Alla “Pasturizza”, dopo alcuni giorni di pesante, anzi, a tratti, opprimente, scirocco, da ieri ha iniziato a prevalere il ben più gradito vento di maestrale, con i suoi refoli, come è noto, provenienti da direzione nord – nord ovest.
Quindi, si è ripreso a respirare a polmoni pieni e distesi, con correlate sensazioni di sollievo e benessere ed è divenuto più allegro lo stesso stormire delle fronde dei pini.
A parte l’aggiuntivo e determinante godimento del mare a portata di mano, in questa atmosfera, bisogna proprio dirlo, sì che è una bella estate. Peccato che Imma ed Elena abbiano dovuto far ritorno alla loro abituale residenza, ma, tanto, a fine luglio, saranno nuovamente qui.
A proposito di ventilazione, mentre vado riprendendo amicizia con la penna, avverto che l’amico maestrale sta scivolando addirittura verso una netta tramontana, il che dovrebbe presupporre che, almeno per un tratto, si potrà ben sperare quanto a livello di appagamento fisico generale e, soprattutto, in termini di sonno ristoratore.
° ° °
Essendo in scadenza la revisione annuale del mio ciclomotore “Aprilia”, un cinquantino “Scarabeo”, approfittando del clima caldo, ho osato sfidare i residui postumi di un recente malanno personale ponendomi in sella al veicolo e, così, raggiungendo, in assoluta indipendenza e autonomia, l’apposito Centro di verifica e controllo, situato a San Cassiano, a dodici chilometri di distanza da Marittima.
Alla moderata velocità del mezzo, ho letteralmente goduto della breve trasferta su due ruote. Grazie allo scarso traffico, ho, fra l’altro, avuto modo di occhieggiare sulle distese di campi e giardini con una serie di raccolti pronti e anche sui copiosi frutti pendenti dagli alberi, specialmente nespole e albicocche.
Affidato lo “Scarabeo” al giovane addetto alla revisione, nelle more che si provvedesse all’adempimento, mi sono spostato a piedi nel vicino esercizio di pasticceria e bar “Le dolci fantasie”, ordinando un caffè in ghiaccio e un pasticciotto piccolo con crema. Dopodiché, approfittando della climatizzazione attiva nella sala, mi sono trattenuto a un tavolo sfogliando un quotidiano locale.
A servire al bar, avevo da subito scorto una giovane donna bionda, carina e sorridente, cioè a dire carica di naturale empatia. Sicché, avanti di sortire dall’esercizio, non ho resistito a riaccostarmi al bancone, incrociando nuovamente quel volto piacevole e facendo partire, in un attimo, la sequenza: “Complimenti, sei molto bella!”, “Non sei italiana, vero?” (risposta, “Vengo dalla Polonia”), “Ma parli benissimo la nostra lingua” e lei: “E’ ormai da tanto tempo che vivo qui”.
Quindi lo scambio finale di un arrivederci.
Riguadagnato lo stabile del Centro revisioni, mentre l’operaio si accingeva a dare inizio al controllo del mio “Scarabeo”, io mi sono messo tranquillo ad attendere nei pressi di una parete del grande capannone.
Invero, di fatto, è stata una pausa di calma tranquillità e, però, dai connotati speciali.
A voler dire che il vasto locale risuonava di un vero e proprio concerto di cinguettii, per opera di un nutrito stuolo di passerotti, i quali volteggiavano da padroni, insomma a loro completo agio, in lungo e in largo, appena più in basso rispetto alla volta del capannone, di tanto in tanto annidandosi in piccole aperture esistenti lungo i muri perimetrali, guizzando velocemente, sempre col sottofondo dei loro minuti e pure vivaci cinguettii.
A un certo punto, ho notato che il giovane revisore interveniva con battiti delle mani, quasi a voler amorevolmente raccomandare ai volatili di non esagerare, di contenere il loro festoso saettare. Mi è sembrato che, tra le parti, esistesse una sorta di “accordo fra gentiluomini”, per una convivenza senza eccessi da rispettarsi reciprocamente.
A valle di un simile opinato accordo, un particolare effetto concreto: nessuna traccia degli ospiti alati sul pavimento del capannone, mentre esattamente l’opposto era dato di vedere volgendo lo sguardo verso i numerosi grandi fari di illuminazione fissati al soffitto, in alto.
Le relative coppe esterne e, in parte, anche i frontali luminosi, mostravano, più che evidente, la presenza dei “bisognini” dei passerotti ospiti del Centro revisione autoveicoli di San Cassiano.
La Cicoria tra usi medici e magici, nel mito e nelle credenze popolari
La Cicoria (Cichorium intybus, fam. Asteracee) ha proprietà depurative, diuretiche, lassative e toniche.
Contiene inulina, principi amari e sali minerali, acido dicaffeiltartarico.
In medicina popolare era utilizzata come stimolante epatico, renale e intestinale: per questo si beveva l’acqua in cui erano state cotte le foglie.[1] L’insalata di cicoria insieme ad altre erbe come il grespino (Sonchus oleraceus) veniva utilizzata per combattere l’anemia.[2]
I monaci erboristi utilizzavano il decotto di radici come depurativo dell’organismo, e inoltre contro il diabete, contro l’inappetenza e contro l’itterizia.
L’infuso, veniva utilizzato per depurare reni e fegato e come leggero lassativo. Lo sciroppo, per disintossicare; il cataplasma di polpa cotta, come emolliente e lenitivo per la cute.
E’ stata utilizzata anche come succedaneo del caffè (le radici tostate e macinate); in alternativa, veniva utilizzata in aggiunta al caffè stesso.
Il medico cinquecentesco Castore Durante nel suo Herbario novo consigliava la Cicoria come rassodante del seno.
Questa pianta godeva anche di usi e proprietà “magiche”: si riteneva che rendesse i nervi saldi a chi la usava, e per questo si credeva che chi la consumasse regolarmente fosse in grado di superare con facilità gli ostacoli della vita.[3] Inoltre, era considerata un’erba propiziatoria e portafortuna.
Come per una serie di Solanacee (Giusquiamo, Mandragora ecc.) e per la Felce[4], si credeva che avesse il potere di rendere invisibili. A questo scopo, una procedura di raccolta è molto simile a quella della Mandragora (si ritrova descritta in un testo del tossicologo Enrico Malizia che raccoglie, a fini di documentazione etno-antropologica, una selezione da antichi formulari, manoscritti e testi magici che vanno dal 1400 agli inizi del 1800): “cogliete la cicoria a mezzanotte in punto, con un coltello d’oro, quando il sole è nella costellazione del leone. E’ molto importante che la raccolta come tutto il resto dell’operazione sia compiuta nel massimo silenzio. Subito dopo aver raccolto la cicoria, senza muovere un passo, mordete di netto le cime delle foglie e masticatele a lungo prima di deglutirle. Gli steli devono essere conservati con la massima cura in un sacco di iuta, posto in un luogo fresco e buio, fino al magico momento. A questo punto ponete su un tavolo nudo un recipiente di legno nel quale è stato preparato un letto con gli steli secchi della cicoria. Quindi aggiungete: basilico, radicchio, belladonna, giusquiamo nero, stramonio. Mescolate in senso orario, tritate il tutto e fate macerare in un fienile per trenta giorni. Filtrate con lino e bevete tre mestoli del liquido al cantare del gallo. […] Nessuno potrà vedervi per un intero giorno.”[5] Occorre notare che dopo la masticazione della cicoria il “procedimento” prescrive l’ingestione di Solanacee psicoattive, che sono le vere responsabili della suggestione (e della alterazione psichica) che fa ritenere allo sperimentatore di diventare invisibile.
La cicoria insieme a semi di cipolla,semi di satirione, semi di rughetta, di asparagi, di carota e varie erbe e radici: zenzero, ortica, ecc.) è presente nella composizione di un “elettuario per eccitare i sensi”.[6]
La ricetta di un filtro per sedurre un uomo comprende: peli dell’ascella e del pube (della donna che deve sedurre), tre gocce di sangue mestruale, e tre gocce di sangue fatte stillare pungendo il proprio dito mignolo. Questi ingredienti vanno mescolati a: infuso di cicoria, infuso di cannella, infuso di chiodi di garofano, infuso di aloe, idromele. Filtrare il tutto attraverso un panno di lino. Raccogliere il liquido così ottenuto, in una bottiglia di vetro chiusa e far riposare per cinque giorni al buio e al fresco. Trascorsi i cinque giorni, il filtro va consacrato in una chiesa durante una Messa, pronunciando la formula magica: “Sangue di Cristo, dèmone attaccami a lui. Bisogna che tu lo leghi a me affinchè non mi possa lasciare”. Così consacrato, il filtro è pronto ad agire, e verrà somministrato all’uomo da legare. [7]
Una leggenda rumena narra di una bella donna, Domna Floridor (Dama dei Fiori) che un giorno fu chiesta in sposa dal Sole. Ma questa donna rifiutò la richiesta, disprezzando l’ astro. Così, indignato, il Sole trasformò la donna in un fiore di Cicoria. Il fiore di Cicoria, ovvero Domna Floridor, è costretto a fissare il Sole nel momento in cui appare all’orizzonte, e a rinserrare i suoi petali quando la sua luce scompare. Per questo motivo, la Cicoria fu chiamata anche “sposa del sole”. In Germania era detta anche “erba del sole” o “erba del solstizio”.[8]
Un’altra credenza vuole che la Cicoria debba essere sradicata giammai con le mani, ma soltanto con un corno di cervo o con una moneta d’oro (che simboleggiano rispettivamente i raggi e il disco del sole), nel giorno di San Pietro e Paolo, il 29 giugno. Questa procedura avrebbe permesso a chi portava con sé la cicoria, di legare a sé l’uomo o la donna amata. Ma la radice, così come ha il potere di legare, si credeva, ha anche il potere di slegare. Ha inoltre il potere di togliere le spine dalla pelle. [9]
Secondo un’altra leggenda, di origine bavarese, Dio trasformò in fiori una principessa e le sue damigelle, per il seguente motivo: la principessa era stata abbandonata dal suo sposo, e si sentiva, per questo, morire di dolore. “Vorrei morire e non lo vorrei, per rivedere il mio amato dappertutto”, disse. Le damigelle, solidali con la principessa e legatissime a lei, dissero: “anche noi, vorremmo e non vorremmo morire, perchè il principe possa vederci su ogni strada”. E così, Dio volle esaudire i desideri di principessa e dame, cambiandole tutte in fiori: “tu, principessa, resterai con il tuo abito bianco su tutte le strade dove passerà il tuo amato; voi, damigelle, rimarrete sulle strade vestite di azzurro in modo che egli possa vedervi dappertutto”. Per questo, nei paesi tedeschi il fiore della cicoria è chiamato Wegwarte o Wegeleuchte (“guardiana delle strade”, “luce delle strade”). La cicoria selvatica nasce difatti ai bordi di strade e sentieri, e ha fiori di un azzurro lucente.[10]
Note
[1]Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, Centro di Studi Salentini, Lecce, 2012, pag. 201
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
Brindisi nella guerra greco-gotica (seconda parte)
Nella primavera del 547, sorpresivamente Belisario riprese Roma, che era rimasta sguarnita di truppe gotiche e, per poter proseguire la guerra, richiese insistentemente nuovi rinforzi a Costantinopoli, da cui finalmente partirono alcuni contingenti alla volta dell’Italia, seguendo la rotta più breve che portava direttamente a Otranto. Un primo rinforzo, che giunse costituito da trecento Eruli comandati da Vero, appena sbarcato si diresse su Brindisi, accampandosi nelle vicinanze della città.
«Vero doveva essere un poco di buono; Procopio dice che oltre a non essere una persona seria, era anche un formidabile beone: il vino lo rendeva temerario fino all’inverosimile e quando Totila lo attaccò, massacrò molti dei suoi soldati e lui si salvò in estremis solo grazie all’arrivo di una flotta imperiale, forte di ottocento uomini comandati dall’armeno Varazze, diretta a Taranto [per unirsi alle forze di Giovanni].»1
Il Salento, per la sua strategica posizione, in quel frangente della guerra si trovò di fatto al centro del conflitto e Totila impegnò le sue forze a prendere Taranto – che nel mentre era stata fortificata da Giovanni – per poter meglio ostruire la via ai rinforzi imperiali richiesti da Belisario che li aspettava asserragliato dentro Roma. Dopo aver conquistato Taranto, infatti, Totila tentò di riprendersi Roma, ma non ebbe successo giacchè Belisario riuscì a respingere i suoi tre attacchi. Seguirono due anni in sostanziale situazione di stasi, finchè, nell’autunno del 549 Totila pose nuovamente l’assedio a Roma. Si trattò anche questa volta di un lungo assedio, nel mezzo del quale Belisario vanamente tentò di farsi mandare rinforzi dall’imperatore Giustiniano, inviando persino la propria moglie a Costantinopoli a perorare le sue richieste, ma questa solo ottenne che il marito potesse ritornare a casa. Poi, nuovamente, gli Isaurici tradirono aprendo la Porta di San Paolo al nemico e Totila entrò di nuovo a Roma, dove, con il Senato già trasferito quasi al completo a Costantinopoli, restavano ormai solo pochi sopravvissuti dei duecentomila cittadini che vi abitavano prima della guerra. E con Roma, i Goti di Totila consolidarono il loro dominio su gran parte dei territori italiani, con la sola eccezione di alcune poche città, tra cui Otranto.
Nel 552, Giustiniano – spinto anche dal papa Vigilio, dai senatori e dagli altri esuli italiani con lui rifugiatisi a Costantinopoli – decise di ravvivare la guerra e ne affidò il comando a Narsete, comes sacri erari, ministro del tesoro e prepositus sacri cubiculi, gran ciambellano di corte, eunuco armeno, ultrasettantenne, grande organizzatore e grande politico, il quale si rivelò essere anche uno straordinario e vincente stratega militare. Narsete, con un nutrito ed eterogeneo esercito entrò in Italia dal Veneto, spostando così nuovamente il teatro delle operazioni della guerra nelle regioni centro-settentrionali e, muovendosi verso Sud lungo la costa, raggiunse rapidamente Ravenna, evitando le forze del giovane comandante goto Teia, che si erano appostate a Verona per inteccertarlo. Totila quindi abbandonò Roma, ma raggiunto, fu sconfitto nella ‘battaglia dei giganti’ a Tagina, tra Gubbio e Gualdo Tadino, dove cadde ucciso alla fine di giugno 552, dopo aver regnato per undici anni. Nel 553 Narsete con i suoi soldati entrò a Roma accolto come un eroe. Poi, anche Teia, il giovane successore di Totila, proclamato a Pavia ultimo re dei Goti, che si era diretto a Sud, fu intercettato assediato e sconfitto, e dopo aver combattuto strenuamente fu ucciso tra i monti Lattari, presso il Vesuvio nel marzo del 553, mentre il resto dei caposaldi gotici rimasti nel Meridione, si arrese in rapida successione alle truppe imperiali.
La guerra greco-gotica era, in principio, finita e gli imperiali bizantini di Giustiniano avevano sconfitto i Goti, il cui regno d’Italia era stato definitivamente cancellato. Restavano comunque alcune sacche di resistenza e di rivendicazione gotica, una delle quali, presso i confini nordici dei territori veneti, faceva in qualche modo riferimento al regno di Teodebaldo, re dei Franchi d’Austrasia, presso il quale chiesero aiuto i Goti d’oltre Po, mostrandosi disposti a compensarlo lautamente. Teobaldo, in posizione di formale neutralità rifiutò, ma favorì l’entrata in campo di due Alemanni Suavi, fratelli e condottieri inescrupolosi, Leutari e Boccellino, disposti a fornire “a titolo personale” l’aiuto militare richiesto. I due Alemanni predisposero con la massima celerità una spedizione militare, che nella primavera del 553 attraversò le Alpi, entrò in Italia e si diresse rapidamente verso il fiume Po.
«All’ingresso dei due duchi in Italia, l’assetto della penisola era parecchio instabile: alcune città o fortezze erano tenute da Goti passati all’ossequio dell’Impero, altre da Goti indipendentisti, certe altre erano ancora sotto attacco o assedio romaico. Alle prime favorevoli manovre dell’esercito franco-alamanno, qualche roccaforte ostrogota della Tuscia che si era già arresa insorse, col proposito di riunirsi ai connazionali transpadani e forze d’invasione.»4
«L’attacco franco-alemanno si rivelò da subito potenzialmente assai insidioso, anche perché molti Goti sbandati della Liguria e dell’Emilia vi si unirono: da Parma la spedizione toccò l’Etruria e nella primavera del 554 si spinse verso Roma, oltrepassata la quale, nel Sannio, gli invasori si divisero in due colonne d’attacco, ciascuna capitanata da uno dei fratelli: Buccelino guidò una scorreria lungo la Campania, la Lucania e il Bruzzio, fino allo stretto di Messina.»5
«Leutari, con l’altra schiera infestava l’Apulia e le terre Calabre; e dopo che [essendo di certo passato anche da Brindisi] giunse a Otranto, che è proprio al confine del mare di Adria e dello Ionio, tutti quelli che c’erano della stirpe dei Franchi, con grande religiosità e riverenza risparmiavano gli edifici sacri per ubbidire alle giuste e rette volontà divine; anche perché – scrive Agazia – essi avevano sulla fede le stesse convinzioni religiose dei Romani.»4
«La colonna di Leutari, che aveva intrapreso l’itinerario costiero adriatico, [sulla via del ritorno in piena estate del 554] si scontrò duramente con la piccola ma ben guidata guarnigione bizantina di Pesaro, perdendo in quella circostanza buona parte di quel bottino che cercava di mettere in salvo in territorio sotto controllo Franco e, attraversato in qualche modo il Po, si diresse in cerca di rifugio nella Venetia, accampando nel castrum di Ceneda, dove fu colta da una mortale epidemia in seguito alla quale morì lo stesso Leutari… Narsete, intercettato e inseguito Buccelino, [in autunno] ne aveva rovinosamente sconfitte le schiere nei pressi del Volturno, dove cadde ucciso in combattimento lo stesso Buccellino.»5
********
Anche se la lunga ed articolata guerra greco-gotica coinvolse tutta l’Italia, dal Veneto alla Sicilia, e danneggiò seriamente la maggior parte della penisola, lo fece comunque con intensità e modalità diverse a seconda delle aree che interessò nei differenti momenti del suo percorso, non dovendosi pertanto necessariamente accettare del tutto la pur stereotipata lettura di un’Italia uscita completamente distrutta dal conflitto, con le campagne devastate e le città rase al suolo, la popolazione immiserita e deportata, quando non uccisa o decimata dalle epidemie.
Brindisi, nel lungo De bello Ghotico di Procopio di Cesarea completato da Agazia di Mirina, è citata pochissime volte, meno che le dita di una sola mano e ciò, in tale circostanza, potrebbe forse assumere un significato positivo, nella misura in cui “a meno fatti di guerra da raccontare, meno morti e meno distruzioni da contabilizzare”.
«Durante il ventennale conflitto greco-gotico, Brndisi fu occupata in varie occasioni dai contendenti, ma i fatti si svolsero senza colpo ferire… Sembra che durante il conflitto fra Goti e Bizantini, i Brindisini, per proteggere i loro interessi economici, abbiano seguito una politica ambigua parteggiando, di volta in volta, per l’occupante di turno, consentendo alla città di uscire dalla guerra col minimo dei danni… Si sa che i danni più considerevoli la guerra li arrecò con la devastazione delle campagne, battute dagli opposti eserciti. Tale devastazione dovette provocare, di riflesso, squilibrio nell’economia brindisina che contava molto, allora, sull’esportazione dei prodotti agricoli.»3
In effetti, dall’analisi delle fonti pervenute, sembrerebbe che le azioni di guerra abbiano interessato più direttamente da vicino il territorio del brindisino e meno la propria città e comunque, di fatto, solo durante la seconda fase della guerra, quella corrispondente al regno goto di Totila e del suo effimero successore Teia, a partire dal ritorno in Italia di Belisario nell’estate del 544, e quindi per circa un decennio.
«Possiamo chiederci quale fosse l’atteggiamento delle popolazioni meridionali: sappiamo che durante la campagna di Belisario – prima fase della gerra – Bruzi e Calabri in particolare, non avendo truppe gotiche nel loro paese, volentieri patteggiavano per il generale bizantino. Ma – nella seconda fase della guerra – con la situazione militare cambiata, forse, è legittimo pensare che anche l’atteggiamento di quelle popolazioni cambiasse e si volgesse a favore dei Goti… In conclusione, gli atteggiamenti delle popolazioni furono determinati di volta in volta dal variare delle circostanze e a seconda dell’opportuntà del momento.»1
Se dunque la causa dell’indubbio profondo e prolungato decadimento che soffrì Brindisi nei secoli che seguirono a quell’evento bellico6 non fu tutta semplice e diretta conseguenza della guerra, e se inoltre – come è ben documentato anche da Cassiodoro – quel decadimento non si era manifestato prima dell’evento e forse – como farebbe presumerlo la Pragmatica Sanctio emanata da Giustiniano alla fine della guerra – neanche immediatamente dopo, allora cosa realmente lo determinò? Quale ne fu la reale causa? Molto probabilmente, la spiegazione è da ricercare direttamente nel cambiamento indotto dal risultato della guerra, determinato cioè dalla sconfitta dei Goti e dalla vittoria dei Greci, in definitiva, dalla nuova conduzione politica e amministrativa: quella bizantina dei vincitori, i Greci, nuovi dominatori della regione.
«Vi contribuirono l’errata politica economica dei successori di Giustiniano, il precario stato di sicurezza delle vie di comunicazione terrestri ed infine una serie di catastrofi naturali… Lo spopolanento delle campagne, le inumane condizioni di vita dei contadini ed il fiscalismo eccessivo furono le cause della depressione che, iniziatasi in questo periodo, sarà costante per Brindisi fino alla fine del primo millennio… Con il declassamento del porto di Brindisi e la rivalutazione di quello otrantino, Brindisi perde il ruolo che aveva esercitato nella regione sin dall’età messapica… E sotto Costante II, la pressione fiscale esercitata dai Bizantini divenne insostenibile…»3
Note
1 O. Giordano, La Guerra Greco-Gotica nel Salento in “Brundisii Res” – 1974
3 G. Carito, Lo stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670 in “Brundisii Res” – 1976
4 G. Arnosti, Goti e Franchi Merovingi Nella Venetia aa. 450-565 – 2015
5 M. Gusso, Franchi Austrasiani nella Venetia del VI Secolo dC – 2002
La storiografia classica colloca convenzionalmente il passaggio dal Tardoantico al Medioevo in coincidenza con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, a sua volta associata alla deposizione dell’ultimo imperatore, Romulo Augustulo, per mano del generale romano di origini unne Odoacre, nel 476 dC., estromesso dopo tredici anni dal goto Teodorico e da questi ucciso nel 493. Da qualche tempo però, gli storici hanno messo in discussione tale convenzione, osservando che più significativo che l’individuazione di una data precisa in cui collocare il trapasso, sia l’individuare la fine della persistenza dell’antico, cosa che si traduce inevitabilmente in accettare una transizione più o meno lenta e solo eventualmente più o meno legata a un qualche specifico accadimento, in sostituire quindi a una data un periodo e infine, in considerare un passaggio non unico ma diverso da luogo o regione a regione.
In questo ordine di idee, per Brindisi e per la sua regione salentina, probabilmente lo spartiacque tra il Tardo Antico e l’Alto Medio, potrebbe averlo costituito la ventennale guerra greco-gotica iniziata nel 535, una sessantina d’anni dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Infatti, anche se le fonti sul corso della guerra intorno a Brindisi non sono molto prodighe di notizie e sono comunque sufficienti a poter determinare la ‘non occorrenza’ di un evento dalla portata emblematica di un cataclisma epocale, è indubbio che l’avvento del dominio bizantino conseguente al risultato di quella lunga guerra – che vide finalmente sconfitti i Goti – costituì certamente un cambio profondo e una interruzione drastica per un sistema socioeconomico e politico che, se pur in graduale e oscillante evoluzione, con i Goti si era mantenuto in sostanziale continuità con il trascorso Basso Impero.
Le Variae di Caissiodoro Flavius Magnus Aurelius (~486-560) costitiscono la fonte più diretta circa il cinquantennale periodo del dominio gotico in Italia, con il re Teodorico, Amalasunta sua figlia reggente del fratello Atalarico, e il re Teodato cugino marito e omicida di lei. Mentre numerosi ed interessanti dettagli sono riportati nello “Stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670” di Giacomo Carito in Brundisii Res, 1976 e “Sulle Condizioni Economiche della Puglia dal IV al VII Secolo dC” di Francesco M. De Robertis, 1951 in “Archivio Storico Pugliese”.
Fonte principale della guerra gotica è, invece, il De bello Gothico di Procopio di Cesarea (~495-565), storico greco, segretario e consigliere al seguito del comandante bizantino Flavio Belisario, in parte – fino al 540 – testimone diretto e privilegiato degli eventi che si susseguirono in Italia fin dallo sbarco in Sicilia degli eserciti bizantini inviati dall’imperatore Giustiniano – l’ultimo imperatore con origini romane – completato dagli scritti di Agazia di Mirina (~536-582), un altro storico bizantino considerato il continuatore di Procopio, che iniziò la sua narrazione della guerra dal punto – circa il 550 – in cui l’interruppe Procopio, descrivendone di fatto le fasi finali con le campagne di Narsete, il generale bizantino eunuco e grande stratega, che rilevò Belisario dal comando fino a culminare vittoriosamente la guerra.
********
La lunga guerra si sviluppò in due fasi ben separate tra di esse. La prima vide una relativamente rapida vittoria dei Bizantini di Belisario che, sbarcato nel luglio del 536 in Sicilia e conquistatala, varcò lo stretto e attraverso la Calabria si diresse a Napoli che, assediata e conquistata in soli venti giorni, fu sacchegiata indiscriminatamente. In seguito, lo sconfitto re goto Teodato venne sacrificato dai suoi ed al suo posto fu eletto Vitige, il quale dalla capitale del regno, Ravenna, si dispose a organizzare la reazione gotica, mentre Roma senza resistere si arrendeva a Belisario il 10 dicembre del 536. Quindi, Vitige tentò la riconquista di Roma assediandola con un numeroso esercito, ma vanamente e dopo un anno ripiegò nuovamente su Ravenna. Poi, trascorso qualche altro anno di alterne vicende belliche – che nel 537 videro lo sbarco a Otranto di un contingente fresco di mille soldati e di ottocento cavalieri comandati dal generale bizantino Giovanni – fu Belisario a porre l’assedio a Ravenna, che resistette a lungo finchè un vorace icendio, probabilmente doloso, distrusse tutte le scorte di grano. Vitige allora, nella primavera del 540, decise di capitolare e, al seguito di Belisario, fu portato come trofeo a Costantinopoli, dove poi rimase in esilio dorato.
La prima fase della guerra, conclusasi a favore dei Greci, aveva avuto come teatro delle operazioni essenzialmente Roma e le regioni del centro e del nord’Italia e i Goti, in seguito alla capitolazione di Vitige, nel settembre-ottobre del 541 elessero re Baduila, detto Totila che vuol dire ‘immortale’, dopo il breve regno di Ildibald, uno zio di Baduila che presto era rimasto ucciso e dopo Erarico, eletto re ma poi contrastato ed ucciso dopo soli cinque mesi di regno.
«Il ritorno di Belisario a Costantinpoli aveva lasciato l’Italia in mano ai comandanti militari [capeggiati da un debole Costanziano] inesperti di amministrazione, e agli esattori delle tasse, espertissimi ed inesorabili nello spremere denaro anche là dove l’indigenza e la miseria rendevano precaria la stessa vita quotidiana. Le popolazioni esasperate cominciavano già a rimpiangere il governo del Goti.»1
Totila – che da subito applicò una politica intelligente, seguendo l’esempio del suo antecessore Teodorico, facendo il contrario dei Bizantini e gravando i grandi proprietari e favorendo contadini e coloni – organizzata la riscossa, con anche il favore delle popolazioni, procedette a riconquistare gradualmente i territori controllati dai Bizantini e a rioccupare le regioni più meridionali del regno, che non avendo subito le devastazioni della guerra costituivano territori ottimi per i rifornimenti di vettovaglie.
«E poiché niun nemico veniagli contro, sempre mandando attorno piccoli drappelli di truppe, [Totila] operò fatti di gran rilievo. Sottomise l’Abbruzzo e la Lucania e s’impossessò delle Puglie e della Calabria, e i pubblici tributi egli riscosse, e i frutti degli averi si appropriò in luogo dei possessori dei terreni, e di ogni altra cosa dispose come signore d’Italia.»2
Era così iniziata la seconda fase della guerra, fase questa che coinvolse da vicino anche la Puglia, il Salento – cioè l’antica Calabria – e quindi Brindisi. Presa Napoli, nell’aprile del 543, Totila si diresse ad assediare Roma e al contempo inviò una parte dell’esercito verso Sud, su Otranto, sapendo che quella città con Brindisi e Taranto costituiva un triangolo chiaramente strategico per la logistica bizantina, che da quei tre porti dipendeva primordialmente per mantenere attivi ed agili gli indispensabili collegamenti militari e mercantili con la capitale e con il resto dell’impero.
