Cupertinum doc 2020, il giornale etico della Cantina di Copertino

Giunto alla nona edizione, quest’anno il giornale della Cantina di Copertino esce sotto il segno della speranza e dell’etica. Tra i contenuti principali: l’intervista a Mons. Fernando Filograna e a Don Giuseppe Venneri sul progetto Opera Seme; l’intervista a Barbro Guaccero, la stilista che ha valorizzato il vino di Copertino in Svezia; l’intervista a Guy Martin, uno dei massimi chef del mondo; l’intervista a Raffaele Casarano sul jazz e oltre; lo straordinario racconto di Rosario Tornesello sulla degustazione al buio con i campioni dell’Ascus Lecce; le foto di Raffaele Puce, creativo fotografo salentino; la presentazione del nuovo Copertino Doc e dell’etichetta con il disegno di Fra’ Angelo Rocca, monaco intellettuale cinquecentesco; il Glykòs, il passito che contiene il sole del Salento; il rosato Spinello dei Falconi e la sua eleganza mediterranea. Da segnalare anche la bella copertina, citazione e omaggio a Gianni Sassi, indimenticabile creativo e grafico.
Francesco Trono, presidente della Cantina, presenta nell’editoriale i contenuti che sottendono questo numero e il lavoro della Cupertinum: “’Rinnovare il lavoro in senso etico, significa rinnovare tutta la società, bandendo la frode e la menzogna, che avvelenano il mercato, la convivenza civile e la vita stessa delle persone, soprattutto dei più deboli’ ha detto Papa Francesco. La Cupertinum con tutti i suoi uomini e donne impronta la propria etica su valori quali la trasparenza e la cooperazione e, passando dall’esperienza della Cantina al mondo, per affrontare i problemi del nostro pianeta è per una visione etica di sistema. È quanto ci ha sollecitato a fare Papa Francesco con la sua enciclica: poiché tutto è legato e tutto è in relazione, serve una visione globale, una ecologia integrale, valorizzando i legami esistenti tra la sostenibilità ambientale e l’equità sociale, e nel quadro di uno sviluppo mondiale sostenibile.
Noi partiamo dalla concretezza di una realtà vitivinicola che ha ottantacinque anni e radici antichissime e vogliamo insistere sulla qualità dei prodotti e sulla valorizzazione territoriale, che passa anche dal turismo, dalla qualità della vita, dalla capacità di essere felici, dalla cura verso la terra che abitano.
Vogliamo mettere insieme innovazione, responsabilità, etica, speranza. La partecipazione a Opera Seme lo conferma: questo progetto diocesano che vuole, come dice il Vescovo Mons. Fernando Filograna nell’intervista: ‘tenere assieme commercio etico, rispetto per il lavoro e il territorio, e vuole anche presentarsi come un segno di speranza per chi crede che questo sia un territorio ricco di risorse e possibilità […] La vocazione agricola e turistica del nostro territorio, ricco di tipicità e di storia, fa da cornice al progetto. Ciò che si intende promuovere è una visione innovativa e sostenibile dell’esistente, che non tralascia – però – la memoria e l’esperienza’. In questo momento questi intenti assumo ancora più valore. Insieme ce la faremo!”.
Cupertinum doc. Il cuore del negroamaro si può trovare al punto vendita della Cantina, nelle migliori librerie di Lecce, nelle edicole di Copertino o richiedendolo a cupertinum@libero.it

Coronavirus. Situazione al 6 aprile 2020

di Nazareno Valente

Il nostro Paese mantiene il triste primato delle vittime causate dal virus (16.523) e del più alto tasso di letalità (12,47%).
A livello nazionale, l’incremento percentuale dei contagi ha assunto oggi (6 aprile) il suo valore più basso dall’inizio dell’epidemia (2,8%); mentre quello della nostra regione ha subito una decisa impennata (5,48%) rispetto ai giorni scorsi. La Puglia ha il più alto tasso di letalità (7,98%) tra le regioni del Sud e somministra un consistente numero di tampone (oggi quasi 2.000).

 

Riti e commemorazioni della Settimana Santa a Nardò

Antiche memorie dei riti e commemorazioni della Settimana Santa a Nardò prima della Riforma Liturgica (Costituzione Dogmatica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II (4.XII.1963)

 

di don Santino Bove Balestra

La Settimana Santa dai fedeli era considerata come il periodo della catarsi (“purificazione” dell’anima e del corpo da ogni contaminazione) corporale e spirituale, tanto che curavano con particolare attenzione l’igiene personale e la pulizia straordinaria della biancheria e suppellettili domestiche.

Ogni sera di questa particolare settimana in Cattedrale, la Chiesa Madre, quando non era ancora consentita la celebrazione della Messa Vespertina , officiava un padre predicatore con un sermone sulla Passione di N.S.G. detto “Passio”. Vi era grande concorso di popolo che partecipava con forte impatto devozionale ed ogni fedele portava con sé dalla propria abitazione una sedia o uno scanno, che lì sarebbe rimasto per tutto il periodo ad uso personale. I pochi banchi in dotazione alla chiesa erano riservati ai più anziani, che occupavano con largo anticipo rispetto all’orario prefissato.

Il solenne triduo era il momento più forte ed aveva inizio al mattino del giovedì santo, quando, nel Cappellone del SS. Sacramento, il Vescovo con il clero secolare e regolare   celebrava la Messa Crismale. Nel pomeriggio il popolo si recava in Cattedrale, nelle chiese parrocchiali e nelle rettorie per la tradizionale visita ai cosiddetti “Sepolcri” (repositori), debitamente allestiti dalle rispettive comunità e confraternite, osservando che il numero di quelli visitati fosse dispari. Lungo il tragitto si recitava il Rosario.

Una volta giunti davanti al SS.mo Sacramento si ripeteva la seguente giaculatoria: “Sipulcru isitatu, ti lacrime bagnatu ti la tesoreria della Vergine Maria”, recitata per  tre volte, seguita da altrettanti Pater, Ave e Gloria. Si invitava a fare altrettanto anche i fanciulli presenti, riponendo un obolo nell’apposita cassetta delle offerte da destinare alle spese di culto e all’acquisto della cera che bruciava. L’addobbo del “Sepolcro” era sontuoso e solenne, ornato con tessuti pregiati, damaschi e broccati scrupolosamente conservati di anno in anno. L’Urna era collocata in basso e la porticina del tabernacolo restava aperta, mentre in alto dell’altare era alloggiato il SS.mo Sacramento in posito contenitore. I gradini dell’altare, in genere scelto tra quelli laterali della chiesa, e la mensa erano ornati con piattini su cui nelle settimane precedenti erano stati fatti germogliare  semi di frumento, lupini, ceci, cicerchie (comunemente detta tolica ianca) e lenticchie, con aggiunta di colorati fiori di campo inseriti poco prima dell’esposizione.

Questa preparazione richiedeva esperienza e particolare accuratezza, anche perché la semina su tufo e bambace disposti a strati richiedeva tempi scadenzati, così da far coincidere la crescita con la festività. Prerogativa di questi “piatti ti sipurcu” è che quanto era germogliato dovesse essere candido, bianco, in pratica senza che si fosse avuta la fotosintesi ed il conseguente verde. Per questo subito dopo la messa a dimora dei semi nei piattini e l’adeguata umidificazione del supporto si tenevano al riparo, in locali assolutamente privi di luce, per almeno 15 giorni. Qualcuno li faceva germogliare e crescere nei cassetti dei comodini, innaffiandoli dopo il tramonto, per evitare che la luce solare vanificasse quel segno di rinascita e di purezza.

Il tempo concesso per la visita ai “Sepolcri” durava fino alla recita dell’Ora Terza dell’Ufficio delle Ore, che venivano cantate in latino in Cattedrale dal “Breviario o dal Liber Usualis” del Venerdì Santo. Occorrerà la Costituzione Dogmatica “Sacrosanctum Concilium” del Concilio Vaticano II, nel 1963, per l’approvazione, da parte dei Padri Conciliari , della celebrazione in lingua italiana della Messa avvenuta questa per la prima volta precisamente il 7 marzo 1965 e presieduta da S.S. Papa Paolo VI, nella parrocchia di Ognissanti dei Padri Orionini, in Roma, la stessa dove si reca annualmente Papa Francesco.

VENERDI’ SANTO

In Chiesa Madre, dopo la recita dell’Ufficio Liturgico dal Capitolo Cattedrale, si procedeva alla rimozione dei paramenti del “Sepolcro” e a partire dalle ore 13,00 esatte fino alle ore 15.00 si celebrava “l’Agonia di N.S.G.C.” Ogni anno veniva invitato dall’Arciprete del Capitolo, un valido padre predicatore, in genere un religioso (andavano per la maggiore i Missionari della Congregazione dei PP. Passionisti o i Padri Cappuccini), che dal pergamo della Basilica commentava “Le ultime sette Parole di Cristo”, intercalando alcune giaculatorie nel proclamare ogni singola parola (statio).

Si tramanda, da una delle poche testimoni oggi felicemente in buona salute (è alla vigilia del centesimo genetliaco!) (*) che correva l’anno 1930, quando fu introdotto il suggestivo ed emotivo rituale della “Schiodazione” del Crocifisso in cartapesta, oggi custodito nella Sagrestia della Basilica Cattedrale. Ciò avvenne davanti alla prima delle colonne in stile gotico, alla destra dello “Stipone delle Sante Reliquie dei Santi”. Si racconta, da parte di chi era presente e ne sia quindi oggi preziosa e rarissima testimone oculare, che alcuni fedeli a causa di istintive reazioni emotive, causate dalle forti grida emesse da alcuni presenti nell’assemblea, crollassero di colpo a terra privi di sensi. Tanto era forte la compulsione per il commento omiletico del racconto della morte del Nazareno, a maggior ragione scenograficamente rappresentata dal distacco delle membra dello stesso Crocifisso. Ciò accadeva soprattutto dopo la settima parola: “Nelle tue mani, Padre consegno il mio spirito!”, quando seguiva un forte terrificante rumore che sembrava scuotesse le mura dell’antico edificio sacro, simile ad un boato sismico, seminando tra gli astanti panico, pianto e tremore.

Terminata “l’Agonia”, seguiva la celebrazione della cosiddetta “Messa scirrata”, officiata da tre presbiteri, in maniera del tutto disordinata, senza tovaglia sulla mensa eucaristica, o posata in modo scomposto, sgualcita e non stirata, senza i candelieri (talvolta se ne faceva uso di uno solo, senza che il celebrante indossasse la stola della pianeta, oppure si invertiva l’ordine delle ampolline dell’acqua con l’altra del vino). La durata della celebrazione era più lunga del solito, poiché, secondo l’immaginario collettivo, i tre celebranti “perdevano i sensi” e quindi il retto incedere del rito, ciò provocato dalla sofferenza della morte dell’Innocente Redentore. A tarda serata, con il calare delle tenebre, si snodava la Solenne Processione di Cristo Morto.

Erano tenuti alla partecipazione, oltre che il Vescovo, il Capitolo Cattedrale, i sacerdoti e i religiosi, anche tutte le “Congreghe” e le Pie Unioni cittadine e che, secondo un gerarchico criterio, precedevano il Carro del Cristo Morto. Si univano molte altre corporazioni cittadine, dagli artigiani ad altre categorie di sodalizi urbani, che puntualmente facevano a gara per la cosiddetta “Asta”, dove al migliore sodalizio offerente, veniva concesso il privilegio di portare la bara del Cristo Morto. I portatori indossavano rigorosamente smoking nero con camicia bianca e cravatta nera.

Si tramanda che, alcuni portatori, non avendo la possibilità economica di acquistare l’abito nero, se lo facevano dare in prestito dagli sposi novelli di quell’anno! Seguivano i devoti e quindi la statua della B.V.Maria Addolorata, vestita in nero, e portata a spalle dalle “Pie donne”, anch’esse in elegantissimo tailleur nero e guanti. Seguiva la storica famosissima Banda Verde di Nardò,  e il coro delle voci bianche (donne, adolescenti e fanciulli), che cantavano il famoso Inno a Cristo Morto (“Sulla Salma insanguinata c’è l’ucciso Nazareno”), una marcia funebre composta dal Maestro Giuseppe Cacace (1828-1891) di Taranto intorno al 1850 e introdotto a Nardò dal suo concittadino il Vescovo neretino Mons. Giuseppe Ricciardi (1839-1908).

Il Venerdì Santo era solitamente – si racconta- una giornata uggiosa, fredda e con forti raffiche di vento, così denominata dalla gente di “Amarezza” tanto che si recitava un antichissimo detto: “Puru lu Signore sta chiange!”, riferendosi al cielo grigio e senza raggi di sole. La Processione terminava all’Alba del Sabato Santo, perchè percorreva quasi tutte le vie del Centro storico, e il suo arrivo era preannunciato dal triste rumore della “troccola” (è un idiofono a percussione diretta, un tipo di strumenti musicali popolari composti di una tavola di legno su cui sono installate delle “maniglie” in metallo. Agitando la troccola le maniglie metalliche percuotono il corpo in legno producendo un suono caratteristico. I fedeli che la suonano , ancora oggi, per rispetto si tolgono il cappello e al termine la baciano, in particolare nei punti in cui vi è impresso il simbolo della Passione. La troccola in alcuni luoghi prende il nome di crotola o crotalo).

SABATO SANTO

Era il giorno della Resurrezione e a mezzodì in punto tutti i fedeli, uomini e donne, si fermavano allo scoccare dello scampanio solenne delle campane – si diceva in vernacolo: “Quandu scapulavanu li campane!” che suonavano a festa per l’Annuncio di Pasqua. Tutti, indistintamente e obbligatoriamente, nessuno escluso, in qualsiasi luogo si trovassero, interrompevano ogni forma di attività per elevare la loro preghiera di lode e ringraziamento al Signore Risorto! I contadini, poi, nelle campagne, dismessi i loro attrezzi agricoli, si mettevano “a ginucchiuni”, prostrandosi a terra e togliendosi la “coppula”, antico segno di sudditanza feudale, diventato in quell’istante vero segno di sacra riverenza all’Unico Maestro e Signore Risorto.

*Un grazie speciale alla Signora Assunta – “Ninuzza” – Giaccari per il prezioso contributo reso alla stesura del seguente articolo, quale testimonianza vivente di quanto a noi trasmesso con ammirevole cristallina memoria.

I colori del paesaggio salentino

di Fernando Scozzi

Campo di grano e torre colombaia nei pressi di Felline, ovvero i colori del paesaggio salentino: dal verde del grano al giallo-oro delle spighe, dal rosso dei papaveri all’azzurro del cielo al bianco delle case fra gli ulivi.

La torre merlata, visibile dalla provinciale che da Felline porta alla marina di Ugento,  faceva parte di una grande costruzione rurale i cui ruderi sono ancora evidenti.

Sembra incredibile come la torre, già fonte di ricchezza per l’allevamento dei colombi, abbia potuto resistere alle ingiurie del tempo, alla noncuranza degli uomini e all’urbanizzazione selvaggia del territorio.

Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò (1695-1670) e Giovanni dello Presta (1683-1765), il suo insegnante di lettere in difficoltà con l’aritmetica

di Armando Polito

Ciò che sto per presentare potrebbe pure apparire come una testimonianza di narcisismo particolarmente diffusa nei secoli passati, se non fosse che essa, tuttavia, permane nei nostri giorni sotto le forme della dedica, della prefazione e della postfazione (queste due ultime, addirittura, non raramente multiple). La prima, la dedica, magari era solo un po’ più sfacciata di oggi, perché sbattuta in faccia già a partire dal frontespizio. E da questa comincio. Nel 1727 usciva  per i tipi di Oronzo Chiriatti a Lecce un’edizione del De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis alias Galateo (1444-1517) curata da Giovanni Bernardino Tafuri e  dedicata a Giovanni Nicastro, vescovo di Claudiopoli.

La dedica annunciata nel frontespizio ha il suo svolgimento nelle cinque pagine iniziali, cui seguono nella successiva due imprimatur. Inizia, poi, quella che oggi chiameremmo prefazione e che all’epoca consisteva per lo più in componimenti, naturalmente anche loro elogiativi, in latino (esametri o distici elegiaci). Essa consta di un componimento di Ignazio Maria Como (sul quale sorvolerò per non tediare il lettore ed anche perché non è funzionale a quanto fra poco vedremo), cui segue la pagina che riproduco, aggiungendo, come ho fatto per il frontespizio la traduzione e qualche nota di commento.

a Inizia la parte, per così dire, enigmistica dell’elogio in cui 69, 113 e 69 dovrebbero essere  i totali risultanti dalla somma del posto che ciascuna lettera che compone ogni parola ha nell’alfabeto. Dico dovrebbero perché i conti non tornano: infatti, se 69 nasce correttamente  da 10+15+1+14+14+5+19 e 44 da 1+11+2+1+7+5+17, lo stesso non è per 69, in quanto  la somma di 18+1+6+19+16+19+17 è 96 e il totale di 69+113+96 è 278. A questo punto il creatore del giochetto dev’essersi distratto (o ha barato), per cui, invece di segnare 96, ha segnato l’inverso, cioè 69 e poi, operando la somma di 69+113+69 ha ricavato il totale definitivo di 251. La matematica, probabilmente, non doveva essere il cavallo di battaglia del nostro enigmista perché nella seconda parte, se 16 nasce correttamente da 5+3+3+5, lo stesso non può dirsi per 93, in quanto 17+13+10+20+5+12+17 dà 94, mentre corretti sono 44 (da 1+11+2+1+7+5+17) e 98 (da 14+16+9+13+16+19+11).

Il totale corretto (16+94+44+98) è 252. il 251 che si legge è figlio del 93 invece di 94, errore indotto, anche qui non so dire quanto in buona fede, dalla necessità che la somma fosse 251, cioè uguale a quella della prima parte, a sua volta, come abbiamo visto, figlia di errore. Probabilmente l’intera frase piaceva troppo e non sarebbe stato facile cambiarla in un’altra di senso compiuto (e che anche aritmeticamente fosse corretta), dal momentio che tradotta suona così: GIOVANNI BERNARDINO TAFURI, ECCO CHI RISOLVE I DUBBI DEI PREDECESSORI (il riferimento è alle difficoltà incontrate dai precedenti commentatori dell’opera del Galateo).

E il giochetto piacque tanto all’autore che pensò bene di incastonare la seconda parte dell’anagramma nel componimento in distici elegiaci che viene subito dopo. Così apprendiamo che l’autore di entrambi  è Giovanni dello Presta precettore del Tafuri.

b Epiteto di Atena, dea greca della guerra, ma anche della sapienza e delle arti.

 

Non tutto il male viene per nuocere, perché, se l’inserimento di quanto appena esaminato fu un atto narcisistico1, senza di esso, tuttavia, non avremmo conosciuto il nome di chi seguì il Tafuri negli studi letterari e nulla di lui ci sarebbe pervenuto. Provvide poi un discendente di Bernardino a fornirci qualche altro dato. Si legge in  Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p. 494, dopo altri nomi di autori che diedero lustro a Nardò: Giovanni dello Presta. Nacque a 22 novembre 1683, e morì agli 11 di marzo 1765. Fu prete, e di poi eletto canonico della chiesa cattedrale di Nardò da monsignor Sanfelice. Fu maestro di lettere amene nel Seminario Diocesano della stessa città di Nardò. ________

1 Ridimensionato, però, dal fatto che l’anagramma e l’epigramma non compaiono nella successiva edizione inserita in Angelo Calogerà (a cura di), Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici, Zane, Venezia, 1732, tomo VII, pp. 35-205.

 

Parabita, San Rocco e il colera del 1867

Antonio Maccagnani, San Rocco, statua in cartapesta conservata nella parrocchia matrice di S. Giovanni Battista a Parabita (1868) (foto Matteo Milelli)

 

di Matteo Milelli

Il chirografo, datato 30 agosto 1923, è conservato presso l’archivio storico della parrocchia “San Giovanni Battista” di Parabita. Tale documento, caduto nell’oblio, per puro caso è stato rinvenuto nei giorni dell’epidemia del coronavirus, durante dei lavori di inventariazione dell’archivio, in preparazione alla visita pastorale del Vescovo. Trattasi di un segnale da parte del santo di Montpellier per ricordare ai propri devoti che lui protegge la città? O, per i più diffidenti, un richiamo a guardare al passato per affrontare la presente epidemia?

Certo è che nell’ultimo periodo il culto verso san Rocco è andato via via affievolendosi… Non esiste più una processione, né un triduo. Il parroco e pochi fedeli si ritrovano il 16 agosto di ogni anno per fare memoria del santo invocato contro la peste. L’unico momento solenne riservato a questo santo è quello della festa patronale della Madonna della coltura quando, nella rievocazione storica del ritrovamento del monolito, scorta la Regina dei Santi, insieme al compatrono san Sebastiano.

                                                                                                           Parabita, 30 agosto 1923

Carissimo don Gaetano[1],

eccovi le poche notizie intorno alla devozione dei parabitani verso san Rocco.

In una triste giornata dell’indimenticabile giugno 1867, quando Parabita al pari di altri Comuni veniva funestata dal colera, mio padre entrava in un pubblico caffè con l’idea di risvegliare nel nostro popolo la devozione verso san Rocco, da cui soltanto sperava un pronto sollievo.

Per terrorizzarli non parlava che delle gesta del morbo, rivolse delle domande per sapersi le notizie ultime di cronaca circa qualche possibile progresso della scienza atto a fermare la violenza della epidemia.

Rispose che l’Igiene non manca mai di suggerire salutari consigli, ma disgraziatamente rimanevano inascoltati per l’ignoranza del popolo, altrimenti non mancherebbe un po’ di sollievo.

D’altronde non c’era da scoraggiarsi, chè un po’ di fede ha compiuto in ogni tempo grandi miracoli.

I nostri antenati riposero ogni loro fiducia in san Rocco, cui si attestano dei Santi benefici delle nostre mura, e la dotarono di rendite in beni rustici che, incamerati, conservano tuttora il nome del Santo. Mio padre si dichiarò prontissimo a risvegliare tra i parabitani l’antica devozione sopita, insieme a qualche buon volenteroso.

Ed ecco già che il proprietario di quel caffè mette un tavolo fuori della bottega, in piazza, esponendo a vista una microscopica e sozza statua di creta, raffigurante il Santo, con accanto un piatto per ricevere l’obolo dai passanti, i quali già comprendono il bel pensiero, e senza esitazione corrono a dar la loro moneta.

Una Messa solenne, in onore del Santo, con la precedenza del triduo viene celebrata, e la Chiesa è gremita di popolo implorante pietà.

Il Santo non è sordo, e per la sua intercessione l’epidemia d’un tratto s’arresta.

In segno di riconoscenza, intanto, fu decretata l’erezione d’una Statua; e, detto fatto, si corre a Lecce, si contratta con l’artista Antonio Maccagnani, il quale sa mettere tutta la migliore attenzione, perché il lavoro ricerca magnificenza.

Il 14 novembre del detto anno 1867, si leva la statua ed è portata a spalla e depositata nella Cappella della Coltura, dove benedetta il dì seguente col concorso del Capitolo e del popolo riconoscente, è portata processionalmente alla Chiesa Parrocchiale. Nella stessa giornata vien deliberata la festa preceduta dal Triduo per il 16 agosto, dal 1868 in poi.

La spesa della statua ammonta a £ 425 =.

La ricca corona d’argento, avuta il 25 marzo del ’68 da un’artista napoletano costa £ 184 =.

La reliquia è un regalo ricevuto da un padre in compenso dei suoi lavori. Essa perviene al sottoscritto per eredità, e sarà sempre disponibile come nel paragrafo per la sua esposizione in Chiesa, in riconoscenza della festa e delle calamità.

Mio padre seguì ad occuparsi della devozione del santo fino alla sua decrepitezza. E fino ad oggi non mancano i buoni volenterosi di seguire il suo esempio, segno questo di grande gratitudine di un popolo per i tanti benefici ricevuti.

Questo è quanto posso dirvi dietro vostra richiesta.

Aggiungo che la Cappella di San Rocco, a memoria di mio padre, trovavasi ov’è oggi la Farmacia Ferrari. Abbandonata e cadente fu demolito in un momento quando l’esigenza della edilizia lo richiesero per una più moderna disposizione demaniale di Parabita.

Gratitudine ai sensi della mia più espressa stima, unita ai più cordiali saluti.

                                                                                                                Dino F. Serino

[1] Don Gaetano Fagiani, allora arciprete di Parabita.

Richiesta di intercessione a S. Rocco (Parabita, marzo 2020, foto Comitato Feste patronali)
Parabita, festa patronale con le statue della Vergine e dei Santi Rocco e Sebastiano portate in processione (foto Matteo Milelli)

Urbanistica in terra d’Otranto. Il caso di Francavilla (seconda parte)

di Mirko Belfiore

Nel 1575, gli Imperiale, nobili di origine genovese, entrano nella proprietà del marchesato d’Oria e, quindi, del feudo di Francavilla a esso annesso, risiedendovi definitivamente dal 1593.

Fu, da questo momento in poi, che iniziò il periodo più significativo per lo sviluppo urbano ed architettonico della città, quest’ultimo stimolato non solo dal ruolo sempre più importante di Francavilla, come snodo commerciale all’interno della Terra d’Otranto, ma anche dall’atmosfera riformatrice giunta insieme ai nuovi padroni.

Anche se il programma di rinnovamento non coinvolse da subito i primi tre feudatari (Davide, Michele e Davide II), i quali, a parte piccoli interventi strutturali, si videro interessati più che altro alla riorganizzazione dei nuovi possedimenti, fu in particolare sotto il governo di Michele II, pressappoco intorno agli anni Trenta-Quaranta del Seicento, che presero avvio le prime grandi fabbriche edilizie.

Veduta di Francavilla (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato)

 

Una vera e propria istantanea della prima fase di questo disegno rinnovatore, si può ricavare dal già citato prospetto urbano del 1643, secondo alcuni, opera dell’artista francavillese Carlo Francesco Centonze, ed elemento prezioso per lo studio e la comprensione delle successive fasi progettuali. Il documento in questione, al quale si aggiungono altre due vedute, riproducenti gli agglomerati di Oria e Casalnuovo (i tre feudi formarono il nucleo fondante del feudo della famiglia Imperiale in terra d’Otranto, a cui se ne aggiungeranno altri nei decenni a seguire), conservato nell’Archivio Storico di Napoli in un cospicuo “Fondo Imperiale”, probabilmente faceva già parte, a suo tempo, della documentazione presente nel castello di Francavilla.

Castello. Residenza Imperiale (fondazione XV secolo)

 

Dopo la demanializzazione del feudo, a causa della morte nel 1782, dell’ultimo Principe Michele IV Juniore, il gruppo di carte, fu acquisito dalle autorità regie come bene demaniale, rimanendo inedito per molto tempo, fino alla recente scoperta fatta dal professor Giorgio Martucci.

Questa mappatura tridimensionale, volta a oriente (quindi con la “Borea”, il nord, sposato alla sinistra del foglio), offre un’immagine esaustiva della Francavilla seicentesca, periodo in cui era signore Michele II, nato nel 1623 e rimasto subito orfano a causa della morte prematura del padre Davide II. A oggi, non sono ancora chiari i motivi della compilazione di queste carte topografiche a volo di uccello; è lo stesso Martucci che ce ne elenca tre possibili ragioni:

  • In quel periodo, raggiungeva la maggiore età il nipote di Michele II, Michele III, il quale a sua volta era rimasto orfano del padre, Andrea I;
  • In occasione del matrimonio di Michele II con Brigida Grimaldi, sposata a Genova nel 1645, le carte vennero realizzate come dimostrazione alla famiglia della sposa, della consistenza dei domini feudali del futuro marito;
  • Subito dopo aver ottenuto il nobile titolo di Principe di Francavilla, nel 1639, l’Imperiale si premurò di presentare una documentazione accurata, di tutti suoi possedimenti alle autorità di Napoli.

