e muore se l’aiuto non gli è stato dato in tempo.[11]

Airs de la tarentule foglio 1

 

Certo, non si può fingere un simile stato, e non si deve sospettare il paziente dell’impostura, a meno che non trovi un certo vantaggio: ora, questa malattia fa molto male, specialmente alle ragazze, per la loro stabilità; inoltre, il rimedio della musica è piuttosto costoso, poiché i musicisti ricevono almeno un ducato al giorno, senza contare il medico, e le danze del paziente per quattro e fino a sette giorni di seguito.

Del resto, questo esercizio, invece di rendere le ragazze e le donne più piacevoli, le deturpa; alcune di loro, molto belle prima, diventano in questa occasione molto sgradevoli; infine, si ha l’opinione che la malattia sia periodica e che ritorni ogni anno fino alla vecchiaia: quindi ci si prende cura, nelle famiglie di notabili, di nascondere alla conoscenza pubblica un simile incidente; e se una ragazza viene punto dalla tarantola, viene fatta ballare in un posto remoto e lontano da tutti gli occhi.

Non c’è dunque interesse o piacere nel ricorrere a un rimedio costoso, che scredita così tanto coloro che ne fanno uso, come a Taranto e nelle altre città pugliesi, se si sa che una donna è stata colpita dal tarantismo e che ha ballato per curare se stessa, si pensa che la si insulti venendo a cantare sotto le sue finestre le arie dedicate alla cura della sua malattia.

Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci. Ma non ho notato la loro pretesa avversione al blu e al nero. I nostri vestiti blu e i nostri cappelli neri non sembrano dare la minima impressione alla malata di cui   sto per parlare, né agli spettatori, che ci hanno anche invitato a ballare con lei.

Airs de la tarentule foglio 2

 

Si ritiene comunemente che quando l’individuo affetto dal morso abbia perso i sensi, un musicista debba essere chiamato a provare diversi toni molto allegri su uno strumento; e quando il malato incontra la musica di suo gradimento, si vede immediatamente muoversi nel ritmo, alzarsi e cominciare a ballare. Non ho visto qualcosa del genere qui, e siamo stati informati che le arie che sono state utilizzate per lungo tempo per la cura del tarantismo erano sempre le stesse, e che il loro movimento era inizialmente molto lento, e divenne gradualmente molto vivace e rapido. Per il resto, si può giudicare; poiché ho incaricato uno dei musicisti di scriverli e di darmene una copia.[12] Lascio questi dettagli, che ho ritenuto necessario tuttavia illustrare, e riprendo la mia narrazione, che offrirà gli argomenti in un modo più rapido e più pittoresco, e soprattutto nello stesso ordine in cui hanno colpito i miei occhi.

Mentre passavamo sulla banchina del molo, siamo stati fermati dalla folla, che si accalcava sulla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci siamo fatti spazio, e anche noi siamo invitati ad entrare in una stanza bassa che era servita per diversi anni, e ancora lo era oggi, da scenario e ambiente per la cura del morso della tarantola. Le pareti di questa ampia stanza erano adornate con ghirlande di foglie, mazzi di fiori e rami di vite carichi dei loro frutti, piccoli specchi e nastri di ogni colore erano là sospesi; molta gente era seduta intorno all’appartamento, e l’orchestra occupava uno degli angoli, ed era composta da un violino, un basso, una chitarra e un tamburello. C’era una donna che ballava: aveva solo venticinque anni ma ne dimostrava quaranta; i suoi lineamenti regolari, ma alterati da eccessiva smodatezza, i suoi occhi scuri, il suo aspetto triste e abbattuto, contrastavano con la sua ricercata e variegata decorazione di nastri e pizzi d’oro e d’argento; le trecce dei suoi capelli erano sparpagliate e un velo di garza bianca le cadeva sulle spalle; danzava senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa e molto lentamente; le sue mani reggevano le estremità di un fazzoletto di seta che faceva oscillare sopra la sua testa, e alcune volte lo gettava indietro: in questo stato, ci offriva assolutamente la posa di quelle baccanti che vediamo su bassorilievi antichi.

 

L’aria che si suonava in quel momento era languida, trascinata sulle cadenze, e si ripeteva da capo a sazietà. Poi il motivo è cambiato senza interruzioni; questo era meno lento, e ad un certo punto divenne più vivace, precipitoso e saltellante. Questi brani musicali formavano una successione di rondò, o ciò che chiamiamo pot-pouri. Si passava alternativamente dall’uno all’altro; finalmente si tornava al primo, per dare un po ‘di riposo alla ballerina, e permetterle di rallentare i suoi passi, ma senza farla mai smettere di ballare; lei seguiva sempre il movimento della musica; e come quel movimento si animava, si muoveva e diventava più vivace; ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata sul suo sguardo, talvolta rivolto verso il soffitto, di solito verso il suolo, oppure a volte muoveva gli occhi a caso fissando il vuoto, anche se abbiamo cercato di distrarla con ogni mezzo. Le offrirono fiori e frutti; li tenne per un momento tra le mani e li gettò in seguito; furono anche presentati fazzoletti di seta di diversi colori; lei li scambiava con il suo, li agitava in aria per qualche istante, li rendeva, prendeva gli altri. Diverse donne là presenti hanno successivamente ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e cercavano di ispirarle allegria ma senza successo. Sembrava sottoporsi a quell’esercizio contro voglia ma spinta da una sorta di forza irresistibile, e ciò dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; Il suo petto era ansante, e ci hanno detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi era necessario portarla a letto; che il giorno dopo si sarebbe svegliata ricominciando a a ballare, e che lo stesso rimedio sarebbe stato impiegato nei giorni successivi, fino a quando non le avrebbe dato sollievo.

Questo spettacolo aveva qualcosa di doloroso; e mi ha colpito ancor più fortemente quando ho appreso la storia di questa interessante paziente. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e veniva lasciata nella sua errata convinzione solo per nascondere e per non far dimenticare la vera causa del suo stato, e per non privarla di ogni speranza di cura. Ecco l’origine dell’alienazione di Ginevra; questo è, credo, il nome della malata. All’età di vent’anni, pur non essendo la ragazza più carina tra quelle della sua età, si faceva notare per avere una fisionomia provocante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; la sua altezza aveva più duttilità e abbandono della grazia; il suo carattere, per quanto buono e sensibile, era particolare; spesso gioiva fino al delirio, si abbandonava quindi a una tristezza vaga e senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, favoriva l’amicizia per le sue compagne fino all’eroismo, e la sua indifferenza verso gli uomini era simile al disprezzo: quindi doveva esser prevedibile che che se avesse amato un uomo una volta, ciò sarebbe accaduto con veemenza e per tutta la vita. All’età di vent’anni, la sua ora non era ancora arrivata, ma squillò troppo presto per la sua disgrazia. Un giorno stava camminando assorta nei suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l’aria era stata rinfrescata da una tempesta e il mare, che era ancora agitato, ondeggiava sulla spiaggia. Un brigantino (piccolo veliero n.d.r.) a metà frantumato era appena approdato: aveva a bordo un uomo. Partito dal porto di Durazzo per stendere le reti, verso il centro del canale una raffica di vento aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balìa delle onde, la sua barca era stata lanciata sulle rive dell’Italia. Sopraffatto dalla stanchezza, morente di bisogno, deplorava la sua disgrazia, così la ragazza gli andò incontro in aiuto, gli offrì una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò verso di lui con slancio i doveri dell’ospitalità.

Questo albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e grato; Ginevra credette di essersi abbandonata al piacere puro e disinteressato che la carità fornisce, mentre in realtà l’amore si era già insinuato nel suo cuore nelle vesti di pietà. Tuttavia, il giovane albanese, combattuto dal desiderio di rivedere il suo paese, e dal tenero interesse che lo lega alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A questa parola, come una folgore colpisce Ginevra facendo chiarezza sui suoi sentimenti; riconosce in essa l’amore, per l’angoscia che l’idea di una separazione, lontana dal suo pensiero, inizia a sentire; onesta, ma appassionata, non ha più il controllo di nascondere la sua confusione e lascia persino sfuggire tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili con il suo paese d’origine. Senza esitazione, lui acconsente. Quindi lei stessa favorisce la sua partenza dall’Italia, dove lui non può stabilirsi senza consultare la sua famiglia. Il giorno del suo ritorno è fissato, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, proprio nel punto in cui lui le ha salvato la vita.

Fedele alla sua parola, lei va là ben prima dell’ora stabilita; conta gli istanti; fluiscono con una lentezza disperata. Intanto, il sole è già al tramonto: preoccupata, cammina sulla riva, gli occhi rivolti verso il mare: interroga le onde; il minimo soffio di vento, la minima nube le fa temere una nuova tempesta. Il giorno sta cadendo, il suo cuore è schiacciato e il crepuscolo, di cui la natura si ricopre, oscura, disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all’orizzonte: avanza; è una barca: si precipita alla sommità di una roccia e scuote un velo cremisi, il segnale concordato. Immediatamente lo stesso segnale è attaccato all’estremità dell’albero; lei non può più dubitarne, questa barca le porta il suo amante.

Infatti, l’ albanese si era imbarcato, felice, in una scialuppa a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano decorati e le vele erano di un bianco brillante. Alcuni musicisti, seduti sulla panca di poppa, suonavano con accenti felici; e la sua famiglia, che l’albanese stava lasciando per stabilirsi nel paese di sua moglie, volle affidare a Ginevra la cura della felicità del figlio, il deposito della sua modesta fortuna e il mobilio necessario per la giovane famiglia.

La barca avanza come in trionfo verso le coste dell’Italia, già il suono degli strumenti raggiunge l’orecchio di Ginevra, tocca la superficie delle onde, calma le sue ansie e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. L’imbarcazione si sta avvicinando: l’amore rende i suoi occhi più penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una risposta.

Ma improvvisamente un suono sinistro fa cessare le belle melodie; una galera barbarica esce da dietro una roccia sporgente, che la aveva nascosta alla vista degli occhi di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadono tutti in una volta e le danno un movimento rapido. Come l’avvoltoio, si libra sopra l’aria e si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; il terrore incatena le sue facoltà, i suoi occhi solo conservano un residuo di vita, seguono i movimenti contrari delle due barche.

La fragile barca sta fuggendo, e grida di paura e dolore sono sostituite agli accenti gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese esorta i suoi compagni ad una resistenza che risulterà vana: le ombre della notte avvolgono questa scena di desolazione e la nascondono agli occhi della sfortunata Ginevra, che cade impotente sulla riva.

Molto tempo dopo, Ginevra esce come da un sonno profondo: apre gli occhi; ma la luce del giorno li fa chiudere subito. Non può muovere le sue membra, irrigidita dal freddo del mattino. Eppure le sue idee, dapprima confuse, le raccontano la scena del giorno prima; poi, disorientata, fa risuonare la costa con la sua disperazione; lei esamina l’estensione del canale; nessun imbarcazione solca la superficie; non c’è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi si alterano, la sua mente si smarrisce e lei precipita nel mare dalla cima della roccia.

I pescatori la videro, si affrettarono a venire in suo aiuto e la portarono a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia e da uno sconvolgimento che degenerò in alienazione della mente. Ginevra aveva dimenticato la causa delle sue pene; lei attribuiva le sue condizioni al morso della tarantola. Questa idea le è stata mantenuta, facendole sperare che l’esercizio della danza e gli accordi della musica, che ha veramente placato l’agitazione dei suoi sensi, la abbia finalmente guarita da questa mania malinconica.

Airs de la tarentule foglio 4

 

[1] Gianfranco Mele, La storia di Ginevra, una tarantata brindisina di fine Settecento, Fondazione Terra d’Otranto, sito web, febbraio 2019.

[2]            Dei balli delle tarantate in acqua (nel mare o presso fonti, ma anche in casa con l’utilizzo di grossi catini o bacinelle colme d’acqua) parlano vari studiosi: una sintesi è nell’opera di De Martino, nel capitolo dedicato a Lo scenario e gli oggetti del rito (Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, ried. NET marzo 2002, pp. 127-149).

[3]             Varie fonti fanno riferimento al priapismo come effetto del morso della tarantola e come una delle caratteristiche del tarantismo: un fugace riferimento lo fa lo stesso De Martino nel capitolo Il simbolismo dell’”Oistros”; ne fa riferimento il Serao quando cita l’ arcivescovo Niccolò Perotto da Sassoferrato, che a metà del XV secolo, dissertando sugli effetti del morso della tarantola, scrive: “Altri al veder donne, accesi tosto di ardentissima voglia, e come forsennati, corrono loro appresso” (Francesco Serao, Della tarantola o sia falangio di Puglia, lezioni accademiche, Napoli, 1742, pag. 10). Ne parlano, tra Settecento e Ottocento, medici spagnoli (Francisco Xavier Cid, Tarantismo observado en España en que se prueba el de la Pulla, Madrid, 1787, pp. 92-93; Josè Abelardo Nunez, Estudio médico del veneno de la tarántula segun el metodo de Hahnemann, precedido de un resumen historico del tarantulismo, y tarantismo, y seguido de algunas indicaciones terapéuticas y notas clinicas, Madrid, 1861, pag. 27, 109, 113). Plinio, riferisce che il morso dei ragni “desta il membro genitale”. ( Naturalis historia, Libro 37).

[4]            Salvatore Epifani, Sulla pizzica pizzica ed altre tradizioni salentine, note e documenti, Youcanprint Self-Publishing, 2013, pp. 61-62. V. anche, dello stesso autore, A proposito di pizzica pizzica: la lettera sul tarantismo di Andrea Pigonati. (da sito web dell’autore): https://salvatore-epifani.webnode.it/news/a-proposito-di-pizzica-pizzica-la-lettera-sul-tarantismo-di-andrea-pigonati-/

[5]            “Tra i fatti, che conservo con autentici attestati de’ primi medici della provincia di Lecce, ve n’è uno accaduto ad un uomo della Terra di S. Vito per nome Gio: di Tommaso, al quale assisté il Dot. Fisico D. Giacinto Niccola Greco. Il fatto è de’ più strani, mentre il male produsse all’infermo il priapismo, accompagnato con tutti gli altri sintomi; onde per impedirgli che non facesse movimenti troppo sconci lo fecero ballare colle mani legate: e dopo più giorni di ballo guarì” (Andrea Pigonati, Lettera del Signor Cav.e Andrea Pigonati colonnello di S. M. il RE delle Due Sicilie nel corpo del genio al Sig. Abate Angelo Vecchi sul Tarantismo, in: Opuscoli scelti sulle Scienze e sulle Arti tratti dagli Atti delle Accademie e dalle altre Collezioni Filosofiche, e Letterarie, dalle Opere più recenti Inglesi, Tedesche, Francesi, Latine, e Italiane, e da Manoscritti originali, e inediti, tomo II, parte V, Milano, 1779, pag. 309)

[6]             Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tome I, Parigi, 1819, pp. 77-91

[7]             Antoine Laurent Castellan, op. cit., Tome III, tavole in appendice

[8]            Baglivi, Dissert. 1696. Geoffroy Theor., etc. Nicolo Cirillo ha scritto nel 1742 su La Tarantola e falangio di Puglia. L’ingegner Pigonati, nella sua Lettera al abb. Angelo Vecchi, 1779, spiega la forma esatta dei quattro famigerati ragni della Puglia, e certifica la verità delle osservazioni fatte su questo argomento da Baglivi, Epif. Ferdinando, Caputi e altri studiosi sulla Puglia.

[9]            Secondo Vitruvio, la musica dovrebbe essere studiata da medici, architetti, ecc. I suoi effetti mirabili sono noti fin dai tempi di Saul. Platone, Aristotele, Dionisio di Alicarnasso, Diodoro Siculo, Pitagora e Aulo Gellio ne fanno menzione, e quest’ultimo parla dei dottori musicisti.

[10]          J. Berryat, Recueil de Memoires (N.D.R. Si riferisce ad un medico francese, Jean Berryat, e ad una opera da lui curata: “Recueil de mémoires ou collection des pièces académiques concernant la Médecine, l’Anatomie & la Chirurgie, la Chymie, la Physique expérimentale, la Botanique et l’histoire Naturelle”, Parigi, 1754 )

[11]          Tra i fatti autentici raccolti dai medici della provincia di Lecce, citiamo quello di un uomo di San Vito, di nome Giov. di Tommaso, sul quale, oltre ad altri sintomi ordinari, il tarantismo produceva il priapismo più violento: “Onde per impedirgli che non facesse movimenti troppo sconci lo fecero ballare colle mani legate

[12]          Si può trovare alla fine di quest’opera. Questi brani non hanno nulla a che vedere con quelli che Padre Kircher ha annotato nella sua Arte Magnetica.

Dialetti salentini: saccufàe

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.altovastese.it/fauna-2/il-rigogolo-una-delle-specie-piu-belle-avifauna-italiana/

 

Dimmi come mangi e ti dirò chi sei: non so quanto il popolare detto sia attendibile, ma è un dato di fatto che, sostituendo come con cosa, il campanilismo ha avuto a disposizione mille occasioni per lo sfottò, se non per la denigrazione. Per il Salento basterebbe ricordare i nomignoli degli abitanti di alcuni paesi, che riporto di seguito in ordine alfabetico. Probabilmente l’elenco non è completo e confido nell’aiuto dei lettori per le doverose integrazioni e intanto chiedo scusa se per brevità rinvio con le relative note a miei lavori precedenti.

ANDRANO mangia-brufichi1

COPERTINO e STERNATIA mangia-ciucci2

DEPRESSA mangia-brunitte3

LECCE e MANDURIA mangia-cani

LEQUILE mangia-racàli4

MIGGIANO mangia-mijiu e mangia-paparine5

MONTESARDO mangia-fucazze6

RUFFANO mangia-friseddhe7

SAN CESARIO mangia-pasuli8

SAN MICHELE mangia-peri cu ttuttu lu zzippu9

TAURISANO mangia-culummi10

TUTINO mangia-pipirussi11

Come si nota, la trascrizione in italiano non pone problemi, anche per l’assoluta coincidenza del primo componente (mangia). Una volta tanto, però, debbo dire che al mondo delle bestie è stato riservato l’onore prestigioso della derivazione dal greco, pur essendo vero che nel nome che sto per fare non c’è, una volta tanto, nessun intento denigratorio. Si tratta del nome dialettale del rigogolo a Nardò chiamato saccufàe. La prima tentazione è di supporre che l’uccello in questione, facendp concorrenza alla gazza notoriamente ladra, sottragga fave da qualche sacco. Basta, però, tener conto delle altre varianti salentine, che riporto di seguito, per rendersi conto di aver pensato male, come al solito, della povera bestiola.

saccufàe (oltre Nardò,San Cesario e Novoli)

saccufày (Carmiano, Lecce, Novoli, San Pietro Vernotico

nsaccufài (Vernole)

sicofào (Soleto e Zollino)

sicufàu (Aradeo, Carpignano, Galatone. Galatina, Neviano, Seclì, Sogliano Cavour, Francavilla Fontana)

sicufài (Otranto)

ficofàu (Galatina, Nardò)

fucufài (Nardò)

cusufài (Casarano, Santa Cesarea Terme, Gagliano, Gallipoli, Minervino, Maglie, Muro Leccese, Otranto, Patù, Spongano, Maruggio)

cusufàu (Castro, Cursi, Leuca)

cusufà (San Giorgio sotto Taranto)

cusufàe (Sava)

cusufès (Palagiano)

cusefà (Massafra, Montemesola)

Illuminante è l’assenza della doppia c del presunto sacco in molte delle varianti, ma soprattutto in quelle usate nella Grecia salentina (Carpignano, Sogliano Cavour, Soleto e Zollino), Sono tutte dal greco συκοφάγος (leggi siucofàgos), composto da σῦκον (leggi siùcon), che significa fico e dal tema φαγ- (leggi fag-) dell’aoristo di ἐσθίω (leggi esthìo), che significa mangiare.

La voce è attestata nel lessico di Esichio (V secolo d. C.) al lemma κραδοφάγος:

κραδοφάγος· συκοφάγος, ἰσχαδοφάγος. σημαίνει δὲ καὶ τὸν ἀγροῖκον

(mangiatore di foglie di fico, mangiatore di fichi secchi, designa anche il campagnolo).

Penso non sfugga a nessuno la valenza spregiativa di quanto riportato da Esichio. Solo che per un curioso volere del destino ciò che nell’autore greco era riferito all’uomo, saccufàe, invece, coinvolge un animale e tradisce nei suoi confronti tutta la rabbia dell’uomo in tempi in cui i fichi avevano nell’economia contadina un’importanza primaria. Ma lo spirito antico di συκοφάγος sopravvive proprio in quei nomignoli,pur italiani, riportati all’inizio.