A quel punto, Giustiniano, preoccupato per il precipitare degli eventi, nell’estate del 544 rispedì Belisario in Italia, e questi, in attesa dei rinforzi da destinare alla difesa di Roma, raggiunse Otranto evitandone giusto in tempo la resa e inducendo i Goti, resi timorosi dalla sua presenza, ad abbandonare l’assedio e a recarsi a Brindisi.
«Saputo di ciò, i Goti che stavano ad assediare quel castello, tolto subito l’assedio, recaronsi a Brindisi che dista da Otranto due giorni di cammino, ed è situata sulla riva del golfo e sprovvista di mura.»2
«Procopio afferma che la città era priva di mura, ma non specifica se le stesse erano state demolite o abbattute per sguarnirla della sua fortificazione o per conquistarla in fase di guerra. Nella circostanza appare probabile che le mura fossero ormai vecchie e cadenti, dato che l’esame della superstite muraglia romana, o meglio terrapieno, che è sul seno di Ponente del porto, nei pressi di corte Capozziello, di fronte a quello che doveva essere l’approdo del porto, dimostra che i Romani si limitarono ad accomodare le preesistenti mura messapiche non costruendone di nuove, almeno da quel lato. Inoltre, non risultano esserci stati assedi o scontri armati dal tempo di Antonio e Ottaviano fino alla guerra gotica. È probabile quindi, che nei cinque secoli intercorsi tra i due eventi, le mura siano state superate dallo sviluppo urbanistico, o che fossero in rovina durante la guerra per essere ormai vecchie.»3
Salpando da Otranto, Belisario si diresse con un ridotto esercito alla volta di Roma assediata dai Goti, mentre Giovanni, l’altro generale bizantino, preferendo spostarsi verso Roma per via terrestre, si attardò con i suoi soldati in Calabria e riuscì a sorprendere i Goti che custodivano Brindisi, attaccandoli di sorpresa grazie alla cattura e al tradimento di uno di loro e obbligandoli a fuggire dalla città.
«A Giovanni, che l’interrogava in che modo lasciandolo vivo potrebbe giovare ai Romani ed a lui, questi rispose che lo avrebbe fatto piombar sui Goti mentre men se l’aspettavano. Giovanni disse che quanto chiedeva non gli sarebbe negato, ma che prima ei doveva mostrargli i pascoli dei cavalli [dei Goti che custodivano Brindisi]; ed avendo anche in ciò acconsentito il barbaro, andò egli con lui, e dapprima trovati i cavalli de’ nemici che pascolavano, saltaron su di essi tutti quelli di loro che trovavansi a piedi, ed erano molti e valorosi, quindi di galoppo corsero contro il campo nemico. I barbari, trovandosi senz’armi, del tutto impreparati e stupefatti pel subitaneo attacco, senza dar niuna prova di coraggio, furono in gran parte uccisi e alcuni pochi scampati recaronsi presso Totila. Giovanni con esortazioni e blandizie cercò di rendere tutti i Calabri bene affetti all’imperatore, promettendo loro grandi beni per parte dell’imperatore stesso e dell’esercito romano. Sollecitamente poi partitosi da Brindisi occupò la città chiamata Canosa, che trovasi nel centro delle Puglie e dista da Brindisi cinque giorni di cammino per chi vada verso l’occaso e verso Roma.»2
Belisario non riuscì a liberare Roma dall’assedio di Totila e questi il 17 dicembre del 546 – corrotte le sentinelle della Porta Asinaria – penetrò in città mentre i Greci già stremati dall’assedio, imprendevano una disordinata fuga. Quindi, lasciato in Roma un limitato contingente di forze, Totila si diresse verso Sud per affrontare le forze del generale Giovanni. Questi, saputolo, pensò bene di non affrontarlo e, rinunciando di fatto a raggiungere Roma ancora assediata dai Goti, preferì tornare a rifugiarsi a Otranto. E così tutto il paese ‘al di qua del golfo’, ad eccezione di Otranto, tornò nuovamente sotto i Goti di Totila.
Note
1 O. Giordano, La Guerra Greco-Gotica nel Salento in Brundisii Res – 1974
2 Procopio Di Cesarea, La guerra Gotica. Testo greco emendato sui manscritti con traduzione italiana a cura di Domenico Comparetti – 1895
3 G. Carito, Lo stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670 in “Brundisii Res” – 1976.
Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (epilogo)
Il pennino raschiava la pergamena. Don Matteo Rocca, con mosse lente, appose la firma in calce al testo scritto di fresco con quella grafia spigolosa che con l’età era andata ulteriormente peggiorando.
Don Celestino si avvicinò all’arciprete che tuttavia non lo sentì.
“Sia lodato Gesù Cristo” urlò il cantore quando il vecchio parroco ebbe riposto il pennino nel calamaio.
“Sia lodato Gesù Cristo don Celestino” fece quello sorpreso, ruotando su se stesso “Non vi aspettavo. Come state? Avete una faccia grigia! Non vi sentite ancora bene immagino. Il vostro servo mi ha detto che stavate molto male”
“Va meglio grazie. Voi tutto bene?”
“Diciamo che stavo meglio ieri in campagna, ma il vostro servo è venuto a chiamarmi stamattina per la morte del Letizia” la voce tradiva il fastidio per quella chiamata in anticipo ai propri doveri pastorali “Vedete” continuò l’arciprete “Ho appena finito di registrarlo sul libro dei morti”
E indicò il registro.
Don Celestino si avvicinò e lesse velocemente traducendo istintivamente in italiano il latino mal scritto del suo superiore
“Il giorno tredici agosto millesettecentoottanta, Michele figlio dell’illustrissimo Francesco Letizia della città di Alessano e della fu Petronilla Mauro della Terra di Aradeo morì il giorno sopra riportato percosso con un coltello così come dicono”. In realtà il parroco aveva scritto “così come dice” ma poi aveva depennato e corretto.
Il cantore lo guardò e il vecchio don Matteo Rocca, pur miope e malconcio, capì il senso di quello sguardo
“Ho evitato di scrivere che siete stato voi a dirmi com’era morto” disse più per far pesare l’inusualità della faccenda che per scusarsi “e ho anche detto di essere stato io a confessarlo”
“Avete fatto bene” rispose freddo don Celestino e riprese a leggere
“…e percosso visse diciassette giorni e ricevette il sacramento della penitenza da me soprascritto Arciprete, ristorato col sacro viatico e olio degli infermi corroborato e furono fatte le solite preghiere e il suo corpo fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale, all’età di circa ventiquattro anni”
Don Celestino chiuse il registro e fece per andarsene
“Avete idea di cosa sia successo?” chiese quasi distrattamente l’arciprete prima che il cantore fosse uscito “Nessuno in paese sembra saperne nulla e per evitare di suscitare curiosità ho preferito seppellirlo subito”
“Avete fatto bene” ribadì il cantore “Cos’è successo me lo ha detto in confessione, don Matteo, ma l’ho potuto assolvere”
“Bene, bene. Tornatevene a casa ora. I vostri occhi parlano per voi: state ancora male. Andate magari a stare un po’ in campagna, voi che potete”
“Accetto ben volentieri il vostro consiglio” rispose e si congedò.
Appoggiandosi al bastone rientrò in chiesa, ma non si inginocchiò neppure per salutare il sacramento. Non riusciva a non pensare a quanto successo. Avrebbe potuto raccontare tutto a don Matteo, magari sotto la garanzia del sacramento della penitenza. Del resto avrebbe dovuto chiedere l’assoluzione per il fatto di non aver né confessato né unto il Letizia. Eppure non aveva voluto farlo. Perché? Lo capì attraversando la piazza e volgendo nuovamente lo sguardo verso la finestra della vecchia camera da letto di donna Petronilla. La camera che aveva ospitato per diciassette lunghi giorni il figlio morente.
La vicenda alla quale aveva assistito e che, per alcuni versi, aveva vissuto in prima persona, aveva poco a che fare con i sacramenti, con il divino e con la religione. Era un’assurdità un pensiero del genere nella testa di un sacerdote, ma era così. Quella storia era una faccenda solo umana, come il volto della madonna ritratta da Michele Letizia o il sorriso del suo bambino. Era la storia di un amore tra una donna già sposata, Agata Calò, moglie di Alfonso Castriota, ed un giovane uomo ribelle. Un artista che per quella donna era giunto ad uccidere il legittimo consorte venendone ferito a morte; un pittore dal talento eccelso, come altri non aveva ammirato almeno in provincia, capace di dedicare la sua prima vera ed importante opera, nonché l’ultima, all’amata, eternandone sulla tela il viso delicato, bellissimo, con gli occhi di smeraldo e le labbra pallide, circondato da un velo blu come la notte ma molto più luminoso. Lo stesso blu che Michele aveva inavvertitamente impresso, quasi una firma, sul corpo del marito di Agata. Lo stesso blu che lui, affacciandosi dalla finestra della vedova Resta e poi rimirando dalla piazza la casa dei Mauro, aveva immediatamente riconosciuto, pur senza accorgersene nell’immediato, sul parapetto della finestra della camera da letto di donna Petronilla. Quel magnifico blu brillante che ora arricchiva il velo di una stupenda madonna delle Grazie. Il resto era una cronaca come tante altre. Probabilmente, saputo dell’omicidio, donna Giovanna Vasquez d’Acugna, che quella tela aveva voluto, aveva deciso di non servirsi più dell’opera del giovane pittore. E la scelta era stata talmente risoluta da portare ad interrompere tutti i lavori di aggiustamento nella chiesa della Madonna delle Grazie, il cui altare centrale avrebbe dovuto custodire il quadro in una magnifica cornice di pietra. Michele Letizia non si era sconfortato per la decisione di donna Giovanna e in diciassette giorni di agonia, nascosto nel palazzo che era stato di sua madre e di suo nonno, aveva portato a compimento la tela, dando alla vergine il volto di Agata e ponendole tra le braccia un bimbo che non avrebbero mai avuto.
Avrebbe potuto raccontare tutto ciò all’arciprete? Don Matteo Rocca non lo avrebbe capito e lo avrebbe solo condannato per le menzogne dette. No, non gli importava nulla di ciò. Solo un aspetto di quella vicenda lo faceva stare tanto male e non poteva non ammetterlo, almeno a se stesso. La sua curiosità, quella maledetta curiosità senile, inutile e dannosa, lo aveva portato a vederci chiaro, ad indagare senza fermarsi davanti a nulla, neanche fosse un magistrato, un coadiutore della corte o una spia. Per farlo si era recato di notte in piazza, aveva voluto provare le proprie intuizioni anche al costo di introdursi in casa dei Mauro impedendo così ad Agata, fuggita per le urla della vedova Resta, di rientrarvi per trascorrere gli ultimi istanti con Michele. Ecco la ragione del suo tormento. Aveva negato a Michele la pace celeste e ad Agata quella terrena.
Avvolto in quei rimorsi era intanto giunto vicino casa. Il vecchio servo sedeva sulla soglia ingobbito, le braccia appese lungo il corpo e lo sguardo fisso nel vuoto.
“Attacca il calesse alla giumenta” gli disse don Celestino scuotendolo da quella sorta di catalessi “Quest’anno in campagna andiamo con due giorni di anticipo”.
“Ogni tanto una buona notizia” commentò con poco entusiasmo il servitore.
Cosa c’è di falso e cosa di vero?
Forse conviene partire da quest’ultima categoria che accorpa la gran parte delle cose riportate nel racconto. Le fonti utilizzate per ricavare le notizie utili all’intreccio sono principalmente tre: le visite pastorali dei vescovi di Nardò redatte a fine Settecento, dalle quali ho tratto le informazioni sui luoghi sacri e sul clero; il catasto onciario del 1743, che mi ha permesso di conoscere le proprietà dei vari personaggi, le rispettive abitazioni e indirizzi; i registri dei defunti, dei battesimi e dei matrimoni che, oltre ad aver fornito lo spunto principale della vicenda, mi hanno consentito di inquadrare cronologicamente i vari personaggi coinvolti.
Innanzitutto, dunque, posso dire che sono veri i luoghi. La via di Santa Caterina, il vicinato dei Mauri, il palazzo dei D’Acugna, quello dei Frigino, la piazza principale posti in continuità l’uno con l’altro e tante volte percorsi o fiancheggiati dai protagonisti della storia erano nel Settecento tra i principali riferimenti urbani di Aradeo. Sono assolutamente vere le chiese, nelle loro intitolazioni e in tanto di ciò che si è scritto nel descriverle: la chiesa madre con i suoi altari spogli, la sagrestia lugubre e corrosa dall’umidità è motivo di critica da parte dei vescovi per tutti i secoli della sua esistenza. Il Crocifisso, la Madonna di Costantinopoli e lo Spirito Santo che, all’epoca dei fatti, erano delle piccole chiese di una comunità povera, visitate dai presuli neretini senza mai segnalare in loro nulla di eccezionale; addirittura, per l’ultima delle tre cappelle verrà sancita l’interdizione a causa del suo stato di abbandono. È vera e ancora visibile ai tempi dei fatti la chiesa della Madonna delle Grazie che le carte ci dicono avere il proprio ingresso proprio di fronte alla casa dei d’Acugna (da qui l’idea dei lavori voluti da donna Giovanna Vasquez d’Acugna e della lite svoltasi al suo interno). Sono veri e tuttora visibili, seppur con modifiche rispetto al loro aspetto settecentesco, la colonna di San Giovanni, il castello baronale e la chiesa dell’Annunziata.
In secondo luogo, sono realmente esistiti nei giorni in cui si svolge la vicenda i personaggi citati (almeno quelli aventi un nome e un cognome). Ciò vale tanto per i protagonisti quanto per quelli che potremmo definire dei comprimari. Tra questi ultimo, erano vivi in quell’estate 1780 l’arciprete Matteo Rocca, don Ippazio Greco e l’arcidiacono Blasi, che tuttavia ho descritto come morente approfittando del fatto che il registro dei defunti dell’archivio parrocchiale ci riporta il suo decesso a meno di un anno di distanza (4 aprile 1871). Per i laici, sono realmente in vita nei giorni del duello il medico De Pandis, che dal catasto onciario sappiamo abitare in un comprensorio di case nel borgo, donna Giovanna Vasquez d’Acugna, ultima esponente della ricca famiglia gallipolina di cui abbiamo notizia ad Aradeo (morirà infatti l’1 maggio 1791, annorum quinquaginta duo circiter e sarà sepolta nella sua tomba privata in chiesa, in proprio monumento in hac Parochiali Ecclesia), Neviglia Gaetano, serva degli stessi d’Acugna di cui è innamorato il vecchio servitore di don Celestino e Felicia Rizzo, cameriera della nobile famiglia nonchè madre della protagonista, Agata Calò. Nell’agosto 1780 è ancora viva Anna Maria Resta, che morirà circa un anno dopo (il 7 agosto 1781): mulier quandam Petri Chiariaci (moglie del fu Pietro Chiriace), le cui proprietà abbiamo ricavato dal catasto onciario insieme alle notizie sulla sua abitazione (abita in casa propria sita nella strada del SS.mo Crocifisso). Dal registro dei defunti sappiamo che, pochi giorni prima dell’omicidio di Alfonso Castriota, il 25 luglio, perse la figlia, Iosepha Chiriaci filia quondam Petri Chiariaci et Anna Mariae Resta Terre Aradei […] aetatis sue annorum triginta sex circuite.
Tralasciando gli altri personaggi minori, veniamo infine ai veri protagonisti della storia che, è fondamentale dirlo, trae spunto da due annotazioni prese sul registro dei defunti a breve distanza l’una dall’altra:
Traduzione: “Il 28 di luglio 1780 – Aradeo
Alfonso Castriota della Terra di S. Pietro di Galatina sposato in questa terra di Aradeo nel giorno predetto fu colpito con un coltello da Michele Leti(ti)a della sopradetta Terra di Aradeo, così come molti dicono, e data l’assoluzione sotto condizione dal reverendo d. Celestino Giuri e da me insfrascritto Arciprete col sacro olio degli infermi corroborato, furono fatte le solite preghiere e il suo copro fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale il giorno 29 del prefetto mese, all’età di circa trentasei anni.—-Matteo Rocca Arciprete”
Traduzione: “Il 13 agosto 1780 – Aradeo
Michele figlio dell’illustrissimo Francesco Letizia della città di Alessano e della fu Petronilla Mauro della Terra di Aradeo morì il giorno sopra riportato percosso con un coltello così come dice dissero e percosso visse quindici diciassette giorni e ricevette il sacramento della penitenza da me soprascritto Arciprete, ristorato col sacro viatico e olio degli infermi corroborato e furono fatte le solite preghiere e il suo corpo fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale, all’età di circa ventiquattro anni—- Matteo Rocca Arciprete”
Tutto nasce dalla prima annotazione, compresa la scelta di affidare a don Celestino Giuri il compito di indagare. Le visite pastorali di metà Settecento ce riportano quest’ultimo come Cantore della chiesa parrocchiale. Le notizie sulla sua casa (palazziata sita nel vicinato di S. Caterina, cinque orte di terra seminativa con alberi dodici di olivi dentro loco detto Lo Rizzo […] più orte uno mezzo di vigne pastane con alberi trenta di olive loco detto li Monticelli, […] più una giumenta [..]etc…) e sulle sue proprietà le ho ricavate dal catasto onciario
Sappiamo che morì nel marzo 1790 a circa 82 anni.
Di Alfonso Castriota notizie se ne hanno poche: sfogliando il registro dei morti, ho trovato in data 29 agosto 1790 una nota sulla morte di Agata Calò, mulier Alfonsi Castrioto San Petri Galatinaefilia coniugum Joannis Calò Terrae S. Petri Galatinae et quondam Feliciae Rizzo Terre Castrignani aetatis suae annorum triginta sex circiter obiit) (trad: “moglie di Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina e figlia dei coniugi Giovanni Calò della Terra da di Galatina e della fu Felicia Rizzo della Terra di Castrignano, morì all’età di trentasei anni circa”).
Infine Michele Letizia: di lui conosciamo i genitori, ovvero la madre Petronilla Mauro, discendente di una ricca famiglia del paese il cui capostipite, Domenico Mauro, può vantare a metà secolo oltre a tante proprietà, elencate nel racconto dal servitore di don Celestino, una casa propria con camere superiori e inferiori loco detto S. Annunciata Vecchia. L’Annunziata Vecchia altro non è che il nome seicentesco della chiesa del Crocifisso: da ciò la vicinanza tra la casa dei Mauro e quella della vedova Resta così utile per l’intreccio del racconto. Del padre di Michele Letizia, so soltanto che è originario della città di Alessano. Approfittando tuttavia del fatto che la famiglia Letizia di Alessano ha prodotto numerosi pittori, tra i più famosi del Salento, ho pensato di fare anche di Michele un artista. Questa connotazione come le restanti parti del racconto (la storia d’amore, la tela, i dialoghi e i pensieri) sono frutto della sola fantasia.
Si distese nel letto con la tunica ancora addosso. La notte non era calda, ma sentiva la fronte bollire come se avesse la febbre. Il resto del corpo era invece scosso da brividi di freddo, tanto che si gettò addosso una coperta pesante che aveva ai piedi del letto. Passò il dorso della mano sotto l’attaccatura dei capelli e lo ritrovò completamente bagnato. Cos’era quell’agitazione? Si fece un segno di croce e cominciò a sciorinare le orazioni della notte. Non aveva testa per farlo. Sentiva qualcosa dentro di sé agitarsi violentemente. Qualcosa che era iniziato chiudendo la finestra della casa della vedova Resta. Ma cosa. Provò a recuperare un po’ di calma per poter ragionare. Aveva visto qualcosa vicino alla finestra di donna Petronilla che lo aveva colpito. Qualcosa che aveva rivisto o pensato di rivedere osservando quella stessa finestra dalla piazza. E poi il racconto del servo. Anche quello lo aveva agitato. Ma perché? Perché?
All’improvviso si mise a sedere sul letto, come se qualcosa lo avesse sospinto.
“Non può essere” esclamò. La campana di San Nicola rintoccò l’ora nona della notte.
Scese dal letto, indossò le scarpe cercando al buio di allacciare le stringhe. Le mani gli tremavano e dovette tentare più volte.
“Calmo Celestino” disse a se stesso. Finalmente ci riuscì e, afferrato il bastone da passeggio, raggiunse la scala.
Scese di furia e la luce del lume che d’improvviso gli si parò di fronte ai piedi della gradinata lo fece sobbalzare e urlare.
“Papa, dove andate?” chiese il servo
“Sei tu, che ti venga un male. Mi hai fatto morire”
“Ma che vi succede. Dove andate a quest’ora di notte?”
“Non ti immischiare. Torna a riposare”
“Ma che discorsi sono? Non vi lascio andare da solo a quest’ora. Ditemi dove volete andare”
“In piazza”
“A fare che”
“Non ti interessa”
“Va bene, non mi interessa” fece comprensivo il servo “Però vi accompagno”
Senza aspettare risposta si riaffacciò nella camera, prese un oggetto, lo mise in tasca e tornò dal cantore
“Cosa hai preso?” chiese
“Niente papa. Meglio stare sicuri” e si avviò.
Percorsero l’ultimo tratto della strada di Santa Caterina, svoltarono per il vicinato dei Mauri e da lì giunsero di fronte al palazzo dei D’Acugna
“Ferma” ordinò don Celestino “Tu aspettami qui, se serve qualcosa ti chiamo”
“Va bene”
Il prete fece un’altra quindicina di passi e, giunto nei pressi del palazzo dei Frigino, si addossò al portone. Da lì poteva vedere la parte centrale della piazza e la finestra di donna Petronilla. Rimase in attesa, in silenzio. A poca distanza il servitore lo aspettava, accovacciato su un paracarro, con il lume in mano. Ciò lo fece sentire un po’ più sereno. Tornò ad osservare la parete di destra del palazzo dei Mauro che dava sul piccolo cortile condiviso con la vedova Resta. Era una delle poche case palazziate della piazza e tenuemente avvolta dalla luce lunare spiccava sullo slargo quasi fosse una torre di avvistamento. Per strada non passava nessuno, fortunatamente: avrebbe fatto non poca fatica ad inventare un motivo logico che lo potesse spingere a stare lì a vegliare. Da lì ad un’ora o due, però, i contadini si sarebbero svegliati per andare nei fondi fuori dalle mura e subito dopo le donne si sarebbero recate in chiesa per la prima messa. Se qualcosa doveva avvenire non avrebbe potuto tardare ancora. E così fu.
D’improvviso una flebile luce rischiarò la finestra di donna Petronilla. Il cuore di don Celestino cominciò a battere velocemente percuotendo le vecchie vertebre, ma ancor di più lo fece sobbalzare l’urlo che squarciò il silenzio d’intorno.
“Giuseppa, Giuseppa mia” udì distintamente e quel grido fu come una lama gelida che incise la sua schiena. La luce alla finestra si spense.
Il cantore uscì dal portone e il servo gli fu accanto.
“Cos’è stato?”
“Dammi qui” ordinò strappandogli di mano il lume “Non ti muovere”
Sbucò nella piazza e provò a correre verso la casa dei Mauro. Le gambe lo tradirono e cadde a terra.
“Fermo” gridò volgendosi al servo, che già si era mosso verso di lui. Si alzò e riprese a correre.
Il vecchio portone del palazzo che era stato di don Domenico cigolò. Intravide una figura uscire di corsa. Nell’oscurità non riuscì a scorgerne il volto. Vide solo una lunga veste nera, forse una tunica forse una gonna, strisciare sul selciato. Raggiunse il portone e sentì a poca distanza il respiro del fuggitivo.
“Fermatevi, chi siete” riuscì ad urlare
Udì i passi bloccarsi e poi riprendere veloci, allontanandosi in fretta per la strada che dalla piazza portava alla porta del paese. Non valeva la pena seguirlo, non ce l’avrebbe fatta.
Spinse il portone dei Mauro e, come se la strada gli fosse nota, salì lo scalone in marmo che portava al piano superiore. Giuntovi, sentì il cuore battere ancora all’impazzata e il fiato mancargli.
“Calma” pensò “riprendi fiato o ci lasci la vita”. Stette pochi istanti addossato ad un muro respirando a bocca larga, poi prese il corridoio che portava alle stanze di destra e lentamente lo percorse. Le porte erano tutte chiuse, tranne l’ultima. La scostò leggermente ed entrò.
La stanza era buia, ma da una finestra parzialmente chiusa da una tenda logora penetrava la flebile luce lunare. Capì di essere nel posto giusto: era la vecchia camera da letto di donna Petronilla. Ruotò il braccio con la lampada per guardarsi intorno, rimanendo però a distanza della finestra. Nell’aria stagnava uno strano odore acido.
A terra, quasi al centro della camera, vide un paio di bacili colmi d’acqua con immerse delle strisce di stoffa bianca e una sedia; sul fondo, un letto circondato da un pesante baldacchino con quattro colonne intagliate. Addossato ad una di queste notò un lenzuolo che stranamente si manteneva alto andando poi a cadere sul pavimento come a formare una piramide bianca. Le coperte sul letto, anch’esse candide, erano arruffate. Fermò i passi e si mise in ascolto: un rantolo leggerissimo, un respiro debole ed affannoso. Riprese a camminare con un groppo alla gola che gli impediva di respirare agevolmente.
“Sei tornata” udì. Il cuore di don Celestino accelerò nuovamente, tanto che il cantore per reazione portò una mano sul petto, come per placarlo.
Si avvicinò alla voce e, al lume della lampada ad olio, vide il volto di un giovane. Poteva avere poco più di vent’anni e giaceva riverso in maniera scomposta sul letto. Il busto, nudo, era fasciato con bende candide chiazzate di nero all’altezza del torace. Le mani, le braccia, erano punteggiate da numerose macchie. Gli toccò la fronte, era rovente.
“Amore mio” disse il giovane “Perché sei andata via?”
“Schhhhh” fece don Celestino per non togliere al giovane l’illusione che al proprio capezzale ci fosse la donna amata e non un vecchio prete
“Muoio amore. Lo sai? Muoio, ma ce l’ho fatta. La firma, però” tacque e deglutì con sforzo “la firma è venuta male. Pazienza. Non ho più forze. Vai a dire alla tua padrona che la tela è pronta. La prima tela di un grande pittore e anche l’ultima, amore mio”
Il cantore volse lo sguardo alla piramide bianca e capì. Si avvicinò, con una mano scostò con delicatezza il lenzuolo e la luce gialla disvelò il volto di una Madonna dagli occhi verdi come lo smeraldo. Il velo che le scendeva dalla testa sulle spalle era di un blu luminoso che don Celestino non poteva non riconoscere. Osservò con attenzione il viso della Vergine, ritratto con un realismo tale che chiunque in paese avrebbe potuto ricollegare all’originale. Mai nei lunghi anni di vita aveva visto un dipinto raffigurante la Madonna delle Grazie così bello e così insolito. Come l’iconografia voleva, la vergine reggeva tra le braccia il bambinello, un putto paffuto e biondo. Il bimbo sorrideva, ma non di quei sorrisi appena accennati, che già davano l’idea della divinità, come aveva visto in tante statue e tele. Il sorriso del bambino che aveva di fronte era reale, vivo; era quello di un fanciullo che ha trovato gusto e gioia in un gioco, in un fatto strano o nella carezza dei genitori. Anche la madre, la madonna, sorrideva, pure lei in modo estremamente umano: il volto era quello di una mamma serena, che gioisce nel vedere il proprio figlio felice. La luce passò sulla parte bassa della tela. La grafia era incerta, ma ugualmente leggibile.
“Michele Letizia” scandì a bassa voce “Letizia, non Lezia”. A differenza di quanto accaduto col volto della Vergine, il nome non lo colse di sorpresa.
Lasciò ricadere il velo bianco e si avvicinò al letto. L’uomo non si lamentava più. Gli posò la mano sulla fronte e sentì che era più fresca. Prese il polso e cercò inutilmente di percepirne battiti. Lasciò cadere la mano tra le coperte disfatte. Riportò la mano sulla fronte di Michele Letizia. Con il pollice fece un piccolo segno di croce che poi tracciò anche in aria con le tre dita semiaperte. Tutto ora era estremamente chiaro, solo una cosa gli restava da capire anche se già l’aveva intuita. Si avvicinò alla finestra e scostò la tenda.
Alla luce fioca del lume cercò con ansia sul parapetto e finalmente vide la macchiava che lo imbrattava in un angolo. L’aveva vista chiudendo gli scuri della finestra della vedova Resta e poi osservando la casa dei Mauro dalla piazza. Era blu, anche se con la luce calda della lampada il colore ora appariva tramutato. Era lo stesso blu che aveva visto sul collo di Castriota e ora sul velo della Vergine dipinta.
“Giuseppa mia”
Il grido della vedova lo colse di sorpresa e per poco la lampada non gli sfuggì di mano.
“Vecchia pazza” esclamò lasciando cadere la tenda. Uscì rapidamente dalla stanza, scese le scale e si ritrovò in piazza. Il paese era ancora avvolto dall’oscurità e non sembrava esserci nessuno in giro. Attraversò lo spiazzo e, giunto nei pressi del palazzo dei Frigino, incontrò il servitore che immobile lo attendeva.
“Finalmente siete tornato, papa. Dove vi eravate cacciato? Avete sentito di nuovo il grido?”
“Si ho sentito. Torniamo a casa”
“Ma posso sapere cos’è successo?”