Focalizzando il nostro sguardo sulla veduta, quello che colpisce subito sono la dovizia di particolari e i richiami topografici scrupolosi, che permettono la sovrapposizione delle carte con la realtà.

A una prima osservazione del disegno, ciò che salta subito all’occhio e sicuramente la contrapposizione fra i due intrecciati edilizi, che ben evidenziano, il Burgo più antico racchiusa nelle mura orsiniane e lo sviluppo della città, fuori dalle mura. Il colpo d’occhio è notevole: a sinistra del disegno troviamo l’antico insediamento tardomedievale con la sua evoluzione caotica e a tratti disorganizzata, inserito nel tracciato difensivo quattrocentesco e completato dalla mole del castello orsiniano, al centro invece la geometrica piazza del Foggiaro, futuro cuore pulsante della città, a destra, invece, l’agglomerato moderno, caratterizzato dalla nuova direttrice di via del Carmine oggi via Roma, che sviluppa il suo percorso fino al cinquecentesco convento carmelitano e l’attigua porta urbica.

Chiesa e complesso conventuale dello Spirito Santo (fondazione XVI secolo).

 

Apparentemente isolati, emergono nella loro mole il Convento dei Cappuccini e quello dei Riformati. Questi due nuclei, nei decenni successivi, andranno a catalizzare la diffusione dell’insediamento (evidenziati in rosso). Il primo, raffigurato in primo piano all’estrema sinistra del documento, rappresenta una delle due estremità dell’arteria che converge verso piazza del Foggiaro e che lungo il percorso, nel secolo successivo, vedrà l’importante edificazione della Chiesa di San Sebastiano (fondata, nel suo primo nucleo, durante il XVI secolo e riedificata fra il 1696 e il 1728, sotto la spinta dell’ordine mendicante degli Scolopi, con attiguo complesso delle Scuole Pie).

Il secondo, invece, sito in alto all’estrema destra, diviene uno dei terminali del futuro percorso viario che percorrendo via Sant’Eligio (oggi via Regina Elena) giungerà fino alla settecentesca porta della Croce, da dove successivamente verrà tracciato l’asse viario alberato, già previsto da Michele II, e in collegamento col plesso monastico riformato di Maria Santissima della Croce. Il Marchese, inoltre, si premurò di definire l’ampliamento e il prolungamento della strada Imperiale, già strada Longa, “strada pubblica” che delimita il momentaneo sviluppo a nord-est dell’abitato, accentuandone la sua funzione privilegiata, grazie anche, alla realizzazione del nuovo Borgo del Casalicchio e delle arterie Lauro e Palomba, spostamento a Est dell’abitato, che ebbe come effetto consequenziale, un nuovo spinta edilizia.

Veduta di Francavilla, particolare del complesso conventuale cappuccino

 

Ritratto di Michele III Imperiali – Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello – residenza)

 

Quando il principe Michele III Seniore, prende il potere durante la seconda metà del XVII secolo, il programma urbanistico compie un notevole e sostanzioso balzo in avanti. Egli si impegna subito nella prosecuzione dell’opera del suo predecessore, dando però alla città una impronta ancora più decisa (identificabile nel tracciato dell’elaborazione grafica). Oltre ai lavori di ristrutturazione e l’ampliamento del maniero rinascimentale, l’Imperiale si fece promotore dell’innalzamento del nuovo circuito murario, che al momento del suo compimento, arrivò a misurare ben sei chilometri (evidenziato in verde).

Pianta dell’abitato di Francavilla fra XVII e XVIII secolo, elaborazione grafica.

Gli scopi principali che portarono alla realizzazione di quest’opera sono sostanzialmente due: la difesa militare della città e la riunione di tutti i nuovi borghi che, tra il XVI e il XVII secolo, si erano moltiplicati fuori dal tracciato quattrocentesco, sotto il governo dei suoi predecessori. Innanzitutto, si equilibrò a ovest il tessuto urbano, portando a termine la costruzione di via Simeana (lunga 339 passi), così chiamata in onore della consorte Irene di Simeana, che metteva in comunicazione il Convento dei Cappuccini con contrada Paludi, dove venne realizzata l’omonima porta civica (oggi non più visibile perché distrutta, per motivi di sicurezza, durante gli anni Venti del Novecento). L’insieme delle arterie di via Michele Imperiali, via Simeana e via del Carmine (evidenziate in blu) costituì, insieme alla dorsale che costeggia l’antico circuito orsiniano (oggi Corso Garibaldi già strada di San Sebastiano), la spina dorsale dell’agglomerato urbano settecentesco.

Chiesa di San Sebastiano e attiguo complesso scolopico (XVII-XVIII secolo)

 

A questo punto, si iniziarono i lavori per la nuova cinta muraria. Il progetto occupò buona parte del governo di Michele III ed ebbe una genesi regolare. Negli anni 1714-1715 si compirono le perimetrazioni a est dell’abitato, completate dalla costruzione delle nuove porte d’accesso: porta della Croce (o di Lecce, o di Cagnone), oggi ancora esistente, e porta San Lorenzo (o di Brindisi) distrutta dal terremoto del 1743, costruita dai maestri Davide de Quarto e Giosuè Possessere, quest‘ultime congiunte da una muraglia compiuta in soli otto mesi. La prima, come già accennato, diverrà la cerniera fra il Borgo di San Eligio e la nuova strada alberata che raggiungerà il convento dei Riformati e sulla quale, dal 1715, verrà istituita la fiera dell’Ascensione.

Dopo via Simeana, vennero conclusi i quartieri di San Sebastiano, Santa Maria degli Angeli, San Biagio e Cappuccini. Del 1737 sono la via extramurale (l’odierna via San Francesco d’Assisi), arteria di connessione fra il complesso carmelitano e quello francescano, mentre nel 1738, venne ultimata la direttrice che portava all’antico sito di Casalvetere, inerente all’odierno viale Lilla. Infine, a nord, vennero costruite porta Pazzano, poi demolita nel 1952 e porta Roccella (indicata nella veduta del 1643, come porta San Carlo, distrutta dal terremoto del 1743) anticamente sita sull’odierna via Barbaro Forleo, alle spalle del convento dei Padri Redentoristi.

Complesso conventuale di Maria Santissima della Croce (fondazione XVI secolo)

 

Veduta di Francavilla, particolare del complesso conventuale francescano

 

Per comprendere la logica con la quale, probabilmente, gli Imperiale realizzarono gli accessi al Borgo antico, trovo illuminante la considerazione che sull’argomento fa la scrittrice Vita Basile: “E’ evidente, che le porte erano state collegate secondo una logica rigorosa. Se il circuito murario fosse stato tracciato in modo da inglobare tutti i borghi all’epoca esistenti, le porte non avrebbero dovuto semplicemente permettere il più agevole ingresso in città a chi giungeva dalle principali vie di comunicazione (Taranto, Brindisi, Lecce), ma dovevano rispondere a una logica precisa tesa a enfatizzare le opere realizzate dagli Imperiale”.

Un approfondimento sulle porte urbiche sarà tema del prossimo articolo.

Via Michele Imperiali, già strada Longa

 

Via Simeana

 

BIBLIOGRAFIA
V. Basile, Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.
F. Clavica e R. Jurlaro, Francavilla Fontana, Mondadori Electa, Milano 2007.
G.D. Oltrona Visconti, Imperialis Familia, con la collab. di G Di Groppello, Piacenza 1999.
G.B. Pacichelli, Del Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, Parrino e Muzio, Napoli 1703, ristampa anastatica a cura di R. Jurlaro, Forni, Bologna 1999.
D. Camarda, Il terremoto del 20 febbraio 1743 a Francavilla e nell’area del basso Ionio, Francavilla Fontana 1997.
V. Ribezzi Petrosillo, F. Clavica, Guida di Francavilla Fontana. La città degli Imperiali, Galatina, Congedo editore, Lecce 1995.
R. Poso, F. Clavica, Francavilla Fontana. Architettura e Immagini, Congedo editore, Galatina 1990.
E. Boaga, I Carmelitani in Terra d’Otranto e Bari in epoca moderna, in Ordini religiosi e società del Mezzogiorno moderno, a cura di B. Pellegrino e F. Gaudioso, Congedo editore, Galatina 1987.
G. Martucci, Carte topografiche di Francavilla Fontana, Oria e Casalnuovo del 1643 e documenti cartografici del principato Imperiali del secolo XVII, S.E.F., Francavilla Fontana 1986.
P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.

Via Roma, già Via del Carmine

 

Chiesa del Carmine (fondazione XVI secolo)

 

Corso Garibaldi, già strada di San Sebastiano.

 

Per la prima parte:

Urbanistica in terra d’Otranto. Il caso di Francavilla, tra XIV e XV secolo

Coronavirus: ecco perché i conti non tornano

di Nazareno Valente

 

Ora che siamo stati catapultati in uno di quei racconti di fantascienza in cui l’umanità lotta per la sopravvivenza, molte sono le domande che ci poniamo su un virus che occupa già gran parte dei nostri pensieri. Così, dando un’occhiata alle tabelle statistiche che caratterizzano la situazione nei vari Paesi, viene da chiedersi come mai in Italia il Covid-19 appaia di gran lunga più letale che in altre parti del mondo.

Per darsi una risposta, bisogna necessariamente risalire al momento iniziale, quando vengono definite le modalità con le quali il fenomeno in esame si presenta.

Un numero di per sé dice poco; assume un significato se sappiamo a cosa si riferisce, e questo riferimento deve essere chiaro ed univoco per tutti quelli che partecipano alla discussione. Soprattutto in statistica bisogna accordarsi bene sui termini utilizzati e sul significato da dare loro, in particolare quando si ha a che fare con le cosiddette variabili qualitative, tipo, ad esempio, il colore dei capelli. Se leggiamo che in un certo universo ci sono 100 che hanno i capelli di colore biondo, 870 bruno e 17 rosso, ci si potrebbe chiedere dove siano stati enumerati quelli che hanno i capelli di colore castano. Se chi ha compilato la statistica non l’ha indicato, ciascuno potrà stressare i numeri a proprio uso e consumo. Qualcuno potrà dire che i biondi sembrano pochi, perché i castani sono conteggiati con i bruni; altri, che i bruni sono sottostimati, perché i castani sono finiti con i biondi. E così via. Morale della favola, ognuno potrà tirare acqua al proprio mulino, e tutti potranno dire d’avere ragione. In definitiva, per venirne fuori, dobbiamo prima sapere con precisione cosa effettivamente s’intende per coloro biondo, bruno e rosso.

Tornando al caso specifico, alla domanda: come mai nel nostro Paese il Covid-19 ha un tasso di letalità di gran lunga superiore a quello riscontrato nelle altri parti del mondo? prima di rispondere, bisognerebbe chiedersi se tutti i Paesi hanno usato la stessa definizione di “contagiato”; e, se così non è stato, quali definizioni ciascuno ha adottato.

Alla prima domanda, direi proprio di no. Non a caso le tabelle non sono accompagnate da una legenda e questa circostanza chiarisce che un simile accordo preliminare non ci sia stato. Alla seconda, risponderei che lo sa il Cielo. Ed è già tanto aver scovato quale sia quella adottata dalle nostre autorità, perché in merito c’è un qual certo consapevole riserbo.

Comunque sia, da noi s’intende per “contagiato” da Coronavirus chi risulta positivo al test del tampone ed alla successiva valutazione dell’ Istituto Superiore della Sanità (ISS). Quindi vengono conteggiati i soli casi di positività da tampone, validati dall’ISS. In pratica solo chi ha il bollino dell’ISS è un “vero” contagiato; tutti gli altri, ai quali non è stato fatto il test, sono “sani”, come se non avessero mai contratto il virus, anche nel caso la malattia fosse stata diagnosticata in base ai sintomi.

Da questo assunto, deriva inoltre che solo chi ha bollino di contagiato da Covid-19 può morire per tale causa. Sicché, chi è escluso dai contagiati – perché non gli è stato fatto il test ­– non può conseguentemente far parte dell’aggregato dei deceduti da Coronavirus, e non farà parte delle statistiche relative.

Appare del tutto evidente che la via seguita dalle nostre autorità comporta una sottostima sostanziale del fenomeno, perché esclude qualsiasi caso non certificato dal tampone. In pratica è sufficiente, ad esempio, anche un banale ritardo nel fare un test perché diminuiscano i contagiati ed i decessi per Covid-19.

Questo modo di procedere può creare ulteriori problemi statistici, se rivisto in una diversa ottica.

Per semplificare, ipotizziamo che la persona X sia risultata positiva al tampone. A questo punto si ricostruiscono i possibili movimenti di X per verificare lo stato delle persone che sono venute in contatto con lui. Ad operazione conclusa, con questo gruppo di persone si potrebbe procedere in uno dei seguenti modi:

1) tutti sono sottoposti a tampone;

2) si tamponano solo quelli che manifestano sintomi ed il resto è posto in quarantena;

3) sono sottoposti a tampone sono quelli che manifestano sintomi evidenti; chi ha sintomi lievi o nessun sintomo è posto, invece, in quarantena;

4) non si fa nessun tampone, perché, quando il contagio è talmente evidente da poter essere diagnosticato a prescindere, non è strettamente necessario, e, quando i sintomi sono lievi o nulli, del tutto inutile; tutti sono pertanto messi in quarantena.

Evidente che, a seconda della procedura seguita, si avrà un numero diverso di contagiati; numero che andrà decrescendo dal punto 2) in poi, sino ad azzerarsi del tutto se la strategia seguita è quella del punto 4). In quest’ultimo caso si arriva a non ritenere contagiate persone che in effetti lo sono in maniera palese.

La questione fa sorgere anche domande non banali: come vengono curati questi contagiati non validati alla luce dei criteri dell’Istituto Superiore della Sanità? Sono lasciati in casa, insieme ai parenti che devono accudirli? oppure sono ricoverati in ospedale? Ed in quali casi si sceglie una via oppure l’altro? Nel caso di decesso, inoltre, non essendo stata accertata con il test la loro positività, le morti non sono attribuite all’infezione di Coronavirus ma a chissà a quale altra causa.

Sono quesiti che la statistica non può risolvere ma che servirebbe porre. Da un punto di vista statistico, si constata che una buona fetta di ammalati (e parte dei decessi) non viene considerata tale, e che quindi i numeri che giornalmente comunicati dalla Protezione civile tendano a sottostimare gli effetti dell’epidemia.

Potrebbe, però, ritenersi questo un ipotetico caso di scuola, e nulla più. Magari accademicamente interessante ma con nessun risvolto pratico, se non fosse che una prassi, almeno simile, pare sia stata effettivamente adottata.

Occorre a questo punto ricordare che il Ministero della Salute, con circolare del 25 febbraio scorso, ha raccomandato che “l’esecuzione dei tamponi sia riservata ai soli casi sintomatici”. Quindi c’è l’invito ministeriale a sottoporre a tampone solo chi ha manifestato sintomi, senza tuttavia esserci l’obbligo. Di conseguenza sussiste l’eventualità che qualche regione decida di non fare il tampone, neanche in presenza di sintomi.

Ed è quanto sembra di fatto avvenire o essere avvenuto. “Il Dolomiti”, nella sua versione in linea del 21 marzo, presenta un articolo, “Contagi da Coronavirus, il Trentino fa peggio di tutto il Triveneto”, a firma di Luca Andreazza, in cui si legge: “sappiamo che la Provincia di Trento non fa il tampone a chi si ammala e presenta i sintomi da coronavirus e vive con una persona che era stata già certificata positiva da tampone”. In parole povere, la malattia viene diagnosticata ma non accertata con il tampone, in quanto ritenuta evidente. Tant’è che per questa provincia esistono a quella data due quantità diverse di positivi: quelli validati (642), enumerati poi nelle statistiche tra i contagiati, e quelli complessivi (1067) che comprendono, invece, 425 casi che di fatto sfuggono ai conteggi statistici.

Come diretta conseguenza della definizione data all’aggregato, il dato dei contagiati – ed anche quello delle morti per Coronavirus – risulta qui palesemente sottostimato.

Ma non sono questi i soli motivi, non solo ipotetici, che inducono a credere che i contagiati siano molti di più di quelli validati dall’Istituto Superiore della Sanità. Concorrono infatti a crearli sempre le stesse indicazioni ministeriali sulla somministrazione del tampone che, come già riportato, si raccomanda di non usare nel caso di asintomatici.

In effetti un tale consiglio non pare avere alcuna base scientifica, visto che lo stesso Istituto Superiore della Sanità l’ha contestato a chiare lettera, e sembra piuttosto un marchingegno per non fare emergere il reale numero dei contagiati.

Nei pochi giorni in cui il tampone fu usato con maggiore libertà, si calcolò che gli asintomatici potevano essere quasi il 50% dei positivi, quindi approssimativamente in numero pari ai sintomatici.

Questa scelta, in definitiva, non solo dimezza il numero dei positivi – non ricercando gli asintomatici – ma rischia, alla lunga, di accentuare la diffusione dell’epidemia, in quanto non limita l’azione di potenziali veicoli di propagazione del virus.

Ne è prova evidente quanto si ricava confrontando i dati di due regioni – la Lombardia ed il Veneto – la cui omogeneità socio-economica e strutturale, anche riguardo alla organizzazione sanitaria, è talmente conclamata da accomunarle nell’usuale locuzione geografica di Lombardo-Veneto. Ebbene la Lombardia si è attenuta alla raccomandazione ministeriale lesinando sui tamponi; il Veneto, invece, le ha disattese somministrando, se del caso, il tampone anche a chi non presenta evidenti sintomi. Il risultato di queste diverse strategie è sotto gli occhi di tutti: pur in zone di fatto simili, la letalità del virus in Lombardia risulta del 16,17%, più di tre volte (3,41) superiore a quella del Veneto calcolata pari al 4,73%. Come dire che su 100 contagiati in Lombardia ne muoiono più di 16, mentre nel Veneto meno di 5.

Chiara indicazione questa che un uso ragionato del tampone porta a “stanare” i positivi, elevandone inizialmente il numero ma, alla lunga, frenando la diffusione dell’epidemia, ne limita gli incrementi.

Considerando questo effetto combinato si può calcolare che i contagiati in Lombardia non siano i 42.161 comunicati dalla Protezione civile ma, in realtà, proprio perché il tampone viene usato solo in presenza di sintomi, non meno di 130.000. Mentre in Italia i contagiati totali siano più vicini alle 250.000 unità e non certo agli 101.739 dichiarati.

Se poi si tiene conto che i contagiati da Coronavirus non validati dall’Istituto Superiore della Sanità hanno le stesse probabilità di non farcela di quelli certificati, si può ragionevolmente stimare che anche i decessi siano di più di quelli (11.591) di cui si racconta e probabilmente siano circa il 30% in più, quindi sulle 15.000 unità.

Concludiamo dando un’occhiata alla nostra regione.

In Puglia, il tasso di letalità del virus è attualmente pari al 5,32% mentre a livello nazionale è dell’11,39%; la somministrazione del tampone risulta alquanto diffusa (nell’86,95% dei casi riguarda negativi, contro il 62,04% della Lombardia ed il 91,17% del Veneto); i casi positivi coinvolgono lo 0,042% della popolazione, e quindi la diffusione dell’epidemia risulta molto inferiore a quella della Lombardia (0,419%) e distante anche da quella del Veneto (0,178%). Si deve però considerare che i numeri in gioco sono ancora gestibili. I problemi sorgono quando si debbono fronteggiare numeri ai quali le strutture sanitarie non sono nemmeno lontanamente calibrate e prossime al collasso. Come attualmente avviene in Lombardia, che pure è una zona tra le meglio attrezzate del nostro Paese.

La speranza è che nel prosieguo si voglia seguire la strategia del Veneto, con un uso diffuso del tampone per cercare ed isolare i casi di positività, e non quella basata sulla raccomandazione del Ministero della Sanità che ne riserva l’utilizzo ai soli casi sintomatici. Scelta questa che, temo, ha forse già fatto pagare un prezzo ben più elevato del dovuto.

Dalla “spagnola” al coronavirus speriamo che la storia non si ripeta

di Fernando Scozzi 

Fino a pochi anni fa viveva ancora qualche testimone oculare della terribile febbre spagnola (1) che negli anni 1918/19 causò solo nel nostro Paese più di 600.000 morti, un numero addirittura superiore a quello degli italiani caduti nella prima guerra mondiale. L’immane conflitto cessò proprio nel periodo di massima diffusione della pandemia che, secondo alcune fonti, aveva decimato gli eserciti degli imperi centrali causandone la resa. Ma il contagio non conosceva confini e la malattia si diffuse ben presto dai campi di battaglia in tutto il mondo. Chi aveva vissuto quel triste periodo nei piccoli paesi del Salento, ricordava lo straordinario numero di morti, il divieto di celebrare i funerali, la calce viva cosparsa sui cadaveri e la mancanza di ogni tipo di prevenzione e di cura dal momento che l’assistenza sanitaria pubblica era quasi inesistente, i presidi sanitari del tutto sconosciuti e la maggior parte delle abitazioni prive di servizi igienici. La spagnola, quindi, fu considerata una tragica fatalità che infierì sulle famiglie già duramente colpite dal conflitto bellico.
Per avere un’idea dell’ecatombe che colpì anche il Salento basti pensare che nel 1918, fra i circa 37.000 leccesi, si contarono 1.542 decessi (esclusi i caduti in guerra) contro i 910 dell’anno precedente, tanto da indurre le autorità a rinviare la riapertura delle scuole. Non andò meglio nei paesi della provincia, dove le vittime dell’influenza furono ugualmente numerose e determinarono una consistente diminuzione della popolazione. (2) A Casarano, per esempio, fu necessario un registro supplementare degli atti di morte, perché fra il 1917 ed il 1918, su una popolazione di circa 8.500 abitanti il numero dei decessi aumentò da 203 a 301, mentre nella frazione Melissano (circa 3.000 abitanti) i defunti, in prevalenza femmine da zero a cinque anni e da 20 a 40 anni, furono 117 (contro i 68 dell’anno precedente) con punte di 5 morti il 1°, il 4, il 6, l’11 ed il 14 ottobre (3).

La Stampa del 22.11.1918

 

Nell’Ufficio dello Stato Civile del Comune di Maglie, il 31 dicembre 1918, fu compilato l’atto di morte n. 300, mentre l’anno precedente la prima parte del registro si chiuse con l’atto n. 184. A Gallipoli l’epidemia anticipò i suoi effetti agli ultimi mesi del 1917, tanto è vero che in quell’anno i morti furono 321, contro i 228 dell’anno precedente.

Sul Corriere delle Puglie (4) del 2.10.1918, si legge un articolo sulle precarie condizioni igieniche del Comune jonico, cui si faceva risalire la recrudescenza dell’epidemia. “Alcune strade della città, per non dire tutte – affermava il giornalista – sono diventate un letamaio, da cui esala un odore sgradevole, l’innaffiamento stradale manca, e le disinfezioni si fanno con tale parsimonia che il loro effetto diviene nullo”.  Lo stesso giornale annunciava la morte, avvenuta il 4 ottobre 1918, dell’arcivescovo di Trani, Mons. Giovanni Règine “colpito da influenza e successiva polmonite contratta durante le quotidiane, assidue, faticose peregrinazioni nei quartieri maggiormente colpiti dal morbo che ci affligge”.

L’Avanti del 23.10.1918

 

Da Giovinazzo, invece, si partecipava la morte del Sindaco Dagostino Donato  “scomparso dalla scena del mondo in soli cinque giorni di malattia ribelle alle cure dei sanitari che fino agli estremi hanno lottato per sottrarlo alla inesorabile morte”, mentre il Comune di Bitonto invitava i cittadini a “non recarsi colà in occasione della festa di Santi Medici che avrebbe dovuto avere luogo il venti corrente, e che è stata sospesa in vista delle attuali condizioni sanitarie ”.

Era così grave la carenza di personale sanitario che il Consiglio Scolastico Provinciale di Bari, nella seduta del 30 settembre 1918, ritiene opportuno e necessario che “nella volgente epidemia gli insegnanti portino il loro contributo di opera di assistenza degli ammalati”. Il Regio Commissario del Comune di Brindisi, da parte sua, “fa appello a tutti i volenterosi per un servizio volontari di assistenza e disinfezione”, mentre l’on. Cotugno interrogava il ministro degli Interni “per sapere quali provvedimenti abbia adottato per supplire alla grave deficienza di medici, medicine, nettezza pubblica, servizio trasporto cadaveri ed inumazione nella provincia di Bari fortemente colpita dalla febbre spagnuola”.

In effetti, la situazione era ormai fuori controllo tanto che, il 26 settembre 1918, nel Circondario di Bari si contarono 100 morti ed il successivo 3 ottobre, nel Circondario di Barletta i decessi furono addirittura 240. Il Consiglio Provinciale Sanitario deliberava, quindi, la chiusura dei cimiteri in quanto “con l’agglomeramento di persone i germi del male potrebbero agevolmente propagarsi”.

Corriere delle Puglie del 1 ottobre 1918

 

Questo è solo un breve resoconto di quanto succedeva in una regione periferica del Regno, ma nel resto dell’Italia le cose non andavano meglio, anche se a leggere i giornali pubblicati a Roma e nelle grandi città del Nord sembra che l’epidemia non toccasse affatto gli italiani. In realtà, la censura militare impediva la pubblicazione di notizie allarmanti che avrebbero depresso lo spirito pubblico nella fase finale della guerra contro l’Austria, ma le informazioni filtravano ugualmente attraverso i notiziari dall’estero per i quali le maglie della censura erano più larghe. Infatti, La Stampa del 27 ottobre 2018 in un “Servizio Speciale da Londra” informava i lettori sulla recrudescenza dell’epidemia in Inghilterra e soprattutto fra le popolazioni indigene dei grandi centri coloniali, dove il contagio assumeva forme micidiali.

Il successivo 22 novembre lo stesso giornale non esitava a scrivere che “L’epidemia continua a fare stragi in Danimarca, specificando che gran numero di medici e infermieri ne sono colpiti.” . Il Corriere delle Puglie, in un servizio dall’estero intitolato “La febbre spagnuola”, comunicava che a “Berlino l’epidemia ha preso un tale sviluppo che, oltre alla chiusura delle scuole, uffici pubblici ed amministrazioni pubbliche, i tramway hanno dovuto ridurre in gran parte il loro servizio. L’epidemia – continuava il giornale pugliese – prende proporzioni formidabili anche a Pietrogrado e la situazione non è migliore in Svizzera dove a Friburgo si contano, solo in una settimana, ben 1437 casi di “grippa spagnola” e quindi sono aperti i lazzaretti nelle scuole.”

Riguardo all’Italia, invece, nessuna notizia, se non la pubblicità, nelle ultime pagine dei giornali, della “Brevettata maschera antimicrobica”, della “Pozione Arnaldi contro la febbre spagnola” e dello “Sciroppo S. Agostino, depurativo e rinfrescante”.

In realtà, la strage causata dall’epidemia si evinceva dalla lettura dei numerosissimi necrologi, che non indicavano mai la spagnola come causa della morte. I decessi avvenivano, invece, per “implacabile e crudele  morbo”, per “inesorabile morbo” , oppure per “insidioso e crudele morbo che spezzava in pochi giorni un’esistenza buona e gentile”.

