L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (quarta parte)

 

di Mirko Belfiore

Andrea, figlio di Michele III Senior, fu mandato a Roma per studiare e formarsi nell’atmosfera ecclesiastica, accanto alla figura dell’illustre prozio Giuseppe Renato. Il carattere del giovinetto non fu mai affine alle vicende romane, quest’ultime intrise di frivolezze e pomposità, caratteristiche che si scontravano pienamente con l’atteggiamento chiuso e sensibile del principino, dedito più che altro alla meditazione e al ripiegamento interiore. Dovette comunque accettare le nozze imposte dal padre con Anna Caracciolo figlia di Giuseppe dei principi della Torella, nipote del signore di Avellino, il 30 giugno del 1717. L’unione portò alla nascita dell’erede Michelino Juniore, nato il 7 luglio del 1719 a Francavilla, evento gioioso che non migliorò, in nessun modo, i rapporti fra padre e figlio, divisi profondamente da due temperamenti agli antipodi. Mentre in Michele era forte il richiamo ai valori feudali e alla tutela del prestigio del Casato, per Andrea tutti questi obblighi erano superflui e inutili.

Importante fu, la politica di promozione economica e di ristrutturazione urbanistica che questo Michele III attuò e sostenne nel feudo di Francavilla. Segni indelebili del suo interesse, sono rimaste le imponenti opere urbane realizzate a Francavilla; la citta si sviluppò intorno ai tre grandi assi viari che vennero tracciati simultaneamente: “la strata longa” o via Michele Imperiali, via Simeana, chiamata così in onore della principessa Irene, sua moglie, e via del Carmine, oggi denominata via Roma. Numerosi inoltre furono gli interventi al Castello, nel cui ampliamento profuse grandi somme di denaro. La dimora subì un imponente ristrutturazione, tanto importante da trasformarla in una residenza aristocratica che non aveva nulla da invidiare alle corti del Regno di Napoli. Una volta succeduto all’avo, anche il giovane Michele IV (1719-1782), si profuse in opere di munificenza e di sviluppo, della città e della sua cittadinanza.

ritratto di Michele IV Imperiale Juniore – (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, trafugato).

 

Dopo la battaglia di Bitonto del 1734 e la conseguente liberazione del Regno di Napoli dagli austriaci, nel Meridione si venne a insediare una nuova dinastia, con Carlo III di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V.

La situazione economica disastrosa e la persistenza del baronaggio aristocratico, ormai a discapito anche delle classi più dinamiche come la borghesia mercantile straniera adeguatesi alla mentalità tipicamente meridionale, non fermarono la politica illuminata del nuovo reggente. Questa nuova linea fu favorita dalla presenza di un uomo forte e intelligente, il ministro delle Finanze Bernardo Tanucci, il quale con un’azione decisa, compì una serie di riforme strutturali radicali: riduzione dell’immunità ecclesiastica, creazione di un catasto e di un censimento, tassazione uguale per tutte le proprietà, politica di promozione economica delle industrie e tentativo di eliminazione del muro di monopoli e appalti, vero e proprio potere occulto della baronia locale. Il Tanucci, prima di essere rimosso dal suo incarico nel 1777, a causa delle divergenze con Carolina d’Asburgo, moglie dell’erede Ferdinando IV di Borbone, succeduto al padre Carlo III a sua volta nuovo Re sul trono di Spagna, architettò una vera e propria “trappola” ai danni dei feudatari locali per poter eliminare, nel Regno, quel fenomeno parassitario che era il feudalesimo.

Stabilì che lo Stato potesse disporre dei propri beni per la pubblica utilità, dichiarò nulla qualsiasi bolla papale non approvata precedentemente dal re e con estrema furbizia riempì di onori e titoli questa aristocrazia passiva con l’intento di allontanarla dai loro possedimenti e con la speranza che questi ne perdessero l’interesse.

In questo tranello cadde Michele IV Juniore, il quale attirato dalle cariche conferitegli: Maggiordomo Maggiore di Sua Maestà Siciliana, Gentiluomo di Camera e Gran Camerario, insieme alla vita mondana della capitale, dimorò spesso e volentieri fuori dai suoi feudi prendendo residenza a Napoli.

Nel 1740, convolò a nozze con Eleonora Borghese figlia di Camillo, principe di Sulmona. Secondo le fonti, la Principessa ebbe subito modo per farsi amare dai suoi sudditi e l’occasione arrivò, funesta, durante il terremoto del 20 febbraio 1743, evento sismico che sconvolse buona parte della Puglia meridionale. La principessa Borghese dimostrò grande solidarietà umana, non disdegnando di partecipare in prima persona all’opera di soccorso, portando il conforto della sua presenza e sostituendo in modo egregio il marito che si trovava a Napoli.

Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Grazie alla munificenza del Principe, inoltre, fu possibile ricostruire gli edifici compromessi dal sisma: fra tutti ricordiamo la Chiesa Matrice, il convento di Santa Chiara e quello dei Frati Cappuccini. Michele IV contribuì, inoltre, al compimento dei lavori del Castello, completati nel 1739.

Con il passare del tempo però le soste degli Imperiale a Francavilla divennero sempre più rare. Nel 1755 Michele IV prese in affitto una sontuosa dimora per milleseicento ducati l’anno, che fece decorare a proprie spese, per poter ospitare degnamente la nobiltà della capitale e lo stesso re Carlo III. Il Principe morì a Napoli il 10 febbraio 1782 . Non avendo avuto figli, dichiarò suo erede universale il marchese di Latiano Vincenzo Imperiale figlio di Giovanni Luca, suo cugino; ma questi non essendo l’erede naturale, fu contrastato dal Regio Fisco, il quale forte di un diritto di prelazione sui feudi, iniziò il processo di devoluzione annotando e sequestrando tutti i beni e i possedimenti.

Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo (ph Domenico Ble)

 

Il Marchese però, fece opposizione. Si aprì un processo che durò a lungo e nel 1785 si stabilì che tutti i beni immobili degli Imperiale, sarebbero passati al Fisco. La disputa quindi si risolse con un accordo e l’erede venne liquidato con la somma di trecentosettantacinque mila ducati, tutti i beni mobili presenti nelle residenze, come gioielli, argenti, librerie, attrezzatura del teatro e i titoli di Marchese di Oria e di Principe di Francavilla. Lo Stato procedette alla vendita dei singoli beni del feudo ai migliori offerenti, decretandone così lo smembramento.

 

Bibliografia

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Per la prima parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)

Per la seconda parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (terza parte)

Famiglia Imperiale di Genova. Nella tela è raffigurato Giovanni Vincenzo Imperiale con la sua famiglia(Domenico Fiasella-Giovanni Battista Casoni, 1642, olio su tela, Genova,

 

di Mirko Belfiore

Di Andrea I (1647-1678), quinto marchese di Oria e secondo principe di Francavilla, le notizie pervenuteci sono poche. Sappiamo che nacque nel 1647 probabilmente a Francavilla e si sposò a Monaco con Pellina Grimaldi, figlia di Ercole principe di Monaco, marchese de Baux, dalla quale ebbe solo due figli, Michele e Maria Teresa Aurelia.

Rimase a lungo a Genova e successivamente si trasferì a Napoli e in seguito nel suo feudo salentino. Grandissimo benefattore, secondo le cronache, nella capitale partenopea dove si recò nel gennaio del 1678, egli “camminava sempre con un codazzo di storpi e affamati, i quali gli chiedevano aiuto e che egli sussidiava di larga moneta”. Dopo alcuni anni, “intronato dal rumorio di Napoli, stufo delle accoglianze, delle veglie, delle cortigianerie”, si ritirò a Francavilla dove preferì dedicarsi ai “tesori della sua beneficenza e pensava come provvedere ai bambini affamati e alla loro istruzione”. Alla sua morte lasciò scritto nel suo testamento, stilato il 25 novembre 1678 dal notaio Paolo Lamarino, che venissero elargiti numerosi legati pìì e “soprattutto duemila ducati per l’introduzione delle Scuole Pie” con lo scopo di istituire l’istruzione gratuita per i giovani e l’assistenza ai moribondi. Questa stessa filantropia animò e pervase anche gli altri componenti della famiglia.

Il fratello Ambrogio (1652-1678), di cui si rammenta la generosità verso la popolazione durante la carestia del 1672, nel suo testamento destinò un lascito di cinquecento ducati per creare una rendita che dovesse costituire la dote annua per “una zitella povera e pericolante nell’onore”, con clausola di sospensione e di passaggio della rendita all’istituzione pubblica, qualora fosse sorto “un Conservatorio di vergini o un rifugio di donne pentite”.

L’altro consanguineo Giovan Battista (1655-1729), una volta morto, lasciò parte della sua eredità per la fondazione di un Conservatorio accanto alla chiesa di San Nicola di Francavilla e per la realizzazione di un Monte di Pietà per i poveri, struttura che ancora oggi compie lo stesso servizio.

Cardinale Giuseppe Renato Imperiale

 

Ma fu con Giuseppe Renato (1651-1737) che la potenza della famiglia Imperiale si consolidò ulteriormente all’ombra della veste purpurea. Dopo alcuni trascorsi genovesi e un barlume di carriera militare, egli, nel 1662, fu inviato insieme ai tre fratelli dallo zio Cardinale Lorenzo, il quale li collocò nel collegio ungarico-germanico sotto la protezione di papa Clemente X. La sua esperienza e la sua capacità in campo politico lo portarono a rivestire numerose cariche di prestigio, al servizio di numerosi Papi. Innocenzo XI, lo nominò suo tesoriere, Alessandro VII lo creò Cardinale il 13 febbraio del 1690 con la diaconia di San Giorgio in Velabro, spedendolo successivamente a Ferrara come suo legato, e infine Clemente XI, il quale lo inviò in qualità di suo consigliere privilegiato, a incontrare l’Imperatore Carlo VI d’Asburgo, giunto in Italia per riallacciare le relazioni con il papato.

Dopo la nomina legatizia di Ferrara arrivò, nel 1696, l’assegnazione di una delle cariche più importante con la quale Giuseppe Renato, seppe per quasi trent’anni, dimostrare il proprio rigore, competenza e cultura: la prefettura della Congregazione del Buon Governo. Il Cardinale non fu solo un abile diplomatico, ma fu uomo sensibile e colto. Creò un’importante biblioteca e fu “mecenate di letterati i quali lo tennero in molta estimazione e gli dedicarono molte opere”.

Nel conclave del 1730, a causa dell’età avanzata e del veto del re di Spagna Filippo V (1683-1724), non fu eletto papa. Malgrado i molti impegni romani, rimase pur sempre legato al feudo pugliese. Qui volle che dopo la sua morte fosse trasferita parte della sua biblioteca; qui appoggiò favorevolmente l’iniziativa del fratello Andrea riguardo alla fondazione delle Scuole Pie, legando a questa iniziativa ben cinquecento ducati e qui, per meglio raccogliere le ossa di San Renato, donate nel 1649 a Francavilla da Monsignor Capobianco, pensò di inviare un busto reliquiario d’argento commissionato a un valente orefice romano e giunto in città solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1737.

Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Degno discendente fu Michele III Senior (1677-1738), sesto marchese di Oria e terzo principe di Francavilla, Grande di Spagna di prima Classe (1703), sposo di Irene Grimaldi: “addimostrò in sul principio buoni intendimenti e buon cuore”. L’immagine tramandataci di lui è quella di un giovane colto ed esperto umanista votato agli studi in legislazione civile ed ecclesiastica.

Laureato in “utroque iure”, riusciva a tener testa ai più dotti giuristi del tempo, dai quali era per questo molto temuto. Il carattere del Principe si rivela ancor oggi a noi, quando guardiamo il suo ritratto conservato nel palazzo di Francavilla. Un vivo senso degli antichi valori feudali, la volontà di tutelare ed accrescere il prestigio della casata, quel filantropismo, pregio della famiglia, unita a un temperamento impulsivo ed aggressivo, che gli costarono il carcere, animarono sempre gli eventi più importanti della sua vita: dal difficoltoso rapporto prima, con l’unico figlio Andrea II, nato nel 1697 a Francavilla e poi con il nipote Michele IV Juniore (1719-1782).

 

Per la prima parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)

Per la seconda parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)

 

Il busto di San Gregorio Armeno tra i tesori in argento della diocesi di Nardò

di Marcello Gaballo

Oggetto di grande venerazione da parte della città di Nardò è il reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente trafugato negli anni ’80 e poi rifatto nel 1989 dalla Ditta Catello di Napoli

Non da meno è il mezzobusto del Santo protettore della città di Nardò, già restaurato dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma nel 1986, che viene portato processionalmente la sera del 19 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno sempre più riscoprendo il culto del santo.

Mercoledì 12 febbraio 2020, in Cattedrale, sarà presentato al pubblico il busto argenteo, egregiamente restaurato ed ultimato nelle settimane scorse, con la presenza degli artefici dell’importante intervento (Mariana Cerfeda e Giuseppe Tritto) e di uno dei più qualificati conoscitori dei manufatti in argento presenti in Puglia, Giovanni Boraccesi, che qualche anno fa scrisse un volume sui tesori argentei della Cattedrale di Nardò, per le edizioni Congedo (Capolavori di oreficeria nella Cattedrale di Nardò, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardo’ e Gallipoli – Nuova Serie – Supplementi V, Congedo, Galatina 2013).

Il santo, nel busto che si presenta, indossa i paramenti vescovili e mentre con la mano sinistra stringe un libro, la palma del martirio e la croce patriarcale, con la destra impartisce la benedizione; sul petto è inserita la reliquia. Nel dito anulare destro è infilato un anello d’argento con smeraldo. E’ merito dello stesso Boraccesi aver individuato in Nicola Alvino, apprezzato argentiere napoletano, l’artefice della preziosa opera.

L’occasione è utile per riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò (Antonio Sanfelice vescovo della diocesi di Nardò. La straordinarietà e la lungimiranza dell’uomo e del pastore attraverso i documenti di archivio, in Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Congedo, Galatina 2003), poiché si continuava ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, allora datato con approssimazione.

Le notizie furono desunte da una serie di atti notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestando come l’opera fosse stata realizzata a Napoli nel 1717, come si evince pure dall’iscrizione incisa sulla stessa.

A distanza di un anno dalla consegna al clero e alla città di Nardò il busto richiedeva già  un intervento di restauro, a causa dei cedimenti di alcune delle lamine argentee che lo ricoprivano. In un atto del notaio neritino Emanuele Bonvino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice (1707-1736):

Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batt(ist)a Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batt(ist)a have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…

Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.

Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales, che tuttora si conserva nello “stipo dei santi” della Cattedrale.

Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Quasi tutti questi preziosi ora trovano posto nel Museo Diocesano di Nardò.

Due lettere di raccomandazione di Maria d’Enghien

di Armando Polito

Questo post è l’integrazione di un altro mio sulla contessa di Lecce piuttosto datato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/) ed è il frutto di un commento allo stesso apparso recentemente a firma di Luigi Leone. A conferma  di quanto per l’occasione ebbi a dire sul suo comportamento equilibrato ed illuminato (oggi, con l’aria che tira, sarei costretto  a dire, umano, nonostante la nebulosità pratica  che sembra avvolgere questo concetto sul quale tutti si dichiarano d’accordo) nei confronti degli Ebrei, propongo oggi due sue lettere pubblicate da Andreas Kiesewetter nel suo L’epistolario di Maria d’Enghien. Nuovi rinvenimenti e precisazioni, in Quei maledetti Normanni, CESN, Ariano Irpino, 2016, pp. 571 e 576-577. Entrambe risultano inviate all’Università (cioè a quello che oggi si dice Comune) di Bari, la prima da San Pietro in Galatina (oggi Galatina) l’11 ottobre 1422, la seconda da Lecce il 10 ottobre 1425. Ne riproduco il testo dal volume citato (dallo stesso è tratta l’immagine di testa, che si riferisce alla seconda), aggiungendo la trascrizione in italiano corrente e qualche nota.

1)

Viri nobiles providi atque discreti carissimi, nobis post salutem. Peroche mastro Christi, figlio di mastro Manu de Simone, marito de donna Dolce, matre de mastro Iacobo, iudeo habitante et morante in Baro, nostri servituri et lu so fratelli, et matre  delo dicto mastro Iacobo, lo quale e medico, nostro vassallo de Lecce, vi volimo pregare, che in nostro placitho li predicti mastro Christi et Simone con la dicta donna Dolce vi siano recomandati, che per vui universalmente per nostro respetto in singulis oportunis siano ben trattati, et di questo ne farete piacere tanto ad nui, quanto allo prencipe, nostro figlio, sincomo a simili facessimo per vui. Datum in Sancto Petro de Galatina, die XI octobris prime indictionis.

Nobili uomini, previdenti e giudiziosi1, a noi carissimi, dopo il salutoa. Poiché mastro Cristo, figlio di mastro Emanuele de Simone, marito di donna Dolce, madre di mastro Iacopo, giudeo abitante e residente in Bari, nostri servitori e i suoi fratelli e madre del detto maestro Iacopo, il quale è medico, nostro vassallo di Lecceb, vi vogliamo pregare che in nostro placito i predetti mastro Cristo e Simone con la detta donna Dolce che vi siano raccomandati, che da voi unanimementec per nostro rispetto nelle singole opportunità siano ben trattati; e con questo farete piacere tanto a noi, quanto al principe nostro figlio, come in circostanze simili avremmo fatto per voi. Emesso in San Pietro di Galatina il giorno 11 ottobre della prima indizione.

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a La virgola dopo carissimi va spostata dopo discreti, come correttamente è nella lettera successiva. Dopo salutem è sottinteso un nesso in latino che in italiano suonerebbe esponiamo quanto segue.

b L’urgenza di presentare i protagonisti ha propiziato l’omissione del verbo di questa dipendente causale, collegando quasi direttamente la principale (vi vogliamo pregare) con i destinatari della missiva (Nobili uomini …)

c “Traduco” così l’universalmente dell’originale, avverbio che non poteva essere più adatto riferito al destinatari della missiva, cioè un’Università, qui, come nella lettera successiva, quella di Bari.

 

2)

Viri nobiles et discreti, devoti nostri carissimi, post salutem. Simone Iudio, vassallo nostro, ny ave informato, che isso ave a rescotere in Bari certi denari e roba; et per tanto piaczia vi de lo avere recomandato et favorirelo  in tucto quello, che bisoghiasse, azocche pocza rescotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ny diche devere rechiperea alcuni denari, imprestati per isso alli sindici vostri de l’anno de la XVa indictione, et foro’li ‘nde dati certi pyghy. Et per tanto piaczave dare’li li sui denari, et esso rendera li dicti pighy, azocche non sdia bisoghio de si vendere, fariti vostro devere, et ad nuy ‘nde placheriti. Dat. in castro Licii, X octobris, IIII indictionis.

Nobili uomini e giudiziosi, nostri carissimi devoti, dopo il saluto. Simone Giudeo, vassallo nostro, ci ha informato che egli ha da riscuotere in Bari certi denari e roba; e pertanto vi piaccia di averlo come raccomandato e favorirlo in tutto quello che bisognasse, affinché possa riscuotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ci dice dover ricevere alcuni denari prestati da lui ai vostri sindaci dell’anno della quindicesima indizione e gliene furono dati certi pegni. E pertanto vi piaccia dargli i suoi denari ed egli renderà i detti pegni, affinché non ci sia bisogno che siano venduti; farete il vostro dovere ed a noi ne farete piacere. Emesso nel castello di Lecce il 10 ottobre della quarta indizione.

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a Dal latino recipere, da cui il nostro ricevere.

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)

primo piano nobile di palazzo Imperiale a Genova

 

di Mirko Belfiore

La figura che più di tutti contribuì con le proprie azioni al consolidamento del potere economico e politico della famiglia fu Vincenzo Imperiale (1518-1567), riconosciuto uomo di cultura e titolare, già verso la fine del Quattrocento, di un florido banco.

Vincenzo, uno dei massimi esponenti dell’aristocrazia mercantile genovese, seppe allargare velocemente le maglie finanziarie della famiglia, risultando in molte aree (Roma, Napoli, Sicilia, Bologna, Milano e persino in Spagna) proprietario di rendite, assegnatario di appalti e commerci vari. Vincenzo, si servì dei proventi dei suoi affari, investendo in una delle sue passioni principali: la cultura della Grecia antica. Le sue competenze e i suoi interessi spaziavano dai grandi volumi d’età classica, come Plutarco e Ovidio, primo nucleo della biblioteca di famiglia, ai dipinti di celebri artisti, il tutto conservato presso il Palazzo signorile fatto costruire nel 1560, in un angolo della succitata Piazza Campetto, dall’architetto Giovan Battista Castello detto il Bergamasco e affrescato nei decenni successivi da Luca Cambiaso e Bernardo Castello, affermati artisti locali.

Famiglia Imperiale di Genova. Nella tela è raffigurato Giovanni Vincenzo Imperiale con la sua famiglia(Domenico Fiasella-Giovanni Battista Casoni, 1642, olio su tela, Genova,

 

A testimonianza ulteriore, della poliedricità del ricco finanziere e della profondità di interessi e di amore per la “Grecità”, troviamo la serie di Viri Illustres, gruppo scultoreo di notevoli dimensioni e di pregevole fattura, allestito nella Villa suburbana di Sampierdarena, detta la Bellezza, caratterizzato dalla presenza di statue di grandi uomini dell’antichità greca e modelli d’opere d’arte antica, ulteriore conferma di una tendenza di gusto, che si confermerà nelle generazioni successive.

Gio. Giacomo, figlio di Vincenzo e primo esponente della famiglia che salì alla carica di Doge della Repubblica di Genova, rappresenta il prototipo dell’uomo politico, impegnato nel governo della Cosa pubblica e sempre attento agli affari di famiglia. Fece tracciare, nel 1587, Via Imperiale, oggi Via di Scurreria, acquistando e riqualificando l’area prospicente il palazzo di famiglia e creando un tracciato, in asse con il portale dello stesso, che, ancora oggi, conduce alla Cattedrale di Genova. A Gio Giacomo, succedette Gian Vincenzo, sublime punto di incontro di tutte le anime in cui era caratterizzata la famiglia: politica, finanza e cultura. Seppe coniugare, con risultati eccellenti, le caratteristiche che ogni buon patrizio genovese doveva incorporare, l’abilità negli affari e la predilezione verso le diverse forme d’arte. Gian Vincenzo, oltre a saper raccogliere le redini finanziarie del patrimonio economico lasciatogli dai suoi predecessori e ampliandone ulteriormente i profitti, fu un riconosciuto poeta e un attento collezionista di opere pittoriche e letterarie. Figura di spicco dei circoli letterari cittadini e amico di alcuni dei più importanti uomini di lettere della Genova Cinque-Seicentesca come il Chiabrera, il Grillo e il Cebà, quanto di autori di fama internazionale come Torquato Tasso. Gian Vincenzo accumulò un ingente patrimonio e una collezione artistica fra le più importanti dell’epoca, che annoverava nomi di artisti del calibro di P.P. Rubens, A. Van Dick, Raffaello, il Veronese, Giulio Romano, Correggio, Annibale Carracci, Tintoretto, Parmigianino, Guido Reni e artisti locali come Luca Cambiaso, Domenico Piola e Bernardo Castello.

Ritratto di Giovanni Vincenzo Imperiali (Anthony Van Dick, 1625, olio su tela, U.S.A., Washington D.C., The National Gallery of Art)_

 

Attenti alle oscillazioni del mercato finanziario europeo e vigili su quelle che erano le dinamiche politiche della Corte  spagnola, gli Imperiale seppero destreggiarsi nell’accaparramento di quei mercati finanziari che, all’interno dell’Impero spagnolo, risultavano fra i più redditizi. Il re spagnolo Filippo II, travolto dai debiti e indebolito dall’annosa guerra contro le Sette Province Unite, dovette ricorre spesso alle finanze liguri. Questo solido monopolio, impostosi con forza durante i decenni centrali del XVI secolo, già verso la fine dello stesso secolo e gli inizi del successivo mostrò però i primi segni di cedimento: le palesi difficoltà della Corona nella restituzione dei capitali prestati spinse l’élite genovese a rivolgere gradualmente i propri interessi verso ambiti più sicuri; ed è proprio in questa fase che il Mezzogiorno d’Italia divenne “terra di conquista” per chiunque detenesse cospicui capitali, permettendo agli imprenditori della Repubblica di radicarsi senza ostacoli e prepotentemente nel Viceregno napoletano. La “diaspora” di questa ricca oligarchia, che del resto fu fortemente voluta dallo stesso Governo spagnolo, desideroso non solo di nuova liquidità, ma anche di allentare la radicata feudalità locale, dimostrò come i genovesi seppero approfittare, con lungimiranza, della difficile congiuntura asburgica di fine secolo.

Lapide dedicatoria, sintesi operato famiglia Imperiale nell’edificazione, ampliamento e arricchimento del Palazzo di Genova

 

Il progressivo accaparramento delle attività più redditizie dell’epoca, come l’acquisto di cariche civili ed ecclesiastiche, la gestione delle finanze pubbliche e bancarie, la compra-vendita di feudi e, soprattutto, dei titoli nobiliari ad essi connessi, consentì a questo potente gruppo di potere di conquistare un intero apparato economico come quelle del Vicereame, rivaleggiando con l’antica nobiltà meridionale.

Sala della Gerusalemme Liberata- Bernardo Castello 1617

 

Sala delle Gesta di Cimone l’Ateniese, Palazzo Imperiale di Piazza Campetto 8

 

Ed è in questo nuovo scenario che si muove Davide Imperiale (1553-1586), figlio di Andrea, a sua volta fratello di Vincenzo, il quale si rese illustre nella battaglia di Lepanto del 1572. Egli partecipò allo scontro con la sua squadra di galee, distinguendosi per il suo eroismo nel proteggere, con una delle sue navi, l’ammiraglia dove si trovava il comandante delle forze cristiane, Marcantonio Colonna, alla quale l’Imperiale, salvò la vita. Secondo la vulgata, Filippo II, entusiasta e impressionato dal coraggio del genovese, gli lasciò in dono il titolo di una serie di feudi situati Vicereame spagnolo, il marchesato della città di Oria e le proprietà dei feudi di Francavilla e Casalnuovo, in Terra d’Otranto. In realtà Davide entrò in possesso di questi territori nel 1575, pagando moneta sonante, prototipo di quei genovesi con cui Filippo II continuò a barattare per tutto il ‘500, vendendo terre, uffici e donativi in cambio di buona moneta, con la speranza di poter risollevare le finanze spagnole ormai allo stremo. Inizialmente, fra le condizioni presentate nell’accordo, era previsto uno dei tanti sgravi fiscali dell’epoca, la cosiddetta clausola del “retro vendendo”, patto che consentiva al venditore, quando credeva più opportuno, di riprendersi il feudo restituendo un importo pari a quello pattuito nell’atto di vendita. L’Imperiale non si fece né sfruttare né circoscrivere dal Re e utilizzando la sua dimestichezza negli affari, dettò le sue regole, si impose nell’acquisto di queste terre e approfittando a sua volta del bisogno indispensabile di denaro della Spagna asburgica, arrivò ad ottenere il feudo libero da ogni obbligo. Con queste premesse Davide divenne padrone senza limitazioni, esercitando diritti non solo sulla tassazione di ogni reddito e attività locale, ma anche sulla giurisdizione penale e civile.

Sala Gesta di Cimone l’Ateniese – Luca Cambiaso 1560-62

 

La struttura economica commerciale si basava totalmente sull’appalto di tutte le attività più redditizie: sale, carne, olio e farina mentre le funzioni di polizia urbana che riguardavano l’ordine, l’esattezza dei pesi, le licenze, ecc. venivano garantite da un catapano che aveva il compito di vigilare la piazza assistito da due baglivi, mentre la giustizia veniva amministrata da un giudice di nomina feudale. Nelle loro mani il potere feudale seppe coesistere con innovazioni e riforme di ogni genere finalizzate al miglioramento del tenore di vita delle classi più povere tramite l’istituzione di opere e lasciti benefici, la promozione dell’istruzione pubblica attraverso l’introduzione dei Padri Scolopi e lo sviluppo di un programma edilizio volto all’ammodernamento strutturale dei feudi. Il governo di Davide non durò tantissimo anche perché lo stesso morirà accidentalmente, nel giugno del 1575, per le ferite provocategli da Giovanni Battista Doria durante una rissa scoppiata a Finale Ligure nel monastero di Monte Oliveto, tra un gruppo di fuoriusciti della nobiltà vecchia genovese.

Stemma degli Imperiale

 

L’erede al feudo Michele I (1565-1616), secondo marchese di Oria e Casalnuovo, nato a San Pietro in Galatina il 17 agosto 1616 e sposato con Maddalena Spinola di San Luca, figlia di Filippo, ebbe parecchi figli (testò il 14 dicembre 1590 notaio L. Chiavari). Dimorò a Genova fino al 1593, anno in cui quasi certamente si trasferì nel suo feudo pugliese, se già nel gennaio del 1594 ritroviamo notizia, nei Libri Battesimali della Matrice di Francavilla, della nascita di suo figlio Filippo, battezzato dall’arciprete Vinciguerra e tenuto in fonte dal nobile napoletano Vespasiano Caracciolo.

Si deve a Michele I, uno dei primi ampliamenti del castello di Francavilla, attuato per accogliere degnamente la famiglia e la sua corte. La nuova residenza venne ingentilita con alcune trasformazioni che poi diverranno radicali nel secolo successivo, portando la struttura originaria da fortezza difensiva a residenza nobiliare. Dopo un ventennale governo di relativa pace e prosperità, alla morte di Michele, Francavilla conobbe un periodo di incertezze.

Infatti, Davide II (1594-1623), terzo marchese, sposo della cugina Veronica Spinola figlia di Giovanni Battista, battezzato a Francavilla nel 1592, non riuscì a governare a lungo, poiché venne ucciso a Napoli il 9 aprile 1623 da un sicario del Marchese di Pescara e di Vasto, nemico degli Imperiale.

Egli lasciò come suo erede il figlio Michelino, nato il 27 luglio dello stesso anno e battezzato a Francavilla. Proprio per la minore età dell’erede, la tutela spettò alla nonna Maddalena Spinola, sostenuta dagli zii del piccolo marchese: Carlo (?-?), Giovanni Battista (1596-1668) e Agostino (?-?), insieme al cardinale Lorenzo, i quali, anche se non introdussero novità rilevanti, dimostrarono una forte sensibilità sociale e culturale operandosi per rendere meno dura la triste condizioni della popolazione. Lorenzo, infine, introdusse arti e mestieri facendo giungere in città orefici, calderari, tessitori, vasai, etc. Uscito di minore età, Michele II (1623-1664), cercò di seguire l’esempio datogli dagli zii, creando i presupposti di una politica fondata non solo sull’agricoltura, ma anche su iniziative di carattere artigianale e commerciale che avrebbero potuto risollevare in modo effettivo e dignitoso le sorti della popolazione. Queste iniziative avrebbero di certo fruttato molto di più, se non fosse sopraggiunta nel Regno di Napoli una particolare situazione politica, caratterizzata da un’intollerabile pressione fiscale e da numerose insurrezioni popolari, di cui la più importante si rivelò quella di Masaniello del 1636.

In questo frangente Michele: “si dimostrò prode cavaliere, correndo nel 1648 in difesa delle province di Bari e Terra d’Otranto e con mille pedoni e trecento cavalli mise alla strette Matteo Crispano, sovvertitore di popoli e ribellatosi contro il governo di Lecce”, imponendosi ai rivoltosi e portando la pace nella regione. Sebbene per questa sua fedeltà alla monarchia spagnola avesse ottenuto nel 1639 il titolo di Principe di Francavilla, tuttavia egli dovette affrontare serie difficoltà. La Spagna, non potendo colpire direttamente la Francia, retta dal cardinale Giulio Mazzarino e avversaria di sempre, decise di scagliarsi contro Genova, ritenuta alleata dei francesi, emanando il 7 maggio 1651 un provvedimento che prevedeva il sequestro di “tutti i luoghi et anco burgensatici che hanno i Genovesi in questa Provincia di Terra d’Otranto”. L’Imperiale fu costretto a dimostrare, sulla base di prove circostanziate, la sua devozione alla Corona ed “espose come avesse aiutato il Viceré nelle passate rivoluzioni; come avesse presa Taranto e come per tali servizi fosse stato nominato Gran Guardasigilli, Gran Camerario e Maggiordomo Maggiore”. Riuscendo a dimostrare la sua innocenza e soprattutto la sua devozione piena e quella della sua famiglia, il nobile rientrò, subito in possesso dei suoi titoli e dei suoi possedimenti.

 

Per la prima parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)

di Mirko Belfiore

Famiglia di antichissima origine mediterranea, legata alla storia della città di Genova fin dai primi decenni dell’XII secolo, gli Imperiale seppero emergere nell’oligarchia cittadina genovese come mercanti, amministratori della Res pubblica e comandanti di galee, ritagliandosi in poco tempo un ruolo di prestigio.

Il “trasferimento” dalla lontana Tartaria alle coste liguri, fu probabilmente agevolato dai rapporti commerciali che la stirpe ebbe con i mercanti genovesi, i quali avevano precedentemente colonizzato alcune città costiere site sul Mar Nero, Tana e Caffa. La modestia numerica palesata dalla documentazione coeva, non diminuì la caratura gentilizia degli Imperiale, i quali, agli albori del Cinquecento, riuscirono a ritagliarsi un ruolo sempre più considerevole all’interno del tessuto patrizio genovese e al tempo stesso, letterati, ecclesiasti e uomini di cultura elevarono il casato, fra le prime compagini nobiliari della Repubblica. Durante gli scontri fra Guelfi e Ghibellini, Essi costruirono la loro fortuna schierandosi dalla parte dell’Impero, e in occasione della venuta a Genova nel 1311, dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Arrigo VII di Lussemburgo: “…due famiglie superarono le altre in adulazioni: i Doria che pigliarono l’aquila per stemma e i Tartaro, che vollero innanzi denominarsi Imperiali”.

Stemma della famiglia Tartaro

 

Da questa circostanza in poi la famiglia assunse l’appellativo di Imperiale, tralasciando l’antico titolo dei Tartaro. Sostituì, inoltre, con uno stemma d’argento al palo d’oro caricato d’un aquila coronata di nero al volo abbassato che diventerà poi spiegato nei rami da essa discendenti, il precedente stemma già “d’azzurro a tre bande doppie merlate d’oro”.

Stemma della famiglia Imperiale

 

Gli interessi economici della famiglia erano ben distribuiti fra tutte le attività redditizie dell’epoca, sia in ambito commerciale che finanziario; ma è sicuramente con le attività marittime e come proprietari di galee al soldo dell’Impero spagnolo, durante il “Sieglos de los Genoveses”, che la famiglia raggiunse l’acme del potere politico, sociale ed economico. Proprio la Corona di Spagna divenne, dopo la svolta doriana del 1528, l’interlocutore principale dell’oligarchia finanziaria della Repubblica di San Giorgio, quest’ultima pronta a rispondere alla cronica richiesta di capitale del Re Cattolico, impegnato in dispendiose attività belliche. Com’è noto, il patriziato della Superba, si inserì con autorità in quello specifico business, ricavando notevoli guadagni, in primis come asientistas di galee, attività già esercitata da decenni al soldo dei diversi Stati europei, e successivamente tramite gli asientos finanziari.

Attraverso questi prestiti di capitali, durante il regno di Carlo V, l’Azienda Genova raggiunse livelli considerevoli di influenza, arrivando a monopolizzare gli scambi di tutta la Monarchia spagnola. Con il regno di Filippo II, l’attività creditizia si dilatò al tal punto da costringere in diverse fasi il governo spagnolo a dichiararsi insolvente (1557, 1575, 1596), trend negativo questo confermato successivamente anche dai sovrani Filippo III e Filippo IV nel 1607, 1627, 1647 e 1652.

Altra data di fondamentale importanza per la storia degli Imperiale è il 1528, anno in cui la famiglia formò uno degli Alberghi.

Quest’ultimi, furono a Genova, già a partire del 1265, l’espressione dell’aristocrazia locale, in quanto in essi si potevano associare solo quanti avessero accesso alla dignità consolare e alle cariche pubbliche. L’Albergo fu un “alleanza basata sul comune controllo di proprietà immobiliari contigue e sul concentramento di funzioni sociopolitiche, esercitate attraverso gli organi di pubblico governo”.

Per stringere questa alleanza erano fondamentali i rapporti di parentela e, anche se non mancano esempi di affiliazione per i nuovi venuti, una volta entrati nell’Albergo, i partecipanti accettavano di assumere il cognome dei membri di questo, ricevendone in cambio la possibilità di accedere a tutti i vantaggi e i privilegi che l’istituzione comportava.

Fisicamente, all’interno del caotico reticolato urbano del centro storico di Genova, l’Albergo degli Imperiale creò la sua consorteria nei pressi di piazza di Soziglia, estendendo la propria “sfera d’Influenza” sulla centralissima area di Campetto, dove dal Cinquecento, vennero innalzati alcuni importanti palazzi monumentali.

La popolazione della Terra d’Otranto nel 1803 e nell’ultimo rilevamento ISTAT

di Armando Polito

Il lettore si chiederà perché proprio il 1803 è il protagonista iniziale della storia. È presto detto: perché è la data a cui risale l’Atlante sallentino o sia la provincia di Otranto divisa nelle sue diocesi ecclesiastiche di Giuseppe Pacelli, manoscritto autografo del quale ho già avuto occasione di occuparmi a più riprese1.

Questa volta sfrutterò proprio la suddivisione in diocesi annunziata nel suo titolo per fare la comparazione annunziata nel mio. Così volta per volta saranno presi in considerazione i dati relativi alle diocesi (del 1803) di Taranto, Mottola e Castellaneta, Oria, Brindisi, Ostuni, Otranto, Lecce, Nardò, Gallipoli, Castro, Ugento e Alessano. Ho conservato la forma con cui i toponimi compaiono nell’atlante, riservando alle note le eventuali variazioni.

DIOCESI DI TARANTO

PACELLI ISTAT (all’1/1/2019) VARIAZIONE N. DI VOLTE
TARANTO+TALZANO* 17253 196702 (incluso Talsano, oggi quartiere di Taranto) 11
MARTINA** 13295 48510 3,6
MONTEMESOLA   1367 3763 2,75
GROTTAGLIE   4493 31856 7
MONTEIASI   1367 5547 4
CAROSINO   1331 6924 5,2
SANGIORGIO***   1611 14989 9,3
MONTEPARANO     704 2367 3,36
SAN MARTINO       25 oggi frazione di Roccaforzata
ROCCAFORZATA     696 1808 2,59
FAGGIANO     959 3476 3,62
SAN CRISPIERE        98 oggi frazione di Faggiano 8,9
LUPRANO****      908 8143 8,9%
PULSANO    1134 11429 10
LIZZANO     1101 9867 8,9
MONACIZZO       219 oggi frazione di Torricella
TORRICELLA       374 4183 11,18
FRACAGNANO*****    1012 5173 5,11
SAN MARZANO******       893 9143 10,23

* Oggi Talsano

** Oggi Martina Franca

*** Oggi San Giorgio Ionico

**** Oggi Leporano

Il totale degli abitanti nel 1803 ammontava a 49052, all’1/1/2019 a 363880. Variazione numero di volte: 7,41

 

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DIOCESI DI MOTTOLA E CASTELLANETA

PACELLI ISTAT (all’1/1/2019) VARIAZIONE N. DI VOLTE
CASTELANETA* 4460 16908 3,79
MOTOLA** 2000 15843 7,9
MASSAFRA 9000 32772 3,6
PALAGGIANO*** 2000 16038 8
PALAGGIANELLO****   600 7812 13

* Oggi Castellaneta

** Oggi Mottola

*** Oggi Palagiano

**** Oggi Palagianello

Il totale degli abitanti nel 1803 ammontava a 18060, all’1/1/2019 a 89373. Variazione numero di volte: 4,9

­

(continua)

_________________

1

Le torri costiere del Salento nelle mappe di Giuseppe Pacelli

L’Albania salentina nell’atlante del Pacelli (1803) posseduto a suo tempo da Giuseppe Gigli e il giallo di una nota

La Grecìa salentina nell’atlante del Pacelli (1803)

I laghi Alimini nell’atlante del Pacelli (1803)

 

L’Immacolata Concezione della chiesa Matrice di San Donaci

L’Immacolata Concezione della chiesa Matrice di San Donaci, copia dell’omonima tela di Leonardo Antonio Olivieri conservata nella Cattedrale di Nardò

 

di Domenico Ble

A San Donaci, all’interno della nella chiesa Matrice, edificio moderno in quanto edificato nel 1899 (la data è riportata nel cartiglio posto in cima all’arco terminale della navata centrale) è conservata una tela del XVIII secolo, di autore ignoto, raffigurante l’Immacolata Concezione. L’opera non è collocata su nessun altare, ma sulla parete della controfacciata.

San Donaci, tela dell’Immacolata Concezione (sec. XVIII)

 

Al centro della tela è posizionata la Vergine Immacolata, raffigurata in piedi al di sopra di una mezzaluna rovesciata, sovrapposta ad una nube; ha il capo chino e accetta la volontà divina e con il piede destro calpesta il serpente simbolo del maligno.

Il movimento della figura della donna è evidenziato dal manto che è svolazzante alle sue spalle e dalla posa leggermente arcuata verso sinistra. Quest’ultimo particolare ricorda il modello dell’Immacolata giordanesca, conservata a Latiano nella chiesa dell’Immacolata, già analizzata in un precedente saggio e da me attribuita ad un pittore di formazione “giordanesca”[1].

Degli angeli attorniano la Vergine: quello in alto a sinistra tiene in mano la rosa bianca, un rimando alle litanie lauretane, in cui è scritto: “rosa mistica”; l’angelo in basso a destra regge il giglio, simbolo di purezza, assieme allo specchio, anche quest’ultimo simbolo mariano presente litanie lauretane: “Vergine fedele specchio della santità divina”. In alto, secondo piano a destra, un altro angelo regge il manto. Delle teste angeliche, raffigurate a coppie di due, sono collocate in alto, all’estremità di destra e sinistra.

In secondo piano al centro, conclude lo sfondo dorato, simbolo della dimensione celestiale ultraterrena.

In basso all’estremità di destra, sono presenti due iscrizioni realizzate in epoche differenti. La prima è in latino, mancante di alcuni pezzi, e c’è scritto:

ALTARE HOC IN HONORE BEATAE MARIAE VIRGINIS SINE LABE CONCEPTAE DICATUM. A RD° ABBATE D. NICOLAO FONTEF […] CANONICO PAENITENTIARIO CATHEDRALIS ECCLESIAE […] NERITONENSI […] ANO REPARATAE SALUTIS 17[…]” (altare dedicato alla Beata Vergine concepita senza peccato. Reverendo Abbate Don Nicolao Fontef […] canonico penitenziere della cattedrale neretina […] anno di redenzione 17 […]). Il frammento dell’anno, da quel poco che si riesce a leggere, potrebbe essere il 1775, anno in cui fu celebrato il Giubileo della Chiesa Cattolica.

L’altra invece risale 1882 e riporta: “PIO DE SANTIS / Restaurò in Agosto 1882 / SOTTO IL SINDACO SIG. / FERDINANDO MARASCO BENEMERITI / CONSIG = Sig. VINCENZO VALLETTA E POMPILIO RIZZO”.

Nella prima iscrizione è menzionato il committente, vale a dire il canonico penitenziere della Cattedrale di Nardò don Nicolao Fonte. Nella stessa viene riportato anche l’altare su cui era posta la tela, ovvero quello dedicato all’Immacolata Concezione.

Riguardo al committente potrebbe trattarsi dell’abate don Nicola Fonte, rettore della chiesa di San Pietro Malearti nel centro storico di Nardò[2] e possessore del beneficio posto sull’altare su cui era collocata l’opera. Nella seconda iscrizione invece si parla del primo restauro, avvenuto ad opera di Pio De Santis nel 1882, per il volere del sindaco Ferdinando Marasco e dei consiglieri Vincenzo Valletta e Pompilio Rizzo.

Per la realizzazione dell’opera, l’autore ha osservato l’Immacolata Concezione di Leonardo Antonio Olivieri (Fig. 6), realizzata nel 1725 circa, conservata nella Cattedrale di Nardò[3]. La tela dell’Olivieri ha una impostazione differente, è maggiormente curata dal punto di vista scenografico, difatti nell’insieme è più complessa.

Nardò, Cattedrale, Leonardo Antonio Olivieri, Immacolata-Concezione (sec. XVIII)

 

Nell’opera non è solo raffigurata la Vergine Immacolata, ma anche i santi, che sono collocati a semicerchio in basso da sinistra a destra. In più, in secondo piano a destra è visibile una colonna posta al di sopra di un alto basamento.

Nella tela si riscontra maggiore lucentezza dal punto di vista cromatico e il vibrante gioco di luci ed ombre è più marcato e sicuro; particolare che sottolinea la diretta formazione solimenesca.

La tela di San Donaci invece manca del particolare architettonico posto in secondo piano; è più opaca nelle tinte e non raggiunge l’elevata lucentezza presente nell’opera dell’Olivieri. Inoltre, le ombreggiature definiscono i particolari del viso e degli indumenti, mettendo in rilievo la sensazione di spigolosità presenti nella figura. Altre similitudini fra le due Vergini sono la robustezza della donna, la posa, il movimento del corpo, il gesto di ricongiungimento delle mani, il manto che svolazza in diagonale a destra alle spalle della Vergine, le spire del serpente e l’angelo con lo specchio.

particolare della tela di San Donaci

 

altro particolare della tela di San Donaci

 

L’interesse dell’opera non è racchiuso solo nell’essere una copia dell’Olivieri, ma conferma l’importanza di un fenomeno molto diffuso nelle province dell’allora Regno di Napoli e cioè quello della circolazione dei modelli dei grandi pittori napoletani. L’autore dunque potrebbe essere un pittore salentino, aggiornato sulle novità del suo tempo, attivo nella seconda metà del Settecento in area salentina.

 

Note

[1] D. BLE, L’Immacolata Concezione giordanescaconservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano in Il Delfino e la Mezzaluna, periodico della Fondazione Terra d’Otranto – Gennaio 2018, anno V°, nn° 6-7, pp. 263-267.

[2] E. MAZZARELLA, Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Congedo Editore, Galatina 1999, p. 107.

[3] M. PASCULLI FERRARA, Leonardo Antonio Olivieri a Napoli attraverso le fonti e i documenti. Un mecenatismo illustre: i Caracciolo di Martina Franca in Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia, Vol. II 1982-1983, Schena Editore, Fasano 1984, p. 165; M. A. PAVONE, Pittori napoletani della prima metà del Settecento. Dal documento all’opera, Liguori Editori, Napoli 2008, p. 166.

 

Il seguente articolo è stato pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 17 novembre 2019

Facebook e i misteriosi “stompi” di Maria d’Enghien

di Armando Polito

E poi qualcuno, magari per atteggiarsi, dice peste e corna di Facebook e simili, ma per pubblicizzare la sua opinione è costretto ad usarlo. Come non tutto il male vien per nuocere, non è detto che questo social, come altri, al pari di qualsiasi altro strumento, non possa servire a qualcosa di utile. Esempio recente: qualche giorno fa (per la storia … il 26/1/2020) Marcello Gaballo, come abitualmente ha cominciato a fare da qualche tempo, sulla sua bacheca ha riproposto un post già apparso, a mia firma, su questo blog il 24/6/2013 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/?fbclid=IwAR2lPDvrfXq_ko8JjT1ByJ4dR63CgAY_dwkJsnm6tbDLzNZCLS1Ek0d11Ys).

Confesso che, nonostante l’arteriosclerosi non mi abbia intaccato vistosamente, almeno credo …, la capacità mnemonica, mai riesco a resistere alla tentazione di rileggermi, alla ricerca di qualche strafalcione o con lo scopo di apportare qualche integrazione. Così è successo anche questa volta e, se il risultato di questo nuovo intervento lascerà deluso il lettore, siccome sono testardo, oltre che presuntuoso …, nessuno pensi che rinuncerò a priori qualora si dovesse presentare occasione più o meno simile.

Lì avevo manifestato la mia impotenza di fronte alla voce stompi che si legge negli statuti emessi per Lecce da Maria d’Enghien il 4 luglio 1445 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/20/riflessioni-su-alcuni-bandi-leccesi-del-xv-secolo/).

Riporto il passo contenente la voce: … che nulla persona christiano, oy iudeo, citadino oy forestieri habitante in la dicta cita non ausa ne degia vendere arbori de arangi, citri, oi stompi a forestieri: li quali volessero quelli portare fore de lo territorio de leze.

Nel commentare il mio stesso post scrivevo due giorni dopo: Nell’edizione della Pastore (Congedo, Galatina, 1979) a pag. 29 leggo: “Vieta la vendita di alberi di aranci, cetri o stompi (grossi limoni) a forestieri che intendano esportarli”. La definizione “(grossi limoni)” è evidentemente presa tal quale (non sarebbe stato meglio ricordarne l’autore con una noterella? …) dalla nota 49 del commento agli statuti che Ermanno Aar (pseudonimo di Luigi De Simone) pubblicò in Archivio storico italiano, tomo XII, anno 1883, che di seguito riporto: “Stompi stempi sono una specie di grossi limoni”. Questo conferma il mio sospetto che si trattasse di un agrume, ma l’etimo (anche di “stempi”, variante o italianizzazione che sia di “stompi”) rimane al momento un mistero.

Non pretendo di aver risolto il mistero ora, ma, rileggendo la definizione del De Simone, ho pensato che stompi potrebbe essere italianizzazione di stuempi, plurale del leccese stuempu (stompu in altre zone) che significa mortaio.

Su stuempu e stumpare non mi dilungo e rimando a https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/28/stumpisciare-calpestare/ e chiudo dicendo che quello che sicuramente è un agrume potrebbe aver tratto il nome dialettale non tanto dal mortaio (che è, in un certo senso, il pestato) quanto dal pestello (il pestatore), in dialetto stumpaturu, in uno scambio metonimico tutt’altro che infrequente anche nel dialetto. E se in cetri o stompi quell’o non è disgiuntivo ma vale per ossia, l’ipotesi non appare poi tanto peregrina, pensando alla forma di certi cedri, come quello della foto di testa. E il fatto che l’albero e il frutto abbiano lo stesso genere non è certo una novità per il nostro dialetto.

A questo punto a chi mi chiede se era proprio infame destino che trascorressero più di sei anni per giungere a tale risultato, ribatto che, ad ogni buon conto, è meglio tardi che mai e, se la mia riflessione è apparsa assolutamente improponibile, allora sì ha ragione quel qualcuno che dice peste e corna di Facebook … e poi lo usa. A questo punto, lo spazio riservato ai commenti è pure qui disponibile …

Note su alcuni sigilli di Ugo, conte di Brienne e di Lecce

di Marcello Semeraro (Società di Storia Patria per la Puglia – sez. di Brindisi)

 

Curiosando, per delle ricerche in corso, negli archivi francesi, mi sono imbattuto in un magnifico sigillo appartenuto a Ugo (+1296), conte di Brienne (dal 1261) e di Lecce (dal 1271), figlio cadetto di Gualtieri IV, conte di Brienne e di Giaffa, e di Maria di Lusignano[1], sigillo che ha dato il la a questa ricerca (fig. 1).

Fig. 1 – Sigillo e controsigillo di Ugo di Brienne, pendenti da un atto del 1269/70. Troyes, Archives départementales de l’Aube, Inventaire sigillographique du chartrier de l’abbaye de Larrivour, 4 H 34-13

 

Fra i più importanti vassalli dei conti di Champagne, i Brienne, in linea con gli usi riscontrabili presso l’alta aristocrazia europea, si servirono di sigilli già a partire dalla metà del XII secolo, imitando in ciò le abitudini dei loro sovrani[2]. Quello di Ugo, conservato presso l’Archivio Dipartimentale dell’Aube[3], è un sigillo rotondo di cera verde brunita, di 70 mm di diametro, appeso mediante cordicelle di seta rossa a un atto del 1269/70. Di tipo equestre da guerra, esso mostra un cavaliere in alta tenuta araldica che monta un cavallo galoppante a destra, le zampe del quale, al pari della spada del guerriero, oltrepassano l’esergo. Il nostro Ugo indossa un usbergo e una cotta d’armi, ha la testa nascosta da un elmo chiuso a cielo piatto, e porta nella mano destra una spada e nella sinistra uno scudo recante l’arma dei conti di Brienne (che è d’azzurro, seminato di plinti d’oro, al leone attraversante dello stesso; fig. 2), replicata anche sulla gualdrappa del cavallo.