Come già successo per piromaca12 in epoca moderna la voce greca sarà ripresa dal latino scientifico Sycophagus designante un genere in alcuni trattati di ornitologia, sostituto, poi, con Ficedula da Ulisse Aldovrandi (1522-1606) nel suo trattato di ornitologia13. L’Aldovrandi mediò Ficedula da Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, X, 44. Nel naturalista latino nessun elemento descrittivo sembrerebbe ricondurre al saccufàe, nonostante alcuni commentatori identifichino la specie pliniana con quella del beccafico sulla scorta di ficedula spiegata come composta da ficus=fico+la radice del verbo edere=mangiare. Per alcuni, però, questa è solo una paretimologia.

Per completezza, infine, non posso non ricordare la consacrazione letteraria della voce (sia pure riferita ad un animale diverso dall’uccello) ad opera di già da François Rabelais (1493-1553) nel suo âne sycophage (asino mangia-fichi) nel capitolo XVII del IV de La vie de Gargantua et de Pantagruel.

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1 Per bruficu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/21/fin-da-teofrasto-e-plinio-e-nota-la-caprificazione-vero-prodigio-della-natura/

2 Ciucci corrisponde all’italiano ciuchi.

3 Brunitta è la ghianda di una specie di elece nana (Quercus coccifera). La voce è deformazione del greco πρῖνος (leggi prinos)=quercia spinosa.

4 Racale è il ranocchio.  La voce è per aferesi dalla variante cracale in uso in altre zone del Salento, di chiarissima origine onomatopeica.

5 Per paparina vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/28/tra-le-verdure-piu-gustate-dai-salentini-li-paparine/

6 Focacce.

7 Per friseddha vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

8 Fagioli.

9 Mangia-pere con tutto il peduncolo. Zippu è, come l’italiano zeppa, dal longobardo zippa=estremità appuntita.

10 Fioroni. Per culumbu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/11/09/il-professore-ladro-di-culumbi/

11 Peperoni. Mentre l’italiano peperone è dal latino piper (=pepe) con aggiunta di un suffisso accrescitivo, pipirussu (a Nardò peperussu) è composto da pepe+rosso, con riferimento anche al colore della varietà più diffusa, oltre cne fin contrapposizione col pepe proriamente detto, notoriamente nero.

12 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/23/dialetti-salentini-pirumafu/

13 https://books.google.it/books?id=51sWLpp3oOUC&pg=PA756&dq=FICEDULAE&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj87qvWgMjgAhXRC-wKHchpCtAQ6AEIKjAA#v=onepage&q=FICEDULAE&f=false (pp. 758-759).

Brindisi tra Longobardi e Bizantini. Il diavolo fa le pentole, non i coperchi

  San Pelino

di Nazareno Valente

 

Come tanti altri brindisini, sapevo appena dell’esistenza di san Pelino che neppure immaginavo fosse stato uno dei primi patroni della mia città. Di là dalla mia ignoranza su questi temi, pare tuttavia che sia un santo, se così si può dire, minore, sicché più d’uno dubita tuttora che possa essere davvero esistito, sebbene le autorità ecclesiastiche ne abbiano da tempo certificato in maniera solenne la trascorsa vita terrena. In effetti di lui è rimasta una sola flebile traccia, rappresentata da un vecchio manoscritto1 che ha la particolarità d’essere uno di quei testo di cui, anche i pochi che ne parlano, danno la sensazione di aver conosciuto solo tramite i brevi riassunti riportati in opere che trattano di cose sante. Non per niente il codice ha tuttora una diffusione molto limitata, forse anche a causa del fatto che nessuno ha mai pensato di curarne una traduzione dell’originale redatto in latino.

La “Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris” — questo è il nome dato al testo conservato dalla biblioteca Apostolica Vaticana — fa infatti parte delle agiografie che hanno ricostruito e tramandato appunto le vite, i miracoli ed i martiri dei santi della Chiesa cattolica, il cui interesse è circoscritto per lo più agli addetti ai lavori. Non desta quindi stupore se, nel caso della Vita di Pelino, si abbiano rari riscontri di interventi specifici tra i quali spicca quello dello storico Giacomo Carito che, in un originale ed apprezzabile articolo2, ne ha tratto spunto per caratterizzare un’intrigante pagina di storia cittadina collegata con la sede vescovile.

Analizzando appunto la Vita di san Pelino, lo storico ricava elementi utili per stabilire una diversa cronotassi dei vescovi della diocesi brindisina, nel periodo che va dalla sua istituzione al trasferimento ad Oria, vale a dire dal III secolo all’inizio dell’ultimo ventennio del VII secolo. Nel concreto Carito perviene ad una diversa collocazione cronologica di alcuni presuli (Leucio, Aproculo, Pelino e Ciprio), rispetto a quella fissata dalla tradizione ecclesiastica, finendo pure per dare una personale interpretazione ad alcuni tragici avvenimenti di quell’epoca. In particolare sulla conquista di Brindisi da parte dei Longobardi e sul trasferimento ad Oria dell’episcopato.

Senza entrare nel dettaglio delle due sequenze proposte, vediamone gli aspetti essenziali.

Innanzitutto entrambe concordano che la dislocazione temporanea della diocesi ad Oria — dove rimase sino all’XI secolo — avvenne attorno al 680, subito dopo la conquista e l’eventuale devastazione longobarda di Brindisi; condividono inoltre che il vescovo Prezioso, la cui morte fissano sempre al 680, chiuda la sequenza dei prelati di quel periodo. Di quest’ultima informazione non si terrà però per ora conto, in quanto il vescovado di Prezioso, come chiariremo a tempo debito, va anticipato di almeno un secolo e non ha diretta attinenza con le considerazioni che faremo nell’immediato.

Per quanto riguarda le divergenze, basterà invece citare solo la diversa collocazione nella sequenza di Aproculo, Pelino e Ciprio: l’ipotesi ufficiale li considera vescovi del IV secolo; quella di Carito li considera consacrati tre secoli dopo. Agli effetti pratici, mentre Carito fornisce una lista di prelati per il periodo che va dal 601 al 680, cioè a dire fino alla probabile data del trasferimento ad Oria, l’altra tesi, pur dando per scontato che la diocesi sia comunque rimasta in funzione, non è in grado di fornire nessuno nominativo dei vescovi che ne guidarono le attività.

Conseguenza interessante per la storia di Brindisi è che, dando per buona l’ipotesi di Carito, diviene credibile anche quella che giudica il trasferimento dell’episcopato brindisino effetto dell’occupazione longobarda. Se, viceversa, fosse valida la versione ufficiale che, come già riportato, dà per certa, senza tuttavia provare, l’operatività della sede episcopale nel VII secolo, nulla vieterebbe di pensare che il trasferimento sia avvenuto prima della conquista longobarda e, soprattutto, che esso sia stato effettuato per libera scelta del clero. Sarebbe in altre parole possibile che l’apparato ecclesiastico, preferendo la più sicura e tranquilla Oria, abbia deciso di abbandonare Brindisi al suo destino, comportando con questa scelta uno svuotamento dell’apparato gestionale della città che ha poi indotto i Longobardi a devastarla, avendola stimata indifendibile.

Poiché va da sé che, se Carito è nel giusto, il dubbio non si pone neppure, per dirimere la questione, sarà sufficiente verificare la bontà della sua tesi, cioè a dire se Aproculo, Pelino e Ciprio siano davvero vissuti nel VII secolo, come da lui affermato.

Anche per Aproculo e Ciprio, come per Pelino, il manoscritto riguardante la Vita del santo costituisce l’unica testimonianza scritta che ci dà menzione della loro esistenza sicché, senza l’aiuto di questo documento, non avremmo potuto mantenere memoria di nessuno di questi tre illustri vescovi di Brindisi.

Narra la Vita che Pelino nacque a Durazzo e che sin da giovane s’avviò lungo la via che l’avrebbe portato alla santità, a ciò instradato dagli insegnamenti di san Basilio. Tra i suoi più assidui seguaci si segnalarono subito i “letterati” Sebastio e Gorgone mentre Ciprio, pur «puerulus» (poco più che un infante), era il suo discepolo prediletto. A seguito delle persecuzioni dell’imperatore Giuliano, che intendeva riportare i riti pagani ai loro antichi fasti, i quattro dovettero emigrare e cercare riparo nella nostra città. Qui era vescovo il beato Aproculo il quale prese a cuore le sorti dei profughi, accogliendo Pelino nel clero brindisino ed impiegando Sebastio e Gorgone nella biblioteca vescovile.

Giunto a vecchiaia, Aproculo fece in modo che alla sua morte gli potesse subentrare Pelino, certo che questa scelta avrebbe rafforzato l’episcopato e fatto guadagnare alla causa cristiana molte anime pagane. Proprio l’opera di proselitismo condotta dal neo vescovo lo rese famoso tra la gente ma anche inviso all’imperatore Giuliano, che decise di farlo incarcerare. Dopo due tentativi risultati vani — dai quali Pelino si salvò grazie ai suoi poteri straordinari — il terzo andò ad effetto e lo consegnò al martirio. Condotto infatti a Corfinio, paese dei Peligni, fu ancora capace di far crollare, con la sola forza della sua eloquenza, l’empio tempio di Marte ma, infine, battuto selvaggiamente, morì oppresso da ottantacinque ferite.

Sebastio e Gorgonio seguirono la sua stessa sorte, mentre Ciprio, risparmiato per la giovane età, poté tornare a Brindisi dove, dopo breve tempo, fu nominato a sua volta vescovo. L’agiografia si conclude qui, ribadendo che il martirio era avvenuto il 5 dicembre («nonis decembris») a Corfinio, per mano del corniculario a capo del presidio, nel periodo in cui era imperatore Giuliano.

Il riferimento costante all’imperatore Giuliano, che ricordiamo regnò tra il 361 ed il 363, colloca pertanto la passione di Pelino in maniera inequivocabile al IV secolo, e, a tutta prima, parrebbe smentire la tesi di Carito che, invece, l’ha voluta spostare di tre secoli in avanti. Lo storico, però, suppone che la Vita sia stata originariamente redatta nel VII secolo — ancor prima della distruzione longobarda della città — e «in seguito interpolata espungendo il nome dell’imperatore Costante II e retrodatando la vicenda al IV secolo»3. Presume inoltre «che ciò possa essere stato possibile nel IX secolo [ndr. credo si tratti d’un refuso e che si debba leggere XI secolo] quando la rinnovata influenza di Costantinopoli su quest’area poté indurre a reinterpretazioni che chiudessero con dolorose pagine del passato»4.

Quindi, a giudizio dello storico, l’effettivo colpevole del martirio è Costante II, imperatore dal 641 al 668, che un’opportuna “manina” ha espunto dal testo originario sostituendolo con Giuliano l’Apostata, in modo da porre fine ad una dolorosa vicenda protrattasi per secoli.

In effetti Costante II aveva adottato provvedimenti restrittivi promulgando nel 648 l’editto dogmatico, noto come il «Tipo», con l’intento di porre fine alle controversie religiose sulla natura di Cristo, che minavano gli equilibri interni in un momento in cui l’impero era impegnato a difendersi dalle invasioni arabe e longobarde. L’editto vietava infatti alle autorità ecclesiastiche di dibattere sui temi dottrinari e cristologici, pena l’allontanamento dalle cariche ricoperte, ed ai privati cittadini di poterne discutere in pubblico, pena la fustigazione e la confisca dei beni. Sebbene avesse evidenti risvolti religiosi, era un atto in prevalenza politico con cui, dando un tacito assenso all’eresia, si voleva favorire la componente eretica che, concentrata per lo più nelle estreme periferie orientali, rappresentava l’unico argine consistente all’avanzata mussulmana.

Naturalmente questa implicita accettazione dell’eresia sollevò le proteste del papato che di lì a poco avviò un vero e proprio braccio di ferro con Costante II. Difatti, nel luglio del 649, appena eletto papa, Martino I procedette all’insediamento senza attendere il prescritto riconoscimento ufficiale («iussio») da parte dell’imperatore e, in rapida successione, convocò un sinodo che, nel riaffermare le due volontà in Cristo, quella divina e quella umana, rigettava le tesi eretiche e l’editto che ne vietava la discussione. A questo punto, Costante II si ritenne sfidato e reagì con violenza, ordinando l’arresto del papa con l’accusa di alto tradimento.

Senza voler sminuire la portata delle persecuzioni compiute, va precisato che esse ebbero il loro apice con la destituzione e la condanna del papa all’esilio e con le torture inflitte a san Massimo il Confessore, che dell’ortodossia era stato il più strenuo difensore. In periodi in cui anche il non pagar le tasse faceva meritare la fustigazione, erano pene che non sollevavano eccessivo scalpore, tanto è vero che, poco tempo dopo, Roma accolse con entusiasmo Costante II in visita della città, Né si dimostrò a lui ostile lo stesso papato, che lo ospitò con grande deferenza. Ma quel che più conta è che l’editto ebbe vita breve: le periferie orientali caddero sotto il domino arabo e la materia del contendere si esaurì. Nel concilio ecumenico del 680, convocato da Agatone, d’intesa con Costantino IV, l’ortodossia fu ribadita quasi all’unanimità. Come dire che la controversia era stata del tutto appianata e non lasciava questioni irrisolte in eredità.

Era stata una pagina dolorosa ma circoscritta sia nei suoi effetti, sia nel tempo: Costante II non era un colpevole scomodo e, anche fosse stato il promotore del martirio di san Pelino, non avrebbe suscitato sentimenti tali dal richiedere l’intervento d’un sostituto di comodo per attenuarne gli effetti. In definitiva, non c’era nessuna necessità di manipolare il testo della Vita, come presunto da Carito.

Il che fa credere che il vero colpevole sia stato Giuliano e che, di conseguenza, Aproculo, San Pelino e Ciprio siano vissuti nel IV secolo, come vuole la tradizione. Ma non è questo l’unico elemento che fa propendere per l’ipotesi tradizionale.

Nella sua ricostruzione, Carito fornisce una possibile cronologia degli avvenimenti che ha il pregio di porre in luce i momenti principali della storia. A suo giudizio: san Pelino viene martirizzato a Corfinio, all’incirca nel 662; Ciprio erige una chiesa in suo onore, tra il 668 ed il 674; Brindisi viene presa e distrutta dai Longobardi nel 674, per essere infine abbandonata, alla morte del vescovo Prezioso, dal clero che trasferisce la sede episcopale ad Oria verso il 680. Suppone inoltre che la vita del santo sia stata scritta da un Brindisino, in concomitanza con la costruzione della «chiesa» a lui dedicata su iniziativa di Ciprio, quindi nel VII secolo, prima dell’avvento del Longobardi. Lo storico desume tale datazione dal fatto che l’estensore colloca la costruzione «così come poteva esserlo solo da chi aveva conosciuto la città tardo-antica»5.

Ipotesi suggestiva ma che presenta evidenti limiti sotto ogni punto di vista. Intanto, edificare una chiesa era un’attività di per sé dispendiosa, probabilmente non alla portata delle tasche dei Brindisini del VII secolo, che avevano già difficoltà a tirare a campare. Figuriamoci poi ad avere le risorse necessarie per riuscire nell’impresa di realizzarla in sei anni scarsi.

Agli ostacoli di natura economica, si aggiungono poi quelli di carattere letterario. La struttura della Vita è infatti tipica delle agiografie compilate tra il X e l’XI secolo: in precedenza, tali opere, non solo erano molto più scarne, ma si limitavano in genere a trattare un solo aspetto alla volta, ad esempio: il martirio subìto oppure i miracoli compiuti, o l’opera di proselitismo. Per cui, salvo che l’autore brindisino in questione non sia stato un agiografo ante litteram, è alquanto difficile anche immaginare che abbia saputo precorrere i tempi con così largo anticipo. C’è poi l’aspetto dell’ubicazione, che merita un discorso a parte.

Bisogna intanto premettere che nel testo originale della “Vita” si parla di «basilicam»6, quindi di una basilica che, però, diventa chiesa in un passo apocrifo, aggiunto nel XVI secolo, di cui parleremo più diffusamente in seguito. La basilica appunto è detta situata non lontano dalla porta urbica, nei pressi della chiesa della “Beata Maria”(«haud longe a porta civitatis iuxta ecclesiam Beatae Mariae»7). Tuttavia la cinta muraria, e con essa la porta della città, è già data per inesistente alla metà del VI secolo da Procopio, che rappresenta infatti Brindisi “non cinta da mura” («ἀτείχιστον οὖσαν», «ateìchiston ousan»8), e pertanto non poteva far parte dello scenario cittadino cent’anni dopo. La porta urbica era invece presente nel IV secolo, quando c’erano pure le condizioni economiche per edificare una basilica (o una chiesa) da intitolare a san Pelino. Per cui la circostanza finisce per avvalorare la tesi tradizionale che fissa gli episcopati di Aproculo, Pelino e Ciprio nel IV secolo.

Altro motivo su cui Carito ha basato la propria ipotesi è «la complessità che mostra la struttura ecclesiale nella Vita»9 poco coerente, quindi, con quella più essenziale del periodo di tardo impero. A mo’ d’esempio riporta le modalità seguite da Aproculo nel designare Pelino suo successore. Rifacendosi al sunto della “Vita” presente negli “Officia propria” per i santi patroni di Brindisi, lo storico ricava che la nomina di Pelino fu fatta in tutta autonomia da Aproculo che però, per il problema che «i sinodi avevano… costantemente contrastato»10 un tale modo di procedere, fu costretto a richiedere l’autorizzazione papale.

L’appunto di Carito è in linea di principio condivisibile: il divieto per il vescovo di designarsi il successore divenne operante successivamente al IV secolo, tuttavia la procedura indicata nel testo originale della “Vita” è ben diversa da quella da lui indicata. Difatti Aproculo non aveva agito in maniera autonoma nella nomina del suo successore. Per l’occasione, aveva invece riunito il clero («cunctum clerum»11) e tutti i cittadini illustri («omnes illustres»11), i quali all’unanimità elessero poi Pelino vescovo («Episcopatus elegerunt»11). A grandi linee era questa la normale procedura in vigore nella seconda metà del IV secolo, che demandava la scelta del vescovo al clero ed ai cittadini rinomati, modificata in epoca successiva, giusto per garantire che non ci fossero abusi. Va infine osservato che l’autorizzazione del vescovo di Roma, raramente contemplata dalla prassi, non era di norma prevista a sanatoria e, nel caso concreto, è inserita nel racconto solo per dare enfasi all’elezione di Pelino.

In effetti, contare sui compendi non è il modo migliore per evitare errate valutazioni, anche perché nei sunti l’ambientazione è sempre ridotta all’osso e ciò rende vago il contesto storico che, al contrario, nel testo autentico risulta ben definito. Se si fa ricorso al codice originario, non c’è invece nessuna possibilità di ambiguità e, a chi vorrà farlo, apparirà sin dalle prime pagine evidente che il racconto si svolge in uno scenario tipico del primo periodo del tardo impero, vale a dire in un IV secolo facilmente riconoscibile. Lo si deduce dai nomi dei personaggi storici che agiscono, Costantino, Liberio, Basilio, Giuliano, Gioviano; dai numerosi templi pagani ancora esistenti, e che nel VII secolo erano ormai destinati ad usi profani; dalla moltitudine di pagani (anche questi ultimi di fatto inesistenti nel VII secolo) che, convinti dalla santità di Pelino, chiedono di convertirsi al cristianesimo; dagli stessi titoli assegnati ai funzionari che fanno da contorno al racconto. Emerge poi in maniera chiara che il dissidio tra i nostri eroi ed il potere costituito non è dovuto ad una disputa cristologica ma deriva da motivi ben più profondi, collegati al modo completamente diverso con cui i cristiani ed i pagani concepivano la religione.

Anche i brevi schizzi utilizzati per descrivere le varie località ci consegnano un quadro di gran lunga più coerente con il IV secolo. Un esempio tipico è costituito proprio dalla rappresentazione di Brindisi che, in quel periodo, viveva uno dei suoi momenti più floridi, lontani anni luce dalla tormentata e misera condizione in cui si sarebbe dibattuta nel VII secolo. L’anonimo autore ci racconta infatti che era noto a tutti quanto Brindisi si distinguesse dalle altre città, grazie ai suoi indiscutibili pregi: ben costruita, abitata da un buon numero di cittadini, piena di opportunità e di ricchezze d’ogni genere («civitas enim haec mirae fortitudinis esse dignoscebatur, et magna frequentia civium incolebatur, divitiis plena, terrenis commodis feliciter rutilabat»12).