Le direttive delle autorità militari erano quelle di minimizzare, ma ciò non impediva al quotidiano socialista “Avanti” di titolare: “Il Consiglio Superiore di Sanità dice che l’influenza … è l’influenza”, ironizzando sulle deliberazioni del consesso per il quale “l’attuale forma epidemica altra non è che influenza identica a quella che già infierì e fu felicemente superata negli anni 1889/90”.   Ma basta leggere i resoconti delle rubriche degli Uffici dello Stato Civile di Torino, Roma, Milano, riportate sui vari giornali, per rendersi conto del flagello. Il 21 ottobre1918, nella Capitale, il numero di morti per influenza fu di 194, a Milano di 125, con 1.031 nuove denunzie di malattia, a Torino il numero dei decessi fu di 110, nonostante si fosse deliberata la chiusura dei cimiteri, dei cinematografi, dei teatri, la riduzione degli orari delle osterie e la sospensione, fino a nuovo avviso, di alcuni treni che collegavano Milano con alcune grandi città.

Intanto si aspettava l’arrivo di materiale farmaceutico dall’America che,” per sopperire agli attuali bisogni dei cittadini, aveva messo a disposizione i propri prodotti”. In realtà, i più disparati tentativi di trovare una cura per l’epidemia, compresi l’utilizzazione della china gialla ridotta in polvere impalpabile, la soluzione acquosa con acido fenico allo 0,5% corretto con essenza di viola, o l’inalazione periodica di tintura di iodio, riportati anche dal Corriere delle Puglie, non avevano avuto successo.

Esito negativo pure per l’utilizzazione del sangue ricco di anticorpi delle persone guarite per curare i malati, (6) terapia sperimentata anche ai nostri giorni per debellare il coronavirus con il quale la spagnola ha numerose analogie. In entrambi i casi i virus sarebbero passati dagli animali agli uomini (suini per la “spagnola”, pipistrelli o mammiferi per il coronavirus). Le modalità del contagio ed i tentativi di contenimento sono identici.

Entrambe sono malattie influenzali che attaccano principalmente l’apparato respiratorio. Non manca nemmeno l’ipotesi della guerra batteriologica che nel 1918 sarebbe stata scatenata dagli imperi centrali contro la Triplice Intesa, oggi dalla Cina, dove il virus sarebbe stato prodotto in qualche segreto laboratorio per colpire i Paesi occidentali. Infine sia la “spagnola” che il coronavirus possono definirsi pandemie della globalizzazione: la prima innescata dal movimento di milioni di militari impegnati nella Grande guerra, la seconda dalla libera circolazione di uomini, di capitali e di merci fra le diverse aree del mondo.

Speriamo solo che l’epilogo del coronavirus non sia uguale a quello della spagnola.

La Stampa del 26.10.1018

Note

(1) L’epidemia fu denominata in vari modi fra cui “febbre estiva” (perché apparve nell’estate del 1918) “influenza spagnola”, “spagnuola”, “grippa spagnola”. Il riferimento alla Spagna è dovuto al fatto che le prime notizie della malattia giunsero proprio dal Paese iberico che non essendo intervenuto in guerra poteva contare su una stampa senza censura. In realtà l’epidemia era già presente in diversi Paesi e soprattutto fra i combattenti. Per approfondire l’argomento si può leggere l’ottimo lavoro di Eugenia Tognotti, La “spagnola” in Italia – Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19) Angeli, Milano, 2007.

(2) I dati relativi alla mortalità dei Comuni del Salento sono reperibili sul seguente sito http://dl.antenati.san.beniculturali.it/v/Archivio+di+Stato+di+Lecce/Stato+civile+italiano/Lecce/Morti/

(3) Fernando Scozzi, Melissano, società, economia, territorio, fra 800 e 900, Edizioni del Grifo, Lecce, 1990.

(4) I siti dei giornali citati nell’articolo sono i seguenti: “La Stampa” http://www.archiviolastampa.it/, “Avanti “ avanti.senato.it, il “Corriere delle Puglie” archivio.lagazzettadelmezzogiorno.it.

(5) Il “Corriere delle Puglie” del 20 ottobre 1918.

(6) Infatti, l’Avanti del 26 ottobre 1918, così titolava “Il rimedio dell’influenza scoperto da un medico italiano”. Si tratta del tenente Luigi Mille che ha pensato di “giovarsi del siero di sangue dell’ammalato stesso per curarne la malattia. In numerosi casi gravi di malattia egli estrasse una piccola quantità di sangue direttamente dalle vene dell’infermo e si è servito del siero ottenuto da questo sangue per fare delle iniezioni sottocutanee allo stesso ammalato. I risultati ottenuti hanno superato ogni aspettativa; il mal di capo immediatamente scompare, svanisce pure il senso di depressione nervosa dell’ammalato, la temperatura si abbassa rapidamente senza più risalire ed il decorso della malattia risulta di molto abbreviato”.

Francavilla Fontana: una probabile superfetazione celebrativa del suo stemma?

di Armando Polito

Nella Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi è custodito un volume manoscritto (ms_B/62 ) della prima metà del XVIII secolo dal titolo Copia de “Constitutiones Religionis Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum”. Le carte 1r-50v contengono il testo delle Constitutiones come vennero promulgate da Gregorio XV il 31 gennaio 1622, dopo che aveva elevato la compagnia ad ordine regolare il 18 novembre 1621. Le carte 50v-51v ospitano il breve pontificio che le accompagna; le carte 52r-52v contengono l’indice. In calce all’ultima carta (52v) compare lo  stemma che ho appena riprodotto e che replico con a fronte quello attuale.

 

Sulla fondazione delle Scuole Pie a Francavilla Fontana un quadro esauriente è quello tracciato da Pietro Palumbo in Storia di Francavilla, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1869, pp. 171-174, in cui ricostruisce il ruolo avuto da protagonisti quasi a gara tra loro. Andrea Imperiali rimasto fino al 1677 in Genova, dove aveva sposato Pellina Grimaldi, sorella del principe di Monaco, nel 1678 si trasferì a Napoli distinguendosi per la munificenza, ma trascorse gli ultimi mesi della sua vita a Francavilla, dove morì il 25 novembre di quello stesso anno, dopo aver dettato le sue ultime volontà al notaio Paolo La Marina.

Di chi doveva egli ricordarsi? Certamente dei suoi poveri, e dei vassalli che da un anno appena aveva conosciuti! Lasciò molti legati pii e fra questi ducati duemila da comperarne beni, per introdurre i Padri delle Scuole Pie, e di questo lasciò l’esecuzione alla madre e alla moglie, tutrici del figlio Michelino … Brigida e Pellina Grimaldi1 aperto ai 28 novembre il testamento del defunto principe Andrea, e conosciute le disposizioni, s’affrettarono ad eseguirle. Comperarono a nome dei Padri delle Scuole Pie mille ducati di censi da Giuseppe Maddalone di Lecce; altri ducati settecento cinquantasette investirono in una masseria su quel di Ceglie. All’annunzio del testamento di suo fratello Giuseppe Renato Imperiale, allora chierico della Camera Apostolica, volle concorrere a beneficare il suo luogo natio (essendo egli nato ai 28 aprile 1651 nel Castello di Francavilla) e vi aggiunse il dono di altri cinquecento ducati. L’Università la quale ammirava il lustro che derivava alla Terra da questa fondazione, entrò terza a gareggiare con gl’Imperiali e dopo Parlamento tenuto il 7 luglio 1680 entre tre mesi ottenne regio assenso di permutare alcuni ulivi e case vicino la chiesa di S. Sebastiano A questo l’Università aggiunse un’annua rendita di ducati trecento assicurata su diversi dazi. Niente più mancava per l’introduzione dei padri, nemmeno il consenso del Papa e quello di monsignor Cuzzolini vescovo di Oria, per la qual cosa il 20 gennaro 1682 giunti da Brindisi il P. Gregorio da San Gennaro, P. Giuseppe da S. Giovanni, P.Francesco da S. Lorenzo e P. Felice M. da S. Vittore, ricevettero dalle mani del Dr Giuseppe Benaducci sindaco dell’Università il possesso del luogo e ne ascoltarono i patti in presenza del Notare Marrucci . I monaci promisero “e solennemente (adoperiamo le parole della scrittura) s’obbligarono d’allora in poi  fondare la loro casa o convento nella Terra di Francavilla e proprio nella chiesa di S. Sebastiano ed ivi fare le scuole con imparare tanto grammatica quanto altre dottrine ai figliuoli e giovani da essere approvati dal loro superiore, dal Marchese e dall’Università, con ogni carità a zelo in conformità delle loro Regole e Costituzioni, con mettere le suddette scuole ad ogni richiesta della M. Università.2

Per quanto riguarda l’origine dello stemma, ecco cosa si legge in Giovanni Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, tomo II, p. 120: Nel 1310 il Principe [Filippo I D’Angiò, principe di Taranto] cominciò la fabbrica della Collegiata cento passi in circa lontana dalla Villa del Salvadore, dove poi dagl’Antichi fu trasportata la Sacra Imagine, e perché concorrevano d’ogni tempo le genti ad ottenere molte grazie, il Principe osservando la gran divozione de’ Popoli, publicò per i contorni, che donava à chi voleva venire à fabricare vicino à detta Villa, comodità di poderi gratis per dieci anni, franchi, ed immuni d’ogni peso, e però le diede nome di Francavilla, alla quale dal medesimo Principe fu dato all’Università Francavillese per impresa l’Olivo simbolo della pace, e dell’Abondanza.

Confrontando l’aspetto attuale dello stemma con quello del manoscritto, l’attenzione è subito attratta dai due putti alati che sorreggono lo scudo. Mi chiedo se questo dettaglio sia puramente decorativo o abbia una funzione più complessa, alluda, cioé, ad un’informazione supplementare.

A  Francavilla nella chiesa di S. Sebastiano l’altare dedicato a sant’Elzeario de Sebran reca uno stemma che è stato oggetto di dettagliato studio da parte di Marcello Semeraro, del quale è pure la foto che di seguito riproduco3.

Si tratta, egli ci ci informa, dello scudo di Irene Delfina di Simiana (1670*-1725), figlia di Carlo, marchese di Pianezza e principe di Montafia, e di Giovanna Maria Grimaldi. Nel 1691 andò sposa a Michele Imperiali (*1673-1738), principe di Francavilla, acquisendo, così, il titolo di principessa. Lo scudo reca, perciò, a sinistra per chi guarda l’insegna degli Imperiali (di argento, al palo cucito di oro, caricato di un’aquila col volto abbassato di nero, coronata di oro, a destra quella dei Simiana di Piemonte (di oro, seminato di gigli alternati a torri). Irene Delfina, continua il Semeraro, fu, in virtù di una speciale devozione al santo4, la committente dell’altare a lui dedicato.

Chiudo con una raffica di domande, la cui sintesi era già nel titolo e alle quali, essendo, oltretutto, totalmente digiuno di araldica, non so rispondere. La presenza dei due putti nello stemma del manoscritto è casuale, oppure fu ispirata proprio dall’analogo dettaglio di quello dell’altare? Se è così, è legittimo supporre che esso sia la sintesi grafica di quanto a proposito degli attori protagonisti della fondazione dell’ordine è detto nel brano su riportato del Palumbo, cioè Imperiali/Grimaldi, con successivo aggiornamento/coinvolgimento Simiana (cui, oltre ai putti, potrebbero essere riferiti i tre gigli che campeggiano sul pino?),  e l’Università (per la parte dello scudo coincidente con lo stemma attuale)?

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1 Su Brigida Grimaldi vedi Castrignano dei Greci, Francavilla e il Principato di Monaco in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/07/castrignano-dei-greci-oria-francavilla-principato-monaco-12/

2 Op. cit., passim

3   Note di araldica: lo stemma della principessa di Francavilla Irene Delfina di Simiana, in Il delfino e la mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6-7, gennaio 2018, pp. 441-443

4 Le figure del santo di origine francese e di sua moglie, la beata Delfina di Signe, ispirarono infatti l’onomastica dei primogeniti usciti dal matrimoniotra Carlo di Simiana e Giovanna Maria Grimaldi (op. cit, p. 443)

Libri| U.S. Galatina, la storia di una stella

di Paolo Vincenti

 

Rino Duma, Presidente del Circolo Culturale Athena, nonché direttore della nota rivista galatinese Il filo di Aracne, ha pubblicato svariate opere, fra le quali i romanzi La falce di luna ( Edipan, 2004), La scatola dei sogni (Edipan, 2008), La donna dei lumi ( Lupo Editore, 2011).

Lo avevamo lasciato con La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo), pubblicata dall’Editrice Salentina (2016), una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli, ed altro, in dialetto galatinese.

Attivo operatore culturale, Duma è stato relatore in molte conferenze di carattere storico, soprattutto sul tema del Risorgimento italiano. Tuttavia, c’è un’altra passione che costella la sua vita, ed è quella per il calcio. Una passione tanto forte che lo ha portato a cimentarsi in una impresa editoriale che non esiteremmo a definire “titanica”, ovvero quella di condensare in un volume 100 anni di storia del calcio galatinese. Storia di una stella. U.S. Pro Italia Galatina-U.S. Galatina 1917-2017 (Editrice Salentina, 2018) è la sua ultima pubblicazione, con l’impaginazione e la cura grafica di Salvatore Chiffi. La stella del titolo e che campeggia sulla maglia dei due giocatori ritratti nella bellissima immagine di copertina è quella della Pro Italia, la squadra del cuore di Rino Duma, della quale, ora più che mai, è considerato il tifoso numero 1, come attesta nella Presentazione del libro Adriano Margiotta.

E a ben vedere, il “prof.”, come tutti amano chiamarlo, si è reso benemerito del calcio cittadino, avendo voluto sostenere da solo il faticosissimo impegno di consegnare ai posteri un volume così ponderoso, per festeggiare il centenario della fondazione della Pro Italia Galatina.

Ha motivo di rivendicare con orgoglio i propri meriti, lo stesso autore, che nella Prefazione, scrive: <<ho speso un anno e mezzo nell’indagare, rovistare, scoprire, appuntare, collegare, assemblare, ritoccare, definire e, finalmente, concludere. La mia è stata una vita di clausura condotta nella biblioteca “Pietro Siciliani” di Galatina nella torrida estate del 2016. Ogni giorno e per diversi mesi, dalle 8.30 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00, puntualmente presente in quella “casa del silenzio”, a sfogliare giornali e riviste>>.

Davvero uno sforzo meritevole del nostro plauso, quello di ricomporre il puzzle che era la storia della squadra di calcio. Duma cita le preziose fonti della stampa locale alle quali ha attinto – in primis “Il Nuovo Cittadino”, “Il Corriere di Galatina”, “Il Quotidiano”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Galatino”, “Galatina sport”- e ringrazia i suoi informatori, per la consulenza fornita su schemi di gioco, giocatori, formazioni delle squadre, compagine sociale, allenatori, presidenti, episodi vari di una lunga storia agonistica. Notevole anche l’archivio personale dell’autore, studioso di lungo corso e aduso allo scavo erudito e alla ricerca storica. È chiaro che la ricostruzione della carriera di una squadra di calcio non possa essere sostenuta solo dal rigore scientifico dello studioso, ma debba essere in più vivificata dall’amore del tifoso, che Duma non fa nulla per nascondere ma anzi palesa ad ogni rigo del suo libro.

La narrazione si svolge come un racconto, cui fornisce attrattiva quell’alone di leggenda che da sempre circonda le imprese agonistiche dei grandi protagonisti dello sport, le cui gesta sono state immortalate dalle più prestigiose firme del giornalismo sportivo, uno su tutti il grande Gianni Brera. Nel volume di Duma, all’intrinseco valore documentale si unisce la componente del ricordo e quindi della nostalgia, aspersa fra le pagine di questo gradevole album di vita calcistica, che potremmo definire generazionale.

Paola Cazza, l’arte in movimento

di Paolo Vincenti

Un’artista ancora poco conosciuta nel panorama salentino, ma del tutto degna di attenzione. Paola Cazza, nata a Sassuolo, vive ed opera a Nardò ed ha manifestato fin da bambina una certa sensibilità artistica. Autodidatta, si è ritagliata un proprio spazio nell’universo sfaccettato e multiforme dell’arte visiva. Le sue opere pittoriche e scultoree sono state esposte, negli anni, in spazi pubblici di caffetterie e associazioni culturali delle diverse città italiane nelle quali ha vissuto per brevi o lunghi periodi.

 

Paola è un’artista in mutamento, in continua trasformazione: ci tiene a precisarlo, al primo incontro, ma il suo essere in divenire si coglie già osservando la sua opera. Paola utilizza vari linguaggi, sia quello della pittura che quello della scultura su pietra leccese.

Da una prima ispirazione paesaggistica, il suo alfabeto pittorico passa a visioni più astratte, indugia sulle figure umane, vira poi sull’informale. La sua gamma cromatica non è ampia ma efficace. Non ci sono infatti toni forti e accesi nelle pitture di Paola, come il rosso, il nero, ma colori intermedi, molti chiaroscuri.

Non v’è autocompiacimento in queste opere, nessuna oleografia, esse sono lontane da un certo vedutismo di maniera che ha caratterizzato altre stagioni della pittura salentina. Il paesaggio è presente ma sempre filtrato dalla sensibilità profonda dell’autrice e soffuso di una certa aerea malinconia, caratterizzato da un’atmosfera di sospensione favorita dallo sfumato dei colori.

La realtà non si sfalda mai completamente ma è come se venisse rappresentata in maniera enigmatica; della realtà cioè venisse colto l’aspetto più misterioso, oscuro, quel procedere larvato verso destinazioni sconosciute. È come se nei suoi quadri corressero delle vibrazioni impercettibili che, al tatto con la loro superficie rugosa, si colgono.

Alcune opere trasmettono allo spettatore il desiderio di andare oltre, di penetrare nei loro meandri, come nei recessi dell’anima dell’autrice. Molto interessante si mostra l’inserimento di elementi materici sulle tele, vecchie chiavi arrugginite, lucchetti, oggetti agricoli attaccati con dello spago sui quadri, dunque ritrovati della nostra civiltà contadina arcaica, a far da contrappunto all’opera pittorica, ad iconizzare un passaggio di consegne fra il vecchio ed il nuovo, a simboleggiare la continuità fra la matrice larica, archetipica della nostra cultura e la modernità.

Notevole il ciclo delle madri: la fertilità femminile, metafora e auspicio di quella della terra alla quale queste donne gravide sono congiunte: dai loro grembi, la rigenerazione del mondo. Decisamente prevalenti i corpi femminili su quelli maschili, però essi non sono sezionati come su una tavola anatomica ma appaiono rannicchiati, raggomitolati e intrecciati fra loro, quasi a celare profondità, gli abissi imperscrutabili della femminilità, come la natura che ama nascondersi, secondo il famoso aforisma di Eraclito. D’impatto la Crocifissione, dove sulla croce è messo un Cristo donna, con una serie di fili di spago a cingerle i fianchi e la testa. I supporti, ricavati nel legno, sono staccati dalle tele e le incorniciano senza contenerle. L’inserimento di elementi astratti nel figurativismo di base (per esempio, i pesci che in alcune opere attraversano la scena), conferisce un’impronta onirica e fantastica al tutto. Infine, si vedono alcuni esperimenti in cui le tele vengono bruciate e poi riutilizzate e ricomposte insieme, a formare quadri nei quadri o grovigli e masse informi. Queste tele, che sembra siano state brutalizzate, ricordano gli esperimenti di Lucio Fontana che traumatizzava le opere con buchi e tagli.

La Cazza ha tenuto molte mostre negli anni, soprattutto nel Salento. In queste esposizioni, nella polisemia del suo messaggio artistico, si intravede un filo di Arianna che sottotraccia ne percorre la parabola, ed è una sorta di inquietudine, un mal di vivere, che Paola, come ogni artista, si porta dietro, come un passo falso, un controcanto, un suo calco negativo, un demone interiore con cui fare i conti e al quale pagare pegno per giungere sulla tela ad eternare l’attimo.

La Terra d’Otranto nel ricordo di un viaggiatore olandese del XVIII secolo, ovvero una grande occasione mancata

di Armando Polito

Jacques Philippe d’Orville nel ritratto di Jan Maurits Quinkhard (1688-1772) custodito nella Bodleian Libraries dell’Università di Oxford

 

Sarebbe riduttivo catalogare Jacques Philippe d’Orville (1696-1751), è lui il viaggiatore del titolo, come un protagonista, anche se tra i più importanti, del Grand Tour, un fenomeno che durò dal XV al XVIII secolo e che vide l’incontro tra i resti della cultura classica in Italia e giovani artisti, aristocratici e uomini di stato.

Per il filologo, storico e poeta neolatino1 olandese, infatti, il viaggio in Italia, iniziato verso la fine di aprile del 1727,  fu determinante per la sua carriera universitaria, grazie all’acquisizione accurata di tutta la documentazione possibile sulle fonti letterarie  latine e greche relative ai luoghi visitati.

Fa perciò rabbia a noi salentini che proprio il suo passaggio per la Terra d’Otranto sia stato molto fugace, aleggiando uno strano pericolo, addirittura di morte, come fra poco leggeremo. Chissà quanto e cosa di noi e sul nostro passato sicuramente l’olandese avrebbe scritto, anche se la meta privilegiata del viaggio era la Sicilia, come mostra chiaramente il frontespizio dell’opera, uscita postuma, da cui ho tratto la pagina 273, che ci riguarda, facendola seguire dalla mia traduzione!

Si  dice che dal Promontorio Lacinio fino allo Iapigio o Salentino, oggi Capo di S. Maria, c’è uno spazio di circa settanta miglia, che forma il golfo di Taranto. Al centro del golfo la vista verso l’uno e l’altro lido è gradevole. Nel pomeriggio abbiamo avvistato  Gallipoli ma non potendo fruire di un vento  favorevole  non abbiamo potuto in questo giorno entrare in porto. Infatti l’impeto del mare ci ha sospinti contro un vento  abbastanza forte per alcune miglia. In queste zone per lo più il vento cambia e verso sera suole cadere. Gallipoli pure da lontano appare abbastanza magnifica, perché tutte le pareti degli edifici sono imbiancate col gesso. Essa è sita su una piccola isola unita al continente da un ponte.  Sebbene sia antica, non mi sono imbattuto in nessun rudere, è difesa da una modesta rocca e da altre fortificazioni. Ci eravamo proposto di visitare Otranto, Brindisi, Taranto ed altre celeberrime città dell’Apulia ma ci distolsero dal proposito  gli amici, i quali affermavano che a questi posti pericolosi e in tempo  autunnale e di per sé non ci si poteva avvicinare senza incombente pericolo di morte e qui consigliavano di attendere una stagione più mite. Ma non avendo già tenuto conto abbastanza spesso di tali presagi con esito felice, preferimmo correre qualsiasi rischio piuttosto che morire di noia in questa cittadina.  Decidemmo dunque di dirigerci verso Napoli a cavallo quanto più attentamente possibile. La mattina presto del 17 agosto partiti in carrozza  giungemmo a Lecce dopo mezzogiorno per una strada molto accidentata. Vicino abbiamo lasciato a sinistra Nardò, un tempo Nerito sita in un posto ameno ed aperto. La città di Lecce ha molti abitanti, tanto elegantemente edificata che sotto quest’aspetto non la paragonerei a nessun’altra. Le case e tutti gli edifici  sono in massima parte elegantissimi in candide pietre quadrate estratte nei paraggi. Questa pietra è molto facile da estrarre: infatti comincia dalla stessa superficie della terra e non si spinge oltre i dieci piedi. Quasi tutte le città dell’Apulia fino a Barletta sono state costruite con una pietra quasi uguale, ma non tanto elegantemente. Ma avendo accelerato questo passaggio, infatti indugiare non sembrò sicuro, non abbiamo potuto osservare nulla degno di essere riferito. Partiti da Lecce all’inizio della notte, compimmo quattro tappe di un viaggio non pessimo, lasciata a destra Brindisi fino ad un luogo ridente chiamato S. Vito. Da qui fino a Bari la via è sassosa e da ogni parte ci sono oliveti.

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1 Non a caso nel corso del suo viaggio ebbe occasione di intrattenere rapporti con moltissimi soci dell’Arcadia, l’accademia romana fondata nel 1690 che al mondo classico s’ispirava: Francesco Valletta, Francesco Beretta, Francesco Farnese, Ludovico Antonio Muratori, Scipione Maffei, Giovanni Antonio Volpi, Domenico Lazzarini, Apostolo Zeno, Giovanni Battista Recanati, Giusto Fontanini, Domenico Bianchini.

Vincenzo Ciardo. Un disegno ritrovato

di Franco Contini

 

Un’opera di Vincenzo Ciardo è recentemente emersa dal mercato delle aste internazionale. Si tratta di una “Natura morta”, un pregevole disegno realizzato a matita su carta di cm. 24×33, firmato e datato 1947.

L’opera non è inedita ma è stata pubblicata con la dicitura “collezione ignota” nel saggio monografico “Vincenzo Ciardo” di Antonio Cassiano, Lorenzo Capone Editore, 1979, pag. 11.

Pur difettando nella riproduzione fotografica il disegno, nell’originale, si rivela essere una tra le più belle e armoniche composizioni di nature morte realizzate dall’artista, comprese quelle dipinte ad olio.

Immesso nel mercato internazionale da un antiquario di Napoli e proveniente, a sua volta, da una collezione privata napoletana, ha trovato definitiva dimora in una collezione privata in provincia di Lecce. Vi è raffigurata una piccola cesta con frutta di stagione che da sola, tra l’altro, è già un’opera nell’opera. Un trionfo di segni con cui l’autore celebra la magnificenza della natura.

La tipologia dei frutti rappresentati ci consente di individuare anche il mese di esecuzione del disegno: siamo nell’estate del 1947, l’autunno è quasi alle porte, lo si deduce dalla presenza delle melagrane, in particolare, che notoriamente maturano a settembre.

È una natura morta rappresentata alla stregua di un silente paesaggio domestico, intimo, assai bilanciato nella composizione. Nulla dell’immagine ci è dato spostare senza comprometterne l’armonia compositiva.

Su di un piano neutro Ciardo colloca gli elementi che diventano l’allegoria di una stagione e la metafora dello scorrere del tempo. Un grappolo d’uva, una pera ed una melagrana sono contenuti in una cesta; un fico con una foglia dell’albero, una melagrana, una pera e due succulente fette di melone “di pane” –come noi salentini chiamiamo il melone per distinguerlo da quello “d’acqua”– pronte per essere gustate sono

posizionate in primo piano.

Un settecentesco vaso di porcellana di Capodimonte, in secondo piano a destra, traduce l’intimità di un interno privato, probabilmente salentino e presumibilmente della casa avita di Gagliano del Capo dove ogni estate Ciardo tornava e da dove ritardava la partenza per Napoli, città di residenza, anche per godere ancora dei frutti della sua terra, ci piace pensare, aspra quanto generosa.

L’impianto di questo disegno attiva un brulichio di segni tracciati con un ritmo quasi febbrile, tanto che paiono agitarsi eccitati e smaniosi di raggrupparsi in una forma o nello spazio che la forma contiene, per poi placarsi e quietarsi dopo aver raggiunto la compenetrazione degli spazi, pieni e vuoti, evidenziando uguale valore tra forma e contenitore. Quasi la rappresentazione di un amplesso, pari ad un atto sessuale  in un matrimonio perfettamente riuscito. I segni non descrivono il dettaglio ma è nel loro aggregarsi-disgregarsi che trovano e ricreano la forma e lo spazio che la contiene.

Ciardo realizza il disegno usando almeno tre matite di differente grado di morbidezza. Inoltre, i segni tracciati con una pressione variabile contribuiscono a loro volta ad ampliare notevolmente la quantità dei toni e ad ottenere una ricchezza di passaggi chiaroscurali tali da raggiungere quasi un effetto pittorico.