Fig. 2 – Lecce, chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo, stemma dei conti di Brienne nella variante con leone rivolto

 

Sotto il ventre del destriero si intravede un giglio, figura probabilmente allusiva alla parentela del conte con gli Angioini e, dunque, con la dinastia capetingia[4]. La legenda dice: + SIGILLVM HVGONIS COMITIS DE BRENA. Il controsigillo, di 28 mm di diametro, è di tipo araldico e mostra la stessa insegna entro uno scudo gotico. La legenda recita: + SECRETVM COMITIS BRENE. Di Ugo conosciamo anche un altro sigillo, non datato in quanto staccato dal documento originario, appartenente allo stesso tipo equestre, ma di dimensioni maggiori (75 mm di diametro)[5]. In esso il cavaliere innalza un dragone come cimiero; la stesso figura, secondo una pratica documentata a partire dalla fine del XIII secolo[6], è posta sulla testa del cavallo.

Lo scudo e la gualdrappa sono armeggiati con i plinti e il leone di Brienne. La legenda, purtroppo, è andata distrutta, ma quella presente sul controsigillo di tipo araldico, nel cui campo figura uno scudo di Brienne entro una cornice esalobata, è ancora leggibile, seppur parzialmente: …BRENNE(NSIS) LICIE(NSIS) COMITIS. Da ciò risulta evidente che si tratta di impronte ottenute da matrici incise dopo l’infeudazione della contea leccese (1271).

Ad ogni modo, è la prima volta, come ha giustamente osservato Marie-Adélaïde Nielen, che un conte di Brienne fa uso nel suo sigillo dei suoi differenti titoli. Ai Brienne, è bene ricordarlo, la contea leccese era giunta a seguito del matrimonio (celebrato, per alcuni, nel 1200) fra Gualtieri III e Albiria, figlia di Tancredi d’Altavilla[7]. I sigilli esaminati in questa sede mostrano dunque un personaggio fiero del suo lignaggio, dei suoi titoli e della sua identità cavalleresca. Nella speranza di ulteriori sorprese, magari ritracciabili in qualche archivio italiano, mi è sembrato utile proporli all’attenzione degli studiosi e dei curiosi.

[1] Nel 1277 Ugo di Brienne sposò Isabella de La Roche, sorella del duca di Atene Giovanni I de La Roche e vedova di Goffredo di Bruyères, barone di Caritena, che apportò al marito la metà di questa baronia in Morea. Da Isabella ebbe due figli: Gualtieri V, l’erede, e Agnese. In seconde nozze, nel 1291, impalmò Elena Angelo Comneno, figlia di Giovanni I di Tessaglia e vedova del duca di Atene Guglielmo de La Roche (cognato dello stesso Ugo), dalla quale ebbe Jeannette. Fu anche reggente del ducato di Atene nel periodo della minore età del nipote Guido II de la Roche. Inoltre, nel 1296 fu nominato capitano generale della Terra di Otranto, con in compito specifico di difendere Brindisi e il suo porto. Cfr. W. Ingeborg, Brienne, Ugo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 14, Roma 1972, ad v.; A. Cassiano, B. Vetere (a cura di), Dal giglio all’orso: i principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, Galatina 2006, p. XI; V.M. Talò, La Santa Casa di Nazareth da Taranto-Brindisi a Loreto, Montalto Uffugo Scalo 2019, p. 27.

[2] Per approfondimenti sulla sfragistica e l’araldica dei conti di Brienne, rimando a M.-A Nielen, Du comté de Champagne aux royaumes d’Orient: sceaux et armoiries des comtes de Brienne, in Chemins d’outre-mer. Études d’histoire sur la Méditerranée médiévale offertes à Michel Balard, éd. par D. Coulon, C. Otten-Froux et al., Paris 2004, pp. 589-606.

[3] Troyes, Archives départementales de l’Aube, Inventaire sigillographique du chartrier de l’abbaye de Larrivour, 4 H 34-13.

[4] Come di ricava dal fatto che Carlo I d’Angiò soleva qualificarlo come «consanguineus» (cfr. Ingeborg, Brienne, Ugo cit.). Questa caratteristica di inserire un elemento figurativo sotto il ventre del cavallo era già stata adottata da Erardo di Brienne, signore di Ramerupt (+1246). Si imitava, con ciò, una moda introdotta dal conte Tebaldo IV di Champagne (si veda Nielen, Du comté de Champagne cit., p. 596).

[5] Ivi, p. 601.

[6] Cfr., in merito, L. Hablot, Manuel d’héraldique emblématique médiévale, Tours 2019, p. 195.

[7] B. Vetere, Dal giglio all’orso attraverso il leone dei Brienne e la stella dei del Balzo, in Dal giglio all’orso cit., p. IX.

 

Dialetti salentini: “rinacciare”

di ArmandoPolito

carboncino di Henri Toulouse-Lautrec, 1882

 

Fin dal 1957 Vance Packard in The hidden persuaders aveva individuato i nefasti effetti della pubblicità connessa con una politica industriale basata sulla creazione di bisogni, certamente non primari e neppure secondari e che sfruttava tecniche cinicamente mutuate dalla psichiatria e dalla psicologia del profondo.  Da allora acqua, sempre più inquinata …,  ne è passata, e continua a passarne,  sotto i ponti, e da formule pubblicitarie che oggi fanno tenerezza si è passati alle attuali, alcune delle quali mi fanno dubitare della salute mentale dei geni che le hanno partorite, nonostante, in un sussulto di modestia, ogni tanto mi chieda se non dipenda da mia deficienza la loro da me presunta demenzialità.

Nel frattempo, mentre il pianeta appare già in uno stato comatoso irreversibile, e l’obsolescenza programmata è diventata lo strumento fondamentale per alimentare il consumismo ed il connesso profitto di pochi, i grandi della terra nelle loro, immagino costosissime, cene di lavoro riescono solo a rilasciare dichiarazioni tanto roboanti nei toni quanto banali e scontate nella sostanza e bene che vada sono capaci solo di mettersi d’accordo, con un formale impegno, privo di qualsiasi concretezza, a ridurre le emissioni nocive entro un ventennio, salvo revisione, naturalmente al rialzo …

Qualcuno si starà chiedendo che rapporto possa mai esserci tra questa sparata iniziale ed il verbo del titolo. Lo scoprirà leggendo e, soprattutto, riflettendo su quale futuro attende i suoi discendenti col presente che stiamo vivendo e sul quale per quelli della mia generazione aleggia ancora il ricordo del passato, non condizionato più del dovuto dalla scontata laudatio temporis acti (lode del tempo trascorso).

Rinacciare corrisponde all’italiano rammendare e, per quanto s’è detto all’inizio, le due voci continueranno ad essere usate esclusivamente in senso metaforico, magari soltanto a livello letterario: a rinacciare un calzino, per esempio non sarà più (veramente non lo è più da decenni) una nonna, una madre o una sorella, ma un medico a farlo maldestramente con una ferita o una coppia con la sua unione bisognosa di una ricucitura.

Rinacciare è una di quelle voci dialettali formate da componenti che, separatamente, sono presenti nella lingua comune. Nel nostro caso esse sono: ri– (prefisso indicante ripetizione); in (preposizione); accia (sostantivo, sinonimo di gugliata, che è il pezzo di filo che si infila nella cuna dell’ago per cucire). La voce dialettale ha unito i tre componenti con eliminazione, per intuitivi motivi eufonici,  della i del prefisso ripetitivo, dando al totale (con l’-are finale) la marca di verbo.

Se ri– deriva dal prefisso latino re– con le stesse funzioni di ripetizione dell’azione, se in è anch’essa dalla stessa preposizione latina, da dove deriva accia?

È anch’essa dal latino acia(m), voce presente in quello classico e che continua, tal quale (poi dalla fine del XIII secolo ci sarà la geminazione della c), nel latino tardo, come mostra la scheda che riproduco, traducendola con l’aggiunta di qualche nota, dal lessico del Du Cange.

ACIA, in Glossario latino-greco è definita ῥάμμα1, che è lo stesso che sutura; e usa acia Petronio2 in un suo passo3: Mi espose tutto per filo ed ago4, cioè in francese: M’ha raccontato tutto, dal filo all’ago. Voce di antica origine, che designa propriamente il filo usato per cucire. La usò con questo significato il poeta comico Titinnio secondo quanto si legge in Nonio Marcello5; la medesima anche Celso6 libro 5 capitolo 267. Su quest’argomento parecchio si trova in Turnèbe8 libro XVII capitolo 21 di Adversaria. Per gli italiani accia è il lino o la stoppa. Questa voce ricorre negli Statuti milanesi, seconda parte, capitolo 308.

Riporto di seguito la scheda del Turnébe, anche perché il Du Cange sarebbe stato più corretto se l’avesse copiata così com’è per intero o avesse dichiarato che non “parecchio” ma “tutto” vi si trovava.

(per facilitare la lettura della traduzione ho scelto per questa il carattere corsivo ed ho racchiuso volta per volta il commento in parentesi quadre)

Come l’ago, parimenti l’accia era tra gli strumenti del ricamatore in oro ed era il filo del piccolo ago

[acicula dell’originale è diminutivo di acus; il dialetto salentino ha il suo esatto corrispondente in acuceddha, usata in passato soprattutto per infilzare le foglie di tabacco o per rammendare i sacchi]

d ha il nome da acies:

[acies=punta; fa parte di una vasta famiglia connessa con una radice ac– indicante cosa appuntita, di cui fanno parte in italiano acciaio, acacia, acuto, acre, acido, aceto, aguglia, guglia …,  tutti derivati da altrettanti termini latini; per il greco basti citare l’aggettivo ἄκρος (leggi acros)=estremo,  primo elemento di composti come acrobata, acropoli, acrostico …; per il dialetto salentino oltre alla citata acuceddha (anche nella forma cuceddha per errata deglutinazone della a– (l’acuceddha>la cuceddha>cuceddha) favorita forse dall’influsso di cucire) àcura corrispondente all’italiano aguglia (il pesce)]

Titinio: Mi ebbe come schiavo per primo un frigio; appresi questo lavoro./Ho lasciato gli aghi e i fili al padrone e alla mia padrona. Celso libro 5 capitolo 26: entrambe sono ottime di filo molle non troppo ritorto, perché più delicatamente penetri nel corpo. In un antico lessico latino-greco acia è tradotta in ῥάμμα  [vedi nota 1], anzi acia e aciela in esso sono spiegati come ἀκαλύφη [errore di stampa per ἀκαλήφη=asprezza].     

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1 Leggi ramma.  Con essa non ha nulla a che vedere rammendare, che è da ri+ammendare (quest’ultimo da ad+menda)

2Petronio Arbitro (I secolo d. C.)

3 Satyricon, XVII.

4 Corrisponde al nostro per filo e per segno, in cui, però il filo è quello usato un tempo dagli imbianchini per delimitare con precisione la superficie da trattare. Intinto nella vernice, veniva rilasciato di colpo a lasciarvi la linea di demarcazione.

5 Grammatico romano del III-IV secolo, autore del De compendiosa doctrina per litteras ad filium, dove il frammento citato dal Du Cange è al lemma Phrygiones: Reliqui acus aciasque ero atque erae nostrae (Ho lasciato i fili e gli aghi al padrone ed alla nostra padrona)

6 Aulo Cornelio Celso (I secolo a. C-I secolo d. C.).

7 De medicina, V, 26: Utraque optima est ex acia molli … (Entrambe [le suture] sono ottime di filo molle …

8 Adrien Turnèbe o Tournebeuf (nome  latino Adrianus Turnebus), filologo del XVI secolo, autore di Adversaria.

Gli Arcadi di Terra d’Otranto: Gregorio Messere di Torre S. Susanna (20/20)*

di Armando Polito

* Questo post corregge ed integra quanto apparso in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/25/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-708-di-torre-s-susanna-23/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/26/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-33/

La prima biografia del nostro (1636-1708), originario di Torre S. Susanna1, è la Vita di Gregorio Messere Salentino detto Argeo Caraconasio scritta dal D. Gaetano Lombardo Napolitano detto Emio Caraconasio, in  Le vite degli Arcadi illustri scritte da diversi autori, v. II, De Rossi, Roma, 1710, pp. 47-59, col testo preceduto dal ritratto che riproduco di seguito.  Va rilevato, anzitutto, che al Caraconasio del titolo, replicato a p. 58 dove sono riportate due dichiarazioni di voto favorevole alla pubblicazione della biografia, a firma la prima di Milesio Meneladio (nome pastorale di Giusto Fontanini di Cividale del Friuli e di Faunio Stomiate (nome pastorale di Biagio Garofalo di Napoli), la seconda di Arato Alalcomenio (nome pastorale di Domenico De Angelis di Lecce), si oppongono il Choraconasio della didascalia del ritratto e il Coraconasio presente in una delle pagine iniziali, non numerate, dell’indice.

C(OETUS) U(NIVERSI) C(ONSULTO)

ARGEO CHORAGONASIO PASTORI ARCADI

D(E)F(UNCTO) PHILOLOGO EMIUS CHORAGONASIUS

PASTOR ARCAS PRAECEPTORI ET

DECESSORI B(ENE) M(ERITO) P(OSUIT)

OLYMPIAD(E) DCXXI AN(NO) III AB A(RCADIA) I(NSTAURATA)

OLYMPIAD(E)  V AN(NO) II

(Per decisione dell’intera assemblea/ad Argeo Coragonasio pastore arcade filologo defunto Emio Coragonasio, pastore arcade, al maestro e predecessore benemerito pose. Olimpiade 621a del terzo anno dall’istituzione dell’Arcadia/Olimpiade quinta anno secondo2)

Ai due angoli inferiori il nome degli autori: P(etrus) L(eo) Ghezzius del(ineavit)=Pietro Leone Ghezzi disegnò e D(ominicus) Franceschini sculpsit=Domenico Franceschini incise. Il Franceschini, tra i più famosi incisori Romani del XVIII secolo, fu autore, fra gli altri, del frontespizio di Collectanea antiquitatum Romanarum quas centum tabulis aeneis incisas et a Rodulphino VenutiAcademico Etrusco Cortonensi notis illustratas exhibet Antonius Borioni, Bernabo, Roma, 1736. La sua arte immortalò anche in una incisione donata a Vincenzo Giustiani  l’uccisione di un capodoglio avvenuta nei pressi del porto di Pesaro  il 18 aprile 1713, secondo la notizia che si legge in una lettera indirizzata da Vito Procaccini Ricci a Ottaviano Targioni Tozzetti e pubblicata in Giornale di fisica, Chimica, Storia naturale, Medicina ed arti, decade II tomo VIII, Fusi, Pavia, 1825, p. 46. Pier Leone Ghezzi è famoso per gli affreschi di Villa Falconieri a Frascati e per le caricature. Le sue opere raggiunsero quotazioni elevate mentr’era ancora in vita. Non era digiuno di poesia se nel 1702 sul retro del suo primo autoritratto (1702) vergò questi versi: Pier Leone son io/di casa Ghezzi che dì 28 giugno/quando al mille e seicento/anni settanta quattro ancor/s’aggiunse io nacqui e si congiunse/a questi l’età mia di vent’ott’anni/ch’ora nel mille settecentoedue/mi mostra il tempo, e le misure sue./Or mentre questo fugge e mai s’arresta/io mi rido di lui e mi riscatto/col dar perpetua vita al mio ritratto.   

In Vittorio Giovardi3, Notizia del nuovo teatro degli Arcadi aperto in Roma l’anno MDCCXXVI, Antonio De Rossi, Roma, 1727, p. 21-22: Voltando la fronte verso il Portone si comincia a godere della veduta di Roma, e insensibilmente salendovi si rimirano a destra, e a sinistra ripartiti in quattro quadrati i folti Lauri, che dividendosi, formano di quà4 , e di là due brevi, ma spaziosi viali, al fine dei quali con vaga, e propria simmetria vengono collocate le Lapidi di Memoria de’ nostri defunti Pastori, che in numero fin’ora di quarantadue sono state dalla nostra Adunanza inalzate, e sono le seguenti …

Questa trascrizione appare decisamente sciatta, tanto più che si presume frutto di un esame autoptico. Sorprende non tanto CHORAGONASIO/CHORAGONASIUS quanto PHILOGO, errore di cui ci si dovette accorgere troppo tardi, visto che si rimediò dopo qualche decennio,  essendo custode dell’accademia Michele Giuseppe Morei, in Memorie istoriche dell’adunanza degli Arcadi, De Rossi, Roma, 1761, p. 133, dove, però, permangono CHORAGONASIO/CHORAGONASIUS. 

Apprendiamo, così, che il dedicatore della tavola fu Emio Coragonasio, nome pastorale di Gaetano Lombardo di Napoli, cioè l’autore di questa prima biografia, che nella seconda parte del nome pastorale assunse quella del suo maestro, il che appare confermato dal fatto che in L’Arcadia del can. Gio. Mario Crescimbeni, Antonio De’ Rossi, Roma, 1708, p. 116 compare solo la prima parte (Emio)5. Chi pensa che su Coragonasio il discrso finisce qui, si sbaglia di grosso.

In Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, s. n., Firenze, 1710, v. I, a p. 167 leggo: nostro saggio, e dotto Emio Caraconasio.

In Acta Eruditorum anno MDCCXIII, Muller, Lipsia, 1713, a p. 502 si legge Argeus Carconasius.

In Dell”istoria della volgar poesia  scritta da Giovan Mario Crescimbeni, Basegio, Venezia, 1730, v. V, a p. 316 si legge Argeo Caraconasio e a p. 365 Argeo Coraconasio.

In Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1817, s. p., in cui è inserita la seconda biografia di cui ci occuperemo fra poco, si legge: Argeo Caraconessio e il bello è che dopo qualche parola si fa riferimento preciso (con citazione della p. 47) alla prima biografia con cui ho iniziato.

E poteva mancare, a questo punto, l’Argeo Caroconasio che si legge in Versi d’occasione e scritti di scuola/ Giambattista Vico ; con appendice e bibliografia generale delle opere a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari, 1941, p. 42?.

In conclusione: mi pare che la forma corretta tra tante, esclusa l’ultima, pressoché contemporanee, debba individuarsi in Coragonasio, non solo per il carattere “ufficiale” del ritratto ma anche perché esso fu il secondo nome pastorale (il primo è Astildo), oltre che, come s’è detto, del Lombardo, anche di Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci di Pisa.

Definito questo dettaglio (ma le altre varianti sono solo per il momento accantonate) , prima di accennare alla seconda biografia, cercherò di dare ragione del nome pastorale nelle sue due componenti.

Argeo è piuttosto ambiguo (e tale ambiguità, forse, anche in questo caso fu assunta ad arte) perché può derivare direttamente dal latino Argeus=argivo (Argo era considerata dai Greci come la loro città più antica), ma Argo era anche il nome del mostro della mitologia greca, fornito di molti occhi (e in senso  figurato può valere come persona alla quale nulla sfugge). Come non pensare, però, pure al greco ἀργός (leggi argòs), che significa splendente, luminoso e al suo omofono che significa pigro? Tutto ciò, secondo me,  è perfettamente in linea col Gregorio ironico ed autoironico tramandatoci dalle biografie, col suo spirito direi socratico, consapevole dei suoi mezzi ma anche dei loro limiti. E questo, sempre secondo me, spiega abbondantemente il fatto che di lui non ci sia rimasta nessuna opera autonoma, ma solo componimenti in versi, inseriti, come vedremo, in raccolte curate da altri6.

Coragonasio (parto dalla variante che ho appena ritenuto la più attendibile) appare come forma aggettivale di Coragonaso. La seconda parte dei nomi pastorali  spesso è legata ad un toponimo (detto campagna, quasi ideale ambiente personale del socio che, com’è noto, era chiamato pastore), ma poteva pure evocare un personaggio del mito o contenere altri riferimenti più o meno criptici. Coragonasio (parto dalla variante che ho appena ritenuto la più attendibile) appare come forma aggettivale di Coragonaso. La seconda parte dei nomi pastorali  spesso è legata ad un toponimo  (detto campagna, quasi ideale ambiente personale del socio che, com’è noto, era chiamato pastore), ma poteva pure evocare un personaggio del mito o contenere altri riferimenti più o meno criptici. Escluso il toponimo7, si può supporre che sia un nome composto (poteva esserlo pure l’eventuale toponimo); e qui il ventaglio delle voci, tenendo conto pure delle varianti, che potrebbero entrare in campo, è abbastanza ampio: χώρος (leggi choros) o  χώρα (leggi chora)=terra+ἀγών (leggi agòn)=lotta+ ἄζω (leggi azo)=rispettare; χορός (leggi choròs=coro)+le due altre componenti indicate per l’opzione precedente; per coraconasio: χώρος/χώρα+ἀκοναῖος (leggi aconàios)=pietroso oppure χορός+ἀκονάω (leggi aconao)=eccitare oppure κόραξ (leggi corax)=corvo+νήσιον (leggi nèsion)=isoletta; per Caraconasio il primo componente potrebbe essere κάρα (leggi cara)=testa. Lascio alla fantasia del lettore la possibile giustificazione semantica di ogni combinazione, convinto del fatto che solo l’interessato, qualora se ne fosse dato cura, avrebbe potuto lasciare un lumicino acceso a diradare, almeno in parte, le tenebre.

Di Andrea Mazzarella da Cerreto, invece, è la seconda biografia inserita nel tomo IV di Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, op. cit., preceduta dal ritratto, un’incisione, cosa ricorrente in questa raccolta, della scuola di Raffaello Morghen (1758-1833). Il nome pastorale che qui si legge è, come s’è detto, Argeo Caraconessio, per il quale, come se non bastasse quanto al riguardo s’è detto, potrebbe essere messo in campo come componente finale Νέσσος (leggi Nessos)=Nesso, il mitico centauro ucciso da Ercole.

S’è detto che del Messere non c’è neppure una pubblicazione esclusiva. Nella compilazione di quella che vuole essere ambiziosamente la documentazione testuale (per così dire dal vivo, con immagini in dettaglio tratte daile pubblicazioni originali)  di tutta la produzione del nostro con l’aggiunta di qualche mia nota di commento,  non trascurerò quanto da lui scritto prima del 1690 (data di fondazione dell’Arcadia), anche se la suddivisione adottata è, dal punto di vista artistico, piuttosto fittizia.

PRIMA DEL 1690

Sono tutti componimenti encomiastici, in distici elegiaci, di un’opera altrui, inseriti in questa, insieme con quelli di altri letterati, nelle pagine iniziali per lo più non numerate.

In Notizie di nobiltà. Lettere di Giuseppe Campanile8 Accademico Umorista et Ozioso indirizzate all’Illustrissimo et Eccellentissimo D. Bartolomeo di Capova Principe della Riccia, e Gran Conte di Altavilla etc.,  Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1672, s. p.:

(Del signor Gregorio Messere. Afflitto gemerà a causa delle lacrime di Partenope spuntate poiché la terra ha sepolto illustrissimi cavalieri. Frattanto passa a volo la fama e si sfiora le ali. Una piuma e solo una cade sul lido campano. Campanile è lì: prende la piuma caduta dal cielo, la prende e comincia a celebrare le gesta per gli uomini estinti. Lui comincia, gli eroi, abbandonate le tombe, cominciano a risorgere e ad essere elevati alle stelle mentre la morte manifesta il suo malcontento. Dico evviva Giuseppe! Ora lo grida l’illustre sirena; mentre tu fai tali doni, dico evviva. Evviva, ma vivrai in eterno: i tuoi scritti degni del cielo già ti hanno fatto meritare eterna vita)

In Giovanni Giacomo Lavagna, Poesie,  Conzatri, Venezia, 1675, parte I, p. 245:

(Quale musa t’insegnò la poesia, quale sirena la musica? Quale fiume ti offrì un’acqua tanto dolce? Tu agiti il plettro: l’onda della Sebetidea immobile tace; pizzichi le corde:  muovi le pietre e i cuori crudelib. O Lavagna, o sarai, lo dirò io, un poeta ismarioc o la lira ismaria a te è stata mandata dal cielo)

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a Patronimico, epiteto attribuito alla figlia del fiume Sebeto inteso come divinità.

b Così, secondo il mito, faceva Orfeo con la sua lira.

c Dell’Ismaro, monte della Tracia, dove, secondo le fonti più antiche, a Lebetra, era nato Orfeo.

In Tomaso di S. Agostino, Strada franca al cielo per il peccatore, Mollo, Napoli, 1677, s. p.:

(Se, dice il Poeta a, è facile la discesa dell’Averno ma tendere in alto questo è il compito, questa la fatica, con questo libro pra è facile la scalata dell’Olimpo né è una fatica andare verso il cielo)

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a Virgilio, Eneide, VI, 126-129: … facilis descensus Averno:/noctes atque dies patet atri ianua Ditis;/sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/hoc opus, hic labor est. Da notare che Averni è la lezione di alcuni manoscritti abbandonata per Averno dagli editori moderni.

In Stefano Tropeano Sessa, Il palagio della sapienza fondato sù le sette colonne dell’arti liberali, Porsile, Napoli, 1680, s. p.:

(Per il nobile furto stellare di Stefano Tropeano Sessaa. Ora è tempo di sollevare audaci sguardi al cielo, ora di apprendere i vari moti degli astri. Il Toro percorre l’ultima orbita mentre le stelle brillano  e il Capricorno è sommerso dalle acqueoccidentali. Arturo, Cefeo, Procione, Delfino, Orione, Auriga e Perseo, Pegaso, Andromeda e l’erculeo Leone ammirano il furto di suo nipote, furto degno della fatica di Prometeob. Piccolo uccello illustre nei segni di Archimede per il quale volle la sfera, mentre il cielo stupiva. Qui si affretti chi vuole essere un grande indovino: con questo libro da scorrere potrà conoscere cose acute)

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a Nel frontespizio del volume correttamente si dichiara che essa è una traduzione da Latino nell’Idioma Italiano dall’Opere manoscritte (sull’astrologia) del Dottissimo Sig. D. Fabrizio Sessa suo Zio, e maestro.

b Rubò il fuoco agli dei per donarlo rlo agli uomini. Zeus lo punì incatenandolo ad una rupe ai confini del mondo dove un’aquila gli rodeva di giorno il fegato ricresciuto durante la notte e poi facendolo sprofondare nel Tartaro, al centro della Terra. È uno dei simboli della lotta del progresso e della libertà contro il potere.

In Giovanni Canale, Amatunta, dedicata all’Illustrissimo Signore Antonio Magliabechi eruditissimo Bibliotecario del Serenissimo Cosimo Terzo Gran Duca di Toscana, Conzatti, Venezia, 1681, s. p.:

(Epigramma del tarantinoa Gregorio Messere. Come Arione canta tra i veloci delfini, come il Cigno canta presso le rive dell’Eridanob, così la zampogna del defunto Sinceroc cantò presso le onde, così prossima a Sincero canta la tua musa)

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a Segue l’opinione, errata, di Carlo Susanna, per cui vedi nota 1.

b Nome mitico e poetico del Po.

c È il nome del pastore personaggio principale dell’Arcadia di Iacopo  Sannazzaro (1457-1530), dietro il quale si nasconde lo stesso autore, il cui nome umanistico era Actius Sincerus.

 

DOPO IL 1690

In Componimenti recitati nell’Accademia a’ dì 4 di Novembre ragunata nel Real Palagio in Napoli per la ricuperata salute di Carlo II, Parrino. Napoli, 1697, pp. 170-172.

(Mio re austriacoa  insigne per devozione e valore militare, grazie al quale solo protettore la luna barbarab cadrà, giace con una gran debolezza negli anni giovanili. Onnipotente, avendo pietà, portagli aiuto! Ti muova il gemito del Libano, la flebile onda del Giordano, i pii voti di Sionc . Viva, e mi liberi dalle catene, cinte le tempie delle palme idumeed, importante si diriga alle stelle. Aveva detto Gerusalemme in lacrime. Tuona l’alto Olimpo, la malattia è scomparsa, viene l’amica salute)

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a Carlo II d’Asburgo (1661-1700) re di Spagna, dei territori spagnoli d’oltremare, nonché re di Napoli col nome di Carlo V. Fu di salute cagionevolissima.

b La mezzaluna, simbolo della potenza turca.

c Sineddoche per Gerusalemme, che è costruita sul monte Sion.

d Idumea era il nome di una contrada della Palestina.

(Smetti, o Vesuvio, di scuotere gli astri col terrificante gemitoa; placide acque del Sebeto, non addoloratevi; tu, Mergellina, dirigi sul monte le allegre danze: tu Antinianab, cingi le chiome di nitide rose! Toccate, o Sirene, toccate le corde dal dolce suono; o Amadriadic, giocate, o Nereidid, applaudite! O muse, aprite il Parnasoc e muovete i canti! O secolo felice! O giorno benigno! Vive la nostra salvezza,vive l’unica speranza del mondo: Carlo, gloria degli Austriaci, sta bene)

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a L’anno 1697 registrò un’intensa attività eruttiva del vulcano.

b Nome di una ninfa che Giovanni Pontano (1429-1503) s’inventò come trasfigurazione di Antignano, località sulla collina del Vomero, dove c’era la sua villa, in Ad Bacchum consecratio, quinto carme del secondo libro del De amore coniugali.

c Un particolare tipo di Driadi , cioè di Ninfe boscherecce, la cui vita dipendeva da quella delle querce. La voce è dal greco  ἁμαδρυάδες (leggi Amadriuàdes), composto da ἄμα (leggi ama)=insieme+δρῦς (leggi driùs)=quercia.

d Ninfe acquatiche, figlie di Nereo.

e Monte della Grecia. Nell’antichità sacro ad Apollo e a Dioniso e considerato sede delle Muse,divenne simbolo della poesia.

(Tespiadia Muse, figlie di Giove, date inizio al canto, battete il barbitob o la lira. Sul Pindo eseguite danze coi morbidi piedi. Si gioisca delle argentee acque di Castaliad. L’austriaco Carlo, che lo splendente Apollo ha amato, Carlo, luce dell’Oriente e dell’Occidente, si è liberato della mancanza di forze, sta bene. O giorno armonioso, o età felice, o beata notizia!)

a Perché  onorate a Tespie, città della Beozia.

b Specie di lira.

c Monte della Grecia sacro ad Apollo ed alle Muse.

d Mitica fanciulla di Delfi che per sfuggire ad Apollo si suicidò gettandosi in una sorgente presso il santuario di Delfi, che da lei ebbe nome. Coloro che si recavano a consultare l’oracolo dovevano compiervi un bagno di purificazione. Dai poeti romani le fu attribuita la virtù d’ispirare la poesia.

Lo stesso destino, quello di non comparire in una pubblicazione destinata solo a loro, toccò agli Emblemata, che risultano inseriti in Pompe funerali celebrate in Napoli per l’eccellentissima signora D. Caterina d’Aragona e Sandovale, duchessa di Segorbia, Cardona etc., con l’aggiunta di altri componimenti sul medesimo soggetto, Roselli, Napoli, 1697, pp. 57-68.  Lo stesso volume, sul quale ritornerò più avanti, ospita pure alle pp. 185-189 altri componimenti del nostro, cinque in latino e due in greco. Il numero complessivo di pagine del volume ospitanti il Messere (17 su un totale di 165) è prova evidente del credito di cui egli godeva e in particolare l’estensione degli Emblemata (12 pagine) non avrebbe certo fatto gridare allo scandalo se l’autore li avesse pubblicati come un opuscoletto, tanto più che essi appartenevano ad un genere letterario che vantava nobili natali9. A tal proposito vale la pena approfondire. Emblèmata è voce latina trascrizione dal greco ἐμβλήματα (leggi emblèmata) plurale di ἔμβλημα (leggi èmblema). All’ἔμβλημα greco corrisponde in latino emblèma, da cui la voce italiana usata nel senso generico di simbolo. In greco la parola [derivata dal verbo ἐμβάλλω (leggi emballo)composto da ἐν (leggi en)=dentro e da βάλλω (leggi ballo)=gettare]  indicava qualsiasi cosa inserita, come, fra l’altro le tessere del mosaico; tale significato passò in latino, dove emblema veniva chiamato l’intero mosaico. Ed è proprio partendo dall’idea delle tessere musive che è nato il significato generico moderno di simbolo[non a caso dal latino symbolu(m), trascrizione del greco σύμβολον (leggi siùmbolon), composto da σύν (leggi siùn)=insieme e dal già visto βάλλω . Ciò avvenne nel XVI secolo con l’avvento di un vero e proprio genere letterario che ha il suo antesignano in Andrea Alciato (1492-1550) e nei suoi Emblematum libellus10, raccolta di rappresentazioni simboliche accompagnate talora da un titolo e sempre da  una didascalia per lo più in versi, il tutto in funzione moraleggiante.

Passeremo ora in rassegna i veri e propri emblemi contenuti nelle pp. 57-68, successivamente quelli delle pp. 185-189, che per comodità definirò spuri in quanto mancanti, a differenza degli altri, dell’immagine.

Ricapitolando: in base a quanto si legge nel frontespizio  le Pompe in morte di Caterina sono dedicate a suo figlio Luigi della Cerda, discendente di Ludovico. I meriti di quest’ultimo sono indicati nella seconda dedica ed occupano la prima pagina della stessa e la parte iniziale della seconda. Luigi ricompare ancora in DI TANTO PRINCIPE, ma è evidente come la composizione tipografica faccia risaltare, con gradazioni diverse, il nome della defunta [DI D(ONNA) CATERINA D’ARAGONA] con quello che sembra essere il suo merito principale (DEGNISSIMA MADRE) e quello di Napoli (PARTENOPE) che le tributa l’omaggio.

Passo ora agli emblemata spuri delle pp. 185-189.

Tre suoi componimenti, sempre in distici elegiaci (il primo in latino, gli altri in greco), sono in Componimenti in lode del giorno natalizio di Filippo V, Re di Spagna, di Napoli, etc. recitati a dì XIX di Decembre l’anno MDCCIV nell’Accademia per la Celebrazione di esso Giorno nel Real Palagio tenuta dall’illustriss. ed eccellentiss. Signor S. Giovanni Emanuele Pacecco Duca di Ascalona, Vicerè, e Capitan Generale del Regno di Napoli, Niccolò Bolifoni, Napoli, 1705, pp. 259-261:

(Quando l’alma genitrice partorì dall’augusto grembo FILIPPO DI BORBONE a, le fatidiche Parche tessendo gli aurei filib dissero: – Nasci, nasci, grande fanciullo. Ti attendono come re i duplici confini del mondo, quelli dell’Europa da soli non sufficienti al tuo impero)

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a Filippo V. figlio di Luigi, il gran Delfino, e di Anna Maria di Baviera, nonché nipote di Luigi XIV, era nato nel 1683 e diventerà re di Spagna nel 1700. Qui si direbbe che il Messere riveli doti profetiche, se non fosse più che normale per un rampollo di discendenza reale l’augurio che il salentino gli esprime nei due versi finali.

b Nella mitologia greca le tre Parche (Cloto, Lachesi ed Atropo) rispettivamente tessevano, misuravano e tagliavano il filo simboleggiante la vita di ogni uomo. Si fosse trattato di un poveraccio, il filo sarebbe stato di materiale infradiciato; trattandosi di un futuro re, poteva non essere d’oro?

(Filippo, re potente e buono delle regioni  occidentali, amato allo stesso modo dagli dei e dagli uomini, oggi è nato presso le dolci sponde del Rodano. Correte, Muse dell’Olimpo, incoronate i capelli di fiori primaverili, battete le corde dal bel suono, ascoltate anche le notizie della nascita del Borbone, ascoltate! Egli certamente con molte vittorie, con molti trionfi farà giungere di nuovo l’età dell’oro sulla terra)

 

(Per la nascita dello stesso monarca. Quando il sole è nel segno del toro nella stagione primaverile spunta la rosa, ma dura poco. Il fiore borbonico nato nel bel mezzo dell’inverno è sempre rigoglioso di foglie di oro)

Un distico elegiaco funge da didascalia al ritratto di Antonio Sanfelice senior (1515-1570) frate minorita autore di Campania uscito per i tipi di Cancer a Napoli nel 1562. Il ritratto è a corredo dell’edizione curata da Antonio Sanfelice iunior (vescovo di Nardò dal 1707 al 1736) uscita per i tipi di Giovanni Francesco Pani a Napoli nel 1726 e dedicata dal fratello di Antonio, architetto, a Benedetto XIII. In basso a destra si legge And(reas) Maillar sc(u)lp(sit)=Andrea Maillar incise. Il Maillar, nato a Napoli verso il 1690, incise soggetti storici alla maniera di Solimena e , fra gli altri ritratti, anche quelli dei membri della famiglia Carafa. Il concittadino architetto Giovanni De Cupertinis m’informa che il disegno del ritratto del frate fu eseguito dall’architetto Ferdinando Sanfelice, che per l’occasione realizzò un bozzetto a penna, acquerello e sanguigna, attualmente conservato presso il Gabinetto dei Disegni del Museo di Capodimonte di Napoli.

O utinam posset pingi, ut mortalis imago,/sic genus et Pietas, CUIUS ET INGENIUM./d. Gregorius Messerius.

Volesse il cielo che si potesse dipingere come l’immagine mortale così la nobiltà e la devozione e la sua indole.

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1 Carlo Susanna erroneamente lo crede tarantino in Vita di Carlo Buragna inserita in Poesie del Signor D. Carlo Buragna, Castaldo, Napoli, 1683, s. p. e pure, probabilmente da lui attingendo, Giangiuseppe Origlia Paolino in Istoria dello studio di Napoli, Giovanni Di Simone, Napoli, 1754, v. II, p. 102.

2  Antonio Caraccio, l’arcade di Nardò, op. cit., p. 58 n. 27

3 Di Veroli; il suo nome pastorale era Zetindo Elaita. Nell’opera descrive il Bosco Parrasio, la villa fatta costruire dall’accademia, grazie alla munificenza di Giovanni V di Portogallo. Fu la sua prima sede stabile, inaugurata il 9 settembre 1726. Dal volume la tavola che segue: disegno di Antonio Canevero, incisione di Vincenzo Franceschini  (Roma 1680-Firenze 1740; quest’ultimo, della stessa famiglia di Domenico autore del ritratto inserito nel volume del 1710, risulta vincitore del primo premio della terza classe della pittura nel 1711 (Le belle arti pittura, scultura, e architettura, compimento, e perfezione delle bellezze dell’universo mostrate nel Campidoglio dall’Accademia del disegno il dì 24 settembre 1711, essendo Principe della medesima il Sig. Cavalier Carlo Marattti  e Viceprincipe il Signor Cavalier Carlo Francesco Person. Relazione di Giuseppe Ghezzi pittore, e segretario accademico e fra gl’Arcadi Afideno Badio dedicata dagl’Accademici  alla Santità di N. S. Clemente XI Pont. Ott. Mass., Zenobi, Roma, 1711, s. p.

4 Forma in uso fino agli inizi del XX secolo.

5 Così anche in Vincenzo Lancetti, Pseudonimia ovvero tavole alfabetiche de’ nomi finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de’ veri, Luigi Di Giacomo Pirola, Milano, 1836.

6 In prosa ci restano tre  lezioni tramandateci da un manoscritto settecentesco in due volumi (mss. 9221 e 9222), custodito presso la Biblioteca Nazionale di Spagna, intitolato Raccolta di varie lezioni accademiche sopra diverse materie, recítate nell’Accademia dell’Eccmo. Signore Duca di Medina Celi & c., Vicere et Capitan Generale 6 C. nel Regno di Napoli. Nel primo volume: Dell’Imperador Nerva Cocceio (carte 168r-174v) e Della vita di Trajano Imperadore (carte 175r-199v); nel secondo: Della poesía (carte 195r-203v).  La raccolta è stata pubblicata a cura di Michele Rak per dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Napoli  dal 2000 al 2005.Nel manoscritto si leggono pure lezioni di altri arcadi: Giuseppe Valletta (nome pastorale Bibliofilo AtteoSopra la vita dell’Imperadore Galba Ragionamento 1° cc. 36r-48v, Ragionamento 2° carte 49r-59v, Ragionamento 3° carte 60r-69v, Della vita dell’Imperadore Pertinace lezione unica cc. 355r-363v, Della vita di Massimino Imperadore carte 364-374, Della vita di Gordiano Imperadore carte 375r-384v, Della vita di Aurelio Alessandro Severo Imperador di Roma carte 385-393; Niccolò Crescenzi (nome pastorale Liburno  Sopra la vita di M. Aurelio filosofo Lezione 1a carte 255r-262v, lezione 3a carte 263r-271v, lezione 4a carte 272r-282v, Della vita dell’Imperador Lucio Antonino Commodo (carte 283r-312v, Considerazioni su l’lmperio di M. Didio Severo Giuliano Imperador di Roma carte 313r-323v), Della vita di Settimio Severo Imperador Romano carte 324r-335r, Della vita di Aurelio Antonino Bassiano detto Caracalla (carte 336r-342v), Considerazione sopra la vita e l’Imperio di Opilio Macrino carte 343r-354v; Filippo Anastasio (nome pastorale Anastrio Liceatico) Intorno all’arte nautica carte 183r-194v; Giuseppe Antonio Cavalieri (nome pastorale Floridano Ateneio) Delle Sibille carte 216r-228v; Giuseppe Lucina (nome pastorale Filomolfo Corebio) Dell’agghiacciamento e della cagione di quello carte 236r-245v.

Le lezioni sulla poesia sono conservate pure in un manoscritto (ms. XII G. 58)custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.

7 Vorrei tanto chiedere all’autore della scheda in wikipedia

(https://it.wikipedia.org/wiki/Gregorio_Messere), dove si legge  Coraconasio, “dalle campagne dell’isola Coraconaso”, visto pure il virgolettato, da dove ha tratto il nome di questa fantomatica isola. La disgrazia è che in rete l’invenzione in rete è destinata a diventare infezione molto più rapidamente di quanto succede con la carta stampata.

8 Pubblicò anche:

Parte prima delle poesie, Cavallo, Napoli, 1648.

Prose varie, divise in Funzioni Accademiche, mandate al Sig. D. Francesco Carafa Principe di Belvedere, in ettere Capricciose al Sig. Principe di Sant’Agata D. Pietro Farao, in Dialoghi morali a’ Sign. D. Pietro, e D. Lorenzo Casaburo, suoi Amici, Luc’Antonio di Fusco, Napoli, 1666.

9 Tanto più che, a quanto ne so, fu l’unico salentino ad applicare originalmente questo genere alla commemorazione funebre, quasi una versione dotta dei “ricordi” in uso ancora oggi spesso con l’immagine del defunto (in passato un’altra con il tema cristiano della morte e della resurrezione) e una frase più o meno importante, per lo più una citazione di carattere sacro, raramente poche semplici parole. Da aggiungere anche all’originalità l’abilità nel trattare ripetutamente  in modo non banale lo stesso tema. Al solito, dominante sottofilone filosofico-letterario, invece, è da ascrivere l’unico emblema di un altro salentino, il neretino Alberico Longo, inserito nell’opera di Achille Bocchi (alle pp. CCCXL-CCCXLI) registrata nella nota successiva a questa.

(FILOLOGIA SIMBOLICA. Dì che bisogna avere

grande indulgenza per le fatichea)

10 Wechel, Parigi, 1534. Solo nel corso del XVI secolo l’opera contò altre 8 edizioni. Ne seguirono 6 nel secolo successivo, in cui ne uscì pure una (la prima e l’ultima che conosco) con la traduzione in italiano di Giacomo Pighetti (tozzi, Padova, 1626). Dopo l’Alciato, solo per citare i nomi più importanti:

Achille Bocchi, Symbolicarum quaestionum libri quinque, Società tipografica Bolognese, Bologna, 1574

Cesare Ripa, Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi, Eredi di Giovanni Gigliotti, Roma, 1593 (altre 8 edizioni nel secolo XVII)

Jean Jacques Boissard, Emblematum liber, Theodor de Bry, Francoforte sul Meno, 1593

Giorgio Camerario, Emblemata amatoria, Tipografia Sarcinea, Venezia, 1627

Non  tardarono a mancare, data l’ampiezza di scelta del materiale pubblicato e del successo editoriale del genere, i compilatori fin dal secolo XVII; basti citare Filippo Piconelli, Mondo simbolico, Pezzana, Venezia, 1678 (650 pagine escludendo i corposissimi indici).

(FINE)

Per la prima parte (premessa): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/       

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/    

Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  

Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/  

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/ 

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 

Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/ 

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/

Per la diciassettesima parte (Filippo De Angelis di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/24/gli-arcadi-di-terra-dotranto-17-x-filippo-de-angelis-di-lecce/

Per la diciottesima parte (Mauro Manieri di Lecce) https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/02/gli-arcadi-di-terra-dotranto-18-x-mauro-manieri-di-lecce/

Per la diciannovesima parte (Felice Zecca di Lecce, Tommaso possente di Trepuzzi, Riccardo Mattei e NiccolòArnone di Alessano):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-19-x-felice-zecca-di-lecce-tommaso-possente-di-trepuzzi-riccardo-mattei-e-niccolo-arnone-di-alessano/

La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (3/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Passiamo ora alle immagini dei monumenti e degli stemmi contenute nei medaglioni sottostanti le coppie di nomi. Siccome tutti i monumenti si riferiscono a Lecce, l’unica concessione fatta a città diverse consiste nella riproduzione del loro stemma in riferimento al personaggio, a cui dette i natali,  indicato nel cartiglio. Da notare, però come i medaglioni, i cartigli e la stessa figura centrale siano legati tra loro da elementi decorativi di natura vegetale che conferiscono al tutto un senso di compattezza e di straordinaria unità nella diversità. Di stemmi e monumenti forniamo anche l’immagine recente per consentire al lettore un immediato riconoscimento-riscontro. Di solito in lavori del genere per la rappresentazioni di paesaggi era normale avvalersi a mo’ di modello di foto, possibilmente di fotografi famosi. E non si può fare a meno a tal proposito di pensare a Pietro Barbieri ed a Francesco Lazzaretti. Pietro Barbieri, di origini modenesi, insieme col fratello Augusto trasferì lo studio da Modena a Lecce, ove i due operarono dal 1878 al 1905.  Pietro fu anche pittore di ritratti, le cui foto serviranno di base ai pittori. A lui e al fratello fu commissionato un album fotografico sulla Terra d’Otranto da donare al sovrano insieme con l’Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto, che raccoglieva i contributi monografici di Giacomo Arditi, Francesco Casetti, Luigi Maggiulli, Cosimo De Giorgi, Luigi De Simone e Sigismondo Castromediano. Questa sorta di catalogo venne pubblicato con il titolo di Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto per i tipi di Campanella a Lecce nel 18891. Le foto dei Barbieri, per i quali una sorta di gemellaggio, sia pure in formato risotto, con gli Alinari non sarebbe fuori luogo, vennero utilizzate a corredo di parecchi testi geografici, alcuni dei quali avremo occasione di citare più avanti.

Federico Lazzaretti  (1858-1937), invece, nato a Lecce, vi aprì nel 1884 insieme con il fratello Luigi la Premiata litografia, uno studio che si occupava anche di legatoria e fotografia. Nel 1905 insieme con Luigi Conte rilevò lo studio dei fratelli Barbieri.

Nonostante per certi soggetti l’inquadratura sia quasi obbligata, volta per volta riporteremo per ogni dettaglio paesaggistico contrassegnato da un numero sull’insieme la foto che potrebbe aver funto da modello ed una recente.

1 A sinistra lo stemma di Lecce2, a destra la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo.

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1899,  fig. 63, p. 200

2 Piazza Duomo. In questo caso il modello potrebbe essere stato Federico Lazzaretti (1858-1937). La foto, sua,  che segue è  tratta da Giuseppe Gigli,  Il tallone d’Italia, op. cit., Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911, p. 25.

 3 A sinistra lo stemma di Brindisi3 (patria del De Leo), a destra l’Istituto Marcelline.

Qui come elemento di raffronto siamo in grado di proporre solo due cartoline del 1901 (data d’inoltro), comunque preziose a testimoniare il cambiamento del paesaggio in un secolo.

Questa seconda offre una prospettiva molto vicina a quella dell’arazzo.

4 A sinistra Porta Napoli, a destra stemma di Gallipoli4 (patria, per alcuni, del De Ribera)

L’inquadratura obbligata rende problematica l’individuazione del modello, che potrebbe coincidere con uno dei tre proposti di seguito.

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 59, p. 196

Da Le cento città. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Sonzogno, Milano, n. 9420 del 28 giugno 1892.

Foto Lazzaretti tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 29

5 Palazzo dei Celestini e Basilica di S. Croce

 

Foto Lazzaretti, tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 43

6 A sinistra la Torre di Belloluogo, a destra lo stemma di Taranto5 (patria di Paisiello e di Archita). Da notare come nello stemma Taras (il mitico fondatore della città) in groppa al delfino regge con la destra un tridente raffigurato in verticale, posizione diversa rispetto a quella dello stemma attuale e ispirata a quella delle monete antiche di datazione più recente (III secolo a. C.6; in quelle precedenti il tridente è assente).

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 75, p. 212

La comparazione che segue tra l’immagine originale del Barbieri (che nello Strafforello risulta tagliata) e quella dell’arazzo mostra la loro perfetta sovrapponibilità. Molto probabilmente proprio la foto del Barbieri funse da modello per l’esecuzione del dettaglio dell’arazzo. Se ciò risponde alla realtà dei fatti possiamo stabilire un elemento di datazione, per quanto approssimata, dell’arazzo, dicendo che esso è probabilmente successivo al 1889, anche se il Barbieri avrà sicuramente realizzato la foto qualche anno prima di tale data.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/

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1 Il volume è raro (l’OPAC segnala una copia nelle seguenti biblioteche: Ugo Granafei  di Mesagne ( BR),  Nicola Bernardini di Lecce, Pietro Siciliani di Galatina (LE), Pietro Acclavio di Taranto, Apulia di Manduria (TA) e Reale di Torino. Una copia manoscritta (ms. N/14) è custodita nella Biblioteca arcivescovile A. De Leo a Brindisi, naturalmente senza le immagini (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209597&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU).

2 (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce-Stemma.png)

Sullo stemma vedi La Terra d’Otranto ieri e oggi (8/14): LECCE, in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

3 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/55/Brindisi-Stemma.png)

Sullo stemma vedi Brindisi e il suo porto cornuto in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/

4 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/b/b9/Gallipoli_%28Italia%29-Stemma.png)

Sullo stemma vedi Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, pp. 25-27 (https://books.google.it/books?id=fM8sAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false)

5 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/47/Simbolo_Taras.jpg)

6 (immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/BMC_214.jpg)

Verso di un nummo d’argento. Taras nudo seduto sul dorso di un delfino regge con la sinistra (nell’arazzo con la destra) il tridente.

Sullo stemma vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/.

Spigolature sulla chiesa Madre di Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

La chiesa Madre di Spongano è dedicata a San Giorgio Martire. In origine era costituita da un’unica navata; così fu riedificata nella seconda metà del ‘700, mentre le due navate laterali furono edificate soltanto verso la metà del 1800; l’abside è posta a oriente e la chiesa è orientata sull’asse est-ovest.

Alla fine del ‘700 l’altare maggiore era dedicato all’Immacolata Concezione; venne poi rifatto nella forma attuale e dedicato a San Giorgio nel 1830. Di pregio sono gli stucchi dorati modellati da Vito Tedesco da Monopoli.

 

Sul lato destro della chiesa antica, a navata unica, c’erano tre altari: il primo, all’ingresso, eretto nel 1684, era dedicato a Santa Teresa ed era di patronato della famiglia Scarciglia; il secondo era dedicato a Sant’Antonio, di patronato della famiglia Bacile, ed era adorno di un quadro che raffigurava il Santo con il Bambino Gesù e una statua di pietra che ora è posta di fianco alla porta di ingresso laterale destra; il terzo altare era dedicato alla Madonna del Rosario ed era di patronato della famiglia Morelli.