Uno sguardo d’assieme è sufficiente poi per rendersi conto che il manoscritto non mostra nomi espunti o sostituiti, né manipolazioni o modifiche del testo, come supposto da Carito: le uniche annotazioni presenti — probabilmente effettuate nel XVI secolo — hanno quasi sempre valore esplicativo. Gli aspetti tecnici e storici chiariscono poi, senza dubbio alcuno, che non fu un Brindisino del VII secolo a curarne la redazione. Da un punto di vista paleografico, gli esperti affermano infatti che sia stato realizzato da mano esperta con scrittura beneventana, probabilmente a Montecassino nell’XI secolo13.

Il codice ha anche una sua particolare storia che merita di essere in parte raccontata. Custodito nell’archivio della Cattedrale di san Pelino a Corfinio sin dal XII secolo, fu regalato nel 1579 alla biblioteca Apostolica Vaticana per il timore che potesse essere «squinternato et arrobbato»14, com’era capitato ad altri testi lì conservati. Si narra anche che l’allora arcivescovo di Brindisi, venuto a conoscenza dell’esistenza del manoscritto, fece « gran instantia di haverla autentica»15 e ne ottenne una copia nel 1580.

Proprio la vana ricerca di questa copia inviata a Brindisi mi ha consentito di scoprire un fatto che colora un po’ di giallo tutta la questione. Qualche anno prima che il manoscritto fosse donato alla biblioteca Vaticana, Bernardino Fumarelli, vescovo di Valva, l’aveva fatto trascrivere e, in un secondo tempo, aveva incaricato tale Francesco Arola, maestro di teologia, di curarne una pubblicazione a stampa.

Ebbene in questa Vita sancti Pelini Episcopi Brundusini Et Martyris Christi, edita a Venezia nel 1543, ho trovato un lungo passo, non presente nel codice, presumibilmente aggiunto al momento della trascrizione o della prima edizione a stampa. Essendo del tutto improbabile che siano stati l’amanuense oppure il teologo gli artefici del falso, pare scontato che la spinta al destino l’abbia data il vescovo Fumarelli, anche perché la parte aggiunta di fatto “invecchiava” la sua diocesi. In altre parole, si ha motivo di sospettare che il prelato abbia funzionalmente integrato la Vita, in modo da avvalorare la dignità vescovile di Valva — che, vedremo meglio in seguito, era un sobborgo periferico di Corfinio — a tutto danno della vicina Sulmona che le contendeva in quel periodo la cattedra episcopale.

A parte questa nota di colore, l’analisi del manoscritto chiarisce ancor più che Aproculo, Pelino e Ciprio non possono aver retto la diocesi della nostra città nel VII secolo, come ipotizzato da Carito. Dobbiamo pertanto accettare l’idea che, all’arrivo dei Longobardi, la sede vescovile brindisina fosse quantomeno vacante, se non addirittura da tempo emigrata in più sicuri lidi.

Se ci fossero ancora dubbi, alcuni dati di fatto serviranno a fugarli del tutto.

Dalla ricostruzione di Carito si evince che Pelino ed i suoi discepoli giungono a Brindisi, provenienti da Durazzo, tra la data di emanazione del Tipo (648) e quella del suo martirio (662), perché perseguitati da Costante II. Ebbene in quel periodo, i Bizantini, a causa degli attacchi degli Slavi che avevano reso impraticabile la via Egnazia, non presidiavano più la città albanese che, pur formalmente bizantina, di fatto era lasciata a sé stessa e godeva di un’ampia autonomia. È pertanto pacifico che eventuali dissidenti lì residenti non avevano motivo di temere per la propria incolumità, considerato che l’imperatore, anche se l’avesse voluto, non era certo nelle condizioni di poter loro nuocere. Non c’era pertanto necessità di affrontare un pericoloso tratto di mare, soggetto alle scorrerie dei Saraceni proprio perché non più controllato dal potere centrale, per arrivare a Brindisi, città allora senza grandi prospettive e con l’aggravante d’essere presidiata dai Bizantini. In pratica sarebbe stato come andare in cerca di guai.

Supponendo per un istante che un aspirante santo possa vedere motivi validi anche lì dove un comune mortale non ci riuscirebbe mai, ci sarebbe un’altra circostanza che rende la ricostruzione improponibile: la deportazione e il successivo martirio subìto a Corfinio da Pelino, Gorgonio e Sebastio.

Attorno al 662, periodo in cui a giudizio di Carito si sarebbero svolti i fatti, si dà per certo che Corfinio fosse una specie di deserto, i cui resti sopravvivevano in un suo quartiere marginale, Valva, che in antichità dava nome alla zona periferica sud orientale. Lo slittamento del baricentro urbano della città romana, avviatosi già dalla fine del IV secolo, era dovuto, oltre a nuove necessità difensive, all’introduzione del cristianesimo ed allo sviluppo in quella zona di un’area funeraria collegata proprio al culto di san Pelino. Questa convergenza di funzioni conferì un’importanza sempre più accentuata alla zona periferica rispetto al resto dell’abitato che, alla lunga, determinò una distinzione anche a livello toponomastico. Il toponimo di Valva prese sempre più piede, grazie alle funzioni laiche e religiose che lì si svolgevano, sino a soppiantare quello storico di Corfinio, che restò confinato ad indicare l’antico municipium romano, sino a quando poi, in epoca moderna, fu richiamato in vita. Il manoscritto, se ambientato nel VII secolo, avrebbe quindi dovuto probabilmente usare il nuovo toponimo e non quello della tarda antichità. Ma questo è niente: nel 662, Corfinio, o Valva che dir si voglia, era ormai da qualche decennio in mano ai Longobardi e faceva parte del ducato di Spoleto. In pratica era un dominio dei nemici giurati dei Bizantini e costituiva una zona ovviamente off limits per loro, in più talmente lontana dai loro possedimenti che, per arrivarci, avrebbero dovuto attraversare un altro territorio nemico, il ducato di Benevento. Appare perciò impensabile che, con tutto un impero a disposizione, i Bizantini abbiano potuto decidere di deportare e processare dei dissidenti religiosi in una città presidiata dai Longobardi. Come se, di questi tempi, gli Statunitensi decidessero di giudicare propri connazionali in tribunali costituiti in Corea del Nord o in Russia.

A questo punto è del tutto scontato che la vicenda di Pelino non può essersi svolta nel VII secolo e, di conseguenza, non si può neppure ipotizzare che in quel secolo Aproculo, Pelino e Ciprio siano stati consacrati vescovi di Brindisi.

In definitiva, se nel periodo che va dal 601 al 680 la diocesi brindisina ebbe vescovi, non è dato di conoscerne il nome, tranne quello eventuale di Prezioso sul quale s’era sino ad adesso sospeso ogni giudizio.

A prima vista, la posizione di Prezioso sembra pacifica: tutti sono d’accordo nel considerarlo l’ultimo vescovo brindisino, morto nel 680, appunto poco prima del trasferimento della sede ad Oria. Eppure, su quest’ultimo aspetto, verrebbe da dire che non sia tanto un convincimento, quanto piuttosto un taciuto desiderio dei cronisti di vederlo morto in quell’anno, e vedremo subito perché.

In realtà di lui abbiamo ben poco: un titolo sepolcrale scoperto nel 1876 in contrada Paradiso16, zona periferica brindisina, attribuibile al VI secolo o, con più d’una forzatura di comodo, al VII secolo. Quale sia la datazione esatta e, quindi, in quale periodo Prezioso sia effettivamente vissuto lo sa solo il cielo, ed è per l’appunto questa circostanza che — sospetto — lo ha reso, agli occhi della cronachistica cittadina, perfetto per svolgere il ruolo di vescovo del VII secolo e avvalorare così l’ipotesi che furono i Longobardi a causare il trasferimento dell’episcopato brindisino.

Infatti il luogo dove Prezioso è stato sepolto, ben lontano dalla necropoli cittadina, può giustificare la pretesa che la cerimonia funebre sia stata fatta in fretta e furia, cioè a dire, mentre i cittadini erano in fuga, pressati da un pericolo imminente; pericolo che i commentatori identificano, pur senza nessun indizio a supporto, con l’arrivo dei Longobardi. Tale sensazione viene poi accentuata dal fatto che il testo dell’epigrafe con la formula «aepescopus aecletiae cattolicae» (vescovo della chiesa cattolica) sottolinea la cattolicità del vescovo, quale rappresentante della santa chiesa ortodossa, in contrapposizione ad una chiesa giudicata eretica perché devota ad una diversa dottrina17. Quale sia questa dottrina, l’epigrafe funeraria non lo specifica ma, anche in questo caso, c’è consenso nel collegarla con l’arianesimo professato dai Longobardi.

Il ragionamento pare in effetti funzionalmente congegnato per provare la tesi preconcetta che il trasferimento da Brindisi fu causato, e non una libera scelta della curia, ed a questa evenienza la data di morte di Prezioso è obbligata a conformarsi. Essendo vincolato alla devastazione longobarda, che si dà per compiuta nel 674, il triste avvenimento non poteva che avvenire successivamente. In definitiva, il 680 è scelto perché il più indicato a soddisfare questo gioco ad incastro. In quell’anno s’era infatti svolto un concilio ecumenico, convocato dal papa Agatone, d’intesa con l’imperatore, che rappresentava una di quelle occasioni a cui non si poteva assolutamente mancare. Erano così presenti tutti i vescovi del mondo cristiano, anche perché Costantino IV, com’era tradizione, per evitare assenze, aveva impegnato il suo potente apparato burocratico nell’organizzare le trasferte dei prelati, che si svolgevano a totale carico del potere secolare. Eppure, mentre Otranto e Taranto furono in quella circostanza rappresentate, la diocesi brindisina non lo fu. Il che potrebbe far credere che il ministero fosse in quel periodo vacante, ed è proprio per non alimentare un simile sospetto che, a giustificazione dell’assenza, si vuol far credere che Prezioso sia passato in quei frangenti a miglior vita. Ecco perché la cronotassi dei vescovi brindisini prevede che Prezioso sia morto esattamente nel 680.

Il diavolo, però, fa le pentole e non i coperchi, tant’è che, pure in questa circostanza, la piccola astuzia adottata risulta appunto priva dell’indispensabile coperchio capace di occultarla. Caso vuole infatti che il testo dell’epitaffio, pur omettendo l’anno, riporti il giorno della settimana, quello del mese ed il mese della sepoltura del nostro Prezioso: venerdì («sexta feria») 18 agosto («XV kalendas Septembris»). Ebbene il 18 agosto 680 non cadde di venerdì, il che rende impossibile che Prezioso sia morto in quell’anno e, di conseguenza, fa crollare tutta la cronologia così meticolosamente messa in piedi.

A questo incontrovertibile dato di fatto, si aggiunge poi la stranezza che il vescovo di Taranto, città conquistata — e, a detta dei cronisti, devastata — dai Longobardi nello stesso periodo di Brindisi, invece di essere fuggiasco come Prezioso, partecipasse senza problemi al concilio di Costantinopoli.

Se si ricorda, infine, che il testo dell’epigrafe è molto più affine alle scritte funerarie del V e VI secolo, una soluzione che colloca Prezioso tra i vescovi del VI secolo sembra a questo punto più probabile. Una simile datazione potrebbe in aggiunta fornirci qualche appiglio attendibile per spiegare da chi, e perché, i Brindisini fuggissero talmente in fretta da essere costretti a seppellire il loro vescovo in un luogo così lontano da quello usuale.

Narra Procopio che la nostra città, dopo essere stata per i primi dieci anni risparmiata dal conflitto che impegnava i Bizantini ed i Goti, ne venne investita pesantemente. Il problema è che Brindisi non aveva cinta murarie a protezione e, risultando indifendibile, era di fatto soggetta alle frequenti scorrerie dei contendenti. C’è un passo poco conosciuto della Guerra gotica18 che sintetizza in maniera eclatante tale stato di cose. All’incirca nel 545 i Bizantini, da tempo impossessatisi senza colpo ferire della penisola salentina, subiscono il contrattacco dei Goti.

Trinceratisi ad Otranto, i Bizantini non osano accettare lo scambio in campo aperto, tranne tal Vero che Procopio dipinge «temerario, perché dedito all’ubriachezza»19. Questi lascia infatti Otranto ed arriva nella nostra città. I Goti, accortisi della manovra, pensano che sia un pazzo oppure che abbia con sé un esercito talmente numeroso da poter garantire le difese di una postazione, come Brindisi, priva di fortificazioni. Venuti a sapere che era in effetti una decisione avventata, attaccano decisi; Vero ed i Bizantini, appena li vedono comparire, non potendosi in alcun modo proteggere, se la danno a gambe, nascondendosi in una selva20.

Se pure un plotone armato di tutto punto stimava meglio darsi alla fuga, figuriamoci una cittadinanza inerme. Il racconto è così una chiara testimonianza di come i Brindisini si trovassero, indifesi, in balìa di entrambe le parti in lotta. In una simile situazione, non c’è da stupirsi se la fuga rappresentava l’unica possibile ancora di salvezza. Può quindi essere avvenuto che, in un frangente simile, si siano trovati costretti a seppellire il loro vescovo, e siano pertanto i Goti, anch’essi ariani al pari dei Longobardi, il possibile riferimento dell’epigrafe. Se s’aggiunge poi che il 18 agosto 545 capitò giustappunto di venerdì, si ha un altro piccolo tassello favorevole. Non è certo molto, ma comunque qualcosa rispetto al nulla su cui può contare l’ipotesi che fa dei Longobardi i sicuri inseguitori del fuggiasco Prezioso.

Con Prezioso cade anche l’ultimo sostegno alla tesi che prevede l’esistenza a Brindisi di una qualsivoglia funzione vescovile per tutto il periodo che va dall’episodio appena narrato all’arrivo dei Longobardi di Benevento che, a detta di Carito, conquistano la città «circa il 674»21 e la distruggono nello stesso anno22. Anche in questo caso non ci sono riscontri oggettivi che confortano una simile datazione, che pare anch’essa calcolata per dare supporto all’ipotesi formulata.

Infatti, l’unica fonte letteraria disponibile riporta gli avvenimenti in maniera generica, senza datare l’occupazione della città: Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto e, nello stesso modo, prese Brindisi («Romualdus Beneventanorum dux, congregata exercitus multitudine, Tarentum expugnavit et cepit, parique modo Brundisium»23). Questo lo stringato racconto di Paolo Diacono da cui è desumibile solo che i fatti avvennero tra il 671 ed il 687, quando Romualdo I, reggendo le sorti del ducato di Benevento, poteva intraprendere simili imprese.

Nel passo citato non c’è in aggiunta nessuna menzione della presunta devastazione delle città conquistate, che pare far parte più d’una elaborazione successiva che della realtà storica. Anzi, nel seguito dello stesso brano, passando ad un argomento completamente diverso, Paolo Diacono dà un importante indizio per una descrizione dei fatti in netta controtendenza. Precisa difatti che Teuderata, moglie di Romualdo, è una fervente cattolica tanto che, nello stesso intervallo di tempo, ha fatto costruire una basilica ed un cenobio, appena fuori Benevento («Coniux quoque eius Theuderata eodem tempore foras muros Beneventanae civitatis basilicam in honore beati Petri apostoli construxit; quo in loco multarum ancillarum Dei coenobium instituit»24). Come dire che, a quell’epoca, i Longobardi non erano quei mangia cattolici che fa comodo lasciar credere.

In effetti, nella ricostruzione dei fatti, i Longobardi paiono confinati alla visione alquanto faziosa del teologo Di Meo, insigne erudito del XVIII secolo che, pur di sollevare la Chiesa da ogni possibile colpa, non disdegnava di alzare i toni narrando di città «barbaramente sterminate da’ Longobardi»25 oppure che al pari di Brindisi «contarono i loro vescovi, finché divennero preda de’ Longobardi»26. In realtà nelle prime fasi dell’invasione ci furono distruzioni ed azioni contro i vescovi cattolici ma, a lungo andare, le cose cambiarono per cui l’immagine dei Longobardi sterminatori è uno stereotipo di comodo. Tanto è vero che, quando si apprestavano ad espugnare Brindisi, l’atteggiamento dei Longobardi di Benevento nei riguardi della chiesa cattolica era di fatto diverso, grazie alle numerose conversioni avvenute tra le loro fila e, soprattutto, alla politica distensiva attuata da Romualdo.

Lo stesso Romualdo pare avesse imboccato la via del cattolicesimo, anche se i contorni di questo suo cambiamento di fede sono riportati in un’opera agiografica, la Vita Barbati episcopi beneventani (Vita di san Barbato, vescovo di Benevento), le cui informazioni vanno quindi accolte con le dovute cautele. Fatta la dovuta tara, emerge tuttavia evidente l’influenza esercitata da san Barbato sul duca di Benevento che, d’altra parte, ne aveva accettato l’insediamento nella diocesi beneventana sin dal 664, quand’era ancora reggente. Nella Vita Barbati è in vario modo descritta l’assidua opera compiuta dal presule per rimuovere i culti pagani, ancora vivi tra i Longobardi del Sannio, allo scopo di affrancarli dalle loro innate credenze. In questo contesto, particolare risonanza assunse l’abbattimento dell’albero di noce, posto sulle rive del fiume Sabato, che rappresentava il simulacro del rito pagano della vipera a due teste a cui erano particolarmente legati i guerrieri del ducato. Con questo atto, imposto da Barbato, Romualdo prese le distanze dall’arianesimo e avviò, almeno dal punto di vista formale, il percorso di avvicinamento al cattolicesimo. Di là dagli aspetti di colore, la circostanza è rivelatrice dei tentativi compiuti dal duca per superare i contrasti con la popolazione latina e, al tempo stesso, instaurare relazioni pacifiche con il clero. Per tutto il periodo del suo ducato i suoi comportamenti furono pertanto ispirati ad una politica di conciliazione con la chiesa romana, anche perché sollecitato in ciò da san Barbato e dalla moglie Teuderata.

È per altro evidente che sarebbe stato impossibile mantenere rapporti amichevoli con il papato, rendendosi insieme protagonisti di azioni violente nei confronti dall’apparato ecclesiastico. Probabilmente Romualdo, quando conquistò Brindisi, non aveva ancora abbandonato la fede ariana ma la questione ha scarso rilievo pratico perché erano gli obiettivi politici che intendeva conseguire ad essere preminenti, e questi erano indubbiamente indirizzati ad un intesa sempre più stretta con le autorità ecclesiastiche. Stando così le cose, appare del tutto scontato che il duca non aveva nessun motivo logico, né alcun tornaconto, ad inimicarsi la curia vescovile brindisina. Anzi, al contrario, avrebbe avuto tutto l’interesse a farsela amica ed a sfruttarla per i propri fini. Fosse esistito in quel momento a Brindisi un clero capace di mantenere in vita un episcopato, Romualdo se ne sarebbe di certo servito per puntellare la conquista e consolidarla. Non c’era infatti struttura burocratica a quel tempo meglio organizzata di quella clericale, e tutti i governanti, quand’era possibile, se ne servivano per gestire e controllare il territorio. Il problema fu piuttosto che il clero s’era già da tempo trasferito, seguendo una logica d’interessi interni alla diocesi, e questa fuga rappresentò un costo elevato per la città in termini demografici e di risorse. I religiosi furono infatti seguiti dai loro clienti e la scelta da loro fatta condizionò le successive decisioni dei maggiorenti brindisini. In più, alla mancanza d’una classe dirigente in grado di gestirla, si aggiungeva un porto ormai in netto disarmo, neanche più collegato con le rotte per l’altra sponda dell’Adriatico e per le coste del nord Italia. Un porto diventato addirittura un pericolo: una specie di cavallo di Troia per il cui tramite i Saraceni avrebbero potuto insinuarsi nella penisola.

Non direi quindi che la conquista longobarda comportò la distruzione della città, che pare invece una soluzione costruita a tavolino, non del tutto corrispondente alla realtà dei fatti. Sarei piuttosto propenso a credere che i Longobardi, magari d’intesa con i Bizantini, resero inagibile il porto per evitare pericoli esterni e spostarono il baricentro della città, in modo da allontanarla dalla costa e porla al riparo dalle scorrerie dei Saraceni.