A tale proposito possiamo affermare che Ciardo usa la matita per dipingere ed il pennello per disegnare. Ogni segno è pari ad una pennellata di un tono specifico. Altrettanto nella pittura, conserva un potente impianto grafico, con pennellate tracciate come segni, decise a sostenere la struttura compositiva di un dipinto. Un sistema, questo, con il quale tocca i vertici altissimi della poesia.

Giulio Carlo Argan, parlando della qualità poetica dell’opera di Vincenzo Ciardo nella prefazione alla mostra personale tenuta al Maggio di Bari nel 1960 scrive: “Ciardo aggiunge la poesia senza passare dalla letteratura, ma attraverso una selezione sempre più sottile e severa dei mezzi pittorici”. Ed anche Raffaele Spizzico in Ricordando un amico” nel catalogo della mostra retrospettiva del 1973 “Ciardo”, organizzata dall’Accademia di Belle Arti di Lecce al Circolo Cittadino leccese, parlando di un dipinto dell’artista visto in una galleria romana scrive: “carico di quella vena poetica che al pugliese fa pensare alla storia millenaria di una terra di difficile interpretazione”. La Poesia dunque, come elemento segnante l’arte di Ciardo. Come pure altri critici hanno rilevato.

Tornando al disegno, non è un caso se Ciardo lo firma al centro e non a destra, come solitamente si fa. Le ragioni sono almeno due. Per la prima ragione è che in questo modo enfatizza la centralità della visione, quasi a sottolineare l’importanza della fetta di melone nella composizione. Per la seconda ragione è che intende, volutamente, lasciare lo spazio in basso a destra libero, con un varco aperto allo sguardo del fruitore il quale può accedere agevolmente nello spazio della rappresentazione rasentando la forma curva della seconda fetta di melone collocata diagonalmente in basso a destra. In tal modo il fruitore, una volta iniziato il percorso, è invitato a soffermarsi sul pregiato vaso di porcellana -simbolo di artificio- il quale vaso lo pone immediatamente in dialogo con la cesta di canna intrecciata ricolma di frutta -simbolo della natura-. Un dialogo nato da segni che tradotto in parole significa che l’artista non imita la natura ma la ri-crea (la frutta), nello stesso e identico modo in cui ri-crea l’artefatto (il vaso di porcellana). Vale a dire che il vaso, in realtà, non è il vaso ma rappresenta l’idea che Ciardo ha del vaso, così come la frutta non è la natura ma è il senso di Ciardo per la natura.

Infine, è sulla fetta di melone che lo sguardo si posa per terminare il tragitto, un percorso circolare sviluppato in senso antiorario. Un cerchio, iniziato e chiuso sulle fette di melone, vere protagoniste di una scena dalla quale sembrano arrivare gli effluvi dell’ortaggio appena tagliato oltre ché i sapori degli altri frutti della terra.

Per concludere, considerando la qualità dell’opera, non ci sorprenderebbe scoprire in futuro l’esistenza di una versione dipinta ad olio su tela. Auspichiamo che la ricerca possa dare conferma a questa nostra ipotesi.

Supersano, 27-02-2020

Un neo Rinascimento italiano

di Pier Paolo Tarsi

Questo nuovo, possibile e incerto (perché nulla è scritto!) Rinascimento, la storia, ha voluto che iniziasse ancora una volta dall’Italia. E non c’è nulla dell’orgoglio patriottico in questo: c’è anzi il dolore che ci sta stringendo, ci sono le vite che ci sta costando questo tramonto precipitoso e drammatico dell’ordine e del disordine mondiale.

Dopo le vite degli uomini e delle donne, questo passaggio ci costerà la fatica di abbandonare le categorie e gli schemi del tempo che fin qua ci ha preceduto, ormai logore e inadeguate.

Leggo e medito, e vedo che tuttavia molti, la grandissima parte direi, non hanno ancora compreso fino in fondo cosa sta accadendo.

Così i sovranisti di destra o di sinistra credono che i liberal-globalisti debbano riconoscere la definitiva sconfitta sul piano fattuale e storico delle loro visioni, ed i secondi credono di aver dimostrato ai primi che nessuna seria sfida oggi è affrontabile senza coordinamento e unità sovranazionali.

Non hanno capito, gli uni e gli altri, che sono tramontati anche i loro idoli e le loro certezze indiscusse, non hanno capito ancora, e forse non lo capiranno mai, restando impantanati in un eterno appena-passato, che gli uni e le altre se li sta portando via un piccolo virus, insieme ai loro strumenti di pensiero e lettura della realtà, insieme ai loro stessi maestri.

Abbiamo bisogno di uomini e donne nuove, per nuovi tempi, abitanti di mondi nuovi.

Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus

 

di don Santino Bove Balestra

 

Caro San Cristoforo,

non so se tu ti ricorderai di me come io di te. Ero un ragazzo che ti vedeva dipinto all’esterno di tante piccole edicole votive – le “cuneddhe” – di campagna del nostro Salento. Affreschi spesso sbiaditi, ma ben riconoscibili. Tu – omone grande e grosso, robusto, barbuto e vecchio – trasportavi il bambino sulle tue spalle da una parte all’altra del fiume, e si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gioia.

Mi feci raccontare tante volte la storia da una mia zia materna, che aveva frequentato la terza elementare agli inizi del Novecento, il secolo breve, e che non era poi chissà quale esperta di santi né tua devota, ma sapeva affascinarci, quali indomiti nipoti, con i suoi racconti.

Così non ho mai saputo il tuo vero nome né la tua collocazione ufficiale tra i santi della chiesa (temo che tu sia stato vittima di una recente epurazione, che ti ha degradato a santo minore o di dubbia esistenza). Ma la tua storia me la ricordo bene, almeno nel nocciolo. Poi, per un disegno della Divina Provvidenza, circa nove anni fa mi chiesero di venire a Parabita, prima come collaboratore parrocchiale e poi parroco della Chiesa Matrice, dove, appena arrivato in un arido e afoso pomeriggio di luglio, avvicinandomi al tempio mi accorsi di un grande affresco, sbiadito dal tempo, della tua “ciclopica” immagine dipinta sulla parete esterna destra dell’edificio sacro. Mi sembrò francamente un po’ esagerata! Ma tant’è!

Ebbene in questi giorni di pandemia e di forzata vita domestica ho ripensato a Te. Tu eri uno che sentiva dentro di sé tanta forza e tanta voglia di fare, che dopo aver militato – rispettato e onorato per la tua forza e per il successo delle tue armi – sotto le insegne dei più illustri e importanti signori del tuo tempo, ti sentivi sprecato. Avevi deciso di voler servire solo un Padrone, il Cristo, che davvero valesse la pena seguire, una Grande Causa che davvero valesse più delle altre. Forse eri stanco di falsa gloria e ne desideravi di quella vera.

Non ricordo più come ti venne suggerito di stabilirti sulla riva di un pericoloso fiume per traghettare – grazie alla tua forza fisica eccezionale – i viandanti che da soli non ce la facessero, né come tu abbia accettato un così umile servizio che non doveva apparire proprio quella “Grande Causa” della quale – capivo – eri assetato. Ma so bene che era in quella tua funzione, vissuta con modestia, che ti capitò di essere richiesto di un servizio a prima vista assai “al di sotto” delle tue forze: prendere sulle spalle un bambino per portarlo dall’altra parte, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante come te e avere quelle “gambone” muscolose con cui ti hanno dipinto.

Solo dopo aver iniziato la traversata ti accorgesti che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita e che dovevi mettercela tutta, con un estremo sforzo, per riuscire ad arrivare di là. Dopo di che comprendesti con chi avevi avuto a che fare e che avevi trovato il Signore, che valeva la pena servire, tanto che ti rimase per sempre quel nome che ora ti porti addosso e che significa “portatore di Cristo”.

Perché mi rivolgo a te, in quest’anno 2020? Perché penso che oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura, oggi, possa essere una parabola di quella che sta dinanzi a noi. Ormai pare che tutte le grandi cause riconosciute come tali, molte delle quali senz’altro importanti e illustri, siano state servite, anche con dedizione, e abbiano abbondantemente deluso. Quanti abbagli, quanti inganni e auto-inganni, quanti fallimenti, quante conseguenze non volute (e non più reversibili) di scelte e invenzioni ritenute generose e provvide.
I veleni della chimica, gettati sulla terra e nelle acque per “migliorare” la natura, ormai ci tornano indietro: i depositi finali sono i nostri corpi. Ogni bene e ogni attività è trasformata in merce, e ha dunque un suo prezzo: si può comperare, vendere, affittare. Persino il sangue (dei vivi), gli organi (dei morti e dei vivi) e l’utero (per una gravidanza in “leasing”). Tutto è diventato fattibile: dal viaggio interplanetario alla perfezione omicida di Auschwitz, dalla neve artificiale alla costruzione e manipolazione arbitraria di vita in laboratorio.

Il motto dei moderni giochi olimpici è diventato legge suprema e universale di una civiltà in espansione illimitata: citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti, si deve produrre, consumare, spostarsi, istruirsi… competere, insomma. La corsa al “più” trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibile e incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita, ha caratterizzato in misura massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell’utilità definita “economia” e da una legge della scienza definita “tecnologia” – poco importa che tante volte di necro-economia e di necro-tecnologia si sia trattato.

Che cosa resterebbe da fare ad un tuo emulo oggi, caro San Cristoforo? Qual è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze, anche a costo di perdere gloria e prestigio agli occhi della gente e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume? Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente leggero, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare?

Il cuore della traversata che ci sta davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”.

Dopo secoli di progresso, in cui l’andare avanti e la crescita erano la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente impari pensare di “regredire”, cioè di invertire o almeno fermare la corsa del citius, altius, fortius. La quale è diventata autodistruttiva, come ormai molti intuiscono e devono ammettere (e sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquinamento, la deforestazione, l’invasione di composti chimici non più domabili, la xilella… e un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità, fino al maledetto virus covid19 di questi ultimi mesi che ha imposto a tutti i sapiens e a noi italiani soprattutto delle norme governative obbligatorie e coercitive per il bene della salute pubblica).

Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza).

Un vero “regresso”, rispetto al “più veloce, più alto, più forte”. Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi. Tant’è che si continuano a recitare formule che tentano una contorta quadratura del cerchio parlando di “sviluppo sostenibile” o di “crescita qualitativa, ma non quantitativa”, salvo poi rifugiarsi nella vaghezza quando si tratta di attraversare in concreto il fiume dell’inversione di tendenza. E invece sarà proprio ciò che ci è richiesto, sia per ragioni di salute del pianeta, sia per ragioni di giustizia: non possiamo moltiplicare per 5-6 miliardi l’impatto ambientale medio dell’uomo bianco e industrializzato, se non vogliamo il collasso della biosfera, ma non possiamo neanche pensare che 1/5 dell’umanità possa continuare a vivere a spese degli altri 4/5, oltre che della natura e dei posteri. La traversata da una civiltà impregnata della gara per superare i limiti a una civiltà dell’autolimitazione, della frugalità sembra tanto semplice quanto immane. Basti pensare all’estrema fatica con cui il fumatore o il tossicomane o l’alcolista incallito affrontano la fuoriuscita dalla loro dipendenza, pur se magari teoricamente persuasi dei rischi che corrono se continuano sulla loro strada e forse già colpiti da seri avvertimenti (infarti, crisi…) sull’insostenibilità della loro condizione. Il medico che tenta di convincerli invocando o fomentando in loro la paura della morte o dell’autodistruzione, di solito non riesce a motivarli a cambiare strada, piuttosto convivono con la mutilazione e cercano rimedi per spostare un po’ più in là la resa dei conti.

Ecco perché mi sei venuto in mente tu, San Cristoforo: sei uno che ha saputo rinunciare all’esercizio della sua forza fisica e che ha accettato un servizio di poca gloria. Hai messo il tuo enorme patrimonio di convinzione, di forza e di auto-disciplina al servizio di una Grande Causa apparentemente assai umile e modesta.

Ti hanno fatto – forse un po’ abusivamente – diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi! E il fiume da attraversare è quello che separa la sponda della perfezione tecnica sempre più sofisticata da quella dell’autonomia dalle protesi tecnologiche: dovremo imparare a traghettare dalle tante alle poche kilowattore, da una super-alimentazione artificiale a una nutrizione più equa e più compatibile con l’equilibrio ecologico e sociale, dalla velocità supersonica a tempi e ritmi più umani e meno energivori, dalla produzione di troppo calore e troppe scorie inquinanti a un ciclo più armonioso con la natura.

Passare, insomma, dalla ricerca del superamento dei limiti a un nuovo rispetto di essi e da una civiltà dell’artificializzazione sempre più spinta a una riscoperta di semplicità e di frugalità. Non basteranno la paura della catastrofe ecologica o i primi infarti e collassi della nostra civiltà (da Cernobyl alle alghe dell’Adriatico, dal clima impazzito agli spandimenti di petrolio sui mari, e oggi del killer silente covid19) a convincerci a cambiare strada. Ci vorrà una spinta positiva, più simile a quella che ti fece cercare una vita e un senso diverso e più alto da quello della tua precedente esistenza di forza e di gloria.

La tua rinuncia alla forza e la decisione di metterti al servizio del Bambino ci offrono una bella parabola della “conversione ecologica” oggi necessaria.

Trasportando, o San Cristoforo, «il Bambino sulle tue spalle da una parte all’altra del fiume si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gioia».
È li, al limite, che si deve stazionare: “Restiamo tutti a casa!” perché: “Nulla sarà più come prima!” (cf. premier Giuseppe Conte).

 

(Liberamente ispirato dalla lettura di un articolo di Alex Langer, 1.3.1990, Per “Lettere 2000”, ed. Eulema)

De Domo David e la confraternita di San Giuseppe di Nardò. La recensione su L’Osservatore Romano di padre Tarcisio Stramare

Religioso della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe, Tarcisio Stramare (San Vito Valdobbiadene, 14 settembre 1928) è stato ordinato sacerdote nel 1952. Noto biblista, ha insegnato Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Lateranense e Pontificia Università Urbaniana, poi presso la Pontificia Facoltà Teologica Marianum. Oltre che autore del volume De Domo David, padre Tarcisio ha sempre nutrito profondo interesse per la figura di San Giuseppe, che tra i Santi, a suo parere ricopre un’importanza seconda solo a quella della sua Sposa.
Molto noti i suoi numerosissimi studi di josefologia, tra cui San Giuseppe nella Sacra Scrittura, nella teologia e nel culto (1983), San Giuseppe nel mistero di Dio (1992), Gesù lo chiamò Padre. Rassegna storico-dottrinale su San Giuseppe (1997) e San Giuseppe, il santo più vicino a Gesù (2008).
Ha ricevuto alcuni importanti incarichi dalla Santa Sede, quale componente della Pontificia Commissione per la Neo-Volgata e Consultore della Santa Congregazione per le Cause dei Santi. Nel 1984 è Esaminatore apostolico del Clero Romano. Dopo l’Esortazione apostolica “Redemptoris Custos” (1989) di Giovanni Paolo II, lascia tutti i precedenti impegni e attività e si ritira ad Asti per approfondirne la teologia.

Così scrive di lui p. Fiorenzo Cavallaro “… La sua dedizione, non solo intellettuale, ma di fede a san Giuseppe è stata totale sapendo quel’è il ruolo e l’importanza di questo santo nel mistero dell’Incarnazione. L’amore appassionato per il Custode del Redentore si è espresso fino all’ultimo… Il suo amore a Cristo e la dedizione a san Giuseppe, resteranno la preziosa eredità che da lui ci è stata lasciata e dalla quale poter continuamente ad attingere”.

L’ultimo suo scritto, poche ore prima della sua morte, avvenuta il 20 marzo 2020 ad Imperia, è stata la recensione che si può leggere qui, pubblicata su L’Osservatore Romano del 19 marzo 2020:

http://www.osservatoreromano.va/it/news/devozione-illuminata-e-illuminante

La bio bibliografia di padre Stramare è possibile leggerla qui:
https://it.wikipedia.org/wiki/Tarcisio_Stramare

Sul volume De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019),  si veda qui:

De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli

di Antonio Faita

 

Nell’ambito delle arti figurative e, in particolare, di quelle che si svilupparono meravigliosamente fra il XVII ed il XVIII secolo nel Regno di Napoli, la scultura lignea è sempre stata considerata a torto come arte minore[1]. A lungo trascurata rispetto alla pittura e alla scultura su marmo, in questi ultimi anni è divenuta oggetto di maggiore attenzione da parte degli studiosi, sviluppando, in maniera esponenziale, un nuovo filone di ricerca rivolto allo studio della scultura lignea napoletana[2] nell’acquisita consapevolezza che si tratti di uno dei principali fenomeni storico-artistici dell’intero Meridione in Età Moderna.

A seguito della mia pubblicazione dedicata agli scultori Francesco e Giuseppe Verzella e alla loro bottega[3], è mio intento fornire un piccolo contributo in argomento, segnalando nelle pagine che seguono, un’opera inedita di un poco noto scultore napoletano, Giuseppe Sarno.

Meno nota, o quantomeno poco conosciuta dagli storici d’arte, è la statua di san Giuseppe con Gesù Bambino ubicata nella sacrestia della chiesa di santa Teresa in Gallipoli e per questo, poco visibile dalla gente. Sul lato corto della base pentagonale, cui poggia il simulacro, vi è apposta la firma e la data «Giuseppe Sarno Scultore Napoli 1797».

L’accento plastico delle figure è caratterizzato dall’incedere del santo e dalla distribuzione dei drappi, ricordando soluzioni adottate nel linguaggio pittorico di Francesco De Mura, tra dolcezza rococò e splendore neoclassico[4].

Proprio in questo linguaggio sono ispirate le sculture di Giuseppe Sarno, realizzandone diverse per le chiese di Napoli e nel Regno di Napoli, e qui egli fu attivo dal 1764 ai primi dell’Ottocento (1820, santa Sofia, Santuario omonimo ubicato in Poderia, frazione di Celle di Bulgheria, SA).

Le fonti ottocentesche, dal Filangieri al Perrone, lo menzionano come modellatore di animali e pastori in terracotta, di cui alcuni firmati[5], per la produzione presepiale che con l’avvento di Carlo di Borbone, a Napoli trovò terreno fertile, vedendo impegnati una numerosa schiera di artisti[6] delle varie arti. L’esiguo numero di opere datate non consente di stabilire con molta precisione quando iniziò a plasmare figure in terracotta, ma è certo che tale interesse ebbe a seguire quello per le sculture lignee[7].

E proprio in una fonte ottocentesca il Sarno viene citato per la prima volta a Gallipoli. Pietro Muisen (1811-1880), valtellinese di origine, e trasferitosi a Gallipoli, per motivi di lavoro, fu autore del libro “Gallipoli e i suoi dintorni”, pubblicato nel 1870. Il Muisen, nel descrivere la ‘Congregazione del SS. Crocifisso’, così scrive: «In questa chiesa si ammirano pure due eccellenti scolture in legno, nelle statue di S. Michele Arcangelo e della Vergine Addolorata, lavoro dello scultore mastro Sarno Napoletano»[8]. Il Muisen non riporta il nome, come neanche l’anno della loro realizzazione.

Consultando l’archivio storico della confraternita del SS. Crocifisso, e precisamente il ‘Domenicale 1794-1826’, si evince che nel 1796, in occasione della festività di san Michele Arcangelo, loro protettore, viene portata in processione per le vie della città la statua di san Michele[9]; il Venerdì Santo, del successivo anno, si fece la processione penitenziale per i Sepolcri, portando ‘La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli[10]. Come si può notare il nome del Sarno non compare sulle pagine del ‘Domenicale’. Si può ipotizzare che sia stata una dimenticanza del segretario verbalizzante oppure il passare del tempo abbia fatto affievolire la firma sulle basi dei rispettivi simulacri, fino a scomparire del tutto o, ancora, il nome dell’artista sia stato riferito da qualche anziano confratello al Muisen, durante la sua visita all’oratorio confraternale.

Fatto sta, che dagli interventi di restauro, eseguiti in questi ultimi anni, non è emersa nessuna scritta dai vari strati pittorici rimossi. Se così fosse, perché il Muisen si limita a riportare solo il cognome? In ambito storiografico, emergono alcuni nomi, come: Ignazio Sarno, allievo dello scultore Pietro Patalano, che a dire, da Borrelli, forse padre del nostro Giuseppe[11]; Luigi Sarno, il cui nome si evince, attraverso la firma segnata a tergo della pettiglia di un ritratto di uomo[12]; Giovanni Sarno, citato dal Mancini[13]. Tornando al simulacro di san Giuseppe e alla sua venerazione presso la chiesa delle suore teresiane, è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo[14].

Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe. Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva. È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe”.

Quarto, in Puglia, dopo quello di Lecce (1620), Bari (1630) e Brindisi (1672)[15], il monastero di Gallipoli, sotto il titolo dei SS. Nomi di Gesù, Maria e Giuseppe, fu terminato il 23 aprile 1690, contestualmente alla chiesa intitolata alla santa di Avila, per devozione e volontà di mons. Antonio Perez de la Lastra,[16] vescovo di Gallipoli. Secondo quanto si può presumere, il culto di san Giuseppe fu introdotto nel monastero gallipolino, seguendo l’esempio e la dottrina della santa Madre Teresa, che lo venerava con affetto speciale. Alcune sorelle scelsero, da religiose professe, il nome del santo[17] e tutte si affidarono, con la preghiera, alla sua intercessione invocandolo quale provvido protettore della chiesa e dell’Ordine. Introdussero la celebrazione del «Patrocinio di san Giuseppe», una particolare festa concessa ai Carmelitani da Papa Innocenzo XI, il 6 aprile 1680.

Presso l’Archivio Storico della Curia Vescovile di Gallipoli, in alcuni registri degli introiti ed esiti a partire dal 1798, vi è traccia delle spese sostenute dalle sorelle per la festività del «Patrocinio di san Giuseppe»[18]. In particolar modo, nella minuta degli esiti del 1799 si rileva una cospicua spesa di ducati 29 e 55 carlini per la buona riuscita della festa[19]. Nell’anno successivo si aggiunse alla spesa del Patrocinio anche quella per l’acquisto di «Due aste nuove alla Bara di S. Giuseppe», corrispondente alla cifra di carlini 30[20]. Questo dato importante ci fa dedurre che la statua di san Giuseppe, dopo qualche anno del suo arrivo da Napoli, veniva portata in processione.

Tale festività è attestata in tutte le annate dei libri dei conti fino al biennio 1811/12, a parte un vuoto dal 1808/09 al 1810/11, in quanto mancanti[21].

Nel 1836 ne fa cenno anche Bartolomeo Ravenna: «Vi si celebrano annualmente le festività di Santa Teresa, del Carmine, e del Patrocinio di San Giuseppe»[22].

Custodito in una teca di legno e vetro, il simulacro è intagliato a tutto tondo con grande perizia e tecnica. Il Sarno, nel rispetto della tradizione iconografica, lo rappresenta in una postura classica, di mezza età, con un folto casco di capelli, la barba ricciuta e la fronte corrugata. Il santo indossa una tunica con bavero di colore marrone; è avvolto in un manto ocra e denso di pieghe che avvolge il corpo per poi girare dietro, cadendo sulla base, come sostegno del simulacro stesso. Giuseppe tiene fortemente tra le braccia il bambino Gesù, parzialmente coperto da un panno decorato a racemi vegetali su una pellicola pittorica di colore verde chiaro. Il Bambinello protende il braccio destro con la manina aperta delicatamente verso il mento del santo, invece il sinistro, sospeso, crea una perfetta simmetria con gli arti inferiori.

La tensione naturalistica del Sarno si è concentrata sui gesti e sull’espressione, in particolare nello sguardo intenso del Santo che non osserva il Bambinello ma, perso nel vuoto e con la bocca semiaperta, è in procinto di parlare. Nel complesso la scultura è caratterizzata da un vigoroso plasticismo ed evidente gusto per le ricche forme corpose. L’inedito san Giuseppe (firmato e datato), fino a pochi anni fa completamente ignorato dalla storiografia, dipende da uno schema d’imitazione intimamente assimilato dalle opere di Giuseppe Picano, al quale il Sarno si ispirava, attingendo dal repertorio tradizionale innervando quelle che erano le antiche forme.

Le conformità stilistiche di san Giuseppe con le altre opere note dell’artista in vari centri della Campania, Puglia, Calabria e oltre, fino alla Spagna (soltanto recentemente si è venuti a conoscenza dell’esistenza di un bellissimo san Michele Arcangelo firmato e datato 1775, presso il monastero di santa Clara di Hellín (Murcia), la cui scoperta si deve alla studiosa Isabella Di Liddo [23]), appaiono evidenti, specie nella resa del panneggio, nello studio dell’anatomia e nel movimento delle figure.

Il poco conosciuto Giuseppe Sarno doveva risultare, nel suo tempo, un maestro molto celebre, come risulta dalle numerose commissioni documentate e dalle tante opere a lui attribuite[24]. Ancora scarne sono le notizie e le citazioni biografiche per delineare un profilo e inquadrare la sua formazione e lo sviluppo della sua bottega[25]. Sulla scorta, di queste osservazioni e del san Giuseppe, opera ‘certa’, di Giuseppe Sarno, credo si debba ora procedere a un esame delle due statue del san Michele Arcangelo e della Madonna Addolorata, argomento di discussione per gli studiosi di storia locale, riguardo la loro autenticità: il raffinato intaglio del san Michele e la dolcezza della Vergine; lo studio meticoloso delle forme; l’attenzione scrupolosa alle giuste proporzioni fra le diverse parti del corpo; il vario atteggiarsi degli aspetti esteriori che assecondano l’espressione dei sentimenti rappresentati; la posizione delle mani; lo studio delle dita affusolate e bene intonate alla figura nell’insieme, per la similitudine con le altre opere, datate e documentate, si può determinare l’autenticità prima e la paternità poi, al ‘nostro’ Giuseppe Sarno.

La presenza di queste opere dell’artista a Gallipoli, considerato uno dei più sensibili interpreti delle moderne istanze rococò alla fine del XVIII secolo, stanno a testimoniare rapporti intensi tra lo scultore e la committenza gallipolina. A rendere ancora più significativa la circostanza è la restituzione al pubblico del san Giuseppe, opera importante, riemersa dall’oblio, che va ad arricchire quell’immenso patrimonio artistico di Gallipoli e ad aggiungersi, insieme al san Michele Arcangelo e alla Madonna Addolorata, a quelle opere del Sarno finora sconosciute dalla bibliografia.

 

Note

[1] U. Di Furia, Il “San Francesco Saverio” di Bernardo Valentinoa Calvello: Opera ineditadi un poco noto scultore napoletano, in Basilicata Regione Notizie, n. 119-120, Anno 2008, p. 217.

[2] G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli, Ed. Paparo, 2005; Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma, Ed. De Luca, 2007; I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma, Ed. De Luca, 2008; Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, a cura di P. Leone de Castris, Napoli, Ed. Paparo, 2009.

[3] A. Faita, Gli scultori Verzella tra Puglia e Campania. Committenza e devozione, Galatina. Ed. Congedo, 2015.

[4] Cfr. G. Filangieri, Indice degli artefici delle arti maggiori e minori, la più parte ignoti o poco noti, sì napoletani e siciliani, sì delle altre regioni d’Italia o starnieri, che operano tra noi, con notizia delle loro opere e del tempo del loro esercizio da studi e nuovi documenti, vol.II, Napoli, p.426.

[5] G Borrelli, Il presepe napoletano, Napoli, Ed. De Luca-D’Agostino, 1970, p. 236.