La navata sinistra fu edificata successivamente, verso la metà del 1800, a spese della famiglia Bacile fino alle volte e fu completata, con le volte e gli altari, con il contributo della popolazione e il fattivo interessamento dell’Arciprete don Pietro Scarciglia.

Gli altari, in origine, erano tre: il primo altare, oggi sostituito dal Battistero, era dedicato alla Madonna Assunta con un quadro che può essere osservato sopra il Battistero stesso e raffigura, ai piedi della Vergine, San Giorgio che sottomette il drago e San Luigi Gonzaga; il secondo altare è dedicato a Santa Vittoria e il suo patronato apparteneva alla Confraternita della Buona Morte; il terzo è l’altare dedicato a San Giuseppe.

Proprio di quest’altare vi voglio parlare. È l’altare della navata più prossimo all’altare maggiore ed è dedicato, come detto, a San Giuseppe o alla Sacra Famiglia.

Fu costruito nel 1843, con il medesimo stile di quello dedicato a Santa Vittoria che è coevo.

Altare di San Giuseppe
Altare di San Giuseppe, dipinto della Narività

 

Il dipinto centrale è posto in mezzo a due colonne con capitelli corinzi, come in un proscenio di teatro, abbellito da elementi floreali e ghirlande, e rappresenta la Natività con l’adorazione dei pastori.

San Giuseppe, quasi defilato rispetto al centro del dipinto, mostra, con candido e genuino stupore, ai pastori e al popolo dei fedeli, il piccolo Gesù, vero centro dell’attenzione, su cui convergono gli sguardi di tutti gli astanti.

Ai lati vi sono due statue in pietra leccese, raffiguranti Sant’Anna e Santa Lucia, di recente fattura. L’ovale sulla mensa raffigura San Lazzaro, in abiti vescovili, ruolo che, dopo la morte di Gesù, può aver ricoperto.

Intorno all’effigie si legge l’epigrafe “LAZARUS FUERAT MORTUUS QUEM SUSCITAVIT JESUS” ([Sono] Lazzaro colui che era morto e fu resuscitato da Gesù Cristo).

Altare di San Giuseppe, San Lazzaro
Lecce, statua di San Lazzaro

 

Il Santo era venerato nel Salento. Qui, durante il periodo che precedeva la Pasqua, piccole compagnie improvvisate di musici e cantanti usavano proporre, in giro per le masserie, in una specie di questua di prodotti della terra, un canto chiamato “Santu Lazzaru” che, partendo dalla resurrezione dell’amico di Gesù, narrava la sua Passione e la sua Resurrezione.

Lazzaro morì giovane e fu resuscitato da Gesù, poi assistette alla sua dolorosa passione e dopo l’Ascensione del Signore, quando i discepoli si dispersero, con le sorelle Marta e Maria, secondo la Legenda aurea di Iacopo da Varagine, approdò a Marsiglia, dove si conservano ancora le sue reliquie. Qui Lazzaro convertì e battezzò molti pagani e resse, quale vescovo, la chiesa di quella città. Morì in età molto avanzata, ricco di meriti e di virtù. Un’altra fonte lo colloca a Cipro, a Cizio (oggi Larnaca), sempre come vescovo. Secondo questa versione le sue reliquie sarebbero state ritrovate a Cipro e portate in Francia dai Crociati.

In alto, nell’altro ovale, collocato sulla sommità dell’altare, è raffigurata la Sacra Famiglia.

Negli ultimi anni, proprio su questo altare, aveva trovato posto una pregevole statua in cartapesta della Sacra Famiglia fatta dall’artista salentino Antonio Papa e fortemente voluta e donata da Don Vittorio Corvaglia.

Sommità dell’altare di San Giuseppe

        

Chiesa del Carmelo a Loano: ai lati S. Teresa e S. Giovanni della Croce

 

Sempre sulla sommità dell’altare ci sono altre due statue che non hanno indicazioni.

Le statue sono rappresentate con abiti talari e un rosario in vita. Quella alla destra dell’osservatore rappresenta una religiosa con un angelo che la ispira, evidenza che si tratta di una donna Dottore della Chiesa, mentre quella alla sinistra rappresenta un religioso con una croce in metallo davanti.

Si può ipotizzare che siano raffigurati San Domenico e Santa Caterina da Siena: il primo, raffigurato con una croce nell’atto di predicare, e la seconda ispirata da un angelo.

Consideriamo però che la Santa senese è già effigiata da una delle statue in pietra, poste ai lati dell’altare di Sant’Antonio, e San Domenico viene in genere rappresentato con un giglio, una fiaccola o un cane.

In realtà sembra più plausibile identificarli con due mistici della famiglia carmelitana: San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila che riformarono l’ordine del Carmelo e che spesso si trovano raffigurati insieme, anche a Spongano, nella cappella del Carmine, di patronato della famiglia Ruggeri e ora di proprietà della famiglia Rini.

La devozione verso la Vergine del Carmelo a Spongano era molto sentita. Lo testimoniano la presenza di quadri, una statua processionale fatta modellare da Urbano Corvaglia e poi fatta restaurare negli anni ’50 da Emanuela Falco, edicole votive e altre espressioni della devozione popolare.

 

statua processionale della Madonna del Carmine

                                          

A Lei si rivolgevano preghiere e suffragi per la salvezza delle anime del purgatorio e Lei si invocava per non morire nel peccato in caso di morte improvvisa.

Un’espressione della devozione popolare era una giaculatoria rivolta a Lei per chi era in punto di morte o anche per sé stessi, pensando a quel momento di trapasso.

La Giaculatoria diceva:

“Madonna del Carmine,

mia bella Signora,

assistetemi Voi

nell’ultima mia ora .”

oppure “assistete – e qui si citava il nome dell’agonizzante – nell’ultima sua ora”.

Particolarmente devote alla Vergine del Carmine erano due famiglie patrizie di Spongano: i Ruggeri e gli Scarciglia che hanno annoverato fra i loro congiunti diversi parroci.(1)

Gli Scarciglia avevano patronato sul primo altare della parete di destra, nell’antica chiesa a navata unica, dedicato a Santa Teresa d’Avila e ornato da un quadro, oggi collocato nel cappellone con l’altare del Santissimo Sacramento che fu costruito dall’arciprete Pietro Scarciglia (2), figlio di Gerolamo, con il contributo della madre e del fratello, dottor Fisico Giuseppe, proprio per trasporre il patronato dell’altare di Santa Teresa.

Nel quadro la Santa in estasi viene raffigurata nell’atto di ricevere il velo monastico da San Giuseppe e dalla Madonna.

Santa Teresa riceve il velo dalla Madonna e da San Giuseppe

 

Ritratto di Don Pietro Scarciglia

 

Un altro quadro della stessa famiglia si può ammirare in sacrestia e raffigura la Madonna del Carmine con le anime purganti fra San Giovanni Battista e S. Oronzo.

I Ruggeri dedicarono alla Madonna del Carmine la propria cappella gentilizia che si trova in via Carmine, di fronte al loro palazzo, Ruggeri ora Rini.

particolare di Palazzo Ruggeri

 

Il tempio fu costruito da Francesco Antonio Ruggeri, padre di Giovanni Tommaso che fu Arciprete di Spongano dal 1714 al 1751, e la consacrò nel 1690. Per costruirla, Francesco Antonio aveva comprato, nel 1687, due fondi e la dotò pure di due vigneti e tre orte di vigna, oltre ad altri fondi, che costituivano un legato per 52 messe delle quali una parte doveva essere celebrata con canti, primi e secondi vespri, nei giorni in cui si festeggiava la Madonna.Nelle visite pastorali viene sempre lodata per arredi e paramenti; ancora oggi, dopo i restauri voluti dal Dottor Gaetano Rini e dalla moglie Anna Rizzelli, mostra nella sua bellezza quello stile barocco con cui era stata concepita.

Della Dedicazione alla Madonna del Carmelo è attestazione l’epigrafe posta sulla porta di ingresso (D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)/ DIVAE MARIAE A CARMELO/ D(OMINUS) IO(ANN)ES THOMAS ROGGERIUS DICAVIT/A(NNO). D(OMINI). MDCXC – Traduzione: A Dio Ottimo Massimo/ E alla Madonna del Carmelo/ Don Giovanni Tommaso Ruggeri dedicò (questo tempio) / Nell’Anno del Signore 1690).

Don Bernardo Ruggero

 

Don Scipione Ruggero

 

All’interno si nota la volta a botte in pietra viva e un altare barocco, sfarzoso per stucchi e colori, che accoglie un quadro che raffigura la Madonna con il bambino mentre porge lo scapolare a due santi in ginocchio: San Giovanni della Croce, con una Croce adagiata presso le sue ginocchia, e Santa Teresa d’Avila che reca i simboli della passione di Cristo, fra cui la canna con alla sommità una spugna, infilzata per dissetare il Redentore sulla Croce, e la lancia con cui i romani ne trafissero il costato.

 

Note

(1) Nella famiglia Ruggeri, oltre a Giantommaso, parroco dal 1714 al 1751, ricoprirono il ruolo di Parroco a Spongano anche Scipione e Bernardo (1771-1779), mentre nella famiglia Scarciglia, oltre a Pietro, fu parroco anche Girolamo dal 1679 al 1684.

(2) Il quadro raffigura Don Pietro Scarciglia, parroco di Spongano dal 1826 al 1836. L’epigrafe recita: D(ON) PETRUS SCARCIGLIA ARCHIPRESBYTER SPONGANI, PIETATIS AC RELIGIONIS LAUDE MAXIME ENITENS, OMNIBUS DESIDERATISSIMUS. OBIIT DIE 18 NOVEMBRIS 1836 AETATI- che vuol dire “Don Pietro Scarciglia, arciprete di Spongano che merita la lode più grande per pietà e religione, ricercatissimo da tutti. Morì il 18 novembre 1836 all’età di …” (Il libro aperto cita la lettera di San Paolo agli Ebrei). Don Pietro Scarciglia fu Arciprete per quasi tre decenni, in due periodi, dal 1808 al 1825, quando decise di dimettersi dalla carica per poi riaccettarla nel 1826 fino al 1836, anno della sua morte. Questi furono anni intensi per la progettazione e la costruzione della navata sinistra con gli altari citati. La Famiglia Scarciglia, originaria di Minervino, si stabilì a Spongano nel ‘600 con Pompomio Scarciglia, che fece costruire la cappella di San Teodoro. Il palazzo principale della famiglia è quello che si trova di rimpetto alla chiesa e fu costruito nel 1620 ma anche gli altri palazzi a sinistra sullo stesso lato di via chiesa, sono della famiglia Scarciglia. Su questo palazzo è posta una epigrafe che recita Hic sunt patera frondes.

 

Si ringraziano Antonio Corvaglia e Mirella Corvaglia per le foto che mi hanno fornito e si ringrazia l’Ufficio diocesano per l’arte Sacra e i Beni Culturali per le autorizzazioni alla pubblicazione delle immagini

La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (2/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Riprendiamo la descrizione del nostro manufatto. Al di fuori della cornice in cui è incastonata la personificazione della Terra d’Otranto ad intervalli regolari e simmetrici compaiono coppie di nomi in cartiglio ed immagini di monumenti e di stemmi cittadini in medaglioni. Cominciamo dalle coppie di nomi, di seguito presentati in dettaglio in rapporto alla loro posizione nell’arazzo. Ogni coppia, poi, sarà accompagnata dalla relativa scheda.

ENNIO/PALMIERI

Quinto Ennio (Rudie, 239 a. C.- Roma, 169 a. C.). Poeta e drammaturgo, delle sue opere ci rimangono solo i titoli ed alcuni frammenti.

Palmieri. Famiglia che vanta molti illustri esponenti: Alessandro e Bernardino (XII secolo, di Ostuni, giuresconsulti); Francesco Maria (XVII-XVIII secolo, di Lecce, architetto e scultore); Giuseppe (1720-1793, di Martignano, economista; Nicola (XVIII secolo, di Merine, numismatico); Oronzo (XVII secolo, di San Pietro in Lama, teologo e poeta); Pasquale (XVII secolo, di Lecce, poeta); Saverio (1764-1839, di Lecce, agronomo). Candidati ad essere accoppiati col poeta Ennio sembrerebbero Oronzo e Pasquale, la cui produzione, però, si riduce per il primo ad un Epigramma latino e per il secondo ad alcuni alcuni componimenti celebrativi inseriti, insieme con quelli di altri,  in due raccolte. Qui, perciò, molto probabilmente il citato è Giuseppe, l’economista, autore di diverse pubblicazioni. Fu nel tempo Amministratore Generale delle Dogane in Terra d’Otranto, Consigliere di Stato, Soprintendente Generale delle Dogane del Regno e, infine, Direttore del Consiglio delle Reali Finanze. A lui nel 1865 fu intitolato quello che era stato il primo liceo di Terra d’Otranto.

 

STRABONE/DE FERRARIS 

Strabone (I secolo a. C.- I secolo d. C.), geografo e storico greco. La presenza del suo nome è giustificata non solo dalla sua fama ma, forse soprattutto, dal fatto che la Terra d’Otranto o, meglio, i suoi antenati toponomastici (Iapigia in primis), hanno ampio spazio nella sua opera (Geographica), elemento sufficiente per giustificare il gemellaggio con il De Ferraris e il suo De situ Iapygiae.. 

Antonio De Ferraris (1444-1517), medico e letterato di Galatone (perciò più noto col nome di Galateo). La sua opera più nota è il De situ Iapygiae uscito a Basilea  per i tipi di Perna nel 1553.

 

LEO/MILIZIA

Leo. Nonostante l’assenza di DE (presente, invece, in DE FERRARIS), non può essere che Annibale De Leo (1739-1814) di S. Vito dei Normanni. Letterato, arcivescovo di Brindisi collaborò all’istituzione in questa città della biblioteca che oggi porta il suo nome.

Milizia. Problema già posto da PALMIERI e che si riproporrà con ZIMARA e VINCENTI. La scelta teoricamente andrebbe operata tra Domenico (1680-1760, medico), Lucio (XVI-XVII secolo, letterato) e Francesco (1725-1798, teorico dell’architettura,storico e critico d’arte), tutti di Oria. Se dovessimo applicare il criterio già usato (e quale, sennò?) il Vincenti dell’arazzo sarebbe indiscutibilmente Francesco.

 

ZIMARA/RIBERA

Zimara. Probabilmente si tratta di Marcantonio (XV/XVI secolo), medico e filosofo di Galatina,autore di una serie sterminata di pubblicazioni, e non di Teofilo (1515-1589) suo figlio, anche lui di Galatina, studioso di lettere e scienze, ma autore meno prolifico del padre.

Ribera. Giuseppe de Ribera,   alias lo Spagnoletto. Nell’arazzo l’accoppiamento con lo stemma di Gallipoli mostra (e come poteva essere altrimenti …) l’adesione al gruppo di coloro che sostennero l’origine gallipolina del pittore; il primo fu Bernardo De Dominici in Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, Tipografia Trani, Napoli, 1844 (la biografia del De Ribera occupa le pp. 111-146) seguito dai salentini  Ettore Vernole in Un canto gallipolino su Giuseppe Ribera, in Archivio storico pugliese, XIX (1966), n. 1-4, pp. 334-341 (corregge alcuni dettagli anagrafici del De Dominici ma propende, sia pure non con certezza assoluta, per l’origina gallipolina). Sul fronte opposto coloro (il primo fu Joachim von Sandrart, contemporaneo del De Ribera) che sostengono esser nato il nostro a Xativa, in Spagna. Forse è superfluo dire che gli scrittori salentini di memorie patrie (e tra questi il gallipolino Bartolomeo Ravenna in Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836) hanno tutti sposato concordemente la tesi delle origini gallipoline. Chissà, perciò, che rabbia avrebbero provato oggi nel vedere citata  in rete (anche nell’Enciclopedia Treccani) e anche su libri a stampa) come città natale del De Ribera non Gallipoli ma Xativa.

 

AMMIRATO/VINCENTI

Scipione Ammirato (1531-1601), di Lecce, storico, autore di numerosissime pubblicazioni.

Vincenti. Qui si porrebbe, in forma ancora più esasperata, lo stesso problema posto da PALMIERI e ZIMARA, per cui risulterebbe  abbastanza imbarazzante la scelta tra: Andrea (XVII-XVIII secolo, di un paese, non noto, della provincia di Lecce, pittore, discepolo di Luca Giordano; Antonio (XVIII secolo, di Ostuni, archivista e bravissimo restauratore di pergamene); Francesco (XVIII secolo, di Gemini, teologo della cattedrale di Ugento; Lelio (XVII secolo, di Tricase, medico e filosofo, autore di numerose pubblicazioni. Siccome queste ultime hanno un peso notevole anche nell’immaginario collettivo, molto probabilmente il Vincenti ricordato nell’arazzo è proprio Lelio.

 

PAESIELLO/ARCHITA  

Giovanni Paisiello (1741-1816), di Taranto, musicista. Sul PAESIELLO dell’arazzo, invece di PAISIELLO, vedi la serie in sei puntate in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/14/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-e-non-solo-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-16/; alle testimonianze lì esibite si aggiunge quest’altra, senz’altro più ufficiale e che renderebbe ancora più grave il fenomeno, anche se non nuovo per altri nomi, lì stigmatizzato.

Archita. (V-IV secolo a. C.), di Taranto, filosofo, matematico e politico, amico di Platone. Delle sue opere ci restano solo frammenti. Il suo accoppiamento col Paisiello molto probabilmente è dovuto, oltre alla comune città natale, anche al fatto che, come tutti i pitagorici, si occupò anche di acustica, enunciando regole per la composizione delle scale in dati intervalli.

 

Ogni cartiglio, come s’è visto, contiene due cognomi.  Ci saremmo aspettato che l’accoppiamento (soprattutto laddove le rispettive cronologie sono molto distanti) contenesse il riferimento ad un dettaglio che nello stesso tempo qualificasse i due personaggi e ne costituisse il comune denominatore. Di questo, quando è avvenuto, abbiamo dato puntuale giustificazione nelle schede.

L’assenza del nome accanto al cognome per gli autori più recenti può essere interpretata in due modi: 1) il nome è da considerarsi superfluo quando, come s’è documentato, la famiglia annovera più discendenti ma il riferimento va fatto giocoforza al più famoso; 2) quando la scelta diventa problematica, non è da escludere che il riferimento coinvolga l’intero casato e il suo prestigio considerato anche cronologicamente. Il sospetto, però, è che l’intenzione celebrativa era proprio quella ambigua derivante dalla fusione delle due ipotesi prospettate; insomma, il classico prendere due piccioni con una fava,anzi, con un solo nome, anzi con il solo cognome. Da notare, può darsi pure che sia un caso, come la serie onomastica si apre e si chiude col nome dei due personaggi più antichi (Ennio e Archita).

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/04/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-3-3/

 

 

La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (1/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

La superiorità dell’arte si gioca, probabilmente sulla miracolosa convergenza di due elementi contrapposti: da un lato la sinteticità del linguaggio, dall’altro la pluralità semantica che esso racchiude in sè e che, vuoi in modo immediato e superficiale, vuoi in modo più profondo, magari proprio col suo carattere allusivo, riesce a trasmettere. Così anche un manufatto apparentemente senza pretese, nel nostro caso un arazzo, può narrare nello spazio di un solo sguardo quello che in un libro di storia richiederebbe tanti sguardi quante sono le pagine dedicate all’argomento o al problema trattato.

L’arazzo che ci accingiamo a leggere è, se non il più antico documento iconografico della Terra d’Otranto, certamente il più completo, e il suo valore storico appare doppio in quanto testimonia anche una sorta di passaggio di consegne tra l’antica provincia, quella di Terra d’Otranto appunto, e la nuova, quella di Lecce, la cui non dichiarata preminenza è attestata, come vedremo, dal fatto che tutti i dettagli paesaggistici in esso raffigurati si riferiscono a Lecce. Questa sorta di tacita rivendicazione di un primato di prestigio rispetto alle provincie di Brindisi e Taranto sul piano amministrativo con l’acquisizione come suo stemma di quello che era stato della Provincia di Terra d’Otranto (il delfino e la mezzaluna1) è per fortuna compensato dalla citazione di nomi di personaggi non esclusivamente leccesi, a riprova che, al di là di stupidi orgogli campanilistici, la cultura non vive di miopi rivendicazioni in molti casi perfino disgiunte dalla conoscenza storica, quando non nutrite, addirittura, da interpretazioni di comodo, alterazione delle fonti, per non parlare delle innumerevoli superfetazioni succedutesi nel tempo, fino ad arrivare alle bufale pure in questo settore giornalmente propalate dalla stampa (non esclusi i cosiddetti saggi) e dalla rete.

Il prezioso manufatto è custodito nella sala di ricevimento dell’Istituto Marcelline di Lecce2, che ringraziamo qui pubblicamente per la generosa disponibilità dimostrata, senza la quale questa nostra modesta fatica non avrebbe potuto vedere nemmeno l’inizio, ringraziamento tanto più doveroso perché in evidente contrasto con i paletti vari che la burocrazia laica interpone quando si tratta di visionare materiale pubblico, non fosse altro che un semplice atto d’archivio. Non siamo riusciti a reperire documenti che ne attestino la datazione, che si colloca, comunque, tra il 1893 (data del trasferimento dalla vecchia sede) e, prudenzialmente, il 1921, data di spedizione della cartolina in cui è ritratto. Proprio le cartoline d’epoca, quando non diversamente specificato, hanno fornito un notevole supporto, mentre le foto recenti, ad attestare lo stato attuale, sono degli autori.

Nel suo insieme l’arazzo appare come la copertina anteriore di un libro dotato di rilegatura monastica3. Le parti centrali del settore superiore ed inferiore (il primo con lo stemma4), il secondo con la scritta, ne  costituiscono a tutti gli effetti il titolo.

La conformazione di ciascun ovale e di ciascuna cornice sembra echeggiare quella presente in Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Cappello, Napoli, 1601, p. 81 (prima immagine). Com’è noto lo stemma della Terra d’Otranto fu adottato, a partire dal 1933 dalla Provincia di Lecce (seconda immagine).

Al di là dei richiami, reali o presunti, ad un libro appena evocati, sul piano squisitamente tecnico si tratta di un ricamo su un canovaccio a nido d’ape minuto in seta e cotone di colore giallo pallido su cui è stato sistemato il disegno preparatorio poi realizzato in oro a rilievo. Tutto si accorda in un’armonia di segni e colori che stupiscono per la minuta precisione e le sfumature  che fanno apparire l’opera quasi pittura.

Al centro dell’arazzo campeggia, e non poteva essere altrimenti, la personificazione della Terra d’Otranto.

Una giovane donna in chitone5 bianco e imatio6 rosso reca nella destra un ramoscello d’olivo e con la sinistra  regge, appoggiato verticalmente a terra, uno scudo sagomato7 su cui campeggia un delfino (è, come abbiamo detto, lo stemma di Terra d’Otranto).

Alla sua destra, adagiata per terra una cornucopia, notorio simbolo dell’abbondanza e ai suoi piedi, un po’ distanti, quelle che si direbbero spighe.

A nostro avviso non è da escludersi un influsso della rappresentazione della Puglia, contaminata con quella dell’Italia, quali si vedono in Cesare Ripa, Iconologia, Farii,  Roma, 1603, rispettivamente alle pp. 266 e 247.

 

Al di là delle evidenti allusioni in Ripa al fenomeno del tarantismo, che comporta anche inevitabili differenze nel panneggio, tratti in comune ci sembrano l’acconciatura (anche se nell’arazzo i capelli si direbbero trattenuti da una benda), a parte i dettagli indiscutibili della destra che impugna il ramoscello d’olivo e quello, probabile, delle spighe, pur nella loro differente collocazione.

Quella che segue è, a nostra conoscenza, la seconda personificazione  della Terra d’Otranto e di questa, a differenza di quella dell’arazzo (sul problema torneremo in seguito),  conosciamo  la data di realizzazione: 1882. Si tratta del verso di una medaglia (ideazione del galatinese Pietro Cavoti, modello del leccese Eugenio Maccagnani, incisione del fiorentino Giovanni Vagnetti)8. Le due immagini presentano in comune la posizione dello scudo (non la forma, essendo quello dell’arazzo sagomato, quello della moneta ellittico, simile a quello che i Romani chiamavano parma) retto con la sinistra e la cornucopia; la caratteristica parte terminale, che le dà il nome, nell’arazzo è nascosta dalla parte inferiore della figura femminile e nella medaglia manca il ramoscello d’olivo perché la destra della Terra d’Otranto è impegnata a stringere quella dell’Italia.

 

Le due immagini costituiscono quasi una specializzazione locale della figura classica dell’Abbondanza (quella dell’arazzo, più specificamente della Pace, come mostra l’immagine che segue risalente al XVII secolo un’incisione di Carol De Mallery su disegno di M. De Vos stampata da Joan Galle ad Anversa), nella cui rappresentazione la cornucopia è il dettaglio più significativo. E il distico elegiaco che costituisce la didascalia sintetizza i concetti complementari di pace ed abbondanza: Pax alma, ingenuas praesertim quae fovet artes,/orbi suppeditat denique divitias (L’alma pace, che favorisce soprattutto le nobili arti, alla fine procura al mondo ricchezza).      

Per completezza d’informazione va detto che questo processo di personificazione aveva avuto il suo primo timido avvio con l’assunzione delle fattezze di una testa di donna da parte di quella del delfino, come risulta dallo stemma presente a. p. 17 del saggio Antiquitates Neapolis di Benedetto di Falco  inserito nella prima parte del nono tomo del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae uscito a Lione per i tipi di Pietro Vander Aa nel 1723, a cura di Giovanni Giorgio Grevio e Pietro Burmanno.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/04/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-3-3/

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1 Sul tema vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

2 Per le notizie storiche sull’istituto vedi http://www.marcellinelecce.it/wp-content/uploads/2016/06/Istituto-Marcelline-Lecce.pdf.

3 Sul tema vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

4 Sullo stemma vedi Il delfino e la mezzaluna in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/ (in calce alla prima parte i collegamenti alle restanti quattro) e Il delfino “stizzoso” dellantico stemma di Terra d’Otranto, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

5 Dal greco χιτών (leggi chitòn), che significa tunica.

6 Dal greco ἱμάτιον (leggi imàtion) o εἱμάτιον (leggi eimation), diminutivo di ἱμα (leggi ima) o εἷμα (leggi èima), che significa veste.

7 Così in araldica viene chiamato lo scudo con lembi a frastagli mistilinei. Scudi simili, recanti nella parte centrale una testa di Gorgone, protomi animali o teste di divinità sono visibili in fregi dell’età imperiale.

8 Lo stesso ideatore dichiara nell’opuscolo, da lui curato e scritto per gran parte, Medaglia offerta dalla Provincia di Terra d’Otranto a s. e. Agostino Magliani, ministro delle finanze e senatore del Regno, Stabilimento tipografico Scipione Ammirato, Lecce, 1883 (nello stesso anno ripubblicato con accresciuto numero di pagine per i tipi di Spacciante, sempre a Lecce): Il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto volle, con unanime e spontanea cortesia, affidarmi l’incarico della Medaglia d’oro e dell’Indirizzo in pergamena, che, per sua speciale deliberazione del 1882, stabiliva doversi offerire al Ministro delle Finanze, AGOSTINO MAGLIANI, fautore di un contratto di mutuo colla Cassa dei depositi e prestiti, necessario ad agevolare, per il tempo e pel dispendio, la costruzione delle strade ferrate da Taranto a Brindisi, e da Zollino a Gallipoli, dalle quali s’impromette gran bene la Provincia e la nostra gran patria. Sulla medaglia vedi pure https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/12/magliani-agostino-detto-tino-e-la-sua-medaglietta-la-ferrovia-tra-brindisi-e-taranto-lho-portata-io/

“Zia Valeria”, il nuovo libro di Rocco Boccadamo

rocco boccadamo

E’ stato appena pubblicato, per i tipi di Spagine – Fondo Verri edizioni, il nuovo libro “Zia Valeria – Lettere ai giornali e appunti di viaggi” dello scrittore e giornalista salentino Rocco Boccadamo.

Prefazione di Ermanno Inguscio, postfazione di Raffaella Verdesca.

Il volume sarà presentato giovedì 2 gennaio 2020, alle ore 19.30, presso l’Associazione culturale Fondo Verri, in Via S.  Maria del Paradiso 8, Lecce, nell’ambito della Rassegna “Le mani e l’ascolto”.

Dialogherà con l’autore, Paola Moscardino, giornalista, scrittrice, autrice e presentatrice di servizi televisivi.

Il salentino padre Antonio Stefanizzi della Compagnia di Gesù, classe 1917

Stemma dei Gesuiti sulla chiesa che fu dell’Ordine, a Lecce

 

di Paolo Vincenti

Il 18 settembre ha compiuto 102 anni. Un pezzo importante della storia della chiesa romana e della Compagnia di Gesù. Padre Antonio Stefanizzi, classe 1917, è stato il terzo direttore di Radio Vaticana, l’emittente radiofonica della Santa Sede, dal 1953 al 1967, ma anche molto di più di uno speaker radiofonico. Padre Stefanizzi è un uomo di grande esperienza e straordinaria cultura, un gesuita rigoroso dotato di una robusta formazione scientifica, figlio di un secolo, il Novecento, che ha attraversato quasi per intero. Matematico e fisico, ha studiato alla Fordham University di New York «dove sotto la direzione del premio Nobel Victor Franz Hess, lo scopritore dei raggi cosmici – racconta divertito seduto sulla sua carrozzina – collaborai a un importante esperimento sull’acqua piovana e la relativa scoperta di alcune particelle>>. La fonte per queste informazioni è una bella intervista rilasciata da Padre Antonio sul quotidiano “Avvenire” in occasione dei suoi cento anni. (Filippo Rizzi, Radio Vaticana. Compie 100 anni. Stefanizzi, direttore che fece grande la radio dei Papi, in “Avvenire.it”, 16 settembre 2017). Non sorprenda la formazione scientifica di Padre Stefanizzi, provenendo egli da un ordine, quello dei gesuiti, notoriamente aperto alla scienza e alla tecnica. Fin dalla sua costituzione, nella Compagnia di Gesù hanno militato geografi, matematici, fisici, astronomi, fra cui i missionari scienziati che fra Cinquecento e Seicento hanno evangelizzato l’Oriente. Padre Stefanizzi appartiene a quell’ordine che ha annoverato fra le sue fila, oltre ai grandi Matteo Ricci e Roberto De Nobili, Filippo Soccorsi, matematico e fisico e predecessore di Stefanizzi alla guida di Radio Vaticana, e anche scienziati salentini come il galatinese Giovanni Paolo Vernaleone e il ruffanese Sabatino de Ursis. Padre Antonio è originario di Matino, così come il fratello, Padre Angelo Stefanizzi, noto come “Padre Gandhi”, missionario per moltissimi anni nello Sri Lanka.

Oggi, alla veneranda età di 102 anni, egli vive a Roma, nella residenza San Pietro Canisio, attigua alla Curia generale della Compagnia di Gesù.

Quando è entrato alla Radio Vaticana, era Pontefice Pio XII “con cui inaugurerà nel 1957 il nuovo centro di trasmissione di Santa Maria di Galeria, alle porte di Roma … toccò proprio a padre Stefanizzi sovrintendere anche tecnicamente il 15 agosto del 1954 alla prima trasmissione radiofonica della preghiera dell’Angelus da parte di un Papa”. Da allora ha conosciuto tutti i Papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro. Con Giovanni XXIII ha vissuto l’indimenticabile esperienza del Concilio Vaticano II. “Padre Stefanizzi è chiamato in veste di tecnico a partecipare alla Commissione preparatoria e a gestire proprio lui il rinnovamento dell’impianto elettroacustico della Basilica di San Pietro. «Mi vengono in mente i tanti problemi per le registrazioni, la scelta del latino come lingua ufficiale della Chiesa nonostante le resistenze dei vescovi Usa che volevano l’inglese, in particolare l’arcivescovo di Boston Richard James Cushing. Tra i padri conciliari mi impressionò l’autorevolezza degli interventi del cardinale di Colonia Joseph Frings»”. Quindi Paolo VI, e poi Giovanni Paolo II. Padre Stefanizzi ha insegnato per diversi anni matematica e fisica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Anche dopo la fine del suo impegno a Radio Vaticana, ha continuato a servire la Santa Sede come consulente del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, ed è stato fra l’altro, uno dei fondatori, assieme ad Emilio Rossi, del Centro televisivo vaticano (Ctv). Quello che è interessante, ripercorrendo le sue memorie, è l’intraprendenza di questo gesuita, in quei pionieristici esordi della radio, in cui egli faceva da tecnico e al contempo da conduttore radiofonico. Non sbaglia chi ha collocato Padre Stefanizzi sulla scia di Guglielmo Marconi, che si può considerare il fondatore di Radio Vaticana insieme al Padre Gianfranceschi, che ne fu il primo direttore. Stefanizzi è stato decisivo nel successo mondiale di Radio Vaticana. “Nel suo percorso pastorale anche la promozione di Radio Veritas, una grande emittente situata a Manila per la diffusione di programmi in varie lingue per tutto il Continente asiatico”. Quando ha compiuto Cento anni, fra i tanti, anche la città di Matino lo ha festeggiato, dacché una delegazione dell’Amministrazione comunale lo ha raggiunto nel suo appartamento romano. E non poteva essere altrimenti, mantenendo egli ben salde le radici salentine. Anche Papa Francesco gli ha inviato un telegramma di felicitazioni. <<Tutte le mattine partecipa alla celebrazione eucaristica nella Cappella dell’infermeria, condivide i pasti con i suoi confratelli e conversa volentieri con i giovani gesuiti e con tutti quelli che frequentano la “Casa degli scrittori” in via dei Penitenzieri. Soprattutto quando vede i suoi confratelli che lavorano alla Radio Vaticana, spesso fa domande per sapere ‘come vanno le cose alla Radio’>>, scrive di lui Vatican news, l’emittente on line di Radio Vaticana. Insomma, settant’anni al servizio della chiesa e centodue genetliaci sono eccezionali traguardi, e noi non possiamo che felicitarci con un salentino grande nel mondo, come Padre Antonio.

Dialetti salentini: cazzafitta

di Armando Polito

La cazzafitta è ciò che in italiano si chiama intonaco, voce rispetto alla quale presenta una volta tanto, per quanto riguarda l’etimo, minore divagazione metaforica ma maggiore precisione tecnica, quasi una sintetica descrizione dell’operazione di cui l’intonaco è il risultato. Ma procediamo con ordine proprio da quest’ultimo dicendo che è da intonacare, che suppone un latino *intunicare, composto dalla preposizione in (da cui quella italiana)  e da tunica, veste di lana o di lino a maniche corte, lunga fino al ginocchio, di linea diritta, trattenuta in vita da una cintura, indossata sia dagli uomini che dalle donne in epoca greco-romana. Nel latino medioevale indica la veste sacerdotale e nella religione cattolica il camice bianco indossato dal laico che esercita funzioni di lettore, cantore o ministrante durante le funzioni. Molto probabilmente la voce intonaco è nata proprio in riferimento doppio alla tunica come vestito ma anche al suo colore.

Diversa è la storia etimologica di cazzafitta, voce presente nel vocabolario del Rohlfs, ma per la quale, stranamente, non viene proposto alcun etimo. Eppure e facilmente individuabile considerandola parola composta da cazza+fitta. Entrambi i componenti esistono, derivati dal latino, in italiano.

Cazza è un recipiente per fondervi i metalli o sinonimo di mestolo e in passato era il nome dello strumento di rame, a forma d’un grande cucchiaio (perciò detto anche cucchiaia o cucchiara) che serviva per introdurre la carica in fondo ai pezzi d’artiglieria. Cazza è fatta derivare dal latino tardo cattia, per alcuni connesso con il greco κύαϑος (leggi chiùathos) che significa coppa, tazza1. L’attestazione di cattia non son riuscito a trovarla da nessuna parte, ma il glossario del Du Cange registra alcuni lemmi che m’inducono a pensare che cattia sia un adattamento, arbitrario e per nulla scientifico, per giustificare la doppia z di cazza.

(CAZA Tipo di vaso o piuttosto cucchiaio per rimuovere la schiuma; in francese ecumoire2. Vedi cazia. Bertramo in Vita di S. Franca badessa tomo 3 aprile p. 384: divenuto cieco e liberato offrì una coppa e un secchio. Ibidem p. 398: al calderaio Polzagallo, mentre a Piacenza realizzava una coppa per l’acqua da versare sulle mani, toccò che etc. Ad un dottissimo editore pare opportuno che si scriva caza invece di cassa e che significa pelvi. Il significato va bene, ma non vedo perché si debba scrivere cassa invece di casa. In spagnolo cazo è un catino di bronzo di Cipro che comunemente chiamiamo casseruola. In italiano cazza, cazzuola per friggere, in francese friquet)

(CAZIA Lo stesso che caza2. Tipo di vaso. Anastasio Bibliotecario nelle Vite dei pontefici romani presso il Muratori tomo 3 p.188: Prendendo ciascuno una porzione di pane e una porzione di vino … nonché una coppa di companatico. Muratori invece di coppa pose carne, ma cazia è compatibile con un corretto significato. Ibidem p. 197 colonna 1 Vaso per colorare in argento rivestito d’oro, come è manoscritto. L’edizione a stampa legge Vaso per colare in argento rivestito d’oro. Vaso per colare, cioè ciò che in italiano si dice cazza, piccola brocca forata, in francese friquet, come già s’è detto in caza2. Vedi cazula)

(CAZULA Che cosa sia ce l’insegna l’Ordine ecclesiastico ambrosiano di Milano nell’anno 1130 circa, presso Muratori tomo 4 Antichità del medioevo italico colonna 869: Colui che ha la cura settimanale delle lampade porta … un vaso da cui cola il vino durante il sacrificio, e un calice, etc. Vedi catiola e cazia)

(CATIOLA Colatoio,come sembra, in francese couloire. ecclesiastico ambrosiano di Milano nell’anno 1130 circa, presso Muratori tomo 4 Antichità del medioevo italico colonna 873: Poi il suddiacono versa in un calice di oro per mezzo di un colatoio di argento dal calice dove è stato versato il vino delle offerte. Vedi più avanti cazula)

 

Se cazza per via di cattia ha posto un problema per il quale credo di aver trovato, se non la soluzione, quanto meno un’ipotesi della sua proposizione, per fitta il discorso si complica ma, alla fine, credo che si tratti di una questione di scelta.

Intanto, se cazza è sostantivo femminile, l’attributo fitta sarà anch’esso femminile. In italiano fitto può essere participio passato di figgere (da qui il valore aggettivale di pieno, zeppo, immaginando che le parti costituenti il tutto siano fissate, poste a brevissima distanza l’una dall’altra; da qui anche il valore sostantivato di fitto e del composto affitto, con riferimento alla fissazione del prezzo). Tutto questo dal latino fictu(m), Participio passato di figere che significa ficcare, con assimilazione –ct->-tt-. Figere, oltre a fictum, ha come participio passato anche la variante fixum, da cui l’italiano fisso e il latino medioevale fixare, da cui l’italiano  fissare.

Ma in italiano esiste anche la voce poetica obsoleta fitto, col significato di finto, falso, inventato. Anche questa voce deriva dal latino fictu(m), che, però è diverso dal precedente. Se, infatti, quello era da figere, questo è da fingere (c’è anche la variante finctum, da cui finto) che come significato di base aveva quello di modellare, dal quale poi si è sviluppato quello della voce italiana (per fingere bisogna modellare il viso in un certo modo; il calciatore o il pugile altre parti del corpo, per fingere di essere morti, tutto il corpo …).

Siamo arrivarti al dilemma finale: se cazzafitta non può significare cazza fissata  né cazza modellata è da ipotizzare una locuzione latina cazza ficta in cui cazza sia non nominativo ma ablativo strumentale, per cui la sua traduzione sarebbe fissata con la cazza o modellata con la cazza.

Per non farmi mancare nulla, poi, non mi sentirei di escludere che cazzafitta sia sempre parola composta, ma da due verbi (del tipo dell’italiano saliscendi, parapiglia e simili), cioè cazzare e fittare. Cazzare nel salentino è sinonimo di schiacciare e problematica appare in un primo momento la sua derivazione dalla voce marinaresca, che è dallo spagnolo cazar, che significa cacciare, ma considerando che cazar (al pari di cacciare) deriva da un latino *captiare frequentativo di càpere, che significa prendere, non mi sentirei di escludere a priori un riferimento all’atto dell’intonacatura che comporta prima, mediante fracassu4  lo schiacciamento della malta sul muro e (con sopravvivenza del dilemma precedente) la successiva fissazione (fitta da fictare, a sua volta da fictum di figere) o modellazione (fitta sempre da fictare, ma, questa volta da fingere).

A chi mi ha seguito fin qui la scelta e, eventualmente, la parola.  

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1 In italiano come termine tecnico ciato: specie di bicchiere o vaso metallico munito di un lungo manico, usato nell’antichità greca e romana per attingere il vino dai crateri.

2 Schiumarola.

3 Stesso etimo dell’italiano fracasso, che è da fracassare, probabilmente fusione dal latino frangere (da cui, tal quale, la voce italiana) e di quassare frequentativo di quater, che significa agitare, formatosi dal suo supino quassum). E queste azioni raramente sono silenziose, anche se nel caso di fracassu credo sia dominante l’idea dello spargimento della malta, come d’altra parte, nel nome italiano del fracassu salentino, cioè frattazzo o frettazzo che deriva da frettare, a sua volta da un latino *frictare formatosi dal supino frictum di fricare, dal quale con prostasi di s- intensiva (dal latino ex) è derivato l’italiano sfregare.

Gli Arcadi di Terra d’Otranto (19/x): Felice Zecca di Lecce, Tommaso Possente di Trepuzzi, Riccardo Mattei e Niccolò Arnone di Alessano

di Armando Polito

Quattro autori in un colpo solo, perché solo di qualcuno di loro son riuscito a reperire qualcosa, oltre  a scarne informazioni . Ho condensato il tutto nelle relative schede.

FELICE ZECCA

Nel volume IV dei cataloghi manoscritti dell’Arcadia custoditi nella Biblioteca Angelica di Roma, volume che si riferisce alla custodia di Michele Giuseppe Morei (dal 1743 al 1766), si legge: Altibio Elimeo, Felice Zecca da Lecce, dottore.

In Efraimo Chambers, Dizionario universale delle arti e delle scienze, Pasquali, Venezia, 1749, s. p. compare nell’elenco dei leccesi appartenenti alla Società Reale di Napoli con la dicitura: Il Signor Dottor D. Felice Zecca Med.

Per quanto riguarda il nome pastorale, se per Altibio mi sfugge qualsiasi riferimento, Elimeo potrebbe essere forma aggettivale dal greco  Ἐλιμία (leggi Elimìa), località della Macedonia.

Un suo sonetto è segnalato dal Dizionario biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, Lacaita, Manduria, 1999 in Raccolta di componimenti de’ signori accademici Spioni di Lecce composta in occasione della natività del serenissimo primogenito reale infante D. Filippo. Intitolata alla maestà di Carlo Borbone dall’illustriss. signor D. Domenico Maria Guarini patrizio, e general sindaco della città di Lecce, Viverito, Lecce, 1747. Del volume l’OPAC registra l’esistenza di due soli esemplari: uno, mutilo, è custodito presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce, l’altro presso  la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli. Lascio a qualche volenteroso lettore quel controllo diretto che non mi è stato possibile fare e ringrazio anticipatamente chi vorrà comunicarne l’esito e, eventualmente, trasmettere il testo del sonetto.

 

TOMMASO POSSENTE

In Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 363 si legge: Larisbo Zanio. Il Padre Agostino di S. Tommaso d’Aquino Procuratore generale de’ Cherici Regolari delle Scuole Pie, al secolo Tommaso Possente da Trepuzzi. Colon(ia). Mar(iana). Viene riportata a margine come data di ingresso nell’Arcadia il 27 novembre 1704. La colonia Mariana fu fondata nella Religione dei Chierici Regolari delle Scuole Pie l’8 novembre 1703. Il suo motto era: Hinc satur (Da qui sazio).

Per Larisbo non ho individuato nessun possibile riferimento, mentre Zanio potrebbe essere una forma aggettivale da Ζάν/Ζανός (leggi Zan/Zanòs), forma dorica per Ζήν/Ζηνός (leggi Zen/Zenòs) che significa Zeus.

RICCARDO MATTEI

In Comentari del Canonico Giovanni Mario Crescimbeni Custode d’Arcadia intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, volume IV, p. 376 si legge: Darelmo … Il Dottor Riccardo Mattei d’Alessano.

I puntini di sospensione dopo Darelmo significano che la seconda parte del nome pastorale (che di solito contiene un riferimento toponomastico) non risulta assegnata. Ma per Darelmo mi sfugge qualsiasi possibile riferimento.

Il Dizionario biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, op. cit. segnala tre suoi sonetti: uno in Oronzo Carro, L’ Accademia degli spioni di Lecce, Chiriatti, Lecce, 1723, p. 15 e gli altri due in Pompa accademica celebrata nel dì orimo d’ottobre natale dell’Augustissimo Imperadore Carlo VI di Spagna per l’anno MDCCXXI, Nuova stampa del mazzei, Lecce, 1721, pp. 64-65. Della prima opera l’OPAC registra l’esistenza di un solo esemplare presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e, per i motivi già addotti per Felice Zecca, confido nell’aiuto di qualche volenteroso lettore. La rete, invece, mi consente di riprodurre quanto contenuto nella seconda.

Colmo d’alta letizia il giorno riedea,

che a noi refulseb d’almac luce, e pura,

CARLO nascendo, a cui l’eterna cura

de l’Iberiad, e Germania il freno diede.

Dì tu Signor, che d’invincibil fede

armato reggi, ed è nostra ventura,

Lecce, l’illustri, ed all’età futura

fai gire la gloria sua, ch’ogn’altra eccedef.

Ben n’avrai mertog egual, che l’oprah è tale,

che non teme del tempo ingiuria, ed ira,

ma sarà sempre chiara, ed immortale.

Un sì bel dì per te sia sacro al Tempio

del’onore, e fin dove il Sole gira

giungerà di tua Fede un vivo esempio.

_____________ 

a ritorna

b brillò

c nobile

d Spagna

e avanzare

f supera

g merito

h impresa

  

Signor vorrei in queste selve anch’io

cantar le lodi di sì lieto giorno,

che nascer vide d’ogni grazia adorno

CARLO de’ regni suoi dolce desio.

Ma non s’erge tant’alto il canto mio,

che solo il gregge a questa valle intorno

ode pascendo, e quando ei fa ritorno

al chiuso loco, onde il mattino uscìo,

bensì là dove il bosco in più segreta

parte, raccoglie de’ silvestri Dei,

la turba, e delle Ninfe il sacro coro.

Pregarò, ch’al mio Regea, offrendo loro

sovraa rustico altare i voti miei

ogni ventura sia felice, e lieta.

__________

a re

b sopra

 

NICCOLÒ ARNONE

In Comentari del Canonico Giovanni Mario Crescimbeni Custode d’Arcadia intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, volume IV, p. 376 si legge:  Democle … Niccolò Arnone d’Alessano.

Democle potrebbe essere connesso con il greco Δημοκλῆς (leggi Democlès), variante di Δαμοκλῆς (leggi Damoclès), cioè Damocle, il cortigiano di Dioniso II di Siracusa,  che per aver adulato il suo signore fu da questi  fatto sedere sul proprio trono con sul capo sospesa una spada retta solo da un crine di cavallo, perché capisse i pericoli incombenti sui regnanti.

(CONTINUA)

Per la prima parte (premessa): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/       

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/    

Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  

Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/  

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/ 

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 

Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/ 

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/

Per la diciassettesima parte (Filippo De Angelis di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/24/gli-arcadi-di-terra-dotranto-17-x-filippo-de-angelis-di-lecce/

Per la diciottesima parte (Mauro Manieri di Lecce) https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/02/gli-arcadi-di-terra-dotranto-18-x-mauro-manieri-di-lecce/

 

Michelangiolo Ruberti di Alessano e il vitello a due teste

di Armando Polito

Figlio di Francesco, fu avviato dal padre alla carriera medica insieme col fratello Domenico. S’ignora la data di nascita che, comunque, dovrebbe collocarsi nel secondo decennio del XVIII secolo. Lo si deduce dal fatto che in Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, a p. 555 si legge che Francesco convinse pure Lazzaro Presta ad avviare agli studi medici il figlio, Giovanni, che sarebbe diventato famoso1, nato a Gallipoli il 24 giugno 1720.

Michelangelo si trasferisce nel 1733 a Napoli per frequentare i Regi Studi e consegue il dottorato nel 1741, anno pure del suo matrimonio con Marianna Angela Geronima De Cristoforo, che gli darà otto figli, cinque maschi (Francesco, Domenico, Gaetano, Ferdinando e Giacinto) e tre femmine (Teresa, Agnese e Anna Maria). Morì nel 1776.

Già nel corso degli studi universitari aderì all’Accademia delle Scienze (o Accademia Reale) voluta e poi sostenuta dal re Carlo di Borbone, anche se eccessivamente desolante appare il quadro della cultura napoletana di quel periodo tracciato da Michelangelo Schipa in Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Luigi Pierro e figlio, Napoli, 1904. Certamente non antiquato, poi, cioè legato alle vecchie teorie, poteva essere definito il nostro, convinto gassendiano2 e tra i fautori della variolizzazione o vaiolizzazione3, metodo di protezione dal vaiolo adoperato prima della vaccinazione di Edward Jenner del 1796. Il re Carlo faceva sottoporre allo studio dei luminari dell’accademia alcuni degli esemplari più rari di animali che giungevano alla sua corte. Nel 1744 giunse dalla Calabria  un esemplare di vitello malformato nato morto. L’osservazione anatomica venne affidata proprio a Michelangelo ed essa divenne una lezione pubblicata l’anno successivo. Di seguito l’antiporta (un’incisione di Filippo De Gado4) e il frontespizio.

Nella Lezione il nostro  dopo un’accurata descrizione  (uno era il collo, uno il fegato, il pancreas, il cuore, una spina, e tutto uniforme, e proporzionato ad un solo compiuto animale. Tutta la mostruosità mecanica si osserva nel capo, quivi essendo perfettamente addoppiato5) e dopo aver rilevato l’impossibilità fisiologica della sopravvivenza (Di qui è, che somiglianti Mostri, o nascono estinti, come avvenne al nostro Vitello, o per poco tratto di tempo sogliono sopravivere6) si poneva una domanda e la relativa risposta (Ma qual erroneo, e vano disegno sarebbe stato quello della Natura, l’aver fatto macchine, che non possano conservarsi, che non reggono, o conducono a qualche fine, e che alle vere, ed armoniche leggi della medesima si ravvisa intieramente contrario? Sarebbe invero riputato stupido, e dappoco quell’Artefice, il quale sapendo a fondo il mestiere, che ha tra le mani, facesse ogni sforzo, ed impiegasse tutta la diligenza a fare artificiosamente scomposti, e mal connessi i quotidiani lavori.7). E subito dopo la conclusione (Rimane adunque a riguardare le macchine mostruose, come opere miserabili, ed imperfette della Natura da non poche accidentali cagioni attraversata, e interrotta …7).

La Lezione di Michelangelo dette subito vita ad un ampio dibattito con posizioni, prima ancora che scientifiche, filosofiche e, direi, nell’ultima testimonianza, religiose.

Dal Giornale de’ letterati per l’anno MDCCXLVI, Fratelli Pagliarini, Roma, 1746, riporto integralmente in formato immagine le pp. 26-29 perché il lettore prenda contezza, senza interferenze, di quella che è una recensione dettagliata ma che, secondo me, decisamente esagera nelle battute finali in cui svilisce la posizione del Ruberti riducendola sostanzialmente ad un plagio.

Da Novelle letterarie, Stamperia della SS. Annunziata, Firenze, tomo VII, 1746, colonne 406-407.

Se nella recensione precedente l’appunto finale è al Ruberti, qui ad essere accusato, tutto sommato, di presunzione e saccenteria è chi con lo pseudonimo di Lemuel Gulliver8 pubblicò l’opera, della quale segue il frontespizio (assenti nome dell’editore, del luogo e la data).