“Oggi no. Te ne parlerò. Ora voglio solo andare a dormire. Tu prendi la mia giumenta e vai da don Matteo Rocca: digli che sto male e che deve rientrare in paese per celebrare un funerale”
“Chi è morto?”
“Michele Letizia, figlio di don Francesco Letizia e di Petronilla Mauro”
“Il figlio di donna Petronilla?” chiese sorpreso il vecchio, ma il cantore fece conto di non sentirlo e proseguì
“Digli che è morto accoltellato da Alfonso Castriota e che prima di morire l’ho confessato e unto con gli oli santi. Il corpo sta in casa della madre”
“Ma” provò a dire
“Ma le cose stanno così” tagliò corto don Celestino
Erano giunti ai piedi della scala.
“Vi accompagno?” chiese il servitore
“No. Ce la faccio da solo. Fai quello che ti ho detto e lasciami in pace”.
Con le gambe deboli, il respiro ancora pesante, salì quell’ennesima rampa. Giunto in camera sbottonò il colletto, bevve avidamente dalla brocca, espletò i bisogni corporali e si gettò sul letto. Crollò in un sonno profondo dal quale si risvegliò nel pomeriggio quando il sole già calava. Era l’ora prima. (continua)
DOMENICA TORNA “CORTI APERTE”, LA MERAVIGLIA SI SVELA
Seconda edizione della manifestazione che apre al pubblico le antiche residenze del centro
di Danilo Siciliano
Mancano pochi giorni ormai alla seconda edizione di “Corti Aperte”, iniziativa dell’associazione Dimore Storiche Neretine in programma domenica 9 giugno. Gli antichi palazzi e le residenze di pregio del centro storico aprono le corti per una giornata speciale all’insegna della bellezza dei luoghi. L’associazione Dimore Storiche Neretine, con il patrocinio e il sostegno dell’amministrazione comunale, dopo lo straordinario successo della prima edizione, ha voluto ripetere un’iniziativa che consente a tutti di scoprire le corti e i giardini delle case e dei palazzi privati del cuore antico della città, molto spesso scrigni sconosciuti di bellezza. “Corti Aperte” è un vero e proprio itinerario di fruizione e valorizzazione di una parte pregiata del patrimonio monumentale privato di Nardò, normalmente inaccessibile. Una prospettiva insolita sulla ricchezza architettonica (e non solo) della città e quindi un’occasione per apprezzarla.
L’Associazione Dimore Storiche Neretine, del resto, è un’associazione nata con lo scopo di recuperare, valorizzare e salvaguardare il patrimonio ambientale, storico, culturale e paesaggistico costituito dalle dimore storiche del territorio di Nardò riconoscendo nel proprietario privato il più appassionato custode di questo patrimonio.
“Sarà un’altra giornata bellissima – annuncia l’assessore al Turismo Giulia Puglia – perché le dimore private del centro storico sono un profilo meraviglioso del nostro patrimonio architettonico e culturale.
Ma oltre al valore degli immobili, al loro pregio, visitarli significa anche conoscere le storie delle famiglie che ci hanno vissuto, i segreti, le curiosità che si nascondono dietro i portoni di queste residenze quasi sempre chiuse ai più. “Corti Aperte” è una manifestazione bellissima, una vetrina della bellezza antica e spesso raffinata della città. Se le premesse sono quelle della prima edizione, avremo migliaia di visitatori. Il miglior biglietto da visita dell’estate 2019”.
I palazzi e le corti saranno liberamente accessibili dalle ore 11 alle 13 e dalle ore 17 alle 22. Il “taglio del nastro” simbolico della giornata sarà l’inaugurazione della bacheca informativa storica del palazzo Sambiasi-Della Porta di via Lata, prevista alle ore 11. Lo stesso palazzo ospiterà per tutta la giornata una esposizione fotografica di Simone Gualtieri e Laura Scalcione. Sono tante le iniziative e gli eventi programmati in ciascuno dei “gioielli” di Corti Aperte: a palazzo Sambiasi (ex monastero di Santa Teresa, corso Garibaldi) ci sarà il tango argentino alle ore 20, a cura di Salentango Lecce, oltre alla esposizione “Artigianato e Moda” curata da Marion Mariniere, Madamoro e Sandola, alla mostra permanente di arte contemporanea a cura di A100 Gallery e alla esposizione permanente delle opere dello “scultore del ferro” Daniele Dell’Angelo Custode; nella chiesa di Santa Teresa sono previsti due concertini di arpa alle ore 12 e alle ore 18; a palazzo Manieri-Zuccaro in corso Garibaldi una expo-performance degli artisti Dikian Mejia, Davide Di Vetta e Francesca Bidetti; a palazzo D’Elia in piazzetta Elia l’esposizione di antichi pizzi e merletti; a palazzo De Pandi in via De Pandi l’esposizione dei dipinti di Franco Calabrese; a palazzo Personè in via Lata l’esposizione di bici elettriche customizzate di Green Movement Lecce; a palazzo De Pantaleonibus in via Immacolatella l’esposizione di Cactus in tessuto della Movea; a palazzo Chiodo in via Lata una esibizione del tenore Vincenzo Maria Sarinelli e del pianista Andrea Sequestro; a palazzo Giovanni Zuccaro in via Zuccaro l’esposizione delle carrozze e un’altra dedicata alle opere di Giovanni Felle; alla corte del Caffè Letterario Neritonensis in via Lata è in programma alle ore 19 una esibizione del coro polifonico diretto dal maestro soprano Giusy Zangari; un’altra performance musicale è prevista invece nel “giardino segreto” di piazza La Rosa con le sonorità latine e jazz di Betta Magi (sax contralto) e Alfredo Ronzino (chitarra e voce). Saranno visitabili anche la casa a corte di via Matteotti, dove è prevista una esposizione di abiti dello stilista Filippo Laterza, il palazzo a corte con mignano di via Lata, il giardino segreto di Palazzo Muci in via Cialdini. Alle ore 20:30 in via Don Minzoni è previsto Street tango, un laboratorio di tango argentino, mentre alle ore 21:30 presso il castello Acquaviva d’Aragona (piazza Battisti) ci sarà il concerto finale di musica popolare salentina con il gruppo Zimbaria.
L’occasione di una visita tra le corti e i palazzi sarà utile anche per una interessante sortita nei musei e negli attrattori culturali del centro storico. Saranno aperti e fruibili secondo orari e modalità di accesso consueti, infatti, il Museo della Preistoria di Nardò in piazzetta Sant’Antonio, la mostra permanente dedicata a Vittorio Bodini e il Museo Speleologico e del Sottosuolo al piano terra del castello, il Museo della Civiltà e del Territorio al piano ammezzato del castello, il museo della Civiltà Contadina e delle Tradizioni Popolari nel torrione del castello, il Museo Didattico del Liceo Artistico in piazza San Domenico.
Sarà possibile anche visitare le dimore grazie alle visite guidate (previste alle ore 11:30 e alle 18:30) con l’architetto Giovanni De Cupertinis, organizzate dall’ufficio informazioni e accoglienza turistica di piazza Salandra. Previste anche le visite guidate del complesso monasteriale delle Carmelitane Scalze in corso Garibaldi organizzate da Francesco Arditi di Castelvetere (alle ore 12 e alle 18).
Corti Aperte è organizzato in collaborazione con La Vetrina del Gusto di piazza Salandra, lo Iat e la Pro Loco Nardò e Terra d’Arneo. Quest’ultima ha fatto coincidere le iniziative per la Giornata Nazionale delle Pro Loco d’Italia, prevista per il 2 giugno, proprio con Corti Aperte e con questa domenica speciale all’insegna della bellezza nascosta di Nardò.
Nei tre “hub” d’ingresso al centro storico, cioè a piazza Battisti, in corso Garibaldi e in piazza della Repubblica, è prevista la distribuzione del programma della giornata e della mappe.
Dopo un primo arrivo dei Saraceni a Brindisi – nell’838 – per due secoli
intorno alla città non ci fu null’altro che un desolante ‘tutti contro tutti’
di Gianfranco Perri
Dopo qualche anno dallo screzio seguito al mancato matrimonio dei figli, tra i due imperatori romani, Ludovico II e Basilio I, si ristabilì una certa collaborazione e così Ludovico II poté puntare su Bari, conquistandola finalmente il 3 febbraio dell’871, liberandola dal trentennale dominio arabo e facendo prigioniero l’emiro Sawdan, che fu portato dal principe Adelchi a Benevento, dove rimase incarcerato per anni.
Quindi, già morto – nell’875 – l’ormai vecchio imperatore Ludovico II, i Bizantini dell’imperatore Basilio I nell’876 sottrassero Bari all’influenza del longobardo Adelchi e, finalmente – nell’880 – riuscirono anche a liberare Taranto dai Saraceni nel corso della campagna di riconquista condotta dallo stratega Niceforo Foca.
Partendo dalla punta dello stivale, Niceforo Foca estese la controffensiva bizantina su quasi tutto il Meridione continentale, riconquistando sia le città rimaste in mano araba e sia la maggior parte dei territori occupati dai principi longobardi. I limiti territoriali della conquista non sono definiti con esattezza nelle fonti, ma è verosimile che i Bizantini abbiano rioccupato tutta la regione che si estende dalla valle del Crati a Taranto e la Lucania orientale con le vallate del Sinni e del Bradano, nonché la costa salentina, mentre è più arduo definire dove essi siano arrivati a nordovest di Bari.
E quindi, fu nel contesto di quella lunga campagna condotta contro Longobardi e Arabi che, dopo Taranto, anche Brindisi intorno all’885 tornò sotto il formale controllo dei Bizantini, i quali, naturalmente, la incontrarono praticamente tutta in macerie: “macerie longobarde del 674, macerie saracene dell’838 e macerie imperiali dell’867”.
Nell’886 morì l’imperatore Basilio I e gli succedette il figlio Leone VI, il quale richiamò il vittorioso generale Niceforo Foca nominandolo comandante supremo dell’esercito imperiale e questi s’imbarcò da Brindisi alla volta di Costantinopoli con gran parte del suo esercito e lasciando alla città tutti i prigionieri longobardi, sottraendoli magnanimamente alla schiavitù e rendendoli così potenzialmente utili alla eventuale ricostruzione cittadina.
Il ritorno dei Bizantini a Brindisi, infatti, fu seguito da timidi e presto interrotti segnali di rinascita quando, alla fine di quel secolo IX, si iniziò la ricostruzione della chiesa di San Leucio, impulsata dal vescovo oritano Teodosio in occasione del ritorno in città di una parte delle reliquie sottratte dai Tranesi. E negli anni a seguire, la popolazione di sua iniziativa, intraprese anche la costruzione di un’altra chiesa, che fu edificata di fronte all’imboccatura del porto interno, sulla cresta della collina di ponente e con annessa un’alta torre – una specie di faro per i naviganti – in omaggio e gratitudine allo stratega greco Niceforo Foca.
«L’edificio può essere presumibilmente identificato nella chiesa di San Basilio, che fungeva anche da faro grazie ad un’alta torre che la sovrastava. Essa, eretta secondo tradizione locale al ritorno bizantino, era ancora visibile nel XVII secolo, come testimonia Giovanni Battista Casimiro, e in seguito andò distrutta per lasciare il posto ad abitazioni civili»3.
Il 18 ottobre 891 i Bizantini fondarono il Thema di Langobardia con capitale Bari, che affiancò quello di Calabria con capitale Reggio e che con quella riorganizzazione non comprese più l’antica Calabria, ossia l’odierno Salento, che invece fu parte del nuovo Thema di Langobardia. La denominazione di Calabria, infatti, dopo essere stata estesa al Bruzio, a quell’epoca aveva già finito con l’abbandonare del tutto il suo originale territorio salentino.
Con l’avvento del secolo seguente, il X, le coste adriatiche ritornarono ad essere ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali si alternarono con frequenza quelli slavi, che nel 922 assaltarono per la prima volta Brindisi e vi ritornarono nel 926, dopo aver occupato Siponto; e poi, nel 929, giunsero anche gli Schiavoni di Ṣābir, che dopo aver – il 17 agosto 928 – preso Otranto, risalirono la costa fino a Termoli.
«I Saraceni impiegarono ampiamente schiavi e mercenari slavi sulle loro navi e molti assursero anche a posizioni di comando e prestigio. Tra il 922 e il 924, lo slavo Mas‘ūd, a capo di venti navi saccheggiò la rocca di Sant’Agata. Poi, il 10 luglio 926 “comprendit, Michael rex Sclavorum, civitatem Sipontum”: un’irruzione slava il dì di santa Felicita, ch’ebbe a condottiere Iataches, che assaltò e prese la città di Siponto, estendendo le scorrerie anche più a sud. Tra il 927 e il 930, Ṣābir lo schiavone, si apprestò con una grande flotta alle coste dell’Italia meridionale, dove con tre incursioni, ripetute a poca distanza l’una dall’altra, saccheggiò varie città [da Otranto a Termoli] e catturò molti prigionieri»4.
«Non cessa, però, la minaccia saracena e le incursioni ed i saccheggi continuano sulle coste calabresi e su quelle pugliesi. E ai Mussulmani si aggiungono ancora una volta gli Slavi: dopo aver perduto Siponto nel 936, tornano nel 939 e con loro Ungari e Schiavoni minacciando le coste e spingendosi all’interno della Capitanata e nell’entroterra tarantino e, ancora nel 947, assediando Conversano e Otranto»5.
Nel 970 il Thema di Calabria e quello di Langobardia furono integrati per formare il Catapanato d’Italia e nel 976, successo a Giovanni Zimisce, l’imperatore bizantino Basilio II si trovò a dover gestire più urgentemente i fronti dell’Asia Minore e non ebbe disponibilità di truppe per stanziare contingenti di rinforzo a guardia dell’Italia meridionale e così, gli Arabi di Sicilia dell’emiro Abu Al-Kasim, ripresero a vessare le popolazioni della Calabria e della Puglia, che non riuscivano a garantirsi una buona difesa militare con le sole guarnigioni cittadine, insufficienti a proteggere le roccaforti.
In quell’anno 976, gli Arabi risalirono la Calabria, giunsero alla Valle del Crati e assediarono Cosenza, che fu costretta al pagamento di un tributo. Poi, nell’agosto del 977, con gli eserciti di Al Kasim, giunsero a Taranto perseguendo lo stesso obiettivo, ma trovarono la città abbandonata dai suoi abitanti e la distrussero. Quindi saccheggiarono nuovamente la vicina Oria bizantina e altri paesi del Capo. Poi, anche negli anni successivi, fino al 981, gli stessi Arabi misero ripetutamente a ferro e fuoco sia la Calabria che la Puglia, arrivando spesso a ridosso dei territori longobardi.
In reazione, nel 982, il sacro romano imperatore Ottone II decise una spedizione punitiva contro i Saraceni di Sicilia e, sceso nel Mezzogiorno, provò prima a ridurre la potenza bizantina nella regione costringendo all’obbedienza i piccoli stati della Campania della Lucania e della Puglia, fino a Oria, Taranto e Bari, dove però il 13 luglio fu battuto dai Bizantini. Quindi l’imperatore si diresse verso la Calabria e la Sicilia, giungendo in quell’occasione ad un passo dalla vittoria contro gli Arabi, ma nella battaglia di Capo delle Colonne subì una completa disfatta con almeno quattromila morti. Ottone II morì l’anno seguente e per qualche decennio sullo scenario del Meridione italiano, anche l’azione militare antiaraba dell’impero di Occidente – allo stesso modo che quella dell’impero d’Oriente – praticamente scomparve.
Nel 986 gli Arabi di Abu Said ripresero le ostilità contro la Calabria ritornando a Cosenza, di cui distrussero le mura per poi dilagare fino in Puglia: a Bari nel 988, dove i sobborghi furono saccheggiati con gran traffico di prigionieri verso la Sicilia.
Con il nuovo secolo e il nuovo millennio, le incursioni piratesche non diminuirono e interessarono sia la Puglia, per lo più Bari, e sia in Calabria, la Valle del Crati e Cosenza.
Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, insomma, la situazione generale delle coste e dell’entroterra nel tribolato Meridione italiano, di nuovo, non poté essere più disperata:
«Assente l’impero bizantino nella lotta intrapresa dalle città pugliesi contro la pressione araba; impotenti ad intervenire i Longobardi di Benevento e Capua, coinvolti in guerre intestine e quelli di Salerno timorosi della crescente potenza amalfitana; ormai in fase di decadenza Gaeta, Napoli e Sorrento; inefficace la rapida apparizione del sacro imperatore Ottone III; le uniche forze in grado di opporsi ai Saraceni furono le repubbliche marinare, le quali si andavano affermando sul Tirreno con Pisa e, soprattutto, con Venezia sull’Adriatico»5.
Nella prima metà dell’XI secolo, dopo che nel 1005 l’esercito bizantino riconquistò le coste dalmate, Brindisi riacquistò immediatamente l’antica strategicità – con il suo porto dirimpettaio a quello di Durazzo da cui partiva la via Egnazia che lo collegava alla capitale dell’impero – e i Bizantini ne intrapresero presto la ricostruzione.
«La portata dell’investimento bizantino è valutabile grazie al testo dell’epigrafe datata alla prima metà dell’XI secolo, scolpita sul basamento di una [quella superstite] delle due colonne che dal promontorio di ponente guardavano proprio l’imboccatura del porto interno: Illustris pius actibus atque refulgens Protospatha Lupus urbem hanc struxit ab imo. Una formula che attribuisce al programma imperiale il valore di una vera e propria fondazione»6.
Al contempo, il secolare arricchimento accumulato nell’isola aveva finito con indurre gli Arabi di Sicilia a non occuparsi più tanto di guerreggiare né di consolidarsi sul continente, quanto a godere dei tanti notevoli agi acquisiti. Un atteggiamento questo, che nei primi decenni dell’XI secolo permise alle forze bizantine di riprendere i territori dell’Italia peninsulare e di dedicarsi a controllare le rivolte filoimperiali interne che in essi via via andavano scoppiando.
Così, nel 1038 – quindi duecento anni dopo quella prima incursione saracena a Brindisi – le forze bizantine sbarcarono a Messina e si diressero verso Siracusa, ponendo l’assedio alla città. I Musulmani di Sicilia non riuscirono a rispondere per molto tempo alle forze greche e così, in quella prima metà dell’XI secolo, ebbe inizio la fine della storia islamica nell’isola e di conseguenza anche di quella nella penisola, lasciando lo scenario sgombro all’arrivo dei nuovi conquistatori: i Normanni.
Dopo un primo arrivo dei Saraceni a Brindisi – nell’838 – per due secoli
intorno alla città non ci fu null’altro che un desolante ‘tutti contro tutti’
di Gianfranco Perri
Le fonti relative alla storia di Brindisi tra il VI e il X secolo inclusi, sono molto avare, particolarmente avare, costituendo tale carenza quasi assoluta un forte indizio della effettiva mancanza di eventi, circostanze e personaggi da riferire in relazione alla città, un indizio quindi di marcata decadenza, associata, anche e certamente, ad un progressivo accentuato processo di depopolamento ed alla conseguente perdita della stessa fisionomia urbana della città.
Esula dal proposito di questo scritto il trattare delle possibili cause di tale situazione e basti solo accennare che, eventualmente, la prolungata guerra greco-gotica prima, l’esosa occupazione bizantina dopo, una serie di catastrofi naturali e finalmente, l’approssimarsi dei Longobardi ed il susseguirsi delle prime devastanti incursioni saracene, furono tutti eventi che più o meno in successione, per secoli affossarono completamente la città, la sua economia e la sua popolazione. Fino a quando, dopo che nel 1005 Durazzo ritornò sotto il controllo di Costantinopoli, Brindisi fu chiamata a rinascere per svolgere di nuovo una funzione di primo piano nel contesto di un rinnovato e più vasto orizzonte politico di Bisanzio. Una rinascita rimasta incipiente, che però, poco dopo, fu impulsata con decisione dai nuovi arrivati: i Normanni.
Dopo la rovinosa ventennale guerra greco-gotica conclusa nel 553 e dopo la distruttiva conquista longobarda – che per Brindisi si materializzò ai danni dei Bizantini intorno al 680 ad opera di Romualdo I duca Benevento – la città rimase semidistrutta, stremata e ridotta a poco più che un’espressione geografica quasi spopolata, anche se non del tutto abbandonata.
«La documentazione epigrafica indica che ai margini della città rimasero, sia alcuni gruppi di Ebrei – parte stabiliti presso il seno di levante del porto interno e parte presso l’attuale via Tor Pisana, dove vi fu anche un loro sepolcro – e sia qualche altro sparuto gruppo di cittadini stabiliti intorno al vecchio martyrium di San Leucio»1.
«Per il X secolo si hanno rade se non nulle notizie di transiti o approdi, reali o leggendari che siano, nella rada di Brindisi, eccezion fatta, il 908, per le reliquie di Santa Marina o Margherita d’Antiochia che il monaco benedettino pavese Agostino trasferì da Costantinopoli, ove erano conservate nella chiesa della Madonna del Mare, in Italia»2.
Dunque, alla fine del VII secolo, Brindisi, sottratta al controllo bizantino, divenne longobarda e poi per circa un secolo e mezzo di essa non se ne parla più, né se ne sa praticamente nulla, con eccezione – forse la sola – della citazione che ne fa l’anonimo tranese, descrivendola “eversa vero atque diruta” nel suo racconto del trafugamento delle spoglie del protovescovo brindisino San Leucio, effettuato nottetempo da un gruppo di Tranesi ad ulteriore riprova dell’estrema debolezza sociale, oltreché politica ed economica, in cui versava la città con i suoi superstiti abitanti.
Città quindi formalmente longobarda, Brindisi restò tale anche dopo l’arrivo dei Franchi di Carlo Magno che, sceso in Italia nel 771 chiamato dal papa Stefano III e sconfitti i Longobardi nel 774, rinunciò ad estendere il proprio controllo sulle longobarde terre beneventane. Quando poi, nel 787, Carlo decise di compiere una sortita all’interno di quei confini, ottenuta una formale sottomissione del duca Arechi II alla propria autorità, lo elevò a principe. Probabilmente, il re Carlo preferì mantenere in vita quello stato longobardo in un certo qual modo a lui sottomesso, piuttosto che intraprendere impegnative campagne militari che avrebbero potuto attivare pericolose frizioni con il confinante – in quel sud italiano – impero bizantino, nonché stimolare imbarazzanti richieste di ampliamento territoriale verso sud da parte pontificia.
Se ne riparla – di Brindisi – solo nell’838 e se ne riparla perché sullo scenario del Meridione continentale d’Italia è apparso un terzo litigante ad affiancare i due precedenti e già secolari contendenti longobardi e bizantini. Si tratta degli Arabi originari del nord Africa, poi più comunemente detti Saraceni, provenienti dalla loro nuova vicina base, la Sicilia, che da poco più di una decina d’anni – dall’827 – avevano gradualmente cominciato ad occupare (Palermo sarebbe caduta nell’831 e, ultima, Siracusa nell’878) sottraendola ai Bizantini. E perché mai e come mai, i Saraceni provenienti dalla Sicilia giunsero fino a Brindisi?
Accadde semplicemente che, una volta sbarcati e ben insediati nella Sicilia, fu naturale che gli Arabi guardassero all’Italia peninsulare come ad una meta di conquiste e, soprattutto, di scorrerie. Le incursioni e le loro azioni offensive verificatesi nel Meridione d’Italia, infatti, per lo più contrastarono con la stabilità propria dell’insediamento musulmano insulare della Sicilia, dove da subito si manifestarono il desiderio di una durevole conquista e la volontà di includerla nel dominio islamico.
Nel territorio peninsulare, invece, i pochi isolati episodi di conquista, come quelli di Bari e Taranto o sul Garigliano a sud di Gaeta, si estinsero nel giro di due o tre decenni al massimo; mentre per ben due secoli, il IX e il X, quasi l’intero Mezzogiorno visse la presenza musulmana come un endemico flagello di guerra e di rapina, continuamente combattuto – da Bizantini, Veneziani, Longobardi, Pontifici, Franchi – e mai debellato.
E tutto ciò durò così a lungo, anche perché gli Arabi furono abili a inserirsi nelle vicende della tribolata storia altomedievale del Meridione italiano, proprio come avvenne in quella loro prima incursione dell’836 e 837, quando fu lo stesso duca di Napoli, il console Andrea, che li chiamò in suo soccorso contro Sicardo, il principe longobardo di Benevento, che lo aveva assediato.
Da lì in avanti il prosieguo fu inevitabile e, solo un anno dopo, gli Arabi di Sicilia comparvero nelle acque dell’Adriatico e s’impadronirono indisturbati di Brindisi.
«Per idem tempus Agarenorum gens, cum iam Siculorum provinciam aliquos tenuerunt per annos pervasam, iam fretum conabantur transire Italiam occupandam. Dum vero cum multitudine navium fretunque ille transmeassent, sine mora Brindisim civitatem pugnando ceperunt (Chronicon Salernitanum)»
Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze a cavallo per respingerli, ma la sua corsa si bloccò per un banale tranello: gli assalitori, scavata una lunga e profonda trincera in prossimità dell’ingresso alla città, la ricoprirono con rami e con zolle di terra; quindi vi attirarono l’ingenuo nemico che cadde nella trappola subendo gravissime perdite, e Sicardo riuscì solo fortunosamente a salvarsi.
Quegli Arabi giunti fino a Brindisi, probabilmente in pochi, avuta notizia che dopo lo scacco il duca-principe Sicardo stava facendo grandi preparativi per la rivincita, non esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla depredata del poco ancora depredabile. Eventualmente, fu anche opera loro la distruzione del monastero bizantino di Santa Maria Veterana [a meno che tale monastero non sia invece stato edificato a fine secolo, in concomitanza con il primo avvio – poi presto interrotto – della ricostruzione bizantina della citta seguita alla riconquista di Niceforo Foca, e sia stato quindi distrutto in una delle successive incursioni saraceno-slave].
Poi, abbandonata momentaneamente Brindisi, alcuni Saraceni si stabilirono una quindicina di chilometri più a nord, nella strategica e protetta baia di Guaceto, ove costruirono un campo trincerato – denominato “ribat” del quale fino a tutto il XVI secolo si scorgevano ancora le rovine – che servì loro come base da cui dedicarsi, a lungo e indisturbati, a organizzare scorrerie per mare e per terra.
I Saraceni, che con l’intervento a favore di Napoli prima e con la presa di Brindisi poi, avevano sperimentato la debolezza del ducato beneventano, nell’840 risalirono le coste della Calabria ed occuparono Taranto e subito dopo, nell’841, riattaccarono la costa adriatica con un primo assalto fallito alla città di Bari, che finalmente fu stabilmente occupata l’anno dopo. Così, oltre che dalla Sicilia, anche da Taranto e soprattutto da Bari – città che divennero sedi di emirati – partirono per anni le incursioni arabe, sempre più penetranti e più incisive, dirette sulle città e sui territori adiacenti appartenenti ai domini bizantini residui in Italia, nonché a quelli longobardi.
La situazione di instabilità causata dalla presenza araba nell’Italia meridionale cominciò finalmente a preoccupare seriamente anche il papa e quegli stessi principi che avevano in qualche modo flirtato con gli Arabi di Sicilia, i quali pensarono bene di richiedere l’aiuto dell’impero, quello dei Franchi – il quarto contendente nello scacchiere dei “tutti contro tutti” – e così, eletto sacro romano imperatore nell’850, Ludovico II nipote di Carlo Magno, nell’852 fu sollecitato a scendere nel sud d’Italia, nel tentativo di liberare le città pugliesi – Bari in primis – dal giogo arabo, ma fallì nell’intento a causa dei contrasti ben presto sorti con i principi longobardi, primordialmente interessati a conservare la propria autonomia.
Fu Venezia poi, con il suo Doge Orso, che nell’864 inviò una flotta di quaranta navi e finalmente batté i Saraceni e permise per qualche anno la restaurazione del dominio bizantino su Taranto. Ciò però, non impedì ai Saraceni di resistere di nuovo allo stesso sacro romano imperatore, il franco Ludovico II, il quale, ridisceso a sud nell’866, in Puglia nell’868 solo riuscì a liberare dall’occupazione araba Matera Canosa e Oria, giacché l’enorme flotta di ben quattrocento navi – comandata dal patrizio Niceta Orifa inviatagli dall’imperatore bizantino nell’869 per supportare l’attacco terrestre a Bari – si ritirò a Corinto e lo lasciò impotente. Ludovico II, infatti, nel mezzo di una disputa ideologica con l’imperatore d’Oriente Basilio I, si era rifiutato di acconsentire al già accordato matrimonio di sua figlia, Ermengarda, con Costantino, figlio di Basilio I.
Nel trascorso di quella campagna, con lo strategico obiettivo di colpire i Saraceni del vicino emirato barese, i Franchi di Ludovico II assediarono e quindi assaltarono e presero – 867 circa – anche Brindisi, che nel frattempo era stata rioccupata dagli Arabi.
«Due reperti archeologici testimoniano l’influenza franca sul territorio brindisino tra fine VIII secolo e inizi del IX. Si tratta di una vera di pozzo e di uno stampo con il nome di santa Petronilla, patrona dei Franchi, che potrebbero essere appartenuti al monastero di Santa Maria Veterana, dai Normanni ricostruito nell’XI secolo per ospitare le suore benedettine – unico edificio religioso documentato in Brindisi per il secolo VIII, nell’ambito della vecchia città»1.