[6] F. Mancini, Il Presepe napoletano nella collezione Eugenio Catello, Napoli, Ed. Sadea/Sansoni, 1967, s.n.

[7] G. Borrelli, op. cit., p. 107.

[8] bcg, p.muisen, Gallipoli e i suoi dintorni, Gallipoli, Tipografia municipale, 1870, p. 108; il nome del Sarno è citato da mons. Gaetano Muller nella visita pastorale effettuata all’oratorio confraternale il 7 luglio 1905, in adg, Visita pastorale di Mons. . Muller, Gen. 1903 – Lugl. 1907, p.319.

[9] acssg, Domenicale 1794-1826, Anno 1796 «8 detto [Maggio] giorno di Domenica dedicato alla festività del Glorioso S. Michele Arcangelo nostro Protettore si celebrò in detta nostra Congregazione la sua festa con pompa si celebrarono varie messe, e col Padre si cantò la messa con assistenza de ministri, e dopo si portò processionalmente alla Città la Statua di S. Michele. La tassa là fatta il Primo assistente Nicola Fontana ed il 2° assistente Domenico Pisanello», s.n.

[10] Ibdem, Anno 1797 «14 detto [Aprile] Venerdì Santo Radunati la matina li fratelli si fece la processione di penitenza per li Sepolcri, a Cappuccini portando La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli e dopo sene andarono in santa Pace», s.n.; g. f. mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Tuglie, Tip. 5EMME, 2003, p. 14.

[11] G Borrelli, op. cit., p. 56.

[12] Ibidem, p.100; a. di lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano, in La Rassegna d’Ischia, n. 9/1987, s.n.

[13] F. Mancini, op. cit., s.n.; m. liaci, Simulacri sacri. Statue in legno e cartapestadel territorio C.R.S.E.C. di Ugento, a cura di Regina Poso, Taviano, GRAFEMA, 2000, pp.198-201.

[14] l. di San Gioacchino, Il culto di San Giuseppe e l’Ordine del Carmelo, Barcellona, 1905, c. 2, p. 48.

[15] C. Casole, Il Monastero delle Carmelitane scalze di Gallipoli, Manduria (TA), Tip. Tiemme, 1992, p. 63.

[16] Ibidem, p. 66.

[17] La prima fu proprio la cofondatrice e prima Maestra delle novizie, suor Maria di san Giuseppe, al secolo, Anna Maria Chirlingort, professata nel 1693.

[18] Acvg, Documentazione recuperata dal Nucleo Polizia Tributaria di Lecce, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1798-1799. Purtroppo non si dispone di altri documenti di introito ed esito antecedenti al 1798. Come ne anche presso l’archivio del monastero delle carmelitane.

[19] Ibidem, Patrocinio di S. Giuseppe: «Al Sigr. Chiriatti per la musica d.6; Panegirico d.2:50; Al Capitolo per l’assistenza d.7:50; Ai chierici, e Ministro della messa cantata c.80; facchino per i mantici, e sedie c.35; Al Fochista per mortaretti e Batterie d.9:50; Trombetta e due tamburri d. 1:90; Apparatura di chiesa d.1» tot. d.29:55

[20] Adg, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1799-1800. Minuta di spese.

[21] Ibidem, 1800/01, 1801/02, 1802/03, 1803/04, 1804/05, 1805/06, 1806/07, 1807/08, 1811/12.

[22] Cfr., B. Ravenna, Memorie istoriche della fedelissima città di Gallipoli, presso Raffaele Miranda, Napoli 1836, p. 385.

[23] I. Di Liddo, op. cit., p. 240.

[24] Cfr., E. Valcaccia, i Tesori Sacri di Castellammare di Stabia. La scultura del Settecento e dell’Ottocento, Castellammare di Stabia (NA), Ed. Longobardi, 2016, p. 48.

[25] Ibidem, p. 49.

 

L’articolo è stato pubblicato in Rassegna Storica del Mezzogiorno, n.2 – 2017/2018, pp.155-162

Urbanistica in terra d’Otranto. Il caso di Francavilla, tra XIV e XV secolo

di Mirko Belfiore

Tralasciando, per un attimo, le dispute sulla fondazione dell’insediamento antico e le questioni legate al cosiddetto “Rinvenimento dell’Icona bizantina”, si può affermare con certezza che, a Francavilla Fontana, fu nel primo trentennio del Quattrocento, che incominciò a delinearsi una vera e propria configurazione urbana.

Analizzando le fonti certe, fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, la confluenza di tutti gli insediamenti minori sparsi per l’Ager Uritanus, verso il nuovo agglomerato, venne favorita da una serie di importanti avvenimenti: nel 1320, la fondazione di una nuova chiesa, nel 1322, la venuta di un gruppo di Padri Francescani e, infine, nel 1364, l’avvio della costruzione delle nuove mura, privilegio concesso da Filippo II (1329-1374) principe di Taranto.

Francavilla Fontana, fotografia aerea dell’antico tracciato medievale, con al centro, la “piazzolla”

 

L’importante sviluppo della città e la conseguente crescita, la si può anche percepire, esaminando la successione dei titoli cittadini: il passaggio da Casale a Terra nel 1310 e, in seguito, da Terra a Citta Regia nel 1336.

Quindi, secondo la concessione angioina della metà del XIV secolo, l’agglomerato bassomedievale si dotò di una prima cinta muraria, racchiudendo una popolazione di almeno una cinquantina di fuochi. Il percorso delle primitive mura, oggi, non è più rintracciabile. Esso, doveva racchiudere una porzione del borgo antico, che dall’antica Chiesa del Salvatore a sud, inglobava la Chiesa nuova e si spingeva a nord fino al convento dei Francescani.

Il centro di questo piccolo agglomerato era rappresentato dalla cosiddetta piazzolla, oggi identificabile con lo spiazzo antistante la settecentesca Chiesa Matrice, dove, con molta probabilità, era situato il palazzo baronale degli Antoglietta, all’epoca feudatari della città.

L’evoluzione urbana fu continua e costante, grazie, sia alla posizione favorevole della città, crocevia fra la costa est ionica e la costa ovest adriatica della penisola, che alla politica di raggruppamento dei nuclei abitativi attuata dai d’Angiò, soprattutto in Terra d’Otranto. Dopo alcuni decenni, un nuovo impulso si poté registrare nella seconda metà del XV secolo, quando al governo giunse il neo-principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1401-1463). Quest’ultimo, reputando Francavilla, punto strategico tra le città di Taranto e Brindisi, e ritenendola insufficientemente difesa, pensò subito di rinforzarla, ordinando di costruire un nuovo tracciato difensivo, completato a nord, da una struttura fortificata.

Gio: Antonio Del Balzo Orsini, principe di Taranto (da Ritratti et elogii di-capitani illvstri, Roma 1646)

 

La popolazione fu: “molto affannata in fabriche de le mura de la Terra, ad fare turre et altre propugnacole et ultra hoc aiutare a le fabriche de lo Castello de epsa Terra”, tanto che Ferdinando I d’Aragona (1424-1494), re di Napoli, concesse all’Universitas, tramite privilegio del 1464, una franchigia di cinque anni.

L’antica cerchia angioina, quindi, fu ampliata nel perimetro e, secondo il Palumbo, sostituita da parete murarie a intervalli di trenta passi più robuste. Essa si sviluppava partendo dal Castello, nei pressi dell’antica Porta di Sant’Antonio, e proseguendo diagonalmente per l’antica via Castello (l’attuale corso Umberto I) in direzione della Piazza Maggiore (piazza Umberto I), dopo aver superato a sua volta la Porta San Nicola (sita all’imboccatura dell’attuale via Benanduci), giungeva davanti alla Porta Grande, altrimenti detta del Salvatore, posta alle spalle della chiesetta omonima.

Francavilla Fontana, pianta dell’abitato con la ricostruzione dell’andamento delle mura nel XV secolo (elaborazione grafica).

 

Proseguendo verso nord-ovest, fino alla cosiddetta Porta Nuova, nei pressi della piazzolla, il percorso inglobava una serie di case e botteghe. Procedendo lungo l’attuale Salita della Carità, il tracciato sbucava in via Barbaro Forleo, nel punto più estremo, dove trovava posto l’antica Torre d’Elia. L’ultimo tratto, rettilineo, costeggiante l’ortale e il convento dei Francescani e concludeva il suo percorso, riallacciandosi di nuovo alla rocca.

Veduta di Francavilla nel 1643, posizionamento delle 5 antiche porte (elaborazione grafica).

 

Per la costruzione di questa immane opera, la cittadinanza fu presa, nei successivi cinquant’anni, da un grande fervore edilizio. Non solo si riempirono gli spazi liberi vicino le mura, ma l’Universitas: “in vista che la Terra è augmentata, multiplicata e assai popolata”, arrivò a inoltrare supplica alla regina Giovanna di Napoli (1502-1575), di poter “fare un burgo de fore ditta Terra”. La Regina, riconoscendone la necessità, concesse il Placet il 16 marzo 1517, “dummodo in solo publico edificient et in privato satisfatis dominis”. L’autorizzazione regia comportò così il superamento delle mura, evento che rivestì un’importanza enorme per l’estensione urbana di Francavilla.

Si costituì, infatti, un nuovo Borgo in direzione dell’antico sito del Casale di Casalvetere, con il conseguente spostamento del nuovo baricentro dalla piazzolla medievale allo slargo antistante Porta Grande, poi Largo Carceri e oggi piazza Dante Alighieri, mentre a pochi passi, andava a costituirsi lo spiazzo contenente le fogge cittadine, poste fuori le mura.

Il cosiddetto “Burgo Grande”, fu il primo borgo extra-moenia caratterizzato da un tessuto regolare e rettilineo. Una simile organizzazione del territorio, ordita secondo maglie ortogonali, si riscontra anche nei borghi sviluppatisi successivamente, dove il comune denominatore fu lo sviluppo sugli assi viari riconducibili agli edifici monastici più importanti.

Se il Borgo Grande, completato nel 1630, si sviluppò seguendo la direttrice che conduceva al convento dei Carmelitani (giunti a Francavilla dal 1517 e stabilitisi per primi in un borgo extra-moenia), gli altri punti di riferimento furono il convento dei Cappuccini a nord-ovest (di fondazione borromea) e quello dei Minori Osservanti a sud-est.

Il quadro delle nuove appendici extra-moenia viene completato ad ovest dal Borgo “Sancto Blasi”, a sud-ovest da quello di Santa Maria degli Angeli, a est da quello di S. Eligio e nei pressi del Castello, dal borgo di Sant’Antonio.

Riassumendo, i borghi fuori le mura, ebbero una diffusione capillare nella parte est, ovest e sud dell’agglomerato, visto che per scelta la parte nord venne tralasciata, decidendo di non oltrepassare le mura difensive. Per comprendere bene, quanto già alla fine del ‘500, la continua crescita della popolazione, dovuta sia alla ricchezza economico-commerciale del territorio che alla fertilità del suolo, avesse determinato la formazione e lo sviluppo di numerosi borghi, al di fuori del primitivo nucleo medievale, è utile considerare i dati forniti dalle fonti.

Secondo il Giustiniani, verso la metà del XV secolo il numero dei fuochi a Francavilla ammontava a 500 unità; ma già nel 1532 il numero raggiunse le 723 unità, per crescere gradualmente nel 1545 (768), nel 1561 (836) e nel 1595 (994).

Il primo Catasto del 1604, vero punto di svolta per lo studio demografico, consta di ben quattrocento fogli e registra dettagliatamente tutti i 1100 fuochi, ossia i 3707 abitanti, offrendo un quadro esatto dell’assetto urbano di Francavilla all’inizio del XVII secolo. Da questo registro si deduce che la città, aveva sì, conosciuto un allargamento sostanziale aldilà delle mura, ma che tuttavia, la maggior parte delle famiglie più importanti, dimoravano ancora entro il circuito antico, addensandosi nei pressi delle strutture più significative come: le chiese, il Castello, le cappelle, le porte, le contrade e le due piazze.

Francavilla Fontana, Piazza Dante Alighieri, già Largo Carceri.

 

A questa tendenza generale, si contrapponeva comunque, il nuovo assetto fuori le mura, dove l’introduzione di alcuni toponimi come strada pubblica o via, nella mappatura seicentesca, lasciano supporre un metodo moderno e razionale di qualificazione del tessuto cittadino. Al periodo di stasi, riconducibile al cinquantennio (1595-1648), seguì una nuova fase espansiva, dove, come afferma il Palumbo, la città continuò regolarmente a costruire quartieri: “per la popolazione che mano mano andò crescendo”.

lo sviluppo del “Burgo Grande”, nella veduta di Francavilla del 1643 (elaborazione grafica).

 

Altri riscontri si possono desumere dal confronto fra lo stesso catasto del 1604 e quello del 1636-1643, dove oltre all’incremento considerevole dei fuochi (1680), troviamo la conferma dell’aumento delle unità abitative e dei relativi quartieri. Sul versante orientale, invece, si attesta il compimento del Borgo di S. Eligio, quartiere compreso fra le attuali vie Roma e via Regina Elena, dove le famiglie più ricche avevano deciso di spostarsi, per erigere le loro nuove dimore. Si definisce anche la perimetrazione del quartiere di San Nicola o San Niccolò, grazie soprattutto, alla creazione del primo tratto di strada Imperiale e delle due strade, Milone e San Nicola.

Francavilla Fontana, le antiche fogge del XVI secolo, ritrovate durante la ricognizione effettuata in piazza Umberto I.

 

A ovest, invece, sorgono intorno a Porta Nuova, il Borgo di Santa Maria delle Grazie (dal nome dell’antica cappella) e quello di San Sebastiano, caratterizzato da un “pettine” di strade ortogonali, posto sulla direttrice che conduce verso il convento dei Cappuccini.

Pianta dell’abitato di Francavilla nel XVIII secolo e lo sviluppo verso i complessi conventuali dei Cappuccini a nord-ovest e dei Padri Francescani a sud-est (elaborazione grafica).

 

Pianta dell’abitato di Francavilla nel XVIII secolo con la disposizione delle borgate costituitesi fuori dal tracciato orsiniano (elaborazione grafica).

A conclusione di questo excursus, trovo giusto menzionare un’importante fonte documentaria, che ben sintetizza il tema poc’anzi sviluppato. Tramite la Pianta del 1643, splendida veduta a volo d’uccello, opera attribuibile al F.C. Centonze, si può ben intendere come Francavilla si sia evoluta dal punto di vista abitativo. Al nucleo antico, dall’andamento irregolare e caotico, raffigurato a sinistra, si contrappone, l’estensione abitativa a maglie ortogonali, posta sulla destra.

 

Quest’ultima, figlia di una volontà moderna e risultato di un progetto lungimirante vedrà protagonista, dalla seconda metà del XVI secolo, la famiglia feudale degli Imperiale, Signori della città e fautori di un nuovo corso urbanistico, di cui parleremo prossimamente.

Bibliografia
V. Basile, Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.
F. Clavica e R. Jurlaro, Francavilla Fontana, Mondadori Electa, Milano 2007.
Martucci, La piazza e il Foggiaro a Francavilla Fontana, Athena, Francavilla Fontana 2004.
G.B. Pacichelli, Del Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, Parrino e Muzio, Napoli 1703, ristampa anastatica a cura di R. Jurlaro, Forni, Bologna 1999.
Poso, F. Clavica, Francavilla Fontana. Architettura e Immagini, Congedo editore, Galatina 1990.
A.P. Coco, Francavilla Fontana nella luce della storia, Taranto 1941, ristampa fotomeccanica Galatina 1988.
C. D’Amone, Storia illustrata di Francavilla Fontana, sesto fascicolo, Francavilla Fontana 1988.
C. Candita, La chiesa di S. Alfonso M. Dei Liguori in Francavilla Fontana, edizione Laurenziana, Napoli 1987.
P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.
F. Argentina, La Chiesa del Salvatore, Napoli 1879.
L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, editori Vincenzo Manfredi e Giovanni de Bonis, Napoli 1797-1805, ristampa anastatica Bologna 1969-1971, libro IV.

Sulle origini della città si rimanda qui:

Francavilla e il culto della Madonna della Fontana

Lettera aperta di un prof. agli studenti

di Pier Paolo Tarsi

Care ragazze, cari ragazzi, un paragone che ricorre spesso in questi giorni di emergenza per richiamarvi allo sforzo e alla responsabilità personale è quello di una guerra che si vince con il contributo di tutta la nazione, anche vostro.

E allora, proviamo per un momento a scavare in questo paragone, a immaginarli quei vostri coetanei o quasi coetanei cui toccò nel secolo scorso farla la guerra? Proviamo a figurarceli, sprovvisti di ogni nostra comodità, trascinati all’improvviso a qualche centinaio di chilometri o più dalle proprie case, dai propri cari e amici, strappati alle proprie ordinarie esistenze; immaginiamoceli, gettati nel fango a strisciare tra i cadaveri nelle trincee, nell’odore fetido della morte che lasciava gli occhi sbarrati.

Loro erano là, schiacciati dalla fatica, paralizzati dalla paura, attraversati dal gelo o dalla calura, assillati dalla fame, abbattuti dalle malattie e dal dolore fisico, con l’unico fine di lottare per i propri nonni, per le proprie famiglie, per i propri fratelli o amici. Era questo che significava per loro difendere la Patria, una parola che a noi forse non dice nulla e fa persino sorridere talvolta, ma che se riuscissimo a riempire dei loro pensieri e sacrifici, di quelle loro speranze e timori, forse potrebbe d’improvviso manifestarsi in un senso tangibile anche per noi, italiani dell’anno 2020.

La Storia, questa Signora che spesso ci appare tanto lontana ed estranea, non è nelle pagine di questo o quel manuale che portiamo nelle aule ma vive e rivive delle nostre singole azioni ed emozioni, scrivendo instancabilmente nuovi capitoli fatti di destini umani. Così, oggi, quella Signora sta chiamando voi, ognuno di voi, ad una prova epocale. Già. La Storia oggi non vi chiede di starvene per mesi o anni a chilometri dai vostri cari, ma ad un metro da loro per qualche settimana. La Storia non vi chiede di privarvi della vita per i vostri anziani nonni, ma di privarvi di un loro abbraccio, o di un aperitivo, di un’uscita, della visita di un’amica o di un conoscente. La Storia non vi chiede di strisciare nel fango umido o nei rovi della terra arsa tra i cadaveri dei vostri compagni, ma di rotolarvi tra le calde e morbide coperte del letto di casa, guardando una serie in streaming, ascoltando musica o leggendo un libro.

La Storia non vi chiede di rinunciare alle vostre esistenze, ai vostri sogni personali o ai vostri progetti fondamentali, e nemmeno alla scuola, garantitavi a distanza, vi chiede invece di rinunciare a una festa di compleanno, ad una serata o a un caffè con la vostra comitiva, alla palestra o ad una partita di pallone. La Storia chiede a voi ragazze e ragazzi molto meno di quanto abbia chiesto ad altri vostri coetanei venuti prima di voi.

Qualcosa, tuttavia, vi chiede. Cosa? Cerchiamo di stabilirlo e definirlo, ragionevolmente, insieme? Tentiamo di dare a ciò un nome e qualche attributo che non risultino meri suoni? Noi genitori e docenti sappiamo che a tutto ciò che vi viene chiesto, nel pieno rispetto delle vostre vite e dei vostri comprensibili bisogni, va dato il giusto e autentico nome di “sacrifici”; voi, dal vostro canto, per il rispetto dovuto a quei vostri coetanei e alle proporzioni di quell’esempio tratto dalla storia recente, permetteteci di qualificarli come “modesti”.

Eppure, badate, quei “modesti sacrifici” cui infine siamo convenuti e che vi si chiedono oggi basteranno a potervi definire eroi un giorno non lontano: ragazze e ragazzi che con sforzi e rinunce personali avranno salvato l’Italia e la sua gente da una disfatta irrimediabile, dalla perdita di innumerevoli vite umane. A voi, allora, la responsabilità di scrivere questa nuova pagina di Storia, a voi decidere se sarà gloriosa e motivo di ammirazione dei posteri per la vostra generazione, oppure amara e ignobile come una rovinosa e definitiva sconfitta. L’una o l’altra possibilità, la Storia, non potrà ad ogni modo realizzarla al posto vostro, strappandovi dalle mani una penna che impugnate saldamente voi, che ci crediate o no.

Andate a vincere questa guerra ragazze e ragazzi, anzi, restate a vincerla, a casa.

 

(Ndr. La lettera è stata pubblicata anche sui siti La Tecnica della Scuola e Orizzonte Scuola) 

Letture in tempo di Coronavirus


di Rocco Boccadamo

Il capolavoro manzoniano “I promessi sposi” è, in assoluto il libro che amo maggiormente.

Nel corso delle mie ormai cospicue primavere, l’ho letto più volte e, tuttavia, in questi giorni, mi è venuto spontaneo di prenderlo nuovamente in mano e di ripassare, specialmente, la parte che ha per oggetto l’epidemia di peste scoppiata e diffusasi, in particolar modo nel Ducato di Milano, intorno al 1630.

Mi permetto di riproporre qui, di seguito, il capitolo XXXI dell’opera, in cui si ritrova, purtroppo, tutto quello che sta succedendo oggi con il coronavirus.

https://it.wikisource.org/wiki/I_promessi_sposi_(1840)/Capitolo_XXXI

 

VIRUS, OVVERO LA VALENZA PROFETICA DI ALCUNE PAROLE

di Armando Polito

Tanto per non cambiare, chi ci dovrebbe rappresentare, soprattutto all’estero, sembra continuare a perdere l’occasione per dimostrare, parole alla bocca, chi siamo, anzi dovremmo essere, se la cultura nel nostro paese avesse un minimo di considerazione. Così, dopo i problemi di “waind” accampati a suo tempo da Alfano a giustificazione di un ritardo, l’attuale ministro degli esteri ci ha deliziato di recente col suo “vairus”, infilato, per giunta,  in un discorso in italiano. Voglio essere generoso e lasciarmi prendere dall’infondato sospetto che la sua intenzione era quella di ingraziarsi le simpatie di quel genio, e tanto altro ancora …, di Trump. D’altra parte non ci si può illudere che i collaboratori e gli addetti alla comunicazione, anche loro pagati profumatamente con i nostri soldi, siano ad un livello culturale, come teoria pretenderebbe, almeno un gradino superiore rispetto a quello di chi li fa mangiare. Sotto questo punto di vista la situazione è identica a quella che intercorre tra il livello culturale degli elettori e quello degli eletti. Tornando al “vairus”, c’è da dire che, nel quadro dell’anglofilia imperante, siamo caduti dalla padella inglese nella brace americana, perché i figli di Albione almeno pronunciano così come sono scritte le parole derivanti dal latino, che non sono poche. Per non scomodarne una caterva tra quelle scientifiche, mi limito a citarne solo una di uso comune, anzi comunissimo: “monitor”.  Essa tal quale dal latino, in cui significa in generale suggeritore, consigliere (da monère=informare; in senso specialistico, poi, monitor era il servo  che suggeriva al padrone il nome delle persone che incontravano per strada. E virus? Appartiene alla seconda declinazione, i cui nomi al nominativo escono in -us (o in -er o in -ir) quando sono maschili (pochi i femminili solo in -us, per lo più nomi di piante) quando sono maschili e in -um quando neutri. “Virus”, che in latino significa “veleno”, rappresenta un’eccezione, perché, pur uscendo in -us, non è di genere maschile né femminile, ma neutro e presenta solo il singolare.  Siccome, poi, le disgrazie non vengono mai da sole, esso, sempre al singolare, è usato solo nei casi diretti (nominativo, accusativo e vocativo), mentre in quelli indiretti (genitivo, dativo e ablativo) viene adoperato “venenum” (da cui il nostro “veleno”). Tutto questo per evitare che alcune forme da esso assunte nella declinazione seguendo l’usuale procedura creassero confusione con le omofone di altri sostantivi come “vir” (che significa “maschio”, “eroe”) e di “vira” (che significa “donna”). Di seguito le “mutazioni” cui si è dovuto sottoporre “virus”. In questo e nei successivi specchietti il grassetto in  contraddistingue le forme “vietate”.

* La mutazione, che nel singolare si manifesta solo nei casi obliqui, qui li coinvolge tutti. Essendo di genere neutro, avremmo dovuto avere i casi diretti terminanti in –a (ma ciò avrebbe creato confusione con il femminile singolare vira, mentre nei casi obliqui la confusione sarebbe avvenuta con il maschile plurale viris.

Oltre a VIRUS e a VIR, però, c’è un altro sostantivo, questo della terza declinazione, che significa “forza”: VIS. Anche lui è un povero disgraziato, nel senso che nei casi indiretti del singolare è integrato da quelli corrispondenti di ROBUR (da cui i nostri “rovere” e “robusto”), che significa “quercia e, per traslato, “robustezza”. Ecco la sua declinazione con le mutazioni alle quali si è dovuto adattare.

*A differenza del singolare, conserva il suo tema (vir-) perché le forme da esso generate non comportano nessun rischio di confusione.

Non è un caso che VIS, VIR e VIRUS appaiano come tre incarnazioni del concetto di “forza” (basti pensare ai derivati: non tanto “virtù” (pure nativamente riferita a quella militare) e “virilità” (di solito confinante col “machismo”) quanto “violenza” e “virulenza”. Vale la pena riflettere, però, sul fatto che la “forza” umana, che troppo spesso è solo “violenza”  deve fare i conti con la “forza” della natura, della quale la “virulenza” degli agenti patogeni, forse soprattutto di quelli parzialmente o, peggio, totalmente “nuovi”, rappresenta il normale, da noi meritato  portato.

C’è solo da augurarsi che il Covid-19 incontri un destino più o meno simile a quello del suo nome comune, che, cioè, subisca mutazioni di poco rilievo rispetto al “modello” originale, tali da creare, al massimo, una confusione passeggera tra i ricercatori e che questi trovino rapidamente la soluzione, come, presumibilmente in poco tempo, la trovarono i parlanti, nostri ascendenti, per “virus” individuando e sostituendo quei segmenti causa di confusione e di probabili equivoci. Poi, nel XXI secolo, con  “vairus” pure il nominativo avrebbe subito una mutazione, quella dell’ignoranza e del “trendysmo”, contro la quale non c’è vaccino che tenga.

 

 

Dialetti salentini: spichettu

di Armando Polito

La voce è usata da tempo solo nella locuzione trasire ti spichettu, corrispondente all’italiana entrare di straforo, intrufolarsi. Essa trae origine dal lessico sartoriale, in cui spichetto è sinonimo di gherone (dal germanico gairo=punta del giavellotto), lembo triangolare di stoffa applicato in passato (quando anziché buttare si adattava …)  alle cuciture laterali di un capo di vestiario, specialmente una camicia, per aumentarne l’ampiezza1. Trasire2 ti spichettu, perciò, è il frutto di un doppio slittamento metaforico (punta del giavellotto>pezzo di stoffa triangolare o gherone>inserirsi come un gherone).