Comunque siano andate le cose, pare evidente che non furono i Longobardi la causa del declino e dello spopolamento della nostra città, come certa cronachistica vuol far credere. Gli atti da essi compiuti rappresentarono l’epilogo d’un processo, già da tempo avviato, che aveva visto come principale protagonista il clero, in questo caso, molto più propenso a salvaguardare il proprio tornaconto che l’interesse dei fedeli. E che ci fossero vescovi inclini ad abbandonare le proprie sedi vescovili per motivi di sicurezza, ce lo svela un fermo monito di Sant’Agostino che aveva ricordato loro che il dovere di un vescovo era sempre quello di stare con i suoi fedeli27.

Ma, a quanto sembra, a Brindisi, il santo consiglio non trovò molto ascolto.

 

 

 

 

 

 

1 Il Vat. lat. 1197, contenente Passiones et Legendae Sanctorum tra cui è compresa nelle cc. 1v-9v la Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris, nelle cc. 9v-13r Miracula s. Pelini episcopi e nella prima colonna di c. 13v un Carmen de s. Pelino.

2 G. Carito, Gli arcivescovi di Brindisi sino al 674, in Parola e storia, I, n. 2/ 2007, pp. 197-225. Nel prosieguo il testo cui si farà riferimento è quello riportato sul sito Academia.edu.

3 Ibidem, p. 19.

4 Ibidem.

5 Ibidem.

6 Vat. lat. 1197, Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris, c. 8v.

7 Ibidem.

8 Procopio di Cesarea (V secolo d.C. – VI secolo d.C.), La guerra gotica, II 18.

9 G. Carito, Cit., p. 19.

10 Ibidem, p. 18.

11 Vat. lat. 1197, Cit., c. 4r.

12 Ibidem, c. 3r.

13 P. Orsini, Cultura grafica tra l’XI e il XIII secolo a Sulmona, in Scripta et scripturae. Contributi per la storia di Sulmona, a c. di Ezio Mattiocco, Editrice itinerari, Lanciano 2002, pp. 143-178.

14 P. Orsini (a cura di), Archivio capitolare della cattedrale di san Pelino a Corfinio: inventario, Diocesi di Sulmona, Valva Sulmona 2005, p. 10.

15 Ibidem, p. 29.

16 PRETIOSUS AEPESCOPUS | AECLETIAE CATOLICAE SANC | TE BRYNDISINE DEPOSITUS | SEXTA FERIA QUOD EST | XV KAL SEPTEMBRIS REQUIEBIT | IN SOMNO PACIS | (II vescovo Prezioso, della santa Chiesa cattolica di Brindisi, sepolto venerdì 18 agosto, si è addormentato nel sonno della pace). Da R. Jurlaro, Problemi di epigrafia paleocristiana nel Salento, in Atti del III Congresso di Archeologia Cristiana, Aquileia 1972, p. 410.

17 Ibidem, p. 411.

18 Procopio di Cesarea, Cit., III 27.

19 Ibidem.

20 Ibidem.

21 G. Carito, Cit., p. 18.

22 G. Carito, Cit., p. 22.

23 Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), Storia dei Longobardi, VI 1.

24 Ibidem.

25 A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli 1795, volume I, p. 70.

26 Ibidem.

27 A. Cameron, Il tardo impero romano, Società editrice il Mulino, Bologna 1995, p. 239.

 

 

Letteratura di viaggio e bibliografia sui viaggiatori stranieri in Puglia

Viaggiatori del Grand Tour in Carrozza, con il giovane avantcourier

 

di Paolo Vincenti

La letteratura di viaggio è sterminata e la bibliografia sui viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento è davvero molto ampia e mi limito a trattare due viaggiatori dell’Ottocento.

La febbre per l’Italia in realtà partiva da lontano, perché già nel Cinquecento il Montaigne fece un viaggio in Italia compilandovi una relazione. E poi nel Settecento, antecedenti illustri furono Goethe, col suo famoso “Viaggio in Italia”, ma anche Charles de Brosses, con le “ Lettres familieres sur l’Italie” scritte fra 1739 e 1740 e pubblicate postume nel 1799[1].

Nell’Ottocento, fra i nomi più altisonanti, potremmo citare Stendhal, con le altrettanto famose “Promenades dans Rome” del 1829[2]. Comunque, dal Lazio e dalla Campania (mèta privilegiata dei viaggiatori europei, anche a seguito degli allora recenti scavi di Ercolano e Pompei), pian piano gli itinerari di viaggio si allargano a comprendere le regioni meridionali: in primis la Sicilia, e poi la Calabria e la Puglia.

Teniamo conto dell’eco suscitata, non solo in Germania, dalle ricerche effettuate fra il 1856 e il 1877 dal grande studioso tedesco Ferdinand Gregorovius, pubblicate nel suo famoso libro “Pellegrinaggi d’Italia”, in cinque monumentali volumi.

I visitatori europei, quindi, attirati certo dal fascino della nostra antichissima cultura, venivano in Italia non solo alla ricerca delle vestigia greche e romane e per le bellezze artistiche del Rinascimento, ma anche attratti dal grande sviluppo economico sociale e dai fermenti politici e letterari che attraversavano in quel tempo la nostra penisola. Nell’Ottocento inoltrato, gli europei finalmente scoprono anche il Sud della Puglia, spingendosi fino al Salento. Fra i primi viaggiatori in Terra d’Otranto, una menzione speciale merita il Conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins, 1728-1800, svizzero, la cui opera è un caposaldo della letteratura di viaggio in Puglia. Egli percorre le nostre contrade nel 1789 e si dimostra fortemente interessato a tutti i nostri paesi. Si sofferma sugli aspetti economici della nostra terra, in particolare è interessato all’agricoltura, ovverosia alla coltivazione dell’olivo, della vite, del tabacco, degli agrumi. Pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793. La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906[3], con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò (ottima traduttrice anche delle memorie di Janet Ross[4] ), e poi viene più volte ripubblicato[5].

Il De Salis scruta il Salento con occhio attento e indagatore, analizza tutti i fenomeni sociali e di costume che osserva. Egli, imbevuto dello spirito illuminista, si pone di fronte alle realtà locali con mente lucida e scientifica. “Con la vigorosa relazione del De Salis”, scrive Enzo Panareo nel 1979, prima della grande fortuna editoriale poi conosciuta da questo autore,[6] “il clima intellettuale, rispetto a quello di precedenti viaggiatori estatici di fronte alle gloriose rovine del mondo classico e divertiti dal contatto episodico con le popolazioni, è diverso e rispecchia le ipotesi culturali realizzate dal secolo dei lumi, spregiudicatamente operanti”.

L’interesse per il Medioevo suscitato da studiosi come il già citato Gregorovius, il Winckelmann, il Lenormant, portano alcuni intellettuali europei a cercare in Italia anche le tracce di quella civiltà. Altri invece si soffermano sugli aspetti più romantici e pittoreschi delle nostre regioni, ed è il caso del francese Paul Bourget, 1852-1935, autore di “ Sensations d’Italie”, un diario di viaggio che scrive nel 1890 durante la sua lunga escursione attraverso l’Italia.

Egli visita anche la Puglia, in particolare Brindisi, Taranto e Lecce, che per i turisti stranieri era già diventata “la Firenze del Sud”. L’opera viene pubblicata l’anno successivo a Parigi e non se ne conoscono edizioni moderne.[7] Si tratta di sensazioni, come recita il titolo stesso, ossia impressioni di viaggio sulle varie città che spesso vengono ritratte con rapide pennellate. “Le Sensations d’Italie furono pubblicate per la prima volta a Parigi da Plon nel 1891”, scrive in rete Filomena Attolico, della Biblioteca Nazionale di Bari, “proprio quando l’Italia, sotto la guida di Crispi, era entrata a far parte della Triplice Alleanza, schierandosi su posizioni decisamente ostili alla Francia. L’autore dell’opera, il francese Paul Bourget celebre romanziere e critico letterario, si rattristò molto per questa situazione di cui fece qualche cenno nel suo libro, ma senza lasciarsi influenzare da contingenze politiche, trattò l’Italia come la sua seconda patria identificandola come un concentrato di arte, cultura, storia paesaggi tradizioni. Numerose sono infatti le pagine dedicate alle impressioni sul paesaggio e alle considerazioni sulla gente, i costumi, le superstizioni: degno di nota a tal proposito è l’incontro con l’eroe risorgimentale che si batté contro i Borbone nel 1848, il leccese Sigismondo Castromediano, che lo condurrà ad alcune riflessioni sull’Unità d’Italia, compiuta non solo grazie all’intervento dei grandi uomini di cui parla la storia ufficiale, ma grazie anche all’opera di “aristocrates, passionnés de liberté”.

Tra i suoi apprezzamenti da esperto conoscitore dell’arte, notevole è quello riguardante il barocco leccese, in particolare per il materiale impiegato, la pietra leccese, una pietra particolarmente tenera in cui il chiaroscuro si scioglie nella luce dando un effetto cromatico del tutto originale. I suoi romanzi lo avevano reso celebre e fu proprio la notorietà del suo nome a far riconoscere al Prof. Giuseppe Gigli, tra gli ospiti di un albergo leccese, il nome del grande romanziere francese che si trovava lì in viaggio di nozze; per l’occasione il letterato italiano si offrì come guida allo “psicologo errante” e alla giovane sposa Minnnie David, per accompagnarli nel viaggio in Terra d’Otranto dal 15 al 28 novembre 1890.

Quando arrivò a Bari, Bourget commentò: “Per me, la trovo attraente questa città nuova, con le sue vie larghe, ad angoli retti, che consentono di veder sempre in fondo ad esse il mare, come si vedono a Torino le Alpi!”. Il viaggio in Italia, intrapreso nel settembre 1890 e terminato nel luglio 1891, era nato inoltre dall’impegno preso dallo scrittore francese con la rivista Débats finalizzato alla compilazione di una relazione sulle città più caratteristiche e significative della Penisola…”[8].

Non sorprende la grande capacità di Bourget di cogliere gli aspetti interiori di una località poiché egli, da fine letterato, era anche psicologo e pubblicò alcuni interessanti trattati nei quali analizzava psicologicamente alcuni protagonisti della scena letteraria ottocentesca come StendhalTaine, che era stato suo maestro, e Baudelaire.

 

Note

[1] Charles de Brosses, “Viaggio in Italia”, Bari, Laterza, 1973.

[2] Stendhal, “Passeggiate romane”, Bari, Laterza, 1973.

[3] Carlo Ulisse De Salis Marschlins, “Nel Regno di Napoli : viaggi attraverso varie province nel 1789”, Trani, Vecchi, 1906.

[4] Janet Ross, “La terra di Manfredi”, traduzione dall’inglese di Ida De Nicolo Capriati, illustrazioni di Carlo Orsi, Trani, Vecchi, 1899, poi ripubblicato in Eadem, “La Puglia nell’Ottocento : la terra di Manfredi”, a cura di Maria Teresa Ciccarese, Lecce, Capone, 1997.

[5] Fra gli altri, in Carlo Ulisse De Salis Marschlins, “Viaggio nel Regno di Napoli”, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Idem, “Viaggio nel Regno di Napoli” – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Idem, “Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789”, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[6] Enzo Panareo, Viaggiatori in Salento, in “Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce”, a.V, n.3-4 , Matino, sett-dic 1979, p.81.

[7] Paul Bourget, “Sensations d’Italie :Toscane, Ombrie, Grande-Grèce”, Paris, Alphonse Lemerre, 1891.

[8] Nota di Filomena Attolico, in www.viaggioadriatico.it/biblioteca…/scheda_bibliografica.

 

Sull’argomento, dello stesso Autore, vedi anche:

La letteratura di viaggio e viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento

Marcantonio Zimara, il più grande pensatore laico del Cinquecento sanpietrinate

Sabato 02 marzo 2019, ALLE ORE 18.00

Sala Società Operaia di Mutuo Soccorso di Galatina, in Via Umberto I n. 34

S.o.m.s in collaborazione con Proloco Galatina, e con il sostegno di Movimento per il Risveglio del Centro è lieta di invitare i cittadini galatinesi e salentini, alla conversazione

 TESSERE DEL GRANDE MOSAICO CULTURALE SALENTINO:

LA FAMA E “I PROBLEMI” DI MARCANTONIO ZIMARA, SANPIETRINATE ILLUSTRE.

Conversatori: LUCA CARBONE, introdotto da Angelo Licci

 

Come scriveva, a più di un secolo dalla sua morte, un altro concittadino illustre Alessandro Tommaso Arcudi nella sua opera Galatina Letterata, prima guida alla fioritura filosofica scientifica e letteraria cinquecentesca di San Pietro in Galatina: “Per tutte le scuole di Europa giornalmente risuona il nome di Marcantonio Zimara, e adorna tutte le Biblioteche”.

Forse l’Arcudi esagerava un po’, ma forse non esagera Mons. Antonaci quando nel suo lavoro dedicato alla Città scrive che Marc’Antonio Zimara è il più grande pensatore laico del Cinquecento sanpietrinate.

Certo per noi oggi queste figure, al di fuori delle ricerche degli specialisti, sono appena dei fantasmi, e dei nomi che evocano poco e nulla – nei secoli le loro opere hanno però composto una sorta di mosaico ideale della cultura del territorio Salento. Raccontare, in una conversazione non destinata agli studiosi, alcuni aspetti della fama e della singolarissima fortuna editoriale di una piccola operetta dello Zimara, i famosissimi Problemi, è la principale finalità dell’incontro; così da fornire, inoltre, alcune tessere utili a ricomporre quella sorta di mosaico culturale ideale composto nei secoli dalle figure di Nettario di Casole, di Droso, di Sergio Stiso, del Galateo, di Niccolò de Ingegne, di Avraham ben Mošè de Balmes, di Matteo Tafuri, di Pietro Galatino, di Giovan Paolo Mongiò, degli Zimara padre e figlio, di Giovan Paolo Vernaleone, di Francesco Storella, di Giulio Cesare Vanini, per non ricordarne che alcuni; mosaico di pensieri e lingue e culture e saperi, da cui, per molte e non sempre consapevoli vie, siamo stati, a nostra volta, formati.

La conversazione sarà scandita dalla lettura di alcuni dei Problemi dello Zimara, come scriveva decenni dopo l’Amadi: MAESTRO DI TUTTE LE BUONE PERIPATETICHE LETTERE DI QUELLA ETA’.

Dall’Archivio Segreto Vaticano: il sigillo dell’abate Stefano del monastero di Santa Maria di Nardò

di Massimo Perrone

 

Nel corso degli studi presso l’Archivio Segreto Vaticano ho approfondito le mie ricerche su due argomenti di particolare interesse: l’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e la diocesi di Nardò.

E proprio otto anni fa, nella preparazione di una mostra sull’Ordine del Santo Sepolcro, studiando le descrizioni di alcuni sigilli pontifici ho visionato un autorevole testo dal titolo I Sigilli dell’Archivio Vaticano, a cura di Pietro Sella con la collaborazione di M.-H. Laurent, (1) in cui sono descritti i sigilli conservati nel fondo Archivum Arcis.

In particolare nella sezione degli Enti e delle Persone Ecclesiastiche mi sono imbattuto nella descrizione di un sigillo di notevole interesse storico per la diocesi neretina: il sigillo dell’abate Stefano.

Sin da quando ho iniziato a frequentare l’Archivio Segreto Vaticano, oramai da circa sedici anni, ho spesso cercato, non senza difficoltà, nel corposo Archivum Arcis, perché in esso sono raccolti documenti di particolare importanza storica.

Ho sempre saputo, leggendo i numerosi libri riguardanti la storia di Nardò, che le notizie riguardanti l’abate Stefano sono vaghe e spesso non supportate da fonti documentali. Per questo motivo ho approfondito la ricerca, individuato la segnatura del documento e visionato il documento originale.

E’ un documento cartaceo con sigillo in cera del 16 luglio 1325 che misura mm. 215 di base e mm. 143 di altezza.

Si tratta di una lettera dell’abate Stefano che notifica all’arcivescovo di Capua, Ingeramo Stella, che è stato letto e pubblicato a Nardò il processo del papa Giovanni XXII, Giacomo Duèse, di Cahors (1316-1334), (2) contro Ludovico IV il Bavaro.

Ludovico IV, imperatore del Sacro romano impero e re di Germania, venne eletto al soglio imperiale ma fu costretto a combattere contro Federico III d’Asburgo, il quale fu da esso sconfitto nella battaglia di Muhldorf nel 1322. Il papa Giovanni XXII si rifiutò di incoronarlo imperatore, sostenendo che spettava al pontefice la decisione sulla questione tra i due pretendenti al trono; gli impose pertanto di rinunciare alla corona e, al suo rifiuto, lo scomunicò.

La diocesi di Nardò, dal 1090, passò sotto la giurisdizione degli abati benedettini che sostituirono i monaci basiliani nella direzione del monastero e della chiesa di Santa Maria de Nerito. Dagli storici, in alcuni testi, nella successione cronologica di tali abati, è indicato l’abate Stefano per il periodo 1307-1324 (3); in altri testi, e soprattutto nel Chronicon Neritinum, si indica e precisa, altresì, il 1324 come data della sua morte (4).

Diversamente, il documento di cui alla presente trattazione, attesterebbe che l’abate Stefano, nel 1325 era vivente e ricopriva ancora l’incarico di governare la diocesi neretina.

Ad ulteriore conferma di ciò, ho ritenuto di fare ulteriori verifiche sull’autenticità del contenuto della lettera, peraltro confermata dalla presenza del sigillo in cera, ritenuto, a tutti gli effetti, originale.

Dalla Cronologia cronografica e calendario perpetuo di A. Cappelli (5) si evince che il papa Giovanni XXII, eletto il 7.8.1316, consacrato il 5.9.1316 e ad Avignone dal 14.10.1316, ha scomunicato Ludovico IV il Bavaro in data 23.3.1324.

Dallo Schedario Garampi, che costituisce ancora oggi l’unico indice generale per nomi e per materie della documentazione presente nell’Archivio Segreto Vaticano fin quasi a tutto il XVIII secolo, si evince che il processo contro Ludovico il Bavaro è stato pubblicato in data 7.7.1324 (6). Si legge testualmente: 1324 7 jul / Pubblicatio processuum contra Bavarum in Ecclesiam fratrum Praedicatorum de Capua.

Dalla Hierarchia Catholica Medii Aevi, Monasterii 1913, si evince che l’arcivescovo di Capua, dal 1312 al 1334, è stato Ingeramo Stella, consigliere del Regno di Sicilia (7).

Infine, ho consultato, la Bibliografia dell’Archivio Segreto Vaticano sinora pubblicata, per verificare eventuali citazioni del documento in questione e, quindi, individuare gli studiosi che hanno utilizzato il documento per pubblicazioni.

Nel Vol. III, 1965, alla pag. 87 [A.A. ARM. C, 729 (A.A. Arm. C, fasc.52, n.10), Stefano abate del mon. di Nardò e la pubblicazione del processo contro Ludovico il Bavaro (17 luglio 1325)], risulta che il documento di cui sopra è stato consultato dallo storico G. Mollat (8).

Nel Vol. VII, 1997, alla pag. 122 [A.A. ARM. C, 729, Sigillo di Stefano abate di Nardò (1325)] dove è riportata la data 1325, lo stesso documento risulta essere stato consultato dallo storico P. Sella.9

Né il Mollat né il Sella hanno citato il documento in questione, per studi relativi alla diocesi di Nardò.

fondazione terra d'otranto

Il documento

Si riporta di seguito la trascrizione della lettera scritta dall’abate Stefano all’arcivescovo di Capua, Ingeramo Stella, in data 16 luglio 1325.

 

Trascrizione del documento

Reverendo in Cristo patri domino Ingeramo Dei gratia archiepiscopo capuano. Venerabilis sibi Stephanus Dei et / apostolice sedis gratia humilis neritonensis abbas salutem cum recomendacione se ipsum. Noverit vestra / reverenda paternitas quod magister Iohannes de florentia clericus et familiaris vester legit et notificavit / nobis processum deposicionis Ludovicis ducis quarum licterarum principium est: Iohannes episcopus servus servorum etcetera / et finis ultimae litterae anno octavo quod eciam nos per nostram dyocesim fecimus publicari. Datum Neritoni/ die sestodecimo Julii octave indicionis.

 

Traduzione del documento

Al reverendo padre in Cristo signor Ingeramo per grazia di Dio arcivescovo di Capua, il venerabile Stefano per grazia di Dio e della sede apostolica umile abate di Nardò, saluta e si raccomanda. Sappia la vostra reverenda paternità che il maestro Giovanni di Firenze, chierico e vostro familiare, ha letto e notificato a noi il processo della deposizione del duca Ludovico, il cui inizio della lettera è: Giovanni vescovo servo dei servi eccetera, e la fine dell’ultima lettera: nell’anno ottavo, che noi abbiamo anche fatto pubblicare per la nostra diocesi.