1 G. Carito Lo stato politico economico della città di Brindisi dagli inizi del IV secolo all’anno 670 – 1976
2 G. Carito Brindisi nell’XI secolo: da espressione geografica a civitas restituita – 2013
Due libri sulle bande musicali e della loro storia sociale di un fenomeno sociale
Il 2018 ha visto l’uscita di due libri sulla banda davvero interessanti, uno di Emanuele Raganato (Le Bande Musicali – Storia sociale di un fenomeno globale – Edizioni Streetlib write) musicista, musicologo, didatta, esperto di sociologia, ed un altro di G.M. Paone e D. M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale – Edizioni Efesto 2018), entrambe acquistabili su web.
Raganato parte tracciando, in maniera gradevole e completa, la storia della Banda, partendo dall’origine del nome, fino a tracciare una storia delle bande dagli albori delle civiltà in Italia e nel mondo.
Inizia con le ipotesi sul nome, che potrebbe risalire al termine gotico bandwa, che indicava un gruppo di suonatori eterogeneo che animava la vita delle cittadine e accompagnava i banditori, o a quei gruppi musicali militari che suonavano e accompagnavano i vessilli che distinguevano gli eserciti (bandiere, bande) o ancora alla fascia (banda) che indossavano i trombettieri che annunciavano il corteo regale (pensate ancora oggi alle processioni che con le bande annunciano l’arrivo del simulacro dei santi o alle parate o alle manifestazioni civili…).
Segue una classificazione, che si giova di proposte come la distinzione di Fulvio Creux, che le distingue in Bande amatoriali, più diffuse al centro nord, Bande ministeriali o bande militari ispirate alla struttura proposta da Vessella, e Bande da giro, tipiche del sud Italia, o come pure la distinzione delle bande pugliesi di Bianca Tragni, che le suddivide in bassa banda, o bassa musica, banda a servizio interno, simile alle bande amatoriali che limita la sua attività a livello locale, e banda da giro, fenomeno a parte perché erano e sono vere e proprie imprese che da maggio a ottobre suonavano per più di cento giornate e diventavano reddito per molti lavoratori della musica.
Interessante anche il riferimento al termine Concerto, molto usato per le Bande, che deriva dal latino “consertus”, letteralmente “legato insieme”, come lo sono gli strumenti di una formazione, e ad altri termini come Fanfara, formazione fatta di ottoni e percussioni di origine ottomana, e la distinzione in ambito anglosassone fra Brass-band inglesi, composte, come le fanfare, da ottoni e percussioni, e le Wind-band che avevano anche strumenti ad ancia, oltre ad altre interessanti notizie.
Raganato poi fa una analisi storica del fenomeno che parte dall’Egitto dei faraoni e nell’antica Grecia, dove l’uso primitivo di strumenti a fiato e di percussioni era legato principalmente a due ambiti. Quello militare e quello rituale–funebre, specie per i morti in battaglia, aspetti presenti in tutto il mondo antico fino all’Impero romano e che per certi aspetti ancora resistono.
Nel prosieguo del racconto riporta l’opinione di Vessella sulle bande musicali dei popoli barbari, essenzialmente formate da strumenti atti a creare un fragore assordante che incitasse i propri soldati e incutesse paura agli avversari.
Poi passa al Medioevo, dove gruppi musicali scandivano le diverse fasi dei tornei, ma accompagnavano pure i cortei regali, e delinea brevemente una figura importante per la musica popolare, quella del Menestrello (Minstrel), musicista, cantastorie, girovago, spesso autodidatta e senza formazione specifica a livello musicale, figura caratteristica di musica e cultura popolare che, come la banda, portava musica e poesia al popolo, ed era diversa da quella del Trovatore che era più colto, conosceva la letteratura e le tecniche di scrittura ed era bene inserito nelle corti dei nobili. La carrellata sul Medioevo si chiude citando pure le fanfar delle truppe turche.
Dopo questa disamina passa ad analizzare il percorso delle bande popolari in Italia, che prendono forma come tali nel XIX secolo, partendo dalle Bande militari, le più importanti, fino alle bande locali, piccole realtà, ma non meno significative. Artefici di queste bande locali erano sodalizi come le Società di Mutuo Soccorso, le Società Operaie, gli Oratori, specie quelli dei Salesiani, che erano luoghi di incontro, cultura e istruzione quando lo Stato non riusciva a garantire questo. Queste associazioni iniziarono a occuparsi, fra l’altro, della formazione musicale di bambini e degli adolescenti delle classi popolari.
La presenza delle bande era molto diffusa e determinante fu il ruolo educativo, fortemente moralizzante, della didattica musicale che interessò tutti i ceti sociali influenzandone pure i reciproci rapporti, un po’ come le associazioni di soccorso e volontariato che pure comprendevano diverse classi sociali che, nelle operazioni di soccorso, stavano fianco a fianco.
Il ritrovarsi per le prove portava a creare rapporti umani solidi e inaspettati per le differenze sociali, ma anche a ricercare esperienze musicali nuove. Proprio questa voglia di novità portò le bande a rinnovare il repertorio, per cui si passò dal repertorio di marce militari e ballabili a un repertorio più colto, ma sempre popolare, come la musica lirica.
Nel Regno delle Due Sicilie le bande popolari erano caratterizzate da una base popolare imponente costituita da artigiani, bottegai, contadini, operai guidati da Capi-musica, provenienti dai ranghi più bassi dei corpi militari e da maestri formatisi negli ambienti religiosi o nei Conservatori napoletani.
Il sospetto che queste bande potessero essere conniventi con associazioni segrete eversive, specie dopo i moti del 1848, portò i Borboni a controllarle e a regolamentarle, cercando di inglobarle nella Pubblica Amministrazione.
Per questo un Decreto Regio stabiliva che tutte le bande dovevano essere censite, che non dovevano indossare uniformi di tipo militare o non autorizzate, che i musicisti dovevano essere inquadrati nel corpo della guardia urbana del proprio municipio e che il Capobanda doveva avere una patente di riconoscimento con l’elenco dettagliato di tutti i musicanti della sua formazione. Per usare una divisa la banda doveva presentare un figurino della stessa, che doveva essere approvato dall’autorità, e doveva disporre di un abito nero per le ritualità funebri, di una divisa di ordinanza e di una divisa da parata.
Con l’Unità d’Italia le bande militari furono unificate e molte Amministrazioni locali cercarono di dotarsi di una banda civica da gestire con le proprie risorse. I Sindaci, oltre a promuovere le bande, dovevano controllare la moralità dei musicanti.
Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1872 in Italia erano attive 1927 formazioni, di cui nel Meridione 429 bande e 46 fanfare per un numero complessivo di 12.532 suonatori. In questo novero non c’erano le bande non istituzionalizzate.
Queste bande si esibivano nelle piazze e nelle ville comunali, spesso su strutture dette “Cassarmoniche”, che erano strutture in ferro o muratura a forma di padiglione o di pagoda che hanno dato origine alle attuali strutture mobili in legno che si montano in occasione delle feste patronali, strutture adorne di lampadine, ma spesso decorate con ritratti delle muse o dei musicisti come un teatro mobile.
Non manca in entrambe i libri il riferimento agli orfanotrofi, che si chiamavano Conservatori, che istruivano gli orfani alla musica e poi li indirizzavano ad arruolarsi nelle fanfare e nelle bande militari. Particolare a Lecce fu l’esperienza degli Spizziotti dell’Ospizio Garibaldi che formarono una banda benvoluta e apprezzata come i loro colleghi Martinitt a Milano.
Nel ventennio il fascismo cercò di accentrare e controllare tutto e le bande vennero inglobate nella Opera Nazionale del Dopolavoro (OND, 1925). Le bande che non si iscrivevano alla OND e i musicanti che non si tesseravano al Partito Fascista, non potevano suonare e al regime, che usava abbondantemente la propaganda; le bande servivano in molte occasioni (feste, adunate, manifestazioni…).
Con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla poi si avviò per i più giovani un programma di inquadramento musicale da affiancare all’attività sportiva e tanti ragazzi appresero i rudimenti della musica.
Nel dopoguerra si cercò di ricostruire l’Italia e riprese stimolo anche la ricostituzione delle bande. Si crearono nuovi complessi che richiamavano le jazz band, ma anche le bande tradizionali ripresero a suonare. Importante in questo periodo fu la fondazione dell’ ANBIMA (Associazione Nazionale Bande Italiane Musicali Autonome), animata da Lorenzo Semeraro, e il ricostituirsi di Associazioni culturali, chiuse dal Regime o inglobate nel Dopolavoro, che promossero l’istruzione musicale e la formazione di bande. Negli anni ’50 e ’60 le Amministrazioni locali cercarono di rilanciare il fenomeno inteso come momento di formazione culturale, istituendo corsi musicali popolari e vennero in questo supportate da ANBIMA che propose musicanti esperti, anche se non diplomati al Conservatorio, a cui venne riconosciuto un titolo dal Ministero della Pubblica Istruzione utilizzabile per insegnare in questi corsi ad orientamento bandistico che fornivano i mezzi per conoscere la musica e per farla concretamente. Così molti giovani tornarono ad essere istruiti alla pratica musicale e a sperimentare concretamente la musica suonando nelle bande (N.d’A. A Spongano in seguito a questi corsi furono in molti ad essere avviati alla musica e 10-15 ragazzi fecero l’esperienza della banda a giornata.)
Raganato ricorda come le bande riprendono il loro ruolo con successo grazie anche a valenti direttori dal gusto e dalla cultura musicale raffinata come Ligonzo, Lufrano, Centofanti e tanti altri.
Negli anni ’70 molti musicanti studiano al Conservatorio e possono ambire a qualcosa di più, per cui si indirizzano o verso le bande militari o verso l’insegnamento nella scuola. Resistono le Bande da Giro, che impegnano i lavoratori per 100 giorni all’anno, ma si cominciano a formare Bande a giornata che si spostano lo stesso per tutto il Meridione, ma fanno una stagione meno impegnativa, intorno alle 50 giornate all’anno, mantenendo una struttura che si ispira a quella delle bande da Giro, con un organico più contenuto, ma un repertorio classico di marce e fantasie d’opera con un occhio anche alla musica moderna (Canzonieri vari).
L’altro libro, di Gregorio M. Paone e Donato M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale Edizioni Efesto 2018), è meno analitico sull’excursus storico, ma pone di più l’accento sulla funzione sociale e pedagogica della banda.
Per sottolineare quanto le bande siano state importanti per fare musica, per farla conoscere e farla apprezzare, cita il metodo Orff nel quale il bambino impara la musica creandola assieme agli altri, prima con piccoli e semplici strumenti a percussione e poi approcciandosi a uno strumento vero e proprio, che può suonare in gruppo, misurandosi in una esperienza formidabile. Questo metodo didattico considera la pratica di uno strumento essenziale per l’apprendimento e ci introduce a quella che oggi, sempre più spesso, è la pratica nelle Scuole secondarie di primo grado dove, alla normale educazione musicale, si associa l’esperienza pratica supplementare con uno strumento. Viene, però, posto pure l’accento sulla banda come esperienza di vita, spendibile in tutti i campi della vita stessa, e sulla necessità di educare all’ascolto, perché solo ascoltando si può raggiungere una consapevolezza che porta a migliorare l’esecuzione. L’ascolto degli altri consente poi ad ognuno di collocarsi nella giusta dimensione ed essere parte di una esecuzione perfetta.
Nella musica d’insieme, che sia l’orchestra, una fanfara, un quartetto d’archi, un gruppo rock o la banda, ascoltarsi è essenziale. Chi suona deve saper ascoltare la propria voce e la voce degli altri, ma l’ascolto globale e analitico serve anche ad ognuno di apprezzare un brano che è sempre il contributo di più voci.
Per gli autori l’essere parte di una banda è una esperienza di vita che ti porta, già in giovane età, a maturare, a mettere in pratica la teoria, ad adattarti al rispetto delle regole e a misurarti con le difficoltà vere, al fianco di persone più esperte che ti possono guidare.
Una parte del libro è dedicata al Maestro Direttore che, specie nelle piccole realtà, era una specie di Capobanda con competenza per scrivere le parti e indirizzare i bandisti, ma con il tempo, evolvendosi la tecnica degli strumenti, la competenza dei singoli musicisti, la loro scolarizzazione e i gusti del pubblico, il suo ruolo è cambiato e ha dovuto avvicinarsi sempre più alla figura del Direttore d’orchestra.
In effetti, il Maestro, che è anche concertatore della banda, non deve tenere solo il tempo dei pezzi suonati, ma deve comunicare emozioni, interpretare la pagina stampata, ispirare i musicisti e il pubblico.
Questo hanno saputo fare i grandi Maestri del passato (Piantoni, Ernesto e Gennaro Abbate, Falcicchio…) e del passato recente (Ligonzo, Lufrano, Centofanti…), ma anche del presente (Samale, Schirinzi, Pescetti, Guerrieri, Donateo…) e non a caso molti dei nomi citati sono stati anche Direttori d’orchestra.
Quando il Maestro tocca le corde giuste, dirigendo i musicisti, nessuno resiste e si crea una sintonia che ammalia il cuore di chi ascolta e di chi suona e lo cattura per dargli balsamo di piacere.
Questa maestria i musicisti, allievi e non, la apprezzano e sarà una lezione che li guiderà nella vita.
La seconda parte del libro declina in pratica quanto descritto, cioè come la banda sia uno strumento formativo, educativo, e sociale riportando l’esperienza dell’Orchestragiovanile “P. Ragone” di Laureana di Borrello e il lavoro del Maestro Managò che, in una realtà sociale divisa dalle faide, trova nella musica un momento edificante che unisce tutti i giovani a dispetto delle inimicizie e del clima ostile. Questo sforzo sarà ripagato non solo per il risultato artistico, che porterà il giovane Concerto in tutta Italia, ma anche per i riconoscimenti ottenuti. Primo fra tutti l’interessamento di Riccardo Muti che riconosce nel lavoro del Maestro Managò, di tutti gli altri maestri di trincea e dei giovani musicisti l’impegno a costruire cultura, pace, godimento, umanità nel quotidiano e nel concreto, invitando una di queste bande, la giovane banda di Delianuova , ad aprire il Ravenna Festival nel 2006 dirigendola lui stesso.
Libri di nicchia forse, ma sicuramente letture interessanti e facilmente reperibili nei siti del web.
Passarono una decina di giorni scarsi e una mattina, mentre assonnato a causa della notte passata in bianco per il caldo si trovava ancora nell’altare di san Nicola per rinfrancarsi con un po’ di frescura, udì i cardini del portone della chiesa cigolare e nuovi passi veloci e leggeri susseguirsi sulla navata. Non poteva essere il servitore che era andato via da poco e neanche da giovane si era mosso con tanta agilità.
Si affacciò sulla corta navata del vecchio tempio e vide con sconforto la vedova Resta avanzare con la sua andatura spedita. Rassegnato le andò incontro. Si incontrarono all’altezza del confessionale di sinistra e don Celestino fece cenno alla donna di accomodarsi sull’inginocchiatoio
“Non voglio confessarmi” disse lei decisa
“Ah. E che volete?”
“La voce è tornata”
Don Celestino allargò le braccia
“Questa notte?”
“Si questa notte e anche le notti prima”
“E perché non siete venuta a dirmelo?”
“Perché voi non mi credevate papa”
“E bene? Cosa volete ora? Perché siete venuta a parlarmi di nuovo di questa voce?”
“Perché stavolta ho visto anche l’anima in pena che piange e si lamenta”
Don Celestino la squadrò dall’alto. Cercò di leggerle sul volto i segni della demenza, ma la vedova Resta pazza non era o almeno non lo sembrava. Appariva sicurissima di quel che diceva e, cosa più degna di nota, per nulla impressionata.
“In che senso l’avete vista?”
“L’ho vista, l’ho vista. Era come un’ombra che si muoveva con attorno una luce giallina”
“Finora non avevi mai visto questa luce?”
“Mai. Da quando sono venuta a confessarmi la prima volta, ho trascorso le notti alla finestra. Sentivo di tanto in tanto il lamento, leggero, lontano, ma luci nessuna. Questa notte l’ho vista. È durata poco, ma non la scordo”
“Maria” fece comprensivo “Non è che vi siete addormentata e avete sognato..”
“Cosa sognato? Cosa?” urlò la vedova sollevando le mani al cielo “Io oramai dormo il giorno per poter essere sveglia la notte. Guardate come sono sveglia e lucida, non come voi, papa, che state cascando in piedi”
“Calma Maria, calma. Non vi agitate”
“Ora dovete venire a benedire la casa dei Mauro”
“Come la casa dei Mauro?” chiese sorpreso il prete
“E certo. L’anima non sta in casa mia, ma nella casa che era di donna Petronilla Mauro e che sta addossata alla mia”
“Ma non ci abita nessuno?”
“No. Donna Petronilla è morta parecchi anni fa e il figlio mi sa che andò a stare dal padre che era del capo di Leuca”
“Ho capito. Ma come facciamo ad entrare in casa dei Mauro se non c’è nessuno”
“La benedite dalla finestra di casa mia” rispose netta la vedova che non aveva nessuna voglia di continuare quella discussione. “Vi aspetto stasera dopo la funzione. Sia lodato Gesù Cristo”
“Oggi e sempre sia lodato” rispose confuso il cantore.
La vedova uscì e don Celestino tornò sulla sua sedia nell’altare di San Nicola. Osservò con sguardo vuoto la porzione di navata che la prospettiva gli consentiva di vedere. Il sole, che in quel momento si trovava alle sue spalle, era alto e la luce che penetrava dalle finestre a forma di bocciolo poste sulla sua testa ne testimoniava l’eccezionale potenza. In quel bagliore giallo, le pareti della chiesa, i suoi arredi, le poche suppellettili spiccavano in tutta la loro miseria. L’umidità chiazzava di verde le vecchie mura; dai finestroni pendevano ragnatele e tracce di infiltrazioni solcavano dall’alto in basso il tempio. Puntualmente i vescovi avevano chiesto all’arciprete di turno di sistemare quel misero tempio, di acconciarlo e renderlo degna della sua funzione. Ma con quali denari? Il paese era povero. La chiesa stessa era povera e a costo di sacrifici si riusciva a tenerla almeno decente in qualche sua parte. Col terremoto del quarantatré si era lesionata e allora l’Università aveva dovuto vendere terre e beni per poterla mantenere in piedi. Del resto era il destino di tutte le chiese del paese. L’Annunziata era crollata più volte e ancora pericolava. Il Crocifisso, poco più di una cappella, era anch’esso ammorbato dall’umidità. Stessa cosa per la Madonna delle Grazie e per quella di Costantinopoli. Per non parlare della chiesa dello Spirito Santo, ancora interdetta. E cosa dire di tutte le chiese che, alcuni dicevano, erano esistite in passato e di cui oramai non c’era più traccia se non in qualche moncone di muro rimasto in piedi o in qualche vago ricordo dei più vecchi che ne avevano sentito parlare dai loro nonni.
Lui stesso se n’era sempre disinteressato. Aveva avuto cura dei propri paramenti, aveva sempre ottemperato con scrupolo al proprio ufficio ed infatti nessun vescovo, in tanti anni, gli aveva mosso il minimo appunto. Però non era andato mai oltre. Ducati ne aveva da parte, ma non li aveva mai spesi per sistemare la chiesa, per donarle un arredo, una tela, una statua.
“Magari in morte” concluse a mezza voce e tornò a leggere il breviario.
A sera, terminata la funzione, pose i paramenti con ordine in una delle casse della sagrestia, prese secchiello ed aspersorio e ritornò nell’aula dell’edificio sacro. Si avviò verso l’uscita e, passando accanto al fonte battesimale, prese un po’ d’acqua dal catino per versarla nel secchiello; ripose la bacinella d’ottone nel fonte e abbandonò il tempio.
Un leggero grecale addolciva l’aria e la luce rossastra del tramonto colorava le pareti delle case intorno al sagrato, omogeneizzandole in un comune tono roseo che camuffava crepe, macchie di umido e segni del tempo. Percorse la stretta via che portava in piazza e, giuntovi, superò la piccola chiesa del Crocifisso che si trovava alla sua destra. Bussò quindi ad una bassa porta di un bel verdone brillante.
“Chi è?”
“Don Celestino”
“Entrate, è aperto”
Il vecchio cantore spinse l’uscio ed entrò. La casa della vedova Resta, come d’altronde la gran parte delle case della gente comune del paese, si componeva di una sola stanza, con la madia, due o tre sedie, il camino in un angolo, stracci appesi ai chiodi e una tenda per celare i letti. La discreta ricchezza che il marito aveva accumulato, anche grazie a lei, la si poteva dedurre da un piccolo mobile lavorato posto in un angolo, con sopra una statua di san Rocco alta due o tre palmi, che al collo portava appesa una catenina d’oro con un anello nuziale. Sicuramente quello del povero Pietro Chiriace.
“Accomodatevi” fece “Di qua” e così scostò la tenda che separava la stanza dalla zona adibita a dormitorio. Accanto al canterano, posto al lato del letto, don Celestino notò una finestra aperta su un giardino.
“Questa l’aprì mio marito buonanima. Dà proprio sul cortile della casa dei Mauro” spiegò la vedova “È da qui che sento le voci. È da qui che ho visto la luce l’altra notte”
Il sacerdote si avvicinò e si affacciò. Il cortile era oramai in ombra. Era una sorta di rettangolo irregolare con due o tre alberi che, alla poca luce residua, ipotizzò essere di limone. Si capiva che era abbandonato da tempo, perché la vegetazione attorno agli arbusti cresceva alta e rigogliosa, coprendone quasi per intero i tronchi.
“Dove avete visto la luce?” chiese don Celestino
“Lì” indicò la vecchia ponendosi accanto, nel ristretto spazio della finestra.
Il dito, corto e nodoso, puntava ad una finestra al secondo piano. Quella parte della facciata dell’edificio era ancora in luce perciò il cantore poté osservarla con attenzione. L’intonaco attorno alla finestra era pressoché caduto. Resisteva solo un piccolo riquadro, abbastanza regolare, proprio sotto l’apertura. L’interno della stanza era celato da una tenda consunta.
“Avete visto la luce nonostante la tenda?” chiese sempre più dubbioso
“Si, ve lo giuro sul sacramento, papa” rispose rapida
“Lasciate stare i sacramenti” rispose un po’ spazientito
“La luce l’ho vista nitida perché la tenda non copre tutta la finestra. Quella è la finestra della vecchia camera da letto di donna Petronilla Mauro. Quando morì lei e la casa venne abbandonata, mio marito aprì questa finestra per fare entrare un po’ di aria e di luce in casa nostra. Non l’avesse mai fatto, pace all’anima sua”
“Va bene” fece accondiscendente don Celestino e, afferrato l’aspersorio, tracciò una croce nell’aria in direzione della casa dei Mauro, recitò alcune preghiere in latino poi si voltò e ripeté il rito a favore nella casa della vedova la quale, una volta zittitosi il sacerdote, si fece il segno della croce.
“Ora cercate di stare tranquilla” le disse “Riposate e non state sempre alla finestra”
Così dicendo chiuse lui stesso lo scuro. Nel farlo sentì però una sorta di fitta alla testa che lo spinse a portarsi la mano a semicerchio attorno alla fronte.
“Che avete papa?”
“Niente, niente. Con i vostri discorsi mi avete rintronato. Cercate di stare tranquilla”
“Me lo avete già detto”
“E allora fatelo” chiuse don Celestino ed uscì.
In piazza alcuni contadini discorrevano animatamente; accanto a loro passò il medico Matteo De Pandis a cavallo di una mula: proveniente dal suo comprensorio di case nel borgo fuori le mura, puntava verso l’abitazione di qualche ammalato o moribondo nel paese. I contadini si levarono il cappello per omaggiarlo.
Don Celestino percorse velocemente lo spiazzo e anche lui fu omaggiato dagli uomini in piazza. Li salutò con un breve cenno della mano. Giunto dal lato opposto si voltò per osservare la casa della vedova Resta. Lo sguardo puntò poi in alto: da lì vedeva, oramai quasi completamente al buio, il lato destro del palazzo dei Mauro e la finestra della camera che era stata di donna Petronilla. Fissò per un breve momento la fenditura nel muro celata dalla tenda consunta e la fitta si ripropose.
“Sono stanco” disse, senza però esserne convinto.
Giunse a casa, mentre per strada uomini e donne prendevano a sedersi vicino agli usci per trascorrere un paio di ore raccontandosi fatti della giornata e dei tempi passati. Sull’ingresso incrociò il servitore che accendeva il lume per rischiarare la misera stanza.
“Ancora insistete ad accendere lumi, con tutte le zanzare che ci sono” lo rimproverò il cantore
“A me le zanzare non mi toccano. Ho il sangue cattivo” rise il vecchio “Ma che avete?” aggiunse incupendosi. “Vi vedo pallido, avete gli occhi affossati. Non vi sentite bene?”
“Dammi una sedia e un boccale di acqua. Mi gira la testa”
“Volete due fichi anche?”
“No, solo da bere”
“Allora state proprio male” pensò il servo versandogli da bere da un otre di creta che aveva accanto al letto. Don Celestino bevve velocemente e si lasciò andare sulla sedia impagliata che il vecchio gli aveva messo vicino
“Cosa avete?” provo a chiedere nuovamente
“Te la ricordi donna Petronilla Mauro?” chiese di rimando il sacerdote
“Certo che me la ricordo” rispose il vecchio che in quelle storie di tempi passati ci scialava “Donne così belle non ne rinascono. Aveva due occhi neri che facevano innamorare. E quanti le fecero la corte prima che si accasasse! Bella e ricca com’era non era pane per gente del posto e infatti don Domenico, il padre, la diede al figlio di un signore del capo di Leuca. Poveretta” sospirò il vecchio dopo una breve pausa “tanto bella quanto sventurata”
“Perché?” chiese il cantore
“Il matrimonio non fu fortunato. Una figlia, Teresa, le morì che era piccolina e non aveva neanche dieci anni. Già allora donna Petronilla sembrò perdere la testa. Poi altri dolori glieli provocò l’altro figlio, Michele, che era uno scapestrato, si azzuffava con tutti i peggiori elementi del paese. Ma del resto la madre lo aveva cresciuto così, gli aveva passato tutti i vizi e tutti i lussi. Quando lei morì, una quindicina di anni fa, il padre lo prese e lo portò con sé nelle terre di famiglia. Abbandonarono tutto: quella bella casa che avevano in piazza, che se la vedete ora vi piange il cuore per come sta cadendo a pezzi, le terre, il mulino. Una fortuna buttata”
“Chi era il marito di donna Petronilla?”
“Don Francesco Letizia di Alessano. Dicono un uomo ricchissimo. Ma perché tutte queste domande su donna Petronilla?”
Il cantore gli raccontò la faccenda della vedova Resta, naturalmente ciò che non era coperto dal vincolo del confessionale.
“È possibile” sentenziò il servitore
“Cosa?” chiese il padrone
“Che l’anima di donna Petronilla Mauro si disperi ancora per la propria sorte. Povera donna. Bella com’era avrebbe meritato un’altra fine, papa”
Il sacerdote si alzò stancamente. L’acqua e le chiacchiere col servo gli avevano fatto passare quella morsa che gli aveva serrato con tanta violenza la fronte. Percepiva però ancora una sensazione di malessere. Forse avrebbe dovuto accettare qualcuno dei fichi che il servitore gli aveva offerto.
“Mi dai un fico?” chiese
“Ora sì che siete tornato in voi. Mi stavate facendo preoccupare” fece l’uomo porgendogli un grosso frutto verde
“Buona notte e grazie” si limitò a dire il cantore iniziando a salire la ripida scala che portava alle proprie stanze
“Buona notte, papa”.
[*] Illustrazioni di Andrea Palumbo. Ringrazio l’associazione Arataion.it per avermi fornito lo spunto e le basi documentali per raccontare questa vicenda.
La parola, si dice, è il principale, nostro esclusivo dettaglio che ci distingue dalle cosiddette bestie. Sulla sua potenza sono atati versati fiumi di … parole, per analizzarne la capacità di suggestione, dalla poesia alle promesse della politica …
Siamo tanto presuntuosamente sicuri della nostra intelligenza da non farci minimamente sfiorare dal dubbio che anche le bestie usino un loro linguaggio solo apparentemente non compplesso, coadiuvato, però, da capacità sensoriali che noi nel corso dei millenni noi umani abbiamo perduto per sempre.
Mi accorgo di aver imbroccato la strada, a me stesso antipatica della predica, parola deverbale da predicare, che è dal latino praedicare, composto da prae, che significa prima, e da dicare, che significa annunciare: insomma, predica alla lettera, equivale, sostanzialmente, a premessa, quella che troppo spesso nei dibattiti politici ha il compito di eludere una domanda scomoda e che è quasi sempre preceduta da un famigerato sarò breve …
Non voglio correre questo rischio e perciò preciso che l’attacco iniziale è legato non tanto all’invito a riflettere, almeno ogni tanto, su quello che, in fondo, veramente siamo, ma al fatto che tra parola e sparliggiare esiste uno strettissimo rapporto di parentela. Lo dimostra il seguente sintetico excursus etimologico.