Lo stesso processo è ravvisabile nell’italiano intrufolarsi, che ha comportato un doppio slittamento metaforico in quanto composto da in (=dentro)+trufolare =frugare, rimestare, denominale da un latino *tufer, variante del classico tuber (da cui tubero), incrociato, per di più, con grufolare (è il raspare il terreno col muso cercando cibo e grugnendo, tipico del maiale e del cinghiale). Ed a tuber pare collegarsi tartufo, che per i più deriva da terrae=della terra+*tufer/tuber 3 e con quest’etimo è connesso anche trifolare, essendo da trifola, voce settentrionale alterazione del latino tardo tubera (plurale, usato con valore collettivo, del classico tuber). A coronamento di questo festival degli slittamenti semantici concludo dicendo che, partendo dai connotati sotterranei e nascosti di ogni tubero e del tartufo in particolare, quest’ultimo poteva sfuggire al periodo letterario che segna il trionfo della metafora, cioè il Barocco?  E così esso è pure l’appellativo riservato  a chi ostenta falsa bontà e devozione religiosa, inventore Molière con il suo Le Tartuffe ou l’Imposteur. Ancora una volta il mondo vegetale scomodato per stigmatizzare un difetto umano. Ma almeno il tartufo, quello vero, può rivendicare nei confronti dei suoi simili vegetali come la zucca, il cetriolo, il finocchio, una quotazione di mercato di altissima rilevanza …

La lunga parentesi dedicata al tartufo mi stava quasi facendo sfuggire il fatto che nulla ho detto sull’etimo di spichettu4. Tolto l’evidentissimo suffisso diminutivo (il triangolo di stoffa deve giocoforza essere molto piccolo rispetto alla camicia da allargare), rimane spic-, tema del latino spica=punta (e lo spichettu è di norma un triangolo isoscele), da cui il nostro spiga, spigolo, e spicchio. In italiano sarebbe stato spichetto e infatti, anche se i moderni vocabolari non lo registrano, spichetto s’incontra in pubblicazioni del passato. L’immagine che segue è tratta da Tariffa generale della riscossione de’ dazi doganali nel Regno di Napoli, Stamperia reale, Napoli,1789, p. CXIX.

Tenendo conto che il palmo è equivalente a poco più di 26 cm e la canna a 2,10 m, ne risulta una stoffa che in larghezza ben si prestava a ricavarne aggiunte; e questo sarebbe sufficiente ad escludere che il riferimento sia alla tessitura spigata. Che spichetto, poi, sia l’italianizzazione di una voce napoletana o, comunque, meridionale me lo fa pensare il fatto che esso ricorre anche al di fuori del Regno di Napoli, come mostra l’immagine successiva tratta da Capitoli del Consolato dell’arte della seta di questa nobile, fedelissima ed esemplare città di Messina, Chiaramonte e Provenzano, Messina, 1727, p. 26.

E, infine, a sostegno dell’origine napoletana, in Vocabolario napoletano-toscano domestico di arti e mestieri di Raffaele D’ambra, Chiurazzi, Napoli, 1873, p. 487.

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1 In araldica è una pezza triangolare delimitata da due linee che si incrociano al centro dello scudo; in marina è un rinforzo applicato alla vela nei punti di maggiore sforzo e logorio

2 Dal latino transire=entrare, composto da trans=oltre+ire=andare.

3 Il calabrese tiritùfulu sembra confermarlo.

 

Libri| La scrittura come zapping

di Oscar Zagabria

 

Questo libro di Paolo Vincenti, si compone di una serie di articoli, comparsi su riviste online prevalentemente nel corso del 2018, che prendono spunto dalla cronaca politica italiana per allargarsi anche al costume e alla musica, sempre a partire da quell’elemento autobiografico che è la cifra distintiva di quasi tutta la scrittura del Nostro.

Lo stile è quello già consolidato dalle precedenti pubblicazioni: “L’osceno del villaggio”, “Italieni”, “Avanti (o) pop!”, a metà tra l’editoriale e il satiresco, tra il serio e il faceto. I libri precedenti erano delle carrellate sui principali avvenimenti accaduti negli anni, a partire dal 2016, anno di pubblicazione del primo volume, filtrati spesso attraverso lo schermo di un televisore, vero e proprio oggetto feticcio per l’autore. Finestra elettrica sempre aperta sul mondo, reale o immaginifico che sia, non importa, dove l’assuefazione può solo essere scongiurata attraverso il continuo cambio di canale.

Ed è lo stesso zapping, anche in questo libro, unica forma di controllo di un mezzo così pervasivo, che sembra essere stato riversato nella scrittura di Vincenti, assurgendo a vero e proprio metodo narrativo che attraverso l’ellissi, la fratturazione degli avvenimenti, il salto senza reti di protezione da un argomento all’altro, cerca di superare l’illusione della continuità logico-temporale impacchettata dalla ideologia dominante. Svelando tutta l’alienazione e lo straniamento dell’uomo contemporaneo. Si trovano così i principali protagonisti della politica politicante del Belpaese, in primis Salvini e Di Maio (che l’autore definisce Dioscuri) accanto ai presentatori tv e ai cantautori storici degli anni Settanta-Ottanta, quali Lo Cascio, De Angelis, Paolo Pietrangeli, De Gregori, Rosso, ecc.

Gli Italieni che popolano le pagine di Vincenti diventano l’emblema e il prodotto di una certa contemporaneità che modella sulla deprivazione culturale e sociale stili di vita e di pensiero, trasformando le persone prima e i cittadini poi in mansueti consumatori a cui si può propinare qualsiasi tipo di prodotto, compreso quello politico.

Vincenti cerca di far deflagrare questo pensiero mainstream attraverso il decentramento e il depotenziamento semiotico dei fatti narrati, che diventano meri pre-testi per poter dire altro, e il frazionamento del testo tramite un cut up diverso da quello utilizzato da Burroughs o dagli autori del programma televisivo “Blob”, e inteso, più che altro, come taglio e divertito accostamento di argomenti, o registri espressivi, apparentemente distanti tra loro, che un sapiente campo lungo restituisce nella stessa pagina con sapienza e ironia, quando non con un vero e proprio distaccato sarcasmo. Ciò avviene là dove l’autore si rende conto che l’illusione di una simile operazione è destinata ad infrangersi sull’impossibilità di andare al di là di un mondo già strutturato mediaticamente che non permette voci fuori dal coro, come la sua.

Una nota a parte meritano le citazioni da canzoni italiane famose e meno famose, che aprono molto spesso i pezzi, anche in questo libro.

In tale presa di coscienza, nell’improvviso blackout del tran tran televisivo, nell’attimo di silenzio che intercorre saltando da un canale all’altro, che riflesso sullo schermo nero finalmente appare in tutto il suo splendore, troviamo Paolo Vincenti, seduto in poltrona con in mano una bottiglia di coca cola, alle sue spalle la libreria piena di classici e accanto il suo mai domo demone della scrittura. Barlumi di autenticità che percorrono e illuminano per intero questa ultima fatica dell’autore.

La terra d’0tranto in una sorta di guida francese del 1656 non indenne da “grandeur”

di Armando Polito

1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/25/gallipoli-le-cavallette-e-i-gabbiani/

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/11/il-ponte-tra-otranto-e-apollonia-con-uno-sguardo-al-presente-e-purtroppo-anche-al-futuro/

3 Singola unità familiare soggetta a fiscalità; in particolare su esso si basava la tassa personale detta focatico.

4 È l’episodio delle guerre civili noto come l’assedio di Brindisi (49 a. C.).

5 E furono le cosiddette guerre pirriche, condotte da Pirro alleato dei Tarantini contro i Romani dal 280 al 275 a. C.

6 Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 11: Eodem tempore Tarentinis, qui iam in ultima Italia sunt, bellum indictum est, quia legatis Romanorum iniuriam fecissent. Hi Pyrrum, Epiri regem, contra Romanos in auxilium poposcerunt, qui ex genere Achillis originem trahebat. Is mox ad Italiam venit, tumque primum Romani cum transmarino hoste dimicaverunt. Missus est contra eum consul P. Valerius Laevinus, qui, cum exploratores Pyrri cepisset, iussit eos per castra duci, ostendi omnem exercitum tumque dimitti, ut renuntiarent Pyrro quaecumque a Romanis agerentur. Commissa mox pugna, cum iam Pyrrus fugeret, elephantorum auxilio vicit, quos incognitos Romani expaverunt. Sed nox proelio finem dedit; Laevinus tamen per noctem fugit, Pyrrus Romanos mille octingentos cepit et eos summo honore tractavit, occisos sepelivit. Quos cum adverso vulnere et truci vultu etiam mortuos iacere vidisset, tulisse ad caelum manus dicitur cum hac voce: se totius orbis dominum esse potuisse, si tales sibi milites contigissent (Nello stesso tempo ai Tarantini, che sono nell’Italia meridionale, fu dichiarata guerra poiché avevano offeso gli ambasciatori dei Romani. Essi contro i Romani chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, che traeva origine dalla stirpe di Achille. Egli venne subito in Italia e allora per la prima volta i Romani combatterono con un nemico d’oltremare. Fu inviato contro di lui ilconsole Publio Valerio Levinio, il quale, avendo catturato i ricognitori di Pirro, comandò che fossero condotti per l’accampamento, che fosse mostrato loro tutto l’esercito e che poi fossero lasciati andare per riferire a Pirro tutto ciò che dai Romani si faceva. Attaccata subito battaglia, Pirro, mentre si dava già alla fuga, vinse con l’aiuto degli elefanti dei quali I Romani, non conoscendoli, ebbero paura. Ma la notte pose fine al combattimento: Levinio tuttavia durante la notte fuggì, Pirro catturò milleottocento romani  e li trattò col massimo onore, seppellì quelli uccisi. Si dice che, avendoli visti giacere pure da morti col petto ferito e con lo sguardo fiero, levò le mani al cielo dicendo che gli sarebbe stato possibile essere il padrone di tutto il mondo se gli fossero toccati tali soldati).

7 Qui considerata come appartenente alla Terra d’Otranto per la sua posizione al confine con l’odierna provincia di Taranto.

8 Oggi Mottola.

9 Oggi Nardò.

10 Si tratta del tentativo di Enrico II di Lorena, duca di Guisa, d’impadronirsi del Regno di Napoli.

11 Cesare Miroballo; acquisì il titolo di principe di Castellaneta nel 1633 alla morte della moglie Giovanna Bartirotti d’Aragona, marchesa  d’Illicito e 4a principessa di Castellaneta. Da notare come l’autore della guida, dopo le notizie datate sulle altre località, ha voluto chiudere la sua descrizione della Terra d’Otranto con un episodio recentissimo riguardante Castellaneta, in omaggio a quello spirito di grandeur che non ci rende certo simpatici i nostri cugini francesi …

Dialetti salentini : benettanima e cancarena

di Armando Polito

Se dovessi sintetizzare con un’espressione semplice e da tutti comprensibile  le caratteristiche che per motivi opposti contraddistinguono i due vocaboli, potrei direi che c’è chi perde e c’è chi acquista. Nel nostro caso in linguistica il primo fenomeno si chiama sincope, il secondo epentesi.

Benettanima è ciò che resta, addirittura, di un’originaria locuzione benedetta anima.

Sistemato il vocabolo sul piano formale,  va aggiunto che l’appellativo è riservato al trapassato e, siccome i morti meritano, comunque, rispetto, non deve far meraviglia se benettanima è chiamato pure chi in vita ne combinò di cotte e di crude, tanto da essere definito, magari anche dai parenti più stretti, fino a qualche istante prima di spirare, nna cancarena.

E qui siamo ad una voce in cui si osserva l’epentesi di a rispetto a cancrena. Il fenomeno è antico e non esclusivo del salentino e dei dialetti meridionali, tant’è che ricorre in testi di medicina del XVI secolo  (p. e. : in Camillo Ferrara, Nova selva di cirugia,  Carampello, Venezia, 1596.  p. 92r si legge:  Prima, acqua, e buona per le piaghe vecchie, et il cancaro, et cancarena , et lupa …; tuttavia ho l’impressione che nel salentino l’epentesi assolva ad un’esigenza più di enfasi espressiva che di facilitazione articolatoria.

 

Dialetti salentini: ‘mpiticunare

di Armando Polito

Appartiene alla vastissima serie di vocaboli legati alla civiltà contadina e perciò il primo che l’inventò ed i successivi utenti a loro insaputa utilizzarono quella figura retorica che si chiama similitudine. Ora che la civiltà contadina non è più in contrapposizione rispetto a quella che in passato poteva essere chiamata “dotta” e ha instaurato un rapporto con la natura teso unicamente al profitto (nell’immediato massimo e col minimo costo) per il quale il rispetto della natura, e non solo, poco o nulla conta, la sola etimologia è in grado di ricostruire, ma non di recuperare …, valori, anche estetici, universalmente considerati obsoleti, con il rischio, fra l’altro, che la sua ricostruzione non procuri nemmeno un momento di riflessione o, addirittura, sia non compresa o fraintesa.

In ‘mpiticunare vanno isolati due segmenti: il primo è ‘m, che è ciò che rimane della preposizione in dopo l’aferesi e il normale passaggio fonetico di n in m davanti a p; il secondo è *piticunare (l’asterisco ad indicare che questa voce semplice non è attestata nell’uso). *Piticunare è voce verbale derivante dal sostantivo *piticone, non in uso a Nardò, ma variante di petacune e petecune, in uso in altre zone del Salento, dove designa il tronco dell’olivo o il gambo di un frutto (per quest’ultimo a Nardò è in uso piticinu, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/);  petecune, poi, è usato in senso traslato ad indicare un uomo pesante che si muove poco e, con ulteriore passaggio dal corpo all’anima, anche uno avaro.

Petacone e petecune suppongono un latino *pedicone(m) accrescitivo di pes/pedis (piede)1, come in Cicerone(m), il celebre oratore Marco Tullio, da cicer=cece, cui somigliava una verruca sul naso, suo o di qualche antenato; per altri legumi coinvolti:  Lentulo da Lentulu(m), da lens=lenticchia, Fabio da Fabiu(m) da faba=fava, Pisone da Pisone(m), da pisum=pisello. Mentre Cicerone(m) e Pisone(m) appaiono formati dai rispettivi temi del nome primitivo (cicer– e pis-) con aggiunta del suffisso accrescitivo –one(m) , *pedicone(m) mostra aver aggiunto al tema del nome primitivo (ped-) un infisso –ic– già utilizzato da pedica=laccio (evidentemente applicato al piede) e poi il suffisso accrescitivo –one(m).

Se in petacone/petecune dal significato originario di piede, tronco dell’olivo c’era stato un primo slittamento semantico nel particolare significato di uomo pesante che si muove poco e, ancor più, in quello di avaro, ‘mpiticunare porta alle estreme conseguenze l’iniziale similitudine, perché significa trattenere qualcuno nell’immobilità o in uno stato d’incertezza.

Lasciando ad ognuno la libertà di trarre le sue conclusioni, non posso non condensare le mie nell’amara constatazione che il padre di tutto  quanto fin qui detto, l’ulivo, un tempo simbolo di vita, fermezza, solidità,  maestosità e sacralità, già umanamente traviato nel significato traslato del verbo appena analizzato, non è più patrimonio, anche estetico, della nostra terra e il suo destino è diventato emblema di precarietà e morte. E la già dolente immagine di testa a breve farà la stessa fine di quella del patriarca che nelle famiglie di ogni grado sociale  fino a qualche decennio fa almeno campeggiava devotamente sul comò …

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1 Per gli altri suoi derivati vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/21/un-post-scritto-con-i-piedi/

Francavilla e il culto della Madonna della Fontana

di Mirko Belfiore

L’origine della città di Francavilla Fontana, si perde nelle pagine della storia fra mito e realtà. Alla mancanza di fonti documentarie coeve, leggenda e tradizione concorrono a colmare le croniche lacune storiografiche che ancora oggi permangono. Ciò che sopravvive senza affievolirsi, è la devozione di una popolazione che, il 14 settembre, continua a riunirsi festante sotto la statua lignea della sua Santa protettrice, la Madonna della Fontana.

Maria SS. della Fontana (Statua Lignea, XVIII secolo, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)

 

La leggenda del cosiddetto “Rinvenimento dell’icona”, rimanda al ritrovamento fortuito, durante una battuta di caccia, di un’icona, forse bizantina del XIV secolo o molto probabilmente un affresco del XVI secolo, che riproduce una Vergine Hodighitria, ancora oggi conservata gelosamente in una cappella della Collegiata del Santissimo Rosario.

Basilica of SS. Rosario. Francavilla Fontana

 

Ecco la descrizione che dell’avvenimento, secondo le parole dell’autore locale Pietro Palumbo: “Allettato dalla natura selvaggia del paesaggio, nella mattina del 14 settembre del 1310 (anche se lo stesso in una delle prime edizione menziona il 14 agosto), il principe Filippo, da Casivetere si spinse a caccia nel largo bosco che si spandeva a nord della Villa del Salvatore fin verso Grottaglie e Ceglie. Lo accompagnavano patrizi tarentini e molti signorotti dei casali vicini. Sellati i cavalli e tolto il guinzaglio ai cani l’ingordigia della preda fè diramare per ogni verso la compagnia dei cacciatori. Mastro Elia Marrese, secondo la tradizione pedone di Casavetere e secondo alcuni storici, di Taranto snidò un cervo e rallegrato dalla buona fortuna armò la balestra e seguitate le peste, lo raggiunse nel seno di una folta boscaglia. Subito scoccò il dardo. Ma in punto fu preso da un sacro terrore alla vista di un fenomeno che alla sua mente grossolana parve strano. La freccia, che aveva balestrata contro il cervo, era tornata in un lampo contro di lui con grave pericolo di vita. Che poteva essere? Immantinente si avvicinò al cespuglio, e più ancora stupito, vide che il cervo non era fuggito ma tranquillamente beveva nell’acqua di un laghetto. Meravigliato suonò il corno a richiamo degli altri cacciatori i quali in un attimo corsero sul luogo. Il Principe stesso sceso da cavallo diè ordine si tagliassero i rami della boscaglia e si facesse un po’ di largo. Allora si scopersero tra gli sterpi e i roveti le fondamenta screpolate di un’antica muraglia e su di questa dipinta a mezzo busto una Madonna col bambino tra le braccia, di proporzioni naturali e che si credè di pennello greco, e nascosta là indubbiamente ai tempi delle persecuzioni contro le immagini. A tal vista proruppero tutti in gradi di allegrezza e il principe Filippo nella piena superstiziosa gridò di essere ciò avvenuto per espresso volere di Dio il quale sarebbe servito di un cervo per condurli colà dove posava negletta l’immagine veneranda.”

Il Ritrovamento dell’icona bizantina (Domenico Carella, 1778, olio su tela, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).

 

Secondo la cronaca ufficiale quindi, il principe di Taranto Filippo I d’Angiò (1278-1332), immediatamente dopo l’eccezionale ritrovamento, diede l’ordine di edificare un tempio a memoria dell’accaduto. Egli fece incorporare nell’edificio, il muro con l’effigie della Vergine, per evitare che questa costruzione, posta a poca distanza dal casale del Salvatore, all’epoca popolato, rimanesse fuori dal centro abitato. Promettendo terreni ed esenzioni da franchigie, per alcuni anni, il Principe tentò di incoraggiare gli abitanti dei casali vicini a popolare la zona. Decretò, inoltre, che il casale mutasse il proprio nome in “Franca Villa”, e a esso fu dato per simbolo l’albero d’ulivo posto fra le lettere F e V.

Stemma cittadino di Francavilla Fontana

 

Non si contano gli studi e i saggi sull’argomento: gli autori francavillesi P. Palumbo e Padre P. Coco, l’abate romano G.B. Pacichelli, l’Albanese nella sua storia del casale di Oria, il Marciano, il Tasselli che narra per l’appunto “dell’Invenzione del Ritrovamento dell’Icona” , P. Bernardino Da Lama, il Carducci, e soprattutto Domenico de Santo che insieme a P. Salinaro (entrambi frati cappuccini) fra il 1632 e il 1687, in pieno clima di riforma cattolica, confermarono e riscrissero la leggenda mariana.

Detto ciò, prima di analizzare le parole del testo, è giusto capire quanto abbia inciso nel territorio, il culto della Vergine della Fontana.

Secondo P. Primaldo Coco, fra i secoli XII e XIV, il culto della Madonna, sotto il titolo della Fontana, era ben presente in Meridione; esempi se ne trovano nella cattedrale di Brindisi dove vi era l’altare dedicato alla Madonna della Fonte e in un’importante iscrizione lapidea di epoca romana proveniente da un tempietto suburbano del brindisino dedicato al culto della Vergine, che dopo varie vicissitudini venne murato nella chiesa dei Cappuccini a Brindisi.

Non mancano importanti esempi a Roma o a Napoli, dove vicino al Castel Nuovo, residenza angioina, si trovava ubicata intorno al XIV secolo, una chiesetta dedicata a Santa Maria della Fontana. È presumibile, ma non pienamente documentabile, che il principe d’Angiò abbia denominato l’immagine sacra francavillese e il complesso religioso, con l’appellativo della Fontana, in continuità con la sua grande devozione per la Vergine Maria.

Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)

 

Voce fuori dal coro è quella di Cesare Teofilato, insigne scrittore locale e sindaco della città durante i primi anni del XX secolo. Dalle sue opere si può desumere la sua più completa avversione, sia alla tesi sul culto della Madonna della Fontana, che definisce una denominazione forestiera, sia alla leggenda del rinvenimento dell’icona, mito popolare che secondo lui, prese piede a Francavilla solo dal XVI secolo.

Egli sottolinea quanto il culto mariano della Fontana sia addirittura estraneo alla tradizione meridionale e rimandi invece a culti tipici dell’Italia settentrionale (lombarda o milanese) e introdotto nell’area dalle dominazioni straniere, come ad esempio quella dei Borromeo o degli Spinola. Il vero appellativo, quindi, rimane una scelta autoctona, da rimettere a una spontanea dedica popolare del tempio cristiano, al culto della Vergine Maria.

La chiesa, inoltre, venne eretta con rito greco, ormai vera rarità, vista la diffusione del rito latino per opera dei monaci benedettini fra il XI e il XV secolo, a discapito del rito ortodosso, già presente in area salentina.

Il Teofilato aggiunge che la chiesa del borgo si ergeva sui ruderi di un tempio di rito pagano, dedicato alla dea Flora, le cui rovine avrebbero dovuto estendersi fra le attuali chiese del Salvatore e la chiesa Matrice stessa. Ed è proprio in questo luogo che bisogna ubicare il leggendario laghetto e la cripta basiliana, dove venne ritrovata l’icona, riproducente l’effigie di S. Maria di Costantinopoli. Il culto della Vergine Hodighitria poi, doveva essere ben radicato, se nella piazzetta accanto al Duomo, si dette la denominazione di Largo Costantinopoli.

Da rilevare, infine, l’invocazione mariana che tutt’ora permane in un cartiglio tufaceo sulla facciata settecentesca della ricostruita Collegiata, “SITIENTES VENITE AD AQUAS”, presumibilmente in riferimento alle primitive consuetudini battesimali basiliane.

La decorazione che conclude il frontespizio e l’invocazione mariana “SITIENTES VENITE AD AQUAS”

 

Poco chiaro quindi come o in che tempi l’attributo “della Fontana” abbia preso piede a svantaggio del culto originale della Madonna di Francavilla, attestato comunque con certezza nel 1361, nel 1458 e nel XVI secolo, con il titolo di Madonna dei Miracoli e festeggiata il 24 gennaio.

Analizzando le parole tramandateci dal Palumbo e leggendo fra le righe del racconto si può scorgere una serie di simbologie attinenti sia alla storia sacra quanto a quella pagana.

L’immagine del cervo, per esempio, può essere accostata alle anime che vanno ad abbeverarsi alle acque della grazia che scaturiscono dalla Vergine SS.ma, chiamata spesso “Fons Aquarum viventium”.

Per la topografia francavillese, questo accostamento Acqua/Madre ben si confà con le condizioni “altimetriche, planimetriche e del suolo” dei terreni, dei boschi, dei laghi e delle risorgive, che in maniera copiosa caratterizzavano la pianura e che si fondono perfettamente con gli antichi riti di purificazione di origine pagana e paleocristiana.

Una lettura più profana potrebbe ricondurre l’avvenimento alla simbologia Cervo/Diana. La dea della caccia, portatrice di vita e protettrice delle fiere potrebbe essere una simbologia accettabile, vista la presenza nei dintorni di boschi e selve di ogni tipo, che verosimilmente potevano dare rifugio ad animali di ogni specie.

Insomma, le chiavi di lettura sono molteplici, ma un dato di fatto che possa mettere un punto certo sulla discussione può venire dallo studio e l’analisi di alcuni “rinvenimenti iconologici” analoghi a quello francavillese, come per esempio il ritrovamento della Madonna del Sagittario nella città di Francavilla a Sinni in Basilicata. Il racconto, riferibile all’autore Giorgio Lauro, e incentrato sulla vita del beato Giovanni da Caromo, sembra una riedizione in calce del “rinvenimento francavillese”: “veduta una bellissima Cerva, la quale come a diporto se ne andava: […] cavato dal turcasso, che giusta il costume di quei tempi alla spalla gli suonava, cavato dico un finissimo quadrello su l’arcol’adattò, e fino all’orecchio la corda tirando così dirittura la spinse fuora, che alla Cerva giunse, ma da Divina virtù, addietro rimandata per la via medesima il valente arcadore, senza ferirlo, colpì. […] senza punto badarvi caricò di nuovo l’arco, e tirollo e ‘l colpo questa seconda fiata ebbe il successo medesimo”.

Simili episodi poi, si notano anche in altre tradizioni: come quella della Madonna della Scala di Massafra, della Vergine di Cerrate o Cervate, di San Umberto, di San Eustachio o di San Manuflo, ritrovamenti che mostrano molte affinità con la leggenda francavillese. In conclusione, la possibilità dello sviluppo di un mito diciamo in serie, con simbologie polivalenti, e l’aggiunta di una serie concessioni come franchigie e agevolazioni potrebbe avere come fine ultimo il ripopolamento di zone abbandonate. Tramite questo espediente, i D’Angiò, avrebbero favorito la ricostruzione e l’incremento di nuovi nuclei abitativi.

Protagonisti di questo fenomeno furono soprattutto quei borghi situati in aree caratterizzate da favorevoli condizioni geografiche e climatiche; come sostiene Donato Palazzo: “privilegi e franchigie perciò vanno considerati […] come strumenti politici per legare alla terra i contadini, sollecitandone la concentrazione in comunità meno disperse e meno dispersive”.

In conclusione, un’analisi comparata fra l’origine di Francavilla e gli altri centri sorti nello stesso periodo, sotto la spinta di eventi simili simbolici e portentosi, porta a non escludere quest’ultima tesi.

Per quanto riguarda la data di fondazione il parere non è unanime. Non v’è certezza sulla data tradizionale del 14 settembre 1310, e le varie ipotesi proposte dai diversi storici e autori, fanno oscillare la fondazione dal 1308 al 1324, in alcuni casi collocandola nel secolo precedente.

L’indicazione relativa al giorno 14 settembre, pare sia stata introdotta posteriormente al XIV secolo, e più precisamente intorno al 1565. In quell’anno, non si celebrava ancora una festa patronale e l’Arcivescovo di Brindisi e Oria, Giovanni Carlo Bovio, compì la sua visita pastorale nella chiesa Matrice proprio in quel giorno, senza che vi fosse pronunziata nessuna liturgia solenne.

Un nodo cruciale e pieno di interrogativi, è rappresentato dalla Bolla o Breve sulle “Indulgenze concesse il 29 agosto 1330 da frate Marco De Castro Fiorentino dell’ordine di S. Giacomo De Altopasso, sostituto dell’Arcivescovo di Otranto e Commissario del Papa Giovanni XXII, al popolo di Francavilla, quando venne a predicare la crociata in favore di Gualtiero IV Brienne”, concesse in perpetuum ai fedeli francavillesi che il 14 settembre avessero visitato la sacra immagine della Madonna della Fontana di Francavilla.

Litografia del XVIII secolo raffigurante la leggenda del ritrovamento dell’icona bizantina.

 

La storia ci tramanda che la pergamena venne rintracciata e restaurata, intonro al 1785, dal Vescovo di Oria Monsignor Alessandro Maria Calefati, sospetto falsificatore.