Dato a Nardò il 16 luglio, ottava indizione.

Il sigillo

Ringrazio il Prof. Luca Becchetti, conservatore dei sigilli dell’Archivio Segreto Vaticano e docente di sigillografia alla Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, responsabile del laboratorio di restauro dei sigilli, per avermi coadiuvato nella realizzazione di questo contributo con la descrizione sigillografica analitica che segue:

 

STEFANO

Abate di Nardò

1325 luglio 16, Nardò

Sigillo di cera verde aderente, a navetta, mm. 60×38. Stato di conservazione buono (sigillo restaurato nelle parti mancanti), qualità dell’impressione discreta.

 

Tipo agiografico di devozione

Entro architettura gotica, la Vergine stante e coronata con il Bambino in braccio; nel registro inferiore, entro una nicchia, si scorge l’abate mitrato e orante, volto a destra. Leggenda tra filetti lineari.

S’. STEPH […] IS[…] NER […]

SIGILLUM. STEPH[ANI]. [ABBAT] IS. NER [ITONENSIS]

Alla luce di quanto sopra, salvo smentite o possibile integrazione con documentazione sfuggita all’attenzione dello scrivente, ritengo che il documento esaminato nella presente trattazione sia originale ed inedito per la storia di Nardò.

Sarà, altresì, certamente utile per trarre ulteriori conclusioni sul Chronicon Neritinum, contestato dagli studiosi ma quasi sempre citato nella storiografia locale.

Concludo ringraziando, per i preziosi suggerimenti nell’analisi del documento oggetto dell’attuale trattazione, il prof. Giovanni Castaldo, docente nel corso di archivistica della Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica.

 

 

 

Bibliografia

P.Sella, I Sigilli dell’Archivio Vaticano, Vol. I, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano, 1937, [Inventari dell’Archivio Segreto].

Bibliografia Archivio Vaticano, Vol. III, 1965.

Bibliografia Archivio Vaticano, Vol. VII, 1997.

Schedario Garampi, Miscellanea I, Indice 516.

Hierarchia Catholica Medii Aevi, ab anno 1198 usque ad annum 1431 perducta, Typis Librariae Regensbergianae, 1913.

D..Vendola, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia, Lucania, Calabria, Città del Vaticano, 1939, 123.

A.Cappelli, Cronologia cronografica e calendario perpetuo, Hoepli, VII ed., 2002.

Chronicon Neritinum, in L. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. XXIV, Mediolani, 1738.

G.Mollat, Jean XXII (1316-1334). Lettres comunes [analyseés d’après le registres dits d’Avignon et du Vatican]. Paris, 1909, n.23234 (Bibl. Des Ecoles Francaises d’Athénes et de Rome).

L.Giustiniani, La Biblioteca storica, e topografica del Regno di Napoli, Stamperia Orsini, Napoli, 1793, 49 e 130.

M.Tafuri, Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio.Bernardino e Tommaso Tommaso Tafuri di Nardò, Vol. I, Stamperia dell’Iride, Napoli 1848.

F. Castrignanò, La storia di Nardò, Tip. Mariano, Galatina 1930.

F. Casotti, S. Castromediano, L. De Simone, L. Maggiulli, Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto, a cura di G. Donno, A. Antonucci, L. Pellè, Editore P. Lacaita, Manduria 1999.

M. Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro Studi Salentini, Lecce, 1964.

E.Mazzarella, La sede vescovile di Nardò, Editrice Salentina, Galatina, 1972.

B. Vetere, Città e monastero I Segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo Editore, Galatina, 1986.

B.Vetere, Dal seggio abbaziale alla cattedra vescovile. Nardò: una chiesa latina nel Salento bizantino, in Rivista di Storia della Chiesa, Anno LXX, n.1, gennaio-giugno 2016.

M. Gaballo, Civitas Neritonensis, Congedo Editore, Galatina, 2001.

D. De Lorenzis, M. Gaballo, P. Giuri, Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò, Congedo Editore, Galatina 2014.

G. Santantonio, Ecclesiae Mater. La fabbrica della Cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò-Gallipoli, Congedo Editore, Galatina, 2013.

L. Becchetti, I Sigilli. Orientamento e metodologie di conservazione e di restauro, Il Prato Edit., 2011.

L. Becchetti, I Sigilli dell’Archivio Segreto Vaticano. Nuove Ricerche sfragistiche, A.S.V., Città del Vaticano, 2013.

I. Aurora, Documenti originali pontifici in Puglia e Basilicata 1199-1415, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 2016, 85, 101.
Annuario Pontificio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2017.

 

Note

1 P. Sella, I Sigilli dell’Archivio Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano, 1937, [Inventari dell’Archivio Segreto], Vol. I, n. 664, 194.

2 Annuario Pontificio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2017, 16.

3 E. Mazzarella, La sede vescovile di Nardò, Galatina 1972, 46.

4 Chronicon Neritinum, in L. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. XXIV, Mediolani, 1738, 904. Vedi anche: G.B. Tafuri, Opere dei Tafuri, vol. I, Napoli 1848, 513. F. Castrignanò, La storia di Nardò, Galatina 1930, 129. B. Vetere, Città e monastero I Segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo Editore, Galatina, 1986, 62 nota 170. M. Gaballo, Civitas Neritonensis, Galatina 2001, 63. F. Casotti, S. Castromediano, L. De Simone, L. Maggiulli, Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto, a cura di G. Donno, A. Antonucci, L. Pellè, Editore P. Lacaita, Manduria, 1999, 499.

5 A. Cappelli, Cronologia cronografica e calendario perpetuo, Hoepli, 2002, 327.

6 Schedario Garampi, Miscellanea I, Indice 516, c. 62r.

7 Hierarchia Catholica Medii Aevi, ab anno 1198 usque ad annum 1431 perducta, Typis Librariae Regensbergianae, 1913, 164-165.

8 Bibliografia Archivio Vaticano, Vol. III, 1965, 29, 87. Cfr. anche G. Mollat, Jean XXII (1316-1334). Lettres comunes [analyseés d’après le registres dits d’Avignon et du Vatican]. Paris, 1909, n. 23234 (Bibl. Des Ecoles Francaises d’Athénes et de Rome).

9 Bibliografia Archivio Vaticano, Vol. VII, 1997, 122.

 

Pubblicato in “Spicilegia Sallentina, Rivista del Caffè Letterario Neritonensis”, n.12 ,autunno 2018

 

Vietata la riproduzione di testi e foto, se non su espressa autorizzazione dell’Autore Massimo Perrone

Dialetti salentini: pirumafu

di Armando Polito

In tempi in cui quasi tutte le emittenti televisive hanno fatto dei programmi di culinaria il fulcro dei loro palinsesti, chi non sa che la piròfila è una pentola, un tegame, un recipiente fabbricato con materiale resistente al fuoco?

L’importante, però,, è cucinare e poi, naturalmente, mangiare, per la qual cosa non tutti sanno che piròfila alla lettera significa amica del fuoco, perché, il vocabolo, pur essendo nato alla fine degli anni ’50 dello scorso secolo, utilizza le voci greche πῦρ antiche (leggi piùr), che significa fuoco,  e φίλη (leggi file), che significa amica. Piròfila non è l’unico vocabolo moderno costruito con voci greche antiche; in particolare, fra quelle che hanno come primo componente πῦρ, basti ricordare pirotecnico (alla lettera: relativo all’arte del fuoco), piromane (alla lettera: pazzo per il fuoco) e, con πῦρ come secondo componente, il nome commerciale Tachipirina, in cui il suffisso diminutivo quasi indica l’effetto sul fuoco della febbre annunciato dal primo componente che è da ταχύς.(leggi tachiùs), che significa veloce, per cui il tutto evoca un prodotto che agisce velocemente sulla febbre.

L’atmosfera conviviale domestica, però, molto più delle suggestioni televisive, è in grado di fornire alimento, anche culturale. Non a caso della voce sdialettale del titolo avrei continuato ad ignorare l’esistenza se non fosse venuta fuori nel corso di una delle solite cenette con mio cognato Giuseppe Presicce al quale devo le tre foto di testa (raffiguranti, rispettivamente lastre di pirumafu e vista anteriore e posteriore di un forno costruito con questa pietra) per gentile concessione dell’azienda Mater carparo di Ezio Stifanelli..

Il pirumàfu mi obbliga, però, a parlare in prima battuta delle voci italiane corrispondenti sul piano solo formale, come vedremo, entrambe nate in epoca moderna La prima è piròmaca, usata anche nella locuzione selce piròmaca, detta anche pietra focaia.1 È la selce, quasi sempre organogena, che in noduli e straterelli si trova frequente nei calcari, specialmente in quelli giurassici e cretacei. Ha frattura scheggiosa o concoide, colore vario, grigio, giallastro, rossastro, bruno; sulle superficie esterne è spesso ricoperta da una patina farinosa bianca.

Tuttavia va detto che piròmaca è la riesumazione moderna di una voce antica, della quale tratterò a breve. Se la dimestichezza col fuoco della pietra focaia (utilizzata negli acciarini) giustifica il piròmaca della mineralogia,  più sottile è il suo utilizzo in botanica. Si tratta dell’Artemisia Pyromacha, classificata da Domenico Viviani nel suio Florae Libycae specimen, Pagano, Genova, 1826. Da p. 54 ne riporto la scheda e la traduco:

(ARTEMISIA PYRONACA: Arbustiva, bianca. con le foglie frangiate verso l’apice o pennate; con foglioline ora integre, ora incise  inferiormente arrotondate; superiormente solcate. Tab. XIII fig. 5. Il suo habitat è nel deserto della Grande Sirte.

Osserva: ho voluto che questa specie di Artemisia fosse ricordata perché di essa i nuovi viaggiatori diano notizia più completa. Tutti dettagli che posseggo mancano del fiore né mai toccò ad un nostro viaggiatore di vederla in fiore; forse <assalita dalla puntura di qualche insetto, dalla quale si trovano colpiti qua e là il suo stelo e i rami dai glomeruli coperti da una densa peluria setosa. Con questi glomeruli come alimento gli Arabi del deserto utilizzano le scintille scaturite dalla selce per attizzare il fuoco).

I piròmaca e pyromacha fin qui esaminati sono, dunque, rivisitazioni moderne di un termine antico che trova, proprio nella voce dialettale del titolo un precedente cronologico e non solo.

Pirumàfu è in uso solo nel Leccese e, in particolare, nella forma riportata nel titolo  ad Alezio, Bagnolo, Galatina e Maglie, mentre la variante pilumafu è in uso a Cursi, Galatina, Sogliano, pilumàfiu ad Aradeo e Parabita, pilumacu a Specchia, pilumahu a Melpignano, piromaho a Martano, pilomafo a Corigliano, Soleto e Zollino.

Si tratta di un tipo di pietra usato nella costruzione di forni e camini per la sua spiccata proprietà refrattaria, come dimostra eloquentemente l’etimo. Tutte le voci riportate, infatti, sono dal greco πυρόμαχος (leggi piuròmachos), composto da πῦρ (leggi piùr), che significa fuoco, e dalla radice di μάχομαι (leggi màchomai), che significa combattere.

Oltre a πυρόμαχος attestato in Teofrasto (III secolo a. C.), De lapidibus, 9, esiste anche, con identica composizione, la variante più antica πυρίμαχος (leggi purìmachos) attestata da Aristotele (IV secolo a. C.), De mirabilibus ausuiltationibus,, XLVIII, in cui la nostra pietra entra nella purificazione del ferro: Λέγεται δὲ ἰδιοτάτην εἶναι γένεσιν σιδήρου τοῦ Χαλυβικοῦ καὶ τοῦ Μισικοῦ, συμφύεται γὰρ, ὤς γε λέγουσιν, ἐκ τῆς ἄμμμου τῆς καταφερομένης ἐκ τῶν ποταμῶν. Ταύτην δὲ οἱ μἑν ἀπλῶς φασι πλύναντας καμινεύειν· οἱ δὲ τὴν ὑπόστασιν τὴν γενομένην ἐκ τῆς πλύεως πολλάκις πλυθεῖσαν συγκαίειν, παρεμβάλλειν δὲ τὸν πυρίμαχον καλούμεον λίθον – εἶναι δ’ἐν τῇ χώρᾳ поλύν -. Οὗτος δ’ὁ σίδηρος поλὺ τῶν ἂλλων γίνεται καλλίων. Εἰ δὲ μὴ ἐν μιᾅ καμίνῳ ἐκκαἰετο, οὐδὲν ἄν. ὠς ἔοικε, διέφερε τἀργουρίου, μόνον δέ φασιν αὐτῶν ἀνίωτων εἶναι, οὐ поλὺν δὲ γίνεσθαι (Si dice che peculiare è la generazione del ferro calibico2 e misio3: nasce infatti, come dicono, dalla sabbia portata giù dai fiumi. Altri dicono semplicemente che dopo averla sciacquata la scaldano nella fornace, altri che bruciano il residuo della lavatura lavato più volte e vi aggiungono la pietra detta pirimaco -dicono che sia abbondante nella regione -. Questo ferro è di gran lunga migliore degli altri: infatti, se non fosse bruciato in un’unica fornace in niente, a quanto pare, differirebbe dall’argento e dicono che solo esso non arrugginisce, ma non ve n’è molto).

Solo per completezza riporto il lemma come risulta trattato,  un po’ cripticamente secondo me, da Esichio di Alessandria (V secolo d. C.) nel suo glossario: πυρίμαχος ὁ ἐν τῇ4 ἀνίκητος. καὶ λίθος ἀπὸ τοῦ συμβεβηκότος πυρίμαχος (pirimaco: l’invincibile [in battaglia] e pietra da quello che succede5 (detta) pirimaco.  Faccio notare che le varianti pilumahu di Melpignano e piromaho a Martano con la loro aspirata che riproduce l’originale greca χ secondo me attestano l’antichità della voce cronologicamente anteriore, e di molto, rispetto alle voci italiane scientifiche ricordate.6

Per quanto riguarda la letteratura latina segnalo come semplice curiosità in quanto irrilevante ai fini di questa ricerca, la presenza di Pyromachus come nome proprio di persona. Si tratta di uno scultore ricordato da Plinio (I secolo d. C.) nel libro XXXIV della Naturalis historia.7

Appare evidente come la voce dialettale ha conservato il significato etimologico di quella greca riferendo la generica indicazione qualitativa a una delle numerose varietà8 di quella che genericamente è chiamata pietra leccese.  il piromafu appunto, di colore giallo-verdastro con venature azzurre, dalla struttura omogenea, che per la sua resistenza al fuoco  è molto utilizzato in lastre dallo spessore superiore ai 10 cm. nel rivestimento dei forni a legna. Ma c’è un ulteriore dettaglio non da poco: la sua porosità interna è in grado di catturare gli aromi del fumo della legna combusta e al calare della temperatura di rilasciarli conferendo al pane il tipico profumo.

Sarà lo stesso che sembra emanare  dall’ambiente ritratto nella foto di chiusura tratta da immagine tratta da https://www.gliamicidelsalento.it/blog/tradizioni/lu-furnaru-il-fornaio/<<?

 

__________

1 La voce appare per la prima volta nella forma latina scientifica Pyromacha in Magnus von Bromell, Mineralogia, Kiesewetter, Stoccolma, 1739.

2 Di Calibe, città della Tracia.

3 Regione dell’Asia minore.

4 Lacuna nel testo, integrata solitamente con μἀχῃ, per cui la voce è interpretata violento come fuoco in battaglia.

5 Cioè dalla sua refrattarietà.

6 Da notare, rispetto alla voce attestata in Aristotele e Teofrasto (πυρόμαχος), la diastole (spostamento in avanti di una sillaba dell’accento), giustificata dal fatto che si tratta quasi di una regolarizzazione dovuta al fatto che la pronuncia piana è la più facile, anche perché un eventuale intermediario latino sarebbe stato piròmachos, essendo breve l’-α– dell’originale greco. Non è da escludere, però, una derivazione, più tarda, dalla forma presente in Esichio (πυρίμαχος).

7 CXXI Olympiade Eutychides, Euthycrates, Laippus, Cephisodotus, Timarchus, Pyromachus (Al tempo della 121a Olimpiade fiorirono Eutichide, Euticrate, Loippo, Cefisodoto, Timarco) … Pyromachi quadriga ab Alcibiade regitur (La quadriga di Piromaco è guidata da Alcibiade).

8 in ordine stratigrafico (tra parentesi la profondità in metri rispetto al piano di scavo: Oltre al pirumafu (2-4), la cucuzzara (4-6), la dura (6-11) particolarmente adatta per lastricati, la bianca (11-12) selezionata per la costruzione dei muri maestri, la dolce (12-16) preferita dagli scalpellini per la facilità di lavorazione, la saponara (17-18) in strati sottili e di scarso interesse merceologico, la gagginara (18-27) compatta e di coloro chiaro, molto apprezzata, occupa molto spesso il 50% del banco di coltivo, e la nera (27-30) usata in pavimentazioni tipiche.

 

La letteratura di viaggio e viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento

DUE INGLESI ED UN TEDESCO

di Paolo Vincenti

Gli inglesi e il tedesco del titolo sono tre viaggiatori che nei secoli scorsi hanno raggiunto le nostre contrade. Ora, la letteratura di viaggio è un campo sterminato e anche sui viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento vi è una bibliografia talmente vasta che non appesantirò questo articolo, riportandola.

Mi sia concesso solo fare una brevissima introduzione su quell’importante fenomeno che va sotto il nome di “Grand Tour”, e poi mi intratterrò sui tre personaggi che, dei tanti, mi sembrano fra i più interessanti. Il Grand Tour è un fenomeno culturale tipicamente settecentesco.

Con questa espressione si è soliti definire il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendono attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti indiscussi del Grand Tour sono i giovani che hanno appena concluso gli studi, e in generale quegli intellettuali che specie nel Romanticismo erano imbevuti di cultura classica e dunque desideravano venire in Italia, come dire alla fonte di quella enorme ricchezza culturale che dal nostro Paese si era irradiata in tutta Europa.

Per i rampolli dell’aristocrazia francese, inglese, tedesca, pieni di cultura libresca ma poco pratici del mondo e degli uomini, il viaggio in Italia si presentava come un’esperienza irrinunciabile, certo indispensabile al fine di perfezionare la propria educazione. Essi vedevano nell’Italia la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea, grazie alla storia gloriosa di Roma, a sua volta tributaria della Grecia. E così si mettono in viaggio non solo i giovani, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti. Ciò dà origine ad una sterminata produzione, epistolari, diari, reportages di viaggio, romanzi, poesie, e non solo di carattere letterario ma anche artistico, pensiamo al famoso “Voyage pittoresque ou description du Royaume de Naples et de Sicile”, in cinque volumi, che realizzò l’abate francese Richard de Saint-Non tra il 1778 e il 1787, su incarico degli editori Richard e Labord.

Gallipoli

Uno dei primi viaggiatori inglesi ad arrivare in terra salentina è Crauford Tait Ramage,1803-1878. Egli dimorava a Napoli come precettore dei figli del console Henry Lushington e, nel 1828, intraprese il suo viaggio nelle province meridionali, visitando il Salento. Rimane affascinato dalla bellezza di Otranto, poiché egli, come moltissimi inglesi dell’epoca, associava il nome di Otranto al romanzo di Horace Walpole ( il quale però non era mai stato ad Otranto)[1].

Nella sua opera “The nooks ad by-ways of Italy”, presso l’Editore Howell, Liverpool, del 1868[2], egli annota tutto quello che vede, catturato dall’irresistibile fascino dei nostri paesi e paesini, e per questo osserva anche la vita quotidiana, gli usi e le abitudini della nostra gente, anche se non sempre si dimostra preciso ed attento, come sottolinea Carlo Stasi a proposito del suo passaggio nel Capo di Leuca[3].

Il suo libro, dedicato al Generale Carlo Filangeri, è un resoconto di viaggio, sotto forma di lettere scritte ad un parente. Le lettere che riguardano la Puglia vanno dalla XXIII alla XXIX.