PARABOLA è dal latino tardo parabola(m), a sua volta dal greco παραβολή, deverbale da παρα, che significa confrontare, composto da παρά (che significa presso) e da βάλλω (che significa gettare).
PAROLA è per sincope da parabola(m) attraverso la trafila parabola>paraola>parola).
PARLARE è per sincope dal latino tardo parabolare (attraverso la trafila parabolare>paraolare>parolare>parlare).
SPARLARE è da parlare con prostesi di s- (dal latino ex) in funzione peggiorativa.
Il salentino SPARLIGGIARE è forma frequentativa del precedente sparlare, con aggiunta alla radice (sparl-) del suffisso –iggiare corrispondente all’italiano –eggiare. Sparliggiare è usato come sinonimo di parlare a vanvera, farneticare. Ho sentito la stessa voce usata transitivamente in riferimento a persona come sinonimo di distrarre, indurrein errore, confondere in locuzioni del tipo no mmi sparliggiare (anche nella forma fattitiva no mmi fare sparliggiare) e riferito a cosa come sinonimo di cambiare di posto in locuzioni del tipo no sparliggiare li cose mia (non cambiare di posto le mie cose).
Spero solo che questo post non costituisca un plastico esempio del primo dei due significati appena riportati …
Il mio odierno incontro per caso con un contesto umano che è ormai una diffusa realtà
Mentre mi accingo a riguadagnare il portone condominiale e a risalire in casa dopo una breve passeggiata nei dintorni della mia abitazione, avverto di essere oggetto di discreti ma inequivocabili accenni vocali di saluto.
Al che, arresto i miei passi e mi rendo conto che le attenzioni nei miei confronti provengono dall’abitacolo di un’autovettura parcheggiata in corrispondenza del coesistente tratto di marciapiedi.
Sul sedile posteriore del veicolo, primo sportello aperto, si trova accomodato un ragazzino di carnagione color bruno intenso e dai grandi occhi parimenti scuri, il quale è intento a somministrare, con il biberon, sorsi di latte a una bimbetta, tenuta in braccio, palesemente nata da pochissimo tempo.
Accanto a lui, un’altra bimba e, infine, a ridosso dell’opposto sportello del mezzo, una giovane donna che, non faccio fatica a capire subito, è la genitrice del trio di figli.
Pressoché automaticamente e, comunque, con naturalezza, s’instaura una breve conversazione: il giovanissimo che va accudendo la sorellina appena venuta alla luce ha tredici anni, la seconda femminuccia, come dalla stessa mostrato a mezzo della manina, ne conta, a sua volta, quattro.
Quanto alla donna, infine, su mia esplicita richiesta, apprendo che, di primavere, ne annovera trentuno e che, in aggiunta agli eredi presenti con lei nell’auto, ha un quarto figlio quindicenne, per ciò messo al mondo, come facilmente conveniamo insieme, quando lei, di anni, ne assommava sedici.
Croate le origini del nucleo fortuitamente incontrato, al cui apice, mi viene riferito, c’è ovviamente un capo famiglia.
A Lecce oramai da lungo tempo, la loro residenza è in un alloggio delle case popolari nei paraggi dello stadio “Via del mare”, canone d’affitto mensile tra i cento e i centocinquanta euro.
Purtroppo, vengo a sapere, né la giovane mamma, né il compagno dispongono di un lavoro stabile. Al momento, precisa la donna, l’unica fonte di reddito è rappresentata dall’attività, espletata dall’uomo, di vendita porta a porta o, meglio, appartamento per appartamento nei condomini, di fiori e piante.
Non esita, la giovane mamma, incoraggiata, dice, dalla sensazione di aver di fronte una brava persona, a pregarmi di procurare un lavoro per lei e per il partner, “ne abbiamo estremo bisogno” sottolinea.
Da parte mia, pur attestando di immedesimarmi nella situazione, non posso che frapporre i limiti e la personale inadeguatezza rispetto a una richiesta del genere.
Nondimeno, la giovane mamma croata sorride discreta, senza il minimo segno di disappunto, e sorridono anche i due figli grandicelli.
E io mi sento piccolo piccolo nel constatare di non essere in grado di fare alcunché e, gli occhi in certo qual modo chini dietro tale sentimento di rammarico, mi congedo dai miei occasionali interlocutori, anche se, all’ultimo istante, prendo l’iniziativa di regalare ai ragazzini un cono gelato.
Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)
Per tre giorni e tre notti il vento non smise di sferzare uomini e cose. Violenti rovesci d’acqua si riversarono sul paese ingombrando le strade con torrenti di fango. Alcune case abbandonate da decenni caddero o si lesionarono sotto la furia degli elementi. Le incannicciate furono divelte e nelle campagne persino ulivi che avevano trascorso interi secoli ben conficcati nella terra furono sradicati. Stessa sorte per le vigne che, già cariche di grappoli neri, si ritrovarono prive di qualsiasi frutto e stese al suolo come ceppi da ardere. Finalmente, la mattina del due di agosto, un sole limpido e possente, conficcato in un cielo privo di nubi per miglia e miglia, segnò la fine della buriana. Il paese si svegliò frastornato e scosso.
Don Celestino, ritemprato nel corpo e nello spirito dalla fine del maltempo, si presentò alla parrocchiale prima del consueto. In quei tre giorni, seppur a fatica, aveva svolto con la diligenza solita i doveri di uomo di chiesa, celebrando la messa del mattino e quella della sera, seppur solo per il suo servitore. Da quella mattina fino alla metà del mese, avrebbe dovuto raddoppiare i propri sforzi. L’arciprete, infatti, come ogni anno aveva abbandonato il paese per passare le prime due settimane d’agosto in campagna; l’arcidiacono Francesco de Blasi, che nella gerarchia del capitolo della parrocchiale veniva subito dopo don Matteo Rocca, era da tempo allettato e prossimo a presentare la propria anima a Cristo. Spettava a lui quindi sovrintendere alle attività degli altri sacerdoti, impartire ordinariamente i sacramenti, celebrare le funzioni principali e via elencando. Per questo, in quella mattina di ritrovata estate, si era recato in chiesa con la giumenta. Subito dopo la funzione sarebbe dovuto andare a dare disposizioni al resto del clero, poi avrebbe portato conforto ad alcuni infermi e infine avrebbe fatto una trottata dalle parti della masseria Resta, di proprietà del Capitolo parrocchiale, per scambiare due parole con i coloni e per capire l’entità dei danni causati dalla furia celeste.
Celebrò messa alla presenza di una decina di donne, alcune accompagnate dai figli che trascorsero il tempo della funzione salendo e scendendo dalla scala dell’organo. Lasciati i paramenti in sagrestia, abbandonò il tempio e nel percorrere la navata notò i numerosi fasci di fiori deposti sull’altare di San Giovanni: ringraziamento concreto delle donne del paese per la fine del maltempo. Si avvicinò alla mensa in pietra, prese un mazzo di zagare dall’odore pungente e lo portò vicino al volto inebriandosi. Ripose i fiori ed uscì. Fuori dalla chiesa di San Nicola la luce del sole lo avvolse e riscaldò.
“Vado a sbrigare le faccende della mattina” disse al servo che lo attendeva crogiolandosi sul muro di fronte al tempio dove aveva addossato il piccolo calesse.
Il vecchio afferrò le assi del biroccio e le fissò nei finimenti della cavalla. Non appena don Celestino montò, gli passò le redini e diede un leggero colpo sulle natiche della giumenta per farla partire.
“Arrivederci papa” lo salutò
Il prete sollevò il braccio e prontamente riafferrò le redini. Lentamente la giumenta si incamminò. Giunti in piazza, il calesse svoltò sulla sinistra imboccando la via che conduceva alla chiesa dell’Annunziata. Don Celestino diede mano alle briglie per accelerare la corsa dell’animale ma, nei pressi della colonna di san Giovanni, elegante simbolo dei baroni del paese, le voci di un alterco lo attrassero. Prontamente tirò a sé le redini. Alla propria destra, dalla cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, provenivano urla e strepiti, bestemmie ed imprecazioni. Un concio di tufo volò fuori dalla porta ed allora gli animi si surriscaldarono ancor di più: le voci divennero sempre più violente, le ingiurie si inasprirono.
Restò ad ascoltare, ma la furia della lite rendeva incomprensibili le parole che rimbombavano nella chiesetta. Scendere o non scendere? Con la vecchiaia era divenuto curioso, troppo forse. Decise di andare a vedere. Smontò dal calesse, legò la giumenta ad uno stallo nei pressi del palazzo baronale ed entrò nella cappella.
Santi, madonne, ostie e lo stesso padreterno affollavano il luogo sacro, ma non sotto forma di immagini o sculture. Tre muratori, bianchi di tufo, urlavano contro un colosso alto una canna, con spalle larghe a stento contenute da una camicia bianca insudiciata su di una manica da sangue; sicuramente quello del più vecchio dei tre manovali il cui volto era abbondantemente imbrattato.
“Cosa succede?” urlò il prete, ma dovette ripetere la domanda più volte prima che i quattro si accorgessero di lui e si placassero.
“Cosa succede? Come osate bestemmiare in un luogo consacrato? Bestie che altro non siete. Segnatevi”
I quattro fecero di mala voglia il segno della croce.
Don Celestino si avvicinò al colosso, che sapeva essere uno dei servi della famiglia D’Acugna, l’atrio della cui casa stava proprio di fronte all’ingresso della piccola chiesa.
“Niente papa Celestino, niente” smorzò questo
“Voglio sapere” si oppose il vecchio che sentiva inappagata la curiosità
“Questi tre pretendono soldi che non spettano loro. Affari nostri”
“Ah, carogna” scattò il muratore che, nonostante la faccia insanguinata e le dimensioni dell’avversario, non sembrava averne timore. Gli altri due, all’apparenza neppure ventenni, lo tennero fermo.
“Calma” impose il cantore “Voi che dite? Vi spettano questi soldi?”
“Certo che ci spettano. Donna Giovanna ci ha mandato a chiamare per fare dei lavori in questa chiesa”
“Ma questa chiesa non è di donna Giovanna D’Acugna” interruppe don Celestino
“Io non ne so nulla. Così ci ha detto. Dovevamo imbiancarla a calce, sistemare l’altare e farci sopra una cornice in leccese. Guardate là” disse indicando il pavimento “Abbiamo portato da Cursi tutti i blocchi per intagliarli e sistemarli”
“Siete di Cursi?” chiese desideroso di conoscere i minimi dettagli della vicenda
“Si. E ora questo” e indicò a mano aperta il colosso “dice che non se ne fa più niente e non ci paga”
“Ma se voi non avete lavorato” intervenne il servo della nobildonna
“E le giornate, il materiale, l’affitto del carro chi me li paga” riprese ad urlare il muratore
“Hanno ragione” sentenziò don Celestino
“Non vi intromettete papa” fece l’uomo dei D’Acugna con aria benevola, senza riuscire però a celare il tono minaccioso.
Don Celestino non si scompose. Conosceva chi gli stava d’avanti e, soprattutto, conosceva donna Giovanna, ricca e vanitosa: non avrebbe certo corso il rischio di vedersi rovinata la fama per quattro conci e un po’ di calce.
“Salgo a parlarne con la tua padrona” disse il prete con finta aria ingenua
“Non vi intromettete” ripeté il servo piazzandosi tra il cantore e l’ingresso della cappella dedicata alla vergine, la quale, silenziosa, osservava la scena da un tela oramai sbiadita posta sul vecchio altare “Donna Giovanna non vuole fare più i lavori”
“E vi ha detto di non risarcire i manovali? Voglio sentirmelo dire da lei”
“Ma a voi cosa interessa?”
Fece conto di non sentirlo. Continuò a fissarlo sul volto, senza aria di sfida però, ma con compassione, con una faccia, per l’appunto, da prete.
“Quanto avevate pattuito?” disse poi don Celestino rivolto al capomastro
“Trenta ducati per dieci giornate di lavoro, dieci per il materiale e due ducati per il noleggio del carro”
“Le pietre potete riportarvele?”
I tre si consultarono
“Si”
“Giornate ve ne bastano tre come risarcimento”
“Ma papa” intervenne uno dei giovani “noi abbiamo rinunciato ad altri lavori”
“Voi..” provò ad intervenire il servo dei D’Acugna
“Tacete” lo zittì il cantore e tornando a rivolgersi ai manovali “Tre giornate ve le paga donna Giovanna, le altre sette io e venite ad intonacare la mia casa di campagna e a fare piccoli aggiusti”
“Va bene” fece il capo dei tre che capì subito la vantaggiosità dell’offerta.
“Dategli undici ducati” ordinò allora il prelato rivolgendosi nuovamente al bestione che con la sua stazza continuava ad ingombrare l’ingresso del tempio “Dagli undici ducati e non dico niente alla tua padrona sul fatto che volevi intascarti la mercede di questi uomini”
Il servo trasse dalla tasca un sacchetto di velluto nero, slegò i lacci, ne cavò fuori undici grosse monete d’argento e le passò al manovale
“Sia lodato Gesù Cristo” si congedò il cantore
“Oggi e sempre sia lodato” risposero i tre e immediatamente dopo: “Papa, ma dove dobbiamo venire a fare i lavori?”
“Andate in chiesa e chiedete al sacrestano di accompagnarvi dal servitore di don Celestino Giuri. Lui vi saprà dire” ed uscì.
Per un paio di giorni non successe nulla di particolare. Furono riparati alla meglio i danni del maltempo e la vita tornò a scorrere regolare. Il caldo riprese a farsi sentire e quei pochi aradeini rimasti in paese si rintanarono nelle proprie case, grandi o piccole che fossero, venendone fuori solo alle prime ore del giorno e verso sera, quando strade e cortili si popolavano di piccoli capannelli. Per il resto della giornata i vicoli del paese restavano deserti, arroventati com’erano dalla fiamma agostana che si abbatteva senza requie sugli uomini, le bestie e tutto ciò che stava loro attorno.
Le stanze personali del cantore, poste nel piano alto della casa, erano diventate invivibili. Il sole batteva sul terrazzo e il calore già di notte poco sopportabile, durante le ore del giorno rendeva pericoloso soggiornare in quegli ambienti. Ritirarsi in campagna sarebbe servito a poco, né avrebbe potuto farlo finché l’arciprete non fosse tornato dalla villeggiatura, a meno di non volersi organizzare con un costante via vai dal paese in occasione delle messe principali e delle varie cerimonie religiose.
“Nonostante il caldo” spiegò una sera al servitore che, mosso quasi dalla disperazione per il caldo, aveva provato a riproporre l’idea di ritirarsi a Lo Rizzo “da qui all’Assunta in paese si continuerà a nascere, e quindi a battezzarsi, a sposarsi, ad ammalarsi e a morire. Dovremmo andare avanti e indietro ogni giorno. Non è cosa. Ci ho pensato e ripensato, ma non si può fare. Pensa a dover venire da Lo Rizzo al paese nelle ore più calde della giornata: non sai che è rischioso percorrere lunghi tratti sotto il sole in questa stagione?
Il servo non si era mostrato convinto ma non aveva più osato riproporre la questione. In campagna ci sarebbe andato, ma da solo, da qualche amico o parente nelle lunghe ore in cui il cantore se ne stava in chiesa.
Don Celestino, infatti, aveva preso a passare gran parte delle ore di luce nella parrocchiale, seduto in uno degli altari laterali dell’aula liturgica. Partiva da quello di San Nicola che la mattina, finita la funzione, era quello più in ombra e poi, seguendo il moto del sole, si spostava di cappella in cappella, in una mano il breviario, nell’altra una banderuola con sopra l’effige di san Giuseppe che usava per sventolarsi. Non di rado, vinto dal caldo e sopraffatto dalla lettura, si addormentava pesantemente, finché il servitore, di ritorno dalle sue gite nei campi, non lo svegliava per ricordargli che era il momento di desinare o di andare a sbrigare qualche incombenza.
In una di quelle mattine, nel silenzio assoluto in cui era immersa la chiesa, udì passi leggeri e veloci. Si affacciò dall’altare del Carmelo, dove si era da poco spostato, e vide una piccola donna procedere sicura verso di lui. Giunta che fu a pochi passi, riconobbe la vedova Maria Resta. Il marito, che si chiamava Pietro Chiariace, pur da bracciante, era riuscito a accumulare una decina di orte di terre di proprietà, in parte sue e in parte portate in dote dalla stessa Maria. Una discreta fortuna, insomma.
“Papa, qua siete?” chiese con voce stridula
“Sia lodato Gesù Cristo” la salutò il cantore
“Oggi e sempre” fece la donna e poi, senza alcuna pausa, “Mi voglio confessare” aggiunse
“Va bene. Facciamolo qui che nel confessionale c’è da morire per il caldo”
“Eh” obiettò la vedova “Ma così mi vedete in viso”
“Ma se so già chi siete” protestò il cantore
“O vi mettete nel confessionale o non se ne parla. Ma ricordatevi che se esco di qui e muoio la colpa della dannazione dell’anima mia ricadrà su voi e voi solo”
Non c’era da discutere. Appoggiandosi al bastone, che finalmente aveva preso a portare abitudinariamente, don Celestino trascinò i propri passi fino al confessionale e vi entrò. La vecchia, impaziente, gli andò dietro ed entrato che fu il prete si inginocchiò
“In nomine patri et fili et spiritui sancti” esordì
“Amme”
“Avanti, confessate i vostri peccati”
“Non ne tengo peccati” esordì Maria Resta
“Questa è superbia ed è un peccato”
“E va bene, mettetelo nel conto” rispose poco preoccupata “Oltre a questo, però, peccati miei non ne ho. È l’anima di mia figlia che non riposa in pace”
“Non vi capisco Maria, parlate chiaro”
“La mia Giuseppa è morta il venticinque del mese scorso. Aveva trentacinque anni. Che fiore che era. Che fiore”
La donna si mise a singhiozzare. Don Celestino aspettò che si calmasse
“Papa Rocca le diede i conforti religiosi e tutto il resto. Dopo pochi giorni però dalla morte iniziai a sentire durante la notte voci, colpi secchi, rumori di mobili trascinati, di catene”
“Maria” provò ad intervenire il cantore “Magari il dolore…”
“Non sono pazza papa e il dolore non c’entra. All’inizio ho pensato che fosse qualcuno nelle case vicine a muovere mobili a fare rumore, ma le case vicino alla mia sono disabitate, non c’è anima viva. E poi le cose sono peggiorate dopo la tempesta”
“In che senso”
“Nel senso che rumori si sentono di meno. Niente mobili, colpi, catene ma solo lamenti. A volte si sente piangere”
La vecchia smise di parlare.
“Maria” chiamò don Celestino “Maria, proseguite”
La donna non parlava.
Il cantore uscì dal confessionale e la vide ferma, immobile, una statua di cera a fissare il vuoto.
“Maria” le urlò scuotendola con entrambe le mani.
La donna esplose in un pianto disperato, gli occhi si arrossarono e una voce lacerante, catarrosa e inquietante venne fuori dalla sua bocca.
“L’altra notte, papa, non ce l’ho fatta più. La voce piangeva, piangeva, si lamentava. Allora mi sono affacciata alla finestra. Luna non ce n’era quasi e fuori era tutto buio. Allora ho gridato “Giuseppa, Giuseppa che tieni? Perché piangi”
“Bhè” chiese il vecchio prete impressionato
“Niente. La voce è sparita e non l’ho sentita più fino a stanotte. Era l’ora sesta quando il lamento ha ripreso”
La vecchia sembrava ora essersi calmata. Lo sfogo le aveva disteso i nervi. Don Celestino allentò le mani che aveva stretto sulle scapole della donna.
“Tornate nel confessionale” disse lei cogliendo di sorpresa il sacerdote “Tornate che così non vi posso parlare” insistette.
Rassegnato, don Celestino rientrò nel suo forno di legno
“Maria” esordì “Tu dici che tu non sei sconvolta per la morta di Giuseppa, ma non ci credo”
“Papa” interruppe
“No aspetta, fammi finire. Giuseppa è morta in grazia di Dio, peccati sono sicuro non ne avesse, perché era una brava donna e anche se li avesse avuti in punto di morte ha ricevuto tutti i sacramenti”
“E allora quale anima piange e si lamenta? Mio marito? Buonanima”
“Chi ti dice che sia un’anima. Tu hai la testa e il cuore scossi. I rumori che senti possono venire da altre case, possono essere gatti in amore come ce ne sono tanti in questa stagione, può essere il vento che si infiltra dalle finestre, qualche civetta o barbagianni che ha fatto il nido dalle parti di casa tua”
La vecchia taceva
“Maria, parlate” ordinò il cantore “Non mi fate inquietare”
“Non mi convincete, papa. I rumori che sento, le voci e tutto il resto sono di un’anima”
“Facciamo così” mediò il vecchio prete “Se le prossime notti senti ancora delle voci o qualcos’altro che ti impressiona, vieni di nuovo da me, ti benedico la casa e diciamo una messa per Giuseppa e per tuo marito”
“La messa me la dice lo stesso”
“Va bene, va bene. Ora andate e cercate di riposare”
“E l’assoluzione”
“Peccati non ne avete” rise don Celestino “Lo avete detto voi stessa”
“E la superbia? Se non mi assolvete non me ne vado”
“E va bene. Ego te absolvo….” snocciolò accondiscendente
La vedova fece il segno della croce, si sollevò dall’inginocchiato e, atteso il confessore per baciargli la mano, si congedò.
Il superamento degli spazi vuoti, generati nelle murature dalla presenza di vani porte e finestre, affidato anticamente al sistema trilitico (due piedritti ed un architrave monolitico), veniva risolto, per luci corrispondenti, al massimo, alla lunghezza di due conci con un architrave costituito da tre conci di cui due con testa tagliata soprasquadro, disposti orizzontalmente e simmetricamente parzialmente sporgenti dalle “spalle” del vano e un terzo concio centrale di “chiave” caratterizzato dal taglio “a spalla” delle due teste.
Al disopra, si disponeva spesso un “arco di scarico”, costituito da due conci con la testa tagliata leggermente sottosquadro che, lavorando a contrasto, trasmettevano orizzontalmente una parte del carico verticale superiore, contribuendo ad una riduzione delle sollecitazioni di taglio in corrispondenza dei limiti (spalle) del vano.
Per luci maggiori o per motivi di ordine estetico ed architettonico si ricorreva, sempre con l’impiego di una centina in legno, ad una vasta tipologia di archi, dall’arco “a tutto sesto”, all’arco “a sesto ribassato”, alla “piattabanda” e, nel periodo di fioritura del Barocco, all’arco trilobato policentrico, tipico dell’architettura neretina.
le volte in muratura
Da quando l’uomo, lasciando grotte e caverne, ha cercato di costruirsi uno spazio chiuso nei luoghi in cui andava a stabilirsi, la chiusura orizzontale superiore di tale spazio ha rappresentato il momento più impegnativo,
sia quando ha pensato di farlo con una lastra monolitica e ancor più con la realizzazione di una volta muraria. La meraviglia, lo stupore risultanti dalla constatazione dell’abilità di far rimanere sospesi in aria i conci di pietra che, per gravità, sarebbero dovuti precipitare al suolo, aveva qualcosa di magico, specialmente agli occhi di chi era abituato ad occuparsi soltanto dei lavori dei campi. Questa magia imponeva un festeggiamento che si concretizzava con una medaglia murata con il concio di chiave, come per assicurarsi una protezione soprannaturale, e con un cerimoniale che culminava in un evento conviviale: lucapucanale.
Nell’ambito delle strutture murarie la volta ha rappresentato non solo la manifestazione più alta delle capacità tecniche realizzative ma anche e soprattutto il coronamento dell’impegno delle facoltà creative ed il punto di arrivo della ricerca primordiale del sistema più efficace per la chiusura orizzontale dello spazio.
Ha costituito un sistema perfezionato con il concorso sia delle capacità operative individuali che del materiale disponibile.
In definitiva, la tradizionale mancanza di legname necessario nella realizzazione di coperture piane e di tetti ha imposto la costruzione della volta muraria, peraltro favorita dalla presenza di maestranze dotate di notevole abilità e dalla disponibilità di una pietra particolarmente facile da lavorare e abbastanza resistente: questo tufo di colore giallo paglierino, leggero e resistente, di grana pastosa e morbida, che riflette una luce mai tagliente ma docile e cangiante al variare delle ore del giorno.
La costruzione della volta più semplice, la volta a botte non era altro che la ripetizione di un’altra struttura elementare: quella dell’arco a tutto sesto, che a sua volta rappresentava il punto di arrivo di esperienze plurisecolari iniziate con il superamento del sistema architravato (due piedritti e un architrave) condizionato dal peso del blocco monolitico e quindi dall’estensione delle luci. Con l’esperienza maturata attraverso secoli si comprese che il carico sull’architrave monolitico portato dalla muratura soprastante poteva essere attenuato, se non eliminato, con il posizionamento di conci a sbalzo (v. porta dei leoni di Micene) praticato, per esempio, nelle coperture dei trulli locali (furnieddhi), senza l’ uso di impalcature.
L’arco a tutto sesto ebbe la massima espansione e diffusione nel periodo dell’Impero romano e diede luogo successivamente a numerose variazioni ed applicazioni, dai ponti agli acquedotti, alle gallerie, ecc. con delle sagome via via modificate fino a comprendere nel ‘700 anche l’arco trilobato molto diffuso e tipico di Nardò.
Come l’arco a tutto sesto rappresenta l’elemento originario della volta a botte, analogamente, la volta a botte (che si può considerare generata dalla traslazione di un arco lungo una direttrice ad esso ortogonale) rappresenta l’elemento di base di tutte le variazioni sul tema che hanno prodotto le numerose tipologie di volte in muratura.
Sommariamente, le volte in uso più frequente possono distinguersi in:
– volte semplici, costituite da una superficie di intradosso caratterizzata da un’unica generatrice secondo una unica direttrice come per es. la volta a botte;
– volte composte, formate da più superfici di intradosso provenienti da volte semplici, come le volte a padiglione, a schifo, a crociera. – unghia – parte di volta a botte con superficie a proiezione orizzontale triangolare, segata da due piani diagonali, con tre lati curvi;In definitiva, segando una volta a botte con due piani diagonali, si hanno due unghie e due spicchi.Senza entrare nelle numerose tipologie diffuse localmente, dalle volte a schifo alle volte a crociera, alle volte variamente lunettate, si ricordano le due volte leccesi più diffuse localmente:
Praticamente, con quattro spicchi si forma una volta a padiglione e con quattro unghie, una volta a crociera.
– spicchio – parte di volta a botte con superficie a proiezione orizzontale triangolare, segata da un piano diagonale, con due lati curvi.
In questo ultimo tipo di volta occorre ricordare due tipi di superfici cilindriche provenienti da una volta a botte tagliata da piani diagonali e cioè:
volte a squadro e volte a spigolo.venivano generalmente impiegate per la copertura di ambienti dei piani superiori al piano terra, dove si utilizzavano come piedritti anche le murature continue di divisione dei vani, di spessore limitato (20 cm.).La costruzione di una volta a squadro iniziava con l’impostazione delle “appese”. Queste, pur ricomprese nella forma della volta non ne fanno staticamente parte, dovendole considerare più propriamente integrate con i sostegni verticali. Sono costituite da fusi cilindrici le cui linee d’imposta sono disposte a squadro (da cui il nome della volta); la lunghezza dei lati d’imposta dei fusi cilindrici varia da 40 cm. ad un metro, secondo l’ampiezza dell’ambiente; per ambienti di dimensioni correnti è di circa cm. 60. Nel gioco statico della volta a squadro gli elementi portanti sono costituiti dalle unghie e dai cappucci mentre la calotta stellare è portata.
I vantaggi derivanti dall’impiego di questo tipo di volta si possono così riassumere:
L’apparecchio delle volte a squadro è molto simile a quello della volta a spigolo con la differenza sostanziale della presenza dei cappucci, che sono dei fusi costituiti da conci di forma trapezoidale, chiusi in alto da un pezzo speciale a forma di triedro, detto cappello di prete, e sporgenti, all’imposta, di 4-5 cm. rispetto alla faccia del muro (dente).
Nei casi in cui le strutture portanti erano costituite da pilastri si adoperavano le volte a spigolo. Questo avveniva soprattutto nella copertura dei piani terra e interrati e per locali ad uso deposito o stabilimenti di tipo agricolo e industriale.