Dal punto di vista storiografico, la pergamena è contestualizzabile nelle vicende dell’epoca, visto che fu bandita realmente una crociata, nel XIV secolo, per riconquistare i territori greci conquistati dai Catalani. Allo stesso modo, le figure di Gualtiero di Brienne, Duca di Atene e Conte di Lecce, e Giovanni XXII, Papa dal 1316 al 1334, sono documentabili con certezza.

Teofilato, accusa di falsificazione il Vescovo di Oria, il quale operò con la compiacenza del notaio Giuseppe Maria Imperio, autenticatore della pergamena.

Per onor di cronaca, a difesa di Monsignor Calefati si pose P. Primaldo Coco, che rigettò le accuse e innalzò il prelato a grande conoscitore e studioso delle vicende storiche francavillesi, il quale avrebbe avuto come unico scopo il rinverdimento della devozione alla Beata SS. Vergine Maria senza dietrologie, che essa fosse caratterizzata da un titolo o da un altro. Concentrandoci, invece, sulle fonti storiche accessibili e documentabili la “data di nascita” di Francavilla viene inevitabilmente retrodatata. Come afferma il Teofilato, a complicare la vicenda provvedono i rapporti di sangue fra la Corte angioina napoletana, i Principi di Taranto e i Conti di Lecce, tutti imparentati tra loro.

Il protagonista della leggenda francavillese Filippo I d’Angiò (1278-1332), divenuto principe di Taranto nel 1294, dopo la prigionia aragonese in Sicilia terminata il 19 marzo 1302, sposò nel 1313 Caterina, figlia di Balduino, contessa di Fiandra e imperatrice di Costantinopoli. Secondo il Coco, Filippo I fu in Puglia, dal settembre 1309 fino al 1311, incappando in un tentativo di congiura sistematicamente stroncato. Questo avvenimento, in parte secondario, viene utilizzato dal padre cappuccino per affermare con certezza perlomeno la presenza in loco del nobile angioino, visto che la sentenza di morte del capo della congiura, tale Siginulfo, “fu notificata al principe di Acaia e Taranto in qualità di Capitano generale a Guerra del regno”.

Naturalmente il documento non pone fine alla querelle sul “rinvenimento” ma aggiunge un altro pezzo al puzzle dei tradizionalisti. Dopo l’avvenimento, quindi, si creò una “zona franca” dove andarono a riunirsi gli abitanti di ogni casale vicino, richiamati da concessioni e privilegi raccolti in una pergamena che, secondo alcuni (Palumbo, De Simone e P. Salinaro), si presentava vergata con lettere d’oro e che rimase conservata fino al 1623 a Francavilla, per poi scomparire.

Di queste franchigie si conservò memoria a lungo e i successori del principe angioino non mancarono di confermarli; in primis re Ferdinando d’Aragona (1424-1494). Simili concessioni, verso la fine del medioevo, furono fatte un po’ ovunque all’interno del Regno di Napoli.

I feudatari dichiaravano luoghi di rifugio i posti dove si raccoglievano gli abitanti che fuggivano da oppressioni baronali e lotte civili, concedendo franchigie. Queste località divennero borghi franchi e più tardi città libere. Di parere opposto, tuttavia, è ancora Cesare Teofilato, il quale afferma “che le franchigie, come è noto, non ci furono mai, perché i feudatari riscossero sempre le decime su tutto l’agro francavillese e dei dintorni; né il vantato Editto principesco fu reso ostensibile, da chi avanzava i desiderati diritti di franchigie. Anche questo Editto è un enigma fumoso, di cui gli stessi cronisti della tardissima tradizione non sanno dar conto preciso. Tra essi c’è contradizione, incertezza, sbandamento: quell’impreciso, che annunzia il vuoto”.

Ciò di cui ormai siamo certi è che, il sito di Francavilla quindi, andò a svilupparsi durante il XIV secolo, in una pianura rigogliosa, ricca di colture cerealicole, all’interno della cerchia di alcuni importanti casali che via via andarono a spopolarsi per ingrossare il nuovo insediamento. Esso, in pochi secoli, divenne il punto nevralgico di tutta la regione convergendo tutte le arterie di collegamento con le città e gli insediamenti più importanti dell’area. Raccolse buona parte delle famiglie feudatarie della zona, desiderose di pace e sicurezza, e la gente povera dei dintorni la cui vita si era sviluppata vicino alle Specchie fortilizie messapiche e le numerose necropoli romano-cristiane.

A tutto ciò aveva già posto la sua attenzione l’abate Giovan Battista Pacichelli, il quale già a suo tempo, sottolineò la centralità di Francavilla nel XVIII secolo: ”Dal Mezzo dove hoggi è posta la Collegiata insigne di Francavilla, fino al promontorio di Japigia, dove sta situata la chiesa di Santa Maria di Finibus Terrae, vi sono sessanta nove miglia, et altro tanto dal mezzo di detta Colleggiata sino alla riva del Fiume Bradano, che divide la Provincia d’Otranto dalla Basilicata, nove miglia distante da Matera. Per traverso poi dal Mare Jonio, o Adriatico sino al Mare Tarentino, dal mezzo di detta chiesa sino a Taranto sono venti miglia, e venti altre sino a Brindisi, di modo, che il luogo dove fu trovata la Santa Immagine rimane per centro di tutta la Provincia d’Otranto, quasi ella sia il Soccorso, e Protettione di tutta la Provincia”.

Insomma, la questione rimane aperta.

 

Bibliografia
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T.N. D’Aquino, Delle Delizie Tarantine, Libri IV, prima edizione a cura di C. Atenisio Carducci, Napoli 1771.

Dialetti salentini: piticinu

di Armando Polito

Il corrispondente italiano è peduncolo e con esso condivide la base etimologica, cioè il latino pes (pedis al genitivo), che vuol dire piede. A questa base risulta aggiunto un suffisso diverso: in peduncolo il suffisso è -uncolo, che ha valore diminutivo, a volte con connotazione peggiorativa, come in foruncolo (da una base fur, genitivo furis, che significa ladro; infatti in origine indicava la gemma della vite che toglie linfa al ramo principale), ladruncolo (da una base latro, genitivo latronis, che può significare soldato mercenario, bandito, cacciatore, pedina degli scacchi), omuncolo da una base homo, genitivo hominis, che significa uomo. La connotazione peggiorativa di questo suffisso è presente perfino nel nome di un fiore, il ranuncolo, la cui base è, con tutto il rispetto per l’anfibio, rana. Lo stesso dicasi di carbuncolo (da una base carbo, genitivo carbonis, che significa carbone), sul cui significato obsoleto di rubino aleggia l’ombra nefasta di carbonchio, che ha lo stesso etimo. Stando a quanto si vede nella realtà e nelle foto di testa, solo il peduncolo della ciliegia sembrerebbe meritare per le sue dimensioni esagerate in rapporto alla taglia degli altri frutti la sfumatura peggiorativa del suffisso.

Più gentile e quasi riconoscente, comunque, a madre natura appare, invece, piticinu, che alla base già vista (in salentino piede è pete/pede) aggiunge il suffisso –icinu (corrispondente all’italiano –icino, sempre con valore diminutivo, ma talora con connotazione affettiva o attenuativa: lumicino, cuoricino, morticino, ossicino, etc. etc.).          

Zinzulusa: una grotta e un toponimo tra fantasia e realtà (2/2)

di Armando Polito

Tra i numerosi lavori non inclusi in Opera omnia c’è anche Descrizione della grotta della Zinzanusa, ossia dell’antico tempio della dea Minerva in Castro Minerva ne’ Salentini, s. n., Napoli, 1807 (estratto dal Giornale enciclopedico di Napoli, anno II, tomo I, gennaio 1807). La descrizione del Monticelli trovò ospitalità anche all’estero, tanto da comparire, con alcuni rimaneggiamenti dovuti molto probabilmente all’anonimo giornalista (l’articolo reca il titolo Description de la grotte Zinzanusa, ou de l’ancien temple de Minerve, près de laville de Castro, dans la Pouille e subito dopo si avverte il lettore che si tratta di un extrait d’una lettre de Naples, écrite vers la fin de mai 1809) sulla parigina Gazette nationale ou Moniteur universel del 13 settembre 1809. A conferma del detto nemo propheta in patria debbo dire, però, che il primo lancio della notizia avvenne sul Journal de Paris di lunedì 29 settembre 1806.  Il lettore che ne voglia fare conoscenza diretta troverà di tutti e tre la riproduzione integrale, corredata della mia traduzione, nell’appendice documentaria alla fine del post (rispettivamente: l’articolo del 1806 al n. 1, quello del 1897 al n. 2 e quello del 1809 al n. 3). Potrà, così, condividere o meno ciò che a me è apparso evidente, cioè il contrasto tra l’accesa e forse interessata fantasia del vescovo, l’enfasi giornalistica e l’acribia dello scienziato che, al di là delle pur pertinenti osservazioni di erudizione storica, subordina il giudizio finale alla constatazione de visu della situazione da parte di persone d’indubbia e disinteressata competenza, nonché il pudore e l’umiltà con cui un mineralista di fama internazionale, qual era il Monticelli, giudica, con riserva (perché costretto a fidarsi della descrizione del vescovo), i suoi cristalli di Rocca. Mi meraviglio come un ricercatore come il brindisino non abbia sentito il bisogno di fare una capatina alla Zinzulusa e con malizia formulo il sospetto che avesse capito tutto, pur senza vederla. Quanto al mancato intervento del re, nonostante i rispettosi ma incalzanti inviti del vescovo che nell’ultima lettera rinunzia al colloquio diretto col sovrano e cerca la raccomandazione del cardinale Stefano Borgia, mi chiedo se oggi le cose siano granché cambiate …

Tornando all'”interpretazione” della grotta, il primo a liberarla dalle superfetazioni del vescovo fu Gian Battista Brocchi. In Osservazioni geologiche fatte nella Terra d’Otranto, in Biblioteca italiana o sia giornale di letteratura, scienze ed arti, tomo XVIII, anno V, aprile, maggio e giugno 1820, pp. 52-67 e poi in Giornale costituzionale del Regno delle due Sicilie di mercoledì 21 marzo 1821, il geologo di Bassano del Grappa, fra l’altro, scrive: Sotto Castro … sta la grotta Zinzolosa più celebre per le bugie che ne sono state dette, che per quello che realmente presenta. Una capricciosa descrizione ne fu pubblicata nel giornale enciclopedico di Napoli (gennaro, 1807) [vedi il documento nell’appendice della prima parte] ove per primo si sbaglia nel nome chiamandosi la grotta della Zinzanusa, quando realmente s’intitola così come ho scritto , essendo quello un epiteto derivato dal sostantivo zinzoli che nel dialetto del paese significa cenci, epiteto che fu suggerito dalle stalattiti pendenti. Monsignore del Duca, vescovo di Castro, estinto da pochi anni fa, volle un singolar modo di nobilitare questa caverna immaginando che in essa fosse il tempio di Minerva fabbricato da Idomeneo. Il buon vescovo, come fui accertato, non penetrò mai in quel sotterraneo, ma in sua vece inviò due canonici onde esplorare il luogo, i quali lo ragguagliarono delle grandi cose ivi vedute. S’immaginarono quei messaggieri di vedere tronchi di colonne, e capitelli, e cornici nelle stalattiti naturalmente formate dall’acqua, e d’altro non fu mestieri per trasformarsi quella caverna in un tempio, e nel tempio di Minerva. Conviene pur credere che sia questo un luogo fatale riguardo alle bugie, poiché oltre a queste che sono stampate, altre a me ne spacciarono gli abitanti di que’ paesi. In Otranto fui assicurato che trovasi colà gran copia di testacei impietriti, quando non ve n’ha il menomo indizio. A Minervino mi si disse che potevasi senza sussidio di fiaccole spaziare per la caverna, essendo bastevolmente rischiarata da alcuni alti spiragli, quando ivi tutto è buio e soltanto in un luogo v’ha un pertugio donde trapela un filo di luce. A Cerfignano fui ragguagliato essere essa distante tre miglie e mezzo da Castro, e che è forza di fare questo tragitto per mare, quando la lontananza non è che di mezzo miglio all’incirca, e se il mare sia turbato si può calare agevolmente da una rupe contigua, ed essendo ivi pronta una barca col traghetto di cinquanta passi più o meno si approda all’imboccatura. Questa grotta adunque è riposta in un curvo seno del mare di Castro, dove la rupe calcaria incavata a guisa di mezza cupola o di padiglione sovrasta ad un basso fondo in cui vegetano sott’acqua molte piante marine. Copiosissima è l’Ulva umbilicalis che con le sue frondi bigie accartocciate a guisa d’imbuto diguazza in quelle onde, mentre la Corallina cristata copre di un rubicondo tappeto le pareti degli scogli circostanti. Arrampicandosi per una via non difficile su per li greppi si giunge ad una prima spelonca, che può essere risguardata come il vestibolo dell’altra più interna. Molte stalattiti pendono dalla sua volta formate di calcare lamellare e spatosa, ed havvi nel piano uno sprofondamento che era in quel tempo ricolmo d’acqua. Girando intorno al margine di quel baratro, e poco più su montando trovasi una stretta apertura la quale conduce in altri reconditi penetrali che non tutti ho visitato, dove di maggior mole, ed in maggior quantità sono le stalattiti: esse potranno avere sorpreso chi vide per la prima volta simili sotterranei, ma riescono pressoché indifferenti a coloro che si sono internati in tante altre più magnifiche grotte negli Appennini, fra le quali certamente primeggia quella di Collepardo ne’ monti degli Ernici. Il sig. Monticelli che pubblicò per compiacimento un transunto della memoria del vescovo di Castro, non erasi recato sul luogo, altrimenti quell’oculato naturalista ne avrebbe somministrato una più veridica descrizione.

E Giuseppe Ceva-Grimaldi nel suo Itinerario da Napoli a Lecce e nella provincia di Terra d’Otranto nell’anno 1818, uscito, però, a Napoli nel 1821 (cioè un anno dopo le osservazioni del Brocchi) per i tipi di Porcelli a Napoli non rinunciava all’ironia e, dopo aver riportato in traduzione parte dell’articolo francese del 1806 (senza citare la testata) a p. 61 così commentava: Peccato che questa bella descrizione serva appena ad ornare uno dei moderni romanzi! E, alla fine della sua descrizione: Qui terminala grotta Zinzanusa o Zinzolusa,secondo la denominazione del paese; originata forse dagli stalattiti che a guisa di cenci, chiamati nel paese zinzoli, si vedono pendere nella seconda conca, già descritta.   

Chiarita definitivamente l’origine totalmente naturale della grotta, passo ora ad un argomento che non esclude a priori, come nessun campo dello scibile umano, la fantasia, ma richiede che essa sia asservita ad un vigile spirito critico: l’etimo di Zinzulusa. È questo il toponimo attuale, ma in passato erano in uso altre varianti. Prima di intraprendere l’analisi etimologica è opportuno prenderne contezza.

Così della grotta scrisse Girolamo Marciano (1571-1628) in Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855, p. 372: Giace la città di Castro sopra un’alta ed inespugnabile rupe, la quale dall’oriente ha il mare basso e profondo, dall’occidente e tramontana il castello, che soprastà ad una profonda valle, e dall’istro la stretta schiena di un colle eminente al mare, che la rendono fortissima e di sito inespugnabile. Sono intorno alla marina di essa città valli dilettevoli, e freschissime grotte, alcune asciutte, ed altre con acque marine e dolci, ricetti di varie specie di pesci; delle quali la più nobile e meravigliosa chiamano la grotta Zenzenosa.  Il lettore non si lasci ingannare dalla data di pubblicazione del volume, che uscì postumo con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (1638-1685).

Allo Zenzenosa del Marciano subentrano, via via, già incontrati, lo Zinzanusa nel Del Duca, nell’Alfano, nel Monticelli e nel Romanelli, Zinzolosa nel Brocchi (come in Ulderigo Botti, La Zinzolosa. Monografia geologico-archeologica, Firenze, Barbèra, Firenze, 1874 e in Cosimo De Giorgi (Note geologiche sulla provincia di Lecce, v. I, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1876, passim), Zinzanusa o Zinzolusa nel Ceva-Grimaldi. S’incontra poi Zinzulusa o Zinzinusa in Archivio per l’antropologia e la etnologia, Stab. Tip. Lit. ed Elettro Galv. G. Pellas, Firenze, 1905, p. 163. Tuttavia Gianluigi Lazzari nel lavoro che più avanti citerò, in particolare, per quanto riguarda la variante Zinzinusa, scrive che l’attestazione più antica è nelle copie degli atti della Platea di Castro del 1665 e nel Catasto della città dell’anno 1742/1749. Faccio notare che l’attestazione del Marciano (Zenzenosa)  è anteriore, sia pure di poco.

E siamo all’etimo. il Rohlfs nel Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 così tratta il lemma Zinzulusa: Grotta naturale che si apre sul mare nelle vicinanze di Castro, piena di stalattiti [chiamata così per i coni pendenti: ‘stracci di una veste lacera’]; v. zìnzulu, zinzulusu.

E a zìnzulu: cencio, straccio e grappoletti d’uva di tarda maturazione [cfr. il cal. zìnzulu id., gr. mod. τσάντσαλον” (leggi tsàntsalon) id.].

Il maestro tedesco mostra di seguire l’opinione corrente che collegherebbe il nome proprio della grotta con le sue stalattiti che sembrano cenci. Questa interpretazione metaforica risale proprio (anche se lì il riferimento è all’ingresso frastagliato dalle onde del mare) al nostro vescovo (vedi a p. 389 del documento riportato nell’appendice a corredo della prima parte la parte di testo sottolineata), ripresa successivamente nella citata memoria del Brocchi.

Lavorando sulla variante Zinzinusa, Armando Perotti (1865-1924), basandosi sul fondato assunto che spesso i toponimi sono legati ad una specie vegetale particolarmente abbondante in loco, aveva ipotizzato agli inizi del secolo scorso che il toponimo Zinzinusa fosse legato al giuggiolo. Tale ipotesi è stata ripresa e sviluppata da Gianluigi Lazzari e Sotirios Bekakos in A proposito del toponimo “Zinzinusa”, la celebre grotta di Castro in Terra d’Otranto, in Thalassia Salentina, v. XXVI, suppl. (2003) (già pubblicato in parte in Note di Storia e Cultura Salentina, X-XI, Argo, Lecce, 1998/99, pagg. 117-129). Di seguito, riprodotta in formato immagine,  la trafila da loro ipotizzata, partendo dal nome del giuggiolo in greco classico: ζίζυφον (leggi zìziufon).

 

Quando si parte da un’ipotesi di lavoro (in questo caso il collegamento toponimo-specie vegetale), è fatale che il metodo deduttivo diventi condizionante e spinga a “forzare” qualche dato pur nel nobile intento di confermarla. Ecco le mie osservazioni anche su passaggi fonetici che ritengo non proprio lineari:

a) Non capisco per quale motivo dal minuscolo (a parte l’iniziale di ζίζυφον) si sia passati al maiuscolo (sia pure non greco) di 3, 4 e, in parte 5, dove alla fine, nonché nelle conclusioni, viene ripreso il minuscolo (a parte, sempre, l’iniziale). Può darsi che il set di caratteri greci allora disponibili non consentisse di fare meglio.

b) Al n. 1 in ΖΙΖΨφΟΝ compare al quarto posto Ψ (si legge psi) che ha sostituito, senza giustificazione alcuna, la υ di ζίζυφον, per cui la lettura di ΖΙΖΨφΟΝ sarebbe zìzpsfon.

c) Al n. 2 in ZINZIFO si nota l’epentesi di N, che sarebbe giustificata solo se partendo dalla voce latina zizyphum si fosse ipotizzata una geminazione espressiva (zizzyphum) e successiva dissimilazione (zinzyphum).

d) Al n. 3 viene proposta una sostituzione di F con L senza il supporto di altri casi.

e) Al n. 4 viene attribuito a Galeno ZIZULA’. Pur tenendo presente la giustificazione da me stesso addotta alla fine del punto a), non posso fare a meno di dire che l’esatta scrittura sarebbe stata in maiuscolo ΖΙΖΟΥΛΑ e in minuscolo ζιζουλά (in entrambi i casi si legge zizulà). Se l’inghippo si riducesse a questo dettaglio formale, non avrei perso tempo, tanto più che ZIZULA’ corrisponde esattamente alla pronuncia che ho appena annotato. Il problema è che tale voce (ζιζουλά) a quanto ne so, non compare nemmeno una volta in Galeno, nel quale, invece, si legge, per indicare il giuggiolo, la voce σηρικά (leggi sericà). Ecco il brano che ci interessa, di Περὶ τῶν ἐν ταῖς τροφαῖς δυναμένων (Le proprietà negli alimenti), libro I, capitolo 32; nel testo σηρικῶν è genitivo plurale (il nominativo è σηρικά).

Περὶ τῶν καλουμένων σηρικῶν. Οὐδὲ τούτοις ἔχω τι μαρτυρῆσαι πρὸς ὑγιείας φυλακὴν ἢ νόσων ἴασιν.  Ἔδεσμα γάρ ἐστι γυναικῶν τε καὶ παιδίων ἀθυρόντων, ὀλιγότροφόν τε καὶ δύσπεπτον ὑπάρχον ἅμα τῷ μηδ’ εὐστόμαχον εἶναι. Τροφὴν δὲ δῆλον ὅτι καὶ αὐτὰ δίδωσιν ὀλίγην τῷ σώματι (Su quelle che sono chiamate giuggiole. Non ho per esse da attestare alcunché per la protezione della salute o la cura di malattie. Infatti sono alimento delle donne e dei fanciulli che giocano, essendo cibo di scarso nutrimento e di difficile digestione insieme col fatto che non è gradito allo stomaco. È chiaro che anche queste danno poco nutrimento al corpo).

Ad integrazione va detto che  ζιζουλά è presente in greco (non comunque, come ho detto, in Galeno) in Alessandro di Tralles (VI-VII secolo), Libri duodecim de re medica, VI, 5. Ecco la parte che ci interessa tratta dal capitolo che reca il titolo Περὶ ἐμπυημάτων (Gli ascessi): … ἀπὸ τῆς Ἀλεξανδρίας μικρὸν ϕασίολον ἢ τὸ λεγόμενον ζιζουλὰν ἢ ἔλυμον ( … da Alessandria un piccolo fagiolo o quella che è detta giuggiola o miglio). Debbo dire che solo se (o) ha valore disgiuntivo, cioè non vale come altrimenti detto, ζιζουλὰν, vale giuggiola, altrimenti sarebbe sinonimo di miglio e, come quello, simile ad un piccolo fagiolo, immagine che non evoca certo quella della giuggiola.

Infine in un epigramma di Pallada (IV-V secolo), Antologia Palatina, IX, 503,  è presente la variante δίζυφον (leggi dìziufos) che sembra, rispetto a ζίζυφον , foneticamente parlando, un passo indietro, dal momento che ζ nasce dalla fusione di δ+j: Οὐκ ἀλόγως ἐν διζύφοις δύναμίν τινα θείαν/εἶναι ἔφην. Χθὲς γοῦν δίζυφον ἐν χρονίῳ/ἠπιάλῳ κάμνοντι τεταρταίῳ περιῆψα,/καὶ γέγονεν ταχέως, οἷα κρότων, ὑγιής (Non senza motivo ho detto che nelle giuggiole c’è una qualche forza divina. Ieri per esempio l’ho somministrata ad uno che era malato cronico di febbre terzana e rapidamente è divenuto sano come se fosse stato ricino).

Sempre al n. 4 la L, che in 3 aveva sostituito la F ritorna in campo,  con uno strano ed opportunistico andirivieni, in ZINZINU.

E quasi a sigillare l’incertezza che, a differenza della natura della grotta, continua ad aleggiare, secondo me, sull’etimo del toponimo, chiudo con una poesia, che a tal proposito sembrerebbe profetica, del citato Perotti:

Dormi nel tuo mistero o Zinzulusa!/Noi lo tentammo questo tuo mistero/con la religione di chi sospetta/ch’oltre la realtà cominci il vero.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/22/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-1-2/

 

 

                                                                   APPENDICE DOCUMENTARIA

1)

Dal Journal de Paris n. 272 del 29 settembre 1806

Traduzione:

Italia, Napoli, 3 settembre. Scopriamo ogni giorno nuovi tesori dell’antichità. Un magnifico tempio è stato ritrovato sul promontorio iapigio. Alla base della montagna di questo nome, che forma una punta avanzata nel mare, c’è una vasta grotta nella quale penetra il mare. Questa grotta serve d’asilo a degli alcioni e ad altri uccelli di mare. Il vescovo di Castro volle ultimamente entrarvi: prese una barca e si accorse che avanzando in questa grotta iol mare continuava ad essere navigabile. La grotta si allargava man mano che egli entrava. La curiosità del vescovo fu stimolata. Egli ritornò il giorno seguente per fare una visita più accurata. In effetti l’indomani penetrò fino al fondo e fu lì che con sua grande sorpresa coprì un magnifico tempio sostenuto da bellissime colonne del marmo più bello, dello stile più puro e dell’architettura dei bei templi della Grecia. Non ci si fermerà a questa prima scoperta.

 

2)

dal Giornale enciclopedico di Napoli, anno II, tomo I, gennaio 1807, pp. 341-354

 

3)

Dalla Gazette nationale ou Moniteur universel n. 256 del 13 settembre 1809.