Come spiega bene il sottotitolo dell’opera,Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni”, il Ramage, pur essendo spirito illuminista, è attirato dalle stranezze, o per meglio dire è attirato dalla suggestione che queste stranezze sembrano esercitare sul nostro popolo. Egli, che si professa materialista, e in effetti è uno storico serio e puntiglioso, trova grande meraviglia e interesse antropologico nel notare la creduloneria, le supersitizioni, l’ignoranza che allignano fra i salentini. Si ferma di fronte al fenomeno delle tarantate, che fa discendere dai culti orgiastici della dea Cibele. Tuttavia, ama la bellezza classica di questi posti. Infatti rimane molto colpito da Lecce e dalla sua architettura barocca, anche se, come già Swinburne, non apprezza la Chiesa di Santa Croce.

Anche lo studioso Henry Swinburne, infatti, venne nel Regno delle Due Sicilie e visitò la Puglia da Foggia fino a Lecce. Nel suo libro “Travels in the Two Sicilies” del 1783, passa in rassegna tutte le città e i paesi che visita. Parla delle donne che danzano sfrenatamente delle danze bacchiche, a Brindisi, e che egli crede morsicate dalle tarantole, e parla anche di Lecce. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, d’accordo in questo con un altro celebre intellettuale, il Riedesel, che è il secondo protagonista del nostro pezzo.

Il tedesco Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach, 1740-1785, è un appassionato archeologo che vuole descrivere ai suoi connazionali le antichità classiche dell’Italia. Il suo libro, “Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, è, come dice il titolo, un’opera epistolare, diretta al famoso archeologo Winckelmann[4].

Diplomatico e ministro prussiano, Riedesel aveva conosciuto a Roma e frequentato il Winckelmann, il quale gli aveva fatto da guida nella esplorazione dei monumenti della città. Infatti, e non potrebbe essere diversamente, nella descrizione che il Riedesel fa dell’Italia Meridionale, in particolare della Regione salentina, si avverte l’influenza del Winckelmann. Come detto, in fatto di architettura egli non ama lo stile barocco, che definisce “il più detestabile”, mentre apprezza molto la semplicità delle architetture mediterranee e in particolare delle pajare e dei muretti a secco. “Non restano però estranee al tedesco, acuto osservatore di uomini e cose, la vita economica e quella sociale delle contrade visitate”, come scrive Enzo Panareo[5].

Il suo libro divenne un punto di riferimento in Germania e fu molto letto, anche da Goethe, che lo elogia nella sua opera “Viaggio in Italia”, in cui sostiene di portarlo sempre con sé, come un breviario o un talismano, tale l’influenza che quel volume, per la puntigliosità e l’esattezza delle notizie, esercitava sugli intellettuali.

Janet Ross ,1842-1927, giornalista, storica e autrice di libri di cucina, arriva nel Salento nel 1888. Memorabile il suo incontro con Sigismondo Castromediano, che le racconta la storia della sua vita. Janet Ross pubblicò nel 1889 in Inghilterra le sue relazioni di viaggio in Puglia, in “La terra di Manfredi, principe di Taranto e re di Sicilia. Escursioni in zone remote dell’Italia Meridionale”, successivamente tradotto e pubblicato in Italia col titolo “La terra di Manfredi”[6].

Un racconto davvero interessante, fra lo storico-artistico e l’antropologico, impreziosito dai disegni di Carlo Orsi, compagno di viaggio della Ross, e ripubblicato ancora nel 1978 in Italia col titolo “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”.[7] Bisogna dire che la figura del Re Manfredi, come tutti gli Svevi, suggestionava fortemente la viaggiatrice inglese. Nella mentalità dei britannici, infatti, questa era una dinastia eroica, avendo lottato contro il papato.

Nei luoghi visitati – nell’ordine: Trani, Andria, Castel del Monte, Barletta, Bari, Taranto, Oria, Manduria, Lecce, Galatina, Otranto, Foggia, Lucera, Manfredonia, Montesantangelo, Benevento – , la Ross cerca le antiche vestigia di una civiltà, quella appula, ricca di gloriose tradizioni.

Determinante fu il suo incontro con Giacomo Lacaita. Come scrive Nicola De Donno, recensendo il libro curato da Vittorio Zacchino, “L’autrice, che era stata a Firenze, la capitale italiana degli inglesi, ed in Puglia anche l’anno precedente, ci informa che non avrebbe composto il suo libro senza l’incoraggiamento di Giacomo Lacaita, o meglio di sir James Lacaita, come sempre lo chiama. A Leucaspide, presso Taranto, che era la residenza di campagna dei Lacaita, ella rimase ospite per alcuni giorni e di lì il Lacaita le preparò escursioni ed in alcune l’accompagnò, le dette consigli e le suggerì riferimenti culturali. Egli era, al tempo del viaggio, senatore del regno d’Italia ed aveva settantacinque anni.

Nativo di Manduria, laureato in giurisprudenza a Napoli ed introdotto nella buona società cosmopolita della capitale dalla principessa di Leporano, di cui suo padre era stato amministratore, fu impiegato come legale dal consolato inglese, ove strinse relazioni importanti, fece da guida al Gladstone nella sua famosa visita a Napoli, ebbe, probabilmente per ciò, noie dalla polizia borbonica. Riuscì, nonostante tutto, ad ottenere da Ferdinando II un passaporto per l’Inghilterra nel 1851 e non tornò più a Napoli. A Londra fece un nobile matrimonio che gli aprì molte porte, si convertì all’anglicanesimo e naturalizzò, ebbe incarichi presso diplomatici.

E’ quasi certo che venne agganciato dalla diplomazia segreta di Cavour; da vecchio si vantò, a nostro giudizio poco credibilmente, di avere scongiurato lui che l’Inghilterra nel ’60 impedisse a Garibaldi di passare lo stretto e invadere la Calabria e tutto il Napoletano. Dopo l’unità tornò in Italia, fu candidato governativo alla Camera, si riconverti al cattolicesimo e venne fatto senatore.

Acquistò la tenuta di Leucaspide, la restaurò e vi si stabilì. Grandi e piccoli personaggi passavano dalla masseria, la quale divenne un nodo significativo di quei legami post-risorgimentali fra la buona società inglese e il turismo in Italia, di cui il viaggio della Ross fu una manifestazione.

In questo filone si inserisce anche, nel libro, l’incontro a Lecce con il Castromediano e la scoperta che questi era stato assistito in Inghilterra, quando evase dalla nave che lo deportava in America, dalla nonna della Ross. (Il racconto di galera che gli mette in bocca non è però originale: è una parafrasi dell’articolo Da Procida a Montefusco, che il Castromediano stampò nella strenna « Lecce 1881 » dell’editore Giuseppe Spacciante).

Il libro riporta molte annotazioni etniche e demografiche, sull’abbigliamento, su usi e costumi dei pugliesi, sulle fiere e i pellegrinaggi, le superstizioni soprattutto, i riti pasquali, le danze e i canti, ecc. Parla della pizzica pizzica facendo delle descrizioni puntuali ma anche coinvolgenti, nel puro spirito romantico da cui questa viaggiatrice era sostenuta”[8].

Janet Ross è una studiosa davvero attenta. Il contributo demo etno antropologico del suo libro è rilevante, perché ella, nella nostra Terra d’Otranto, annota tutto, fiabe, racconti popolari, superstizioni, riti magici, riporta tre canzoni, “Riccio Riccio”, “Larilà” e “La Gallipolina”, e poi si sofferma sul fenomeno del tarantismo, distinguendo fra “tarantismo secco ” e “tarantismo umido”, sottolineando per il primo l’importanza della presenza dei colori e per il secondo l’importanza dell’acqua nel cerimoniale.

Molto belle e coinvolgenti le descrizioni del ballo della pizzica pizzica che fa alla masseria Leucaspide con i lavoranti di Sir Lacaita. Una personalità davvero interessante, insomma. La Ross, corrispondente del Times, grande viaggiatrice, nel 1867, insieme al marito Henry Ross, un ricco banchiere, si stabilì in Toscana, dove continuò la sua carriera di scrittrice.

In Puglia, ella trova un mondo che non pensava potesse esistere, e se ne innamora. Ecco perché riesce a rendere con tanta efficacia usi e costumi della gente dell’antica Terra d’Otranto.

 

[1] Vasta la letteratura su Horarce Walpole, 1717-1797, e sulla sua opera “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico della storia.

[2] Pubblicata in Italia col titolo “Viaggio nel regno delle due Sicilie”, a cura di Edith Clay, traduzione di Elena Lante Rospigliosi, Roma, De Luca Editore, 1966, e poi anche in Crauford Tait Ramage, Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni, contenuto in Angela Cecere, “Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento”, Fasano, Schena, 1989, pp. 37 e segg., e successivamente in Angela Cecere, La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, contenuto in “Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari”, Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993, p. 63.

 

[3] Carlo Stasi, Uno straniero dal nome strano ed un contadino dall’aspetto sveglio, in “Annu novu Salve vecchiu”, n.9 , Edizioni Vantaggio, Galatina, Editrice Salentina, 1995, pp.72-76.

[4] Johann Hermann von Riedesel ,“Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, Prefazione e note di Luigi Correra, Martina Franca, Editrice Apulia, 1913, poi ristampata in Tommaso Pedio, “Nella Puglia del 700 (Lettera a J.J. Winckelmann)”, Cavallino, Capone, 1979

[5] Enzo Panareo, Viaggiatori in Salento, in “Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce”, a.V, n.2, Matino, giugno 1979, p.54.

[6] Janet Ross, “La terra di Manfredi”, Vecchi Editore, 1899.

[7] “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, a cura di Vittorio Zacchino, Cavallino, Capone Editore, 1978.

[8] Nicola De Donno, “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, in “Sallentum”, Anno I, n.1, sett.-dic. 1978, Galatina, Editrice Salentina, 1978, p.138.

 

Dialetti salentini: carassa e scarassare

di Armando Polito

Non so voi, ma io in casa sono quasi continuamente, quando ricevo la visita di una delle mie due figlie (non dico auale …) a spegnere interruttori, tv ed altri apparecchi che utilizzano l’energia elettrica; mi debbo precipitare pure, quando si accende il riscaldamento, che porte e finestre siano adeguatamente chiuse, in modo, cioé, che nessuna carassa (apertura) faciliti la dispersione del calore.

Tutt’al più sarà opportuno scarassare (socchiudere) una porta o finestra per qualche manciata di secondi al fine di consentire il ricambio dell’aria in un ambiente. In estate la stessa azione prolungata nel tempo avrà il fine di alleviare l’afa facendo circolare l’aria o, se limitata all’imposta, di far entrare più luce.

Carassa è anche la lesione, la crepa dell’intonaco o di un muro e, nel caso in cui quest’ultimo sia a secco, lo spazio che rimane tra pietra e pietra, rifugio per lucertole o uccellini per sfuggire ad un gatto o ad un nostro simile.

Per quanto riguarda l’etimo comincio proprio da scarassare, che ha origine da un inusitato *carassare con prostesi di s- intensiva; se quest’ultima è ciò che resta della preposizione latina ex; *carassare è dal latino charaxare che ha i significati di grattare, intagliare, solcare, incidere, graffiare.

Charaxare, a sua volta, è  dal greco χαρἀσσω (leggi charasso), che ha i significati, parzialmente o totalmente sovrapponibili anche in assenza di fantasia sfrenata …, di affilare, aguzzare, fornire di denti, lacerare, solcare, incidere, iscrivere, cancellare.

Nessuna meraviglia, dunque, se nel latino medioevale charaxare assume il significato di scrivere ma anche quello contrario di cancellare (in fondo si tratta di due raschiature con finalità diverse), Lo stesso latino medioevale, poi, registra charaxatura (o caraxatura) e charaxia (o caraxia) col significato di scrittura o cancellatura. Ancora meno meraviglia suscita il fatto che il nostro carattere è dal latino charactere(m), a sua volta dal greco χαρακτήρ  (leggi caractèr), che, manco a dirlo, è da χαρἀσσω.

Dubbio è, invece, che una radice ridotta di χαρἀσσω (χαρ-) abbia dato vita a χάρρτης (leggi chartes), dal quale il latino charta ha dato l’italiano carta.  A questo punto, comunque, non appare certo casuale la metafora agricola dell’indovinello veronese (vedi nota 1 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/15/indovinelli-leccesi-sotto-lombrellone-13/).

In conclusione: carassa è deverbale da *carassare. Il suo asterisco (che in filologia indica voce non attestata) non vale per Scorrano in cui sarebbe, stando a quanto riporta Giuseppe Presicce nella scheda che segue tratta da http://www.dialettosalentino.it/carassare.html.

Debbo ora fare qualche precisazione su quanto relativamente all’etimo ha scritto chi se ne è occupato prima di me1. Ecco come la voce risulta trattata dal Rohlfs.

bene, meno, apparentemente, quel χαράξαι (leggi charàxai) che potrebbe appare incongruente in quanto l’infinito aoristo di χαρἀσσω. Credo che sia stato tirato in ballo per giustificare il passaggio –ξ->-x- in charaxare, salvo, poi, il passaggio –x->-ss– in carassa.     

Incomprensibile, invece, risulta, per quanto riguarda questo dettaglio,  quanto si legge nel Garrisi.

Si tratta di una maldestra (altro non dico …) evidente citazione del Rohlfs, il cui χαράξαι (caràxai) è diventato, in seguito ad un doppio terremoto fonetico, carazài!

Per completezza e a conferma che il mondo è piccolo, aggiungo una nota che rende meno distante il nord e il sud, nella fattispecie il Salento e il Piemonte, e non solo. Mi riferisco ad un tipo di coltura della vite un tempo praticato nel Monferrato, quello italianizzato in a tre carasse (l’illustrazione è tratta da http://www.viten.net/files/9a1/9a13df24f760fe9b3ae8224263ce3546.pdf).

Innumerevoli sono le varianti di carasse (tutte nel significato di paletto) e l’elenco che segue, senz’altro parziale dà l’dea della diffusione della voce. Derivano da un intermediario latino *caratium, trascrizione del greco χαρἀκιον (leggi charàkion) che significa sostegno, appoggio, diminutivo di χάραξ (leggi charax),  che significa palo di sostegno (specificamente per viti in Aristofane, Tucidide e Luciano), palizzata, trincea, pianta spinosa. La voce ha la stessa radice (χαρακ-) di χαρἀσσω con passaggio dall’idea di fendere, spaccare a quella della separazione dello spazio, che è il fine del palo e ancor più di una palizzara.

Pignola (Potenza) carraccë

Avigliano (Potenza) carrazze

Rivello (Potenza) karráttsë

Trecchina (Potenza) karráttsu

Potenza carraccia

Albano Laziale (Roma) e Trivigno (Potenza) karrátts

Triora (Imperia) caratsa

milanese carasc

genovese carassa

Bronte (Catania), Frazzanò (Messina) carrazzu

bresciano caràs

francese echalas (molto probabilmente secondo intermediario,. dopo il latino *caratium, delle varianti settentrionali.

___________

1 Gerard Rohlfs, Vocabolario dei sdialetti salentini (Terra d0Otranto), C              ongeo, Galatina, 1976

Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990

 

Libri| I cognomi dei melissanesi

Nasce dall’amore per il paese natale l’ultimo lavoro di Fernando Scozzi “I cognomi dei melissanesi, significati, provenienze, vicende sociali” che sarà presentato sabato, 23 febbraio, alle ore 17.00, presso l’antica chiesa parrocchiale di Melissano. La pubblicazione ripercorre le vicende familiari e sociali dei melissanesi offrendo motivi di riflessione per comprendere la storia della Comunità e ricordare il contributo che i predecessori hanno dato allo sviluppo economico e sociale del paese. Un’analisi che, partendo dall’etimologia dei cognomi ne individua l’etimologia, la provenienza e le motivazioni che indussero numerosi braccianti ed artigiani dei paesi limitrofi a trasferirsi a Melissano fra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX.

Ma il lavoro vuole essere anche un contributo per la fusione dei Comuni di Racale, Taviano, Alliste-Felline e Melissano, perché sapere che circa il 40% dei capi-famiglia storici melissanesi proviene dalle altre quattro Comunità dovrebbe far pensare alla fusione con maggiore concretezza in un contesto di superamento delle divisioni divenute ormai anacronistiche.

L’autore auspica che il lavoro, frutto di anni di ricerca, sia utile a rinsaldare quei legami di parentela sciolti dal benessere economico e dal conseguente egoismo. Nella pubblicazione -conclude l’autore nella presentazione del volume – “rivivono” coloro i quali ci hanno preceduto, i cui nomi rimangono nella memoria insieme al bene che hanno fatto alla Comunità melissanese.

L’associazionismo giovanile negli anni 70 a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

Negli anni ’70 i giovani a Spongano, sperimentarono una modalità di aggregazione ancora nuova che, con nome anglofilo, chiamarono Club. All’epoca, sembrava non facessero più presa né le esperienze associazionistiche tradizionali come l’Azione Cattolica, i partiti politici, le Confraternite, né quelle più moderne, figlie del ’68, come il Circolo Studentesco Ricreativo.

L’esigenza dei giovani era quella di avere un posto, diverso dal bar o dalla piazza, dove stare insieme a chiacchierare su quanto succedeva nel paese o su quello che capitava a scuola oppure ancora un luogo dove scambiarsi opinioni, confrontarsi e divertirsi in vari modi con poco. Una sorta di “nido” che li facesse sentire a proprio agio, a “casa propria”, senza gli occhi degli adulti addosso che dicessero cosa fare o cosa non fare.

I giovani si associarono per classi d’età o per interessi comuni: fra questi non era trascurabile quello di incontrarsi con le ragazze per conoscersi meglio, senza fomentare chiacchiere.

Allo scopo recuperarono vecchie case non più abitate, talvolta con pavimenti sconnessi o pareti scrostate, e ne fecero accoglienti luoghi di ritrovo e aggregazione.

Club Universal 1977

 

Queste associazioni prosperarono a Spongano mantenendo una sana laicità sia nei riguardi della Chiesa, sia nei riguardi delle Istituzioni e dei Partiti, che non significava rifiuto o rivolta nei loro confronti, ma solo sana voglia di sentirsi liberi e indipendenti. In ogni club c’erano militanti di destra, di centro e di sinistra, anche agguerriti, e ragazzi che della politica non si interessavano affatto, ma tutti convivevano senza problemi di sorta.

Il Club era un posto riservato, ma sapeva accogliere e questo lo si vedeva nella frequentazione di amici dei soci oppure, in estate, quando arrivavano dei ragazzi forestieri che trovavano nei club un punto di riferimento per incontrare amici nel breve periodo delle vacanze sponganesi: era così che nascevano amicizie care e solide.

In queste associazioni, i giovani, spesso minorenni, riuscivano con i propri risparmi a pagare l’affitto, a comprare uno stereo, i dischi, gli addobbi e le prime luci psichedeliche, aggiustate alla bell’e meglio dal componente del club più esperto o dall’amico che si interessava di elettronica.

Nei Club ci si autogestiva, si cresceva, si cercava una propria emancipazione per liberarsi dalla angusta realtà di un paesino, facendo insieme esperienze importanti. Si ascoltava soprattutto musica che spesso esprimeva emozioni e sensazioni meglio di tanti discorsi.

Anche l’approccio con l’altro sesso era facilitato (senza che venissero meno un essenziale rispetto e un sufficiente pudore), ma trovavano posto pure la discussione e il confronto fra pari, la responsabilità di tener fede agli impegni presi e di portare a termine un lavoro, nonché la possibilità di creare cose nuove spesso proposte alla comunità, vivacizzandone la vita routinaria.

In questo modo scaturirono momenti che portarono queste piccole comunità a uscire dalla monotonia di tutti i giorni e a esporsi al pubblico con attività come il teatro della Nuova Compagnia del Teatro Popolare o gli Scuola-quiz del Club Jolly o i Piccolo Festival del Club Royal o, ancora, la Corrida del Club Universal.

Ogni club cercava di organizzare eventi, spettacoli, iniziative, per esprimersi al meglio e per caratterizzarsi rispetto agli altri gruppi, ma anche per rimpinguare le casse del club stesso e trovare le risorse per i propri progetti (per quanto ci si inventasse anche alternative come per esempio una stagione di coltivazione di tabacco posta in atto dal club Jolly). Il fulcro di questi spettacoli era la Sala Parrocchiale, ma talvolta gli eventi erano accolti anche nel Cinema Italia di via Ariosto.

La spinta a realizzare questi eventi era sì un’esigenza economica, ma anche l’intenzione di trovare una propria peculiarità, cercando, magari, un approccio culturale che non fosse solo di semplice intrattenimento.