– le volte a squadro
le unghie, avendo corda inferiore rispetto alle corrispondenti della volta a spigolo, producono spinta orizzontale minore ed avendo monta più alta possono essere realizzate con sesto acuto o semicircolare evitando sesti ribassati più spingenti;
le sollecitazioni statiche non sono concentrate all’angolo dell’ambiente come per le volte a spigoli ma risultano distribuite lungo lo squadro di imposta delle appese;
il punto di applicazione delle spinte è arretrato dagli angoli dell’ambiente, per effetto della lunghezza dell’imposta degli squadri. Montate le appese (anche per futuri ampliamenti) fino all’ultima mano (4° o 5° corso) caratterizzata dall’assetto a spalla (piano alle reni – ncunigghiatu) con le relative “cariche” e completate le murature perimetrali del vano, veniva “segnata” la volta cioè la traccia dell’intradosso delle quattro unghie (dette “formate”) sui muri d’ambito. Seguendo la traccia segnata, si praticava nella muratura un incavo a sezione triangolare (palombella o palumbeddhra) della profondità di circa cm. 5-8 e dell’altezza di cm. 15-16, in cui successivamente venivano inseriti “di punta” i conci ( “petre ti gliama quatre”) della formata, con la testa tagliata sottosquadro di alcuni centimetri.partendo dall’ultimo corso delle appese (summarieddru) e procedendo simmetricamente da destra e da sinistra, adoperando conci in coppia di lunghezza variabile per assicurare lo sfalsamento dei giunti, si procedeva alla costruzione della formata (unghia di volta a botte). La prima mano (la prima coppia di conci) veniva messa in opera senza forma. Successivamente, veniva montata la forma operando l’accorgimento di disporre la sommità della forma ad una quota di circa 2 cm. più in alto della quota di intradosso della “palombella” (capuallegra); per questo, anche dopo il naturale assestamento, rimaneva una inclinazione di circa l’1,5% del concio di chiave della formata, rispetto all’arco di testa. I conci del bordo dell’unghia venivano tagliati per assumere una forma trapezia in cui le basi avevano una differenza di lunghezza di circa cm. 14 detta “sporgiu” e la testa corrispondente al profilo dell’unghia veniva tagliata con un sottosquadro di circa 2 cm. su cui poi si dovevano reggere gli archetti delle vele. Esaurita la costruzione delle quattro formate, si passava alla costruzione delle vele in cui si adoperavano “petre ti gliamatonde” che, cioè, avevano un profilo longitudinale arcuato con una curvatura di circa il 2%. La testa dei conci veniva tagliata con una inclinazione che veniva ricavata con la “mezza croce” che doveva essere impostata, sul concio da preparare con la faccia rivolta in alto, avanti (‘nnanzi) cioè aderente allo squadratore (quindi la testa destra) o fuori (fore) cioè dalla parte opposta (quindi la testa sinistra). Superato il punto più sporgente dell’unghia di volta si procedeva, con corsi successivi ad anello, in senso orario, fino al completamento della calotta con il concio di chiave che, a volte, portava scolpita in rilievo la figura di un fiore al cui centro veniva praticato un foro passante per l’applicazione di un anello metallico di sostegno della catena del candelabro. tra l’intradosso della calotta ed il profilo dei cappucci, si operava una differenza di piano di circa 4-5 cm. con un risalto che contribuiva ad esaltare la leggerezza delle parti curve. in alcuni casi, specialmente nelle costruzioni rurali, in sede di “sprofilatura” della volta, questo risalto veniva quasi completamente spianato tagliando parzialmente la sporgenza e confrontando la superficie con ringrossi di malta. Nella operazione della sprofilatura della volta poteva capitare il caso di dover ritoccare anche il profilo delle appese; ciò avveniva specialmente nel caso in cui le appese erano state predisposte in tempi precedenti, per tener conto di futuri ampliamenti, quando ancora non era stata determinata la luce del vano adiacente e quindi il profilo o la centina delle formate. Alla stabilità della volta concorreva non solo la “carica” ma anche il rinfianco delle formate che a volte veniva realizzato con una malta di detriti tufacei grossi, impastati con terreno vegetale e calce (murtieri).
Tutti questi accorgimenti non potevano prescindere dalla realizzazione del successivo intonaco che, a volte, nascondeva anche inevitabili approssimazioni che venivano operate nella messa in opera di conci delle formate e dei cappucci e che per questo non ha senso metterle in vista, stonacandole, perché in tal modo si perde quell’obbiettivo di esaltazione del senso di unitarietà e leggerezza che viene trasmesso da una volta a squadro, anche in rapporto ad una volta a botte: quest’ultima sì, se piace, può essere portata a vista perché non nasconde quasi mai approssimazioni di sorta.
In altri casi, per esaltare l’aspetto delle vele, il risalto veniva raccordato con una sezione curvilinea che contribuiva a evidenziare la leggerezza della calotta.
Nel caso di volte di vani contigui coperti con volta a spigolo, la coppia di formate adiacenti costituiva la “formata volante” che permetteva l’eliminazione del muro di divisione tra i due ambienti per la parte compresa tra le appese.
Per procedere alla costruzione della volta, si predisponeva un’impalcatura chiusa, costituita da tavoloni appoggiati a due travi in legno infisse nei fori predisposti nei muri, con una apertura di passaggio al centro in cui veniva appoggiata una scala a pioli in legno. per realizzare la formata si predisponeva la forma in legno, costruita con l’impiego di un murale da 8×8 o 10×10 cm., a secondo della luce dell’ambiente, su cui veniva fissata una poligonale avente press’a poco l’andamento dell’intradosso della formata, ottenuta inchiodando delle assi in legno della lunghezza di 60-70 cm. (“penne ti forma”) sostenute anche da radiali inchiodate al murale. Sulla poligonale così ottenuta si segnava l’andamento dell’intradosso della formata e si regolarizzava il profilo tagliando le differenze con l’ausilio di un’ascia da falegname.
Da tutto ciò deriva una migliore ripartizione dei carichi e delle spinte, con conseguente riduzione dei valori unitari delle sollecitazioni, sulle zone di muratura in corrispondenza degli angoli degli ambienti che, nel caso di grandi dimensioni vengono ringrossati formando dei sorta di pilastri a “L” (ricchie o ricchiature).
Tratto dal volume di seguito riportato, per gentile concessione dell’Autore:
La chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Maurizio Nocera,Quando Luciana Palmieri scrisse della chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 273-280
ITALIANO
Alcune pagine di Luciana Palmieri rappresentano lo spunto per un veloce ritratto di un’antica chiesa extramoenia di Galugnano intitolata a Santa Maria della Neve.
ENGLISH
Some of Luciana Palmieri’s pages rapresent the basis for a quick done portrait of an ancient extramoenia church in Galugnano dedicated to Saint Maria della Neve.
Keyword
Maurizio Nocera, Luciana Palmieri, Santa Maria della Neve, Galugnano
Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)
Dormì per tutto il pomeriggio, ma un sonno agitato, frammentato, pieno di immagini confuse, di suoni indistinti. Rivide la smorfia di dolore sul volto del Castriota, nella testa risuonò il rumore degli zoccoli dei cavalli del governatore e la voce tonante di questo rimbombò come se fosse proprio lì, nella sua stanza. Si alzò dal letto solo per urinare e per bere l’acqua oramai calda della brocca. A metà pomeriggio decise di sgranchire un po’ le gambe che sentiva costipate e rigide. Scese dal letto con difficoltà. I muscoli erano contratti e gli facevano male, sicuramente per le corse del mattino. Si lavò velocemente nel bacile e andò nella camera accanto, separata dalla sua da una pesante tenda ingrigita. Sul grande tavolo in legno che suo padre aveva fatto costruire da un falegname di Nardò mezzo secolo prima, il servitore aveva posato un piatto di fichi nerissimi. In un altro piatto delle frise e delle cipolle.
Tastò i frutti dalla cui rossa fenditura sul fondo veniva fuori un intenso odore zuccherino. Ne sbucciò uno e poi velocemente altri tre mentre non aveva ancora finito di ingoiare il primo. Erano delle primizie a cui non riusciva a resistere.
“Eh la gola, la gola don Celestino” mormorò a se stesso
Da una nicchia del muro trasse fuori un piccolo fiasco con del vino. Lo versò e lo bevve sempre restando in piedi. A piano terra sentì passi e voci; si affacciò nella tromba delle scale.
“I fichi sono dei Monticelli o de Lo Rizzo?”
“De Lo Rizzo, papa” rispose il servitore
“Sono buoni”
“Vi porto altro?” fece il vecchio affacciandosi ai piedi della scalinata
“No, no. Vai solo da papa Rocca e digli che non sto in salute e che stasera non celebro”
“Soffrite il caldo? Volete che selli la giumenta e vi accompagni in campagna” propose
“No, no. In campagna andiamo il sedici, dopo l’Assunta. Te l’ho già detto più volte. Vai da papa Rocca, io torno a letto”
“Come volete” rispose deluso il servitore e sparì.
Tornò al tavolo, prese un altro fico, lo sbucciò e trascinando con difficoltà le gambe che sentiva rigide e pesanti, tornò a letto. Poggiò il frutto sul canterano, tolse la tunica che non aveva levato di dosso per tutta la giornata, si stese e finì di mangiare. Finalmente si addormentò e fece un sonno tutto filato fino all’indomani mattina quando la voce del servitore lo svegliò rudemente.
“Papa, papa. Neanche stamattina celebrate?”
“Si, si. Perché urli?” protestò mettendosi a sedere.
Si sentiva meglio. Il sonno lo aveva rinfrancato, le ossa non gli dolevano e sentiva i muscoli rilassati. Scese dal letto, espletò i bisogni corporali, si lavò nella tinozza e prese ad indossare la tunica. Il servitore scese a svuotare il pitale, poi risalì nella camera da letto. Con il lume poggiato al davanzale e lo sguardo rivolto a destra attese silenzioso che il padrone completasse la vestizione.
“Tu mi devi spiegare perché ogni mattina ti metti a guardare dalle parti dei D’Acugna” fece don Celestino quasi con indifferenza
“Io, papa? Io?” rispose risentito il vecchio
“Eh si. Tu” ridacchiò allusivo
“Ma che dite papa”
“Cerchi la tua bella?”
“All’età mia!”
“Neviglia, la cameriera, non ha la tua stessa età?”
“Ha tre anni più di me” rispose d’istinto il paggio
“Eh allora?”
Alla luce fioca potè osservare il viso del vecchio divenire rosso mentre lo sguardo testimoniava chiaramente che il pensiero era andato già oltre. Forse alla vecchia Neviglia che da giovane aveva fatto girare la testa a più d’uno. Chissà, magari ancora sortiva qualche effetto sul suo servitore che, ingobbito e decrepito, ora gli stava di fronte e faceva evidentemente forza a se stesso per non tornare a poggiarsi al davanzale.
“È proprio vero” mormorò il cantore “Est in canitie ridicula Venus”
Il vecchio sentì la frase in latino e d’istinto fece il segno della croce
“Andiamo, andiamo” rise il sacerdote “Precedimi”
“Si, papa”.
Scesero lentamente le scale e, usciti che furono dall’archetto che delimitava la bella casa palazziata di don Celestino, furono colti da una ventata terrosa in pieno viso. La nera tunica si agitò violentemente e solo l’istinto, che spinse il cantore a portare immediatamente la mano sulla testa, impedì al tricorno di volarsene.
“O Dio mio” fece don Celestino
“Si, papa. Stanotte si è sollevata una tramontana tremenda” spiegò a voce alta il vecchio per vincere l’urlo del vento “Fuori dal paese non si può stare”
“Non me ne ero reso conto” commentò il prelato piegandosi in avanti e procedendo a fatica. Con il fazzoletto alla bocca e gli occhi serrati, il vecchio sacerdote avanzò scortato dal servitore che, come poteva, cercava di ripararlo dal vento precedendolo.
Per le strade la polvere turbinava e la tramontana ululava selvaggiamente. Le viuzze del quartiere di Santa Caterina erano ingombre di stracci, rami, vetri, embrici, assi divelte. Le poche persiane rimaste aperte sbattevano, mentre raffiche violente serpeggiavano tra i vicoli bui. La piazza era ancora in piena oscurità nonostante l’ora. Una fitta coltre di nubi mascherava la flebile luce del sole all’aurora.
“Sono andato in catalessi stanotte. Non ho sentito nulla” pensò il cantore frastornato dal rumore del vento.
I due vecchi cercarono di accelerare il passo attraversando la piazza e con non poco sforzo raggiunsero la chiesa. Ai piedi della piccola scalinata, contrastato dal vento che ora lo colpiva frontalmente, don Celestino si ritrovò a rimpiangere un bastone da passeggio. Entrarono finalmente in chiesa. L’aula era completamente vuota e buia. Il sole non era ancora spuntato al di sopra delle mura del paese e comunque le nubi avrebbero di sicuro attutito se non annullato la forza della sua luce. Nell’edificio stagnava l’odore della cera delle candele accese per la funzione della sera prima: era l’unica prova del fatto che in quel luogo era passata della vita. Il muggito cupo della borea rimbombava tra le mura.
Senza parlare, appoggiandosi alle pareti di sinistra, raggiunsero con difficoltà la sagrestia e vi entrarono. Le candele già accese permisero loro di tornare nel mondo della luce.
“Sia lodato Gesù Cristo” li accolse don Matteo Rocca
“Oggi e sempre sia lodato” risposero all’unisono, meccanicamente
“Buongiorno papa” aggiunse poi il servitore
“Ci sono novità” chiese invece don Celestino ad alta voce
“Su cosa?” rispose l’arciprete, quasi stupito
“Sul morto di ieri”
“Ah” rispose indifferente “Nessuna. Il corpo se lo sono presi quelli della Camera Baronale ma oggi ce lo ridanno per seppellirlo in chiesa”
“Ma quindi è di Aradeo, non di Galatina”
“Si, si. È originario di San Pietro in Galatina, ma abitava qui da qualche mese con la moglie che si chiama Agata Calò”
“Agata Calò” ripeté il cantore “Non la conosco”
“Nemmeno io” fece l’arciprete di rimando
“E tu?” chiese don Celestino al servitore
“Agata? Si. È la figlia di Felicia Rizzo, che sta a servizio dai D’Acugna. Ma il marito, questo Castriota, non l’ho mai visto. Si saranno sposati da poco e abiteranno in qualche terra dei signori” ipotizzò
Tacquero poi, come riscuotendosi, don Celestino si avvicinò alla grande cassapanca sul fondo della sacrestia, l’aprì, estrasse i paramenti e la richiuse.
“Vi aiuto” fece il servitore avvicinandosi
L’arciprete si congedò.
“Il funerale lo celebriamo a sedicesima ora” disse però prima di uscire, “tanto non fa caldo oggi e non ci sarà molta gente in paese con queste tempesta”
“Come volete” rispose il cantore. Diede un’ultima sistemata al cingolo e, rivolgendosi al servo, ordinò “Andiamo”
Furono di nuovo in chiesa: l’aula era ancora al buio e dai finestroni in alto non penetrava la minima luce. Non c’era nessuno, come si poteva facilmente ipotizzare: il servitore accese ugualmente le due lampade ai lati dell’altare maggiore.
Don Celestino entrò nel presbiterio, ascese i tre gradini dell’altare in pietra leccese decorato con eleganti colonnine e baciò la mensa. Il servitore si segnò, rassegnato a seguire la solita messa da solo.
Il resto della mattinata, in attesa del funerale, don Celestino la trascorse seduto su una seggiola in uno degli altari laterali, quello di san Giuseppe. Perché si stava arrovellando tanto con quel morto? In vita sua non ne aveva visti molti di ammazzati, ma neppure pochi. E allora? Forse era stata quella strana macchia sotto il collo? Che poi, a ben pensare, cosa c’era di strano in una macchia di tinta? Forse allora la concitazione del momento, la corsa, quella posa scomposta di Castriota, addossato al muro dei Francone come un sacco vuoto. Non riusciva a spiegarselo, eppure il pensiero tornava ossessivamente lì, al rione dei Mauri, agli occhi prima afflitti poi vuoti dell’ammazzato.
Passi lenti e leggeri lo distolsero. Sentì sedici rintocchi e vide l’arciprete attraversare lentamente la navata in penombra.
“Sono qui” disse don Celestino, a voce troppo bassa per essere udito
“Don Matteo attendete” urlò e finalmente il vecchio sacerdote si accorse di lui.
Gli fu accanto e insieme raggiunsero l’ingresso della chiesa. Rimasero dentro, mentre fuori l’urlo del vento sembrava aver rafforzato la propria intensità. All’improvviso la porta si spalancò. Due gendarmi entrarono portando su una lettiga il cadavere di Castriota. Dietro di loro una piccola figura, di nero vestita e coperta da un velo ugualmente nero, seppur più consunto, entrò silenziosa. Il cantore la osservò attentamente, mentre l’arciprete iniziava a snocciolare monotonamente le litanie funebri.
La donna, di sicuro Agata Calò, era di una bellezza da lasciare esterrefatto anche un vecchio sacerdote che mai aveva badato alle cose mondane, figurarsi alle soglie della morte. Non aveva mai conosciuto né visto una donna così bella in quei settant’anni che il Padre Eterno gli aveva dato da vivere. Il viso, circondato dal velo del lutto, era abbronzato e liscio. Corpose ciglia nere oscillavano pigramente su occhi di un verde cupo, profondo. Il naso, piccolo e sottile, da statua, attaccava poco sopra le labbra opache. Su quell’ovale perfetto e delicato, due grosse lacrime lasciavano il loro segno scorrendo lentamente.
“In nomine patris, et filii et spiritui sancti” chiuse don Matteo Rocca.
Tutti si segnarono. Don Celestino passò l’aspersorio all’arciprete. Tre manate violente sancirono la benedizione del morto e degli astanti.
La donna si inginocchiò e abbracciò il corpo del marito avvolto dal sudario. Senza emettere un suono, un lamento, baciò la fronte con una dolcezza che ci si sarebbe aspettati da una madre verso il proprio figliolo piuttosto che da una moglie verso il marito. Da fuori provennero i rumori della pesante lapide del sepolcro che il sagrestano, aiutato dai due gendarmi, scostava sul sagrato. Rientrati, imbrigliarono il corpo con dei canapi pesanti e sollevato con leggerezza lo portarono fuori. La donna seguì i tre. Don Celestino le andò appresso, mentre il parroco ripercorreva lentamente la navata diretto verso la sagrestia.
Pur stretto tra le vie del paese, il piccolo sagrato era spazzato dal vento, mentre nuvole nere cariche di pioggia roteavano veloci sulle teste degli astanti. Il sacrestano si calò nella sepoltura e da lì diresse le manovre dei due soldati rese più difficili dal vento che faceva ondeggiare e sbattere il sudario del cadavere sospeso in aria come una vela avvolta al proprio albero. Il corpo scese lentamente fino a sparire. Passarono pochi minuti, poi la testa canuta del sacrestano spuntò nuovamente. Don Celestino osservava con attenzione la scena, stando ben attento a mantenersi addossato al portone. Agata, ritta, con le vesti schiacciate sul piccolo corpo dalla forza del vento, gli dava le spalle. A vederla così, dava l’impressione di una statua abbandonata dai suoi portatori. Il vento sembrava non aver potere su di lei, quasi fosse di metallo o marmo.
La lapide raschiò nuovamente lo spiazzo e con rumore cupo chiuse la botola. Immediatamente i due soldati presero la strada del castello baronale, mentre il sagrestano, passando accanto al sacerdote, rientrò in chiesa per il disbrigo delle altre faccende. In quel momento la statua si mosse, ruotò il capo a destra e poi a sinistra. Constata la desolazione che la circondava, si rivolse verso il tempio e qui vide don Celestino. Le lacrime ripresero a scendere una di seguito all’altra. Il cantore le appuntò i propri occhi neri, oramai quasi spenti, sul volto. Agata finalmente oscillò per una raffica più forte delle altre; sembrò quasi cadere tanto che il vecchio sacerdote fece alcuni passi verso di lei allargando le braccia, ma si fermò vedendola recuperare l’equilibrio. La donna accennò allora ad un inchino, girò su se stessa e prese la strada che, costeggiando la chiesa, portava alla porta del paese. (continua)
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Gianfranco Mele,Echi e aspetti del tarantismo in Sava e nel territorio limitrofo
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 263-272
ITALIANO
Questo scritto costituisce la sintesi di un lavoro di ricerca, di prossima diffusione nella sua versione integrale, finalizzato a ricostruire per quanto possibile una storia del tarantismo nella località specifica di Sava (pur con necessari riferimenti al circondario), territorio nel quale non è stato mai effettuato alcun tentativo di sistematizzazione storico-etnografica del fenomeno.
ENGLISH
The present writing is an overview of a research work that will be soon published in its full version. The goal of this research is to trace, as far as possible, a history of the Tarantism phenomenon in the village of Sava, with references to the surrounding areas where no attempt to systematize the historical and ethnographic background of the phenomenon was ever made.
Keyword
Gianfrano Mele, tarantismo, Sava
Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)
La storia che vado a raccontare è vera e falsa allo stesso tempo,
come del resto lo sono tante.
Quanto vi sia di reale e quanto sia frutto della fantasia,
chi avrà la pazienza di seguirne la trama
lo scoprirà solo alla fine, carte alla mano.
Per il momento posso solo dire che i fatti si svolsero ad Aradeo
tra il luglio e l’agosto di quasi due secoli e mezzo fa.
Come suol dirsi, correva l’anno 1780
Capitolo I
Oltre le mura la prima luce del giorno rischiarava le campagne più lontane; le stelle erano sparite già da un po’, mentre la luna sembrava volersi attardare ancora. Il caldo era soffocante, l’aria ferma, umida, vischiosa.
Il vecchio servitore, con i gomiti poggiati al parapetto, volse lo sguardo alla propria destra, verso le case dei Vasquez D’Acugna: le finestre erano spalancate, ma dentro era ancora buio.
“I signori dormono” mormorò
“Cosa hai detto?” chiese don Celestino Giuri, cantore della chiesa di San Nicola, appuntando l’ultimo bottone
“Niente papa Celestino. È tardi, stamattina siete più lento del solito”
“Che fretta hai. Tanto anche stamattina la messa la dirò solo per me, per te e qualche vedova insonne”
“Se vi sentisse l’arciprete”
Il vecchio cantore rise leggermente e diede due colpi sulla schiena ingobbita del servitore.
“Andiamo” disse “sono pronto”.
In quel momento delle urla squarciarono il silenzio che ancora avvolgeva il quartiere. Un litigio, poi altre urla prolungate.
“Che succede?” chiese don Celestino al vecchio che nel frattempo era tornato alla finestra
“Non vedo nulla”
“Scendiamo, presto” ordinò il sacerdote “Fammi strada con il lume”
“Ma…” provò ad obiettare il vecchio
“Sbrigati”
Scesero lungo la scala ripida con la velocità che l’età consentiva loro.
“Piano papa, piano”
“Ti ho detto di correre”
Sull’uscio svoltarono a destra e, al lume della lampada ad olio, dopo una decina di passi presero la strada a sinistra, verso la piazza. Percorsero pochi metri e furono nel vicinato dei Mauri. Addossato alla porta della bottega da ciabattino che era stata di Giacomo Francone, videro un corpo riverso.
Don Celestino strappò la fiamma di mano al servitore e si avvicinò all’uomo. Alle sue spalle sentiva le prime voci delle donne richiamate dalle urla.
Il cantore si inginocchiò. L’uomo respirava a fatica. Con la debole luce della lampada vide la smorfia di dolore sul viso dell’uomo. La camicia aperta era imbrattata dal sangue che veniva fuori copioso da uno squarcio sotto il cuore che l’uomo cercava inutilmente di tamponare con le mani.
“Non ti conosco” gli disse come prima cosa il prelato
“Sono Alfonso Castriota, di San Pietro in Galatina” rispose a voce bassa
“Chi è stato” incalzò
“Miche… Michele.. Le..Letia” provò a scandire, ma la voce era flebile e il respiro si strozzò in gola, soffocato da un fiotto di sangue che espulse violentemente tossendo addosso al sacerdote. Don Celestino non si scompose. Troppi ne aveva visti di malati e di morti per avere disgusto degli umori umani.
“Di Galatina anche lui?” chiese, poiché quel nome non gli ricordava nessuno
Castriota si limitò a scuotere la testa. Aprì e chiuse la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Il prete capì che la fine era vicina.
“Ti penti dei tuoi peccati?” chiese
L’uomo fece cenno di sì col capo, poi una sorta di ruggito sembrò levarsi dal suo interno, scuotendo tutto il corpo. Cercò di trattenerlo, stringendo i denti che spiccarono con il loro candore tra la barba nera e poi tacque. Alle proprie spalle il cantore sentì rumoreggiare. Segnò l’uomo sulla fronte, poi alzò la destra al cielo e lo benedisse. Le donne si segnarono e tacquero.
Nell’abbassare la mano notò sul collo uno strano segno. La luce del sole ora cominciava a rischiarare la strada. Ruotò quindi il viso di Alfonso Castriota per vedere meglio e sul collo, proprio dove terminava la barba e cominciava la pelle nuda, notò una grossa macchia di un blu intenso. Un blu brillante e acceso, come quello di una pietra preziosa o di un tessuto.
“Vado a chiamare l’arciprete e a prendere gli oli santi” disse al vecchio servitore sollevandosi “Tu aspetta qui e non farlo toccare da nessuno”.
Si fece largo tra le donne.
“Papa Celestino, chi è?”
“Papa Celestino, che ha detto? Non è di Aradeo?”
Le ignorò e si diresse verso la piazza. Altra gente accorreva in direzione opposta alla sua. Nonostante una certa dolenza nei muscoli, dovuta allo strapazzo della corsa e alla concitazione del momento, cercò di accelerare il passo. Attraversò lo spiazzo, costeggiò la cappella del Crocifisso senza neppure segnarsi, quindi tra i bassi caseggiati che delimitavano le sporche vie del paese giunse ai piedi dei tre scalini che introducevano alla chiesa di San Nicola.
“Devo decidermi ad usare un bastone” pensò.
Colmò il piccolo dislivello e, spinto il portone di legno oramai consunto dall’umidità, fu nel tempio.
Nell’unica navata, i raggi del sole nascente si intrecciavano sul pavimento chiazzandolo di luce. In piedi, quasi addossate alla balaustra, quattro donne attendevano l’inizio della messa.
“Papa Celestino, oggi non celebrate?” chiese una di queste, avvedendosi di lui che procedeva spedito lungo gli altari di sinistra. Il cantore non rispose ed imboccò la porta della sagrestia.
Nell’antro umido, dalle pareti chiazzate da enormi macchie verdastre che sembravano trasudare acqua, puntò sicuro ad una piccola cassa di legno rivestita. La scoperchiò e prese una chiave.
“Sia lodato Gesù Cristo”
La voce alle sue spalle lo colse di sorpresa. Lasciò cadere di scatto il coperchio che chiuse rumorosamente la cassetta.
“Proprio voi cercavo” rispose riprendendosi “Ho preso la chiave degli oli santi”
La voce che lo aveva salutato venne fuori dalla penombra. L’arciprete Matteo Rocca, di pochi anni più giovane, gli si avvicinò lentamente. La vecchiaia era stata inclemente con lui. Debole di gambe, ingobbito prima del tempo e pressochè cieco, don Matteo Rocca gli andò incontro e, data la sordità incipiente, ripetè:
“Sia lodato Gesù Cristo”
“Oggi e sempre sia lodato” rispose don Celestino, alzando la voce “Sono venuto a prendere gli oli santi dall’altare”
“Chi sta morendo?”
“Un certo Alfonso Castriota. L’ho trovato poco fa dalle parti dei Mauri, coperto di sangue”
“Prima dovremmo portargli il conforto dei sacramenti” obiettò il cantore
“Si, si. Allora portatelo voi, io vado ad avvisare il governatore. Questa è una faccenda degli Olivetani. Si, si” continuò don Matteo seguendo il filo di un discorso che si dipanava rapido nella sua mente e che escludeva qualsiasi interlocutore, men che meno don Celestino che ne fu rinfrancato “È di competenza della camera baronale. Le cause criminali sono loro, anche se… Forse dovrei dirlo al sindaco prima. Ma poi se il governatore viene a sapere che prima di lui ho avvisato il sindaco…No, no. Prima il Governatore, prima gli Olivetani. Anzi, per sicurezza… Biagio!” urlò, con voce vigorosa e per questo inadatta alle sue membra fragili “Biagio”.
Un giovane si presentò di corsa proprio mentre don Celestino scostava la tenda della sagrestia per andare a prelevare gli oli custoditi sull’altare.
“Biagio, vai a chiamare don Ippazio Greco. Digli di venire a celebrare messa. Poi recati dal sindaco e avvisalo da parte mia che hanno ammazzato un uomo ai Mauri”
“Si papa” fece il giovane senza porre altre domande e corse via.
Don Celestino intanto aprì la piccola custodia foderata di tessuto bianco posta sull’altare, prese le ampolle degli oli e li depose sulla mensa. Chiuse con cura la teca mentre le donne osservavano curiose i suoi movimenti.
“Papa, chi sta morendo?” bisbigliò la donna di prima che aveva riconosciuto le ampolle
“Castriota” rispose don Celestino a voce ugualmente bassa, quasi quella notizia non fosse adatta al luogo sacro
“Castriota? Non è di qua. Non ci sono Castriota ad Aradeo” sentenzio una delle quattro, piccola e tozza come una donnola
“Di Galatina”
“Ah” fecero le altre
“Ma la messa la celebrate?”
“Io no, ma chiedete all’arciprete” rispose riprendendo la propria strada. Attraversò la corta navata e uscì sul sagrato. Prese la stretta via che portava alla piazza e sboccatovi non potè non notare che il sole era ora alto sopra le mura del paese.
“Sarà un’altra giornata afosa” pensò attraversando la piazza per poi reimmettersi nella via dei Mauri “Meglio sbrigarsi e rientrare a casa quanto prima”.