 

Integralmente leggibile al link https://books.google.it/books?id=oDpfAAAAcAAJ&pg=PA40&lpg=PA40&dq=lezione+su+d%27un+vitello+a+due+teste&source=bl&ots=zrxfIBRSuF&sig=ACfU3U32SlZ0sYArCWWVaax1R27PFn74lA&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwj77LGK8J3mAhWHjKQKHa3oA1IQ6AEwAHoECAUQAQ#v=onepage&q=lezione%20su%20d’un%20vitello%20a%20due%20teste&f=false, riporto l’inizio dell’opera dell’alessanese e di seguito di quella del suo critico perché il lettore si renda subito conto di qual è il registro di quest’ultima (a meno di una riga della prima, puntualmente citata, corrispondono, a mo’ di commento, ben tredici della seconda, delle quali la prima è in latino (citazione da Orazio, Ars poetica, 139: Parturient montes, nascetur ridiculus mus=Partoriranno i monti, nascerà un ridicolo topo).

L’opposizione più decisa al pensiero dell’alessanese , senza, però, che nome ed opera fossero citati, venne da un illustre collega napoletano ma oriundo calabrese: Gioacchino Poeta (1685 circa-1752), che ricoprì per quasi vent’anni la prestigiosa cattedra primaria di medicina pratica, ma si distinse anche nella poesia (fu membro dell’Accademia dell’Arcadia col nome pastorale di Clealgo Argeateo) e la filosofia.

Lo fece in Che la natura nell’ingeneramento de’ mostri non sia né attonita, né disadatta né i poeti gli finsero per calda, ed altera fantasia ma per uso d’artificiose allegorie, Naso, Napoli, 1747.

Dopo essersi soffermato su diversi esempi di esseri mostruosi (tra cui il vitello a due teste giunto dalla Calabria), il Poeta osserva genericamente: Ver’è ch’a noi, che non abbiamo la mente a guisa della volontà, ch’è infinita nelle sue voglie, ma corta, e picciola, e non molto feconda nel concepire, non è permesso il conoscere, se l’addoppiamento delle macchine simili, e di struttura, e d’usi uniformi nel corpo dell’uomo, e degli animali sia fatto dalla stessa natura per miglioramento d’alcune azioni, ed usi di quelle, ed il diminuimento per minore speditezza, e perfezion delle di lor particolari azioni9. E questa concezione finalistica emerge ancor più chiaramente quando conclude: Dico, che per le cose dianzi dimostrate non puossi corpo d’uomo, o d’animale chiamar deforme, e mostruoso, avendo gli organi, o macchine simili, ed uni formi di struttura sddoppiate, o diminuite nel lor numero, e non secondo la consueta sua organizzazione rizzate per colpa, o mal’oprare dell’imperfetta natura; ma ‘l difetto è nostro di non saper di sì strane macchine comprender’il mirabil magistero10.

Con tutto il rispetto per l’illustre medico (ma, non citando il nostro non si mostra più spocchioso del sublime Lemuel Gulliver?), mi chiedo se oggi, tornando in vita e prendendo atto delle mostruosità (comprese, a monte, le mutazioni genetiche) indotte dall’inquinamento ambientale, si schiererebbe, magari, a fianco di chi nega spudoratamente, anche di fronte a dati statistici schiaccianti, il rapporto causa-effetto, scaricandone la responsabilità su quel Dio in cui crede e mettendone in campo l’imperscrutabilità della volontà.

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1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

2 Pierre Gassendi (1592-1655) combattè l’aristotelismo ed in generale il pensiero metafisico, rivalutando il metodo sperimentale  come unico processo di conferma di qualsiasi teoria scientifica.

3 Inoculazione nel soggetto da immunizzare di materiale prelevato da lesioni vaiolose di pazienti non gravi.

4 Il più famoso di una famiglia di incisori. Suoi, fra gli altri, sono in Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni, Successore al Mascardi, Roma, 1728, i ritratti e le due tavole anatomiche di seguito riprodotte.

5 p. 3.

6 p. 4.

7 p. 13.

8 È il nome del protagonista de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1667-1745); il nome del personaggio venne a lungo scambiato per quello dell’autore.

9 p. 33.

10 p. 35.

Dal Fanfulla a Quinto Ennio, nel segno di Antonio Bortone

di Paolo Vincenti

Nel 2012, nella leccese Piazzetta Raimondello Orsini, venne inaugurata la restaurata statua del Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938), famoso scultore ruffanese trapiantato a Firenze. L’intervento di restauro, voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce, è stato effettuato grazie ad un finanziamento del Lions Club Lecce. Questo monumento, modellato in gesso a Firenze dallo scultore salentino nel 1877, venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Inizialmente collocata a ridosso di Palazzo Carafa, la statua venne poi trasportata nella collocazione attuale.

Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII. La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della Disfida di Barletta, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.

Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.”[1]

Il personaggio di Fanfulla da Lodi è tratto dal romanzo di Massimo D’Azeglio Ettore Ferramosca, o la disfida di Barletta del 1833 (incentrato sulla contesa fra tredici cavalieri italiani e tredici francesi, combattuta nelle campagne pugliesi nel 1503), e poi dal successivo Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni del 1841, ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530.

Dovuta quindi all’ingegno creativo di Antonio Bortone, “il Mago salentino dello scalpello”, come ebbe a definirlo il prof. Brizio De Santis, la statua del Fanfulla campeggia nel bel mezzo di una caratteristica piazza, nel cuore del centro storico di Lecce. Ma l’iter della statua per essere collocata in questa piazza è molto più lungo e tortuoso. Scrive in merito Giovanna Falco: “Le traversie di quest’opera non finiscono qui: sono state raccontate da Teodoro Pellegrino in La vera storia del Fanfulla.  Durante la lunga permanenza a Firenze, il gesso rischiò di essere distrutto, lo salvò Brizio De Sanctis, preside dell’Istituto Tecnico leccese, che si prodigò affinché fosse trasferito a Lecce. Qui, grazie all’intervento di Giuseppe Pellegrino, grande estimatore di Bortone, nel 1916 la scultura fu donata al Museo Civico di Lecce (all’epoca alloggiato nel Sedile).

Rimandata a Firenze per essere fusa in bronzo, nel 1921 fu inaugurata e sul basamento fu apposta la targa commemorativa scritta da Brizio De Sanctis. La statua, destinata originariamente all’atrio dell’Istituto Tecnico, fu collocata nello slargo delle ‘Quattro Spezierie’, di fronte a Palazzo Carafa, poi fu trasferita nel «ridente giardinetto della P. Raimondello Orsini», da dove fu rimossa per essere sistemata lungo il viale principale della Villa Comunale di Lecce. In occasione dell’inaugurazione del Museo del Teatro Romano, avvenuta l’11 settembre 1999, l’Amministrazione Comunale dell’epoca ha deciso di sistemare nuovamente il monumento in piazzetta Raimondello Orsini, collocandolo al centro di un’aiuola.”[2] Grazie ad un sapiente intervento di restyling ora la statua splende di nuova luce.

Sempre Giovanna Falco, nel succitato articolo, scrive: “Nel 1913 fu inaugurato in piazza Sant’Oronzo il monumento a Quinto Ennio, che sorgeva di fianco all’inferriata che cingeva la porzione dell’Anfiteatro Romano riportata alla luce in quegli anni. Era formato da «un basamento sul quale si eleva una colonna prismatica ed un’aquila romana poggia sopra fasci littorii»; l’aquila in bronzo si ergeva su una pergamena recante uno scritto del grande poeta romano.” [3]

Proprio negli stessi giorni dell’inaugurazione del Fanfulla, infatti, ricorreva il primo centenario del monumento a Quinto Ennio, dovuto sempre ad Antonio Bortone; e infatti Aldo de Bernart, ricordando quell’evento, in una sua plaquette del 2012,[4] si soffermava sulla figura del grande poeta latino Quinto Ennio, pubblicando una foto d’epoca nella quale compare ancora la statua sormontata dall’aquila. Come ricorda Giovanna Falco, “in occasione dell’ultimo conflitto mondiale l’aquila fu fusa per costruire armi”.[5] Stessa sorte capitata a molti altri monumenti di Terra d’Otranto, in alcuni casi orrendamente mutilati. Il monumento, in pietra di Trani, ornato da un fascione in bronzo finemente scolpito, si trova vicino l’Anfiteatro Romano ed è stato molto ammirato e visitato da studiosi ed amanti dell’arte, soprattutto in occasione del doppio evento del restauro del monumento del Fanfulla e dell’anniversario del monumento a Quinto Ennio.

Lo scultore Antonio Ippazio Bortone, nato a Ruffano, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alla facciata di Santa Maria del Fiore, per la quale realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887), oppure al Michele di Lando (1895), nella Loggia del Mercato Nuovo. Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce;  i busti in marmo di Giulio Cesare Vanini (1868), di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, e il Monumento a Sigismondo Castromediano (1903), nella omonima piazzetta leccese; il Monumento a Francesca Capece (1900) a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina, e molte altre.

 

L’estensore di questo articolo ha recentemente pubblicato sulla rivista “L’Idomeneo” un saggio in cui attribuisce ad Antonio Bortone una statua inedita, in marmo bianco di Carrara, intitolata The Girl Knitting For the Front, che si trova nella cittadina di Christchurch, in Nuova Zelanda, e che viene censita per la prima volta. Attraverso la stampa neozelandese dell’epoca e un’indagine ad ampio raggio della produzione bortoniana, dello stile e dei rapporti personali e professionali dello scultore, ricostruisce la genesi ed il lungo percorso fatto dalla statua.[6]

 

[1] ALDO DE BERNART, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, a cura dell’Amministrazione Comunale, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004, pp.5-10.

[2] GIOVANNA FALCO, Fanfulla da Lodi e altre opere leccesi di Antonio Bortone, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/11/fanfulla-da-lodi-ed-altre-opere-leccesi-di-antonio-bortone/

[3] Ibidem.

[4] ALDO DE BERNART, Nel primo centenario del Monumento di Antonio Bortone a Quinto Ennio, Ruffano, Tipografia Inguscio -De Vitis, 2012. Sull’erudito ruffanese Aldo de Bernart, si veda: PAOLO VINCENTI, Aldo De Bernart: Profilo biografico ed intellettuale, in AA. VV., I luoghi della cultura e cultura dei luoghi, In memoria di Aldo de Bernart, a cura di FRANCESCO DE PAOLA e GIUSEPPE CARAMUSCIO, Società Storia Patria, sezione Lecce, “I Quaderni de L’idomeneo”, n.24, Lecce, Grifo, 2015, pp.11-38.

[5] GIOVANNA FALCO, Ivi.

[6] PAOLO VINCENTI, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria Lecce- Università del Salento, n.26 -2018, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp.247-282.

 

Gli Arcadi di Terra d’Otranto (18/x): Mauro Manieri di Lecce

di Armando Polito

Nacque a Lecce nel  1687 da Angelo, medico e letterato originario di Nardò, e da Maria Grismondi.  Utriusque iuris doctor1, è più noto come architetto, meno come pittore, meno ancora come letterato, il che sicuramente è legato all’intensità con cui si dedicò ai vari settori. Per questo non stupisce che del letterato, come vedremo, non ci è rimasto quasi nulla, nonostante un altro arcade leccese, Domenico De Angelis, in una lettera al marchese Giovanni Giuseppe Orsi di Bologna, pure lui arcade (nonché accademico della Crusca e dei Gelati) col nome pastorale di Alarco Erinnidio, lo definisca come giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine e nonostante fosse membro dell’Accademia degli Spioni2, fondata, con altri, dal padre nel 1683.

In Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 370 si legge: Liralbo …. D. Mauro Manieri Leccese e come data d’ingresso nell’Arcadia il 19 aprile 1708. Evidentemente alla data del 1711 non gli era stata ancora assegnata la seconda parte del nome pastorale, cioé Fereate come risulta nei suoi (del Crescimbeni) Comentari intorno all’Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, p. 397. Se per Liralbo non ho proposte, Fereate potrebbe essere una forma aggettivale connessa con il greco Φεραῖος (leggi Feràios), che significa di Fere, città della Tessaglia.

Un suo epigramma costituito da due distici elegiaci è in Pompa accademica celebrata nel dì primo d’ottobre natale dell’augustissimo imperadore Carlo VI re di Spagna per l’anno MDCCXXI nella sala del castello di Lecce da D. Magin De Viles preside di questa provincia consagrata all’eminentis. principe Michele Federico del titolo di S. Sabina Prete Cardin. de’ Conti d’Althann, Nuova stampa del Mazzei, Lecce, 1721, p. 56.

Austriacis CAROLI Lux aurea condita fastis

nascere, et aeternum concolor inde redi.

Audior, Alma nites Magnum Imperii incrementum

et laevum nobis Juppiter intonuit 

(O luce aurea dell’austriaco Carlo, nasci fondata sui fasti e da lì ritorna dello stesso colore come cosa eterna. Sono ascoltato: tu risplendi nobile come grande incremento dell’Impero e per noi Giove ha tuonato propizio) 

Per tradizione indiretta, come spesso è successo per tante opere perdute, ci è giunto un frammento di un’elegia in lode di Fabrizio Pignatelli, che fu vescovo di Lecce dal 1696 al 1734: due distici elegiaci citati da Iacopo Antonio Ferrari, Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1728, p. 6. 

Quid referam heroas naturae arcana secutos,

qui rerum ignotos explicuere sinus

quique novo caecosa explorant lumine causas,

auspicio doctos, te praeunte, gradus.

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a Errore per caecas.

(Perché dovrei ricordare gli eroi che hanno indagato i misteri della natura, che hanno spiegato gli ignoti cuori delle cose e quelli che con nuova luce esplorano le cieche cause, passi insegnati con autorità sotto la tua guida)

Sicuramente dopo gradus o più avanti questa parte dell’elegia, che probabilmente è l’incipit, doveva concludersi con il punto interrogativo. Gli eroi sono i membri dell’accademia degli Spioni, con riferimento ai loro interessi culturali, che erano prevalentemente quelli scientifici e filosofici. La guida è quella del vescovo e sicuramente l’elegia fu scritta dopo il 24 aprile 1719, quando il prelato rientrò in Lecce da cui si sera allontanato per Roma, su ordine del viceré, nel 1711 a causa di grandissimi contrasti con l’Università.

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1 Dottore in diritto civile e canonico.

2 Vedi  Archivio storico per le province napoletane, Giannini, Napoli, 1878, anno III, fascicolo I, pp. 150-153.

 

Per la prima parte (premessa)https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/       

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/    

Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  

Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/  

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/ 

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 

Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/ 

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/

Per la diciassettesima parte (Filippo De Angelis di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/24/gli-arcadi-di-terra-dotranto-17-x-filippo-de-angelis-di-lecce/

La pittoscultura di Pasquale Pitardi

di Paolo Vincenti

Cursi, pochi chilometri da Maglie, è la patria delle cave di pietra ed è anche la patria di Pasquale Pitardi, che però vive a Galatina, “poliedrico artista informale nell’anima e nei fatti”, come scrivono di lui, spinto da quella irrequietezza un po’ randagia, che forse è propria di tutti i creativi. Ma i viaggi di Pitardi, oltre che nelle dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro, sono viaggi nel colore, nella materia, nella libera creazione fantastica.

“Pittoscultografia” è il neologismo coniato per definire l’arte di Pitardi, o quello che è oggi l’approdo dell’arte di Pitardi. Infatti, l’artista, che provava un senso di profonda insoddisfazione misto alla curiosità e alla voglia di intraprendere nuovi percorsi, ha iniziato a scomporre le sue opere e dalla bidimensionalità, tipica do ogni dipinto, è approdato alla tridimensionalità di quelle che sono oggi le sue pennellate di colore che, come variopinte tavolette votive, si accumulano nella sua casa laboratorio, oppure nelle mostre alle quali partecipa.

Partendo dalla acquisita consapevolezza che la pittura è finzione, e che come tale non lo appagava più, Pitardi ha iniziato a staccare questa pittura dai suoi canonici supporti, a scomporre l’opera d’arte visiva quadro, e a cercare sfondo per le sue pennellate di colore nei materiali più disparati, dal legno alla plastica, che danno comunque al fruitore la percezione tattile di un corpo tridimensionale che fa tabula rasa di ogni menzogna immaginativa, di ogni illusione ottica quale è, fra chiari e scuri, il quadro tradizionalmente inteso.

Per le sue opere, usa acrilico e pennelli di tutte le dimensioni ed offre così al visitatore un’esperienza singolare, perché i suoi prodotti artistici sono tutti originalissimi in quanto pezzi unici, non riproducibili, sfuggono alle omologazioni, a qualsiasi catalogazione. “Sono lì, si vedono, si toccano, hanno la dimensione che è sotto gli occhi di chi guarda; non ci sono illusioni ottiche, non ci sono giochi di prospettive e chiaroscuri ingannevoli, niente è diverso da ciò che colpisce i sensi del visitatore. Non si compongono in immagini. Possono suscitare sensazioni di piacere o di rifiuto, questo importa poco. Non hanno messaggi o significati da trasmettere.

Sono colore puro e sconvolgono con la loro urgenza fisica, con il loro nonsenso”, scrive Maria Rosaria Cesari, in uno dei tanti blog on line sulle mostre del Pitardi. Pasquale Pitardi è stato vincitore a soli 16 anni del concorso di disegno pubblicitario promosso a Milano dalla casa editrice Aldo Palazzi.

Fino al 1986, ha lavorato presso il centro stile design della Fiat, Torino, ma poi ha abbandonato tutto ed è tornato nel Salento, a Galatina, per dedicarsi alla sua arte. Ha tenuto numerose mostre, fra le quali ci piace ricordarne alcune. Nel novembre 1997, presso l’Associazione culturale Amaltea, Lecce, presenta “Differendo. Personale di pittura”. Dal 3 al 21 dicembre 2005, tiene a Lecce, presso i Cantieri Teatrali Koreja, la mostra “Nulla da dipingere: nulla da scolpire”. Una personale, “L’Opera,”, a Spoleto, dal 18 agosto all’8 settembre 2007.

Questo “smontare l’opera pittorica” diventa un po’ la cifra distintiva di Pitardi. Nell’agosto del 2008, a Gagliano del Capo, partecipa alla mostra collettiva su Vincenzo Ciardo. Scrive Massimiliano Cesari, in occasione della “Mostra Bellomo Luchena Pitardi” (che si tiene nell’aprile 2002 a Soleto presso l’Opera Pia ): “E’ apparentemente difficile collocare la produzione artistica di Pasquale Pitardi all’interno di una categoria delle arti figurative, così come la tradizione artistica spesso pretende, e pericolosamente realizza.

L’artista, e lo posso affermare senza perplessità, vive la sua ricerca in una fluttuante zona di frontiera, dove il bidimensionale (allegabile alla pittura su un qualsiasi supporto) si plasma con la tridimensionalità, ricca di vuoti e pieni, della scultura (praticata in maniera quasi classica), alla ricerca del genere artistico universale e completo, lontano dalla contemporanea e diffusa concezione autoptica che comunemente si ha.

E’ una lotta che Pitardi conduce incessantemente con consapevolezza, cosciente dell’importanza che essa detiene su se stesso e che gli permette, attraverso continui impulsi vitali, di concretizzare le ricerche e le sperimentazioni ‘pittografoscultoree’. Una lotta generatrice, quindi, paradossale per certi versi, ma evidentemente emblema di un disagio ricollegabile ad una collettività sempre più distante e sprezzante, nei confronti di chi pratica arte: l’artista ha un bisogno costante, quasi spasmodico, di dialogare con chi si pone davanti all’opera; egli rivendica con forza il ruolo di catalizzatore tra i messaggi figurativi e il comune fruitore, cercando di scuotere e di invadere la coscienza estetica del pubblico”. (pubblicato in Massimiliano Cesari, Bellomo-Luchena-Pitardi: tre percorsi contemporanei, in «Note di Storia e Cultura Salentina»,n.17, Lecce, Grifo 2005, pp. 256-257).

Nel 2011 espone presso la Mediateca Comunale di Melpignano “Peppino Impastato”, con la mostraPittoscultografica” l’opera”, curata dalla coordinatrice della Mediateca Ada Manfreda. Qui ha esposto ben 5000 pennellate, mentre nell’ex Convento degli Agostiniani una tela bianca di 570 metri x 146 centimetri e nell’ex Manifattura Tabacchi 39 contenitori. Infatti, negli ultimi tempi Pitardi cerca di distanziare quanto più possibile il contenuto della sua opera dai contenitori, fino a realizzare, ci confessa, il sogno impossibile di distanziarli quanto l’intera circonferenza della Terra.

Come scrive Salvatore Colazzo in I colori caduti. La pittoscultura di Pasquale Pitardi ( pubblicato in “Amaltea”, trimestrale di cultura on line, dicembre 2010, e in “Il Paese Nuovo”, Lecce, sabato 16 aprile 2011), “parlando dell’inaugurazione della mostra ( “La pittoscultura di Pasquale Pitardi”, Galatina, Galleria D’Enghien, 1-30 novembre 2010) l’artista ha tenuto a ribadire la sostanziale identità tra il gesto del pittore e quello dell’imbianchino […] E’ molto concettuale l’idea di materializzare una pennellata e metterla in mostra […] Concettuale è pure l’idea di gettar giù dalla torre di Pisa piuttosto che dal Campanile di San Marco che dal Duomo di Lecce secchiate e secchiate di colori, come fossero coriandoli, solidificati”.

C’è da aspettarsi dunque nuove spiazzanti realizzazioni da questo poliedrico artista dai lunghi capelli contenuti da un cerchietto e dalla bianca barba che lo fanno simile ad un santone indiano oppure ad un mitologico sileno salentino.

Angelo Gorgoni (1639-1684) di Galatina e una stroncatura forse immeritata (2/2)

di Armando Polito

Dopo aver passato in rassegna i componimenti dedicati, a parte il primo, agli animali, in cui i riferimenti al mito trovavano diffuso albergo secondo il metaforico gusto dell’epoca, passo a quelli in cui il Gorgoni  si misura con problemi esistenziali o fenomeni con cui l’umanità è destinata a confrontarsi fino, probabilmente, alla sua estinzione.

 

(pag. 81)

La Morte 

Senza  penne son vento; à scherno hò l’ali,

e ‘l tutto in brieve punto lascio ucciso.

Le Bare elette ad egria funerali.

per carri eleggo dove trionfo à riso.

Pioggie di sangue, e grandini di strali

ovunque giungo, ovunque approdo avisob;

e degli spirti altrui spoglie fatali

empio l’Inferno, e colmo il Paradiso.

Mi porge il Tempo tributaria usura;

già potendo fermar l’Orbe retondo

come estinto l’inceptoc in sepoltura.

Ogni cosa creata in Lethed affondo;

sotto i miei colpi ha da spirar Natura,

Iddio produsse, ed io rovino il mondo.

________

a tristi

b annuncio

c ciò che si è iniziato

d Fiume dell’oblio nella mitologia greca e romana; da λανθάνω (leggi lanthano)=nascondere.

 

(p. 82)

La Politica

Se’ tutto il Mondo à gli miei gesti intento,

sovra tutti i Monarchi impero a pieno.

Chi de’ Statuti miei s’avanta alienoa

voli tra Selve à pasturar l’Armento.

Scovro grandezze, che non regna argento,

con astutie à gli Regni io reggo il freno.

Fingo, che sorda sono, ò cieca almeno,

s’à punire non vaglia un tradimento.

Più nelle Reggie, che ad altrove hò loco.

Dall’apparenze mie nasce il livore;

quando è tempo di pianto, io mostro il gioco.

É delle leggi mie queste il tenore:

d’ogni perdita vasta io narro il poco,

de’ trionfi minuti, il più maggiore.

_________

a Chi si vanta di essere estraneo alle mie direttive

 

(p. 98)

Per l’uso delle perucche, frequentato dal vano secolo 

Da mentitea à Natura un lusso vano,

che l’huomo accusa effiminato, e molle.

Ebro sì secolo rio, pregiasi invano,

mentre ciocche insensate Aurab l’estollec.

Braccio, che non di spada arma la mano,

almad,che non guerreri ordigni volle:

per lascivetto crin, pensiero insano,

l’accende i fasti, e vanità già bolle.

Censurata livrea, vile ornamento,

hor i petti virili abbaglia a torto,

tesor, ch’odia fortuna, e furae il vento.

Ecco, chi non dirà con senso accorto,

che l’huomo forte, divenuto lento,

oggi per Nume adori il crin d’un morto?

__________

a cose finte

b il vento

c solleva

d anima

e ruba

 

(p. 131)

Forza dell’eloquenza

Tutto può, tutto fà, lingua loquace,

qualor con salia à lusingarti viene,

pretenda Ulisse, e benche erede è Aiace,

perche l’armi d’Achille, e Ulisse ottiene.b

Vinca Reina, in libertade, in pace

senza leggi tiranne, e senza pene:

e ‘l gran Periclec, nell’orar fugaced,

libera, indusse in servitude, Atene.

Eloquente spergiuro Acheo Sinone,

seppe sì dir, che la Troiana plebe

chiuse il greco destriero entro Ilione.e

Folef son poi, che le marmoree Glebe

con la lira tirò g, mentre Anfione

con l’eloquenza fè le mura a Tebeh.

_________

a arguzie

b Allusione alla contesa tra Aiace ed Ulisse per l’attribuzione delle armi di Achille, con il tragico epilogo celebrato da Sofocle nell’omonima tragedia.  Dopo che Ulisse viene giudicato più degno di lui di prenderle in consegna, Aiace medita la vendetta ma la dea Atena gli toglie il senno, per cui egli compie azioni indegne di un guerriero. Ritornato in sé, per la vergogna si uccide.

c Politico, oratore e militare ateniese del V secolo a. C; la sua azione politica non ha mai trovato valutazione concorde tra gli studiosi, considerandolo alcuni un liberale, altri un semplice populista. Già lo storico Tucidide (V-IV secolo a. c.), che pure era un suo ammiratore, in Storie, II, 65 così si espresse: Ἐγίγνετότε λόγῳ μὲν δημοκρατία, ἔργῳ δὲ ὑπὸ τοῦ πρώτου ανδρὸς ἀρχή (Era a parole una democrazia, nei fatti il potere era sotto il primo uomo). Il Gorgone sembra aderire a questo giudizio.

 

d veloce, abile nell’arte oratoria

e Sinone si lasciò appositamente catturare dai Troiani e riuscì a convincerli ad introdurre dentro le mura di Troia (Ilio>Ilione) il famoso cavallo di legno.

f favole, qui, però, non in senso dispregiativo ma in quello di racconti mitici.

g Orfeo con la sua cetra faceva muovere alberi e pietre (marmoree glebe), fermava i fiumi e ammansiva le belve.

h Anfione per la costruzione delle mura di Tebe utilizzò le pietre del Citerone spostandole con il suono della lira donatagli da Ermes.

 

Il prossimo sonetto che leggeremo è un’insolita, per quei tempi, dichiarazione d’indipendenza. Malizia mi suggerisce di chiedermi quale sarebbe stata la dedica, vista quella che suo fratello indirizzò, quattro anni dopo la sua morte, a Francesco Maria Spinola (1659-1727), che tra i tanti titoli, riportati nel frontespizio, deteneva anche quello di duca di S. Pietro in Galatina. Scrive, fra l’altro, Giovanni Camillo trattarsi di un attestato di antica e cordiale osservanza, il che fa pensare ad un rapporto datato, cosa confermata quasi in conclusione, dove si legge: Felicissima dunque s’appelli S. Pietro Galatina mia Patria, di cui è meritevolissimo Duca. Per esserle toccato in sorte di havere sì Nobile, Valoroso, Virtuoso, e Benigno Padrone. E d’ogni invidia degna si stimi la mia casa, con occhio cortese sempre da sì sublimi Padroni, e rimirata, e protetta. Le raccordo per fine, e protesto, che nella Schiacchiera, glorioso Stemma del suo gran Casato, ove si mira, et ammira l’apparato di tanti varii Personaggi, saranno sempre i Gorgoni le pedine, e pedoni a piedi suoi posti, e prostrati. Sicurissimi di mai assaggiare Schiacco matto di sinistra Fortuna.

Nell’immagine che segue lo stemma della famiglia Spinola1 (d’oro, alla fascia scaccata di tre file d’argento e di rosso, sostenente una spina di botte di rosso, posta in palo) sul portale principale del palazzo ducale a Galatina, a riprova che quanto ad invenzione metaforica Giovanni Camillo non era da meno di Angelo.

foto di Alessandro Romano

Tenendo conto anche di quello intitolato La Politica, che abbiamo letto prima, mi chiedo se in fase di pubblicazione Angelo li avrebbe eliminati entrambi dalla raccolta autocensurandosi o li avrebbe mantenuti, a costo di urtare la suscettibilità dell’eventuale, quasi inevitabile per il costume dell’epoca, dedicatario.

 

(p. 179)

Non hà genioa di servire in corte

Nacqui à me stesso, e così far non voglio

me stesso d’altri, e suggettar mia sorte;

qualor bersaglio mi propongo à morte,

punto da i dardi suoi, vòb che mi doglio.

Essere ad onde di capriccio un scoglioc,

troppo duro è per me, troppo m’è forte.

Ha stravaganti idolatrie la Corte,

giacche al pari del Rè s’adora il sogliod .

Ivi potenza è podagrosa all’attoe,

prima, ch’un’alma poco onore avanze,

i crini d’oro inargentati ha fattof.

Han, politici i Rè, barbare usanze;

serbano i Corteggiani in sù l’estrattog,

ond’hanno metafisiche speranze.

______

a voglia

b voglio

c Il potere è paragonato al capriccioso movimento delle onde.

d Il trono, simbolo del potere.

e lenta a muoversi, come chi è affetto da podagra

f prima che un’anima consegua un po’ di onore, ha reso i capelli color argento da biondi che erano (l’interessato è diventato vecchio)

g mantengono il favore dei cortigiani con promesse astratte

 

(p. 180)

Abbondanza di poeti

Mancano gl’Alessandri, e i Cherilia

in maggior copia in ogni parte io trova

de’ metri armoniosi al Mondo novo,

più, che frutto gl’Autunni han fior gli Aprili.b

Dell’acque Pegaseec sorsi sottili

non si bevon lassù, per quel che provo.

Nascono Cigni d’ogni specie d’ovod,

a cui, fonti fatali, or sono i Nilie.

Le lire degli Orfeif, mille Neantih

trattan con man superba; e ‘l canto foscoi

par, ch’à sdegno attizzasse anco i latrantil.

Più si canta, che parla. E sì conoscom,

che Parnaso incapace à Cigni tantin,

vanno i Poeti, come i branchi al boscoo.

______

a Mancano i grandi condottieri ed i poeti epici; per i primi viene citato Alessandro Magno (IV secolo a. C:, per i secondi Cherilo di Samo, poeta epico del V-IV secolo a. C.

b in misura più appariscente dovunque io trovi al mondo poesie armoniose: come i fiori in primavera sbocciano ma non maturano mai in frutto. Probabilmente al Lezzi è sfuggito lo stile contorto di questi versi, altrimenti il suo giudizio sarebbe stato, se possibile, ancora più severo.

c Pegaso era un cavallo alato che per ordine di Posidone arrestò la crescita del monte Elicona verso il cielo, dovuta al piacere datogli dal canto delle Pieridi in gara con le Muse, con colpo di zoccolo  che fece sgorgare la fonte Ippocrene.

d nascono poeti destinati geneticamente a non esserlo

e per le quali fonti d’ispirazione non sono quelle della poesia antica (tra cui la fonte Ippocrene appena citata) ma fiumi senza mitiche implicazioni poetiche, come il Nilo

f Vedi la nota g a p. 17.

h Neante di Cizico, storico greco del III secolo a. C., viene qui assunto come modello di chi dovrebbe dedicarsi solo a ciò per cui ha provato talento (il che, però, non esclude che uno storico possa essere, magari solo potenzialmente, un poeta e che un poeta non sia negato, quasi geneticamente, per la storia).

i oscuro

l i cani

m vedo

n essendo il Parnaso (monte della Grecia centrale nell’antichità sacro ad Apollo e Dioniso, nonché sede delle Muse e, dunque, simbiolo della poesia)atto ad ospitare tanti (sedicenti) poeti

o vagano nel bosco come gli animali in branco

___________

1 La famiglia Spinola, di origini genovesi, vantò ben undici dogi dal 1531 al 1773 e ben quindici cardinali dal XVI al XIX secolo.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/27/angelo-gorgoni-1639-1684-di-galatina-e-una-stroncatura-forse-immeritata-1-2/

Angelo Gorgoni (1639-1684) di Galatina e una stroncatura forse immeritata (1/2)

di Armando Polito

(Il fratello, credendo di consagrarle all’Eternità, con pessimo consiglio si risolvè di stamparle.)

Probabilmente la figura di Angelo Gorgoni sarebbe stata inesorabilmente avvolta dalle tenebre del tempo se non ci avesse lasciato memoria della sua vita il suo conterraneo Alessandro Tommaso Arcudi  (1655-1718) alle pp. 68-69 della sua Galatina letterata uscita per i tipi di  Giovambattista Celle a Genova nel 1709. Così in particolare: Ora di questa famiglia [Gorgoni] abbiamo veduto, e pratticato ne’ nostri giorni, ed in un secolo tanto nella mia Patria scarso, ed avaro di letterati, per eruditissimo Angelo Gorgoni. Egli doppo aver sedate alcune turbolenze insorte nella sua casa, e legatosi in stato matrimoniale, attese con ogni ardenza a fondare, e promovere l’Accademia degl’Irrisoluti: e diede sprone alla gioventù con gloriosa emulazione ad erigere l’altra de’ Risoluti. Più volte abbiamo inteso il Signor Angelo publicamente discorrere, ed in verso, ed in prosa, con applauso di tutta la radunanza. Ma doppo la sua morte a poco, a poco, l’una, e l’altra Accademia restano quasi dimenticate, e sepolte. Il suo fratello, e già Archidiacono D. Giovanni Camillo Gorgoni, soggetto che ancor vive in Napoli, al par di lui erudito, fece stampare alcune delle sue Poesie,col titolo di Melodie di Parnaso, risuscitando il nome del Signor Angelo dal sepolcro, nel quale fu chiuso nell’anno 45 della sua vita a 24 Febraro, e nel Bisestile 1684.

Sulle due accademie fondate dal Gorgoni l’unica, scarna fonte è l’Arcudi con questo passo e con un altro de Le due Galatine difese, raccolta di suoi diversi opuscoli fatta e pubblicata da Francesco Saverio Volante, per i tipi dello stesso editore di Galatina letterata, nel 1715. Le pp. 8-15 contengono un pezzo dal titolo L’autore a gli signori accademici Risoluti di Galatina e alle pp. 237-244  un’epistola datata 10 ottobre 1681, che così inizia: Cugino carissimo, desiderando V. S. di leggere le mie due composizioni poetiche, l’una latina, e l’altra volgare da me recitate contro le maledicenze del signor Musarò nella nostra Accademia, celebrata alle lodi dell’Apostolo Pietro principale Padrone, e protettore della mia Patria. E più avanti (p. 243): Dovete finalmente sapere, che l’Academia celebrata dall’Academici Risoluti, i quali fanno per impresa la fiamma, fu sotto gli auspici del Signor Sindico Angelo Mongiò, che fà per impresa la Luna, il quale qualche tempo fu travagliato da infermità di pazzia; che la mia impresa è l’Orsa stellata, che Galatina erge la Civetta coronata, alla quale Urbano VI aggionse le chiavi di Pietro e Gallipoli il Gallo. In quella radunanza erudita io presentai il libro del Musarò, leggendo publicamente l’accennate parole sue, sopra le quali facendo una breve perorazione, poi recitai quelle composizioni, che per ubidirla le invio. All’Arcudi si rifà Camillo Minieri-Riccioindicando come data di fioritura il 1715, cioè quello di pubblicazione del libro. Basta, però, una lettura superficiale dello stesso (a parte la lettera del 1681) per capire che gli opuscoli ivi raccolti erano stati preparati da tempo e che, quindi, conformemente alla testimonianza dell’Arcudi, a quella data (erano passati trentuno anni dalla morte del fondatore)  l’accademia doveva essere estinta da un pezzo.

Del Gorgoni nulla sarebbe rimasto, dunque, se suo fratello Giovanni Camillo non avesse provveduto a pubblicare le sue poesie a quattro anni dalla morte nel  volume intitolato Le melodie di Parnaso, uscito per i tipi di Michele Monaco a Napoli nel 1688.

La prima recensione che io conosco (e non ho certo la pretesa che questo mio scritto ne costituisca una sottospecie di ultima) è quella di Giovanni Battista Lezzi di Casarano (1754-1832), in Vite degli scrittori salentini , manoscritto (ms. D5) custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. A p. 462 (la numerazione non è per r/v), si legge: Per dire, che queste Poesie non sono lodevoli per alcun verso, basti il dire, che son del secento; ma l’Autore contento almeno di averle scritte non avea pensato di farne un regalo ai Posteri, o se avea avuto il desiderio di pubblicarle, non ne avea avuto il tempo, prevenuto dalla morte. Il fratello, credendo di consagrarle all’Eternità, con pessimo consiglio si risolvè di stamparle. Per osservarne il cattivo gusto, basta il leggere l’annesso sonetto ch’è de’ meno sciagurati.

L’autore ad Amico, che l’addimanda in che si trattiene, risponde.

Nacqui Cignoa, son Cigno. A Cliob che volle/

amico avermi, son’amico ancora;

amo la vita mia sempre canora

giachesempre al mio core un spirto bolle.

Non mi ribellodall’ Aoniocolle

per altri monti a divagar tal’ora:

ivi l’anima mia note migliora,

ivi l’alma erudita i versi estollef.

Umor Castalioin urnabreve accoglio,

in cui disseto la mia penna, in cui

trovo materia d’eternare il foglio.

Se pianse Anchise e ne’ disastri sui

disse Fummo Troiani, io dir non voglio,

Non son Poeta se Poeta fui.

_____

a Appellativo di musicisti e poeti.

b Una delle nove Muse, protettrice della storia e della poesia epica.

c Per giacché, ma la forma (nata da già che) era di uso normale in testi a stampa del XVII e del XVIII secolo.

d non rinuncio

e dell’Aonia, regione montuosa della Beozia dove le Muse avevano la loro sede.

innalza.

della fonte Castalia, che prese il nome dalla fanciulla che si suicidò gettandovisi per sfuggire ad Apollo. In essa si purificavano i pellegrini che si recavano a Delfi per consultare l’oracolo del dio. Dai poeti romani era ritenuta ispiratrice di poesia. Quindi tutto il verso sta per attingo l’ispirazione con un piccolo vaso (difficile dire se il riferimento è alla limitatezza delle sue capacità di captazione o alla brevità dello schema metrico preferito, che è, qui come negli altri componimenti, il sonetto).

h vaso.

 

Premesso che le note di commento per questo sonetto e per i successivi sono mie, debbo rilevare che il Lezzi con quel suo basti dire che son del secento mostra di essere condizionato dal pregiudizio più banale in cui sovente cadiamo, non solo quando si tratta di dare il giudizio su un prodotto letterario: tutto ciò che non esprime il gusto del nostro tempo è da buttar via, quando, al contrario, ma non vale per il nostro caso dato l’esiguo lasso di tempo esistente tra il poeta ed il suo critico, non ci ergiamo a laudatores temporis acti. Da questa premessa ne consegue la stroncatura di un componimento che, pure, è considerato tra i meno sciagurati. Probabilmente il Lezzi non poteva tollerare quelle che a lui apparivano come oziose ripetizioni talora accoppiate a figura etimologica (Cigno nel primo verso, amico nel secondo con la figura etimologica di amo nel terzo, colle e monti rispettivamente nel quinto e nel sesto verso, anima nel settimo e alma nell’ottavo, poeta nell’ultimo. E dovettero sembrargli una prova di presuntuosa sicurezza gli ultimi tre versi, compreso, ad aggravarla,  il ricordo virgiliano del primo di essi. È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir vada alla striglia! predicava Giambattista Marino, il pontefice della poesia barocca. Certamente il Gorgoni non è un cigno, ma non si può nemmeno invitarlo ad andare alla striglia senza dare uno sguardo integrale al suo volume che comprende componimenti  che, secondo il Lezzi, probabilmente, sarebbero da considerare tutti più o meno sciagurati.

Per corroborare quanto affermato nel commentare questa poesia che nel volume è a p. 26 e perché il lettore si faccia una sua idea, propongo un estratto dell’imponente produzione2.

Comincio con un sonetto in cui l’autore, ben lungi da quella presunzione che una lettura superficiale del precedente indurrebbe a rilevare, mostra chiara consapevolezza dei suoi limiti (questa volta qualcuno lo accuserà di ipocrisia e falsa modestia? …) pur invocando  a compensazione una certa correttezza morale e religiosa.

 

(p. 4) Per le sue Poesie, mentre vanno alle Stampe3

Ite innocenti mie dolci fatiche,

ne’ torchi amici à miglior vita haverne;

voi della penna mia già figlie antiche,

voi della Cetra mia note moderne.

Se le lingue de’ Savi havrete amiche,

poco vi cale di chi mal discerne.

Non Elene corrotte, et impudiche

v’accoglie Apollo in sù le sfere eterne.

Vergine la mia Clioa, però modesta,

a suon di corde d’or vita vi diede,

e, mentre v’adornò, la man fù onesta.

Quanto spetta al decoro, in voi si vede,

quanto a pena Cristiana, in voi s’innesta;

vi diede un Cigno purità di fede.

_________

a Vedi la nota b del componimento precedente.

 

Il sonetto che segue si direbbe quasi premonitore …

(p. 5) Per chi cenzura , e non scrive

Mille Zoilia vegg’io, che a’ Greci Omeri

mordono i fogli, et è livor lo sdegno;

di mille anco Aristofani severi,

che de’ Socrati ognor ridonsi à segnob.

Veston ali di cera i lor pensieri,

né giunger ponno della Fama al Regno.

Inutili di Palladec Guerrieri,

hanno l’armi alla lingua, e nò all’ingegno.

Chi commenzal d’Apollo oggi si spanded,

Pindaroe non fù mai. Né bene accenna

che delibòf col Dio sacre vivande,

non sà, chè fiero il Mar, chi mai l’Antennag

d’un pinh guidò. Né sà, che peso è grande

chi Atlantei non provò Cielo di penna.  

________

a Zoilo fu un grammatico greco del IV secolo a. C., autore di un’opera, andata perduta, in cui criticava ferocemente i poemi omerici.

b Aristofane (V secolo a. C.) nella commedia Le nuvole ironizza su Socrate e i Sofisti.

c Dea protettrice delle arti.

d vanta

e Poeta lirico greco (VI-V secolo a. C.) famoso per i suoi voli, cioè ardite, improvvise digressioni.

f gustò

g l’albero

h nave (metonimia: invece dell’oggetto, la materia di cui è fatto).

i Zeus, che era figlio di Crono,  lo costrinse a reggere sulle spalle la volta celeste per punirlo di essersi alleato con Crono per guidare o titani contro gli dei dell’Olimpo.

 

Proseguo con i sonetti dedicati agli animali.

 

(p. 31) La formica

Quando Sirioa  più avampa, e ‘l fier Leoneb 

co’ suoi raggi infocati il Mondo accora,

sbucata da mia concava magione,

de’ bruti in compagnia lodo l’Aurora.

Provedo a’ casi miei nella stagione

dell’ariste indorate avida ognora.

E per assimilarmi cal dio Plutone,

furo a Cerere afflitta i frutti ancora.d

Non di villano cor m’agghiaccian l’onte

Caccoe di brieve corpo. Io sono amante

delle bricef disperse, e lui del fonte.

Rispetto al corpo, alle minute piante,

s’ogni peso che porto appare un monte,

benche il nano de’ vermi io sono Atlante g.

___________

a É la stella più luminosa della costellazione del Cane e nel periodo della canicola (24 luglio-26 agosto) sorge e tramonta con il sole.

b Il sole è nel suo segno tra il 23 Luglio e il 22 Agosto.

c rassomigliare

d Allusione al mito di Cerere, la cui figlia Proserpina fu rapita da Plutone.

e Caco viveva in una grotta dell’Aventino e terrorizzava i vicini con i suoi furti. Fu ucciso da Ercole, al quale aveva rubato dei buoi.

f briciole

g Vedi la nota i del componimento precedente.

 

(p. 32) La mosca

Chi regal mi dirà!! Chi mi condanna

plebea frà tanti piccioli animali!

D’aquilino color vestendo l’ali,

ogni fisonomista in me s’inganna.

Se turbo il sonno altrui, sono tiranna;

arpiaa, se cene infestob a’ commenzali.

I Monarchi, i Plebei fò tutti eguali,

succhio a questi l’erbette, a quei la manna.

Mio Tron, è un volto in cui me spesso  assentoc,

né temo, che mi fuga, indi importuna,

con flagello di carta ira di vento.

La sorte è a me, né lucida, né bruna;

con vicende di Fato, io m’alimento

in desco di Miseria, e di Fortuna.

___________

a Le Arpie erano creature mitologiche col volto di donna e il corpo di uccello. Erano specializzate nel saccheggio delle mense.

b invado

c siedo; qui l’autore, che non era certo un indotto, si è preso la licenza, dovuta ad esigenza di rima, di scambiare assido (da assidere) con assento (da assentire), attribuendo a quest’ultimo il significato del primo.

 

(p. 122) Lamenti d’un Bue

Su l’apparir de’ matutini albori

m’intima a fatigar bifolca mano,

e interrotti i placidi sopori,

o le valli coltivo, o solco il piano.

Trovo circonferenti i miei sudori,

se dura sfera è l’esercizio humano,

né pietade provede a’ miei languori,

che le leggi ad un Bue fa Re villano.

Son’io, che copro i semi, io che raccoglio

le ricche biade; e se talor mendico

cibo, lo porge rusticano orgoglio.

Riposa altrui nel vitupero antico,

io naufrago operando; e sì mi doglio,

che fra tanti cornuti io sol fatico.

 

(p. 142) L’Aragno

Priva di penne, ove convengon l’ali,

lega debol fil da muro, in muro,

e fabra, e spola: aggroppa i stami uguali,

Dedaloa verme  ,c’ha veleno impuro.

Mille Tesei volanti, i dì fatali

chiudono a morte al carcere spergiuro,

e, fallace Arianna a loro mali

porge stami, e lo scampo è men sicuro.b

Pesca senz’amo, sù dell’Etra al Marec;

dalle viscere sue l’esche raduna,

fatte le reti Rie fila già rare.

Se ‘l cerchio indi le squarcia Aura importuna

meraviglia non è, che sempre appare

chiara incostanza a Rota di Fortuna.

_____

a L’inventore del labirinto, cui la tela del ragno somiglia.

b Allusione al mito di Teseo che uccise il Minotauro (rinchiuso da Minosse, re di Creta,  nel labirinto) grazie all’aiuto di Arianna, figlia del re , la quale lo dotò di una matassa che, srotolata, permise all’eroe di uscire dal labirinto.

c dal cielo al mare

 

(p. 152) Il Gallo

Quando avanzano al dì brievi momenti,

la notte invoco à seminar gli orrori.

Ristorate dal sonno al fin le menti,

desto l’Aurora à dispensar gli albori.

Animato  Orologgio: io balbia accenti,

rinforzo audace, e fremiti sonori,

invito à sursib effeminate genti.

Sono Metro del Tempo, e degli amori.

Coronato volante: à me natura

della prosapiac mia fidò l’impero,

altro che vigilar non è mia cura. 

Iride hò nelle piume; e sempre altero

se co ‘l canto protestod ogni bravura,

degli Augelli son’io tromba, e Guerriero.

________

a Forma sincopata di surgersi(levarsi dal letto)

b balbettanti

c stirpe

d mostro

 

(p. 166) Per una sanguettolaa, morta sopra il braccio di bella Donna

Dai neri stagni, in lucida prigione

altri ti chiuse, di salute un Angueb,

acciò, svenando agl’innocenti il sangue,

fusse de’ vermi un fisico Neronec.

Mentre l’arte di Cood savia t’impone

mordessi il braccio à Lilla mia che langue:

avida, e tu, per non sentirla esangue,

fustee di sua salute empia cagione.

In picciolo Eritreof, tue rabbie absorteg,

inerme Faraon vedesti; e ‘l male

che ondoso s’annegò, anco fù forte,

ma, felice imparasti empio animale,

per non mutarti in cenere la Morte,

con i balsami suoi farti immortale.

________

a sanguisuga; all’epoca il salasso tramite sanguisuga era una delle terapie più usate in varie malattie. Sanguettola è diminutivo di sanguetta, voce regionale settentrionale.

b serpente

c Qui l’imperatore è assunto per antonomasia a modello di sanguinario.

f Il globulo rosso, scoperto da poco (dall’olandese Jan Wammerdam  nel 1568).

g scatenate

 

(p. 236) Si paragona all’Ape

A te, ch’ali dorate Ape ramingo

apri a i raggi del Sol, Clotoa de’ fiori

e guerriero oricalcob, a’ tuoi clamori

coorti aduni, a parità mi fingo.

Tu nel fumo patisci, e io mi stringo

del Dio ch’è ciecoc ai fumiganti ardori,

tu favi ammonti, ed io con atri umorid

armoniche dolcezze al Mondo pingo.

Tu volante destrier sù l’Etrae biscif,

io di Marte scrivendo, or pugno, or giostro,

tu i Prati adori, io d’un bel volto i lisci.

Così,  troppo uniforme è il viver nostro,

mentre noi stizza altrui: pronto ferisci

tu con ago mordace, io con inchiostro.

__________

a Era la più giovane delle tre Parche e il suo compito era quello di filare lo stame della vita.

b tromba

c Amore

d inchiostro

e nell’aria

f sibili

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/28/angelo-gorgoni-1639-1684-di-galatina-e-una-stroncatura-forse-immeritata-1-2-2/?fbclid=IwAR3hwtlMSi_n1I7kvSJXU7n8M46Vpo52XgZLvcszVuz9X1gGqY8zfXTVexM

________________

1 Notizia delle Accademie istituite nelle Provincie Napolitane in Archivio Storico per le Province Napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 147: Galatina. L’Accademia col nome di RISOLUTI fioriva tuttavia nell’anno 1715 in Galatina, e facea per impresa una Fiamma3. E in nota 3: Vedi ALESSANDRO TOMMASO ARCUDI a p. 8, 237 e 243 del suo libro Le due Galatine difese, che stampò in Lecce nel 1715 colla falsa data di Genova e col finto nome di Saverio Volante.   

2 Sono 312 componimenti: 270 sonetti, 37 epigrammi e 5 altri di maggiore estensione. Due suoi sonetti , inoltre, si trovano inseriti, in lode dell’autore, in Vita e miracoli del glorioso S. Saba, di Onofrio Guido di Castrignano dei Greci, opera uscita per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1861 (le pagine non sono numerate).

3 Scrive il fratello nell’avvertenza al lettore che i sudori di mio fratello furono valevoli, accelerandogli il suo dì fatale, a privarlo della luce; e più avanti che si tratta di opere … la maggior parte ritrovate abbozzate trà misere cartuccie …   Se, dunque, questo componimento non è un topos obbligato, Angelo aveva intenzione di pubblicare la sua fatica ma la morte glielo impedì.

 

Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua


 

di Gianfranco Mele

Oggi l’immagine più popolare del tarantismo è quella del ballo al chiuso delle mura domestiche, essendo stata una delle due forme rituali più recenti (l’altra, come noto, instauratasi in una fase successiva, è quella del pellegrinaggio nella chiesa galatinese dedicata a S. Paolo, che giunge anche a sostituire del tutto il rituale musicale domiciliare). Ma non sempre è stato così: forme più antiche son descritte da vari autori del passato e hanno come scenario a volte le strade e i crocevia, altre volte, e ancor più anticamente, ambienti arborei e/o acquatici. Come vedremo, il rituale domiciliare ha poi conservato questi elementi introducendoli (sia pur in modo rimaneggiato) all’interno delle mura domestiche. In “La terra del rimorso”, nella parte della trattazione dedicata agli scenari e all’ambientazione del rito, il De Martino ha ampiamente descritto questi aspetti. In questo scritto ripercorreremo e descriveremo in particolare gli scenari legati all’ambiente acquatico (e ai suoi “surrogati” domiciliari) cercando, per quanto possibile, di risalire ai significati e alle motivazioni del rito in acqua o con la presenza dell’elemento acqua.