La Nuova Compagnia del Teatro Popolare, che aveva sede in una casa di via Chiesa, quasi all’angolo con la farmacia, scelse il teatro. Inizialmente propose una commedia, inventata dagli stessi componenti: U Furese, firmata da Claudio Casarano e Italo Stefanelli, ma realizzata con il contributo di tutti i componenti. Successivamente misero in scena altre rappresentazioni teatrali leggere, come U Requenzinu ‘nnamuratu, o drammatiche, come Una madre d’Italia e la Passione di Gesù.

La NCTP in una rappresentazione de U Furese con Claudio Casarano protagonista

 

Il Club Jolly, ubicato in via San Leonardo, si inventò gli “Scuola-quiz”, ispirandosi al famoso “Chissà chi lo sa” di Febo Conti. I ragazzi del club selezionarono delegazioni di classi della Scuola media per sottoporle a domande di cultura generale e scolastica, sfruttando anche la grande simpatia che il pubblico aveva per i quiz e la inevitabile competizione che si veniva a creare fra i concorrenti, solleticando pure la vanità dei genitori che accorrevano a fare il tifo per i loro piccoli campioni.

Il Club Royal, situato in via Giovanni XXIII, toccò lo stesso tasto, ammiccando alla sensibilità dei genitori, facendo gareggiare con canzoni dello zecchino d’oro, e non solo, piccoli cantanti in erba in eventi chiamati “Piccolo festival”.

Nessuno dei componenti del club allora suonava, ma si ingegnarono e coinvolsero Uccio Zippo con la sua chitarra (chi potrà dimenticare la mitica Apache!) e quella che allora si chiamava Musical Band, realizzando spettacoli sicuramente gradevoli e partecipati.

Le edizioni del “Piccolo Festival” potevano sembrare una cosa semplice da fare, ma richiedevano un’organizzazione non indifferente: occorreva reclutare i “mini cantanti”, vincendo la resistenza dei genitori, andare a prenderli per le prove e riportarli a casa, essendo essi piccoli, e tutto questo significava mostrare impegno e un adeguato senso di responsabilità.

La Corrida Sponganese

 

Il Club Universal, che aveva sede in un vicoletto di Via Chiesa, riunì per la maggior parte musicisti in erba che già si erano aggregati a formare la Musical Band e poi la Mini Orchestry per cui impostarono i loro eventi sulla musica.

Lo spettacolo più riuscito, che poi diventò una tradizione, fu laCorrida Sponganese”, che riscosse grande successo e portò alla ribalta personaggi di cui, all’epoca, i più ignoravano le qualità artistiche.

I concorrenti cantavano, suonavano, sfoggiavano una discreta, quando non ottima, abilità, ma talvolta alcuni competitori, se pure mostravano scarse doti tecniche o artistiche, ispiravano una simpatia e una verve comica ineguagliabili, suscitando curiosità e raccogliendo il plauso del pubblico.

Talvolta il concorrente riusciva ad aggregare una claque che travalicava gli angusti confini della famiglia. Ricordo ancora oggi lo straordinario numero di tifosi che accorse ad applaudire Vittorio Papa: familiari, colleghi di lavoro, simpatizzanti, portandolo, con il loro sostegno appassionato, alla vittoria finale.

Spesso questo tifo “popolare” poteva anche penalizzare chi era più bravo tecnicamente, ma non riusciva a captare la benevolenza del pubblico, come capita, ancora oggi, di vedere alla Corrida televisiva dove è il pubblico a decidere le sorti della gara.

Mini Orchestry a un Carnevalissimo

 

I componenti del club Universal che suonavano erano Nicola Paoli clarinettista e poi batterista, Raffaele Rizzello clarinettista e sassofonista, Giuseppe Guida Trombone, concertatore e curatore delle parti, Raffaele Corvaglia che suonava il flicorno soprano, Franco Marti che suonava la tromba e il sassofono soprano, e il sottoscritto, Giuseppe Corvaglia, che suonava il flauto traverso e il sassofono, per una breve stagione.

A questi si aggiungevano Carmelo Paiano e Vittorio Donadeo, più di una volta presentatori degli spettacoli proposti, Giacomino Picci e Luigino Rizzo, spesso protagonisti di esilaranti scketch, Walter Erriquez, risorsa per la soluzione di problemi tecnici ed elettrici, Pino Ragusa, esperto, per quella cerchia, di musica rock e assiduo lettore di “Ciao 2001”, Nino Giannuzzo, Vito Lazzari, Alfredo Rizzello, Giorgio Buffo, Salvatore Gambino, Giovanni Marti. Ognuno trovava il modo di essere utile, anche perché l’organizzazione di questi eventi non era solo quello che si vedeva sul palco, ma anche: predisporre le prove, cercare gli sponsor, provvedere alla stampa dei manifesti, trovare l’amplificazione, magari senza pagarla, spostare gli strumenti, interloquire con la SIAE, contrattare la gestione del teatro… la buona riuscita dell’evento era il risultato del gioco di tutta la squadra e questo valeva per tutti i Club e per tutti gli eventi.

Oltre alle varie Corride, il Club organizzò anche serate di intrattenimento in occasione del Carnevale (Carnevalissimo) sulla scia di uno spettacolo organizzato inizialmente dal Club Royal con il medesimo obiettivo: guadagnare creativamente soldini per il club.

Negli ultimi tempi, il complesso nostrano venne integrato da elementi esterni e poi subentrarono gli S.R.C. (Società Riunita in Concerto), un gruppo pop-rock di Marittima che ha curato le musiche delle ultime edizioni della Corrida sponganese.

Un’altra cosa che il Club Universal organizzò fu un torneo di Calcio (ripetuto per 3 o 4 anni) che però non riuscì a vincere mai, nonostante giocassero fra le sue fila giocatori di buona caratura, per la bravura di una squadra chiamata Imperador (praticamente un club senza sede), ma anche per le puntuali autoreti di un socio, che puntualmente infilzava il proprio portiere, ma poi si faceva perdonare con le splendide prestazioni da libero.

Un anno fu pure ingaggiato come “commissario tecnico” Salvatore Corvaglia, gloria del calcio locale, ma non ci fu niente da fare: l’Imperador, che ha rifornito di calciatori le squadre locali, era più forte, calcisticamente, si intende.

Ai Club citati è giusto aggiungere anche il Club Genesis sito in via Congregazione, che non si espresse con particolari eventi pubblici come gli altri club, ma mostrò una maggior apertura nella cerchia dei soci ivi comprese le ragazze che negli altri club erano di casa come frequentatrici, ma non come socie.

Ognuna di queste associazioni ha accolto tanti piccoli uomini vogliosi di crescere, di trovarsi, di sentirsi grandi, mostrando fantasia e creatività, capacità e operosità, impegno e senso di responsabilità, qualità che poi nella vita servono sempre.

Bei ricordi di una specie di Happy Days casareccia senza Fonzie.

 

Foto da raccolte di Raffaele Corvaglia, Felice Rizzello, Raffaele Rizzello

Dialetti salentini: la ‘nnicateddha

di Armando Polito

* Ben gli sta a chi ama più il cane del gatto!. Hai mai sentito parlare di tosse felina?

Tra i disturbi tipici della stagione invernale è da annoverare la laringite acuta, detta anche tosse canina o tosse convulsa, dal suono pronunciato e dalla frequenza elevata dei suoi colpi nella fase più avanzata della malattia. Molte voci dialettali hanno il merito di esprimere più efficacemente e sinteticamente un significato. ‘Nnicateddha è tra queste e, se dovessimo trascriverla in italiano, verrebbe fuori *annegatella.

Il suffisso diminutivo (-ella) sta ad indicare solo la sua minore pericolosità o gravità rispetto all’ annegamento. Annegatella, infatti, aggiunge questo suffisso ad annegata, participio passato sostantivato di annegare, sul tipo, tanto per fare un esempio, di partire>partita>partitella,

Annegare è da un latino *adnecare (nel latino medioevale è attestato il participio passato adnegatus), composto dalla preposizione ad e da necare, che significa uccidere.       Necare è denominale da nex (geniitivo necis), che significa morte violenta e che è connesso con i greci νεκύς (leggi nechiùs) e νεκρός (leggi necròs), che significano erntrambi morto, cadavere.

Per lenire l’atmosfera funerea che comincia a circolare, dopo aver messo in campo i passaggi semantici uccidere>annegare>soffocare, chiudo riportando la trafila seguita da ‘nnicateddha: necare>*adnecare>*adnecata>*adnicata>*annicata>‘nnicata>‘nnicateddha.

Nardò. Uno spazio museale nel castello per Gigi Stifani, musicista delle tarantate

a cura dell’Amministrazione Comunale di Nardò

Sabato 16 febbraio, alle ore 16, sarà inaugurato in uno spazio al primo piano del castello Acquaviva d’Aragona un museo per preservare la memoria del maestro Luigi Stifani, per tutti Mesciu Gigi, il mitico violinista terapeuta che più d’ogni altro ha permesso di capire i rituali legati al tarantismo salentino, uno dei fenomeni più rilevanti della demo-antropologia italiana.

Sarà don Riccardo Personè a benedire i locali all’interno dei quali saranno conservati ed esposti tutti i beni riconducibili all’attività di Stifani: gli strumenti musicali (quelli utilizzati nei rituali terapeutici del tarantismo e durante le ricorrenze) i manoscritti, i documenti fotografici e sonori, oltre agli strumenti di lavoro adoperati nella sua bottega di barbiere.

Luigi Stifani, nato a Nardò nel 1914, barbiere-violinista, ma anche suonatore di chitarra e mandolino, con la sua orchestrina composta da suonatori esperti di rituali di tarantismo (tra cui l’abile suonatrice di tamburello Tora Marzo) “curò” – come annota personalmente nel suo diario – molte “tarantate”, precisamente 29 casi tra il 1928 e il 1972, inventando inoltre un suo sistema di notazione musicale fatto di sillabe e numeri, unico nel suo genere. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2000 proprio il giorno della festività di San Paolo (il Santo protettore delle “tarantate”), la memoria di Stifani non ha mai smesso di tramandarsi.

Definito “l’ideologo della taranta”, Mesciu Gigi è stato un punto di riferimento importante degli ultimi settant’anni per molti studiosi di varie discipline, tra cui Annabella Rossi, Gianfranco Mingozzi, Ernesto De Martino, Georges Lapassade, Diego Carpitella, Roberto Leydi.

Per Giovanna, figlia di Stifani, nonché per gli altri fedeli sostenitori e testimoni affidabili dell’operato di Stifani, tra cui il suo discepolo Ruggiero Inchingolo (etnomusicologo e autore della biografia musicale del maestro) o l’amico Antonio Spano, si tratta di un traguardo importante e atteso, che mira a valorizzare la preziosa eredità artistica, musicale e letteraria del maestro.

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

Dopo l’inaugurazione, alle ore 17, nell’aula consiliare, si terrà il convegno dal titolo “Luigi Stifani e il tarantismo salentino”, che ospiterà docenti e ricercatori che hanno conosciuto e intervistato il maestro nella sua bottega a Nardò. L’introduzione sarà affidata a Luigi Chiriatti (ricercatore, esperto in tradizioni popolari del Salento, direttore artistico del Festival La Notte della Taranta) che illustrerà la figura del maestro Stifani e il ruolo assunto dalla città di Nardò nell’ambito del tarantismo salentino. A seguire, Ruggiero Inchingolo (musicista e depositario del sapere musicale di Stifani, già direttore del Festival Suoni dal Mediterraneo), Eugenio Imbriani (docente di Antropologia Culturale dell’Università del Salento), Gianfranco Salvatore (docente di Etnomusicologia dell’Università del Salento), Salvatore Colazzo (docente di Pedagogia sperimentale dell’Università del Salento), Gino L. DiMitri (già docente ricercatore in Storia della Scienza all’Università degli Studi di Bari e di Storia della Medicina all’Università di Ginevra), Salvatore Villani (etnomusicologo, Direttore Centro Studi Tradizioni pugliesi), Silvano Fracella (Direttore responsabile del pronto soccorso dell’Ospedale “Fazzi” di Lecce). A moderare il convegno sarà il giornalista Luigi Nanni.

Alle ore 21, nell’atrio del castello, per rendere omaggio a Mesciu Gigi si riuniranno sul palco per un concerto due gruppi noti nel panorama della musica tradizionale salentina: i Kardiamundi e i Nui Nisciunu con la partecipazione straordinaria di Ruggiero Inchingolo che per l’occasione suonerà le pizziche tarantate proprio con il violino di Stifani, per rievocare il sentimento e la memoria del suo maestro. Durante il concerto saranno ospitati quei suonatori “spontanei” che arriveranno con i loro strumenti per omaggiare il maestro (per informazioni è possibile contattare Giovanna Stifani al numero 339. 2428150).

La freccia e il delfino: alla scoperta di un antico (e dimenticato) palazzo di Manduria

Fig. 1 – Manduria, palazzo Ciracì, angolo fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie, particolare dello stemma

 

di Marcello Semeraro

Lo stemma oggetto del presente studio si trova a Manduria, posto sull’angolo dell’edificio dove si incontrano vico Commestibili e vico Carceri Vecchie (fig. 1). Si tratta di una porzione dello storico palazzo Ciracì (oggi De Laurentiis), il cui prospetto principale domina il tratto iniziale di via del Fossato. Il palazzo attuale si presenta pesantemente rimaneggiato, fra abbellimenti del XVIII secolo e trasformazioni successive, ma conserva ancora tracce di architetture cinquecentesche, a testimonianza di una storia piuttosto movimentata[1].

L’esemplare araldico, rimasto fino ad ora anonimo, è costituito da uno scudo sagomato e accartocciato, il cui campo appare suddiviso in due metà da una linea di partizione chiamata partito: a destra[2] si vede una freccia cadente (vale a dire con la punta verso il basso), mentre a sinistra compare un delfino uscente da un mare ondato e accompagnato in capo da tre gigli male ordinati (cioè posti 1, 2). Dall’osservazione del contenuto blasonico si evince chiaramente che la composizione in oggetto, databile al XVI secolo[3], presenta tutte le caratteristiche di un’arma di alleanza matrimoniale, una combinazione araldica che si ottiene associando due stemmi diversi in uno stesso scudo per mezzo di una partizione (generalmente un partito o un inquartato).

In questo tipo di rappresentazione araldica l’arma del marito precede quasi sempre quella della moglie ed è così anche nel nostro caso. Lo stemma visibile nel primo quarto è attribuibile ai Saetta, famiglia di «nobili viventi» originaria di Lecce, che nella prima metà del XVI secolo si trasferì a Manduria-Casalnuovo, dove si distinse nel commercio di grano e nell’esercizio di importanti cariche amministrative (alcuni dei suoi membri furono sindaci, auditori, erari e luogotenenti)[4].

Tale attribuzione trova un importante riscontro nell’arma assegnata ai Saetta che figura nello stemmario Montefuscoli – un manoscritto araldico risalente al XVIII secolo, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli –, la quale differisce dall’esemplare manduriano per la presenza di due stelle ai lati della freccia (fig. 2).

Fig. 2 – Arma Saetta, Imprese ovvero stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed altri, Napoli, Biblioteca Universitaria, MSS. 121, vol. III, p. 131

 

Quest’ultima figura è evidentemente allusiva al cognome (freccia-saetta) e riconduce l’insegna innalzata da questa famiglia alla categoria delle armi parlanti, un tipo di composizione molto frequente nel blasone europeo[5].

Proseguendo nella lettura dello stemma litico in esame, si nota che la figura principale che carica il secondo quarto del partito è un delfino, il «re dei pesci», un animale non molto frequente in araldica, impiegato spesso come figura parlante[6] (fig. 3).

Fig. 3 – Stemma della famiglia veneziana Dolfin, Insignia …VII. Insignia Venetorum nobilium II (A-IP), Monaco di Baviera, Bayerische StaatsBibliothek, Cod. icon. 272, fol. 136r

 

Grazie all’ausilio dei dati genealogici contenuti nel Librone Magno – il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento – è stato possibile risalire con certezza all’unione matrimoniale che rese possibile la rappresentazione contenuta nel nostro scudo (fig. 4)[7]. Mi riferisco alle nozze fra Bonifacio Saetta, un mercante di origini leccesi, capostipite del ramo casalnovetano, e Giulia Maria Delfino, appartenente ad un’influente famiglia di notai locali[8], alla quale, ovviamente, si riferisce lo stemma raffigurato nel secondo quarto[9].

Fig. 4 – Genealogia della famiglia Saetta, Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r

 

Il nostro Saetta fu un personaggio di primo piano nella vita politica ed economica casalnovetana della seconda metà del XVI secolo. Fu auditore (assessore) nel 1564-1565 e nel 1567-1568, luogotenente-castellano nel 1558-1559 e infine sindaco nel 1575-1576[10]. Lo storico Gérard Delille lo descrive come uno dei principali alleati e partner commerciali di Pirro Varrone, l’ebreo convertito al cristianesimo che per circa un trentennio fu il vero detentore del potere politico ed economico del paese[11].

Una volta assodata con certezza l’attribuzione dello stemma al nostro Bonifacio e alla moglie Giulia Maria, ho provveduto ad interpellare altre fonti storiche alla ricerca di riscontri sul nome dei Saetta quali antichi proprietari del palazzo. La prova decisiva, in tal senso, è arrivata dagli Stati delle Anime, vero e proprio censimento della popolazione locale, che veniva compilato dai parroci solitamente in occasione della benedizione pasquale.

Dagli Status Animarum del 1693, in particolare, si evince che i discendenti di Bonifacio abitavano in una casa di loro proprietà sita «in via vulgariter dicta delle Stalle» (fig. 5)[12]. Nell’antica toponomastica di Casalnuovo, con questa denominazione, attestata sin dal 1508, si indicava proprio quella poi sarebbe diventata l’attuale vico Carceri Vecchie, esattamente dove si affaccia uno dei due prospetti sul cui angolo campeggia il nostro stemma[13].

Fig. 5 – Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r

 

Malgrado le trasformazioni subite dall’attuale palazzo nel corso del tempo, non vi sono ragioni per credere che l’insegna in esame si trovi al di fuori del suo contesto originario. È da ritenere, pertanto, che l’edificio di cui essa marca la proprietà sia effettivamente quello dove vissero i Saetta.

Gli studi più recenti dello storico svizzero Manfred Welti – che saranno pubblicati prossimamente e ai quali ho avuto modo di contribuire – dimostrano che lo stipite del ramo casalnovetano ebbe ottimi rapporti con Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), marchese d’Oria e signore di Casalnuovo e Francavilla, noto agli studiosi per il suo duplice aspetto di fine umanista e di precoce aderente alla riforma protestante, fuggito in modo rocambolesco nel 1557 con la conseguente confisca dei feudi[14].

Sul lato opposto di vico Carceri Vecchie si vedono ancora oggi i resti di un portale in stile catalano-durazzesco che secondo i più recenti studi sarebbe stato l’ingresso del cinquecentesco palazzo dei Bonifacio, feudatari di Casalnuovo[15]. Va da sé che se tale ipotesi fosse dimostrata, significherebbe le due famiglie abitavano proprio nelle immediate vicinanze.

Giunti a Casalnuovo in un periodo di eccezionale sviluppo, dovuto sia alla ricchezza derivata dall’agricoltura, sia al notevole flusso immigratorio [16], e approfittando della relativa apertura della nobiltà locale, i Saetta divennero in poco tempo una delle casate più potenti e cospicue del paese, arrivando a ricoprire più volte la carica più importante, quella di sindaco, alla quale, all’epoca, potevano avere accesso solo i maggiorenti del posto. Tuttavia, del loro stemma e del loro antico palazzo, situato in prossimità della cinta muraria, non è rimasta alcuna traccia nella storiografia locale. Ma il colpo più duro alla loro memoria è sicuramente quello inferto dall’incuria dell’uomo, che ha avuto come conseguenza il degrado dell’area compresa fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie. Se è vero che il compito della ricerca storica è anche quello di far conoscere il passato al fine di preservarne la memoria, l’auspicio è che i risultati di questa breve indagine possano contribuire alla conoscenza, alla valorizzazione e al recupero di un pezzo importante della storia e dell’architettura dell’antico centro abitato di Casalnuovo.

 

 

[1] Sul palazzo si veda C. Caiulo, Schede sull’architettura storica a Manduria, in «Quaderni Archeo», 8 (2007), p. 51.

[2] Va ricordato che in araldica la destra corrisponde alla sinistra dell’osservatore (e viceversa), perché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.

[3] Al di sotto dello scudo, nello spazio di muro ricavato per collocare lo stemma sull’angolo, si legge il numero 62, probabilmente ciò che resta della data relativa all’anno in cui fu collocata l’insegna (1562?).