Le voci della gente accorsa a curiosare lo distolsero dai pensieri. Attraversato lo spesso muro di folla, si ritrovò ai piedi del cadavere che ora, alla luce piena del sole, mostrava il volto con incisa un’espressione di dolore. Il viso era giovane, la barba e i capelli nerissimi. Il sangue imbrattava completamente la camicia e la parte alta dei pantaloni. Si inginocchiò evitando di pestare la chiazza nera, sfumata di rosso lungo i margini, che si era formata attorno al corpo. Aprì le ampolle degli oli santi, segnò il cadavere e iniziò a sciorinare le solite litanie. Gli astanti si segnarono e mugugnarono qualche prece. Quando il cantore si sollevò, aiutato dal servitore, tutti si segnarono nuovamente.
In piedi osservò attentamente la vittima e rivide quella chiazza. Netta, grumosa, all’attaccatura della testa sul collo
“Che strano” mormorò.
Intanto, dalle sue spalle, oltre la folla, venne un sordo rumore di zoccoli e poi un ordine, lanciato seccamente: “Largo”
Due gendarmi ed il governatore fecero la loro comparsa svettando dall’alto delle cavalcature. Evidentemente qualcuno li aveva avvisati. Di lì a pochi minuti spuntò a piedi, affaticata, la trista sagoma dell’arciprete.
“Il governatore”, “Papa Rocca”, “I Gendarmi” riportavano quelli più vicini alla scena a chi stava loro dietro.
Il Governatore smontò da cavallo, attese il vecchio arciprete e insieme andarono verso don Celestino.
“Lo avete trovato voi?” chiese senza salutare e rivolgendosi al cantore
“Si, stamattina”
“Sapete chi sia?” domandò il rappresentante dei baroni
“Dovrebbe essere Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina”
“Come vi dicevo” intervenne ossequioso don Matteo Rocca. Il governatore fece conto di non aver sentito
“Sapete altro?”
“Dovrebbe essere stato un certo Michele Lezia o qualcosa del genere. Purtroppo quando sono arrivato era quasi spirato e non era chiaro quel che diceva”
“Lo conoscete?”
“Michele Letia?”
“E chi altro sennò?” ribatté nervoso
“No” rispose pacatamente don Celestino
“E voi?” chiese, rivolgendosi all’altro prelato
“No eccellenza”
“Chi di voi conosce Michele Lezia?” urlò allora il governatore alla folla
Il nome passò di bocca in bocca, ma nessuno si fece avanti.
“Nessuno lo conosce? Va bene” commentò indispettito.
“Voi caricate il corpo e portatelo nella cappella di San Trifone a palazzo” ordinò ai due gendarmi che erano rimasti in sella.
Con gesto agile rimontò sul destriero e strattonando con forza le briglie lo spinse a ruotare. Colpiti i fianchi dell’animale andò via per la strada dalla quale era venuto.
“Andiamo” disse don Celestino al servitore e, facendosi largo tra la folla che ora osservava le manovre dei soldati, tornò verso casa.
Giunto ai piedi della scala che neanche un’ora prima aveva disceso con furia, congedò il paggio.
“Salgo a riposare un poco. Torna stasera”
“Vengo a portarle da mangiare tra qualche ora”
“No, no. Desinerò stasera. Ora voglio solo riposare” rispose. Afferrato il passamano di legno scuro che fiancheggiava la ripida scala, salì lentamente fino al secondo piano.
Il servitore, rimasto per strada, vide la finestra della camera da letto chiudersi lentamente e le tende di color verde oliva stendersi sulle lastre di vetro. Volse lo sguardo verso le case dei D’Acugna: donna Giovanna Vasquez d’Acugna, dal mignano del palazzo, osservava con aria annoiata il via vai di persone lungo la via.
Per un’indagine sui collezionisti etnografici nel Salento
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Federica Manieri, I custodi della memoria: per un’indagine sui collezionisti etnografici nel Salento
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 253-262
ITALIANO
La volontà di recupero di una tradizione, di una memoria culturale e storica accompagna spesso il bisogno di riscoprire, assieme alle tradizioni di un dato ambiente, le proprie più intime origini, il rapporto con la propria gente, nella propria terra e fra le proprie cose. Vi sono persone che sentono in maniera più viva questo bisogno e che trascorrono la loro esistenza raccogliendo e conservando oggetti, testimonianze materiali del passato che, in tempi non troppo lontani, erano parte integrante della vita quotidiana di paesi e campagne e che, con la fine della società contadina tradizionale, il passaggio da un’economia agricola ad una industriale e lo spopolamento dei piccoli centri a vantaggio delle grandi metropoli, sono destinati a scomparire definitivamente. Queste persone sono i raccoglitori e collezionisti etnografici, amanti di quegli oggetti ≪poveri≫ e semplici, il cui valore è dato non dalla bellezza artistica, ma dall’impronta dell’ambito culturale in cui erano usati, dai segni che recano impressi, frutto del susseguirsi di ritmi e cicli lavorativi in cui erano impiegati.
ENGLISH
The willingness to retrieve a tradition, a cultural and historical memory, often goes with the need to rediscover, along with the traditions of a certain environment, one’s most inner origins, the relationship with the fellows, with one’s own land and everything he or she owns. There are people who feel this need in a more intense way and who spend their life collecting and keeping objects as well as material evidences of the past. These evidences, not so long ago, were a fundamental part of everyday life in villages and in the countryside. However, with the disappearance of the traditional peasant society, the shift from an agricultural economy to an industrial one and the depopulation of small towns to the advantage of big cities, these evidences are doomed to disappear forever. Ethnographic researchers and collectors are indeed interested in “poor” and simple objects whose value is not given by an aesthetic beauty but by their importance for the cultural environment they belong to but also by the marks they display due to the following of rhythms and production cycles in which they were employed.
Sarà presentato lunedì 27 maggio, alle ore 19, presso la Sala “Roma”, annessa al Museo Diocesano in Piazza Pio XI – Nardò, l’ultima edizione dei Quaderni della Diocesi di Nardò – Gallipoli, “Tesori e inventari della Cattedrale di Nardò (sec. XV-XIX)”.
Del volume, edito da Mario Congedo – Galatina, ne è autore Mons. Don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale e direttore dell’Ufficio Beni Culturali della medesima diocesi.
Curato da Marcello Gaballo, con foto di Lino Rosponi, ha la prefazione del Prof. Maurizio Nocera e riporta ben 13 inventari degli oggetti sacri posseduti dalla cattedrale, inclusi negli Atti delle Visite Pastorali, compiute dai vescovi che si sono succeduti nella sede neritina, a cominciare da quelli indicati nelle tre Visite Pastorali di Mons. Ludovico De Pennis (1451 – 1483) sino a quelli della prima metà del secolo scorso.
Paziente e dotto lavoro di ricognizione, ha richiesto notevole impegno a causa dell’interpretazione e trascrizione dei manoscritti, quasi tutti in latino, abilmente tradotti per facilitare la comprensione della particolare ricchezza del più importante edificio della Diocesi, accumulatasi nei secoli grazie alla munificenza di vescovi mecenati, tra i quali, a dire dell’Autore, i De Franchis, il Fortunato e il Sanfelice, il Carafa, il Lettieri.
Il volume, di grande formato, con 242 pagine, sarà presentato dai Professori Mario Spedicato e Paolo Agostino Vetrugno, dell’Università del Salento.
Tesori e inventari della Cattedrale di Nardò (sec. XV-XIX)
Giuliano Santantonio è un dotto uomo di chiesa, e di chiesa tratta in questo volume. Trattasi infatti del patrimonio storico e sacro-oggettuale della Cattedrale di Nardò. La sua ricerca, di difficile impegno (lui stesso lo afferma nella sua introduzione), ha seguito un percorso rintracciabile nelle Visite Pastorali di differenti Vescovi succedutisi sulla cattedra della Diocesi neritina. Il suo campo d’indagine è stato il deposito del ricco Archivio Storico Diocesano di Nardò (ASDN), da lui stesso indicato in un suo precedente saggio Ecclesia Mater[1] come il luogo in cui
«oltre agli atti delle visite pastorali, conserva una grande quantità di altre fonti documentarie, come per esempio i processi benificiali».
L’autore, ovviamente, scrive pure che in quell’archivio c’è molto altro ancora. Per cui la ricerca non finisce con questo suo nuovo saggio.
A premessa di quanto qui si leggerà, va detto che sarà utile sapere che Giuliano Santantonio si è già cimentato con queste stesse fonti in occasione appunto del libro Ecclesia Mater citato nel quale, con una prosa asciutta ed eloquente, ha fatto conoscere i differenti avvicendamenti architettonici e manutentivi della costruzione della fabbrica della Matrice neretina, costruita sul sito di una più antica chiesa (sec. XI) su pianta basilicale di origine normanna, attribuita «all’iniziativa di Goffredo l’Inclito (1035-1100), conte di Conversano e di Nardò».
Qui, a differenza della precedente ricerca, l’autore riporta gli inventari (tutti scritti in latino, ad eccezione di uno, e da lui tradotti) degli oggetti sacri posseduti dalla cattedrale a iniziare da quelli indicati nelle tre Visite Pastorali di Mons. Ludovico De Pennis (16 giugno 1451 – gennaio 1483 deceduto), la prima effettuata nel 1452, con le aggiunte redatte in una sua seconda Visita (1460), ed ancora altre aggiunte rilevate in una terza Visita (1485), quest’ultima compiuta dal suo successore Mons. Ludovico De Justinis (31 gennaio 1483 – 1492 deceduto).
Leggendo e rileggendo gli Inventari di una così importante chiesa salentina, per me laico ma sempre attento agli eventi della Chiesa, mi sono chiesto cosa sottolineare della grande massa di oggetti e paramenti sacri elencati durante le diverse Visite Pastorali in un arco di tempo così lungo (1452-1763). Sicuramente, a causa di una mia sorta di “deformazione professionale”, la curiosità mi ha portato a puntare lo sguardo sui libri posseduti dalla diocesi. Grande è stato sempre il mio interesse per i libri liturgici e in genere religiosi, soprattutto per la loro straordinaria bellezza tipografica, e penso alla grande Bibbia delle 42 linee di Gutenberg del 1454[2]. Occorre dire che da sempre la Chiesa ha dato massima importanza ai libri. Ricchissima è l’iconografia cristiana che mostra immagini di apostoli, di santi e sante, di martiri e martirizzati, di beati e beate con tra le mani codici, cartigli o Exultet. Si pensi ad esempio a san Paolo, l’apostolo delle genti, che viene raffigurato con due immancabili attributi: la spada e il codice. La spada perché antico servitore (esattore) della Giudea e il codice, contenente i suoi scritti sulla base dei quali verrà poi edificata la Chiesa di Roma…
Note
[1]Ecclesia Mater. La fabbrica della cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali, Congedo, Galatina 2013.
[2] La biblioteca “Antonio Sanfelice” della diocesi di Nardò-Gallipoli vanta il possesso della rarissima edizione della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. In folio, fu stampata nel 1470 da Johannes Andreas, per i tipi di Conrad Sweynheim e Arnold Pannartz, prototipografi renani, allievi di Gutenberg, che, stabilendosi a Subiaco, e poi a Roma, introdussero l’arte tipografica in Italia. L’esemplare neritino, con coperta in pergamena rigida, è miniato con fregi floreali e geometrici; nelle prima pagina riporta un bellissimo stemma degli Avogadro. Oltre a numerosi capilettera miniati, contiene un’epistola a Joh. Andreae, Alariensis episcopi. Dell’esemplare sono note solo altre 14 copie, conservate in importanti biblioteche italiane ed in quella vaticana (Cfr. M. Gaballo, La biblioteca “Antonio Sanfelice” della diocesi di Nardò-Gallipoli. La restitutio ad integrum di una pregevole raccolta defraudata, in D. Levante (a cura di) Studia Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri, Barbieri Selvaggi, Mottola 2010, pp. 167-208). Sull’edizione neritina Alessandro Laporta ha scritto: “l’incunabolo posseduto dalla Biblioteca Vescovile di Nardò, esemplare che surclassa le due edizioni pliniane possedute dalla Biblioteca Innocenziana di Lecce (1483) e dalla Consorziale di Bari (1496). L’ex-libris della copia neritina recita esplicitamente Bibliothecae Episcopii Neritonensis addixit Antonius Sanfelicius Ep[iscop]us Nerit[inus], mentre in calce l’incunabolo reca l’impresa araldica degli Avogadro. Prima di passare al Sanfelice, il Plinio di Nardò appartiene verosimilmente ad uno sconosciuto discepolo di Esculapio che, al verso della carta 374, appunta alcune ricette, rendendo ancora più prezioso questo straordinario documento (A. Laporta, Il Plinio di Nardò. Un incunabolo da riscoprire, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/11/alessandro-laporta-il-plinio-di-nardo-un-incunabolo-da-riscoprire/ ).
Uno spaccato di vita della città-diocesi di Castellaneta nel primo quarto del secolo XVI
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Domenico L. Giacovelli, Spicilegium Castaniense II
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 235-252
ITALIANO
Una collettoria fatta redigere nel 1520 dal vescovo Marco Antonio Fiodo (1513-1536) per provvedere alla raccolta della decima permette – con l’abbondanza di riferimenti e particolari che la contraddistingue – di conoscere più direttamente uno spaccato della vita della città-diocesi di Castellaneta nel primo quarto del secolo XVI, si da far pensare alla somiglianza al genere dei verbali delle visite pastorali, della cui prassi, già prima del 1572 (anno della prima visita pastorale finora conosciuta in loco), riferisce un documento – in copia estratta successiva al 1533 – provvidenzialmente conservatosi tra le carte del Capitolo cattedrale.
ENGLISH
The bishop Marco Antonio Fiodo (1513-1536), in 1520, had drawn up a list in order to provide to the collection of the tithe. This document, full of references and details, allows us to know more directly a slice of life of diocese-city of Castellaneta in first quarter of XVI century, being similar to the models of reports of pastoral visits, whose routine procedure was recorded before 1572 (year of the first pastoral visit known so far on-site) in another document (whose certified copy was dated after 1533) that was providentially preserved at the Cathedral Chapter.
Keyword
Domenico L. Giacovelli, Castellaneta, Marco Antonio Fiodo
Una proposta per Paolo de Matteis nella chiesa di Santa Teresa a Nardò
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Marino Caringella, Una proposta per Paolo de Matteis nella chiesa delle Teresiane di Nardò
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 207-211
ITALIANO
La recente ipotesi attributiva a Paolo de Matteis della Transverberazione di Santa Teresa con Sacra Famiglia, allogata nella chiesa delle Teresiane a Nardò, e qui discussa e ritenuta convincente alla luce di raffronti con opere certe del pittore cilentano. Il carattere acerbo di alcuni dettagli anatomici e una certa disomogeneità stilistica fanno pensare ad alcuni interventi di bottega, segnatamente a Domenico Guarino. Ove tale impressione fosse confermata da un auspicabile restauro, la datazione del dipinto sarebbe prossima al 1698, anno in cui de Matteis licenzia la Madonna delle Grazie per la cattedrale neretina, e comunque anteriore al 1702, quando il maestro parte per Parigi ponendo fine al rapporto di collaborazione col Guarino.
ENGLISH
The recent hypothesis that attributes to Paolo de Matteis the Transverberazione di Santa Teresa con Sacra Famiglia (Transverberation of St. Teresa with the holy Family) placed in the church of the Teresians in Nardò, is here discussed and considered convincing in the light of the comparisons with the irrefutable works of the Cilentan painter. The immature nature of some anatomical details and a certain lock of stylistic homogeneity suggest some involvements particularly by the studio of Domenico Guarino. If this impression could be confirmed by a desirable restoration, the date of the painting would be close to 1698, the year when
de Matteis dismisses the Madonna delle Grazie (Our lady of Grace) to the Nardo Cathedral, anyway preceding the 1702 when the master leaves to Paris putting an end to the collaboration with Guarino.
Keyword
Marino Caringella, Paolo De Matteis, Chiesa S. Teresa, Nardò
Due dipinti di Niccolò de Simone e di Giovanni Andrea Coppola nella chiesa di Sant’Angelo a Tricase
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Stefano Tanisi, L’Educazione della Vergine di Niccolò de Simone e il Sant’Oronzo di Giovanni Andrea Coppola nella chiesa di Sant’Angelo a Tricase
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 195-204
ITALIANO
L’attenzione di questo studio è rivolta a due dipinti seicenteschi, di recente restaurati, conservati nella chiesa di Sant’Angelo di Tricase, edificio un tempo incardinato alla famiglia Gallone, raffiguranti uno l’Educazione della Vergine, opera attribuibile al pittore belga Niccolò de Simone, e l’altro, il Sant’Oronzo, del pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola.
ENGLISH
The attention of this work is directed to two recently restored paintings of the seventeemth-century that were conserved in Sant’Angelo’s church in Tricase, building that was once under the possession of Gallone’s family. The painting depicting the Virgin’s education is allegedly related with the Belgian painter Niccolò de Simone, the other one, instead, is portraying Saint Orontius and belongs to the painter Giovanni Andrea Coppola from Gallipoli.
Keyword
Stefano Tanisi, Niccolò De Simone, Andrea Coppola, Tricase
Ritorna un mito del calcio degli anni sessanta nel libro “L’ANGELO E’ VOLATO IN ALTO IN ALTO IN ALTO! Omar Enrique Dominique Sivori “, (Edizioni Panico, Galatina, € 10,00). Ne è autore Antonio Tarsi, giornalista e scrittore. Dell’indimenticabile figura del “Cabezon” o “Angelo dalla faccia sporca”, una leggenda del calcio italo-argentino, se ne ripercorre da parte dall’autore tutti i momenti più significativi della carriera. Si ricordano i suoi esordi argentini nelle file del River Plate, che dopo averlo venduto alla Juventus degli Agnelli, con i soldi ricavati, gli allora dirigenti del club rifecero di sana pianta lo stadio degli esordi del campione. L’arrivo in Italia di Sivori divenne un vero e proprio evento. A fianco del gallese Charles e con Boniperti nacque il trio magico che portò la Juve ai fasti più alti della scala del calcio. L’autore insiste sulla modernità del campione argentino, ricordandone il fiuto per gli affari ed i rapporti con i media di allora. Non mancano le considerazioni sul periodo napoletano e le riflessioni sulle sue presenze nelle nazionali Argentina ed Italia. Il testo di Tarsi sfocia nel racconto fantastico quando immagina che il campione scomparso nel 2005, ritorni in campo nel corso del 2019. Il libro si apre con una lettera dell’autore a Sivori. Il testo, che si avvale delle rielaborazioni grafiche della dottoressa Patrizia Bove, si arricchisce di un ampio corredo fotografico che ricorda tutti i palloni d’oro della storia calcistica europea, trofeo che al campione venne assegnato nel 1961, ritenuto quell’anno il miglior calciatore europeo. Un volume agile nel leggerlo, che si chiude con un’ampia e preziosa bibliografia sul campione argentino considerato dagli Agnelli, dagli scrittori, dagli uomini di cinema e dai cantanti un vero e proprio vizio!
Il secondo volume di Antonio Tarsi, pubblicato anch’esso dalle Edizioni Panico, dal titolo I sogni risorgono all’alba, contiene un giallo, un racconto sotto forma di sceneggiatura e una poesia sul tema dell’assenza, un tema molto caro all’autore.
La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea)
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Paolo Marzano, La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea)
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 179-193
ITALIANO
Questa ricerca, avente ad oggetto la facciata della chiesa di San Domenico a Nardo, indaga le matrici reali, i probabili luoghi originari e gli aggiornamenti stilistici di cui la facciata è un incredibile ed esaltante risultato. Dai suoi due livelli del tipo ≪a castello≫, dai diversi trattamenti della pietra (tutto tondo, alto rilievo, basso rilievo, stiacciato), dalle sue tante componenti, ne scaturisce una sorta di grammatica utile per comunicare nel migliore dei modi dei concetti teologici, con la voce chiara della cultura antiquaria europea del Cinquecento. La facciata del San Domenico è quindi concepita come un vero e proprio manifesto d’accusa contro l’eresia dilagante (riforma protestante). L’incredibile ≪apparato d’architettura≫ in pietra, conferma l’alto livello artistico dei mastri costruttori salentini, capaci di tradurre la riflessione teologica in un trionfo scultoreo di preziosa matrice europea.
ENGLISH
This research about the facade of St. Domenico’s Church in Nardo wants to find the real origins, the probable original places and the stylistic renovation of which the facade is an incredible and rousing result. From its two levels ≪at castle≫ type, from its different treatments of the stones (in full relief, high relief, basrelief, stiacciato) from its many components, comes out a kind of grammar useful to communicate in the best way the theological concepts, with a clear voice of the antiquarian European of the sixteen century. St. Domenico’s facade is so conceived as a real accusatory manifesto against the rampant heresy (the Protestan Reformation). The incredible ≪architectural apparatus≫ in stones, confirms the high artistic level of our salentini masters mason, capable to translate the theological meditations into a sculptural triumph from a precious European origin.
Keyword
Paolo Marzano, Nardò, chiesa San Domenico, eresia
Gennaro Cimafonte e l’altare maggiore della chiesa del Rosario di Martano
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Ugo Di Furia, Gennaro Cimafonte e l’altare maggiore della chiesa del Rosario di Martano
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 165-177
ITALIANO
L’altare maggiore della chiesa domenicana del Rosario a Martano fu realizzato intorno al 1752 da Gennaro Cimafonte, uno dei principali esponenti di un’ampia e celebre famiglia di marmorari napoletani, già presente in Salento nella chiesa della Purità di Gallipoli e nella parrocchiale di Campi Salentina. Tale attribuzione si deve ai documenti ritrovati più di un trentennio fa da Eduardo Nappi nell’archivio storico dell’Istituto Banco di Napoli Fondazione. A questi si aggiungono oggi altri dati provenienti dal medesimo archivio che, oltre a definire meglio i tempi di realizzazione ed i costi complessivi dell’opera, forniscono ulteriori informazioni su alcuni manufatti lignei realizzati contemporaneamente per lo stesso monastero domenicano dallo scultore Pietro Nittolo e dall’intagliatore Giacomo Ricci. Inoltre, i due putti capo altare di Martano, che in passato erano stati riferiti a Matteo Bottigliero e dei quali al momento non esistono documenti atti a testimoniarne la paternità, vengono qui attribuiti, sulla base di valutazioni di carattere stilistico, a mani diverse: a Giuseppe Sanmartino quello di sinistra e ad un altro coevo scultore napoletano, al momento ignoto, quello di destra.
ENGLISH
The main altar of the Domenican church of the Rosary, in Martano, was erected in 1752 by Gennaro Cimafonte, one of the leading exponents of a large and famous Neapolitan marble cutter family. Similar structures were already present in Salento in the church of Purita in Gallipoli and in the parish of Campi Salentina. Such attribution is due to some documents found more than thirty years ago by Eduardo Nappi in the historical archives of the Institute Banco di Napoli Foundation. Other data originating from the same archives made us possible to define more in detail the overall cost of the work and the amount of time required for the realization of it along with further information about some wooden artifacts probably produced for the same Dominican monastery by the sculptor Pietro Nittolo and by the woodcarver Giacomo Ricci. Additionally to these, the two cherubs in Martano which in the past had been referred to Matteo Bottigliero and of which at the moment there are no document that testify the ownership, were attributed, on the basis of stylistic evaluations, to different artistis: with Giuseppe Sanmartino is related the cherub on the left and to an unknown contemporary Neapolitan sculptor the one on the right.
Keyword
Ugo Di Furia, Martano, Gennaro Cimafonte, Pietro Nittolo, Giacomo Ricci, Giuseppe Sanmartino
Libri| Ritorno al Sud. Il Basso Salento di una volta
Nel racconto “Ritorno al Sud”, il salentino Vincenzo Borlizzi dimentica volutamente le insidie dei marosi del Canale della Manica, nella cui area oggi si trova per lavoro, per avventurarsi in un futuro immaginario dove vede impotente un Salento dilaniato dai venti di scirocco nel Canale d’Otranto e dalle vicende partorite nella sua fantasia.
Il sottotitolo “Il Basso Salento di una volta” scopre senza mezzi termini il suo forte anelito a fermare nella memoria personale le plurimillenarie vicissitudini di un lembo di terra, al centro del Mediterraneo, sempre pronta ad accogliere e coniugare civiltà e popoli diversi. Gli è stato facile così, nel cimentarsi in questa prima prova di scrittura, creare un racconto dove la sua terra natale, il Salento, sembra relegata quasi agli albori della comparsa dell’uomo sulla terra, autentico contesto catastrofico, senza comunicazione, senza pace, senza servizi, senza alcun ordine imposto o creato da demiurgo alcuno.
E i personaggi compaiono, qualche vecchio nei campi, ma anche tanti giovani, pronti a giocarsi tutto pur di cambiare le cose, così come Borlizzi li ha tante volte visti lui, nella sua infanzia, tra Novaglie, il Canale del Ciolo , le marine di Tricase e Santa Maria di Leuca, intenti a pescare o a sistemare i muretti a secco ai piedi delle “pajare”, oasi per secoli di un ambiente bucolico, che avrebbero fatto fremere persino il grande Virgilio nel suo ultimo esilio del brindisino.
Scatena così l’autore la sua fantasia nell’affastellare battaglie, soprusi, riscatti e bande di pirati, ma sempre con l’intima convinzione che ciò che egli narra, nelle centosettanta pagine del volume, edito da Congedo, possano improvvisamente dissolversi tra le fioche luci dell’alba, dopo l’incubo di un brutto sogno svanito e ritrovarsi a pensare, da salentino costretto a mirare le limacciose rive della Senna, ricordando la luminosa terra del Salento, in preda alla vita, alle splendide estati, ai prorompenti campo di grano e ai promettenti vigneti del nettare degli dei. Borlizzi, nelle pagine di questa sua prima fatica, adora il suo Salento e ne conferma la benedizione nella storia, pur tra vicende dove non sono mancate lacrime e sangue, immaginando che il dono dell’olivo, fatto dall’antica Dea Minerva, piantando in terra la sua spada, sia un esempio delle fortune che questa terra., protesa tra lo Jonio e l’Adriatico, possa dispensare alla comunità internazionale pace e progresso.
Del resto, per un salentino come Borlizzi, con pubblicazioni in ambito europeo, e la sua apprezzata opera di studioso in ambito cinematografico, un’opera prima, come “Ritorno al Sud”, volume da leggere tutto d’un fiato, può essere traccia di collegamento tra letteratura e cinema, che in modo biunivoco si autoalimentano, spesso con frutti inaspettati. E’ quello che i suoi lettori si attendono.
Dialetti salentini: le coniugazioni, un esempio di risparmio linguistico
La tabella, le cui voci prive di accento sono da considerarsi piane, sintetizza nozioni grammaticali in passato ben note anche ai non addetti ai lavori e ben note, per quanto riguarda la sezione latina, a chi, ormai attempato, ha avuto l’opportunità di conoscere questa lingua in tempi in cui essa era una materia cardine dell’insegnamento. Oggi, invece, nell’epoca in cui gli studi classici sono considerati di fatto inutili, quelli della mia generazione devono assistere all’inverecondo spettacolo di politici che grottescamente brandiscono inglese e latino in espressioni del tipo una start-up non può prescindere da un’attenta valutazione dei curriculum per non parlare, poi, dei desolante, tragico (se non fosse spontaneo sarebbe comico) spettacolo offerto puntualmente dai concorrenti a giochi televisivi1.
A chiarire, poi, il concetto di risparmio linguistico, basterà osservare che dalle quattro coniugazioni del latino si è passati alle tre dell’italiano ed alle due del neretino.
_______
1 Per esempio: L’eredità non si fa mancare mai chi dimostra totale ignoranza di nozioni fondamentali della grammatica italiana (quali modi e tempi del verbo) o dell’aritmetica (quali le tabelline). Se tanto mi dà tanto, debbo pensare che la colpa non è solo degli autori (per esempio: in una recente puntata quale equivalente di per niente è stato spacciato affatto) ma anche dei selezionatori, anche se obbligati a seguire le disposizioni di presidenti, dirigenti e direttori, tutti lautamente pagati con i soldi del contribuente e sempre più impegnati apromuovere una tv sempre più frivola, scadente ed autoreferenziale.
La Madonna degli Angeli per la cappella dei d’Amato di Seclì della chiesa di San Domenico a Nardò
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Nicola Cleopazzo, E Napoli cominciò a fare scuola nel Salento
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 137-163
ITALIANO
Nel saggio, attraverso la rilettura di un atto notarile, già pubblicato nel 1891 e collegato ora a dati storici nel frattempo emersi, viene dimostrato che il pittore napoletano Aniello Laudisello realizzò nel 1590 una grande pala con la Madonna degli Angeli per la cappella dei d’Amato di Seclì della chiesa di San Domenico a Nardò. Un arrivo da Napoli, a cui altri se ne possono aggiungere (come una pala a Racale qui attribuita a Giulio Dell’Oca), che poté avere un ascendente diretto sui maggiori pittori salentini del periodo: Donato Antonio D’Orlando e Gian Domenico Catalano. Alcuni dei caratteri stilistici dei due salentini, a cui vengono restituiti rispettivamente due dipinti a Casarano e Racale, sembrano infatti risentire del contesto culturale partenopeo del terzo quarto del Cinquecento, di cui il Laudisello fu uno dei protagonisti. Contesto, dominato dalla fortunata bottega Lama-Buono, cui sembra appartenere anche una Madonna del Soccorso a Gagliano del Capo, qui restituita a un altro pittore napoletano, Decio Tramontano, forse con la collaborazione del maddalonese Pompeo Landolfo.