E’ lo stesso De Martino, a riferirci che lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur[1]

Sempre il De Martino, ci fa notare che

“Atanasio Kircher […] attesta che nel luogo destinato alla danza venivano spesso collocate conche colme d’acqua, addobbate con erbe e rami verdeggianti: e dall’acqua e dalle fronde i tarantati traevano grandissimo diletto, sino al punto di tuffarsi nella conca, e di guazzarvi a mò di anitre”[2]

 

Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi” e di altri che “si lanciano in mare”;[3] i tarantati sembrano trovare conforto alla vista del mare e dell’acqua, traggono giovamento dall’immergervisi, manifestano desiderio ardente di bagnarsi nel mare, e gioia al solo sentir parlare di mare o di acqua. Epifanio si dà una spiegazione di questo comportamento, sostenendo che

il veleno della tarantola non agisce esso solo in tutto e per tutto, ma essendo la sua costituzione secca, [i tarantati] amano quello che è opposto al secco, cioè l’acqua. Infatti nei tarantati l’immaginazione non è alterata a tal punto, come in quelli che sono stati morsi da un cane rabbioso, i quali hanno l’idrofobia e perciò, rabbiosi, rifiutano quel rimedio che a loro potrebbe giovare[4] 

 

Ma, altra cosa importante, Epifanio è a conoscenza del fatto che già secondo Dioscoride l’acqua del mare sana le persone morse dai ragni (e lo cita), così come cita   il medico persiano Rasis (854-930) il quale raccomanda l’immersione in acqua del mare per le persone avvelenate dai ragni.[5]

I tarantati trovano sollievo dall’acqua in genere, non solo quella del mare ma anche quella di conche e pozzi:

Perché alcune fanciulle tarantate si lanciano nei pozzi, esibiscono le parti intime, si strappano i capelli e gridano? La causa deve ritenersi la stessa, ma più intensa: infatti, quanto più secca sarà la tarantola, più intensi diventeranno questi sintomi.[6]

 

Come le tarantole amano l’umidità, così secondo Epifanio la prediligono le persone che ne son state morse:

Perché alcuni gioiscono a sentire nominare il mare e i canti che fanno riferimento al mare? La causa risiede in quello che si è detto: in conseguenza della secchezza del temperamento, sembrano amare l’umidità sia le tarantole, sia le persone che sono state morse da esse. Noi conosciamo molti che non trovano sollievo se non si immergono nell’acqua delle conche o nei pozzi, legati ad una fune per non annegare.” [7]

 

Epifanio descrive anche i rimedi balneoterapici indicati dal Rasis:

Rasis ha prescritto molti rimedi utili, come il bagno in acqua calda, teriaca, succo di foglie di mora, vino puro, aglio, cumino, agnocasto, l’immersione nell’acqua del mare riscaldata, la sudorazione abbondante”.[8]

 

Cita poi il medico greco Rufo di Efeso (I sec.-II sec. d.C.):

Rufo raccomanda più di tutto la teriaca, il bagno e il vino vecchio”.[9]

 

Ancora, sui bagni:

Ezio, nel libro XIII, cap. 18 e Paolo, libro V, cap. 7, fra gli altri rimedi, lodano molto l’aglio, il vino e i bagni; ugualmente nel libro V, cap. 27.[10]

Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell’acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all’esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Nell’acqua, i tarantati immergevano anche fronde e rami verdi che poi si ponevano in testa. De Martino ne fornisce sunto:

… il medico dalmata Giorgio Baglivi, non manca di accennare ai pampini e ai rami fronzuti che i tarantati agitavano e immergevano nell’acqua, per adornarsene poi il capo; e accenna anche al ricorrente gesto che i tarantati eseguivano di immergere nell’acqua mani e capo. Non parla a dir vero di tino o conca apprestati al centro dell’ambiente, ma di un fosso scavato nel terreno, e colmato d’acqua, onde l’immergersi in esso richiama al Baglivi non già, come nel Kircher, l’immagine di anitre che starnazzano, ma quella di maiali che si voltolano nel fango”.[11]

 

Dei balli nell’acqua, e in questo caso nel mare, parla dettagliatamente anche il naturalista seicentesco Paolo Silvio Boccone, che scrive:

“Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d’hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l’altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l’imaginazione depravata, e corrotta degl’Infermi.” [12] 

 

Il De Martino, proprio in riferimento a questi passi del Boccone, scrive:

“… il suicidio per eros precluso, l’impulso di morte per disperato amore, la corsa verso il mare per scomparire nelle onde trovavano orizzonte in un rito ch’era praticato a Taranto e a Brindisi: il tarantato in crisi, legato con una fune alla poppa di una barca, veniva fatto baccheggiare a suo agio nelle acque del mare, mentre i suonatori in barca cercavano di imporre al disperato il ritmo delle loro melodie[13]

 

Nel passo suddetto il De Martino non sembra sottolineare tanto il ruolo curativo dell’acqua, quanto il gesto disperato della corsa verso il mare, e rispetto al quale i parenti del tarantato si adoperavano a “limitare i danni” legandolo alla poppa o ricreando per lui il contesto acquatico in ambiente più “protetto”: rimarca questo aspetto quando in un passo successivo descrive la presenza delle conche d’acqua come surrogati casalinghi del mare, e, a seguire, parla, riprendendo i Kircher, dell’episodio di un cappuccino di Taranto il quale, morso dalla tarantola, corre con impeto verso il mare e là vi trova la morte:

C’è da chiedersi se la tradizionale conca colma d’acqua nella quale diguazzavano i tarantati non assolvesse almeno in dati casi la funzione di modesto surrogato casalingo in cui spegnere simbolicamente un ardore che nel suo cieco trasporto poteva sospingere a disperate fughe verso il mare e a pericolosi salti in acqua: come fu il caso di quel cappuccino di Taranto, cui i superiori avevano proibito di eseguire l’esorcismo musicale e che un giorno, irresistibilmente stimolato dal suo impulso di immersione, fuggì dal convento come folle e con tanto impeto si inoltrò nel mare da trovarvi non già refrigerio al suo male, ma miserabile morte per annegamento”.[14]

 

Eppure il De Martino, nel capitolo della sua trattazione intitolato “Tarantismo e cattolicesimo”, affronta il tema dell’acqua risanatrice e “miracolosa” del pozzo di San Paolo, ma evidentemente non la mette in stretta relazione con questi altri aspetti del rituale acquatico.

Laddove non era presente o non era immediatamente raggiungibile un ambiente acquatico (ed arboreo, altra caratteristica dell’ambientazione più antica del rito), questo veniva ricreato “artificialmente”, anche tra le mura domestiche: ancora una volta, è il De Martino a notarlo, riportando passi del De Phalangio Apulo di Ludovico Valletta (monaco della congregazione dei Celestini al convento di Lucera). Scrive il De Martino:

“Ludovico Valletta […] conferma che talora i tarantati gioivano «alla vista di limpide acque, e di fonti artificiali che con soave mormorio scorrevano in un tino apprestato alla bisogna», compiacendosi di verdi fronde spiccate di fresco dagli alberi e disseminate qua e là nell’ambiente destinato alla danza, e ciò «per rappresentare in qualche modo una selva».”[15]

 

Successivamente, il Valletta descrive le spese che le famiglie dei tarantati son costrette a sostenere per l’organizzazione dell’intero rituale di cura (compensi in denaro, regali e vitto per i musicisti; ingaggio di giovinette abbigliate in abiti nuziali con il compito di danzare con i tarantati; spese varie per l’arredo – compreso il fitto di armi da appendere alle pareti o l’ acquisto di drappi multicolori -), e fa riferimento anche alle spese per la ricostruzione dello scenario acquatico-arboreo:

E faccio grazia di molti altri sussidi e opportunità di cui si servono gli intossicati sia al fine di sollevare e rallegrare gli animi mesti durante la danza, sia perchè di queste cose hanno bisogno per qualche motivo: come, per esempio, fonti artificiali di limpida acqua congegnate in modo che l’acqua, raccolta, torna sempre di nuovo a versarsi: le quali fonti son ricoperte e circondate di verdi fronde, di fiori e di alberelli […]”[16]

 

Anche il Valletta descrive il rituale della sospensione al soffitto con una fune (pratica che ai tempi delle indagini sul campo di De Martino è già in disuso e della quale, come lui osserva, gli intervistati conservano solo il ricordo): al termine del dondolio con le mani strette alla fune, e ad essa aggrappata con tutto il corpo, la tarantata, sudata, si immergeva in acqua:

A motivo di questa agitazione e dell’incredibile fatica sopportata, tutto il corpo e soprattutto il volto della donna erano coperti di sudore copioso, finchè infiammata da così strenua agitazione correva anelante al gran tino colmo d’acqua apprestato a sua richiesta, e vi immergeva completamente il capo, onde trarre con l’acqua fredda qualche lenimento al dolore che l’avvampava”.[17]

illustrazione dal testo del Valletta

 

Il Serao fa riferimenti sia ai balli in mare che alla presenza dell’acqua nel rituale domiciliare. Riferendosi alla ricerca di Epifanio Ferdinando, scrive:

Cerca egli, verbigrazia, perchè i Tarantati si compiacciano di farsi seppellire fino al mento nella terra: perchè amino di cercar luoghi ermi , e desolati, e sogliano fin anche aggirarsi volentieri intorno a’ sepolcri, e cimiteri : perchè altri si gettino in mare; altri urlino; altri si avventino per mordere questo e quell’altro: perchè il sono delle campane loro ecciti passione, e mestizia: perchè cerchino di esser sospesi da una fune; o messi in una culla, e quivi dimenati, come si fa co’ fanciulli. Perchè le giovinette si sieno talora precipitate nei pozzi; perchè le medesime senza alcuno ritegno facciano altre sconcezze: si strappino i capelli: vogliano sentir le canzoni, in cui sia nominato il mare.[18]

 

In riferimento al rituale domiciliare, il Serao così descrive il ruolo e le funzioni dell’acqua:

Ben credo d’intendere, perchè vogliano che loro si pongano avanti degli specchi; e molto meglio e più facilmente perchè cerchino de tinelli, e de’ bacini pieni d’acqua; o almeno perchè i pietosi spettatori arrechino di questi ordigni in vicinanza de Tarantolati che danzano: poichè vanno essi di tanto in tanto a tuffar la testa nell’acqua, e ripigliano perciò lena, quando sono più trafelati e molli di sudore.”[19]

frontespizio del testo del Serao

 

Il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” (primi del ‘700), descrive tra le altre cose l’abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare di Taranto:

“A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. […] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “[20]

 

Il leccese Nicola Caputi nel suo De tarantulae anatome et morsu, descrive gli scenari del rito e la presenza costante dell’acqua anche in ambito domiciliare:

“La camera da letto destinata al ballo dei tarantati sogliono adornare con rami verdeggianti cui adattano numerosi nastri e seriche fasce di sgargianti colori. Un consimile drappeggio dispongono per tutta la camera; e talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d’acqua, e addobbata con pampini di vite e con verdi fronde di altri alberi; ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito, e presso di queste i tarantati eseguono la danza, palesando di trarre da esse, come dal resto dello scenario, il massimo diletto. Quei drappi, quelle fronde e quei rivoli artificiali essi vanno contemplando, e si bagnano mani e capo al fonte: tolgono anche dal tino madidi fasci di pampini, e se ne cospargono il corpo interamente, oppure – quando il recipiente sia abbastanza capace – vi si immergono dentro, e così più facilmente sopportano la fatica della danza.”[21]

 

Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto:

“Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un’estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da’ varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d’inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie.

Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajate per terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell’entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle.

Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell’acqua, ciò che dicevano Spupurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “[22]

 

La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo.[23] La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l’ Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest’ultimo termine l’usanza di ballare presso sorgenti d’acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross:

“Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.

Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.[24]

 

Albero millenario Leucaspide (disegno Carlo Orsi) dal testo di Janet Ross

 

Antoine Laurent Castellan, riportando osservazioni sul tarantismo compiute durante un suo viaggio a Brindisi nel 1897, scrive:

Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci.[25]

illustrazione dal testo di Antoine-Laurent Castellan Lettres sur l’ Italie (1819)

 

Sempre in un contesto di fine Ottocento, anche il manduriano Giuseppe Gigli riferisce della presenza di acqua durante i balli:

Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E’ una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio![26]

 

Esula dal tema di questo scritto l’occuparci in modo approfondito degli altri dettagli tipici dell’ambiente del rito domiciliare, tuttavia ne faremo un accenno, per completezza espositiva: come ci ricorda il De Martino, altri oggetti rituali sono le spade per il combattimento rappresentato durante la danza, gli specchi (nei quali i tarantati di tanto in tanto si contemplavano),[27] i nastri multicolori, i drappi, e fazzoletti, scialli, monili con i quali spesso le tarantate si adornavano.

Un ruolo particolare come abbiamo evidenziato più volte lo avevano anche le fronde e i rami degli alberi (una delle funzioni di questi addobbi posti nelle case dove si svolgeva il rito, era, secondo il De Martino, quella di ricostruire l’ambiente arboreo (insieme a quello acquatico), erbe varie, e/o, come riferisce Anna Caggiano a proposito dei tarantolati tarantini, vasi con piante vive. Nella descrizione della Caggiano, ritorna (e siamo già nel 1931) l’acqua:

tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [28]

 

Le piante poste a “decorazione” dell’ambiente del rito, secondo alcune interpretazioni fungevano anche da stimolo olfattivo, ai fini di una sorta di aromaterapia: è lo stesso De Martino a dedurlo e specificarlo,[29] anche se non specifica che molte di esse, e in particolare quelle che vengono nominate nel passo della Caggiano, nella medicina antica erano impiegate come rimedio specifico contro i veleni e contro i morsi di animali velenosi (ma affronteremo questo tema in altro scritto).

La “cura con l’acqua” (per i morsi delle tarantole, degli aracnidi e degli animali velenosi in genere) sia con l’acqua dolce che con l’acqua di mare, risale alla medicina antica (abbiamo già accennato a Dioscoride), e viene indicata come rimedio specifico sino ai tempi della letteratura medica ottocentesca, e difatti scrive nel 1859 il medico Achille Vergari:

“In certi luoghi la stufa secca forma l’unico mezzo curativo de tarantolati. I bagni d’acqua calda possono adempiere al la stessa indicazione. Si crede che l’acqua di mare sia meglio per più ragioni. […] Quando forti dolori vessano i tarantolati, conviene l’ uso dei bagni d’acqua calda, le stufe secche, e le vaporose. Quindi Mercuriale sull’avviso di Avicenna e di Aezio diceva, che gli avvelenati dalle tarantole con dolori deggiono essere posti ne bagni (Merc. de morbis venenosis. L. Il. C.V. p.39.)” [30]

 

Dunque i bagni nell’acqua (e spesso nell’acqua calda) costituiscono un rimedio e una usanza di tipo strettamente medico contro i veleni, sin dai tempi antichi, e si ritrovano, come abbiamo accennato e come vedremo più avanti, nelle prescrizioni di Dioscoride (I sec. d.C.), Rufo di Efeso (I – II sec. d.C.), Aezio (VI sec.), Avicenna (980-1037), Girolamo Mercuriale (1530-1606), Andrea Mattioli (1501-1578), Ambrogio Parco (XVI sec. anche costui) fino alla medicina ottocentesca.

La medicina popolare, come noto, è fortemente intrisa di conoscenze sia empiriche che nozionistiche, trasmesse e accumulate oralmente attraverso la tradizione, nei secoli, e provenienti, in genere, dalla medicina più antica. Ad una cura contro i veleni a base di balneazioni nota e praticata da millenni, si aggiunge, nel rituale del tarantismo, la musica come complemento, contenimento e rimedio ad uno stato di eccitazione motoria provocato dal veleno (reale o immaginario che fosse), che gradualmente va a soppiantare totalmente la cura balneare (della quale tuttavia restano residuati o reminiscenze simboliche inserite nel rito terapeutico domiciliare).

Come abbiamo anticipato, anche Dioscoride individua i bagni nell’acqua come rimedio contro i veleni. Nelle indicazioni del medico greco si ritrova, fra i vari rimedi, come indicazione per la cura degli avvelenamenti in genere, il bagno in acqua calda. Ma come vedremo più avanti, il Dioscoride indica proprio nei bagni dell’acqua di mare il rimedio specifico per punture di ragni e scorpioni.

La cura per i morsi di animali ritenuti velenosi tramite l’ acqua (in questo caso di sorgenti, aventi anche la caratteristica di essere “calde”) era praticata anche nella Sardegna di alcuni secoli fa. In un manoscritto anonimo (intitolato “Delle tarantole”) della fine del XVII secolo – inizi XVIII, edito da Crsec Galatina si legge:

La Tarantola solfuga, che nasce nell’ isola della Sardegna, ha pure di proprio li sovradetti sintomi, il nome di Serpente, ed il suo veleno ha per controveleno i medesimi medicamenti; afferma Giulio Salino, famosissimo ed antichissimo scrittore, nelle sue Istoriche descrizioni del Mondo, dove tratta dell’Isola di Sardegna: «la Sardegna è priva di serpenti, vi è soltanto, in vari luoghi nei campi della Sardegna, la “solfuga”, insetto molto piccolo privo di ali, simile ai ragni; è chiamata “sol fuga” poiché evita la luce e preferisce stare nelle miniere d’argento: si muove in modo poco visibile e, se uno senza vederla le si siede sopra, ne è morso»; e poco dopo, parlando del modo di curare questo veleno, soggiunge: «in alcuni posti vi sono sorgenti molto calde e salutari, che sono medicamentose: saldano le fratture ossee, annullano gli effetti del veleno della “solfuga” o quelli di punture di varie piante e animali».[31]

 

Lo stesso Epifanio aveva parlato della Solfuga e delle fonti di acqua risanatrice:

Quante sono le specie di ragni? Rispondo che noi troviamo 21 specie, infatti oltre le diciassette enumerate sopra, secondo le Storie delle Indie di Oucto, libro XV, cap. 3, c’è un’altra specie di tarantola che prospera a Ispaniola, isola del Nuovo Mondo, che è tanto grande da gareggiare col cancro gigante, della quale fino ad oggi non abbiamo nessuna conoscenza diretta. La diciannovesima è quella che secondo Solino e Isidoro, cap. 2, libro XI, si chiama solfuga e vive in Sardegna. È una specie di ragno e odia la luce, per questo di chiama solfuga; con il suo morso procura all’uomo un danno mortale, ma la natura o Dio Ottimo Massimo, per non lasciare niente senza uguale, ha prodotto lì delle fonti, la cui acqua bevuta da chi è stato morso funge da bezoartico[32]

 

La Solfuga o Solìfuga cui fanno riferimento questi autori, nonostante il nome generico e improprio, è da identificarsi nel Latrodectus tredigimguttatus, il ragno il cui morso sta probabilmente alle origini delle credenze sviluppatesi attorno alla “tarànta”, al suo veleno e ai sintomi del suo morso, e che ha un suo corrispettivo mitico-rituale nell’ Argia sarda.[33]

Tornando al ruolo dell’acqua, un cenno va fatto anche all’acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l’idea che l’acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno:

Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell’ annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de’ pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all’acqua di Manduria“. [34]

 

Nel Dioscoride del Mattioli si legge:

Dell’acqua marina. […] E’ veramente salutifera alle punture velenose, specialmente degli scorpioni, di quei ragni che si chiamano phalangi, e degli aspidi, i quali inducono tremore, e frigidità nelle membra: il che fa anchora entrandosi in essa calda”.[35]

 

Ancora, Il Mattioli cita Aezio, medico bizantino del VI secolo, scrivendo:

Dei segni universali dei morsi dei Phalangi, e parimenti della cura, scrisse complicatamente il medesimo Aezio nel luogo sopradetto, così dicendo. […] si causa frigidità nelle ginocchia, ne i lombi, nelle spalle: aggravasi alle volte tutto il corpo: i dolori punto non cessano, il sonno si perde, e fassi la faccia non poco pallida, e smarrita. In alcuni nasce nella verga non poco stimolo del coito, con prurito di testa, e di gambe: fanno gli occhi lacrimosi, torbidi, concavi: il ventre inegualmente si gonfia, e gonfiasi oltre a ciò tutta la persona, la faccia, e massimamente quelle parti, che sono intorno alla lingua, di modo che non poco impediscono la loquela. Sono alcuni pazienti, che non possono orinare, quantunque n’habbiano desiderio, se non con dolore: e quantunque pure orinino, fanno l’orina acquosa, nella quale si veggono alcune cose simili alle tele dei ragni: il che similmente si vede nei vomiti loro, e nelle feccie, che vanno del corpo. Messi i pazienti nell’acqua, s’alleggeriscono d’ogni dolore: ma come se ne vengono fuori, si dogliono non pco nelle parti vergognose, e lor tira la verga fuori di modo, come che ne i vecchi intervenga tutto il contrario perciocchè in loro quelle membra del tutto si rilassano. […] Giovano ne i morsi di tutti i continui bagni […]”.[36]

 

Successivamente il Mattioli parla anche della cura del “veleno delle tarantole” “con la musica dei suoni, e col lungo ballare[37] ma risultano particolarmente interessanti le citazioni di cui sopra, per capire come tutta la sintomatologia attribuita al morso e al veleno dei “falangi” non solo abbia un riscontro in quella che nel Salento è attribuita al morso della “tarantola” (nome generico dato a un non meglio identificato ragno: non è assolutamente detto che ci si riferisse alla Lycosa piuttosto che non al Latrodectus oppure a tutte le specie di ragni più o meno velenosi), ma soprattutto che sin dall’antichità i bagni e l’acqua (e in particolare l’acqua calda e l’acqua marina) sono considerati strumenti terapeutici al fine di contrastare gli effetti del veleno.

Continuando con le citazioni sugli elementi acquatici nel rito e nel ballo, facciamo alcuni cenni sulla presenza costante dell’acqua e del mare anche nelle canzoni: a parte i numerosi versi che parlano di malinconiche storie d’amore (in genere perduto) e d’attesa in cui son presenti mari, naufragi, partenze per mare, almeno due canti in particolare sembrano delineare o quantomeno rievocare il quadro del rituale acquatico. Uno è quello pervenutoci tramite il De Simone, l’altro ci perviene tramite il Kircher. Il primo:

Mariola Antonia! Mariola te lu mare!

Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !

Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,

maccaruni de Simulà.

(nota del De Simone): “… la tarantata risponde, esclamando”:

Ohimme! Mueru! Canta! Canta!

 

Il canto “allu mari”, citato dal Kircher nel Magnes sive, è ripreso anche dal De Martino:

Allu mari mi portati,

se volete che mi sanati!

Allu mari, alla via!

Così m’ama la donna mia!

Allu mari, allu mari:

mentre campo t’aggio amari!

 

Come abbiamo già visto, Epifanio Ferdinando nel 1621 ci fa sapere che i tarantati amavano udire il nome del mare, e “canti che narravano episodi in cui aveva parte il mare[38] : “tarantati gaudent audire nomen maris, et cantilenas de mare mentionem facientes”.[39]

In conclusione, l’elemento acqua ricorre sin dall’antichità come cura specifica per i morsi di una serie di animali ritenuti velenosi, così come anche nelle forme e nei riti più antichi ascrivibili al tarantismo.

Il rituale dell’acqua non solo è, dunque, antichissimo e precedente, nella cura del tarantismo, a quello domiciliare (che tuttavia ne conserva elementi come la presenza di tinozze o bacinelle), ma ha evidentemente una origine e una motivazione prettamente “medica”: sin dall’antichità si ritiene che i bagni in acqua, e specie nell’acqua del mare, giovino e siano rimedio alle morsicature da aracnidi e altri animali velenosi o ritenuti tali.

Antidotum Tarantulae, dal Magnes sive de magnetica arte (1644)

 

NOTE

[1]
Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, Venezia, 1581, V, pag. 171; vedi anche Ernesto Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 127

[2]            Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; qui De Martino traduce e riassume da Athanasius Kircher, Magnes sive de Arte Magnetica opus tripartitum, Colonia, 1643 (1a ed. Roma 1641), pag. 759

[3]            Epifanio Ferdinando, Centum historiae, Venezia, 1621, storia LXXXI “De morsu tarantulae”, trad. da Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002. Epifanio descrive anche altri comportamenti bizzarri, come quello dell’aggirarsi tra i sepolcri, del calarsi in una tomba e stendersi in un feretro in compagnia del defunto, ma anche di donne che mostrano i genitali, si strappano i capelli; riferisce di altri che cantano nenie, son tristi, desiderano essere dondolati in un letto pensile, altri che chiedono di essere ricoperti di terra fino al collo, altri che si rotolano per terra, altri che supplicano di essere frustati

[4]            Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pag. 64

[5]    Ibidem

[6]    Ibidem

[7]    Ivi, pag. 65

[8]    Ibidem

[9]    Ibidem

[10]  Ibidem

[11]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 129; cita qui Giorgio Baglivi, Dissertatio de anatome morsu et effectibus tarantulae, in Opera Omnia, Venezia, 1754; Dissertatio VI, pag. 314. Il De Martino, citando il Baglivi ed Epifanio Ferdinando, evidenzia anche l’utilizzo dell’altalena nel tarantismo antico, e più in generale di funi di sospensione appese agli alberi (nel rito domiciliare appese al soffitto) ricollegandolo (come del resto fa il Kircher) all’imitazione del comportamento del ragno che sta appeso ai fili della ragnatela oscillante al vento. La pratica dell’altalena è ritenuta dal De Martino parte integrante e originatasi dal rito all’aperto (nel duplice scenario arboreo ed acquatico):“La pratica dell’altalena, come è evidente, è legata all’esorcismo all’aperto, presso alberi e fonti; nell’esorcismo a domicilio si cercava di imitare lo scenario vegetale e acquatico e l’altalena si tramutava in una fune sospesa al soffitto, alla quale i tarantati si reggevano nel corso della loro danza...” (De Martino, cit., pag. 129)

[12]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 103

[13]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145

[14]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145. Qui il De Martino cita il Kircher, Magnes sive, pag. 768

[15]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; con citazione di Ludovico Valletta, De phalangio apulo, Napoli 1706, pp. 77 e sgg.

[16]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 92; cit. in Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128

[17]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 76

[18]  Francesco Serao, Della Tarantola o sia Falangio di Puglia, Lezioni Accademiche, Napoli, 1742, pag. 156. Sul farsi seppellire nella terra, citato in questo passo, vedi anche paralleli con il rito dell’argia sarda (in De Martino, op. cit. pag. 196): “L’esorcismo è effettuato a suonatori e ballerini, mentre l’avvelenato viene sepolto sino al collo nel letame o in una fossa ricoperta poi di terra, oppure lasciato al suolo in preda alla crisi: in quest’ultimo caso può aver luogo o meno la sua partecipazione al ballo

[19]  Francesco Serao, op. cit., pp. 5-6

[20]  George Berkeley, Diario di viaggio in Italia (1717 – 1718), trad. it. a cura di Nicola Nesta, Ed. Digitali CISVA 2010, pp. 53-54

[21]  Nicola Caputi, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, 1741, pag. 201

[22]  Giovanni Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, pp. 64-65, Napoli, 1811

[23]  Janet Ross racconta di queste esperienze ella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.

[24]          Janet Ross, La Terra di Manfredi ( La Puglia nell’800), trad. I. Capriati, Tip. Vecchi, Trani, 1899, pp. 138- 140

[25]          Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pag. 82

[26]          Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto” Firenze 1893.

[27]  Nelle varie descrizioni e interpretazioni relative alla presenza degli specchi, questi oggetti vengono identificati come funzionali a una non meglio specificata auto-contemplazione, a volte specificamente interpretati come funzionali ad una sorta di auto-ammirazione narcisistica; da parte di alcuni autori si dice che nello specchio (e/o anche nell’acqua o nella bacinella d’acqua fungente da specchio) i tarantati “vedevano” la Tarantola che li aveva morsi, ma non è da escludersi una funzione dello specchio di tipo medico-diagnostico: nella antica medicina, difatti, lo specchio (e anche lo specchiarsi nell’acqua) era utilizzato per verificare il grado di avvelenamento e di malattia, e la compromissione delle facoltà del paziente. Nel Sesto Libro di Dioscoride del Mattioli, si legge: “Riferisce Avicenna, che quantunque temano i pazienti l’acqua, si può tenere nondimeno speranza di salute, pur che rimirando nello specchio, riconoscano se stessi. Il che dimostra, che si possa havere speranza di curare nel timor dell’acqua, quando il veleno non sia di tal forte confermato, che restino ancora i pazienti con qualche conoscimento” (Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, Sanese, Medico Cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia Medicinale, Venezia, 1573, pag. 947)

[28]  Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72

[29]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 131

[30]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, stamperia Società Filomatica, 1859,   pp. 34-35. Il Vergari prosegue citando anch’egli l’uso delle funi, ma in riferimento al morso della tarantola in Dalmazia: “Assicurava il Fortis « che nel Contado di Traù in Dalmazia i contadini che nella stagione ardente agir deggiono in campagna, sono soggetti frequentemente al morso della tarantola, Pauk nell’ idioma illirico; e che il rimedio che usano per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori dal veleno del pauk prodotti, si è il mettere gli ammalati a sedere sopra d’una fune non tesa, ben raccomandata tra due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore (Michelangelo Manicone, Fisica appula, vol. V pag 81. )” (Vergari, cit., pag. 35)

[31]          AA.VV., Sulle Tracce della Taranta, Documenti inediti del Settecento, Crsec Galatina, Crsec San Cesario – Regione Puglia, 2000, pp. 57-58

[32]  Silvana Arcuti, Epifanio Fernando e il morso della tarantola, Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pp. 43-44

[33]          Propriamente, con il termine Solifugae si intende, nella attuale classificazione, un ordine di aracnidi (peraltro non velenosi), e non già un genere e tantomeno una determinata specie. Tuttavia il Serao identifica, con una lunga dissertazione, la Solìfuga sarda con la “tarantola di Puglia” (Serao, op. cit., pp. 80-89); e Giovanni Spano, nel suo Vocabolario Sardu-Italianu (1851) riferisce che questo ragno è da identificarsi con la taràntola citata dal Berni nel suo Orlando innamorato (Francesco Berni Orlando innamorato, XLI, ottava 6, vv. 5-8; ottava 7, vv. 1-4 ), e, propriamente, con l’ Arza o Argia sarda ( Giovanni Spano, Vocabolario Sardu-Italianu, a cura di Giulio Paulis, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2004, pag. 110 e pag. 119). L’ Argia sarda altro non è che il Latrodectus tredigimguttatus, volgarmente detto malmignatta o anche vedova nera mediterranea.

[34]  Salvatore Pasanisi, Saggio chimico – medico sull’acqua minerale di Manduria, Napoli, Stamperia Nicola Russo, 1790, pp. 32 – 33

[35]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei Sei Libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo nella Materia medicinale, Venezia, 1573, V Libro, pag. 825

[36]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 958-959

[37]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 959

[38]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145

[39]          Epifanio Ferdinando, Centum historie seu observationes, Venezia, 1621, pag. 258

Gli Arcadi di Terra d’Otranto (17/x): Filippo De Angelis di Lecce

di Armando Polito

Comincio da alcune incongruenze emerse nel corso della ricerca riportando  la scheda presente in Francesco Casotti, Luigi De Simone, Sigismondo Castromediano e Luigi Maggiulli, Dizionario biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999, p. 132.

Premesso che l’Accademia dell’Arcadia di Napoli  non può valere che come la colonia Sebezia (che era la sezione napoletana dell’Arcadia di Roma), debbo dire che il presunto nome pastorale Ficandro non compare in nessun catalogo. Preciso, inoltre, che Domenico Andrea De Milo entrò nell’Arcadia col nome pastorale di Ladinio Bembinio il 23 marzo 16991.

Passo ora in rassegna alcune pubblicazioni che del nostro parlano e comincio proprio dal fondatore dell’Arcadia,  Giovanni Mario Crescimbeni, con quattro suoi contributi:

1) L’istoria della volgar poesia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1714, p. 318: Nè meno onorato luogo avrà il cultissimo Rimatore Filippo De Angelis Leccese, allorché metterà al pubblico il suo Comento sopra il Sonetto Mentre che ‘l cor dagli amorosi vermi, il quale, siccome vien detto, è diviso in tre parti, contenenti, la prima la locuzione, la seconda l’artifizio, e la terza la sentenza. 

2) Comentari del canonico Giovanni Mario Crescimbeni custode d’Arcadia intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, volume  II, parte II, p. 267: Filippo De Angelis Leccese, tra gli Arcadi Licandro Buraichiano, ha dato alle stampe, tra le altre cose, un Volume di Rime; e il saggio è preso da i Codici manoscritti d’Arcadia.  Segue il saggio costituito da un sonetto sul quale tornerò più avanti. Qui, intanto, rilevo che Licandro corregge il Ficandro del Dizionario biografico citato all’inizio.

3) La bellezza della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, p. 396: Licandro Buraichiano. D. Filippo de Angelis Napolitano. Prima aveva scritto Leccese; è vero, ma Napolitano qui sta per cittadino del Regno di Napoli.

4) L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 353: Licandro … D. Filippo De Angelis Napol.

In quest’ultimo volume il nostro risulta incluso tra gli iscritti all’Arcadia il 4 luglio 1701. Basterebbe questo dettaglio per correggere il secolo XVII della scheda del citato dizionario con XVII-XVIII, tanto più che non manca nell’elenco il simbolo relativo dell’eventuale avvenuto decesso alla data del 1711. Accanto al nome del nostro non compare, infatti, tale segno. I puntini di sospensione che seguono Licandro fanno pensare che alla data del 1711 non gli fosse stata ancora assegnata la seconda parte del nome pastorale, che di solito conteneva un riferimento topografico detto campagna.

Se Licandro fa pensare ad un composto dal greco λύκος (leggi liùcos), che significa lupo/lupa (con riferimento a Lecce2), e il tema ἀνδρ– (leggi andr-) di ἀνήρ (legi anèr), che significa uomo, per Buraichiano ipotizzerei una derivazione dal greco Βουραικός (leggi Buraikòs) fiume dell’Acaia, a sua volta dal nome della città Βούρα (leggi Bura).

Dopo aver integrato la scheda del citato Dizionario biografico … informando che le Rime uscirono per i tipi di Mutio a Napoli nel 1698, che il testo è molto raro (l’OPAC segnala la presenza di due soli esemplari:, entrambi nella  Biblioteca statale del Monumento nazionale di Montecassino a Cassino) e che il titolo originale è Prima parte delle rime di D. Filippo De Angelis dedicate al molto illustre signore il signore Paolo De Matthaeis3, Mutio, Napoli, 16984, riproduco e commento il testo del sonetto, saggio riportato dal  Crescimbeni e da me lasciato in sospeso, che sviluppa il consueto tema di una sorta di riconciliazione tra la religione pagana e la cristiana.

 

Cercai, è ver, ma indarnoa, i fonti, e l’acque

del bel Parnasob, e la sacrata fronde

di monte in monte, e fra la terra, e l’onde,

ma stanco il corpo al fin dal sonno giacque.

Quando Donna regal, non so se nacque

simile al mondo ancor: – Tu cerchi altrondec

i lauri – disse – e i fonti; e l’almed sponde

del Tebroe lasci , e ‘l vero Apollof – e tacque.

E l’immago di te, Signorg sovrano,

mostrommi h tutta di piropii ardenti

fregiata, con le Muse intorno assisel.

Disse posciam: – Ogni luogo ermon, e lontano

ben riconosce le virtù splendenti

del mio gran Pietroo; ed io son Roma –  e rise.

_________

a invano

b Monte della Grecia consacrato ad Apollo ed alle nove Muse.

c altrove

d nobili

e Tevere

f dio

g Dio

h mi mostrò

i pietre preziose. Il piropo  è un minerale della famiglia dei granati; dal greco πυρωπός (leggi piuropòs) che alla lettera significa dallo sguardo di fuoco, composto da πῦρ (leggi piùr), che significa fuoco, e da ὄψ (leggi ops), che significa sguardo.

l sedute

m poi

n solitario

o S. Pietro

 

Quanto al sonetto citato nel Dizionario biografico … e presente alla fine della Poesia di Lorenzo Grasso, preciso anzitutto che Grasso va corretto in Crasso,  che l’opera ebbe diverse edizioni, anche postume, con titoli diversi5 e che, comunque, Lorenzo morì nel 1681, quasi dieci anni prima che l’Arcadia fosse fondata,  ragion per cui il sonetto in questione esula, per motivi cronologici, dal taglio di questo lavoro.

Un altro sonetto ho reperito, invece, in Alcuni componimenti poetici di Giuseppe Baldassare Caputo detto fra gli Arcadi Alamande per le nozze degli Eccellentissimi Signori Pasquale Gaetano d’Aragona Conte d’Alife e la Principessa Maria Maddalena di  Croy de’ Duchi d’Aurè, sorella della Serenissima Principessa Darmstatt, dedicati alla Eccellentissima Signora la Signora D. Aurora Sanseverino de’ Principi di Bisignano, Duchessa di Laurenzano, etc., Muzio, Piedimonte, 1711, p. 15. A differenza di altri componimenti di altri autori inseriti in questa raccolta, in testa a questo c’è la dicitura Di Filippo De Angelis, senza aggiunta del nome pastorale. Tuttavia il fatto che Giuseppe Baldassare Caputo, abate napoletano, fosse arcade (col nome pastorale di Alamande  Meliasteo) dal 7 febbraio 17076 rende più probabile che si tratti proprio del leccese.

Gioisca lieto omaia il bel Tirreno

in questo giorno avventuroso, e caro;

ogni tristo pensier, fosco,  e amaro

sgombri il Sebetob dal profondo seno.

E ‘l gran Padre Ocean, la Scheldac appieno

faccian Eco gioconda al doppio, e raro

di virtù, di valor ben degno, e chiaro

essemplod, al cui lodar l’arte vien menoe.

E dove muore, e dove nasce il Sole

faccia pompaf Imeneog de l’almah, e illustre

coppia gentil, che qui s’ammira, e gode.

E risuoni con fama eccelsa, industre

Maddalena e Pascale; anzi in lor lode

s’alzi eterno trionfo, eterna molei.

__________

a ormai

b Fiume antico di Napoli. Tirreno e Sebeto sono legati alla figura dello sposo duca d’Alife (in provincia di Caserta).

c Fiume che attraversa Francia, Belgio e Paesi bassi. Ocean e Schelda qui sono legati alla figura della sposa di origine fiamminga.

d esempio

e la cui lode adeguata l’arte non è in grado di fare

f solenne celebrazione

g In origine personificazione del canto nuziale, poi dio conduttore dei cortei nuziali.

h nobile

i testimonianza

(CONTINUA)

Per la prima parte (premessa): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/   

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/      

Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/  

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  

Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/  

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/  

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/  

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 

Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/

____________

1 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 348

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

3 Non è dato sapere se e quando uscì la seconda parte.

4 Al di là della rarità del volume, anche se l’avessi reperito in rete, non sarebbe stato possibile qui riprodurne e commentarne il contenuto, che occupa 144 pagine. Di seguito, però, riporto il sonetto  da Filippo dedicato al fratello Domenico ed inserito (nell’originale è a p. 140) nella parte che raccoglie la recensione delle opere di quest’ultimo a p. 260 del secondo volume di Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, 1713:

Domenico fra tanti Archi ed illustri/trofei, che già leggesti onde fu Roma/adorna, or vedi al variar de’ lustri/spenti, ed appena il sito oggi si noma./Ma mirando gl’ingegni alti, ed illustri,/che furo, e che di lauro ornar la chioma,/eterni, e appar di fragili ligustri/avesser sciolta la terrena soma./Teco dirai, che non in bronzi, e in marmi/s’eterna il nome,od in sepolcri alteri:/ma ‘l saper sol può rintuzzar l’obblio.Ma più Signor da’ tuoi laudati carmi,/che per istudio altrui s’attende il rio/tempo già vinto, e che la fama imperi.

5 Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano Baba, Venezia, 1655; Poesie di Lorenzo Crasso barone di Pianura, Combi e la Noù, Venezia, 1663; Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano Baba, Venezia, 1665; Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano, Combi e la Noù, Venezia, 1667; Poesie di Lorenzo Crasso (terza edizione), Conzatti, Venezia, 1668;  Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano, Combi e la Noù, Venezia, 1678; Pistole eroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano, Lovisa, Venezia, 1720

6 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, op. cit. p. 368

I coniugi Peruzzi, benefattori dello Spedale degli Innocenti a Firenze e fondatori del convento dei Minimi in Lecce

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli

 

di Giovanna Falco

Si aprono nuove prospettive di ricerca sulla storia della chiesa di Santa Maria degli Angeli e del convento di San Michele Arcangelo dei Minimi di San Francesco di Paola, ubicato in piazza dei Peruzzi a Lecce: i fondatori Giovannella e Bindaccio di Bernardo di Bindaccio Peruzzi[1] furono anche benefattori dello Spedale degli Innocenti di Firenze, dove i loro ritratti sono conservati insieme con quelli di altre personalità dell’Istituto fiorentino.

Tutte le fonti che trattano della fondazione del complesso conventuale dei Minimi in Lecce[2], seppur contraddittorie sulle date, concordano nell’attribuirla a Giovannella Maremonte, vedova di Bindaccio Peruzzi, morto il 14 luglio 1502[3].

La vedova Peruzzi su disposizione testamentaria del marito, volle far realizzare in un giardino fuori porta San Giusto un oratorio e chiesa. Il 14 maggio 1524 il notaio Sebastiano de Carolis di Firenze rogò l’atto di fondazione del convento dei Minimi di San Francesco di Paola, alla presenza del provinciale genovese dell’Ordine e di Giovannella[4].

Con testamento del 13 marzo del 1527, rogato a Firenze dal notaio Paolo Antonio de Rovariis[5], la Peruzzi donò altri beni per l’erigendo convento.

Purtroppo i documenti originari sono stati dispersi, così come i riassunti degli atti del 1524 e del 1527, eseguiti nel 1766 dal notaio Lorenzo Carlino[6].

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, portale di ingresso

 

Il giardino dov’è sorto il complesso conventuale dei Minimi, era conosciuto dai leccesi come Panduccio, distorsione dialettale del nome del proprietario, la cui presenza a Lecce è attestata negli anni Settanta del Quattrocento[7]. Ritornato a Firenze, Bindaccio Peruzzi ricoprì ruoli rappresentativi per l’Arte dei Mercanti[8], di cui nell’aprile del 1502 era ancora membro del consiglio, seppur assente[9]. Tre mesi dopo donò parte dei suoi beni allo Spedale degli Innocenti di Firenze, così com’è riportato nella targa del ritratto che lo commemora (www.catalogo.beniculturali.it › sigecSSU_FE › schedaCompleta.action): «Bindaccio Peruzzi priore del comune nel MCCCCXCV largi’ con testamento de’ X luglio MDII parte de’ suoi averi a questo brefotrofio e l’esempio del misericordioso consorte fu seguitato dalla moglie»[10] .

Stemma dei Peruzzi

 

Grazie alla consultazione delle carte d’archivio dell’Ospedale degli Innocenti, Luigi Passerini e Alessandra Mazzanti e Vincenzo Rizzo, individuano la vedova di Bindaccio in Giovannella Peruzzi, il cui ritratto nel Settecento era esposto nel guardaroba dell’Istituto[11]. La vedova Peruzzi figlia «di Niccolò De Noe»[12], proveniente dalla «Basilicata nel Regno di Napoli»[13], morta nel 1527[14].

Le date coincidono, ma Giovannella Peruzzi, nei documenti dell’archivio dell’Istituto fiorentino risulta essere un’esponente di casa de Noha, e non di casa Maremonte.

Stemma dei Maramonte

 

La diversa interpretazione del cognome della fondatrice nei documenti conservati presso il convento leccese è indirettamente chiarita da Michele Paone, quando scrive che nel 1524: «in Firenze la vedova di Bindaccio Bernardo Peruzzi, Giovannella, orfana di Nicola Gionata e Margherita Maremonte, donò ai minimi di S. Francesco di Paola la chiesa di S. Maria degli Angeli»[15]. La provenienza dalla Basilicata del padre di Giovannella, Nicola de Noha, è attestata (salvo che non si tratti di un caso di omonimia) da Giustiniani: nel 1457 re Alfonso diede Latronico «per ducati 600 a Cola de Ionata de Noha»[16]. Conferma la distorta lettura dell’atto del 1524, il nome del notaio fiorentino tramandato in maniera errata: si è individuato, infatti, Sebastiano de Carolis, in Bastiano di Carlo da Fiorenzuola, i cui atti, anche quelli del 1524, sono conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze, dove non è reperibile l’annata 1527 di Paolo Antonio Rovai, il notaio che ha redatto il testamento della vedova Peruzzi[17].

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, particolare dell’ingresso

 

Alla luce di questa identificazione, sono tanti gli elementi da riprendere in considerazione, per aggiungere nuovi capitoli alle vicende del complesso monastico. Riguardo al campo prettamente artistico, non è da escludere la provenienza diretta dei disegni per realizzare la chiesa commissionata dalla Peruzzi, dalla Firenze dei grandi artisti rinascimentali, poiché i lasciti per entrambe le istituzioni denotano l’appartenenza della coppia all’elite fiorentina. Seppur di fattura locale e successiva, è evidente, ad esempio, il richiamo iconografico della lunetta della chiesa leccese alle opere di Andrea Della Robbia.

Andrea della Robbia, Madonna con Bambino e Angeli (1504-1505), cattedrale di San Zeno, Pistoia (dal sito Tuscany sweet Life)

 

Andrea della Robbia Madonna con Bambino e angeli (1508 ca. – 1509 ca.), Museo Civico di Viterbo, prima chiesa di San Giovanni dei Fiorentini Viterbo (dal sito della Fondazione Federico Zeri, Università di Bologna)

 

Un’attenta analisi delle fonti minime, contestualizzata con le vicende storiche di Puglia e Firenze, inoltre, potrebbe determinare il perché la scelta dei fondatori ricadde su quest’Ordine. Lo studio delle vicissitudini delle famiglie dei fondatori e delle fasi costruttive del complesso monastico, potrebbero individuare l’epoca e il perché la famiglia Maremonte passò alla storia come fondatrice della chiesa di Santa Maria degli Angeli, il cui stemma è presente in facciata assieme a quello di Bindaccio Peruzzi.

 

Note

[1] Cfr. F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819 p. LXXXII.

[2] Cfr. L. Montoya, Coronica general de la Orden de los Minimos de S. Francisco de Paula su fundador, lib. I, Madrid 1619, p. 87; G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 93-94; F. Lavnovius, Chronicon generale ordinis Minorum, 1635, p. 193; R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi nel manoscritto Historialia monumenta chronotopographica provinciae Apuliae del p. Antonio Serio: (metà sec. XVIII), Roma 2005, pp. 35-40; F.A. Piccinni, Principiano le notizie di Lecce, in A. Laporta (a cura di) Cronache di Lecce, Lecce 1991, pp. 15, 224-226; A. Foscarini, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, pp. 126-130; G. Paladini, Note storico-artistiche, in L’Ordine: corriere salentino, 6 luglio 1934 , a 29, fasc. 27 (www.internetculturale.it); G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce. Curiosità e documenti di toponomastica locale, Lecce 1952, pp. 212-224; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 114-118; O. Colangeli. S. Maria degli Angeli. S. Francesco di Paola, L’ex convento dei Minimi francescani, Galatina 1977; M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, pp. 317-319.

[3] Cfr. A. Foscarini, Op. cit., p. 126; O. Colangeli. Op. cit., p. 5.

[4] Il Provinciale genovese, sostituiva padre il generale dell’Ordine, Marziale de Vicinis, assente. Padre Antonio Serio lo individua in Michele de Comte, Francesco Antonio Piccini, invece, in Antonello de Vicinis. Il Chronicon conferma quanto asserito da Serio (cfr. F. Lavnovius, op. cit., pp. 190-191). Da Piccinni in poi la data riportata è il 10 maggio 1524 (cfr. G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce, cit; L. G. De Simone, op. cit; O. Colangeli. Op. cit).

[5] Cfr. R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi, cit, p. 36. De Simone e Paone datano l’atto al 1524, attribuendolo al notaio Antonio de Boccariis.

[6] Cfr. F.A. Piccinni, op. cit.

[7] Cfr. C. Massaro, Territorio, società e potere, in B. Vetere (a cura di), Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, Bari 1993, pp. 315-316; Ministero dell’Interno. Pubblicazioni degli Archivi di Stato, XVIII, Archivio di Stato di Firenze. Archivio Mediceo avanti il Principato. Inventario, volume secondo, pp. 35, 212, 361; F. Carabellese, Bilancio di un’accomandita di casa Medici in Puglia del 1477 e relazioni commerciali fra la Puglia e Firenze, in Archivio storico pugliese 1896 a. 3, fasci 1-2, vol. 2, pp. 77-104.

[8] Nel 1496 è mastro di zecca per l’oro (Cfr. P. Argelatus, De Monetis Italiae vario rum illustrium virorum Dissertationes. Parte Quarta, Milano 1752; I. Orsini, Storia delle monete della Repubblica Fiorentina, Firenze 1760, pp. 191 e 272).

[9] Cfr. G. Milanesi, Delle statue fatte da Andrea Sansovino e da Gio. Francesco Rustici sopra le porte di S. Giovanni di Firenze (1) 1502-1524, in G. Milanesi, Sulla storia dell’arte toscana scritti varj di Gaetano Milanesi, Siena 1873, pp. 247-261, p. 247, pp. 250-52. La targa è stata trascritta anche in G.B. Niccolini, Iscrizioni per i ritratti de’ benefattori del R. Spedale degli Innocenti di Firenze, in C. Gargiolli (a cura di), Opere edite e inedite di G.B. Niccolini, Tomo VII, Milano 1870, p. 728.

[10] Fu priore del quartiere San Giovanni nel bimestre Settembre – Ottobre 1495 (Cfr. I. di San Luigi, Istorie di Giovanni Cambi cttadino fiorentino pubblicate, e di annotazioni, e di antichi munimenti accresciute, ed illustrate da Fr. Ildefonso di San Luigi carmelitano scalzo della provincia di Toscana Accademico Fiorentino, volume secondo, Firenze 1785; F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819, p. LXXXII). Nel 1759 il ritratto di Bindaccio era esposto nell’Istituto: «Dalla Chiesa per la Porta a manritta si passa nel primo Cortile, intorno intorno ornato di Colonne Corintie di pietra serena, co i Ritratti de i più insigni Benefattori alle Lunette» (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine. Divise nei suoi quattro Quartieri, Tomo ottavo, Firenze 1759, p. 129). Nel 1845 i ritratti di Bindaccio e Giovannella, dispersi o deteriorati, furono ridipinti gratuitamente rispettivamente da Giuseppe Marini e Carlo Falcini, per volontà del commissario dell’epoca cavalier Michelagnoli (Cfr. O. Andreucci, Il fiorentino istruito della chiesa della Nunziata di Firenze, Firenze 1857, pp. 175 e 275). Attualmente sono conservati presso il deposito dell’Istituto.

 

[11] Cfr. G. Richa, op. cit., p. 396. La scheda del ritratto è consultabile a questo link: https://www.beni-culturali.eu › opere_d_arte › scheda ›

[12] L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d’istruzione elementare gratuita della città di Firenze, Firenze 1858, p. 946.

[13] A. Mazzanti, V. Rizzo, Memorie dell’organo di Santo Stefano a Campi: un priore, tre famiglie di artisti e di artigiani, Opus libri, 1992, p. 31.

[14] Cfr. U. Cherici, Guida storico artistica del R. Spedale di S. Maria degli Innocenti di Firenze, Firenze 1926, p. 52.

[15] M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, p. 317.

[16] L. Giustiniani, Dizionario Geografico – Ragionato del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1802, p. 223.

[17] Cfr. Archivio di Stato di Firenze. Notarile antecosimiano. Inventario sommario. Trascrizione su database informatico degli inventari N/272-275 a cura di Eva Masini (2015).

Viaggio nei colori dell’artista neritino Luciano Falangone

 

di Pietro De Florio

Luciano Falangone, un artista esuberante e anticonformista, uomo libero e amico sincero. La sua arte indagava l’essenza seducente del colore, ma l’affievolimento della vista e poi la sua totale perdita, a causa di una crudele malattia, interruppe questo viaggio nel colore.