[4] Cfr. G. Delille, Le Maire et le Prieur. Pouvoir central et pouvoir local en Méditerranée occidentale (XVe-XVIIIe siècle), Roma 2003, pp. 181, 190 e cap. 7 (tab. 1); B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930, Manduria 2015, p. 173. Per le informazioni sulle cariche ricoperte dai Saetta, si vedano le schede (ad vocem) compilate dallo storico francese Gérard Delille, conservate in un apposito fondo presso della Biblioteca comunale Marco Gatti di Manduria; per la lettura dell’albero genealogico, invece, cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r.

[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono figure che richiamano, direttamente o indirettamente, il nome della famiglia del possessore dello stemma. Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e le comunità (cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in «Extrême-Orient, Extrême-Occident», 30 [2008], pp. 187-198). L’indice di frequenza di questa categoria di armi è particolarmente elevato anche in Terra d’Otranto, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. (cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362).

[6] Occorre ricordare che araldica il delfino è considerato un pesce e non un cetaceo, nozione, quest’ultima, che si affermerà solo a cavallo fra XVIII e il XIX secolo. È il re della fauna marina del blasone, l’equivalente acquatico del leone e dell’aquila. La sua rappresentazione araldica ha ben poco di naturalistico e risente, invece, di un tipico processo di «demonizzazione» dell’antico. Si raffigura normalmente in palo, con il corpo ricurvo a semicerchio, la testa e la coda rivolte verso il fianco destro dello scudo. Il muso ha un aspetto ferino, mentre la testa (che talvolta è coronata) è munita di bargigli e di cresta. Sul delfino araldico si vedano soprattutto M. Pastoureau, Traité dhéraldique, Paris 20085, pp. 152, 153, e M. C. A. Gorra, Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica, in «Il delfino e la mezzaluna», 1 (2012), n. 1, pp. 7-12.

[7] Cfr. Librone Magno cit., fol. 641r; sul manoscritto, invece, si veda G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.

[8] Sulla famiglia Delfino si vedano Fontana, Le famiglie di Manduria cit., p. 74, e P. Brunetti, Manduria tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253.

[9] Benché non sia stato possibile trovare ulteriori riscontri sull’uso di tale stemma da parte di questa antica famiglia casalnovetana, faccio comunque notare che molte delle casate italiane il cui nome evoca un delfino presero proprio il cetaceo come figura parlante del proprio scudo (fig. 3). Qualche esempio di trova in G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890 (rist. anast. Bologna 1965), vol. 1, pp. 355, 363.

[10] Fra i suoi discendenti si segnalano: il figlio Giovanni Bernardino, che fu erario negli anni Ottanta del Cinquecento; Giacinto, figlio di un altro Bonifacio Saetta e di Argentina Bruna, priore del Monte di Pietà (1655-1656, 1656-1657), erario (1657-1658, 1669-1670) e sindaco (1659-1660, 1676-1677, 1683-1684); e, infine, il figlio di quest’ultimo, Bonifacio, sposato con Anna Rosa Papatodero, sindaco nel 1697-1698. Anche queste informazioni sono state desunte dalle già citate schede di Gérard Delille (v. supra, nota 4). Da un atto notarile del 1588, inoltre, si ricava il succitato Giovanni Bernardino fu anche barone di Giurdignano (cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, p. 342, n. 399).

[11] Cfr. Delille, Le Maire cit., pp. 190, 212.

[12] Cfr. Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r.

[13] Cfr. P. Brunetti, Manduria-Casalnuovo: le strade, le piazze, Oria 1999, p. 24; Id., Manduria tra storia cit., p. 268.

[14] Su Giovanni Bernardino Bonifacio si veda M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.

[15] Cfr. Caiulo, Schede sull’architettura cit., p. 53; N. Morrone, Architettura del Rinascimento a Manduria, disponibile al seguente indirizzo: <https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/09/architettura-del-rinascimento-a-manduria/>.

[16] Brunetti, Manduria tra storia cit., pp. 258-263.

Nella cara “Ariacorte”, orme d’operosità senza tempo

 di Rocco Boccadamo

A Francesco Nullo, patriota e militare italiano d’origine bergamasca, distintosi in particolar modo durante la garibaldina Spedizione dei Mille, è intitolata la breve strada che delimita, sul lato nord, il ristretto spazio del più volte riproposto rione di Marittima in cui è venuto al mondo l’autore di queste righe, cioè a dire l’Ariacorte.

Ariacorte, è d’uopo ricordarlo ancora, denominazione di un’antica e caratteristica fetta del paesello, fra l’altro, passaggio più diretto, e, quindi, obbligato, per quanti, a piedi, in bici, oppure, oggigiorno prevalentemente, a bordo di mezzi a motore, si rechino verso l’incantevole insenatura “Acquaviva”.

Detto ultimo sito, storicamente prediletto e frequentato in esclusiva, per i bagni marini, dai marittimesi e dagli abitanti dei paesi viciniori, adesso è una meta famosa, conosciuta, amata e scelta, grazie all’eccezionale suo fascino, da moltitudini di visitatori, vacanzieri e turisti, provenienti da ogni regione d’Italia e dall’estero.

Ma, nella presente occasione, è proprio sulla via di cui all’inizio che s’intende soffermarsi, per un excursus illustrativo in sintonia con l’intestazione del racconto.

S’affacciavano sul lato sinistro, in ordine strettamente successivo – residuano anche ora, beninteso modificati o rammodernati – quattro portoni o portoncini o semplici porte d’accesso in locali, cortili coperti e minuscole case d’abitazione.

In un immobile di detta infilata, dalla composizione e consistenza un po’ particolari, aveva in passato sede un forno pubblico, dove si svolgeva un’attività lavorativa unica e preziosa (nella borgata, a onore del vero, esistevano altri tre esercizi del medesimo genere), ossia a dire la produzione, per conto e per opera dei residenti che fossero a ciò interessati, del cosiddetto “pane fatto in casa”, da distinguersi nettamente dai panini o filoncini o rosette (pane bianco) acquistabili presso il negozio di alimentari del paese.

Di  fatto, più o meno in ciascun nucleo domestico locale, si ricavavano, da qualche terreno di proprietà, modici o medi quantitativi di grano e orzo, che, periodicamente, erano portati al mulino della vicina Diso, dopodiché si utilizzava la farina al fine di ottenerne, grazie alla panificazione e alla cottura nel forno pubblico,  scorte di “friselle”, poi conservate, in casa, in capienti contenitori di terracotta (capasuni o pitali, assimilabili per grandi linee a orci e anfore), e, a seguire, giorno dopo giorno, consumate sulla tavola o durante i frugali spuntini in campagna, previo ammorbidimento (sponzatura) in una scodella o in una padella piene d’acqua, oppure immediatamente sotto il getto di una borraccia o ancora mediante immersione nei resti di pioggia preservatisi nelle “conche”, minuscole buche sulle rocce affioranti qua e là nei campi.

A gestire il forno e a seguire e coordinare l’opera e la collaborazione degli utenti, c’era un’apposita figura, non a caso detta “furnara”(fornaia); per quanto riguarda l’esercizio attivo nel rione Ariacorte, si trattava di una donna, fra i cinquanta e i sessanta al tempo della presente rievocazione,  Matalena  (Maddalena), indossante perennemente un lungo vestito di panno nero, originaria di un paese vicino, Cerfignano, sposata con Giovanni, madre di Costantino e di Maria, dimorante in una casetta a una cinquantina di metri di distanza dal posto di lavoro.

Alla vigilia della data fissata per il suo turno, ciascun capofamiglia andava a ritirare dal forno un’ampia vasca o arca lignea, avente precisamente la forma d’una zattera, in dialetto “mattra”, dentro la quale si doveva versare, impastare sommariamente e, quindi, lasciar lievitare la farina, sotto l’effetto della fermentazione, appunto, del lievito, o pasta madre, ritirato in uno con l’anzidetta mattra.

Il trasporto dell’utile ma un po’ ingombrante attrezzo, dal forno alle abitazioni private, aveva luogo con l’ausilio di un carretto, (in gergo dialettale, trainella), anch’esso in dotazione all’esercizio di pubblica utilità. Mentre, il trasferimento a ritroso, con il carico della materia prima, predisposta o semilavorata, come meglio piaccia dire, a cura delle donne di casa, si svolgeva, di solito, in tarda serata.

Giacché, l’azione del “fare il pane nel forno comune” non doveva interferire o sovrapporsi con l’attività giornaliera, soprattutto in campagna, degli uomini, i quali avrebbero, di contro, potuto sopportare il sacrificio di una notte in piedi per il compimento, ogni tanto, dell’operazione in discorso.

Perciò, dopo aver cenato e sistemato a letto i figli piccolissimi, sospingendo la trainella, convenivano al forno gli adulti e i ragazzini della famiglia interessata, accompagnati e coadiuvati da un gruppo di stretti parenti, nonni e zii compresi.

Del resto, nell’esercizio, su gran parte di un’intera parete, correva una lunga tavola da lavoro, dove potevano sedersi fino a sei/sette persone, con in testa la fornaia, le quali prelevavano con cura, ma di buona lena, dalla mattra, porzioni dell’impasto, le lavoravano (scanavano, in dialetto) a forza di mani, gomiti e braccia, riducendole in consistenti e morbidi cilindri, da cui la gerente del forno ricavava, in quattro e quattr’otto, le friselle, una sorta di ciambelle tondeggianti, ognuna consistente in due strati sovrapposti e uniti insieme, via via  poggiate provvisoriamente su lunghe e larghe assi di legno che sovrastavano la tavola di lavorazione.

Mentre il gruppo si muoveva in tale processo manuale, la fornaia, a tratti, immetteva nel forno, inteso come vero e proprio vano di cottura, un certo numero di fascine di fronde e rami (in dialetto, sarcine), frutto, specialmente, della rimonda degli ulivi, lì recate dalla famiglia che panificava, in modo da riscaldarlo adeguatamente, dalla base fino alle pareti e alla volta.

Inoltre, al momento giusto, serbava accuratamente, accantonata in un angolo, la piccola montagna di brace residuata dalla combustione.

Nel contempo, seguendo scansioni temporali ritmate dalla mente e/o dalla pratica o suggerite dalla fornaia, la forza lavoro utilizzava il quantitativo finale dell’impasto contenuto nella mattra, per modellare medie pagnotte, dette in gergo “pane moddre” (molle)”, così definite, in quanto da sottoporsi a una sola fase di cottura,  e, da ultimo, raschiando cioè risicati strati di pasta dal fondo e dai lati della mattra, una serie di puliteie, assimilabili  alle focacce o alle piadine,  farcite, in sede di preparazione, con modiche manciate di olive nere.

Finalmente, dopo la pulitura del piano o pavimento mediante una grossa ramazza bagnata, si deponevano nel forno le friselle e, da ultimo, le pagnotte e le puliteie.

A questo punto, s’innestava una pausa di riposo, i presenti, stanchi di fatica e insonnoliti, provavano ad appisolarsi, la fornaia, da parte sua, per lo meno d’inverno, andava addirittura a stendersi su un rudimentale giaciglio tenuto in un cantone del “furneddru” (forno più piccolo, situato al di sopra di quello utilizzato per la prima cottura del pane appena fatto).

Parentesi, nondimeno, breve, corrispondente al tempo necessario per il compimento, esattamente, della prima fase di cottura delle friselle e delle restanti forme di pane preparate.

Non abbisognavano né timer, né campanelli, né ulteriori congegni, era sufficiente la maestria e un’occhiata di Maddalena verso l’interno del forno, già fiocamente rischiarato dalla brace ancora rosseggiante a margine del pavimento e, all’occorrenza, meglio illuminato grazie a una lanterna, bastava che osservare il colore della “cotta” e via la frase: “Dai, bisogna sfornare!”.

Non s’impiegava molto tempo, utilizzando appositi aggeggi metallici, le friselle erano tirate fuori e immesse in capienti cesti di vimini; da questi, ritornavano sulla lunga tavola di lavorazione, dove gli operatori, servendosi di un segmento di spago, le tagliavano a metà in due separate sezioni: una, con base ovviamente più piatta e liscia, effetto dell’appoggio sul pavimento del forno, la seconda, invece, tondeggiante.

Esaurita tale importante operazione, le friselle, così spaccate, erano nuovamente inserite all’interno del forno, la cui temperatura, sebbene in progressiva attenuazione, restava nondimeno ancora alta e media per molte ore, così da ottenere l’essiccazione o biscottatura delle friselle stesse, che sarebbero poi state definitivamente ritirate e portate in casa dagli interessati, a distanza di dieci/dodici ore.

Attraverso le feritoie o la semi apertura del portone dell’esercizio, facevano capolino i primi lucori del nuovo giorno.

I convenuti, affaticati ma soddisfatti per aver affrontato e portato a compimento un importante lavoro, se ne ritornavano alle rispettive case, ciascheduno portando con sé una forma di pane moddre (molle) o una puliteia, già pronti per essere consumati freschi di cottura.

 

Parallelamente, il capofamiglia o la padrona di casa proprietari della cotta di pane curavano di consegnare i suddetti due esemplari di alimenti alla fornaia, in questo caso a Maddalena, la quale – altri tempi, davvero altri tempi – a fronte del suo lavoro e del ruolo di responsabile del forno, non percepiva alcun corrispettivo o compenso in denaro.

Maddalena, semplice e umile per nascita e di carattere, espletava il suo compito con passione e impegno, sempre aperta e disponibile, s’interfacciava, ovviamente, con numerose famiglie del paese, ben voluta da tutti.

La sua figura era anche un preciso punto fermo nell’ambito della comunità; ad esempio, quando si voleva far riferimento ai suoi figli, non si diceva Costantino o Maria  ‘u Giuvanni (figli di Giovanni), bensì Costantino o Maria ‘a Matalena (figli di Maddalena); la medesima particolarità seguita a vigere oggigiorno, riguardo ai discendenti di grado successivo: per citare, il nipote Vitale A., figlio di Costantino, caro amico e assiduo compagno di veleggiate dello scrivente, gode dell’appellativo di Vitali  (Vitale) ’a Matalena (della Maddalena).

Proseguendo oltre il portone dell’antico forno, si trova l’abitazione, con ampio cortile coperto e scoperto, già occupata da un’anziana coppia: Giovanni ‘u Pativitu (figlio di Ippazio Vito), con la moglie Addolorata. Il capo famiglia, contadino, si può dire dalle fasce, disponeva, in aggiunta, di una non comune manualità, che manteneva attiva e concreta pure in età avanzata.

Procurandosi nelle campagne e/o in vicinanza delle scogliere, quantitativi di canne, vimini e giunchi, li nettava e sezionava, dopodiché, con una sapiente operazione d’intreccio, arrivava a realizzare panieri grandi e piccoli, cesti e cestini, che, poi vendeva ai compaesani.

A qualunque ora si transitasse davanti al suo cortile, lo si scorgeva immancabilmente intento a tale lavoro.

Accanto, la casetta di Vitale N., nomignolo ‘u ciucciu (origine del nomignolo sconosciuta, forse legata al possedimento, da parte sua o dei genitori, di un quadrupede, un somaro).

Il ricordo di detto nominativo è circoscritto alla sua figura già versante nella tarda età, nessuna notizia, infatti, circa le attività lavorative da lui svolte da giovane, forse contadino, forse falegname. E’, al contrario, viva, l’immagine di Vitale ‘u ciucciu, nella funzione di cavadenti, esercitata, verosimilmente, senza il possesso del relativo titolo accademico e avvalendosi di attrezzature molto approssimative.

Tuttavia, per le occorrenze di natura odontoiatrica (così sono definite oggi), la maggior parte dei marittimesi si metteva nelle mani del compaesano in questione: qualche lamento o urlo o strillo in corso d’opera e, però, denti e molari, non più sani, erano estratti.

A seguire, in un’ampia abitazione terranea con giardino, vivevano compare Chiaro, figlio di Giovanni, il fabbricante di panieri anzi ricordato, insieme con la moglie comare Donata e la figlia Maria Rosaria (il loro primogenito, già adulto, si era trasferito nel Nord Italia).

Caratteristica peculiare di compare Chiaro, rimasta impressa, la sua abilità nel catturare, ogni tanto, esemplari di volpi che andavano a insidiare, talvolta facendone strage, i galli, le galline e le pollastre da lui allevati nel vicino giardino denominato “canale ‘i rasci” (anche questa accezione, di origine e significato misteriosi).

Gli animali che restavano in trappola erano scuoiati e, successivamente, finivano in pentola; in qualche occasione, la comare Donata portava amabilmente in dono porzioni di carne di volpe alla vicina e amica famiglia Boccadamo.

Proseguendo verso sud, si trovava la casa di Toti ‘u Pativitu (figlio o nipote di Ippazio Vito), il quale, all’occorrenza, esercitava il mestiere di  ”conza limmi e ggiusta cofini” (riparatore di contenitori in terracotta, che ogni famiglia possedeva, per farvi il bucato o per differenti fabbisogni domestici).

Per completare il quadro illustrativo, in un altro vicolo dell’Ariacorte, abitava Giuseppe P., Peppe ‘e Tuie (nativo della località di Tuglie, situata nei pressi di Gallipoli), il quale non si occupava di un preciso, determinato e limitato lavoro, ma svolgeva un’attività in certo qual modo plurima: spazzino o netturbino, adesso si chiama operatore ecologico, attacchino di manifesti e operatore cimiteriale (becchino).

Farebbe torto all’intera comunità dell’Ariacorte dei tempi andati, il narratore, se, a parte le persone anzi passate in rassegna, non ponesse in evidenza che, in quell’isola del paese, non v’era proprio alcuno che stesse con le braccia conserte, che, lì, l’apatia e l’ozio non si sapeva neppure che cosa fossero.

Il sano daffare, in un modo o nell’altro, accompagnava ogni creatura, dalla stagione della prima infanzia fino alla vecchiaia avanzata.

Libri| La chiesa dei SS. Medici Cosma e Damiano a Nardò

“I Lions per la cultura”

Il libro che dà il via al restauro di un gioiello neretino

La Chiesa dei SS. Medici Cosma e Damiano

 

Un tempo, non c’era casa a Nardò in cui non ci fosse un’immagine dei SS. Medici Cosma e Damiano, venerati nella chiesa omonima a loro dedicata, situata sulla strada che da Nardò porta a Lecce,, risalente agli inizi del Quattrocento. Era una originaria cappella contenente una icona della Vergine col Bambino che sorgeva su “loco Memore de li Iudei”, cioè un cimitero ebraico, situato, come di norma, fuori dalle mura urbiche, presso corsi o depositi d’acqua. Fatto questo che giustifica l’antico nome della Chiesa di S. Maria da Ponte, per un ponte a tre arcate ricostruito nel 1595 sul vicino torrente Asso, le cui acque, ancora oggi, vi fluiscono accanto.

Eppure sfugge spesso alla vista di chi giunge a Nardò dal capoluogo, questo “notevole esempio di architettura tardo rinascimentale salentina”.

Il Lions Club Nardò, in collaborazione con la Banca Generali, ha sostenuto la pubblicazione del pregevole volume, edito da Mario Congedo e curato dal Dott. Marcello Gaballo, con testi dello stesso, di Fabrizio Suppressa e Domenico Ble, in cui le foto (di Lino Rosponi e Stefano Santoro) e le ricostruzioni di una storia lunga circa sette secoli testimoniano, attraverso le decorazioni floreali, i putti, gli amorini, due dei quali sorreggono un cartiglio con la dedicazione alla Madonna delle Grazie,, la cifra stilistica dell’edificio, che nonostante i rifacimenti nei secoli, ha conservato i codici di appartenenza al circuito artistico che va da S. Caterina di Galatina alla Chiesa del Carmine di Nardò e alle relative maestranze in esse operanti.

E’ un segnale d’allarme che il Lions Club Nardò intende dare in aiuto al restauro della Chiesa a difesa del patrimonio storico-artistico-culturale della propria città, affinché esso non cada nell’oblio, nell’indifferenza e nell’incuria, cancellando la memoria della propria identità.

Il volume, la cui prefazione è stata curata dalla Presidente del Club, Maria Rosaria Manieri, in un certo numero di copie, sarà a disposizione degli intervenuti, nella serata della presentazione, il 17 febbraio 2019, nella Chiesa dei SS. Medici, alle ore 18.00.

Il ricavato della vendita sarà destinato alla nostra Fondazione , la LCIF – We serve.

 

Antonietta Orrico – Officer Comunicazione LC Nardò

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