ENGLISH
In the essay, through the analysis of a notary’s act, already published in 1891 and now connected to new historical information, it is shown that in 1590 the Neapolitan Aniello Laudisello painted a large altarpiece
with the Virgin of the Angels for the d’Amato (Seclì’s barons) chapel in the church of San Domenico in
Nardo. This arrival from Naples, to which others can be added (like an altarpiece from Racale here attributed to Giulio Dell’Oca), had probably a direct influence on the main Salento painters of the time: Donato Antonio D’Orlando and Gian Domenico Catalano. Some of the stylistic features of the two Salentines, to which two paintings from Casarano and Racale are respectively attributed, seem to be influenced by the Neapolitan cultural context of the third quarter of the sixteenth century, of which Laudisello was one of the protagonists. To this context, dominated by the successful Lama-Buono workshop, also a Madonna del Soccorso from Gagliano del Capo seems to belong. Here this painting is attributed to another Neapolitan painter, Decio Tramontano, perhaps with the collaboration of Pompeo Landolfo from Maddaloni.
Keyword
Nicola Cleopazzo, Aniello Laudisello, Antonio D’Orlando, Gian Domenico Catalano, Decio Tramontano, arte
La Macennula, 75 anni di satira e umorismo a Copertino
La Macennula, giornale satirico-umoristico copertinese, viene realizzata per la prima volta nel settembre del 1945, in concomitanza dei festeggiamenti per il patrono, San Giuseppe da Copertino, ripresi dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Un unico foglio, sulla prima facciata l’articolo di fondo, che spiega lo spirito con cui è nato il giornale “… e proprio nel pieno clima della libertà poteva germogliare la nostra Macennula che interpreta una tradizione nel folclorismo ambientale, a cui il popolo crede con la fede di un religioso e la ingenuità di un bambino” e lo scopo “ricreativo certo, anche se in funzione della satira fine e arguta” , è affiancato da una vignetta che ritrae un somaro e la scritta “l’olocausto”, in riferimento alla tradizione copertinese di mangiare polpette d’asino nei giorni della festa.
In seconda pagina tra articoli, rubriche, storielle esilaranti, la caricatura di un giovane copertinese “la commissione” della rinata festa per San Giuseppe.
Il nome della testata si rifà all’umile strumento delle massaie d’un tempo, utilizzato per dipanare matasse di lana, la macennula, appunto che, secondo una consolidata tradizione, fu posta dai copertinesi sul campanile della chiesa matrice per vedere in che direzione andasse il vento…
Diventa così, agli occhi dei paesi confinanti, l’emblema dei Copertinesi, della loro volubilità, uomini inaffidabili, usi a cambiare continuamente opinione, in un senso e subito dopo nell’altro, proprio come il vecchio arcolaio cambia direzione. Ma il termine Macinnulari, imposto come malevolo nomignolo, non ha più il valore di un’offesa, assume un’accezione positiva, diventa un appellativo di cui andare orgogliosi, si trasforma in un marchio, una bandiera, un sinonimo di assoluta libertà di pensiero.
E la Macennula diviene un tormentone nella vita del paese, posa il suo sguardo sui personaggi più in vista, i politici, gli amministratori in primis, quindi sul popolino, sui diversi aspetti della quotidianità, ironizzando, mai sbeffeggiando, rimarcando vizi e virtù dei copertinesi.
E la satira arguta, un tempo sicuramente più graffiante e… contundente, continua a colpire, non immaginando, i primi redattori, che al primo sarebbe seguìto, puntualmente, ogni anno, un nuovo numero.
La politica primeggia negli articoli, così come nella prima pagina caratterizzata da un grande disegno con le caricature degli amministratori resisi protagonisti degli avvenimenti più salienti dell’anno trascorso.
Nei primi anni le caricature non sono firmate, né compare il nome dell’autore all’interno del giornale.
Nel 1957, a sorpresa esce, dopo quello di settembre, un nuovo numero del giornale, in pratica un manifesto anticomunista, realizzato in occasione di vicine elezioni, che sull’ultima pagina riporta un enorme scudo crociato.
L’anno successivo questa iniziativa viene bollata come sacrilega dai redattori che si dissociano da quel gesto ritenuto meschino e scellerato, a dimostrazione dell’assoluta “neutralità” della Macennula, libera nello spirito, non legata ad alcun colore politico.
Negli anni sessanta si afferma come illustratore un giovane artista, il professore Raffaele Viva, valente pittore, che incide su lastre di linoleum (questa la tecnica del tempo) le figure al contrario, al negativo, rendendole idonee alla stampa.
A lui si deve la testata arricchita dall’immagine del campanile della Collegiata, a richiamare la leggenda popolare già ricordata, utilizzata per qualche anno.
Nel 1973 il compito di illustrare il giornale viene affidato al giovane aviere, ora Colonnello, Cosimo Martina: il suo tratto pulito, elegante, da raffinato ritrattista ad olio prestato alla caricatura, caratterizzerà la grafica della Macennula per un decennio.
Nel 1976 vengono pubblicate contemporaneamente due edizioni del giornale; questa volta, però, per incomprensioni fra redattori. Singolare il fatto che su entrambe, le caricature sono a firma di Martina.
Il 1983 segna il passaggio di consegne tra questi e Giuseppe Trono, studente universitario, ora medico e ancora illustratore del giornale.
Nel 1985 la linotype lascia il posto al computer.
La Macennula continua, imperterrita a bacchettare soprattutto i politici con le sue prime pagine, e a mettere in evidenza, con caricature e articoli, diversi personaggi e le loro “gesta”.
Antonio Viva, direttore responsabile da quegli anni, arricchisce il giornale con articoli di analisi politica, racconti di fantasia, cronache di fatti realmente accaduti, descrizioni di vari personaggi in prosa o in rima.
Il 18 settembre 1987 vede, per la terza volta nella sua storia, l’uscita di due giornali, sempre per divergenze di opinioni fra i vari redattori.
Nel 1999, ancora due uscite, questa volta la seconda “Sotto l’albero”, per salutare l’arrivo del 2000.
Il 15 giugno 2014, dopo una serata dedicata ai 70 anni del giornale, si inaugura la mostra “La Macennula, 70 anni, dal dopoguerra ai nostri giorni”, esposizione di tutte le prime pagine e di decine di caricature originali, dagli anni 70 in poi, nella Galleria Maria d’Enghien del castello, che permane per mesi.
Il colore rende molto più piacevole la veste grafica; le caricature, sempre più numerose, diventano motivo di richiamo e di curiosità per i lettori che, ogni anno, attendono l’uscita della Macennula per scoprire storie, avvenimenti, aneddoti dell’anno trascorso. Diventa così una sorta di almanacco che riporta puntualmente vicende, anche a carattere nazionale o internazionale, meritevoli di ricordo. Un appuntamento fisso la rubrica “Medici e pazienti”, strafalcioni raccolti, anno per anno, negli studi di medicina generale. Altrettanto interessanti e seguìte: “Il borsino della politica copertinese”, “Copertino e il resto del mondo”, “La Macennula giovani”, che vede protagonisti, appunto, i ragazzi della città.
Molto spazio è riservato, negli ultimi anni, a coloro che portano il nome di Copertino in Italia e nel mondo e a tutte le manifestazioni atte a promuovere il territorio e le tradizioni locali.
Seguìto sempre con molto interesse, con articoli e caricature, il gemellaggio, datato 1963, con Cupertino, in California.
Ospiti fissi, dal periodo del loro esordio, Giuliano Sangiorgi e Andrea Mariano, i copertinesi della rock band “Negramaro”.
Con la Macennula, Copertino si sente comunità, i Copertinesi la aspettano ogni anno con trepidazione e curiosità, come imprescindibile coronamento dei festeggiamenti per San Giuseppe.
Il 15 giugno p.v., presso la sala consiliare della Cantina Sociale “Cupertinum”, si terrà un incontro culturale animato da Docenti dell’Università del Salento, in ricorrenza del 75° anno d’uscita del giornale.
Durante la serata, tra gli interventi dei relatori, saranno letti articoli, poesie, aneddoti estratti dalle diverse edizioni.
Un beneficio del 1623 nella seconda Matrice di Casarano
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Luigi Scorrano, L’episodio otrantino del 1480: scritture sui margini
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 119-130.
ITALIANO
Dal 1480 ad oggi, la conquista di Otranto ed il martirio dei suoi cittadini sono stati oggetto di numerose opere letterarie che, più o meno efficacemente e puntualmente, ne hanno narrato le vicende. In questo saggio, l’autore analizza alcuni scritti, da lui definiti, “ai margini”, dove cioè la presa turca “è un pretesto per parlare d’altro o per alimentare un mito esaltante”.
ENGLISH
Since 1480 until the present day the conquest of Otranto and the martyrdom of its population have been under the attention of many literary works which related these events quite effectively and consistently. The author analyses in this essay some works that he defines “on the edge”, that means where the Turkish domination is nothing but “an excuse to talk about something else or to enhance an exciting myth”.
Keyword
Luigi Scorrano, Otranto, 1480
Gli impieghi della Ruta tra medicina popolare e magia
La Ruta è pianta tipica e originaria dell’ Europa meridionale, presente sulle rupi, sui muri, nelle garighe, nelle macchie.
Il botanico ottocentesco Martino Marinosci riporta, nella sua ricerca sulla flora salentina, la presenza di due specie di Ruta nel Salento, la bracteosa (sin.: chalepensis) e la graveolens. Le proprietà sono simili; la prima fiorisce in maggio, la seconda in giugno. Lo studioso salentino accenna nella sua opera alle proprietà emmenagoghe, antiisteriche, sudorifere, abortive, vermicide della pianta. Descrive poi gli impieghi dell’aceto di Ruta bracteosa e Canfora, come farmaco utile a contrastare i deliqui (perdita dei sensi), il tifo, i mal di denti; parla inoltre delle fumigazioni a base di Ruta, come rimedio alle malattie della vista.[1]
Era ritenuta, in Salento come altrove, pianta dalle molteplici virtù medicinali e magiche, e si impiegava per svariati scopi (“La ruta ogni male stuta”: la ruta ogni male spegne).[2] Una variante di questo detto, comunissimo in Puglia, è: “la ruta sette mali stuta”.
L’ infuso di foglie era utilizzato per ottenere azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente” [3]
Si utilizzava per calmare i vermi intestinali, con cataplasmi posti sull’addome; inoltre si curava l’otite con un infuso mescolato nel latte.[4] Dalla macerazione delle foglie in olio di oliva si otteneva un unguento atto ad alleviare i dolori reumatici; con lo stesso unguento, e l’aggiunta di un pizzico di zolfo e bucce di limone, veniva curata la scabbia.[5]. Dalla pianta essiccata si otteneva una polvere utilizzata per disinfestare i giacigli degli animali. [6] Il decotto, assunto in piccole dosi era utilizzato per facilitare la digestione e il flusso mestruale; ad alte dosi era utilizzato a scopi abortivi (in quanto ha l’effetto di provocare contrazioni uterine) o anche veleniferi (infiammazione dell’apparato gastroenterico e genitale). [7]
Anche a causa della forma a croce del fiore aperto, si credeva che avesse la capacità di tenere lontani i demoni e il malocchio.[8] Questa credenza ha, in ogni caso, radici antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni. Nel Rinascimento, questa pianta veniva chiamata Herba de fuga demonis.[9] Una usanza tipicamente abruzzese della ruta come erba “anti-streghe” era quella di cucire le foglie di ruta in un borsellino da portare nascosto nel seno: erano ritenute ancor più efficaci, le foglie su cui una farfalla avesse depositato le uova.[10]
Sempre in riferimento alla capacità della ruta di tenere lontani gli spiriti maligni, nell’ Iconologia del Ripa la Bontà è raffigurata come una
“donna vestita d’oro, con ghirlanda di ruta in capo, e con gli occhi rivolti al Cielo, in braccio tenga un Pelicano con li figliuolini, e a canto vi sia un verde Arboscello alla riva d’un fiume”.[11]
Il Ripa spiega il significato della ruta in questa raffigurazione:
“stà con gl’occhi rivolti al Cielo per esser intenta alla contemplatione Divina, e per scacciare i pensieri cattivi, che di continuo fanno guerra. Per questo ancora si pone la ghirlanda di ruta, havendo detta herba proprietà di esser fuggita da gli spiriti maligni, e ne habbiamo autentici testimonij. Ha ancora proprietà di sminuir l’amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l’amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l’armonia di quest’organo che suona con l’armonia di tutte le virtù”.[12]
In ambito magico-medicinale, era raccomandata contro l’epilessia e contro la vertigine: si usava appenderla al collo pronunciando una formula con la quale si rinunciava al diavolo e si invocava Gesù (secondo il Cattabiani questa usanza ha radici pagane e il rito qui descritto è un esempio di cristianizzazione del rituale più antico).[13]
La Ruta era utilizzata anche come deterrente per tener lontani i topi, in quanto si riteneva che non ne sopportassero l’odore.[14]
Era molto utilizzata come antidoto per il veleno dei serpenti e di altri animali. Anche questo tipo di impiego risale a tradizione molto antica, e Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con vino “in dose di un acetabolo” (recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068); applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:
“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”.[15]
Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]
Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una
“Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]
Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca (in basso a destra nel disegno), che:
“della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]
Si comprende anche da qui, l’impiego della ruta contro il malocchio: il Basilisco era considerato l’animale per eccellenza portatore di fascinazione con il suo sguardo.
Forse proprio a causa di questa sua “capacità” di tener lontani gli animali considerati velenosi e di fungere da antidoto ai veleni, era utilizzata anche nei rituali del tarantismo. La Caggiano nel 1931 descrive un rituale nel tarantino, in cui è presente questa pianta:
tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [19]
Teriaca e Mitridazio[20], antichi farmaci contenenti entrambi la Ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[21], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. O inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[22]
Il Mattioli annovera la Ruta con l’ Aceto e la Ruta presa col vino tra i rimedi semplici indicati anche da Dioscoride per la cura dei morsi dei falangi in genere. Ruta Salvatica pesta, o bevuta nel vino, è indicata per i morsi delle scolopendre, degli scorpioni, delle vipere.[23]
La Ruta veniva utilizzata anche dagli esorcisti (decotta in acqua o tramite fumigazione) per liberare gli indemoniati; tuttavia, al pari di altre erbe magiche, risulta ambivalente negli impieghi, come vedremo nelle descrizioni a seguire.
Negli Atti del Tribunale del Santo Officio di Oria si legge di una unzione che causa la morte di una donna. In questa unzione sono presenti la Ruta ed altre erbe non specificate. Petronilla Carbone racconta agli inquisitori di una fattura di morte procurata dalla masciàra Antonella Teppi, di Torre S. Susanna, nei confronti di sua sorella Rosata Carbone (fattura confermata dall’ arciprete di Torre S. Susanna, il quale tenta invano di guarire la donna affatturata con la lettura degli Evangeli). La masciàra viene pregata di far guarire la Carbone da una fattura subita in precedenza (e forse operata, anche quella, dalla stessa Teppi), ma il risultato è un aggravamento della donna, sino alla morte:
“Un giorno io con mia sorella Rosata ce la chiamammo dicendoli per amor di Dio che vedesse di farla guarire ed essa rispose che non poteva fare niente, e pregatala molte volte, disse che vedrà di aggiustarla, e così se ne andò, la sera notte poi verso hore due venne in casa mia e disse che io dovesse abbuscare un pignatino di oglio da nove persone, sotto pretesto che doveva allumare la lampa alla Madonna ed io per desiderio della salute della suddetta mia sorella buon anima, l’andai a trovare con patto che non dovesse parlare a niuno né all’altra mia sorella né anche a mia madre e buscato che ebbi l’oglio, essa Antonella se lo portò in sua casa e tenutolo ventiquattro hore me lo portò un terzo di quello che era con molte erbe, che vi aveva poste dentro, le quali non conosco altro che la Ruta e mi disse che ne ungesse detta mia sorella à tutte le giunture, e le spalle, e alli nudi delle mani e questo lo doveva fare per nove giorni, tre volte al giorno. […] Cominciò ad andar dal corpo quattro capelli biondi, e ristinco, e nell’altra unzione ne andò sei, à mezzogiorno poi andò un ciciro, e siccome io la ungeva così essa ancora faceva piaghe in quella parte dove toccava l’oglio”. [24]
Dopo pochi giorni, Rosata muore in preda a dolori e piaghe procurate dall’unguento. Secondo alcune testimonianze siciliane, la Ruta era utilizzata anche per un unguento che permetteva di volare: la mistura era preparata utilizzando olio d’oliva, Ruta, e il sangue di un uomo. [25]
L’ambivalenza della Ruta è tipica di altre erbe utilizzate a scopi magici: al tempo stesso veleno e farmaco, erba funesta ed erba benefica, era inoltre considerata afrodisiaca per le donne e anafrodisiaca per gli uomini.
Negli atti del processo di una strega bresciana, Benvegnuda Pincinella, ricompare la Ruta utilizzata per una liturgia di guarigione, che si apre proprio con una invocazione a “Madonna Ruta” e con una serie di preghiere rivolte all’ erba.[26]
Nella sua opera “Ricettario delle streghe”, il tossicologo Enrico Malizia raccoglie una selezione di antiche ricette da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800. In tale ricettario, essenza di ruta insieme a: cinnamomo, radice di eringio, radice di pastinaca agreste, mirra, essenza di prezzemolo, polvere di zafferano mescolati con sciroppo di artemisia, fanno parte di un elettuario per favorire le mestruazioni.[27] Una variante di questo elettuario comprende, oltre a essenza di ruta, cinnamomo e mirra: succo di eringio, seme di nigella, essenza di calendula, succo di salicornia, succo di puleggio, essenza di sabina.[28]
In un ricettario marchigiano del ‘500, di autore anonimo, sono descritte le varie virtù dell’ olio di ruta insieme alla sua preparazione: “recipe frondi di ruta e ponile in acqua in tamburlano, e duecento libre di frondi farà un’oncia d’olio”.[29] Successivamente sono indicati gli impieghi dell’olio così preparato: una goccia, è indicata per sanare infallibilmente “qualsivoglia puntura o morsicatura d’animali”. L’olio è poi indicato anche come rimedio contro la pleurite e contro dolori reumatici vari. “Una goccia” vale anche a sanare congiuntiviti e a tonificare la vista. Due gocce messe nell’orecchio, a sanare il ronzio e ridare vigore all’udito. Inoltre, l’olio di ruta è consigliato come rimedio alla cattiva circolazione del sangue. Ancora, nel suddetto ricettario, ritrovato dal Pezzella, l’olio di ruta va unto sul grembo della gestante per ridare al feto la giusta posizione nel grembo.[30]
Il succo ottenuto dalla spremitura di una libbra di ruta insieme a una libbra di scordio, una di capraria e una di cedro insieme a un’oncia di teriaca erano utilizzati, dopo distillazione, contro febbri, tifo e peste.[31]
L’ “erba ruta ben polverizzata” deve essere data da bere inoltre come rimedio “a chi perde l’intelletto”.[32]
Ungere i piedi “con l’ erba ruta intrisa d’olio” serve “a non stancarti camminando a piedi”.[33]
Ruta ben tritata con miele, serviva come applicazione su ginocchi infiammati.[34]
La ruta è impiegata anche in un procedimento “per conoscere se una persona è affatturata”: si dovevano impiegare aceto, salvia, ruta, savina perforata (valeriana rossa) e una palma benedetta: “falle friggere in olio comune e fallo benedire et onge il capo del patiente e vedrai l’effetto”.[35]
Contro le fatture, si riteneva che la ruta, insieme a succo d’assenzio, funzionasse anche a livello preventivo, difatti “per non essere stregato, farai benedire il sugo d’assenso e ruta e lo darai a bevere ad alcuno che non potrà mai essere ammaliato”.[36]
La Ruta è anche ingrediente dell’ Aceto dei quattro ladroni, ricetta contro-veleno della peste, che la tradizione vuole originaria della Francia (in un periodo tra il XIV e il XVIII secolo) e che si estese in tutta Europa. Era composta (in una delle sue numerose varianti) di aceto, menta, ruta, lavanda, aglio, rosmarino.[37]
Il medico e ricercatore ottocentesco Paolo Mantegazza descrive così la Ruta:
“Pianta del mezzodì dell’Europa coltivata negli orti, condimento ricercatissimo degli antichi, che le attribuivano infinite virtù e fra le altre quella di domare le passioni erotiche. Ora è piuttosto rimedio popolare contro i vermi, l’epilessia e le convulsioni che un vero alimento nervoso. Va però messo fra questi, perchè in Germania si mangia col pane come stomachico e fra noi serve ad aromatizzare l’acquavite”.[38]
Nel medioevo, la scuola medica salernitana affermava che “Giova la ruta agli occhi, fa la vista assai acuta, e scaccia la caligine. Nell’uom Venere affredda, e nella Donna assai l’accende, e fa l’ingegno astuto. E affinchè non vi dian le pulci tedio, ella, o donne, è ottimo rimedio”.
Il Cattabiani riferisce di un antico detto “Ruta libidinem in viris extinguit, auget in foeminis” (la ruta estingue la libido negli uomini, e l’aumenta nelle donne).[39]
Nell’iconologia del Ripa la ruta è presente anche in riferimento alla castità matrimoniale:
“Una donna, vestita di bianco, in capo avrà una ghirlanda di Ruta, nella destra mano tenga un ramo di Alloro, e nella sinistra una Tortora. La ruta ha proprietà di raffrenare la libidine, per l’acutezza del suo odore, il quale essendo composto di parti sottili per la sua calidità risolve la ventosità, e spenge le fiamme di Venere, come dice il Mattiolo nel 3. lib. de’ suoi Commenti sopra Dioscoride.”[40]
Nella antica Roma, i semi della Ruta erano impiegati per la preparazione di una bevanda soporifera a base di oppio.
La Ruta graveolens, secondo gli studiosi che si occupano di droghe, ha sospette proprietà psicoattive, allo stato della ricerca non compiutamente dimostrate.[41]
Nel mito, la Ruta è legata ad Afrodite e a Medea attraverso una storia singolare e dai risvolti cruenti: poiché le donne dell’ isola di Lemno avevano trascurato di omaggiare Afrodite, la Dea si vendicò condannandole ad emanare un odore ripugnante (simile a quello della Ruta): così, gli uomini dovettero abbandonare le loro spose, ma supplirono a tale mancanza procurandosi delle concubine straniere. Le donne tradite uccisero così tutti gli uomini. Un’altra versione del mito racconta della maga Medea protagonista del singolare incantesimo: navigando difatti al largo dell’ isola di Lemno insieme agli Argonauti, fu spinta da un desiderio di vendetta nei confronti di Issipile, una principessa di Lemno, che aveva amato il suo Giasone. Così, Medea inquinò le acque del mare di Lemno con la Ruta, che infestò di maleodore le donne che vi si bagnavano.
Secondo alcuni botanici la Ruta graveolens è la mitica erba moly descritta da Omero nell’ Odissea[42] (altri l’hanno identificata nella Mandragora, altri ancora nell’ Allium victorialis).
Note
[1]Martino Marinosci, Flora Salentina compilata dal Dott. Martino Marinosci da Martina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, Vol. 1, pag. 208
[2] Giuseppe Cassano, Ràdeche vecchie Proverbi moti frasi indovinelli dialettali credenze e giochi popolari tarantini, Stab. Tipografico Ruggieri, Taranto, 1935 , pag. 21
[3]Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117
[4]Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, centro di Studi salentini, Lecce, 2012, pag. 400
[19]Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[20]Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi
[21]Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105
[22]A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57
[23]Pietro Andrea Mattioli, Discorsi nei sei libri di Dioscoride Pedacio Anazarbeo Della materia medicinale, Venezia, Pezzana, 1744, pp. 833-837
[24]Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di Monsignor Labanchi, denuncia contro Antonella Teppi di Torre S. Susanna, in data 19 maggio 1723, accusata di essere masciàra, ff. 6-7
[25] Macrina Marilena Maffei, La danza delle streghe: cunti e credenze dell’arcipelago eoliano, Armando Editore, 2008, pag. 143
[26] Erika Maderna, La ruta, erba di maghe e streghe. Usi magici da Medea a Benvegnuda Pincinella, marzo 2018, Wall Street International, Website
[27]Enrico Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Mediterranee, 2003, pag. 203
[29] Il tamburlano è un arnese in metallo che serve alla distillazione; “duecento libre di fronde” sta per sette chili di ramoscelli di ruta; un’oncia sta per circa 30 grammi
[30] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989 , pp. 30-31
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Cosimo Rizzo,Luigi Maria Personè (1902-2004): la leggerezza della letteratura
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 111-117.
ITALIANO
Lo studio prende in esame rapidamente l’attività critica, saggistica, narrativa, i contatti con i grandi personaggi della cultura, dello spettacolo e della politica del Novecento di Luigi Maria Personè, personalità di alta caratura morale e di vasti orizzonti letterari, storici e artistici. Viene riservata particolare attenzione alle sue ultime pubblicazioni in cui spiccano posizioni critiche nei confronti della modernità e di un mondo sempre più meccanizzato.
ENGLISH
The study takes into consideration the critical activity, the literary production as well as the relations with emblematic figures in culture, politics and entertainment of the twentieth century of Luigi Maria Personè, a personality with a high moral and a great understanding of literature, history and art. A great attention
is given to his last publications, characterized by brilliant critical positions towards modern times and a more and more automatic world.
Keyword
Cosimo Rizzo, Luigi Maria Personè, Amore e Morte, Una vita raccontata da un centenario
Pietro Pellizzari: una fonte pugliese per le fiabe italiane di Italo Calvino
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Grazia de Maglio,Pietro Pellizzari: una fonte pugliese per le fiabe italiane di Italo Calvino
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 99-109.
ITALIANO
Nella raccolta Fiabe italiane, Italo Calvino utilizzo ben sei racconti in dialetto salentino contenuti in Fiabe e canzoni popolari del contado di Maglie in Terra d’Otranto di Pietro Pellizzari. Questo studio, attraverso la ricerca sui motivi e i campi semantici, analizza le relazioni esistenti tra i testi originari e la trasposizione in italiano fatta da uno dei più grandi autori del Novecento.
ENGLISH
In the collection Fiabe Italiane, Italo Calvino used as many as six stories in the salentino dialect contained in Fiabe e canzoni popolari del contado di Maglie in Terra d’Otranto by Pietro Pellizzari. This study, through research on motifs and semantic fields, analyzes the existing relationships between the original texts and the transposition into Italian language made by one of the greatest authors of the twentieth century.
Keyword
Grazia De Maglio, fiabe, Italo Calvino, Pietro Pellizzari.
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Gianfranco Mele,Erbe, voli e unguenti nella stregoneria salentina
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 75-96.
ITALIANO
Questo lavoro consiste in un’analisi di vari documenti e testimonianze inerenti alla stregoneria salentina tra il XVII e il XIX secolo, al fine di individuare le componenti e le tipologie delle erbe utilizzate a scopo magico. Poiché sia nelle deposizioni presso i tribunali inquisitori, che in saggi e resoconti etnografici sul tema, non sono state mai descritte chiaramente le sostanze e le misture utilizzate, l’autore si è servito della sua personale conoscenza in ambito di droghe, maturata attraverso un lavoro decennale come sociologo nei servizi pubblici per le dipendenze e la partecipazione a varie attività e studi del gruppo di ricerca S.I.S.S.C. (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), comparando gli effetti di una serie di piante presenti nella flora spontanea locale, notoriamente utilizzate in ambito magico-stregonesco, con le esperienze descritte nei vari documenti vagliati. È stato utilizzato inoltre, come riferimento e a fini comparativi, la letteratura farmacologica e farmaco-antropologica in tema di stregoneria.
ENGLISH
This work is an analysis of various documents and testimonies concerning the witchcraft in Salento between the fifteenth and sixteenth centuries in order to identify the components and the various types of herbs used for magical purposes.
The substances and the mixtures used, have never been clearly described in the depositions at the inquisitorial courts, in the essays and in the ethnographic reports on the topic. Therefore, the author used his personal knowledge of drugs through his ten years’work as sociologist in public services for addictions and his participation in various activities and studies of research group S.I.S.S.C. (Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza), to compare the effects of a series of plants that exist in the local spontaneous flora, notoriously used in the context of witchcraft, with the experiences described in the various documents examined. Moreover, the pharmacological and drug-anthropological literature was used as a reference in the field of witchcraft.
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
Paolo Vincenti,Le tre grazie della beneficenza magliese
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 57-71.
ITALIANO
Le tre grazie del titolo sono Francesca Capece, Concetta Annesi e Michela Tamborino, protagoniste di una stagione esaltante della storia magliese che, per quanto indagata a fondo, si ritiene valga la pena che sia rimemorata, perché davvero, con le parole di Anneliese Knoop-Graf, “dimenticanza e sciagura, mentre memoria e riscatto”.
ENGLISH
The three graces on the title correspond to Francesca Capece, Concetta Annesi and Michela Tamborino, the main characters of an exciting season of Maglie’s history which is worth to be remembered regardless how
deeply it has been investigated. According to Anneliese Knoop-Graf in fact “the oblivion is a catastrophe, instead the memory is redemption”.
Keyword
Paolo Vincenti, Maglie, beneficenza, Francesca Capece, Concetta Annesi, Michela Tamborino.
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com