Lui diceva di immaginare il colore, di conservare la memoria degli accordi o dei contrasti, di emozionarsi ancora pensando all’arte che non poteva più fare o quella ricordata e studiata fatta dai grandi artisti del passato; il suo, oramai, diventava un dipingere mentale, con l’incalzare della malattia.

Un poderoso desiderio d’arte lo pervadeva, ma inesorabilmente frustrato dalla malattia, come un po’ nel mito di Tantalo, un personaggio della mitologia greca che assetato e affamato è appeso, per volere di Zeus, ai rami di un albero proteso su una palude, nell’impossibilità disperata di bere e mangiare, in un eterno supplizio 1.

Luciano Falangone nasce a Nardò il 26 febbraio 1956, primo di due fratelli e due sorelle, la madre Annetta e il padre Leonardo (Narduccio) contadino lo educano ai sani principi del rispetto del prossimo, all’amore per la famiglia e al valore dell’onestà. Nel 1982 sposa Ivana, la dolce e paziente compagna di tutta una vita, colei che lo ha sempre amato e, a volte, sopportato; il nostro artista, sebbene essenzialmente un uomo buono e generoso, non aveva un carattere facile, non ti mandava a dire le cose. Negli ultimi anni, con la perdita della vista (nel peggioramento generale della stato di salute), iniziava un vero patimento inenarrabile, per lui che era una persona vigorosa e atletica e, per giunta, pittore a cui il senso della vista non può mancare. Quindi gli si perdonava tutto volentieri.

Tra l’amore della moglie, l’affetto dei due amatissimi figli Leonardo e Giulio, Luciano concludeva precocemente la propria vita il 14 luglio 2019.

Già da ragazzo manifesta una chiara predisposizione al disegno, tant’è che da adolescente si iscrive all’Istituto d’Arte di Nardò, conseguendo la maturità d’Arte Applicata nel 1976. Gli anni della scuola sono particolarmente fecondi, acquisisce le competenze grafico – progettuali nel campo della composizione dal vero e, nel settore della rappresentazione geometrica, padroneggia il rigore metodologico della forma rappresentata nello spazio. Ma soprattutto dirompente sarà in lui lo studio della Storia dell’Arte, quando conosce i grandi maestri delle avanguardie storiche del Novecento, rimanendone affascinato, nel suo animo, ormai, è in atto una rivoluzione copernicana estetica. Tuttavia va detto che nell’Istituto d’Arte di quel periodo la didattica si sforzava di conciliare la ricerca artistica con l’industria, attraverso la progettualità e produzione seriale standardizzata di manufatti d’arredo o elementi decorativi.  L’artista non ci sta a questa specie di omologazione formale che esautora la creatività, già al terzo anno è in contrasto con qualche docente, riesce a prendersi una sospensione dalle lezioni, con l’esclusione dal viaggio di istruzione e contestuale perdita dell’anno scolastico.

All’abusato metodo di socialità artistica veteroBauhaus di quegli anni, preferisce l’esaltazione antifunzionalista dell’avanguardia surrealista, almeno qui si sente libero, nell’inversione di senso della rappresentazione (non astratta), comunque figurativa in cui si riconosce generalmente la pennellata sfumata e precisa 2 della tradizione figurativa occidentale ad iniziare dai quattrocentisti toscani. Adotta la scelta figurativa dell’esuberanza onirico – simbolica e al contempo “barocca” di un Salvator Dalì. L’altra avanguardia a cui guarda Luciano è la Metafisica novecentesca, almeno per quel che concerne la negazione della realtà naturale, privilegiando un altro mondo, appunto metafisico o metastorico, inclinando verso una più proficua adesione, sebbene episodica, per Carrà 3.

Dopo la Maturità frequenta l’Accademia di Belle Arti a Lecce. Anche in questo caso entra in polemica con i docenti: l’Accademia gli pareva troppo accademica, ormai lo spirito innovativo e rivoluzionario della pittura novecentesca si cristallizzava in una sorta di scolastica filosofica, una specie di grammatica dell’astratto, con le sue regole e canoni, cosa che a Luciano non andava per nulla, infatti dopo appena due anni abbandona l’Accademia leccese. Egli vuol tornare alle origini della pittura, al piano, alle superfici bidimensionali, agli elementi fondanti della rappresentazione, intuisce che l’arte nasce dall’artigianato, dal fare manuale cosciente, dal lavoro creativo soggetto a regole. Luciano, in un certo senso, segue questo percorso, prima di essere artista da ragazzo per guadagnarsi una propria indipendenza economica, era un artigiano o, meglio senza ironia, faceva l’imbianchino e da imbianchino nella preparazione delle idropitture osservava incantato come il colore si dava alla luce, quando dai bianchi riusciva, mescolando altre essenze colorate, arrivare al pastello desiderato o alla tinta forte prevista. È attento alle mescole dei colori che già aveva avuto modo di studiare in Storia dell’Arte a proposito degli impressionisti.

Luciano riesce a realizzare sulle tele superfici dalle campiture cromatiche liquide e vibranti a volte traslucide, opache, invece sulle pareti, cercando qui il tono ideale da accordare con le possibili varianti del contesto. Tinteggiare un muro significa farne una specie di ponte (come una finestra), un’apertura, la cortina cessa di essere barriera bianca (perlopiù) fisica e psicologia del non luogo, la parete diviene permeabile, un posto per la vita, uno spazio di vita aperto, sebbene chiuso da quattro pareti, dopotutto si vive tra quattro pareti. Quindi il colore assume una funzione di ponte, facendo fluire il senso tra interno ed esterno, allora l’ambiente si trasforma in luogo dell’abitare4. Si spiega allora perché Luciano prediligesse il Veronese e il Tiepolo, artisti che nei loro affreschi dipingevano spazi aperti e atmosferici. Per questo la prima pittura di Luciano assume un aspetto lucente di espansione coloristica liquida, si dice che in quadri di Luciano arredino, fanno ambiente, sono colore, aprono le superfici / barriere dei muri, ora l’artigiano / imbianchino diventa artista.

Non si può fare a meno di porre in correlazione l’arte di Luciano Falangone con una citazione de pittore Mark Rothko che rivalutava l’arte dell’imbianchino quale azione primaria e naturale: “Noi – diceva Rothko – siamo per la forma ampia, perché essa possiede l’impatto dell’inequivocabile. Noi desideriamo riaffermare la superficie del dipinto. Noi siamo per le forme piatte perché esse distruggono l’illusione e rivelano la verità” 5.

 

Antefatto

Un’opera d’arte può nascere da un processo creativo libero, per certi aspetti spontaneo, con soluzioni che si presentano dinanzi all’artista prima ancora di cercarle. Spesso mi trovavo nello studio di Luciano e lo osservavo mentre dipingeva. Non rinunciava a conversare, scherzava e divagava amabilmente, quando magicamente alla fine l’opera con naturalezza e semplicità cominciava ad esistere, nonostante l’artefice pensasse, durante la realizzazione, a tuttaltro. Questo per dire che se il giudizio estetico può apparire complesso nella lettura dell’opera, l’artista invece, intuitivamente (consapevolmente o meno), spesso giunge generalmente pressappoco alle stesse conclusioni critiche, ma per altre vie che sono quelle ben superiori della libertà creatrice, un po’ come sosteneva il Croce 6.

Il suo modo di produrre ancora arte figurativa, fatta di impulsi luminosi e di fine ricerca coloristica, lo rende alternativo alle sollecitazioni neoavanguardiste degli anni settanta e ottanta che arrivano nel Salento. Non lo interessano i sofismi concettuali dell’astrattismo, egli, invece, sceglie un percorso estetico, per così dire, espressionistico neometafisico – surrealista in cui il senso della rappresentazione non viene rimosso.

 

Colori e Fluidità Formali anni 80’-’90

Predominanti nella produzione artistica sono i paesaggi, ma Luciano, almeno dal 1984 – 1986, ha realizzato anche della ritrattistica e, laddove nei dipinti di vedute apparissero delle figure umane, queste connotavano perlopiù contenuti simbolici ed esoterici.

Generalmente, nei dipinti di questo periodo, la linea di terra è bassa, per dare più spazio a un cielo che transcolora dall’azzurro ai toni caldi dal giallo, al rosa e al lilla e spesso sono presenti volumi (perlopiù casette, ricoveri contadini, ecc.), plasticamente modellati e chiaroscurati, segni di sostanzialità plastica, di vaga ascendenza alla Carrà , qui e là si notano filamenti serpeggianti di vegetazione in primo piano.

Si ha la sensazione che l’artista voglia esprimere in questa prima fase un senso di pace. Altri dipinti sono impostati su linee orizzontali che ricordano l’impostazione alla Van Gogh (Mietiture del 1888), con fasce a volte monocromatiche, interrotte e puntinate dal rosso dei papaveri e da una esile linea blu di un possibile e fantastico mare posto all’orizzonte.

Lo spazio assume una disposizione fluida, non si lascia misurare, tutto è sospeso, in accordo simbolico ai spesso presenti papaveri che rimandano alla proprietà soporifera di Ipnos, il dio greco del sonno, fratello di Thanatos, per meglio dire la morte 7. Traspare una forma d’inquietudine, un senso di smarrimento, in questo spazio senza direzione e profondità, in cui si annuncia l’inconsistenza metafisica del mondo 8.

In altre opere lo sfondo linea d’orizzonte e profondità si dileguano del tutto, prende vita un sistema coloristico a spirale, in un avviluppo che inizia dai toni caldi in basso (gialli e arancio), mescolandosi con quelli freddi in alto, roteanti intorno a elementi terrestri, quali terra, spighe di grano e papaveri; il tutto dalla pregante valenza simbolico energetica (giallo: terra; rosso: potenza – azione – energia), secondo quanto teorizzava Kandinskij 9. Questa è fase di ricerca psicanalitica della pittura di Luciano: la pulsione filogenetica dell’eros (nel senso proprio, di forza vitale e libertà creativa) frustrata o frenata dall’organizzazione vincolante della strutture sociali, si trasforma in aggressività, senso di colpa e, alla fine, istinto di morte o thanatos (papavero), in una regressione psichica nel pre – biologico, al geologico, fino alla stasi finale nell’inorganico 10.

Ecco allora emergere l’aspetto surrealista dell’interiorità inconscia 11, in antitesi alla ragione cartesiana diurna dominante. È il motivo per il quale il dipinto si presenta senza alcuna separazione tra fondo e primo piano, tutto ruota intorno alle figure simboliche centrali, come nell’individuo; la psiche non è separata dal corpo e questo, per analogia, non fa da sfondo.

Fig.2

 

Nel “Paesaggio blu” (fig. 2) l’autore pare risenta degli influssi della Transavanguardia, un modo di prendere le distanze dagli astrattismi concettuali informali e, come dice Achille Bonito Oliva, si tenta di trattenere “un patrimonio storico nelle scelte dell’artista”, con un ritorno alla manualità e alla figurazione espressionistica 12.

Si tratta di un paesaggio montano e contemporaneamente marino o lacustre; dai blu intensi variamente modulati, si passa alle tonalità primarie di giallo e rosso e a quelle secondarie di verde, mentre la presenza di striature spatolate evocano un senso di profondità, ma tutto, però, vien dato in superficie in una sorta di intuizione immediata. I monti in lontananza richiamano a paesaggi lontani, strani, esotici, magari alieni. Di tutt’altro registro è il cielo, un’estensione infinita, quasi cosmica dai colori magenta, rosa e gialli che si stemperano nel blu man mano che lo sguardo sale verso l’alto in uno spazio emozionate, totale continuo nato da un unico respiro che ricorda al pittura ottocentesca dell’inglese Turner; sotto l’orizzonte, invece, un’estensione discreta (anche dei monti), sintetizzata dal blu in una sorta di recupero plastico di tradizione postimpressionistica alla Cezanne. Rimane un senso pittorico – poetico, quasi magico, per certi aspetti vicino alla pittura di Nicola De Maria 13 (tela: Mare, chiudere gli occhi, o mare. Rivoli Museo d’Arte Contemporanea), una sensazione di spaesamento, ma la gamma cromatica particolarmente estesa permette un recupero rassicurante e consolatorio.

In altre opere della metà degli anni ‘90, specialmente nelle tempere su cartoncino, inizia la fase delle rappresentazioni (apparentemente) caotiche: un turbinio di colori, bastano pochi punti di rosso (fiori), per ricomporre mentalmente l’immagine. Colori che debordano, accostamenti multipli, aspetto figurativo contraddetto dalla dissoluzione dell’immagine ecc.

Fare un quadro non è semplicemente un dare a percepire qualcosa; l’autore, invece, vuol rifare la realtà nella pienezza dei colori, nella densità di timbri, nel dissolvimento apparente della profondità dei piani. Siamo, in un certo senso, alla fase pre – classica del nostro artista. Il caos iniziale visto in termini negativi diventa adesso apertura, cioè un qualcosa che si dischiude. Infatti il significato originario di caos, per gli antichi Greci (presocratici), è proprio questo, e non mescolanza o confusione degli elementi primordiali. Quindi apertura originaria in cui ogni cosa nei suoi aspetti costitutivi è presente: dei, uomini, natura, per tutti i possibili mondi di là da venire. Scriveva Eraclito di Efeso nel V sec. a.c. “Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dei, né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è sempre fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne” 14.

Per analogia l’arte di Luciano si mostra, consapevolmente o meno, appunto come apertura di mondi, luoghi di possibili genesi alla maniera greca. È la vecchia azione del lògos che fa sbocciare naturalmente una forma facendola venire alla luce per rendersi visibile, senza che ci sia alcun calcolo o concetto di ragione strumentale 15.

Fig. 3

 

Con – formazioni (dal 2000)

In questa seconda fase la pittura di Luciano si fa più vivida ed intensa. Nel “Paesaggio con papavero” (fig. 3), il fiore è posto in primo piano alla base delle masse granarie, una quasi natura morta. Vengono in mente le esperienze astratte di Philippe Guston (1956)16 o, in ambito neofigurativo, Ennio Morlotti (1956)17.

Quando il papavero si schiude e si mostra, pur nell’ambivalenza simbolica (rosso = azione e vita; fiore papavero = sonno) diventa natura naturata, si aprono le masse fibrose del grano, attraverso la sottolineatura plastica delle strisce verticali inclinate blu rosse, verdi e magenta. Ciò è reso possibile da un orizzonte alto che permette questa successione di piani che fanno spazio, a partire dal papavero; infine la linea d’orizzonte curva e un cielo che transcolora dal rosa al bianco al blu. Una pittura che ri – fa la natura in senso originario, o meglio originale, il quadro vive, si apre, germoglia e si mostra un po’ come una nuova sostanza vivente.

Fig. 4

 

Nel quadro “La grande valle” (fig. 4) il registro cromatico cambia completamente. Si passa ai toni freddi del verde che predominano sui gialli e i rossi. I colori delle varie striature parallele e nelle raggiere della vegetazione sembrano solidificarsi. Accade qui in maniera più evidente come le tinte diventano masse plastiche, dandosi in addensamenti   in sintonia a quanto sosteneva Cezanne, alla fine dell’Ottocento: “disegno e colore non sono affatto separati, dal momento che dipingi, disegni […]. Quando il colore è al più elevato grado di ricchezza, la forma è nella sua pienezza. I contrasti e i rapporti di tono, ecco i segreti del modellato”18.

Luciano, dunque, produce una sensazione visiva (partendo dal vero) elaborata dalla propria coscienza, indagando la struttura o profondità dell’immagine nell’intimità densa del colore, cioè i neri che separano i bianchi, verdi e i gialli, il verde esaltato dal giallo (in accordo) i rossi bruni puntualizzati dai bianchi e dai gialli, i cespugli o alberi (non ha importanza) resi nuclei plastici intrisi di luce, come il lago fatto da sostanza bianca, verde gialla e nera. Prevale complessivamente una grande massa definita dall’orizzonte alto, che permette queste stratificazioni materiche conformate di risaltare su un cielo neutro dalla stesura uniforme.

Per questo gruppo di dipinti il linguaggio pittorico fa risaltare un modellato più pregnante, composto da aggregazioni plastiche sensibilissime alle iridescenze luministiche, per un’atmosfera insolita, di un mondo ricreato e trasfigurato.

 

Luoghi e Coscienza (dal 2002 al 2007)

A partire dal 2002 la paesaggistica di Luciano mostra una corrispondenza più intima verso i luoghi vissuti, cioè il Salento, le masserie nella campagna di Nardò, torre Uluzzo, i furnieddhi, casine di campagna, ecc.

L’artista non si ferma alla pura visione intimista o psicologica. Si fa strada l’elaborazione plastico – coloristica. Ciò si nota al di sotto della linea d’orizzonte, con note materico – cromatiche di fiori, piante e terreno che danno un senso di profondità di campo ai dipinti. Una specie di intuizione in cui la coscienza dell’artista elabora, nella propria durata, una rinnovata, irripetibile e unitaria visione istantanea del reale19. Un nuovo “slancio vitale” figurativo, un’onda che tende a salire dal basso fino comprendere i solidi geometrici delle costruzioni sulla linea dell’orizzonte.

In questo slancio creativo (per dirla ancora con Bergson) di solo colore, Luciano riesce a creare una visione intensa aperta e carica di emozione, di luoghi a prima vista familiari e allo stesso tempo forse mai visti o solo immaginati. Nascono personalissimi paesaggi interiori che l’artista trasfigura al contatto con la vibrante e calda luminosità di una terra salentina arcana orfica e dionisiaca, luogo di antichissimi miti mediterranei.

Fig. 5

 

La Terra della Sera

Nei dipinti dell’ultimo periodo, prima che l’artista perdesse del tutto la vista (fig. 5), la precedente poetica dei colori accesi viene superata. Si affievolisce l’entusiasmo cromatico del luogo intuito, personalmente amato. Ora compaiono terra, mare, cielo, colore, in una specie di quadratura abitante nell’animo dell’artista.

Il linguaggio pittorico si mostra nell’imbrunimento dei toni caldi (i rossi tendono al vermiglio, i gialli assumono tonalità grasse e dense, i verdi diventano più scuri) e dalla più marcata presenza di colori freddi, azzurri e verdi chiari.

In questo nuovo periodo si nota un immalinconirsi della espressione artistica e la solidificazione del tratto pittorico, con l’ispessimento del pigmento fino a diventare materia e sabbia, in una sorta di pietrificazione del sentimento. Se prima le composizioni si disponevano nella fluidità a scalare dei piani, ora si raggrumano e il passaggio dei piani (dal primo piano all’orizzonte al cielo) si dà a strati o per sfumature.

All’affievolirsi della vista, per Luciano sempre più importanza assume la propria interiorità, con la coscienza rivolta a ciò che ha visto, amato e sentito. Ecco che l’immaginazione, nella mente dell’artista, assume un’importanza fondamentale, un qualcosa di immaginato appartiene ad un altro piano dell’esistenza, rispetto ad una cosa reale, pur non essendo è una copia della cosa. Il pensiero produce immagini del tutto autonome rispetto alla realtà, sebbene ne sia debitrice, se si adopera questo ragionamento, preso in prestito da Sartre 20, per comprendere il nuovo corso artistico di Luciano.

L’immaginazione per la sua autonomia va oltre, non rappresenta oggetti, forma qualcosa di nuovo e, al contempo, si separa dal reale, perché prima è tra le cose e poi se ne allontana nella propria facoltà di essere libera. Se fossimo solo assorbiti nell’esistenza pura sarebbe difficile poter immaginare, pertanto l’immaginazione oltrepassa l’esistente, lo trascende, per un nuovo essere in una nuova situazione esistenziale e reale 21.

Si comprende allora che i nuovi paesaggi del nostro artista sono immaginati, distanziandosi dal mondo con un senso velato di tristezza.

Nel paesaggio “Fiori e cielo rosso” (fig. 5) la tonalità predominante è il rosso, poi si passa dal marrone chiaro al verde olivastro alle sfumature del rosso scuro fino all’arancione chiaro e rosa. Sull’orizzonte l’esile e ridotta, ma squillante, striscia di mare color acquamarina. Poi due strisce dai colori dal rosso al giallo e lumeggiate di bianco individuano due piani paralleli inclinati che danno un senso di profondità al dipinto e, infine, in primo piano, in basso lo spazio scuro vivacizzato dalla presenza di fiori stilizzati. In altre parole un dipinto ad onde dal cielo alla terra, dall’unica sostanza di uno spazio tutto in sé nella mente dell’artista, simile a una specie di sostanza spinoziana senza principio e fine 22 (se mi è consentito fare questo accostamento che, forse Luciano avrebbe condiviso) da cui procedono gli attributi infiniti del pensiero e della materia. Nel dipinto si concretizza l’immaginazione dell’artista, attraverso un rincorrersi infinito (dalla quiete al moto) delle onde di colore e sfumature e dei piani. Si avverte quasi un panteistico risalire dal pluralismo all’unità della sostanza in un unico concetto di immagine e qui siamo in una dimensione che nega la realtà, in quanto ne pone un’altra per sé.

Fig. 6

 

Nell’opera “Paesaggio serale” (fig. 6) le tinte sono decisamente scure: il cielo viola con sfumature di nero, grigio e giallo. La linea d’orizzonte viene individuata da alture collinari nere che si staccano dal fondo in virtù di una sfumatura intensa e degradante di arancione. Poi uno stagno o un lago, tra il blu e il viola, evidenziato con striature di bianco, è uno specchio d’acqua immobile; solo i riflessi a tocchi di bianco lo ravvivano. Tutt’intorno una vegetazione materica e corposa, sebbene sensibilizzata dalle intense luminosità dei rossi, gialli e verdi, comunque colori riassorbiti nella struttura tonale dominante. Prevalgono gli accordi di colore dei viola con i rossi, i verdi e i blu con i gialli ecc. non i contrasti (cioè tra colori composti e complementari). Tutto indica stasi, fissità, riflessione, non più “onde” strutturali, come nel dipinto precedente. Un senso di malinconia pervade l’opera, perché questo, in definitiva rimane un dipinto da terra della sera, di un tramonto imminente, la fine del giorno in una sensazione di disincanto. Tuttavia, qui e là, i rossi intensi i verdi dei vegetali illuminati di giallo denotano una gioia per il mondo, per una specie di ossimoro esistenziale.

Diversi autori qualificati e quotidiani anche nazionali hanno scritto di lui. Ha esposto un po’ dappertutto in Italia e all’estero (Parigi e Ginevra). Dal 2007 esponeva stabilmente presso la propria galleria in Corso Galliano 11 a Nardò (cfr. Brochure Salento e dintorni Luciano Falangone, Rotograf, Nardò, 2008).

 

Note

1 Omero, Odissea, XI, 382 – 392, traduz. Rosa Calzecchi Oresti, Einaudi, 1963.

2 Hans Sedlmayr, La rivoluzione dell’arte moderna, traduz. Mariangela Donà, Garzanti, Milano, 1961, p. 100.

3 Giulio Carlo Argan, L’Arte Moderna, 1770 – 1970, Sansoni, Firenze, 1970, p. 592.

4 Cfr. Georg Simmel, Ponte e porta (1909) Saggi di Estetica, a cura di A. Borsari e C. Bronzino, Archeo Libri, Bologna, 2011.

5 Paola Bacuzzi, Mark Rothko, in AAVV. Arte Contemporanea anni cinquanta, vol. I, Electa Milano e Gruppo Gedi, 2018, p. 110.

6 Benedetto Croce, Che cosa possa chiamarsi propriamente poesia popolare ”(1929), in Poesia popolare e poesia d’arte, Laterza, Bari,l 1933, pp. 1-7.

7 Karoly Kereny, Gli Dei e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore Cde, Milano, 1963, pp. 39, 167, 393 – 400.

8 Maurizio Calvesi, Storia dell’Arte Contemporanea, Fabbri, Milano, 1985, pp. 252, sgg.

9 Angela Serafino, Cerchio Rosso, (da una lettera di Kandinskij), in L’Arte e le Arti, a cura di Paolo Pellegrino, Argo Lecce, 1996, p. 174.

10 Herbert Marcuse, Eros e Civiltà (1955), introduzione di Giovanni Jervins, Traduz. Lorenzo Bassi, Einaudi; Torino, 1964, pp. 96 – 144, 163 – 167.

11 G.C. Argan, op. cit. p. 438.

12 Paola Bacuzzi, Transavanguardia e Nuova Pittura, in Arte Contemporanea anni Ottanta, a cura di Elena Del Drago, vol. IV, Electa / Gedi, Milano, 2018, pp. 26- 27.

13 Elena Del Drago, Op. Cit. p. 44.

14 Eraclito, in Angelo Pasquinelli, I Presocratici frammenti e testimonianze, Einaudi, Torino, 1959, DK B 30.

15 Martin Heidegger, Introduzione alla Metafisica (1935), introduz. Gianni Vattimo, traduz. Giuseppe Masi, Mursia, Milano, 1968, p. 25.

16 Paola Bacuzzi, Espressionismo astratto, in Francesco Poli, Simona Bartolena, Arte Contemporanea, Op. Cit., pp. 86 -97.

17 Marco Meneguzzo, La Storia dell’Arte, L’Arte Contemporanea, vol. XVIII, Electa /Espresso, Milano 2006, p. 144.

18 Simona Bartolena, Alle Radici dell’Arte Contemporanea, in La Storia dell’Arte, L’Età dell’Impressionismo, vol. XV, Electa /Espresso, Milano 2006, p. 687, da cit. Paul Cezanne.

19 Henry H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), traduz. Vittorio Mathieu, Paravia, Torino, 1951, pp. 100 – 115.

20 Jan Paul Sartre, L’Immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni , traduz. E. Bonomi, Bompiani, Milano, 1962, pp. 9 – 129.

21 J. P. Sartre, L’Immaginario o immagine e coscienza , traduz,. E. Botasso, Einaudi, Torino, 1948, pp. 278 – 290.

22 Cfr. Baruch Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1665), traduz. G. Durante, Sansoni Firenze, 1963, pp. 8 – 69.

Alberico Longo di Nardò alle prese col Petrarca

di Armando Polito

Dell’illustre concittadino mi sono già occupato in tempi diversi e il lettore che voglia saperne di più, prima o dopo la lettura di questo post, ha solo l’imbarazzo della scelta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/

 

In Le Rime di M. Francesco Petrarca riscontrate con ottimi esemplari stampati e con uno antichissimo testo a penna, Giuseppe Comino, Padova,  1722, a p. CIV si legge: in fine dell’edizione del 1740, che è la prima in ordine del presente Catalogo, aggiungasi , che nella Libreria del più volte menzionato Signore Giuseppe Smit, Inglese, in Venezia, se ne conserva un esemplare, in cui si leggono traduzioni in versi latini eleganti  d’alcuni de’ più celebri Sonetti del Petrarca, fatte da M. Alberico Longo Salentino  ad istanza del Sig. Francesco Melchiori da Uderzo, il quale le scrisse di sua mano, ed aggiunse ancora in molti luoghi di cotesto Codice, da lui una volta posseduto, dotte ed erudite osservazioni.

in Almorò Albrizzi, Memorie storiche di Oderzo, Venezia, 1743, a p. 5 si legge: Biblioteche. Di Biblioteca trovansi competentemente provveduti i PP. Cappuccini in materia di SS. PP. e Cà Amalteo in materia di Belle Lettere di ottime Edizioni, con qualche Manoscritto antico, fra’ quali un Petrarca moralizzato manoscritto d’incerta Autrice, lodata dalla Sig. Luisa Bergalli, che la suppone Veneta. Ve n’era poi una assai insigne di Francesco Melchiori, qui a a C. 9 riferito, ed accennata dal Bonifazio , (Stor. Triv. C. 20) nonché dalli Sig. Volpi di Paova nel loro ultimo stampato Petrarca, andata, non molti anni sono, compassionevolmente dispersa, parte in Venezia fra le celebri Biblioteche Soranzo, Pisani, Zeno, PP. della Salute, e Smith, il quale ne à riportato una Edizione sì rara di esso Petrarca, che non si sà, ove trovarsene il terzo esemplare; e parte in Inghilterra.

La notizia è ripresa, senza aggiungere granché,  in Gian-Giuseppe Liruti, Notizie delle vie ed opere scritte da’ letterati del Friuli, Tipografia Alvisopoli, Venezia, 1830, p. 428: E per verità, bisogna , che fosse un singolar piacere di un uomo amatore dello studio dell’Antichità, della erudizione e delle buone lettere l’andar a ritrovarlo  [Francesco Melchiori] in Oderzo; dove oltre una bella abitazione con le sue aggiacenze, e la di lui gioconda, e dotta conversazione, aveano una copiosa, e scelta Biblioteca, ragunata da lui di Libri stampati , e manoscritti, lodata dal Bonifazio nella Storia di Trivigi ultimamente ristampata, e da altri, nella quale potevano divertirsi, e che ora, non sono molti anni, è andata dispersa, parte in Venezia nelle Biblioteche Soranzo e Pisani, e parte in quelle di Apostolo Zeno, de’ Padri Somaschi della Salute, e del Sig. Smith, al quale è toccato un raro Pertrarca, e parte in Inghilterra.

Un risolutivo passo avanti, invece, costituisce quanto scrive Cesare Scalon, Tra Venezia e il Friuli nel Cinquecento: Lettere inedite a  Francesco Melchiori  in un manoscritto udinese (Bartolini 151) in Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Villanovich, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1984, p. 625: Il Petrarca, di cui fa menzione l’Albrizzi, è un Canzoniere di Vindelino da Spira del 1470, ora nella British Library (C. 6. b.2): dopo essere stata postillata da Alberico Longo Salentino, questa preziosa edizione era entrata in possesso di Francesco Melchiori, come documentano alcune note autografe del medesimo7. E in nota 7 l’informazione più ghiotta: London, British Library, C. 6. b. 2. Sul foglio di guardia anteriore IIr di mano del Melchiori: “Questo sonetto fu tradotto da M. Alberico Longo Salentino a mia contemplatione”, “Alla dolce ombra delle belle frondi- Canzone carissima al signor Francesco Sugana, mio cognato”.

Nel catalogo del Comino si faceva riferimento a traduzioni in versi latini eleganti  d’alcuni de’ più celebri Sonetti del Petrarca, fatte da M. Alberico Longo Salentino  ad istanza del Sig. Francesco Melchiori, dunque a più dei soli componimenti (un sonetto e una canzone) annotati di propria mano dal Melchiori nell’edizione custodita a Londra; a meno che il loro gradimento particolare a lui e a suo cognato l’abbia indotto a non dir nulla delle altre traduzioni.

Questa premessa è indispensabile per dire che, in attesa che la British Library immetta in rete la copia digitalizzata del prezioso testo, operazione indispensabile per procedere ad un controllo senza muovere un passo e senza spendere un centesimo, quella che mi accingo a presentare è la traduzione in latino fatta dal Longo di un sonetto dell’aretino, non prima di aver detto, ad onore, una volta tanto, dell’Italia che esso è contenuto in un manoscritto (Vat. lat. 9948) del XVI secolo conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e liberamente consultabile all’indirizzo  https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.9948, manoscritto del quale mi sono già servito in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/.

Ne riproduco dalla c. 105v il dettaglio che ci interessa.

Ecco la trascrizione:

Pet(rarca) Canzo(n)iere Tradottione del so(netto) Io mi rivolgo indietro a ciascun passo.

Alberici Longi Salentini 

 

Retrorsum aspicio passim dum corpore fesso

pes titubans proprium vix facit officium.

Tunc mi animum reficit vestris qua fertur ab oris

aura, et me querulum carpere cogit iter.

Mox mecum reputans bona quae iocondaa relinquo

quam sit iter longum quam mihi vita brevis.

Sisto gradum pavidus, nec non lachrymantia tristis

fixa diu teneo lumina nostra solo.

Interdum interb lachrymas dubius mecum ipso voluto,

quo pacto absque animo sistere membra queant.

Tunc Amor, an nescis proprium esse hoc munus amantum,

quorum hominum a reliquis longe alia est ratio. 

__________

a Errore del copista per iucunda.

b Errore del copista: inter (indotto dal precedente interdum) per in.

 

Agli errori del copista va aggiunto quello presente nella schedatura (https://opac.vatlib.it/mss/detail/74990), dove nella trascrizione dell’incipit si legge auspicio per aspicio.

 

Fornisco ora la mia traduzione letterale per consentire agevolmente al lettore di fare il confronto con l’originale:

 

Indietro guardo qua e là mentre per il corpo stanco

il piede titubante a stento fa il suo dovere.

Allora mi ristora l’animo, dove dalle vostre contrade spira,

l’aria e mi costringe ad intraprendere un lamentoso cammino.

Poi pensando tra me i beni gioiosi che lascio,

quanto lungo sia il cammino, quanto breve per me la vita,

timoroso fermo il passo e triste i lacrimanti

occhi miei a lungo tengo fissi al suolo.

Talora in lacrime dubbioso tra me stesso penso

per quale patto le membra possano stare senz’animo.

Allora Amore:  – Non sai che è proprio questo il dono degli amanti,

esseri umani la cui condizione è ben diversa da quella degli altri?

 

E questo è l’originale (componimento XV dell’edizione critica del Canzoniere a cura di Gianfranco Contini, Edizioni Einaudi, 1964; nella stessa edizione la canzone annotata dal Melchiori è il componimento CXLII):

 

Io mi rivolgo indietro a ciascun passo

col corpo stancho ch’a gran pena porto,

et prendo allor del vostr’aere conforto

che ‘l fa gir oltra dicendo: Oimè lasso!

Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso,

al camin lungo et al mio viver corto,

fermo le piante sbigottito et smorto,

et gli occhi in terra lagrimando abasso.

Talor m’assale in mezzo a’tristi pianti

un dubbio: come posson queste membra

da lo spirito lor viver lontane?

Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra

che questo è privilegio degli amanti

sciolti da tutte qualitati humane?

 

Spero che la mia traduzione sia riuscita a far comprendere come il Longo si sia attenuto quanto più era possibile all’originale. Non mi riferisco, però, solo all’aspetto concettuale, perché anche le scelte formali confermano la fedeltà. Mi si dirà che ai canonici quattordici endecasillabi del sonetto corrispondono sei distici elegiaci (in totale dodici versi) della traduzione. Credo che il Longo non avesse altra scelta e che proprio le caratteristiche del distico elegiaco (in cui il primo verso può variare da un massimo di diciassette ad un minimo di dodici sillabe, il secondo da un massimo di quattordici ad un minimo di dodici) abbiano determinato quella differenza di due versi, pur garantendo, a differenza di altre combinazioni metriche, un ritmo più vicino a quello dell’endecasillabo.

La ceramica di S. Pietro “degli Imbrici” (in Lama) prima della Manifattura Paladini.

interno di una bottega ceramica in San Pietro in Lama

 

di Valentina Pagano e Riccardo Viganò

Il territorio di San Pietro in Lama è stato da sempre vocato alla lavorazione e produzione di manufatti ceramici in quanto ha saputo sfruttare la conformazione geomorfologica del territorio in cui insiste, un’area del Salento nota come Valle della Cupa. Qui la presenza di terreni fertili, unita alla facilità di reperimento di argilla e d’acqua, ha incoraggiato la frequentazione e lo sfruttamento del territorio da parte dell’uomo sin da tempi antichissimi.
La propensione alla produzione ceramica è insita nel DNA di questo centro produttivo. La sua importanza sul territorio salentino la possiamo dedurre in già “antiquo” dal nome con cui San Pietro in Lama era noto in passato, vale a dire “degli Imbrici”.
Nel 1580 il domenicano Egnazio Donati, su commissione di Papa Gregorio XIII, realizza le Tavole Geografiche d’Italia e nella sezione dedicata alla Sallentina Peninsula il paese viene denominato come “San Pietro dell’Imbrice”.

Osservando la carta si denotano errori legati alla corretta ubicazione del centro ; tuttavia è importante sottolineare che all’autore interessa evidenziare, a scapito dell’esattezza geografica, l’attività prevalente degli abitanti, vale a dire la produzione su vasta scala di laterizi. Un’ industria questa che caratterizzava ed interessava non solo il tessuto ma anche il disegno del centro abitato tanto che i camini delle fornaci sono ben evidenziati nella tela del XVII secolo, conservata sull’altare maggiore della chiesa della Madonna dell’Immacolata o della Croce, in cui si raffigura S. Irene che protegge dai fulmini il piccolo casale con la città di Lecce .
L’aspetto geomorfologico del territorio viene evidenziato da due cartografie, eseguite nel 1567 e nel 1595 dal cartografo veneziano Jacopo Gastaldi, dove il centro di San Pietro viene definito una prima volta di “Busi”, forse un richiamo all’attività di estrazione dell’argilla attraverso gallerie, e nella seconda stesura “Buli”, per la presenza di bolo.

La materia prima, l’argilla, veniva estratta nei terreni vicini all’abitato che si è sviluppato su sabbioni tufacei addossate ad argille giallastre e turchine. I banchi di argilla sono documentati in località S Anna e Cave dove, fino alla metà del ‘900, si potevano osservare gallerie sotterranee dalle quali si estraevano zolle di argilla giallastra che venivano, successivamente, lavorate nelle botteghe dei figuli.

Un’altra area di estrazione era sita in località Purtune Russu: qui vi erano cave di argilla azzurrina e bolo .
In assenza di dati provenienti da scavi archeologici, una fonte preziosa per la ricostruzione del passato recente del nostro centro sono le ricerche eseguite alla fine degli anni sessanta dello scorso secolo, dagli studiosi tedeschi Hampe e Winter, i quali si recano nei vari centri produttori presenti nel Salento, tra cui San Pietro in Lama, per studiare le tipologie di fornaci e i tempi di cottura del materiale ceramico prodotto nelle botteghe tradizionali ancora efficienti.

Da essi veniamo a conoscenza che nelle botteghe erano attive delle fornaci di tipo verticale, presenti anche a Cutrofiano, definite dagli stessi studiosi di tipo “salentino” . Oggi, tuttavia, di questa tipologia di fornace a San Pietro in Lama non sembra esserci più traccia. Solo negli atelier appartenenti ad antiche manifatture site nella periferia nord ovest del paese, in località Purtone Russu, sono ancora attive fornaci a combustione simili a quelle antiche, ma tipologicamente diverse dal primo esemplare in quanto costruite con una forma ed una tecnica che richiamano quelle di origine grottagliese, importate nel basso Salento da figuli proveniente da Grottaglie nella prima metà dell’800.
Le botteghe, in passato, erano concentrate nel cuore dell’attuale centro storico, con Nardò, quasi un unicum in Puglia. Ogni quartiere aveva nel suo interno uno o più atelier ceramici.

Il centro storico coincide con lo sviluppo urbanistico che il paese aveva già ben definito agli inizi del Seicento. In questo periodo si possono riconoscere i seguenti quartieri: isola di S. Antonio Abate, protettore dei ceramisti, il quartiere più antico; l’isola di S. Nicola, così chiamata per la presenza dell’omonima chiesa abbattuta sul finire dell’800 per favorire l’ampliamento di piazza del Popolo; l’isola delle Amendole; l’isola di S. Giovanni e l’isola di S. Stefano.
In generale, le botteghe erano prossime alla casa in cui il figulo abitava, di solito confinanti ed in simbiosi con laboratori di conciatori di pelli e saponari per via della grandissima facilità di reperire a poco prezzo la cenere. A causa dell’interdipendenza di botteghe di diverso utilizzo ed altamente inquinanti a volte accadevano disordini, legati alla carenza di igiene, che davano fastidio alla comunità e che portavano a delle soluzioni abbastanza drastiche.

Accadde, ad esempio, che nel 1753 a ridosso della festività patronale, per porre fine a questi continui “litigi, disturbi e pubbliche irrequietudini”, l’Universitas di Lecce decise di demolire alcune di queste botteghe inviando sul posto l’ingegnere ebreo Mosè per far eseguire quanto stabilito. Dai documenti sappiamo che le botteghe demolite erano di proprietà della famiglia Andriolo e di Vito Pascali, ed erano ubicate lungo la strada che collegava la piazza con la chiesa della Madonna della Croce, vicino alla piazza del mercato .
Ad un esponente della famiglia Pascali, il maestro Pietro, si deve la realizzazione di uno dei manufatti più noti della produzione di S. Pietro in Lama. Si tratta del boccale a sorpresa, il cosiddetto “bevi se puoi”, oggi esposto nella Pinacoteca Barocca “Antonio Cassiano” del Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce. Il boccale, rispetto ad altri esemplari della stessa tipologia conosciuti, si distingue per una filastrocca che accompagna il gioco della passatella, scritta e firmata dallo stesso Pascali nel 1750.
Il testo dice:
Da qui sopra entra il vino Lo vedete e lo sentite
E se bevere volete bisogna fatigar
Cercate e provate quell’ingegno bello e caro
Ma se io non vi la imparo
Solo viento e ci escerà.
IO M. PIETRO PASCALI SAN PIETRO IN LAMA – 1750.”

il “bevi se puoi” di Pietro Pascali esposto nella Pinacoteca Barocca “Antonio Cassiano” del Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce

 

Grazie a questo esemplare e ad antichi documenti riguardanti l’antico Monastero di S. Chiara di Nardò sappiamo che San Pietro in Lama non era specializzato solamente nella produzione di laterizi, come mattoni, tegole e coppi, appunto “imbrici”, ma anche di ceramica d’uso e da dispensa. Si producevano, infatti: “mortai”, “catini” e “limbe per fare la colata” etc., piatti e boccali smaltati e decorati come il nostro “bevi se puoi”. La produzione, nonostante il basso numero di botteghe presenti, e la diversificazione di fatture, riusciva a soddisfare non solo le esigenze della vicinissima città di Lecce, ma anche quella di altri importanti centri vicini, come la città di Nardò e Copertino .
È bene evidenziare che l’elenco dei ceramisti qui dato, per il periodo compreso tra il Seicento ed il secolo successivo, data l’alta mobilità di manodopera specializzata, potrebbe risultare incompleto perché non tutti i ceramisti esistenti ed operativi a S. Pietro in Lama sono registrati come tali nella documentazione ufficiale in nostro possesso.
La contestualizzazione delle botteghe dei secoli passati viene mantenuta anche nell’Ottocento.

Dallo studio dello Stato dei Patentati di questo centro produttivo, redatto durante il periodo napoleonico a cavallo degli anni 1811 – 1815, non solo la distribuzione delle botteghe rimane invariato, ma anzi da una lettura complessiva di questo elenco, si evince come a San Pietro in Lama ci fosse uno dei centri con più manodopera specializzata registrata, dopo i centri di Cutrofiano e Grottaglie in Terra d’Otranto.
La decadenza degli atelier ceramici, se di decadenza possiamo parlare, comincia quando Angelantonio Paladini imprenditore già Sindaco di Lecce nel 1866, fondò nel 1872 nella sua villa esistente nel territorio di San Pietro in Lama una manifattura ceramica che dava lavoro a più di 150 impiegati, (agli inizi reclutati dall’area napoletana) e nella quale si fabbricavano, tra l’altro, maioliche artistiche (firmate Manifattura Paladini- Lecce).

Fu un esperimento questo destinato ad avere breve durata, difatti si concluse solo nel 1896, quando la fabbrica chiuse i battenti a seguito della morte del fondatore .
A questa quasi feroce industrializzazione alla quale sopravvive si aggiunge la crisi del settore avvenuta con l’introduzione dei materiali plastici i quali a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, fecero decadere usi poveri e tradizioni pluristratificati da secoli, a favore di una più agiata “modernità”.

A tutt’oggi nonostante le crisi di settore, e la mancanza di vocazioni all’arte, questa tradizione fatta di argilla acqua e fuoco, viene portata avanti dagli oramai rari discendenti di queste famiglie che da secoli con Orgoglio si trasmettono da padre in figlio segreti alchemici di quest’arte millenaria.

Achille Tresca di Lecce, il plagiario seriale

di Armando Polito

La condivisione, come tutti i concetti umani, ha una connotazione morale neutra, nel senso che sarà l’applicazione concreta a decidere, sulla scorta di ciò che la nostra razza, troppo spesso per unanime, ipocrita convenzione che per sincera e responsabile convinzione, avrà fatto in concreto, se condividere, come anche il suo contrario, dissociarsi sia un bene o un male. Se qualcuno mi chiedesse un vocabolo o una locuzione sostitutiva di “rete” direi senza pensarci su troppo, “condivisione digitale”. Già quella non virtuale aveva i suoi inconvenienti: riferendomi, per esempio,  alla pubblicità, sono veramente sempre sicuro dell’affidabilità del passaparola relativamente alla bontà o meno di un prodotto? Pagheremo di persona, questo è certo, l’esserci fidati e pure il suo contrario e, se non siamo idioti, dopo essere rimasti disgustati, mettiamo, da un prodotto alimentare consigliatoci da un amico, non consumeremo più quel prodotto e ci terremo l’amico? Ma al mangiare, diventato sempre più freneticamente convulso e disordinato, della vita reale, corrisponde il fagocitare di quella virtuale e, come tendiamo a rimpinzarci di quel certo cibo di una certa marca che in quel momento è di moda, così tracanniamo, senza pensarci su almeno tre volte, tutti i bocconi che la rete ci offre: ora genuini, ora artefatti, ora scientificamente fondati, ora giullarescamente fantasiosi , e chi più ne ha più ne (im)metta. Finché il social non è esistito,  il rischio della diffusione del letame culturale (che non fa bene al cervello come, invece, quello reale fa bene alla terra) si limitava in partenza a qualche blog personale (in cui non mancava qualche banner a farti l’occhiolino …) in partenza e nella credulità dell’internauta in arrivo. Quest’ultimo, però, se avesse voluto rendere partecipe qualche amico dei contenuti che avevano suscitato il suo entusiasmo, avrebbe dovuto annotarsi l’indirizzo e passarglielo: operazione troppo complicata per diventare abituale. Con il social la musica cambia, perché basta un semplice clic per condividere con tutto il mondo qualcosa di veramente nostro o spacciato come tale (senza citazione dell’autore per pigrizia o, più spesso, per malafede) o qualcosa che altri a loro volta hanno condiviso con noi; e in qualche caso con effetti esilaranti … (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/20/uno-scherzo-da-prete-anzi-da-cardinale-no-unidiozia-made-in-web/).

Com’è noto, il reato di plagio riferito ad una persona è stato cancellato dal nostro ordinamento, ma permane, almeno sulla carta, quello riferito all’ambito artistico in generale ed a quello letterario in particolare. Se lo sfruttamento commerciale di un’opera altrui era in passato facilmente perseguibile avendo tra le mani il corpo del reato (la pubblicazione plagiata), con l’avvento della rete l’operazione risulta molto più complicata perché spesso la creatura spacciata per originale è un mosaico frutto di un copia-incolla in parecchi casi, fra l’altro, pateticamente maldestro.

La stessa rete, però, a dimostrazione che anche un raggio laser può incenerire un corpo o guarirlo, offre lo strumento, a chi ne ha tempo ma soprattutto voglia, di smascherare l’inganno tramite l’accorto uso di motori di ricerca sempre più sofisticati.

Il caso contemplato nel link prima segnalato è a tal proposito emblematico, ma quello che sto per proporre è ancora più interessante e, per certi versi, scandaloso1, nonché la riprova che il proverbiale vizio del lupo è congenito, invece, alla nostra razza …

La Biblioteca arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi custodisce, fra l’altro, manoscritti, alcuni dei quali, digitalizzati ed immessi in rete, ho potuto sfruttare più di una volta2.

Potrei definirlo, in base alle conclusioni che ho tratto, Dossier Tresca. Prima di entrare nel cuore dell’argomento, non guasta qualche immagine.
Chi volesse leggere integralmente quello che riguarda il post di oggi, lo troverà all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209704&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU.

Inizio con quello che può essere considerato a tutti gli effetti (lunghezza compresa, non certo eccezionale a quei tempi) un frontespizio.

Descrizione della Giapiggia in lingua Toscana formata d’Achille Tresca di Lecce per servizio, ed uso del Real Infante D. Carlo IV Borbone, Dio gratis, degnissimo Real Figlio di D.  Ferdinando IV, che il Ciel feliciti, Invittissimo Monarca, Re delle due Sicilie, di Gerusalemme, Infante delle Spagne, Duca di Parma, e Piacenza , e Castro, Gran Principe di Toscana, e Suoi Gloriosissimi Antecessori. Nella medesima opera l’Autore dedica ed offre venti sonetti, e due sestine alla R. M. di D. Ferdinando IV, Real Progenitore del sopra nominato Reggio Infante. 1775

(carte 4r-5v; la foto seguente si riferisce alla 4r, la trascrizione a tutte)

 

Cinque lettere responsive, che forma l’Autore in lingua toscana, e le dirigge per la volta di Vineggia ad un tal Ettore Morosini, chi dimanda d’aver qualche distinta notizia della Giapiggia, come familiarissimo Amico del medesimo.

Allorché, Sire, mi surse talento di pregare S. R. M., Dio gratiis, a concedermi la grazia, ed a darmi l’onore di poter io dedicare La descrizione della Nostra Giapiggia al vostro Reale Infante, e nostro Novello Padrone, fu sorpreso il mio cuore da un eccessivo piacere, perché conobbi avverato quel, ch’egli innanzi tratto presagito m’avea, val quanto dire, che la nostra Padrona, che il Cielo la conservi, e la feliciti, infantar si dovea, e produrre alla luce un Real Bambino;  tanto più crebbe in me la gioia, ed il contento in aver io la bella, e vaga sorte di vedere assicurati li vostri Regni, e Domini colla perpetuità della Prole, e di godere noi il gran vantaggio d’essere perpetui Vassalli, come di Vostra Real Maestà, così ancora della di lei Real Progenie, per lo mezzo della nostra discendenza. Io non ò tralasciato, come tuttavia non cesso, di porger grazie all’Altissimo per un tale felice avvenimento;  gli avanzo di continuo le mie preghiere per la conservazione di S. R. M., e per quella del suo Real Figlio, affinché in processo di tempo se ne veda Progenitor contentissimo; e noi altri suoi fedeli Vassalli possiam godere gli effetti, non solo di vostra protezione, m’ancora di quella del vostro Reale Infante in staggione così lieta, e tranquilla, com’è la nostra, perché parmi rinovellato l’aureo tempo de’ Cesari, e dell’Augusti. Mentre ch’io ero dalla grande allegrezza scosso, ed aggitato, mi ritenevo nel chiuso recinto della mia stanza brillandomi il cuore in petto fuor dell’usato per lo soverchio impiacimento alla novella del felice successo , quando mi si fe’ presente la mia musa, ed in atteggiamento di leggiadra, e veneranda donna venn’ella meco a parte della mia consolazione, poiché fattamisi d’appresso tutta lieta, e festante, dettandomi in una notte, ed in jn giorno sessanta sonetti, e sei sestine, dieci  de’ quali, ed una sestina ò stimato i situarli nel principio della descrizione della Giapiggia, ed altri dieci con un’altra canzone nell’ultimo luogo della medesima. Il rimanente lo serbo io presso di me, per non recar noia, ed infastidire S. R. M. colla lunghezza, e coll’inculto stile de’ miei rozzi versi. Va’ mi disse ella, che là dove ptterai dedicar la descrizione della Giapiggia al nato Infante Reale, parmi ben convenevole di offerire alla R. M. di Ferdinando IV, di costui Real Progenitore, quel che ora io ti detto. Dopò di chè ottenutami la promessa, si dileguò in aura la musa, e mi si diè l’aggio di esemplarne la copia delli seguenti versi, quali a S. R. M. gli presento, ed umilio. Sire, conosco molto bene di qual castigo sia degno colui, che alla sua musa oppone, e contrasta: quindi per obbedirla, mi convenne fargli alla M. S. presenti . Ma mio malgrado, perocché stimo di essere troppo grande l’audacia di quei vassalli, che s’ingegnano di lodare in prosa, od in verso la virtù del loro Monarca, essendo questo qual chiarissimo Sole, che dapertutto scintilla, e risplende. Egli è un Vicedio della Terra, cui deesi prestar cieca ubbidienza, e rispettoso omaggio da’ suoi Vassalli; ma incoraggisco il mio spirito ad umiliarle i qui descritti versi, non per altro motivo, se non se, per dimostare al mondo la fedeltà. e devozione di un suo umilissimo, e sincero suddito, qual’io sono, e protesto; ed oltre a ciò le porgo tal proferta benche tenuissima, affinché i Lettori della descizione della nostra Giapiggia possano in verità rilevare, che alla bellezza del sito della medesima, alla moltitudine de’ prodotti corrisponda assai bene il Real Valore del Padrone,  che la possiede, qual’è S. R. M., di cui umilmente ne imploro la protezione.

 

Seguono (carte 5v-12r) 5 sonetti e una sestina e ancora 5 sonetti. Per motivi di spazio, già prima emersi, da ora in poi riporterò solo la trascrizione dei brani che ci interessano.

 

(carte 13r-16r)

Cinque lettere responsive, che forma l’Autore in lingua toscana, e le dirigge per la volta di Vineggia ad un tal Ettore Morosini, chi dimanda dall’Autore d’aver qualche distinta notizia della Giapiggia.

Lettera prima

Ecc.mo Sig.re

A me medesimo rincresce, ed il mio cuore è da gran cordoglio trafitto, quando meco stesso considero d’essersi in parte spenta, e pressoché dell’intutto dileguata la gloriosa rimembranza, ed il celeberrimo nome della nostra rispettabile Reggione, talché se vestiggio alcuno, per così dire, o reliquia di gran Cittadi  in parecchi luoghi si scorda, ciò però non ostante se  n’è smarrito il sentiero,e se n’è confusa la traccia, né rinomata alcuna sovrasta, o delle orrevoli cose intraprese, o delle Città medesime, o di alcune lettere particolari, onde gli nostri Giapiggi si servivano, innanzi tratto, che i Greci qui calassero appresso il Troiano Eccidio. Questa è del Mondo la variabile incostante vicenda. Corrono a dileguarsi le cose de’ Mortali, non altrimenti, che lieve soffio d’aura passeggiera, o pur qual nebbia, qual ombra, o qual fugace sogno, il vorace tempo tutto rode, e consuma. Penzo io, che la nostra Giapiggia fusse stata molto gloriosa, e di celeberrima fama poco prima del Troiano diroccamento . Ripigliò la medesima forza, e vigore dopo l’arrivo di Lizzio Idomeneo, e de’ Spartani, e di Falanto, vergando i Greci il tutto sù delle carte, per li autentici monumenti delle lettere. Di belnuovo li Goti, indi li Longobardi occupando l’Italia a richiesta de’ Greci, o piuttosto de’ Romani, ogni Reggione, ch’era nel mezzo dell’uno, e l’altro Impero fù da que’ Barbari miseramente devastata, e pressoché distrutta, giacché trovasi la Messapia ,o sia Giapiggia allogata nel mezzo dell’Oriente, e dell’Occaso. Porgo a S. E. un esempio qual fù la Guerra de’ Turchi, che se poco prima fusse stata eseguita, forse, e senza forse tutta la Giapiggia vedrebbesi da noi presentemente al suolo adeguata, e compiagnerebbesi nostro malgrado la totale rovina della medesima. Fioriva, egli è vero, una gran moltitudine di uomini, una gran copia di Città, e di Reggioni là nel Peloponneso, capace di molti potentissimi Popoli; ora però dalle continue Guerre de’  Viniggiani, e de’ Musulmanni è stata in tal maniera rovinata, e disfatta, che reca pietoso spettacolo agl’occhi de’ guardanti. Il documento degli antichi scrittori da noi si è smarrito. Come di Eratostene, e d’Ipparco. Nella staggione di Ptolomeo, Plinio, Pomponio, Strabone, e Dionisio in questa Terra altro non vi soprastava per la variabil fortuna delli umani accidenti, che piccoli Contadi, Terre malnote, o neglette. Se a noi sarà di gradimento di riandare i libri degli antichi Istorici, e Giografi, ritroveremo nella Giapiggia anche cose degne di ammirazione e perciò d’esser annotate. Falanto, Platone, Archita, Aristotele, Theofrasto, e le Guerre di Annibale: il porto di Brindisi meritò da pertutto lodevolissima fama, e solenne rimembranza, per lo passaggio de’ Romani in Grecia. Quindi gli scrittori tramandarono a noi delle testè divisate cose qualche memoria considerevole, e speciosa. Io mi persuado, e credo, che Giovano Vitalliano abbia dato gloria, ed onore alla Città di Otranto, la di cui manierosa maniera pompeggiò e di eterna rinomata divenne a’ tempi di Giustiniano Imperatore, mentre ché Vitalliano lo serviva da Capitano nella Guerra de’ Goti, onde prese tutta la Provincia il nome dell’anzidetta Cittade. Leuca, Ugento, Gallipoli, Nardò, Vaste, Galatone, Soleto, Rugge, Mandurio, Cellie, Oira, Galeso state sono dall’ingiurie de’ tempi desolate, e pressocché diserte, e l’Eroiche gesta de’ Naturali, e Cittadini delle medesime furon poste in oblio, od ignorate, o neglette. La nostra Lecce sol tanto egli è purtroppo rinomata, e gloriosa per la storia del Principe dell’Antonino, la qual ne addita, che abbia egli tratta la sua materna prosapia da Malennio di Dasumno Figlio, e Re de Salentini. Altri chiamolla col titolo di Lupiarum, altri col solo nome di Rhudiarum. Guidone di Ravenna, che molti scrittori li più moderni in parecchi cose lo adoprano per Testimonio, e che io poco fà ò letto, e riandato, non è né troppo novello, né troppo antico  Autore. Lo stato in cui erano le nostre cose nel di costui secolo rilevasi a chiaro lume dalle parole del testé divisato, le quali io con brevità ne porgo a S. E.; e presento in brieve il senso, e il significato. Leggonsi molte cose che fà duopo comprendere, e capire. In alcune altre mancò, in quelle deesi accaggionare l’ingiuria del tempo. In questo è degno di compatimento, in quelle meritevole di lode. Perocché se quelle in qualunque maniera siano, scritte non avesse, neppur noi potremmo a chiaro lume capire queste, che a S. E. scrivo. Egli il divisato Autore è stato il mio fido compagno con averlo più fiate trascorso, e riletto. Dal di lui avviso, e notizia me ne sono avvaluto, senza mai dipartirmi dal suo giudizio, e dalla mia idea, quando l’ò conosciuta, e ravvisata alla verità più propinqua,e vicina. Non così aggevolmente può mettersi  in prospetto quel che una fiata si è dileguata, ed abbolito dalla memoria degli uomini. Noi per quanto le nostre forze reggeranno cerchiamo sempre dar lustro al Padrio suolo. Ch’egli tra’ Salentini abbia considerata Lecce, non traviò dal vero, ma fecesi vincere, e superar dall’errore allorché nomò Gallipoli colla voce  di Lecce, ch’Ennio tratti avesse i suoi natali nella Calabra sponda; dice il vero che abbia avuta, e sortita la sua origgine in Taranto, s’inganna all’ingrosso. Perciocché Pomponio dice, che la Nobiltà dell’Antica Rugge la tragga, e la ripeta dal suo Cittadino Ennio,qual Città non era troppo da Lecce lontana, anzi se voglia prestarsi fede a’ que’ pochi spezzoni, e fragmenti, che a noi il testè divisato Poeta sono per buona nostra sorte rimasti illesi dall’ingiuria de’ tempi, egli medesimo di propria bocca confessa – Rhudiae me genuere vetustae -. Il ché non era troppo da Lecce distante. Forse trà queste due Città frapponeasi  lo spazio di tredici stadii, ed è rimasto deluso, e ingannato dall’uno, e dall’altro nome per la voce, ed appellazione de’ suoi Natali dal sopra descritto Autore prostituita,  e corrotta. Non tedio di vantaggio S. E. con tali oscuri racconti, mentre resto baciandole divotamente le mani.  Lecce li 2 Agosto 1772. Divotissimo servitore vostro obbligatissimo Ach. Tresca

Chiedo scusa al lettore se ho scelto di far parlare lo stesso autore, ma questo espediente permetterà di comprendere più agevolmente  l’intera questione. Fino ad ora, comunque, abbiamo appreso attraverso la lettera appena riprodotta che Achille Tresca3, aderendo ad una richiesta del suo amico Ettore Morosini, si appresta a fornirgli una descrizione della Iapigia, per la quale dichiara come fonte principale, anzi pressoché unica, Guidone di Ravenna, geografo del XII secolo, autore di Geographica, opera in cui laconiche notizie sulla Iapigia appaiono in ordine sparso (27-29, 69 e 71-72). Prima di procedere è opportuno ricordare che alla data del 1775 l’opera più completa sulla Terra d’Otranto rimaneva il De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis (1444-1517) alias il Galateo, opera uscita postuma per la prima volta per i tipi di Perna a Basilea nel 1553. É vero pure che Girolamo Marciano aveva già scritto Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, ma l’opera rimase manoscritta fino al 1855, quando venne pubblicata, con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese, per i tipi della Stamperia dell’iride a Napoli nel 1855.

Con la seconda lettera (carte 17r-31v) del 2 aprile 1773, con la terza (carte 32r-59r) del 6 aprile 1774 e con la quarta (carte 60r-100r) dell’8 maggio 1774 il Tresca invia quella che è in sostanza la traduzione dell’opera del Galateo con qualche aggiustamento che non tradisca l’imbroglio e guardandosi bene dal citarne almeno una volta il nome o l’opera4. Puntigliosa (non può essere altrimenti,quando l’accusa mossa è grave, anzi gravissima …) documentazione di tutto ciò è alla fine di questo lavoro.

Ad onor del vero di questo si erano già accorti i letterati dell’epoca, come testimonia la replica del Tresca (carte 133r-139v), ridicola ed tratti veramente imbarazzante, pur in assenza della lettura diretta (ammesso che da qualche parte si conservi il testo) della stroncatura: Protesta che fà l’Autore ad una lettera cieca pervenutagli. Alcuni saccentuzzi del nostro secolo avendo incombro il di loro petto da livido cuore d’invidia, ed avendo nell’istesso tempo inteso, che volevo io dare alle stampe la descrizione della nostra Giapiggia, vibrarono contro di me la lor trifulca lingua, dichiarando sotto ignoti caratteri, che io non avevi troppo bene penzato di mandare a capo il mio disegno per li quattro seguenti motivi.

Primieramente, come io nel descrivere la Giapiggia abbia trascurato di dare al Corrispondente una distinta descrizione di me medesimo.

2 Che io nella ridetta opera mi sia portato con isfrontatezza da succido ladrone, avvalendomi delle altrui fatighe, e sudori, da donde cercai rintracciarne gloria, e fama.

3 Che io abbia fatto un pasticcio, tramestando nella consaputa opera versi, e prosa per obietti troppo diversi e staccati.

4 che mi conveniva parlare, e far menzione all’orbe intero nel divisato libro dell’Eroiche virtù, e della gloria della nostra Real Padrona che Dio sempre la prosperi, e secondi, a’ quali motivi l’Autore à dovuto rispondere colle seguenti proteste.

Ero già pur troppo vago, e desideroso a formar la descrizion della nostra Giapiggia per darne io un dettaglio all’Italiana Nazione. Mi è riuscito grazie al Cielo, divisarne quel  breve saggio, e corta relazione, come per me s’è potuto, ma finalmente mi sono di già avvertito, che avendo io voluto mandare a capo la medesima abbia mancato il di più, che mi era convenevole. Conoscerà ognuno da’ miei apporti la vaghezza del di lei sito , l’amenità dell’aere, ed il moderato temperamento del clima, e quanto sia la medesima ferace, e copiosa di tutto quel,che poteva la benigna Natura a soccorso, e nudrimento dell’uomo prestare; ma non comprende di quali imperfezioni sfreggiato sia lo scrittore, e di qual corrotto,  e guasto costume composto,e sguisato. Misera umanità! Descrivesi alle Repubbliche il di più, ed il meno si trascura. Rimiro spesse volte, e meco stesso considero l’ignoranza, e l’audacia degli uomini a parlare delle cose, che sono fuori di loro, senza darsi penziero di formar la descrizione del di loro temperamento, ed umore. Se l’Alto Divin Facitore nel produrgli alla luce avesse lor cangiata la falda della bisaccia, talché quella, che nel dorso va’ sospesa, fusse nel petto, vedrebbesi a chiaro lume ammanzita la di lor vanità, e ciaschedun di noi favellar diversamente da quel che raggiona. Ero io già di fresca guancia vestito, e cominciava a balenar nel mio spirito fior di raggione quando io derterminai applicare allo studio dell’umane lettere. Mi chiusi perciò nella scuola della Grammatica,e quotidianamente raggiravami all’intorno di quei libri, da donde rilevar potess’io il conoscimento, e la pratica di saper la lingua latina. Mi versavo nella profana, e sacra Storia, e divagava sovente il mio penziero col verseggiare e col farla da imperito Poeta. Ma lasso me! Dove incauto trasportavami il fallace desio. Mi ero già impratichito de’ versi di Orazio, di Virgilio, e di Omero, parlavo speditamente l’idioma latino, della Storia ne avea preso qualche saggio, e dettaglio, ed al pari d’ogn’altro inculto versificatore facevo carmi, e sestine. Ma che! Sul bollor delle mie applicazioni, mi assaliva un panico timore, che scuotendomi dapertutto le ossa, mi gelava ben volentieri il sangue nelle vene. Divenivo sovente bersaglio della malnata cupidiggia, che tutto giorno mi conquidea, e mi affannava.Tormentavami l’ira e la libbidine, scoglio inevitabile a cui rompe, e frange l’incauta Gioventù. Era l’intestina guerra, ed il contasto de’ giorni miei. Terminato il corso della Grammatica, un’intensa voglia mi trasse in età piucché adulta d’imparare a suonare il cembalo, per sollevare l’animo dalla diuturnità de’ miei studi. Piacevami l’acuto de’ tuoni, ed il grave delle note mi feriva lo spirito per l’armonia, e proporzione delle consonanze. In tale stato di cose dall’esterno suono delle corde passavo sovente a determinare il mio animo sicché reggesse in calma, e trà la quiete ne’ colpi della seconda, ed avversa fortuna. Ma ciò tutto era vano, perché non sostenea egli nelle occasioni al martello.   Dalla musica bene spesso alla Giomedria facevo io passaggio. Mi era gradevole la cognizione dell’essenza de’ triangoli, della natura de’ circoli, e de’ quadrati. Sapevo, che le linee rette tirate dalla circonferenza del circolo fino al suo asse, equalissime fussero trà di loro nella lunghezza e nella dimenzione. Dopò di qualche profonda applicazione, che io nella suddetta scienza metteva, dimandavo a me stesso: misura con matematico ordegno la grandezza, e moltitudine de’ vizii tuoi, la smisurata propenzione del tuo cuore, che à nello sdegno, nell’invidia, negli amori, nella gelosia. Puoi tu (ripigliavo io meco stesso) dalla medesima dedurre, che con i de lei insegnamenti arrivi l’uomo a scandagliare, e misurar se medesimo circa a quanto gli sia bastevole, ed intorno a quello, che la vanità lo predomini. Ti è nota e manifesta l’essenza della linea retta; ma ignori la rettitudine dell’oprare. Egli è aggevole col matematico compasso dividere in più parti il tuo rustico predio, o campo; ma tutto riesce di poco frutto,  quando dalle Professioni non si rilevi la maniera di rendersi in ogn’ora felice, e contentarsi de’ beni, che dentro di se stesso nascono, di cui mi rendo incapace prenderne compiacimento, perché divagato dal copioso fallace stuolo de’ beni stranieri (se così vogliam dirli) onde sono convinto, ed invischiato, non mi permette la scienza di me medesimo. Mi apparto dalla Matematica, ed alla Scuolastica Filosofia mi appiglio. Quante, e vane questioni mi si paravan d’innanzi, che per comprenderne delle medesime il vero sovente il mio intendimento turbavano. Volevo io conoscere l’essenza del vacuo se disperso, se disseminato raggirasse nella gran machina del Mondo, se la corporea dimenzione soggiacesse a’ colpi di ferro, che in infinitum la disgiunga, e divida. Ma traea la voglia di percepire colla raggionela Natura, ed Esistenza del Divin Facitore, come l’uomo s’ingeneri, da donde acquistino il movimento le veggetabili, e le sensitive creature, da quai principi sia ogni Ente prodotto, se dal fuoco, come ad Anassacora piacque, o da i quattro elementi, come altri dicea. Dimandavo con fervorose preghiere dalla Filosofia, che mi dichiarasse la materia del sole; ed ella sovente rispondeami: Egli è di ferro, o di selce, o pur di altra più nobile sostanza di fuoco. In fine nel mezzo della medesima mi scorgevo io tutto cinto di tenebre, e ravvolto nel buio degli errori, e dei dubii. Trà le molte naturali questioni mi consideravo uno Stoico, un Pirronista, dalla curiosità conquiso, e niente pago di aver potuto rintracciare il vero delle cose. Da tali atteggiamenti di spirito volgevo dentro di me stesso lo sguardo, ed altro non ravvisavo, che un’assidua violentissima procella di spinose cure, e di affanni, talché naufrago io nello svariato Pelago di tanti mali, non sapevo qual onda secondare come amica, e qual, come avversaria schifare. Da tutto ciò potrà ogn’un comprendere quanto sia di vanità l’uomo carco, e ricolmo, poiché gli riesce aggevole di formar la descrizione piuttosto delle cose esterne, che di se medesimo.                Cade qui in acconcio il detto di Bionte “Nil difficilius, quam nosse se ipsum”. Quindi dove si può molto bene delle cose parlare senza prevenzione di passione; il formare una pittura del mio guasto, e corrotto natural costume, era troppo per le mie forze malaggevole, e difficoltoso. Descriver l’uomo è lo stesso,  che dipigner  tele, e ritrarre in carte l’ingratitudine, e l’incostanza. Ognun conosce le massime del mondo traditore, tutti vediamo a chiaro lume l’insussistenza del nostro penzare. Quel che ora io trà me stesso risolvo frà pochi momenti mi affanna, e mi affligge, e tormentandomi lo spirito mi fà tosto cambiare voglia, e penziero. Ogn’aura ci scuote, ogni vento ci altera, qualunque svariata vicenda ci perturba, e scolora.Perciò parmi che poco bene rifletta colui, che voglia lo stesso descrivere al mondo,  perché nemo tenetur infamare se ipsum. Oltre di questo se l’Autore nel descrivere la Giapiggia, o ne’ versi, ch’egli a Sua Eccellenza presenta, ed umilia avrà preso qualche sbaglio, o si troverà qualche proposizione del medesimo, che si opponga, e contrasti le leggi della nostra Religione Cattolica, o pure i dettami della pulizia dello stato, il sudetto Autore avvanza le sue proteste dirette a’ correggitori di quest’opera, che vadano, cassino e cancellino tutto, quel che di soverchio, d’improprio, e di erroneo sarà stato nel decorso della medesima scritto, e vergato. Implora un benigno compatimento, giacché la povera umanità è troppo sottoposta, e soggetta a travedere nel buio, e nelle tenebra dell’ignoranza, di lei indivisibil compagna. “Hoc unum scio, me nihil scire”. Brontola contro di me la veneranda adunanza de’ letterati, che nella sudetta descrizione della Giapiggia da vero ladro io mi sia mostro, et additato, perché altro non abbia fatto che rivangare quel, che altri ne’ secoli caduti con diverso idioma ne scrisse. Cesserà però la maldicenza, e la critica di costoro, mentre io sarò per ricordarli, che ogni scienza nel mondo sia limitata, e finita, perché dalli uomini  escogitata, e prodotta. Non vi à Poeta, Prosatore non trovasi, che nelle sue respettive opere non s’abbia d’altri antecedente lui servito, ed avvaluto. Confessa tutto ciò a chiare note il nostro Orazio, che fù fedel imitatore di Lucilio, Virgilio fedelissimo seguace di Omero e tanti altri di rinomatissima rimembranza, che a rammentarli tutti sarebbe lo stesso, che non finirla giammai. Sono ammaestrato dalla ragion legale, che “Pater, et Filius sint una eademque persona”. Dal che se ne potrà dedurre, che avendo avuto io il desidero di dedicar le lettere della Giapiggia alla Maestà del nostro Reale Infante (che Dio lo conservi) stata sia audacia troppo grande la mia farla da Poeta, e ricantar le glorie di Filippo IV nostro Real Padrone. Bella riflessione invero formata da’ nostri giureconsulti, non per altro motivo, se non se, per quelli, che sono alle leggi sottoposti, e soggetti. Ma trattandosi de’ Monarchi non corre, né regge a martello la massima divisata. Io per me sarò loro sempre fedele, ed ubbidientissimo vassallo, e gli terrò sempre mai  per due distinti Padroni ad amendue  divotamente offerendomi. Né si meravigli tal’uno,come io nella qui retroscritta opera non abbia niente della nostra Padrona fatto menzione. Il fù mio Genitore dedicò per mezzo del fù mio zio Commendatore all’Augustissima di lei Genitrice           un libro di prose, e di versi, ricantando le glorie, ed i Trofei della Casa d’Austria , delli quali quantunque la sudetta Real Augusta Famiglia niun bisogno ne avea, per aver ella in tutto l’Orbe qual fulgidissimo Pianeta, che per ogni parte sfolgorante vibra la sua chiara luce, e lo spendore, pur tuttavia il fù mio Padre volle dare a divedere a tutti un verace attestato di quella venerazione, ed ossequio, onde un suddito è al suo Padrone tenuto, ed obligato. E chi rivocherà in dubbio quel, che io rammento,  me lo accenni, me lo divisi, che tosto ne gli farò capitare il manuscritto ed istampato esemplare.                 

Ho già definito imbarazzante questa difesa. Non mi rimane che uscire dall’imbarazzo dicendo che in essa l’unica nota interessante è quella finale relativa all’opera del padre5, con il cui frontespizio mi congedo prima di procedere al raffronto dettagliato tra il testo del Tresca (in grassetto corsivo) l’originale del Galateo (corsivo) che ho ritenuto opportuno accompagnare con la mia traduzione e, in rosso, l’eventuale commento.  Laddove compaiono all’inizio e alla fine dei brani esaminati tre puntini vuol dire che i pezzi intermedi sono assolutamente coincidenti. Delle lettere ho riportato, comunque, l’incipit e l’explicit.

(carta 17r) Lettera seconda. Sulla situazione della Giapiggia

Quel che ora Italia addimandasi, traendo la sua origine dalle Alpi, viene dal mar Superiore, e dall’Inferiore  battuta, ed innaffiata, e tra’ l’Oriente  Iberno, e nel mezzo giorno è posta, ed allocata, dalli altissimi monti dell’Appennino, come se fussero due penisole del Chersoneso, quasi due conii di bipartito Albore vien terminata e finita. Queste due penisole, o tal Reggione fraposta negli antichi secoli era non solamente ad ogn’altra Terra preferita, ma tenevasi da ognuno in maggiore stima tralle Nazioni di Grecia…

 Quae nunc Italia dicitur, ab Alpibus ortum habens, supero, et infero mari abluitur, inque ortum hybernum, et meridiem porrecta, perpetuis Apennini iugis, duabus peninsulis, seu (ut Graeci dicunt) chersonesis, finitur. Quae quasi vertices sunt, seu coni bifidae arboris. Hae peninsulae et interiacens ora, antiquis temporibus non solum coeteris terris, sed ipsi quoque Graeciae praelatae …

Quella che ora è detta Italia, avendo l’origine dalle Alpi, viene bagnata dal mare superiore [l’Adriatico] e inferiore [Tirreno] e, allungata tra nord e sud dai continui gioghi dell’Appennino, termina con due penisole o, come dicono i Greci, chersonesi. Esse sono quasi le cime o coni di un albero biforcuto. Queste penisole e il territorio intergiacente, preferiti nei tempi antichi non solo alle altre terre ma pure alla stessa Grecia …

Incipit assolutamente coincidente.

 

(carta 24r) … questa è la dessa, onde più speciosa, e ben degna commemorazione Orazio ne fece. Questa, Chersoneso, con vari nomi da diversi autori trovo chiamata. Altri come Aristotele , ed Herodoto Giapiggia la nomarono …  

… haec insularum omnium peninsularumque ocellus quondam fuerat. Haec est de qua Horatius cecinit: Unde si Parcae prohibent iniquae,/dulce pellitis ovibus Galaesi/ flumen et regnata petam Laconi /rura Phalantho./ Ille terrarum mihi praeter omnes/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro;/ ver ubi longum tepidasque praebet/ ìIuppiter brumas et amicus/Aulon fertili Baccho minimum Falernis/invidet uvis./Ille te mecum locus et beatae/postulant arces; ibi tu calente/ debita sparges lacrima favillam/vatis amici .Hanc chersonesum variis nominibus a diversis auctoribus subinde appellatam fuisse habeo: alii, ut Aristoteles Herodotusque, Iapygiam dixere … 

… questa un tempo era stata la perla di tutte le penisole. Questa è quella della quale Orazio ha cantato così: “Se [dalla guerra] le inique Parche mi terranno lontano andrò verso la corrente del Galeso cara alle pecore spinte al pascolo e verso le campagne su cui regnò lo spartano Falanto. Quell’angolo di terra più di tutti mi sorride, dove il miele nulla da invidiare ha a quello dell’Imetto e l’olio a quello della verdeggiante Venafro, dove Giove offre una lunga primavera e tiepidi inverni e l’amico Aulone con la fertile vite non ha nulla da invidiare alle uve di Falerno. Quel luogo e i felici colli ti vogliono con me; ivi tu con la dovuta lacrima bagnerai le ceneri dell’amico poeta”. Mi risulta che questa poi come penisola fu chiamata con vari nomi  dai diversi autori: alcuni, come Aristotele ed Erodoto, la chiamarono Iapigia …

Nella traduzione del Tresca non sono riportati i versi di Orazio (Odi, II, 6, 9-24)

 

(carta 27r) … veleno si cava fuori, e dilegua col beneficio del canto, e del suono. “Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis”. Vi sono parimenti serpi pestilentissime, denominate chersidri  surte da secco ed arido terreno…

  …venenum cantu, et fistulis pellitur. De his loquitur Virgilius Georgicon libro secundo verso 42: Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis. Sunt et serpentes pestilentissimi: chersidri enim sunt nati in arida tellure …

… il veleno viene eliminato col canto e con la musica. Di questo parla Virgilio nel verso 42 del secondo libro delle Georgiche: Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis. Ci sono anche serpenti velenosissimi: i chersidri infatti nacquero nella terra arida …

Nel Tresca manca l’indicazione di Virgilio e della sua opera.

 

(carta 28r) siccome qui, così nella Campania, tanto nella state, che nel verno scuote soventi fiate il terreno lo strepitoso fragore, e rimbombo di parecchi fulmini. Saremo dunque noi perciò alla natura ingrati, che ricusiamo i di lei presenti, e favori, perché …  

… nam hic, ut in Campania, hyeme, et aestate sunt fulmina. Erimusne nos, Spinelle, naturae ingrati, ut recusemus illius munera quoniam …  

… infatti qui, come in Campania, d’inverno e d’estate ci sono fulmini. Saremo noi, o Spinelli, tanto ingrati verso la natura da rifiutare i suoi doni perché …

Il Tresca ha eliminato il nome di Giovan Battista Spinelli, destinatario del De situ Iapygiae, che è in forma epistolare e che era stato richiesto al Galateo perché il sovrano Ferdinando il Cattolico fosse ragguagliato sullo stato dei territori di recente conquistati. Nella fattispecie lo scimmiottamento può condensarsi in una proporzione: Morosini: Spinelli=Ferdinando IV: Ferdinando il Cattolico.

  

(carte 31r-31v) … e siccome la terra chiude, e ricuopre nelle sue viscere le ossa de’ bisonti, così distrugge Città, e Reggioni, e niuna cosa può in eterno durare. Il Tasso mi ripiglia a tempo: Chiude il fasto, e la pompa arena, ed erba. La caliggine, e la folta trascuraggine degli uomini  de’ secoli caduti mise in profondo sempiterno oblio la fama ed i nomi di quelle, e la chiarezza de’ luoghi. Noi proseguiremo in tanto a dare a S. E. notizia della Giapiggia, indi ci appresseremo fil filo riandar con distinzione per le parti della medesima, mentre resto baciandole di votamente le mani. Lecce 2 Aprile 1773

…et quemadmodum urbes, et ossa hominum terra operuit, sic et famam illarum, et aliquarum etiam nomina, et locorum claritatem depressa temporis caligo obtenebravit. Nos primum oram, deinde mediterraneas partes prosequemur.

… e come la terra ha ricoperto le città e le ossa degli uomini, così la nebbia del tempo discesa  ha ottenebrato pure la loro fama e di alcune anche i nomi e la magnificenza dei luoghi. Noi tratteremo prima della costa, poi delle parti interne.     

Manca nel Galateo la citazione dal Tasso.

 

(carte 32r-59r) Lettera terza. Descrizione della Giapiggia. Littorale

I Greci indagando il principio di Taranto a Taranton, o come altri vuole a Talanton, che noi Talento diciamo, Stefano pose il nome a questa città da quello, ch’è Taras, Tarantos, ch’è un nome commune tra’ la medesima e la fiumana …

Principium a Tarento sumentes, Graeci Taranton, ut illi talanton, quod nos talentum dicimus. Stephanus ab eo quod est Taras, quod est urbis nomen, et fluvii commune, posuit …

Cominciando da Taranto: i Greci la chiamarono Taranton, come essi dicono talanton ciò che noi chiamiamo talento. Stefano pose il nome da quello che è Taras, che è nome comune alla città e al fiume …

Incipit perfettamente coincidente.

 

(carta 34v) … e dacché questi pervennero al colmo delle ricchezze, tralignarono dalla primiera severità di vita da lor Maggiori tenuta; ma poiché Eccellentissimo Signore mio ò addossato il carico di narrarli sù di ciò minutamente  quel, che gli Autori ne scrissero,  perciò sembrami ben convenevole divisarli in compendi qualche cosa secondo il costume di Filosofo, e non come all’Istorico appartiene. Aristotele rammenta nei suoi Problemi … 

…et Romani quum ad summum divitiarum pervenere, a maiorum vitae severitate degeneraverunt. Facile ii temperate vivunt, quibus desunt luxuriae alimenta: at ii quibus ampla sunt facultates, non possunt non molliter, et delicate vivere. Exemplo nobis sunt Principes sacerdotum, quibus dum pauperes erant , satis fuerunt oluscula et pisciculi minuti; nunc nec terrae, nec maria eorum gulae, ac libidini sufficiunt. Hic est mos fere omnium gentium, quae cum inopes sunt, atque omnium rerum indigae, parce, modeste, frugaliter, ac temperanter vivunt. Quae deinde per bella, et caedes, et rapinas, et miserorum viscera saginatae, contempta, quam prius laudaverant necessariam, frugalitate, in omni luxuriae genere volutantur. Testes sunt Medi, Persae, Macedones, et ipsi rerum Domini Romani. Nec non, et nos Christiani, ut dixi, dum pauperes, et mendici fuimus, pie, iuste, et sancte viximus; at postquam res Christiana ad tantas devenit opes, in apicem vitiorum ascendimus, nec habemus quo ulterius progrediamur. Certant inter se duo illa maxima vitia, avaritia, atque luxuria, et cum utraque in summo sit, non est facile iudicare utra illarum sit maior. Res admiratione digna est, quomodo, et homines, et Dii ferre possunt scelera nostra. Spinelle, Vir excellentis animi et ingenii, non mihi cura est omnia exquisite narrare, quae Auctoresa scripsere,sed summatim aliqua, ut tibi morem geram, et ut Philosophum, non ut Historicum decet. Aristoteles ait in suis Problematis …  

… e i Romani quando pervennero al sommo della ricchezza tralignarono dalla severità di vita degli avi. Facilmente vivono con moderazione coloro ai quali manca l’alimento del lusso, ma quelli che hanno ampi mezzi non possono non vivere mollemente e voluttuosamente. Sono esempio per noi  i più importanti dei sacerdoti ai quali, finché erano poveri, bastarono ortaggi di scarso valore e  pesciolini insignificanti. Ora né le terre né i mari sono sufficienti alla loro gola e libidine. Questo è il costume di di quasi tutte le genti, che, quando sono povere e bisognose di tutto, vivono parcamente, modestamente, frugalmente, moderatamente. Esse poi  attraverso guerre, stragi e rapine, sazie delle viscere dei miseri , disprezzata la frugalità che prima avevano lodato come necessaria, rotolano in ogni genere di lusso. Sono testimoni i Medi, i Persiani, i Macedoni . E anche noi Cristiani, come dissi, finché fummo poveri e mendichi, vivemmo piamente, giustamente e santamente; ma, dopo che il Cristianesimo pervenne a tanto grande ricchezza, salimmo sulla cima dei vizi e non abbiamo dove spingerci ulteriormente. Gareggiano tra loro quei due massimi vizi, l’avarizia e il lusso e quando entrambe sono all’apice non è facile giudicare quale di esse sia più grande. É cosa degna di meraviglia come e gli uomini e gli dei possano sopportare le nostre scelleratezze. O Spinelli, uomo di eccellente animo e talento, non è mia preoccupazione narrare le cose che gli autori scrissero non minuziosamente ma per sommi capi alcune per venire incontro al tuo desiderio e come conviene ad un filosofo, non ad uno storico. Aristotele dice nei suoi Problemi …

Da notare nel Tresca il taglio della parte che poteva urtare la suscettibilità di un cattolico e, verso la fine, la sostituzione di Spinelli con  Signore mio.

 

[carte 35v-36r) … da Taranto navigandosi a seconda del vento Euro , si para d’avanti agli occhi de’ nocchieri, dacché si è varcato il mare al di là di otto miglia, un luogo anticamente nomato Bafia, che oggi quei naturali lo addicono in latino Saturum: amenissimo il tratto di questo paese: à sul merige campagne pur troppo amene …

… a Tarento in Eurum navigantibus ad VIII millia pasum occurrit in ora locus, quem incolae Saturum penultima producta nominant, amoenissimus tractus est, et apricus in meridie …

… per chi naviga da Taranto verso est a circa 8 miglia si presenta sulla costa un luogo che gli abitanti, allungata la penultima,  chiamano Saturo; è un tratto amenissimo e luminoso  a mezzogiorno …

Notevole nel Tresca il toponimo Bafia, probabilmente presente nell’edizione del De situ Iapygiae da lui utilizzata o sua integrazione, frutto, forse, di confusione con l’omonimo centro della Sicilia orientale (registrato da Vito Maria Amico, Lexycon topographicum siculum,  tomo III, Puleggio, Catania, 1760). 

 

(carta 38v) … si portò così bene il bellicoso coraggio di quei cittadini, che nessuno può chiamarli vinti, o dall’oste nemica superati. Eccellentissimo Signore se io passo sotto silenzio, e non rammento  la fedeltà di coloro che abitano nell’ultimo luogo dell’Italia, ch’è  un’angolo di Lucera, a me par convenevole di porre in prospetto, e commendare l’eroiche gesta adoperate da cittadini  di Gallipoli, ed Otranto …

… sic se Callipolitani gessere, ut nemo illos iure victos dicere possit, sed a multitudine hostium superatos. Praeclarissime Spinelle, quando eorum, qui in extremo Italiae angulo Luceriae, virtus et fides oblivioni, ac silentio datur, nos ipsi Callipolis,et Hydrunti fortia facta non taceamus …  

… i Gallipolini si comportarono in modo tale che nessuno a buon diritto li può definire vinti, ma battuti dalla superiorità numerica dei nemici. Illustrissimo Spinelli, quando sono consegnati all’oblio e al silenzio il valore e la fede di coloro che stanno a Lucera, un estremo angolo d’Italia, proprio non passiamo sottosilenzio le forti gesta di Gallipoli r di Otranto …

Ancora la già vista sostituzione  di praeclarissime Spinelle con eccellentissimo Signore.    

 

(carta 48r) … ogni sacerdote fù ad uno ad uno scannato, non perdonando tampoco il furor maomettano, neppure a’ quei poveri preti, che sull’are tenendo l’ostia sacrata tra’ le mani celebravano il divin sacrifizio. Da poiché per tutta quella notte appresso la quale spuntò, e succedette quella torbida giornata,Stefano Pendinelli, ch’era l’Arcivescovo del sudetto luogo, patrizio di Nardò, e consanguineo del fù Antonio de Ferraris avendo confirmato tutto il Popolo col divin sacramento dell’Eucaristia, si presentò alla matutina Guerra …

… sacerdotes in ecclesia omnes ad unum trucidaverunt, et nonnullos super altaria hostiam tenentes tamquam victimas mactaverunt. Postquam nocte tota, quam turbolentus ille dies secutus est, Stephanus Archiepiscopus consanguineus meus, omnem populum divino Eucharistiae sacramento firmaverat ad matutinam, quam prescierat, pugnam …

… in chiesa trucidarono ad uno ad uno tutti i sacerdoti e ne ammazzarono come vittime sacrificali parecchi mentre tenevano in mano l’ostia sull’altare. Dopo che nell’intera notte precedente quel turbolento giorno l’arcivescovo Stefano mio congiunto aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell’Eucaristia fino alla battaglia del mattino che aveva previsto …

Si tratta dell’unico brano in cui compare, però in terza, non compromettente  persona,  il nome del Galateo.

 

(carte 57r-57v) … ma la negligenza de’ cittadini  recò infamia a questo luogo:che se disserrati ell’avesse gli suoi acquedotti, non avrebbe mai tale sventura sortita. Mi ricorda di aver io letto, che in Napoli morta fusse gran copia di abbitanti … 

… sed civium negligentia urbem hanc infamavit, quae si  aquae suos exitus apertos habuissent, numquam tale nomen assecuta fuisset. Nonne vides, Spinelle, quot mortales hoc anno Neapoli periere …  

… ma la negligenza dei cittadini infamò questa città, che, se le acque avessero avuto aperto il loro sbocco, non avrebbe avuto tale fama. Non vedi, Spinelli, quanti uomini sono morti quest’anno a Napoli …

Spinelli ormai naturalmente assente nel Tresca.

 

(carte 58v-59r) … tai parole fanno ben degna fede dell’integrità, e costanza della Brindisina Nazione, solita sempre a prestar ubbidienza alli Augustissimi Imperatori. Dopo di questo, Eccellenza, parmi ben convenevole di descriverle distintamente le parti mediterranee della Giapiggia, le quali dopò qualche respiro, ed in altra occasione le prometto con altra lettera a formare quel distinto raguaglio, che da me si potrà, rilevandolo dall’oblio de’ secoli caduti. E con ciò raffermo mi resto. Lecce li 6 Aprile 1774  

haec verba, Spinelle, maximum perhibent testimonium integritatis, et fidei illius regionis, quae non nisi veris Imperatoribus  parere solita est . Nunc de mediterraneis dicendum est …

Nel Tresca, oltre all’ormai fisiologica assenza di Spinelli, il tratto finale prepara la lettera successiva.

 

(carta 60r) Lettera quarta. Delle parti mediterranee della Giapiggia

Si frapponevano a Brindisi e a Taranto due antiche città …

Inter Brundisium et Tarentum duae antiquae urbes fuere …

Tra Brindisi e Taranto ci furono due antiche città …

Ancora l’incipit perfettamente coincidente.

 

(carta 61v) … Ora è tanto il numero e la copia de’ libri, che non solamente gli medesimi, ma né pur degli Autori gli nomi ponno scolpiti. ed impressi restar nella nostra memoria. Riderà forse tal’uno, che io mentre in altri commendi la brevità del dire, e nell’altrui scrittura, sia io prolisso, con lungo torno di parole stenda, e dilarghi tal descrizione …

 

… nunc tanta est librorum copia, et magnitudo, ut non solum dicta, sed ne nomina quidem auctorum memoriter tenere valeamus. Ridebis fortasse, Spinelle, Galateum, qui brevitatem suadet, cum ipse prolixus sit, sed hoc rite fit …

… ora è tanta l’abbondanza e l’estensione dei libri che non siamo in grado di tenere a memoria neppure i nomi degli autori. Forse riderai, o Spinelli, del Galateo che invita alla brevità quando lui stesso è prolisso, ma ciò avviene solitamente …

Nel Tresca illustri assenti, in un colpo solo, Spinelli e il Galateo.

(carta 81v) … il modello delle qui soprascritte lettere furono presentate ad alcuni savii di quella staggione, come al Pontano, ad Hermolao, ad Accio, a Chariteo, al Summonzio, li quali furono tutti al mio parere concordi, avendole chiamate lettere di Messapia …  

… harum litterarum exemplum, Pontano, Hermolao, Actio tuo, immo et meo, Chariteo, et Summontio misi, et nonnullis aliis: omnes mecum sensere has esse Mesapias literas …

 … di queste lettere ho inviato una riproduzione al Pontano, all’Ermolao, al tuo, certamente anche mio, Azio, al Cariteo e al Summonte e a parecchi altri: tutti convennero con me che questi erano caratteri messapici …

Con savii di quella staggione e con l’eliminazione di meo dell’originale il Tresca si è liberato della cronologia; non poteva certo aver chiesto la consulenza di Giovanni Pontano (1429-1503), di Ermolao Barbaro il Giovane (1454-1493), di Azio (nell’Accademia Pontaniana pseudonimo di Iacopo Sannazzaro, 1456 circa-1530), del Cariteo (nome umanistico di Benedetto Gareth, 1450 circa-1514 e di Pietro Summonte (1463-1526).

 

(carta 83r) … alla distanza di tredici mila passi fabricata si vede Galatone. Altri la chiamano Galatana, chi Galatina …

hinc ad XIII millia passuum, Galatana, unde mihi origo est. Alii Galatenam, alii Galatinam … 

… da qui a 12 miglia Galatone, donde io ho origine. Alcuni la chiamano Galatena, altri Galatina …

Come poteva essere mantenuti l’originario unde mihi origo est?

 

(carta 84r) … ero io di fresca guancia, ed in età fiorita, quando nel riandare l’opera di Livio lessi, e ravvisai la città di Theuma …  

… cum essem iuvenis, legens apud Livium inveni Theumam … 

… essendo giovane, leggendo presso Livio trovai Teuma …

Innocuo riferimento cronologico, dal momento che Livio poteva tranquillamente essere stato letto tanto dal Galateo che dal Tresca.

 

(carte 84v-85r) …deponendo costumi, vestimenta, come ancora l’argivo dialetto: ma non la ceppaia. Non mi vergogno punto di propalare l’origine de’ nostri Maggiori. Siam Greci ed ognuno lo si deve a gloria recare. Platone il Dio de’ filosofi costumava sovente di ringraziare i Numi per queste tre cose: che Uomo e non bruto, che Maschio, e non Donna, che Greco e non barbaro fusse nato, e cresciuto. Il suo servidore, Eccellenza,che  la Giapiggia descrive non da’  Mauri, non dalli Ethiopi, non dalli Allobrogi, o Sicambri, ma dalla Greca Nazione sorge, e deriva. Il Progenitore di chi tal dettaglio della Giapiggia li porge, non ignorò il Greco, e molto meno l’idioma Latino. Fù celebre non per valore dell’armi,ma fù difeso, e scortato dall’integrità della vita, e dalla bontà de’ costumi. Mi vergogno, Eccellenza, parlando seco lei senz’Arbitri dirle, come io nell’Italia abbia tratta la mia origine, e derivati i miei natali, sebbene alcuni scrittori posero il suolo Giapiggio fuor dell’Italia …   

… mores, et vestes, et Graecam linguam deposuerunt sed non genus. Nec pudet nos generis nostri. Graeci sumus, et hoc nobis gloriae accedit. Divinus ille Plato in omnibus gratias Diis agebat, sed praecipue in his tribus: quod homo non bellua; mas, non foemina; Graecus, non Barbarus natus esset. Galateus tuus, Spinelle, non a Mauris, aut Lingonibus, non ab Allobrogibus, aut Sycambris, sed a Graecis ducit genus. Pater meus Graecas, et Latinas literas novit; avus, et progenitores mei Graeci Sacerdotes fuere, literarum Graecarum, Sacrae Scripturae, et Theologiae minime ignari: non armis, hoc est, vi, et caedibus, et rapinis, sed bonis moribus et santitate vitae celebres. Pudet me, Spinelle (tecum sine arbitris loquor) in Italia natum fuisse, quamvis Iapygiam terram extra Italiam scriptores quidam posuere. Graecia sua vetustate, sua que fortuna, Italia suis consiliis, suisque discordiis periit … 

… deposero i costumi, le vesti e la lingua greca, ma non la stirpe. Né ci vergogniamo della nostra stirpe. Siamo Greci e questo ci torna a gloria. Quel divino Platone rendeva grazie a tutti gli dei ma soprattutto per queste tre cose: per essere nato uomo e non animale, maschio e non femmina, greco e non barbaro. Il tuo Galateo, o Spinelli, trae origine non dai Mauri o dai Lingoni, non dagli Allobrogi o dai Sicambri, ma dai Greci. Mio padre conosceva il greco e il latino, mio nonno e i miei antenati furono sacerdoti greci, per nulla ignari delle lettere greche, delle sacre scritture e di teologia, cioè celebri non per le armi, la violenza, le stragi e le rapine ma per i buoni costumi e per la santità della vita. Mi vergogno, o Spinelli (con te parlo direttamente), di essere nato in Italia, sebbene certi scrittori abbiano posto la Iapigia fuori dell’Italia …

Sostituzione di Galateus tuus, Spinelle con Il suo servidore, Eccellenza.    

 

(carta 86r) …  dove un tempo fabricato vi era un Munistero assai Nobile di Monaci Basiliani, dedicato, ed eretto a gloria di S. Nicola. Comincia di bel nuovo il detto Appennino…  

… ubi erat quondam nobile coenobium monachorum magni Basilii, divo Nicolao dicatum, cui avunculus meus plusquam triginta annis praefuit. Inci pit molliter insurgere …  

… dove era un tempo un nobile cenobio di monaci del grande Basilio, dedicato a S. Nicola, al quale presiedette per più di trent’anni un mio zio materno . Comincia ad innalzarsi leggermente …

Qui è lo zio materno ad essere stato eliminato.      

 

(carte 88r-89r) … di tempo in tempo avviene, che quivi cresca in tal maniera l’inondazione, che par di volersi egli ingoiare l’intero Abitato. Crebbe in tale smodato eccesso ne’ secoli caduti, che molti se ne annegarono. Il vino, il formento, l’olio furon dall’onda insana assorbiti, e rimase logora, e stracciata la più parte delle suppellettili. L’acqua medesima distrusse, e seppellì ne’ suoi gorghi quantità di libri Greci, e Latini, che quivi erano con molta diligenza custoditi, e serbati. Questa città … que’ cittadini nell’assiduo contrasto valorosamente resistettero, e si difesero. In tal guerra difensiva militò da soldato un tal De Ferrariis Galatio. Finalmente a Giovannantonio non essendoli potuta riuscir felicemente l’impresa, distaccato l’assedio, altrove drizzò le sue mire ed in altra parte rivoltò le sue armi. Dopò di questo avendo finito di vivere la Regina Giovanna, ed il Caldora, tutta la Giapiggia si ridusse nel dominio di Giovannantonio. Il de Ferrariis, come di costui giurato inimico, fù rilegato in esilio nella città di Gallipoli. Postesi finalmente le cose in assetto, il Prence Giovannantonio desiderando di ascoltar la causa della discolpa del de Ferrariis, che contro di lui aveva militato, ed imbrandito il ferro, nella seguente maniera da Gallipoli scrisse il medesimo al suddetto Principe Giovannantonio: “Io, per quanto an sostenuto le mie debili forze non ò fatta resistenza alcuna agli suoi disegni … 

… quandoque tanta est imbrium copia, ut oppidum aquarum illuvie laboret. Tempore avi mei tanta per oppidum crevit aquarum multitudo, ut in aliquibus locis duorum passuum mensuram excederet. Nonnulli periere, vinum, oleum, triticum, hordeum et quamplurima supellectilia absumpta sunt: libros Graecos, quorum avus meus magnam habebat copiam in Ecclesia, quae nostri iuris est, ubi ipse versabatur, aqua delevit, atque consumpsit. Haec urbs … oppidani continua pugna acerrime restiterunt; in qua pugna pater meus interfuit. Tandem Ioannes Antonius re infecta, et longa obsidione soluta, alio arma vertit. Post haec Regina, et Caldora vita functis, tota Iapygia in potestatem Ioannis Antonii pervenit. Pater meus tamquam hostis ab Ioanne Antonio inauditus Gallipoli exulare iussus est. Compositis tandem rebus, Ioanni Antonio causam audire cupienti,in hanc sententiam scripsit patermeus: “Nulla, o bone Princeps, a te accepta iniuria  ausis tuis quoad potui obstiti …        

… di tanto in tanto tale è l’abbondanza di piogge che la città soffre per inondazione. Al tempo di mio nonno la massa di acqua crebbe tanto da superare in alcuni luoghi la misura di due passi. Molti morirono, vino, olio, grano, orzo e moltissime suppellettili furono trascinate via; l’acqua distrusse e consunse molti libri greci, dei quali mio nonno aveva una grande quantità nella chiesa, che è di nostro diritto, nella quale esercitava la sua funzione. Questa città … i cittadini resistettero fieramente con una lotta continua: ad essa partecipò mio padre. Alla fine Giovanni Antonio,  essendo diventata difficile la situazione e tolto l’assedio, volse altrove le armi. Dopo di ciò, essendo morti  la regina tutta la Iapigia venne sotto il potere di Giovanni Antonio.  Mio padre come nemico senza essere ascoltato da Giovanni Antonio ebbe l’ordine di andare in esilio a Gallipoli. Sistematesi finalmente le cose, mio padre contro questa sentenza scrisse a Giovanni Antonio  che desiderava ascoltare le sue ragioni: O buon principe, non essendo stata ricevuta da te alcuna offesa, finché ho potuto mi sono opposto ai tuoi piani …

I casi del padre del Galateo vengono trattati in terza persona.

 

(carta 90r) … tali parole furono con tanta gratitudine accolte daquel buon Principe, che cangiato, convertito l’odio in amore fin ché visse costui, lo amò, e l’ebbe caro al pari degli altri suoi più intimi, e familiari Amici, e sofferse di buon grado la di lui Eroica morte, che sostenne per amor della verità, e per attenersi  sempre fedele, aspra vendetta ne prese. La città di Galatone …

 … haec verba adeo grata bono Principi fuere, ut totum, si quod erat odium, in amorem verteret, tantumque patri meo quoad vixit fidei praestitit, quantum cuivis eorum, quos charissimos habebat, eiusque heroicam mortem, quam pro veritate, et fide servanda passus est, molestissime tulit, atque aspere ultus est. Haec urbs …   

… queste parole furono tanto gradite al buon principe che, se c’era qualche odio, lo cambiò tutto in amore e prestò tanta fiducia a mio padre quanto a ciascuno di coloro che aveva carissimi e sopportò con grandissimo dolore la sua morte eroica che patì in difesa della verità e della fede e lo vendicò fieramente. Questa città …

Continua la narrazione in terza persona della vicenda del padre del Galateo. 

 

(carta 91r) … la ridetta città abbondava di molti sacerdoti Greci, trà gli altri ve ne avea d’uno massimamente in quei tempi, che lo addimandavano il Maestro, da donde surse, e derivò la famiglia del de Magistris, il di cui nipote chiamato Virgilio avendo per venti anni fatto induggio  in Bisanzio …

… haec complures Sacerdotes Graecos doctissimos habuit, sed praecipue unum, quem magistrum appellaverunt, unde Magistrorum familia, cuius nepotem Vergilium, ego puer novi, et proavi mei, quorum unus viginti annis Byzantii versatus est … 

… questa ebbe parecchi dottissimi sacerdoti greci, ma soprattutto uno che chiamarono maestro, donde la famiglia dei De Magistris,il cui nipote Virgilio io fanciullo conobbi, ed i miei proavi, dei quali uno visse venti anni a Bisanzio …

Come c’era da aspettarsi, è saltata la conoscenza personale di Virgilio , nonché il ricordo dei proavi.

 

(carta 99v) …ne’ secoli caduti appressavasi ognuno, che volea sacrificarsi alle scienze nella città di Nardò per istudiare … 

… temporibus patris mei ab omnibus huius regni provinciis ad accipiendum ingenii cultum Neritum confluebant … 

… ai tempi di mio padre confluivano a Nardò da tutte le province di questo regno per acculturarsi …  

Il temporibus patris mei del Galateo nel Tresca è diventato ne’ secoli caduti.

 

(carta 100r) … Era tal paese un tempo da Bellisario Acquaviva. Potrei far altre distinte descrizioni di luoghi ragguardevoli, e rinomati, che furon trà la Giapiggia, ma non volendomi io punto abbusare della pazienza di chi sarà per leggere tal mia descrizione, finisco col verso del Venusino Poeta “Neritum longae finis chartaeque viaeque” riserbandomi in altra disertazione descrivere la Città di Gallipoli. Ed è quanto devo mentre rassegnandomi resto. Lecce li 8 Maggio 1774.

… hic et ego prima literarum fundamenta hausi. Galatana me genuit, haec urbs educavit, et fovit, et literis instituit. Hic Aquaevivus tuus, imo et meus Belisarius, magni Aquaevivi frater, dominatur. Neque ero ingratus, si ut initium descriptionis Tarento, sic et finem Nerito tribuero. Hoc exigit locorum ratio; et conviviorum magistri semper aliquid, quod maxime delectet, in finem reservant, sic “Neritum longae finis chartaeque viaeque”. 

… qui pure io appresi i primi fondamenti delle lettere. Galatone mi generò, questa città mi educò e coltivò e mi avviò alle lettere. Qui domina il tuo, anzi anche il mio, Belisario fratello del grande Acquaviva. E non sarò ingrato se, come ho affidato l’inizio della descrizione a Taranto, così pure affiderò la fine a Nardò. Questo esige la disposizione dei luoghi; e i maestri del convito sempre riservanoalla fine qualcosa che diletti in sommo grado; così “Nardò sia la fine del lungo viaggio e racconto”.

Censurati (e che poteva fare …) nella parte iniziale tutti i dati personali riguardanti il Galateo, per finire più in bellezza rispetto a come aveva iniziato e proseguito, il Tresca mostra di voler essere recidivo con la sua intenzione di fare la stessa operazione con un’altra opera del Galateo. E così fu puntualmente. Nel manoscritto-dossier la quinta lettera, datata Gallipoli li 6 Febraro 1775, la Descrizione della città di Gallipoli occupa le carte 101r-124r.

Non è da escludere che, se avrò tempo da perdere, me ne occupi con la stessa procedura …

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1 Di altro colpevole, ma sempre ai danni dello stesso autore  scippato oggi, per quanto il reato sia meno pesante: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/.

Un caso meno appariscente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/02/06/pasquale-oronzo-macri-e-nicola-maria-cataldi-duecento-anni-dopo/.

2

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/19/mattarella-la-cagnetta-mesagne-larcivescovo-brindisi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/08/mesagne-luca-antonio-resta-vescovo-laffumicato/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/03/le-torri-costiere-del-salento-nelle-mappe-giuseppe-pacelli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/23/storia-e-leggenda-un-emblematico-caso-salentino-anzi-due/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/02/regolamentazione-dei-senza-fissa-dimora-nel-regno-di-napoli-secondo-la-testimonianza-di-giovanni-bernardino-manieri-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/20/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-12/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/07/la-grecia-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803/

3 Di lui risulta pubblicato solo il sonetto inserito in Poesie italiane, e latine del sig. d. Damiano Romano avvocato fiscale della sacra regia Udienza di Lecce dedicate all’illustriss. sig. il signor marchese d. Bernardo Tanucci, Viverito, Lecce, 1739

4 Per fortuna questo lavoro del Tresca non fu pubblicato. Ad ogni modo, essendosi salvato il manoscritto, il leccese avrebbe fatto una figura migliore, se avesse optato sic et simpliciter per una traduzione dichiarata del De Situ Iapygìae, seguendo, oltretutto, una prassi consolidata nei secoli precedenti e successivi di dedicare a qualche personaggio importante la traduzione di un’opera famosa. E in questo sarebbe stato il primo, precedendo le traduzioni ottocentesche di Vincenzo Dolce, Rusconi Napoli, 1853, di Gaiancamillo Frezza, Del Vecchio, Lecce, 1853 e di Salvatore Grande, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867.

5 Di Francesco Maria nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, Lacaita, Manduria, 1999, p. 61 è segnalato pure un sonetto in lode di Giuseppe Ruffo inserito in Componimenti vari in lode di Giuseppe Ruffo Vescovo di Lecce, Benevento, 1737. Per il fratello Berardino, oltre alla dedica  e ai due sonetti  inseriti nell’opera di Francesco Maria rispettivamente alle pp. 3-7, 8 e 288, il citato dizionario ricorda un altro sonetto inserito in Raccolta dei componimenti in lode di Carlo Borbone re delle due Sicilie, Lecce, 1745.

Lecce: galeotto fu il convento e chi lo eresse

di Armando Polito

Immagine tratta da http://www.trnews.it/2018/03/04/209655/209655

 

La locuzione del titolo dopo i due punti forse apparirà a qualcuno come un meschino espediente per avere qualche lettore in più. Sarà. ma sicuramente più di uno non animato solo da morbosa curiosità avrà colto il mio miserabile, questo sì, tentativo di utilizzo con parafrasi del celebre verso dantesco (Inferno, V, 137) Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, con cui Francesca da Rimini attribuisce alla lettura di un poema cavalleresco (Galeotto è la traduzione di Galehaut, nome del siniscalco della regina che nel ciclo bretone fungeva da paraninfo o, se preferite, mezzano, tra lei e Lancillotto) il bacio scambiato con Paolo Malatesta e la responsabilità del loro adulterio.

Oggi Galeotto è usato per antonomasia  come nome comune (perciò scritto con l’iniziale minuscola, al pari ci cicerone e mecenate) nel significato di intermediario d’amore, ben diverso come etimo (nonostante qualche punto semantico di contatto che potrebbe ingenerare confusione) da galeotto nel significato originario di condannato a regare sulle galee.

L’intermediario (o, meglio, gli intermediari ) d’amore qui sono i Teatini ed il loro convento. Senza di loro, infatti, a Lecce non sarebbe stato dedicato nel XVII secolo un epigramma in distici elegiaci scritto da Giuseppe Silos di Bitonto. Di lui e del componimento mi sono già occupato più di un paio d’anni fa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/06/lecce-taranto-due-epigrammi-giuseppe-silos-1601-1674/, ma qui riprendo ed integro l’argomento rispondendo ad alcune domande che allora neppure mi ero posto.

Parto dal frontespizio del volume, che riproduco con la mia traduzione a fronte.

Il volume, dunque, fu scritto da un teatino (Giuseppe Silos; per altre notizie su di lui vedi il link segnalato all’inizio) in occasione della canonizzazione del fondatore dell’ordine, Gaetano Thiene, avvenuta il 12 aprile 1671 da parte di Clemente X. Non so quanto possa tornare utile ma, coi tempi che corrono, ne approfitto per ricordare che è il santo della divina provvidenza, dei disoccupati e di coloro che cercano lavoro (non mi meraviglierei se ogni navigator fosse stato dotato dell’apposito santino, che protegga proprio lui in via prioritaria …

Per passare dal faceto al serio, provvidenziale è, a questo punto, una parentesi iconografica.

L’immagine è tratta da Columnæ militantis Ecclesiæ, sive Sancti, et illustres Viri, eremitae primi, anachoretae, ordinum regularium institutores, propagatores, reformatores aeneis figuris excusi, elogiis dilaudati, a spese della vedova di Cristoforo Weigel cittadino di Norimberga, 1725. La didascalia recita: Italus, Vicentiae illustri Thienoeorum prosapia natus, Iulii II Papae Praelatus domesticus, deserta aula proximorum saluti se impendit, Venator animarum dictus. Ordinem Clericorum regularium, a Clemente VII a. 1524 confirmatum erexit, qui Theatini a Joanne Petro Caraffa Episcopo Theatino, post Paulo IV Pontifice dicti, Dei Providentiae intenti, eleemosynis sponte oblatis viverent. Multis clarus miraculis obiit 7 Aug. 1547 aet. 60.

(Italiano, nato a Vicenza dall’illustre famiglia dei Thiene, prelato domestico di papa Giulio II, lasciata la corte, si dedicò al bene del prossimo, detto cacciatore di anime. Istituì l’ordine dei chierici regolari confermato da Clemente VII nell’anno 1524 perché i Teatini, così detti da Giovanni Pietro Carafa vescovo di Chieti, poi dal pontefice Paolo IV, vivessero di elemosine spontaneamente offerte. Famoso per molti miracoli, morì il 7 agosto 1547 a 60 anni)

L’incisione appena esaminata è anonima, a differenza di quella che segue, custodita nel Museo statale di Monaco (immagine tratta da http://www.portraitindex.de/documents/obj/34704744/gs13153d).

Fuori campo (dettaglio ingrandito) si legge in basso a sinistra Solimene pinx(it) Solimena dipinse

e a destra Dom(ini)cus Cunego del(ineavit) et sc(ulpsit) Veronae Domenico Cunego disegnò ed incise a Verona

Dunque il Cunego (1724/5-1803) fu autore del disegno e dell’incisione, avendo come modello la pittura di Francesco Solimena (1657-1747), che è inequivocabilmente, nonostante quache infedeltà,  quella che segue, custodita nella chiesa di S. Gaetano a Vicenza  (immagine tratta da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Diedci-Solimena-Sangaetano.jpg).

Non fu questa la sola incisione ispirata dal Solimena. Quella che segue è conservata nel British Museum a Londra (immagine tratta da https://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details/collection_image_gallery.aspx?assetId=830227001&objectId=3225620&partId=1).

Ecco la lettura dei dettagli ingranditi.

                                                    F. Solimena in(venit) Francesco Solimena ideò

                  Petrini excu(dit) Petrini stampò        Andrea Magliar scul(psit) Andrea Magliar incise

Torniamo al libro: il frontespizio ci informa pure della struttura del libro e il lettore avrà già intuito che il componimento che ci accingiamo a leggere fa parte della sezione relativa alle lodi delle città. È l’epigramma XX e si trova a p. 78. Lo riproduco in formato immagine con la mia trascrizione a fronte e traduzione a seguire.

(Lecce

Sebbene tu mi veda presso le estreme regioni degli Itali, sono la prima gloria del territorio salentino. Mi nobilitano l’umanità, lo splendore degli uomini ed i templi dal soffitto a cassettoni e le pietre scolpite da abile mano. Mentre risuonava la fama del trionfo di Gaetano  non mi rincrebbe che essa avesse intrapreso lunghe vie, senza dubbio con cuore appassionato, più velocemente degli stessi venti, sembrando divorare tante terre con  rapido passo; sicché io, che di certo  sono l’ultima città del mondo italico. sono stata la prima per la gioia di Gaetano)

Il componimento è in forma di  prosopopea: è la città stessa a parlare in prima persona e a rivendicare nell’ultimo verso  una priorità devozionale contrapposta ad una marginalità geografica espressa nel primo e ribadita nel penultimo. E, oltretutto, Lecce è la sola città del Salento a comparire nell’elenco che vede il resto della compagnia così composto: Roma, Matritum (Madrid), Ulyssipo (Lisbona), Caesaraugusta (Saragozza), Valentia (Valencia), Parisii (Parigi), Praga, Monachium Bavariae (Monaco di Baviera), Neapolis (Napoli), Mediolanum, (Milano) Venetiae (Venezia), Genua (Genova), Panormus (Palermo), Messana (Messina), Bononia (Bologna), Florentia (Firenze), Vicentia (Vicenza), Liburnus (Livorno), Comum (Como), Licium (Lecce), Bituntum (Bitonto), Goa.

Non è certo casuale il fatto che siamo in presenza di un catalogo delle città dove più significativa era in quel tempo la presenza dei Teatini , non solo in Europa ma anche in India (a Goa già nel 1640 i Teatini avevano creato una testa di ponte, prodromo dell’arrivo nel 1683 dell’arrivo di Antonino Ventimiglia , che poi fu vescovo del Borneo dal 1691 al 1693, anno in cui morì in quella terra lontana).

Nel post relativo al link segnalato all’inizio ho riportato a suo tempo un altro epigramma dello stesso autore dedicato a Taranto, inserito, però in un’altra pubblicazione (epigramma 54 a p. 254). Anche di questa riporto il frontespizio sottoponendolo allo stesso trattamento riservato a quello dell’altra.

Se l’epigramma relativo a Lecce era legato ai Teatini, questo dedicato a Taranto (per testo, traduzione e commento rinvio al link più di una volta citato) è sempre di carattere celebrativo ma il Galeotto questa volta è Tommaso Caracciolo, che fu  arcivescovo di Taranto dal 1637 al 1663: a lui l’autore indirizzò la lettera dedicatoria che si legge alle pp. 350-354. Galeotto secondario è da considerare Gaetano Thiene: le  pp. 355-357 contengono un componimento in versi latini per il beato (la beatificazione era avvenuta l’8 ottobre 1629 da parte di Urbano VIII). Ma un altro Galeotto di primo piano prende definitivamente il sopravvento: le pp.358-377, con cui si chiude il volume, contengono  ben 23 elogi della famiglia Caracciolo.

Anche qui Taranto è in buona compagnia:  Roma diruta (Roma diroccata), Neapolis (Napoli), CapuaPanormus (Palermo), Messana (Messina), Siracusa, Drepanum (Drepano), Florentia (Firenze), Bononia (Bologna), Venetia (Venezia), Verona (Verona), Patavium (Padova), Vicentia (Vicenza), Ferraria (Ferrara), Genua (Genova), Mantua (Mantova), Mediolanum (Milano), Taurinum (Torino), Parisii (Parigi), Constantinopolis (Costantinopoli)

Per le città in comune nelle due pubblicazioni (Roma, Napoli, Palermo, Messina, Firenze, Bologna, Venezia, Genova, Milano e Parigi) il testo è diverso e, quando compaiono nel secondo. non contiene alcun riferimento ai Teatini.

De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe

de domo david

di padre Alberto Santiago

Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.

Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.

Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.

Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.

Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.

La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.

Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).

Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?

Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “… missus est angelus Gabriel … ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David …” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno …”.

Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.

L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.

Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.

Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.

Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo -poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo-, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.

Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s.Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.

Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.

Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.

Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.

Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.

Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.

Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV – XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.

E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.

Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.

Dialetti salentini: scaddhare

di Armando Polito

Confesso che, se l’amico Pasquale Chirivì non mi avesse fatto dono del suo Con decenza parlando, uscito per i tipi di Kurumuny  a Calimera nel 20101, avrei continuato ad ignorare l’esistenza della voce dialettale del titolo, anche perché a Nardò non l’ho mai sentita. Questo, però, può essere pure dipeso dal fatto che ho avuto un’educazione piuttosto “casalinga” e ho dovuto attendere diversi anni per tirare due calci ad un pallone o scorazzare in bicicletta. Non è che prima non potessi muovermi, ma succedeva che ad ogni sudata mia madre letteralmente mi infarinava col borotalco, che ancora oggi odio, dovessi sentirne il vago odore anche sul corpo della più bella donna del mondo. Sto esagerando con un presunto trauma infantile e perciò è meglio che entri in argomento.

Alla voce in questione Pasquale dedica le pp. 77-78 del suo libro. Quale migliore espediente per faticare di meno ed evitare il rischio di essere impreciso che lasciare all’autore la definizione di scaddhare? Eccola: Una bicicletta scallata2 è una bici nella quale la catena metallica di trasmissione, che collega rigidamente i pedali con il mozzo della ruota posteriore trasmettendogli il movimento, esce dalla sua sede, ossia dalle ruote dentate, anteriore e posteriore, azzerando la trazione assicurata dal movimento delle gambe. 

Ma qual è l’origine di scaddhare che l’amico italianizza in scallare? Non è difficile arrivarci se si parte, come ho fatto io, dal presupposto (teorico, poi bisogna controllare se pure in pratica è così) che s- iniziale seguita da consonante nella stragrande maggioranza dei casi nel nostro dialetto (ma anche in italiano)è ciò che rimane della preposizione latina ex, che significa lontano da, fuori da. S-, così, può assumere un valore separativo o privativo o, al contrario, accrescitivo (questa volta partendo dal concetto base (lontano o fuori) ma sottintendendo dal normale. Supposto, dunque, che s- abbia uno di questi due valori, rimane da esaminare l’altro segmento, cioè caddhare. Sempre pensando a scallare, viene subito in mente, caddhu (callo) che nel nostro dialetto indica non solo l’escrescenza fastidiosa di mani o piedi ma anche, passando dal mondo umano a quello vegetale,  il pollone o succhione. Fare li sobbracaddhi (eliminare i calli che stanno sopra)è la locuzione che indica l’operazione di ripulitura di un albero dai succhioni. Può essere che scaddhare esprima lo stesso concetto con una sola parola e che, essendo impossibile per la bicicletta usare la locuzione citata, la nuova creatura abbia assolto a questa funzione particolare? Intanto va detto che il vocabolario  del Rohlfs registra scaddhare col suo significato agricolo e lo riporta non come voce colta sul campo ma inclusa nel Dizionario salentino leccese di Fernando Manno, opera manoscritta. Che il nostro  scaddhare sia, perciò, una metafora in cui la bicicletta quasi umanizzata rompe la astratta catena della fatica liberando quella concreta dai denti assimilati quasi a dei parassiti? Tutto è possibile e, se lo fosse anche nel nostro caso, all’inventore della metafora andrebbe rilasciata d’ufficio la patente di poeta.

C’è, però, un dubbio derivante dal fatto che nel nostro dialetto caddhu non indica solo il callo3, ma anche il cavallo4. Se caddhu stesse nel significato di cavallo, scaddhare avrebbe, allora, il suo esatto corrispondente italiano in scavalcare e qui la metafora coinvolgerebbe il mondo animale. Se così stessero le cose, la proposta di patente prima avanzata cambierebbe destinatario, ma uscirebbe, comunque, confermata la geniale inventiva di un popolo legata al mondo contadino. Mi chiedo quali metafore dialettali nasceranno nell’epoca del silicio e del silicone5

__________ _

1 Ci tengo a sottolineare che le indicazioni bibliografiche, com’è mio costume, non hanno il minimo intento pubblicitario.

2 Per ogni lemma dialettale Pasquale si è divertito a riportare anche la probabile traduzione italiana che ne farebbe la gente del popolo in base a quel fenomeno antico che si chiama ipercorrettismo e che, usato, come nel caso del popolo, per una sorta di compensazione di natura psicologica, produce sovente effetti esilaranti, per non dire comici.

3 Dal latino callu(m).

4 Dal latino caballu(m). La voce dialettale ha seguito la seguente trafila; caballu(m)>callu(m) per sincope>caddhu.

5 Altro che Silicon Walley e protesi mammarie! A Nardò, e non solo, il silicio era di casa già nel XVI secolo (vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/13/la-chianca/).

De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

De domo David

Il 9 novembre 2019, nella chiesa di San Giuseppe a Nardò, è stato presentato il volume De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019), Edizioni  Fondazione Terra d’Otranto 2019, 640 pagine, colore, formato A/4, circa 800 illustrazioni, a cura di Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi. Edizione non commerciale

INDICE

Joseph il giusto nei mosaici dell’arco di Santa Maria Maggiore a Roma

Domenico Salamino

 

La Fuga in Egitto. Suo importante significato teologico

Tarcisio Stramare

 

Dal Sogno al Transito: iconografie nella chiesa confraternale di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

San Giuseppe e la Sacra Famiglia nel fondo antico della Biblioteca Casanatense di Roma

Barbara Mussetto

 

La pala marmorea dei Mantegazza nella chiesa di Santa Maria Assunta in Campomorto di Siziano (Pavia)

Manuela Bertola

 

Iconografie di San Giuseppe negli affreschi delle confraternite dei Battuti in diocesi di Concordia-Pordenone

Roberto Castenetto

 

La basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo e i suoi arazzi

Giovanni Curatola

 

Hierónimo Gracián e il suo Sommario (1597)

Annarosa Dordoni

 

Le confraternite dei falegnami in Romagna

Serena Simoni

 

La confraternita del SS. Crocifisso e S. Giuseppe nella chiesa di San Giuseppe in Cagli (PU)

Giuseppe Aguzzi

 

La confraternita di San Giuseppe dei Falegnami di Todi e la chiesa di San Giuseppe

Filippo Orsini

 

San Giuseppe in due dipinti astigiani di età moderna

Stefano Zecchino

 

La confraternita di San Giuseppe a Borgomanero

Franca Minazzoli

 

Il culto di San Giuseppe nella città di Napoli e un piccolo esempio di devozione: il quadro di Giovanni Sarnelli nell’Arciconfraternita di San Giuseppe dei Nudi

Ugo Di Furia

 

 Ite ad Joseph. San Giuseppe nella statuaria lignea tra Otto e Novecento: alcuni esempi

Francesco Di Palo

 

L’oratorio di San Giuseppe di Isola Dovarese. Una pregevole testimonianza settecentesca

Sonia Tassini

Testimonianze giuseppine nella chiesa di San Vincenzo Martire in Nole (Torino)

Federico Valle

 

L’oratorio di S. Giuseppe di Cortemaggiore (Piacenza)

Annarosa Dordoni

 

San Giuseppe a Chiusa Sclafani (Palermo) tra arte e devozione

Maria Lucia Bondì

 

San Giuseppe nell’arte. Sculture lignee di Francesco e Giuseppe Verzella tra Sette e Ottocento in ambito pugliese e campano

Antonio Faita

 

Memento mori: il Transito di San Giuseppe

Biagio Gamba

 

Storia e tecnica delle immagini devozionali a stampa

Michele Fortunato Damato

 

Dal XVI al XIX secolo, quattro secoli di pizzo su carta

Gianluca Lo Cicero

 

Stampe popolari giuseppine nel museo di Pitrè di Palermo

Eliana Calandra

 

Le confraternite di S. Giuseppe in Puglia tra storia e religiosità popolare

Vincenza Musardo Talò

 

Le Regole della confraternita di San Giuseppe Patriarca di Nardò, un esempio «moderno» del fenomeno confraternale

Marco Carratta

 

Arte e devozione ad Altamura. La cappella di San Giuseppe in cattedrale

Ruggiero Doronzo

 

Alcuni esempi di iconografia giuseppina a Taranto

Nicola Fasano

 

In margine all’iconografia di San Giuseppe: il ciclo pittorico di Girolamo Cenatempo nella cappella del Transito di San Giuseppe a Barletta

Ruggiero Doronzo

 

 Sponsus et custos. Iconografia, culto e devozione per San Giuseppe nell’arco jonico occidentale. Exempla selecta

Domenico L. Giacovell

 

La raffigurazione di San Giuseppe negli argenti pugliesi

Giovanni Boraccesi

 

Esempi di iconografia giuseppina tra Puglia e Campania. Proposte per Gian Domenico Catalano, Giovan Bernardo Azzolino, Giovanni Antonio D’Amato, Giovan Vincenzo Forlì

Marino Caringella

 

Postille iconografiche su Cesare Fracanzano. Alcuni esempi della devozione giuseppina

Ruggiero Doronzo

 

I Teatini e il culto di san Giuseppe a Bitonto

Ruggiero Doronzo

 

Esempi di antiche pitture parietali giuseppine nel leccese

Stefano Cortese

 

La figura di san Giuseppe nella pittura post tridentina in diocesi di Lecce

Valentina Antonucci

 

San Giuseppe nella pittura d’età moderna nelle diocesi di Otranto e Ugento

Stefano Tanisi

 

Da comparsa a protagonista. Giuseppe in alcune opere pittoriche e in cartapesta della diocesi di Nardò-Gallipoli

Nicola Cleopazzo

 

La devozione a san Giuseppe in Parabita (Lecce). Il culto e le raffigurazioni del santo

Giuseppe Fai

 

Integrazioni documentarie e nuove fonti archivistiche per la storia della chiesa e della confraternita di San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Esemplificazioni iconografiche giuseppine a Galatone (Lecce)

Antonio Solmona

 

L’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

Vedute di Nardò nella tela dell’altare maggiore in San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Comparazioni strutturali e integrazioni architettoniche settecentesche nella chiesa di San Giuseppe a Nardò

Fabrizio Suppressa

 

L’altorilievo neritino de La Sacra Famiglia in Viaggio nella chiesa di San Giuseppe

Stefania Colafranceschi

Nardò: Alberico Longo e la sua inedita (doppiamente…) versione di un mito

di Armando Polito

Sul neretino Alberico rinvio per una nota leggera a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/06/nardo-alberico-longo-e-ursula/. Sulla sua morte violenta segnalo http://bitesonline.it/wp-content/uploads/2015/06/Bites_003_Catelvetro.pdf e quanto si legge in Biblioteca modenese, a cura di Girolamo Tiraboschi, Società tipografica, Modena, 1781, v. I, pp. 443-447 (https://books.google.it/books?id=ZC1fAAAAcAAJ&pg=PA446&dq=alberico+longo+pubblicati&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwivnZO9xonlAhUB2qQKHRTLA7sQ6AEIYTAJ#v=onepage&q=alberico%20longo%20pubblicati&f=false). Sui sentimenti  che essa suscitò in chi lo stimava rinvio ad una lettera di Annibal Caro del 13 luglio 1555 indirizzata da Roma a Vincenzo Fontana (in Lettere scelte di Annibal Caro, Barbera, Firenze, 1869,  pp. 90-91: https://books.google.it/books?id=LDg-AQAAMAAJ&pg=PA90&dq=alberico+longo&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjinrPp_YflAhVPPFAKHUtLDFgQ6AEIOzAD#v=onepage&q=alberico%20longo&f=false.

Il mito è quello di Polifemo e Galatea1. La bella e al bestia, se non fosse il titolo di una fiaba più recente, si adatterebbe molto bene a sintetizzare l’infelice storia d’amore tra Galatea, graziosa nereide (ninfa delle fonti) e il giovanissimo e bellissimo pastorello Aci. Ma della ninfa si era innamorato pure il rozzo e brutto gigante Polifemo che, senza successo, tentava di fare colpo su di lei ogni volta che ne aveva l’occasione. E venne il giorno fatale in cui pensò di attirare la sua attenzione con una serenata fatta con la siringa mentre era seduto su una roccia (sarà poi questa la composizione ricorrente nei pittori che hanno celebrato il mito). Neppure questa volta Galatea lo degnò di una sguardo, anche perché impegnata in effusioni con Aci. Polifemo, allora, reagì violentemente scagliando loro addosso un grosso masso, che colpì mortalmente Aci. Il mito non ci dice se Polifemo tornò alla carica, ma solo che Galatea trasformò il sangue del giovinetto in una sorgente.

Questa storia ebbe grande successo come soggetto artistico, dalla pittura alle tavole a corredo di libri a stampa.  Di seguito, in ordine cronologico, alcune tra le più significative testimonianze.

Tavola a corredo di: Raffaello Regio, P. Ovidii Nasonis Metamorphoseo vulgare, s. n., Venezia 1521

Siamo in presenza di una tecnica cinematografica ante litteram, titoli in sovrimpressione (leggi didascalie) compresi: partendo da sinistra, il primo fotogramma (o, per usare il linguaggio digitale, frame) mostra Polifemo che seduto su una roccia suona la siringa (lo strumento musicale, anche perché nessuna fonte ci ha tramandato un Polifemo tossicomane …), mentre Galatea ed Aci si abbracciano sulla riva del mare; il secondo vede il ciclope nell’atto di lanciare un masso contro Aci, che (e siamo al frame finale) fugge verso il mare, dove già si è rifugiata Galatea; sullo sfondo una città.

Tavola a corredo di: Niccolò degli Agostini, Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradotti dal littelario (sic!) verso vulgar con le sue Allegorie in prosa, Giacomo da Leco, Venezia, 1522. Composizione identica a quella della tavola precedente, con l’aggiunta del bastone posato per terra.

Tavola a corredo di: Ludovico Dolce, Le trasformazioni (uno dei tanti volgarizzamenti delle Metamorfosi di Ovidio), Venezia, Giolito de Ferrari, 1553, p. 273. Qui il frame che mostra Polifemo suonare la siringa mentre Galatea ed Aci si abbaracciano è sostituito da quello del suo accecamento da parte di Ulisse; nel secondo il ciclope è ritratto di spalle nell’atto di lanciare il masso contro Aci che sembra essere caduto sulla riva , mentre Galatea si tuffa in acqua. Sullo sfondo in alto a destra la nave di Ulisse.

Olio su Tela di Nicolas Poussin risalente alla prima metà del XVII secolo e custodito a Dublino nella  National Gallery. Siamo ben lontani dalla drammaticità delle rappresentazioni precedenti, ma è il momento che precede la tragedia:quello in cui Polifemo intona la sua serenata a Galatea mentre è tra le braccia di Aci. La scena corrisponde ai versi ovidiani (Metamorfosi, XIII, 778-804 (è Galatea che racconta):  Prominet in pontum cuneatus acumine longo/collis utrumque latus circumfluit aequoris unda;/huc ferus ascendit Cyclops mediusque resedit,/lanigerae pecudes nullo ducente secutae./Cui postquam pinus, baculi quae praebuit usum,/ ante pedes posita est, antemnis apta ferendis,/sumptaque harundinibus compacta est fistula centum,/senserunt toti pastoria sibila montes,/senserunt undae; latitans ego rupe meique/Acidis in gremio residens procul auribus hausi/talia dicta meis auditaque verba notavi:/“Candidior folio nivei, Galatea, ligustri,/floridior pratis, longa procerior alno,/splendidior vitro… (Si protende in mare un colle a forma di cuneo dall’alta vetta e l’onda del mare lo circonda da entrambi i lati. Qui sale il feroce ciclope e si siede al centro, mentre le lanose bestie lo seguono senza guida. Dopo che il pino, atto a reggere vele,  che gli offrì l’uso di bastone, fu deposto ai suoi piedi e fu presa in mano la siringa composta da cento canne tutti i monti sentirono i fischi pastorali, li sentirono le onde. io nascondendomi dietro una roccia mentre stavo tra le braccia del mio Aci da lontano colsi con le mie orecchie tali parole e ricordo a memoria le parole sentite: “Galatea, più candida di un petalo di ligustro, più fiorente dei prati, più slanciata di un alto ontano, più splendente del vetro …)

Ancora di Nicolas Poussin questo schizzo a penna sullo stesso tema. In primo piano Galatea seduta su una roccia ha le braccia intorno al collo di Aci che a sua volta appoggia il braccio sinistro sulla spalla di Eros che gli sistema il manto. In alto a sinistra Polifemo sfdraiato su una roccia con la siringa vicino sembra giardare verso il mare, dove, a destra, si vede il carro di Apollo, dio del sole. Al centro a destra una nereide fa il bagno.

Il mito conobbe pure una versione inventata da Properzio2 (I secolo a. C.) e ripresa da Nonno di Panopoli3 (V secolo d. C.), secondo la quale Galatea avrebbe corrisposto all’amore di Polifemo. Le rappresentazioni artistiche di questa versione sono in numero decisamente minore e la maggior parte, come ora vedremo, molto antiche.

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (Casa della caccia antica) e custodito nel Museo Nazionale di Napoli. Bacio sensuale tra la ninfa e il ciclope. Dettagli distintivi: l’ariete, la siringa e il bastone.

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (Casa delle pareti rosse). Qui non compaiono (oppure non si leggono più) segni distintivi ma è chiaro che la situazione è l’evoluzione di quella precedente …

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (Casa del sacerdote Amandus). Perfettamente distinguibili Galatea, Polifemo, le pecore e in alto a destra la nave di Ulisse. L’artista sembra essersi ispirato ai versi ovidiani precedentemente citati, a parte l’assenza di Aci.

Affresco del I secolo a. C. proveniente dalla villa di Postumo Agrippa a Boscotrecase e custodito a New York nel Metropolitan Museum of Art. Parecchi dettagli sono in comune con l’affresco precedente, ma questo è scomponibile in due metà-sequenze: nella prima il ciclope esegue la sua serenata a Galatea che certamente non si nasconde; nella seconda si vede il gigante lanciare un masso contro la nave di Ulisse.

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Ercolano e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Cupido recapita a Polifemo una lettera, si presume, di Galatea (foto di Stefano Bolognini).

Mosaico del II secolo d.C. rinvenuto a Cordova durante la sistemazione della piazza della Corredera e custodito in quella città nel palazzo Alcazar de Los Reyes Cristianos.

Roma, Palazzo Farnese, dettaglio della volta della Galleria. Affresco della scuola di Antonio Carracci (XVII secolo). Segni distintivi: la siringa e il bastone. La ninfa sembra gradire la serenata del ciclope.

Nella stampa che segue, anch’essa del XVII secolo (disegnatore e incisore Pietro Aquila, editore Jacopo de Rubeis) l’intero dipinto.

Fuori campo in basso al centro quattro esametri: Ardet amans, scopuloque sedens POLYPHEMUS acuto,/ad numerum inflatis calamis,dat sibila cantu;/concomitata choro gaudet GALATEA sub antro,/et latitans rauci suspiria ridet amantis. (Arde l’innamorato Polifemo e, sedendo su uno scoglio, ritmicamente gonfiate le canne, e mette sibili col canto; accompagnata dal coro Galatea si compiace sotto una grotta e nascondendosi deride i sospiri del roco innamorato).

Da notare una certa discrepanza tra la descrizione emergente da  questi versi  e il dipinto, in cui Galatea certamente non si nasconde, tanto meno in una grotta.

Un ribaltamento ancora più spinto (rispetto alla versione dominante del mito, l’unica ricorrente a livello letterario nel XVI secolo ed in quello successivo, come dimostrano gli esametri appena esaminati)  è quello operato da Alberico Longo, che ci presenta un Polifemo suicida per amore. E lo fa in un componimento in quattro distici elegiaci, come nove altri parzialmente inedito4, tramandatici nel manoscritto Vat. lat. 9948 custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana (integralmente leggibile in https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.9948).  Di seguito riproduco il dettaglio della carta 41v con il componimento che prima trascrivo e poi traduco.

 

Alberici Longi Salentini                                                          

Non per te rigidam, non per fera numina ponti:               

per vada, per scopulos, quos Galatea colis.                        

Non per me miserum, non per pia numina ruri,                

per iuga, per fontes, quos Galatea colo.                             

Non vivam: at nostro si torva leaena cruori                        

insidiisque inhias artubus, emoriar.                                     

Dixit et intuitus  fluctus Polyphemus amarus                     

transfixit gladio pectus, et interiit.                                        

 

(Del salentino Alberico Longo

Non (vivrò) per te inflessibile, non per i feroci numi del mare,

per i guadi, per gli scogli che tu, Galatea, abiti.

Non (vivrò) per me infelice, non per i virtuosi numi della campagna,

per i gioghi, per le sorgenti che io, Galatea, abito.

Non vivrò: ma se tu crudele leonessa al mio sangue

e alle membra con le insidie aspiri, sparirò -.

Polifemo disse e, dopo aver guardato i flutti, triste

trafisse il petto con la spada e morì.)

 

Una sorta di originale, rivoluzionario (la figura dell’uomo suicida per amore, magari subito dopo che, sempre per amore …, è stato un omicida, pardon …, femminicida, è l’ultimo, recente portato dei nostri tempi) divertissement mediante l’ironica, garbata  dissacrazione di quanto di più stabile e di intoccabile all’epoca si potesse immaginare: il mito. Neppure i poeti successivi (Alberico morì nel 1555) osarono tanto e si limitarono a cantare le intenzioni suicide del gigante (ma non la loro attuazione), come, per esempio, Giovan Battista Marino (1569-1625), L’Adone, XIX, 216, 7-8: Vuol uccidere se stesso o nel’aperta/gola del mar precipitar dal’erta. E la sottile ironia io la colgo anche nello strumento che il Longo fa utilizzare a Polifemo per suicidarsi: la spada, sulla quale, dopo aver appoggiato l’impugnatura sul terreno (con colpi  inferti direttamente la morte non sarebbe stata, quanto meno, immediata), gli eroi greci la facevano finita con la vita. E non mancano nel mito propriamente detto casi simili, addirittura con duplice morte5. C’è da chiedersi dove il ciclope potesse mai aver trovato un gladium, il cui significato, in alternativa a quello di spada, è pure quello di lama dell’aratro. Polifemo era un pastore e, per evitare qualsiasi interpretazione ironica, sarebbe stato sufficiente farlo morire trafitto dal suo stesso bastone preventivamente appuntito e usato a mo’ di spada oppure facendolo precipitare dalla cima dello stesso  colle da dove, ad un’altitudine intermedia, aveva trasmesso il suo personale festival  della canzone.

La composizione si presenta originale anche dal punto di vista formale, tutta costruita com’è sul concetto chiave (la decisione di farla finita) espresso con una inconsueta litote. Com’è noto, questa figura retorica consiste nell’esprimere un concetto diluendo la parola utilizzata nel suo contrario preceduto da un avverbio di negazione, con finalità eufemistica: non bello per brutto. Qui si ha da una parte non con sottinteso vivam (da vivere), cui, con una litote pedissequa dovrebbe corrispondere moriar (da mori, che significa morire).  Invece Alberico utilizza emoriar (da emori, composto dalla preposizione e che significa lontano da) e dal citato mori. Il composto aggiunge così, se possibile, un’ulteriore nota di allontanamento che coincide con la volontà di Polifemo di sparire senza lasciar traccia alcuna, nemmeno, se possibile, del suo corpo.

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1 Riporto in ordine cronologico le fonti antiche con l’indicazione bibliografica e, per non appesantire il tutto, una volta tanto, senza il relativo testo; per Properzio e Nonno di Panopoli vale quanto specificato nella trattazione.

CALLIMACO (IV-III secolo a. C.), Epigrammi,  XLVI

TEOCRITO (IV-III secolo a. C.), Idilli, VI e XI

VIRGILIO (iI secolo a. C.), Eneide, IX, 103-104; Bucoliche, I, 27-32; VII, 37-40 e IX, 37-43

OVIDIO (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Metamorfosi, XIII, 738-897

PROPERZIO (I secolo a. C.): Elegie, III, 2, 7

ORAZIO (I secolo a. C.), Satire, l, 5

APOLLODORO (I-II secolo d. C:), Biblioteca, I, 2-7

LUCIANO (II secolo d. C.), Dialoghi degli dei del mare, I

NONNO DI PANOPOLI (IV-V secolo d. C.), Dyonisiaca, 300- 324

2 Elegie, III, 1, 29-34: Orphea detinuisse feras et concita dicunt/flumina Threicia sustinuisse lyra./Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem/sponte sua in muri membra coisse ferunt./Quin etiam, Polipheme, fera Galatea sub Aetna/ad tua rorantes carmina flexit equos. (Dicono che Orfeo con la lira tracia  incantò le fiere e fermò i rapidi fiumi. Dicono che le rocce del Citerone spintesi verso Tebe grazie alla sua arte spontaneamente si unirono in parti di muro. Anzi, o Polifemo, la crudele Galatea piegò ai suoi versi gli umidi  cavalli [sono i cavalli marini che accompagnano Galatea]).

3 Dionisiache, VI, 300- 324: Καὶ τότε κυματόεσσαν ἰδὼν ὑπὸ γείτονα πέτρην/νηχομένην Γαλάτειαν ἀνίαχε μυδαλέος Πάν·/‘Πῇ φέρεαι, Γαλάτεια, δι᾽ οὔρεος ἀντὶ θαλάσσης;/μὴ τάχα μαστεύεις ἐρατὴν Κύκλωπος ἀοιδήν;/πρὸς Παφίης λίτομαί σε καὶ ὑμετέρου Πολυφήμου,/μὴ κρύψῃς δεδαυῖα βαρὺν πόθον, εἰ παρὰ πέτραις/νηχομένην ἐνόησας ἐμὴν ὀρεσίδρομον Ἠχώ./Ἦ ῥά σοι ἶσον ἔχει διεπὸν δρόμον; ἦ ῥα καὶ αὐτὴ/ἑζοθένη δελφῖνι θαλασσαίης Ἀφροδίτης,/ὡς Θέτις ἀκρήδεμνος, ἐμὴ ναυτίλλεται Ἠχώ;/δείδια, μή μιν ὄρινε δυσάντεα κύματα πόντου·/δείδια, μή μιν ἔκευθε μέγας ῥόος· ὣς ἄρα δειλὴ/ἄστατος ἐν πελάγεσσι μετ᾽ οὔρεα κύματα βαίνει·/ἥ ποτε πετρήεσσα φανήσεται ὑδριὰς Ἠχώ./Ἀλλὰ τεὸν Πολύφημον ἔα βραδύν· ἢν ἐθελήσῃς,/αὐτὸς ἐμοῖς ὤμοισιν ἀερτάζων σε σαώσω·/οὔ με κατακλύζει κελάδων ῥόος· ἢν ἐθελήσω,/ἴχνεσιν αἰγείοισιν ἐλεύσομαι εἰς πόλον ἄστρων.’/Ὤς φαμένῳ Γαλάτεια τόσην ἀντίαχε φωνήν·/‘Πὰν φίλε, σὴν ἀνάειρε δι᾽ οἴδματος ἄπλοον Ἠχώ·/μή με μάτην ἐρέεινε, τί σήμερον ἐνθάδε βαίνω·/ἄλλον ἐμοὶ πλόον εὗρεν ὑπέρτερον ὑέτιος Ζεύς./Καὶ γλυκερήν περ ἐοῦσαν ἔα Κύκλωπος ἀοιδήν./Οὐκέτι μαστεύω Σικελὴν ἅλα· τοσσατίου γὰρ/τάρβος ἔχω νιφετοῖο καὶ οὐκ ἀλέγω Πολυφήμου.’ (E allora Pan madido, avendo visto sotto un a vicina rupe Galatea che nuotava, esclamò: “Dove vai, Galatea, attraverso il monte davanti al mare?  Non brami forse l’amato canto del Ciclope? Ti prego, per la dea di Pafo [Venere che a Pafo, città dell’isola di Cipro, aveva un tempio]e del vostro Polifemo [Thoosa, ninfa che con Poseidone generò il ciclope], non nascondere di bruciare di un grande desiderio, se presso le rupi hai visto nuotare la mia Eco che corre per i monti. Forse ha un agile movimento simile al tuo? O anche lei, la mia Eco, seduta su un delfino della marina Afrodite, naviga senza velo come Teti? Ho paura che l’abbiano turbata le terribili onde del mare, ho paura che una grande corrente l’abbia sommersa. Forse infelice insicura attraversa o mari dopo i monti. Eco un tempo montana apparirà marina. Ma tu lascia il tuo lento Polifemo; se vuoi ti salverò sollevandoti sulle mie spalle, la rumorosa corrente non mi sommerge. Se vorrò giungerò alla volta del cielo con i piedi caprini. A lui che così diceva Galatea rispose gridando con tali parole: ” Caro Pan, solleva dal flutto la tua Eco che non sa nuotare; non chiedermi invano perché oggi qui mi aggiro: Giove pluvio ha trovato per me un’altra navigazione. E lascia che il canto del Ciclope sia dolce. Non desidero più il mare siciliano: infatti ho paura di siffatta pioggia e non mi prendo cura di Polifemo”.

4 Solo l’incipit di ciascuno ne riporta Mario Marti in Dal certo al vero, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1962, p. 273 e seguenti.

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/15/gelsi-dellincoronata-mi-piace-ricordarli-cosi-13/

 

 

Dialetti salentini: firsola

di Armando Polito

Davanti al camino, olio su tela (2018) di Salvatore Malorgio (immagine tratta da http://www.tuglie.com/davanti_al_camino.asp)

 

Confesso che la scelta dell’immagine di testa è stata piuttosto sofferta. Proporre una foto  esclusiva della firsola mi sembrava limitare il potere evocativo integrale che qualsiasi oggetto del passato conserva, per quanto è possibile, se non isolato dal suo contesto abituale. Avrei potuto utilizzare a tal uopo una foto d’epoca salentina tra le numerose rinvenibili in rete. Alla fine la stessa rete mi ha fornito,  casualmente come spesso succede quando la si utilizza sottoponendole a cascata parole-chiave, la soluzione. Certo, una foto in bianco e nero, per noi che non possiamo più fare a meno del colore, rappresenta in qualche modo un ritorno alle origini ed ha il suo indubbio fascino, ma l’interpretazione di un tema antico da parte di un artista moderno aggiunge un pizzico di poetica nostalgia, tanto più che il pittore in questione, di cui fino a quel momento ignoravo l’esistenza, vive ed opera a Busto Arsizio ma è nato a Tuglie nel 1948 e la “salentinità” appare come l’ispiratrice di molte sue opere1.

La firsola è quello che in italiano si chiama calderotto, e tra gli arredi/attrezzi del camino di un tempo era il più importante, perché veniva utilizzata non solo per  cucinare ma anche per la produzione di acqua calda. Dotata di un manico ad arco mobile, era sospesa sul fuoco, retta al centro del camino da una catena che ha un nome dialettale dalle molte varianti2.

È giunto il momento di dire qualcosa sull’origine della voce. Come al solito parto dal Rohlfs che propone un latino *frixoria “padella”. L’asterisco che precede frixoria indica, per chi non lo sapesse, che la voce è ricostruita e di essa non ci sarebbero attestazioni. Non risulta usata infatti nel latino classico e neppure in quello medioevale. Quest’ultimo, però, registra la voce frixorium attestata da Macrobio (IV-V secolo d. C.) nel De verborum graeci et latini differentiis vel societatibus: “Frigeo frigui facit a secunda coniugatione; frigo vero, frixi, a tertia, unde frixum, frixorium, id est calefactorium”. (Frigeo [presente: io ho freddo] fa frigui [perfetto: io ebbi freddo] dalla seconda coniugazione; invece frigo [presente: io friggo] fa frixi [perfetto: io ho fritto] dalla terza, da cui frixum [supino, da cui anche il participio passato frixus/frixa/frixum:fritto/fritta/cosa fritta], frixorium, cioè strumento per scaldare).

Frixorium, dunque è forma aggettivale neutra sostantivata singolare formata dal tema frix– di frixum e dal suffisso –orium tipico dei vocaboli che indicano uno strumento. Alla lettera, dunque, frixorium, significa strumento per friggere. Come si spiega il passaggio da frixorium a *frixoria? Intanto va detto che il plurale di frixorium è proprio frixoria e che la desinenza -a tipica dei nomi femminili della seconda declinazione in combutta con la valenza collettiva di frixoria potrebbe aver propiziato il passaggio a *frixoria. In alternativa non è difficile ipotizzare una forma aggettivale *frixorius/frixoria/frixorium, dal cui femminile sarebbe derivato direttamente il nostro, con la metatesi fri->fir-.

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1 http://www.tuglie.com/malorgio.asp

2 Nel Brindisino camastra (ad Oria e a Carovigno); nel Leccese a Salve camàscia, ad Alessano camàsce, a Castrì camastre, a Vernole camastra; nel Tarantino camasta ad Avetrana, camastre a Massafra e a Palagiano. Tutte dal greco κρεμάστρα (leggi cremastra) che era il nome della corda dell’ancora.

Gli Arcadi di Terra d’Otranto (16/x): Domenico Antonio Battisti di Scorrano

di Armando Polito

Cominciamo con un giallo, quello del cognome.

Ne Il Catalogo degli Arcadi in coda a Prose degli Arcadi, Antonio De Rossi, Roma, 1717, tomo III, p. LXXXI si legge:

Battisti si legge pure in Giammaria Mazzucchelli, Scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1758, volume II, parte I, p. 557, al quale rinvio per la biografia.

Poi le cose si complicano: Battisti diventa Battista in Eustachio d’Afflitto, Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli, 1794, tomo II, p. 79, dove pure si legge in nota che Mazzucchelli a proposito della scheda relativa al nostro in Scrittori d’Italia raccolse tutto ciò dalle notizie intorno a’ Canonici, e Cherici Beneficiari Vaticani p. 24 comunicategli manoscritte da Monsignor Garampi, Canonico allora di S. Pietro, ed ora Nunzio in Vienna. Si avverta però, che il Mazzucchelli scrive il cognome del N. A. Battisti, non Battista, come dal medesimo autore si scrisse, né seppe ciò che da noi si soggiugne. Preciso che in nota 2 il Mazzucchelli aveva espressamente citato la fonte manoscritta e, quindi, gli viene imputato un errore di lettura, il che suppone che anche il D’afflitto l’abbia letta.

Non è finita, perché in rete1 leggo che il cognome sarebbe non Battista, ma Donbattista3. Putroppo manca la fonte, ma potrebbe essere una pubblicazione citata in  bibliografia: Maurizio Marra, Domenico Antonio Donbattista (note biografiche), Serafino Arti Grafiche, 2010. Non sono riuscito a reperirla ma sarei grato a chiunque l’avesse letta o allo stesso autore di una conferma o smentita circa Donbattista.

Nell’attesa nel titolo ho optato per la forma più antica (1717) all’inizio ricordata, confermata anche dai cataloghi successivi, compresi quelli recenti che si sono rifatti agli originali manoscritti conservati nell’archivio dell’accademia oggi depositato presso la Biblioteca Angelica di Roma.

Il suo nome pastorale risulta costituito dal solo Laudeno seguito da punti di sospensione, il  che denota la mancata assegnazione della campagna, cioè della seconda parte che di solito conteneva un riferimento toponomastico. Non son riuscito a trovare nessun riferimento e il fatto che Laudeno sia stato successivamente al nostro il nome pastorale pure del cardinale Giovanni Battista Barni2 non mi ha dato, come speravo, alcun aiuto.

Dello scorranese, comunque, ci restano due sonetti2.

 

Poiché Belgrado la superba, e forte

sommisea al grand’Eugeniob il capo altero,

lieta tornando al dolce antico impero,

rotte l’Arabe indegne aspre ritorte c,

oh come impaziente ancor le porte

aprire a lui Bizanziod attende, e il feroe

giogo scuoter, condotta al ver sentiero

dalle vie di Maconf fallaci, e torte!

E seco Africa , ed Asia oppresse, e domeg,

Scipioh, e Alessandroi omail posti in obblio,

eterneran suo glorioso nome.

Che né il Tebrom, né il Gange o vide, o udio

di sacri lauri altre più degne chiome,

né invitto Eroe più generoso, e pio.

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a sottomise

b Eugenio di Savoia  (1663-1736), generale francese al servizio del Sacro Romano Impero. Tra i migliori strateghi del suo tempo (era soprannominato Gran Capitano), diede agli Asburgo la possibilità d’imporsi in Italia e nell’Europa centrale ed orientale. Per la battaglia di Belgrado, città liberata dai Turchi il 17 agosto 1717, gli venne dedicata la canzone  Prinz Eugen, der edle Ritter (Il Principe Eugenio, il nobile cavaliere).

c La ritorta era una piccola corda con cui si legavano ai prigionieri mani e piedi; qui sta nel senso metaforico di assedio.

d Bisanzio, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente.

e feroce

f Maometto. Macone forma letteraria: Torquato Tasso, Gerusalemme liberata,  II, 2, 1: Questi or Macone adora, e fu cristiano.

g domate

h Scipione l’Africano

i Alessandro Magno

l ormai

m Tevere

 

 

Tu che le Greche, e le Latine cartea

volgi sovente, e in dotte prose, o in carmi

discerner sai le forti gesta, e l’armi,

ch’Asia domaro, Europa, e l’altra parte,

dimmi, eccelso Alessandrob, ove di Marte

Eroe maggior potrai saggio additarmi

del gran Eugenioc, e s’unquad aie letto in marmif

egual senno, valor, consiglio, ed arte?

L’illustri sue, e memorande imprese,

d’almag , e sola virtù partig  ben chiari,

saran mai sempre ed ammirate, e intese.

Qual sien de’ lauri i degni fregi, e rari,

e quai le vie d’onore alte, e contese,

da lui sol fiah, ch’ogni Guerriero impari.

____________

a gli scritti latini e greci

b Alessandro Albani da Urbino, nipote di Clemente XI, cardinale, arcade per acclamazione col nome pastorale di Crisalgo Acidanteo.

c Vedi la nota b nel sonetto precedente.

d qualche volta

e hai

f iscrizioni

g prodotti, frutti

h avvenga

 

(CONTINUA)

 

Per la prima parte (premessa): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/  

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/ 

Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/ 

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/ 

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  

Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/  

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/  

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 

Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/ 

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

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1 https://it.wikipedia.org/wiki/Domenico_Antonio_Donbattista

2 In Rime degli Arcadi alle altezze Serenissime de’Principi Filippo Maurizio e Clemente Augusto di Baviera, tomo VII, Antonio de’ Rossi, Roma, 1717, p. 363.

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