Trascrizione:

MÉLANGES-ANTIQUITÉS

Description de la grotte Zinzanusa, ou de l’ancien temple de Minerva, près la ville de Castro dans la Pouille (Extrat d’un lettre de Naples, écrite vers la fin de mai 1809)

Près la petite ville de Castro, sous des rochers suspendus à pic, se trouvent plusieurs grottes où l’on descend dans de petits canots. La plus remarquable est la grotte Zinzanusa, qui a donné son nom aux autres, et dont les flancs sans cesse battus et creusés par les vagues, ressemblent de loin à des vêtemens déchirés. Ces grottes sont plateés au fond d’un petit golfe qui, s’avançant en demi-circle forme une espece de port. De ce port on n’apperçoit qu’un amas de quartiers de roc, disposés comme les marches d’un escalier; sur la plus haute de ces marches parait une voûte soutenue par un centaine de colonnes de pierre de taille. Au milieu de ces colonnes jaillit une source d’eau douce, et non loinde là se prolonge una galerie de rochers dangereux à parcourir, a cause de l’inégalité su sol et du gouffre d’eau effrayant au-dessus duquel elle s’avance. C’est au  bout de forme rectangulaire, la plus belle et la plus intéressante de toutes celles que l’on a visitées jusqu’ici dans ces rochers. Quatre rangs de colonnes soutiennent et decorent ce palais de la nature; les deux premiers ne sont formés que de demi-colonnes destinées à orner les murs; les deux autres offrent des colonnes entiers s’elevant isolées ou deux à deux. Elles sont toutes dans les mêmes proportions et divisent le rectangle en trois parties; les murs sont couverts d’inscriptions dont personne n’a su encore déterminer  le sens et même la langue. On y voit aussi de petites idoles et des statues, des images d’animaux, entr’autres celle du hibou, symbole de Minerve ἀθήνη, des fleurs, des fruits et des arabesques en pierre de taille et d’un dessin très pur. Dans l’une des trois divisions se trouve une large table soutenue de chaque côté par deux colonnes; le plafond est formé par la cavité elle-même à laquelle les murs sont adossés. La voûte un peu affaisée est garnie de cristaux brillans et assemblés sous les formes les plus élégantes; des stalactites du même genre tapissent les colonnes  et tout l’intérieur de la grotte; a la clarté des flambeaux, j’ai cru voir tous les prestiges dont l’imagination du poöte a peuplé le palais d’Armide. Les colonnes les plus élevées ont environ 70 palmes (20 pieds) de hauteur; leur diamètre a un peu plus de 2 palmes (8 pouces). De petites ouvertures pratiquées dans la muraille et fermées avec des pierres qui se déplacent, conduisent dans des grottes moin vastes, moins intéressantes, mais curieuses à voir. Par-tout  on reconnait la main de l’homme. Des restes de cendres et de charbons annoncent que ces lieux ont été autrefois habités. On y a même découvert des ossemens et des tombeaux. Dans l’une des cavités se troive un puits. Dans une autre est  une colonne plus haute que celle du temple; il y en a même une qui parait n’avoir pas été dressée et qui reste encore couchée sur le sol. Les grottes que l’on a découvertes renferment l’espace d’un mille. La plus grande est celle qui vient aprés la grotte rectangulaire; elle n’a pas encore été visitée. Sa profondeur, la boue dont elle est pleine et la puanteur qui en sort ont empêché d’y descendre. Dans toutes les cavités que l’on a parcourues, on n’a vu qu’une seule petite ouverture par où le jour puisse pénétrer. Le savant prélat, Mgr. Duca, évêque de Castro, avait envoyé à l’ancien gouvernement napolitain una petite statue et des morceaux de cristal que l’on avait eu beaucoup de peine à détacher; il proposait de faire visiter soigneusement cette grotte et de faire dessiner tout ce qui méritait  d’être  examiné; il donnait en même tems des détails sur l’antiquité et la destination de ces grottes, mais personne n’appuya ses conseils, et l’un des monumens les plus remarquables qui nous restent des tems anciens fut oublié. Il faut sans contredict attribuer cet ouvrage aux premiers habitans du royaume de Salente ou aux Grecs qui s’y établirent sous la conduite de Iapyx ou sois celle d’Idoménée. La fable et l’histoire se réunissent pour accorder à ce temple de Minerve, l’antoquité la plus reculée, et les merveilles qu’elles en racontent, l’avaient dejà rendù célebre chez les Anciens. Diodore, dans son 4e livre, et Strabon, au 5e et  6e livre de sa Géographie, rappellent qu’Iapyx fut envoyé par son grand-pere à la recherche de son pere Dédale qui avait pris la fuite; il aborda au promontoire d’Iapyx, nommé alors Leuternia, où Hercule, secouru par Minerve, avait défait les géans Leuterniens. Du sang des géans entassés se forma une source d’une eau puante. Cette source et les osemens non ensevelis indiquerent à Iapyx le théâtre de la victoire d’Hercule, et, soit par pitié, soit que la religion fût aussi alors le moyen dont se servaient les chefs des sauvages pour civiliser leurs barbares sujets, Iapyx éleva un temple à Minerve.

Ce récit, iu ce qu’il peut avoir de vraisemblabe, sert à déterminer assez exactement l’ancienneté du temple de Zinzanusa. Iapyx vivait à-peu-près cent ans avant la guerre de Troye, et comme d’après les marbres d’Arundel trouvés à Paros, il s’est écoulé 1209 ans entre cette guerre et la naissance de J. C., ce temple existe depuis 3117 ans. Plusieurs écrivains anciens, ent’autres Denys d’Halicarnasse, Servius et Vergile, s’accordent à dire que, long tems avant la chûte de Troye, il y avait sur la côte d’Iapyx un temple de Minerve trè-riche et très fameux. Quelques-uns joutent que l’on y gardait le Palladium, ou statue de Minerve, enlevé aux Troyens par Ulysse et par Diomede; d’autres disent que Diomede, après le sac d’Ilion, consacra à Minerve les armes d’or qu’il avit reçues de Glaucus, fils de Priam. Virgile s’est servi de la cèlèbrité de ce temple et l’a encore accrue en faisant border sur ce rivage Enée parti des bords Acro-Cérauniens ou de l’Epire, qui se trouvent vis à vis. Essayons de fixer, d’après la description, la place du temple de Minerve. Enée arrive en Epire, apprend d’Hélénus quelle route il doit suivre. Hélénus lui recommande de ne pas aborder ou du moins de ne pas s’arrêter sur la côte opposée à celle de l’Epire:

Proxima quae nostri profunditur aequoris aestu

effuge; cuncta malis habitantur moenia Graiis.

                                                  Aeneid. lib. 3, v. 397

Mais fuis la mer perfide et la côte d’Epire (1);

des Grecs, nos ennemis, ce bord est infesté.

Trad. de M.  Delille

Enée devait donc traverser la Mer-Adriatique; et comme les anciens navigateurs s’eloignaient peu des côtes, longer la presqu’il de Salente pour diriger ses voiles vers la Sicile. Il  devait descendre de nuit et sacrifier sur le rivage de l’Italie, mais selon les rits des habitans, pour ne pas être attaqué et traité en ennemi:

Hic et Narycii posuerunt moenia Locri

et Salentinos obsedit milite campos

Lyctius Idomeneus, etc.

Là des fiers Locriens s’éleve la cité …

et de Salente enfin inondant les sillous,

Idoménée au loin répand ses bataillons.

Enée part, et tandis qu’il fait voile le long des rivages Acro-Cérauniens, la nuit arrive; il s’arrête sur la côte la plus voisine de l’Italie:

Provehimur pelago vicina Ceraunia iuxta,

unde iter Italiam.

Nous côtoyons d’abord ces sommets escarpés

que les traits de la foudre ont si souvent frappés;

de là vers l’Italie un court trajet nous mene.

 

A minuite Palinure se leve et donne à la flotte le signal du départ; elle fait voile vers l’Italie:

Nec dum orbem medium nox horis acta subibat,

haud segnis strato surgit Palinurus.

 

Mais les heures déjá dans le silence et l’ombre

au milieu de sa course ont guidé la nuit sombre;

Palinure s’éveille et consulte les mers.

 

A la pointe du jour, Achates découvre l’Italie, Anchise invoque la faveur des dieux, et des vents favorables les poussent au port le plus voisin du royaume de Salente: c’est là que s’etrouve le temple de Minerve:

Cum procul obscuros colles, humilemque videmus

Italiam …..

……………………..Portusque patescit

Jam propior, templumque apparet in arce Minervae.

 

Lorsqu’insensiblement un point noir et douteux

de loin parait, s’eleve et s’agrandit aux Yeux:

C’etait le Latium (2)

On entrevoit le port, et voisin de la nue

le temple de Pallas se découvre à la vue.

 

Enée décrit le port; il est creusé en cercle vers l’Orient et ceint de rochers qui l’enviromnent comme des tours: on ne voit pas le temple quand on est dans le port:

Portus ab Eoo fluctu curvatir in arcum,

objectae salsa spumant aspergine cautes:

ipse latet. Gemino demittunt brachiamuro

turristi scopuli; refugitque a littore templum. 

Creusée à l’orient, son enceinte prosondé

contre les vents fougueux et les assauts de l’onde;

est ecourbée en arc où le flot mugissant

sans cesse vient briser son courroux impuissant.

A l’abri des rochers son rau calme repose;

des remparts naturels qu’à la vague il oppose

les fronts montent dans l’air comme une double tour;

leurs bras d’un double mur en ferment le contour,

et le temple que l’oeil croyait voir sur la plage,

recule à votre approche et s’en fuit du rivagé.

Qui ne reconnaît ici la description du port de Zinzanusa, tel que je l’ai donnée? Enée fait un sacrifice à Minerve; il part pour Tarente. Il voit de loin le temple de Junon Lucinia; tout cela convient partaitement à la position de Zinzanusa. J’ajouterai qu’à un mille de ces rochers se trouve encore une source d’eau soufrée, dont Aristote a fait mention. Je ne déciderai pas si le temple de Minerve, placé dans la grotte, était le seul consacré dans ces lieux à la déesse; peut être y avait-il au-déssus des rochers un édifice attenant à la forteresse. J’en ai dit assez  pour montrer que la grotte  de Zinzanusa merite de fixer l’attention de ceux qui observent la nature, et de ceux qui étudient l’antiquité; il serait très-interessant d’examiner  si ces vastes cavités ont été reusées par les eaux ou formées par de feux souterrains.

_________________________

(1) Ce vers est une erreur; c’est la côte opposée à l’Epire qu’Helenus recommande à Enée d’éviter.

2) Cette partie de l’Italie n’était pas le Latium.

Traduzione:

Miscellanea-antichità

Descrizione della grotta Zinzanusa o dell’antico tempio di Minerva, presso la città di Castro in Puglia (estratto da una lettera da Napoli scritta verso la fine di maggio 1809)

Presso la piccola città di Castro, sotto a rocce sospese a picco, si trovano parecchie grotte in cui si scende con piccole barche. La più degna di nota è la grotta Zinzanusa, che ha dato il suo nome alle altre e i cui fianchi senza posa battuti e scavati dalle onde somigliano da lontano ad abiti strappati. Queste grotte sono poste nel fondo di un piccolo golfo che, avanzando in semicerchio, forma una specie di porto. Da questo porto non si vede che un ammasso di gruppi di rocce disposti come i gradini di una scalinata, sul più alto di questi gradini appare una volta sostenuta in alto da una centina di colonne di pietra da taglio. Al centro di queste colonne sgorga una sorgente d’acqua dolce e non lontano da lì si prolunga una galleria di rocce pericolose a percorrerle a causa del dislivello del suolo e di un pozzo d’acqua da far paura al di sopra del quale essa avanza. È a corridoio di forma rettangolare, la più bella e la più interessante di tutte quelle che si sono visitate finora tra queste rocce. Quattro gruppi di colonne sostengono e decorano questo palazzo della natura; i primi due non sono formati che da semicolonne destinato ad ornare i muri; gli altri due presentano colonne intere elevandosi isolate o a due a due. Sono tutte delle medesime proporzioni e dividono il rettangolo in tre parti; i muri sono coperti da iscrizioni dellr quali nessuno ancora ha saputo determinare il senso  e neppure la lingua. Si vedono pure dei piccoli idoli e delle statue, immagini d’animali, tra le altre quella della civetta, simbolo di    Minerva Atena, fiori, frutti e arabeschi in pietra da taglio e di un disegno purissimo. In uno dei tre settori si trova una larga mensa sostenuta da ciascun lato da due colonne; il soffitto è formato dalla stessa cavità alla quale i muri sono addossati. La volta un po’ abbassata è guarnita di cristalli brillanti e assemblati sitto le forme più eleganti; stalattiti del medesimo genere tappezzano le colonne e tutto l’interno della grotta; alla luce delle torce ho creduto di vedere tutti i pregi dei quali l’immaginazione del poeta ha popolato il palazzo di Armida. Le colonne più alte hanno circa 70 palmi (20 piedi) di altezza; il loro diametro ha un po’ più di 2 palmi (8 pollici). Piccole aperture praticate nella muraglia e fermate con pietre che si muovono conducono in grotte meno vaste, meno interessanti, ma curiose a vedersi. Dappertutto si riconosce la mano dell’uomo. Resti di venere e carbone dicono che questi luoghi sono stati una volta abitati. Si sono scoperti pure ossa e tombe. In una delle cavità si trova un pozzo. In un’altra vi è una colonna più alta di quella di un tempio.

Ce n’era pure una che sembra non essere stata innalzata e che resta ancora coricata al suolo. Le grotte che si sono scoperte comprendono lo spazio di un miglio. La pioù grande è quella che viene dopo la grotta rettangolare; non è stata ancora visitata. La sua profondità, il fango di cui essa è piena e la puzza che se sorge hanno impedito di discendervi. In tutte le cavità che si sono percorse non si è vista che una sola piccola apertura attraverso la quale la luce possa entrare. Il saggio prelato monsignor Duca, vescovo di Castro, aveva inviato all’antico governo napoletano una piccola statua e dei pezzi di cristallo che si sera con molta fatica riusciti a staccare; egli proponeva di far visitare accuratamente questa grotta e di far disegnare tutto ciò che meritava di essere esaminato; dava allo stesso tempo dettagli sull’antichità e la destinazione di queste grotte, ma nessuno ha dato retta ai suoi consigli e uno dei monumenti più rimarchevoli che ci restano dei tempi antichi è stato dimenticato. Bisogna senza smentita attribuire quest’opera ai primi abitanti del regno di Salento o ai Greci che vi si stabilirono sotto la guida di Iapige o sotto quella d’Idomeneo. Il mito e la storia si uniscono per accordare a questo tempio di Minerva l’antichità più spinta e le meraviglie che esse ci raccontano l’avevano già resa celebre presso gli antichi. Diodoro nel suo 4° libro e Strabone nel 5° e 6° della sua Geografia ricordano che Iapige fu inviato da suo nonno alla ricerca di suo padre Dedalo che si era dato alla fuga; egli sbarcò sul promontorio di Iapige allora chiamato Leuternia, dove Ercole, soccorso da Minerva, aveva sconfitto i giganti Leuterni. Dal sangue dei giganti ammassato si formò una sorgente di un’acqua puzzolente. Questa sorgente e le ossa insepolte indicarono a Iapige il teatro della vittoria di Ercole e, sia per pietà, sia che la religione anche allora fu il mezzo del quale si servivano i capi dei saggi per civilizzare i loro barbari sudditi, Iapige elevò un tempio a Minerva. Questo racconto o ciò che esso può avere di verosimile serve a determinare assai esattamente l’antichità del tempio di Zinzanusa. Iapige viveva circa cento anni prima della guerra di Troia e, siccome come in base ai marmi di Arundel trovati a Paros sono passati 1209 anni tra questa guerra e la nascita di Gesù Cristo, questo tempio esiste da 3117 anni. Parecchi scrittori antichi , tra gli altri Dionigi di Alicarnasso, Servio e Virgilio sono d’accordo nel dire che parecchio tempo prima della caduta di Troia c’era sulla costa di Iapige un tempio di Minerva ricchissimo e famosissimo. Alcuni aggiungono che vi si custodiva il Palladio o statua di Minerva sottratto ai Troiani da Ulisse e da Diomede; altro dicono che Diomede, dopo il sacco di Troia, consacrò a Minerva le armi d’oro che aveva ricevuto da Glauco, figlio di Priamo. Virgilio si è servito della celebrità di questo tempio e l’ha ancora accresciuta facendo sbarcare su questa costa Enea partito dalle sponde  Acroceraunie o dall’Epiro, che si trovano di fronte. Proviamo a fissare, dopo la descrizione, la posizione del tempio di Minerva. Enea arriva in Epiro, apprende da Eleno quale rotta debba seguire. Eleno gli raccomanda di non accostarsi o almeno di non fermarsi sulla costa opposta a quella dell’Epiro:

Evita i luoghi vicinissimi che sono bagnati dall’onda del nostro mare; tutte le città sono abitate dai cattivi Greci. Eneide libro 3, v. 397

Ma fuggi il mare perfido e la costa dell’Epiro (1);

questa costa è infestata dai Greci, nostri nemici.

Traduzione di M. Delille

Enea doveva dunque attraversare il mare Adriatico e, siccome gli antichi navigatori si allontanavano poco dalle coste, costeggiare presso il Salento per dirigere le sue vele verso la Sicilia. Egli doveva sbarcare di notte e sacrificare sulla riva d’Italia, ma secondo i riti degli abitanti per non essere attaccato e trattato da nemico:

Qui pure i Naricii locresi hanno posto le mura e il licio Idomene occupa con la milizia i campi salentini, etc.

Là s’innalza la città dei fieri locresi … e infine invadendo i campi di Salento Idomeneo spande lontano le sue schiere.

Enea parte e mentre fa vela lontano dalle sponde acroceraunie arriva la notte; si arresta sulla costa più vicina dell’Italia:

Ci spingiamo per mare lungo i vicini Cerauni, donde la rotta per l’Italia.

Costeggiamo lungo questi scogli a precipizio che i colpi dell’onda hanno così spesso flagellato; da lì una corta rotta ci porta verso l’Italia.

 

A mezzanotte Palinuro si leva e dà alla flotta il segnale della partenza; essa fa vela verso l’Italia:

Non ancora la notte spintasi con le ore  era entrata nella metà del corso, si leva dal letto il non pigro Palinuro.

Ma le ore già nel silenzio e l’ombra hanno guidato la nera notte a metà della sua corsa; Palinuro si sveglia e osserva il mare.

Allo spuntare del giorno Acate scorge l’Italia, Anchise invoca il favore degli dei e i venti favorevoli li spingono al porto al porto più vicino del regno di Salento; è là che si trova il tempio di Minerva:

Quando lontano vediamo oscuri colli e la bassa Italia … e si apre un porto sempre più vicino e in cima appare il tempio di Minerva.

Quando poco a poco un punto nero e dubbio appariva da lontano, si eleva e s’ingrandisce agli occhi: era il Lazio (2). Si intravvede il porto e vicino al nudo il tempio di Pallade si scopre alla vista.

 

Enea descrive il porto; esso è scavato in cerchio verso oriente e cinto di rocce che lo circondano come giri: non si vede il tempio quando si è nel porto: 

Il porto dal mare orientale s’incurva ad arco,

le rocce battute dall’onda salata spumeggiano:

esso si nasconde. Allungano le braccia con un doppio muro

scogli a forma di torre e il tempio si allontana dal lido.

Scavato ad oriente, il suo circuito inondato

contro i venti furiosi e gli assalti delle onde;

è curvato ad arco dove il flutto che muggisce

senza posa viene a frantumare la sua ira impotente.

Al riparo delle rocce la sua acqua calma riposa;

delle barriere naturali che esso oppone all’onda

sollevano la fronte nell’aria come un doppio cerchio;

le loro braccia con un doppio muro fermano il profilo

e il tempio chel’occhio credeva di vedere sulla spiaggia

indietreggia al vostro avvicinamento e se ne fugge dalla costa.      

Chi non riconoscerebbe qui la descrizione del porto di Zinzanusa, tal quale io ho dato? Enea fa un sacrificio a Minerva, poi parte per Taranto. Vede da lontano il tempio di Giunone Lucinia.Tutto questo conviene dettagliatamente alla posizione di Zinzanusa. Aggiungerei che ad un miglio da queste rocce si trova ancora una sorgente d’acqua solforosa, della quale ha fatto menzione Aristotele. Io non arriverei alla conclusione se il tempio di Minerva posto nella grotta era il solo consacrato in questi luoghi alla dea; forse c’eta al di sopra delle rocce un edificio attinente alla fortezza. Ho detto abbastanza per mostrare che la grotta di Zinzanusa merita di fissare l’attenzione di coloro che osservano la natura e di coloro che studiano l’antichità; sarebbe interessantissimo esaminare se queste vaste cavità sono state create dalle acque o formate da fuochi sotterranei.

(1) Questo verso è un errore; è la costa opposta all’Epiro che Elena raccomanda ad Eleno di evitare.

(2) Questa parte dell’Italia non era il Lazio.

PER LA PRIMA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/22/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-1-2/

Il 24 febbraio 1869, a Melissano, il miracolo della Madonna

di Fernando Scozzi

“Era un giorno tranquillo e ridente”, così inizia l’inno alla Madonna del Miracolo, unica fonte scritta di quell’avvenimento straordinario di cui furono testimoni i nostri avi 151 anni fa. Una comunità, quella melissanese, costituita nel 1869 da poco più di 1.000 persone che si dedicavano ad un’agricoltura di sussistenza. Un tessuto urbano che esprimeva chiaramente la povertà della frazione: poche casupole affacciate sulla campagna, la parrocchiale di Sant’Antonio ed una casa a due piani, di proprietà dell’ex-feudatario, che agli occhi dei melissanesi sembrava un castello.

Assenti i proprietari terrieri che preferivano abitare nei più confortevoli paesi limitrofi. Né l’eversione della feudalità prima e l’unificazione nazionale poi avevano portato alcun miglioramento sociale ed economico; anzi, la politica accentratrice perseguita dallo Stato unitario comportò la chiusura della farmacia, dell’ufficio di conciliazione e perfino dell’ufficio dello stato civile della Frazione. Un paese, quindi, che non era ancora uscito dalle nebbie del Medioevo e nel quale il solo punto di riferimento era la Fede cristiana, l’unica istituzione la parrocchia.

La devozione per il Santi, come negli altri paesi del Mezzogiorno, permeava la vita di tutti i giorni e si manifestava non solo in chiesa, ma anche fra le mura domestiche dove le famiglie si raccoglievano in preghiera dinanzi a piccole statue commissionate da alcuni devoti “per grazia ricevuta” ed accolte di casa in casa. Tra queste, c’era un’immagine lignea della Madonna Immacolata che il 24 febbraio 1869 si trovava presso l’abitazione di Vito Fasano. L’ultracentenaria Luisa Margari, ultima testimone oculare, così raccontava l’avvenimento: ”Quella mattina, nulla lasciava presagire l’imminente, furioso scatenarsi degli elementi. Più tardi, all’improvviso, incominciarono ad addensarsi su Melissano delle nubi sempre più nere, pregne d’acqua e di grandine, foriere di una spaventosa catastrofe. In pochi minuti, nell’immensa nube nera a forma di cono si produsse un vortice turbinoso. Tutto divenne buio, mentre nei paesi limitrofi splendeva il sole. Dai campi la gente osservava sconvolta volare per aria turbinosamente, come pagliuzze, pesanti fascine. Un vento violentissimo, inizio del ciclone, rovesciò i muri degli orti quasi fossero canne, i guizzi di una luce sinistra ed il pauroso rombo del tuono si alternavano al crescendo delle raffiche del vento, mentre grida di terrore si sentivano qua e là. La furia degli elementi pareva stesse per risucchiare il piccolo paese quando, all’improvviso, il vento si placò, le nubi si diradarono ed il sole tornò a splendere in cielo. Un grido di letizia per il ritorno della vita si diffuse in un baleno da un capo all’altro dell’abitato dopo un’ora di furia infernale. Miracolo! Le campane suonarono a festa. Melissano, infatti, era scampata ad un cataclisma, in un istante, per un prodigio, vecchi, donne, bambini ed uomini ritornati subito dai campi corsero in casa dei Fasano dov’era la piccola statua della Madonna. Lì videro attoniti e sbigottiti che il volto della Vergine, madido di sudore, veniva asciugato con un fazzoletto.” Da quel giorno, l’immagine miracolosa divenne patrimonio della Comunità melissanese e fu custodita nella chiesa della confraternita. La parrocchia istituì una festa ed il Consiglio Comunale di Taviano deliberò l’istituzione di una fiera nella ricorrenza della solennità della Vergine del Miracolo.

Melissano, 24 febbraio 1979 – L’uscita della processione della Madonna del Miracolo

 

Ma, avvenimenti del genere non erano una novità. A Casarano, nel 1842, San Giovanni Elemosiniere salvò il paese dalle piogge torrenziali che minacciavano i raccolti e la stessa popolazione. Anche in quel caso, il sudore che bagnava il viso della statua del Santo fu asciugato con un fazzoletto, mentre le nubi si diradavano ed il sole ritornava a splendere. Nel 1866 la Madonna Addolorata liberò i tavianesi da un’epidemia di colera e l’anno successivo, San Giorgio Martire e Santa Cristina salvarono dalla peste, rispettivamente, Matino e Gallipoli.

Il 24 febbraio 1869, dunque, un miracolo anche a Melissano, un evento prodigioso che contribuì ad affermare l’esistenza di una Comunità dimenticata da tutti, ma non da Dio ed impegnata proprio in quel periodo a gettare le basi per il suo sviluppo. Alcuni anni dopo, infatti, la distruzione dei vigneti francesi (causata dalla fillossera) indusse gli industriali d’oltralpe a chiedere grandi quantità di vini pugliesi e quindi anche a Melissano si verificò una rivoluzione colturale di notevole portata. Il trionfo della viticoltura consentì la formazione di una classe agraria interessata allo sviluppo socio-economico ed all’autonomia amministrativa del paese. Melissano divenne polo di attrazione per numerosi braccianti ed artigiani dei paesi limitrofi, mentre con le risorse finanziarie provenienti dalla commercializzazione del vino fu edificata la nuova chiesa parrocchiale, simbolo della Fede operosa dei melissanesi che erano riusciti a superare la situazione di oggettivo svantaggio rispetto ai paesi limitrofi.

Melissano, chiesa della Confraternita dell’Immacolata. La statuetta della Madonna del Miracolo (XIX sec.)

Oggi, invece, i vigneti e gli uliveti sono fagocitati dal deserto che avanza tra l’indifferenza dei più e la sofferenza dei pochi che ricordano ancora il paesaggio materno e di tanto in tanto si avventurano, come fantasmi, per quella campagna dalla quale i loro avi hanno tratto le risorse per lo sviluppo di Melissano. Il cordone ombelicale che univa il territorio al paese è stato tagliato. Ormai non bastano nemmeno i miracoli.

 

Zinzulusa: una grotta e un toponimo tra fantasia e realtà (1/2)

di Armando Polito

“Fantastico” è l’aggettivo più usato come sinonimo di “stupendo“, “bello“, ma pure per indicare “ciò che è frutto della fantasia“. Alla nostra grotta si addicono entrambi i significati e, se per spiegare il primo, basta visitarla o accontentarsi dell’album che apre questo post, per il secondo bisognerà ricorrere alla storia e alla filologia.

Diversi sono, come si vedrà, pure per formazione, i personaggi coinvolti e il rispetto della cronologia, anche se non mancheranno riferimenti ancora più lontani nel tempo,  vuole che inizi con un vescovo, l’ultimo di Castro, cioè Francesco Antonio Duca (o Del Duca), La grotta era certamente già nota al popolo, ma il prelato ebbe quanto meno il merito di pubblicizzarla adeguatamente, forse con l’intento furbesco di dare lustro alla sua diocesi. D’altra parte siamo nel secolo XVIII, lo stesso in cui a Nardò Giovanni Bernardino Tafuri partoriva false cronache antiche e documenti simili. Della sua esistenza il vescovo mise al corrente il sovrano corredando la notizia della sua interpretazione, che attribuiva più all’uomo, cioè al mitico Idomeneo, col tempio di Minerva da lui ivi realizzato, che alla natura il pregio di quel sito.

Il lettore che ha interesse troverà nell’appendice documentaria che correda in fine questo post il testo integrale delle tre lettere (così come apparvero pubblicate, oggi diremmo in tempo quasi reale, sulla Gazzetta di Parma) dal vescovo scritte e indirizzate due a Ferdinando IV  (il 17 ed il 24 settembre 1793) ed una alla Nunziatura di Napoli il (15 ottobre dello stesso anno).

L’eco della “scoperta” fu vasta e duratura. Ecco come a distanza di cinque anni ne parla Giuseppe Maria Alfano in Istorica descrizione del regno di Napoli diviso in dodici provincie, Manfredi, Napoli, 1798, pp. 121-122: L’odierno Vescovo, Monsignor D. Francescantonio del Duca, facendo uso da’ suoi vasti, e colti talenti nella Storia naturale, e nella scienza delle antichità ha scoperto fra le viscere di una Montagna, nominata Zinzanusa il famoso Tempio di Minerva, tanto mentovato da Virgilio; quello appunto, che Strabone nel lib. 6 de Salentinis disse, parlando della Fortezza dedicata a Minerva. Hic vero fuit , et Minervae templum dives olim, et Scopulus, quem vocant promontorium Japigium, multum procurrens in mare contra Ortum Hybernum. Il detto Prelato ne avanzò subito una relazione alla Maestà del Sovrano sotto il dì 17 Settembre, ed altra a’ 30 Ottobre dello scorso anno 1793, rappresentando, che questa Montagna racchiude nel masso una Grotta, la di cui apertura scorgesi dal mare, che la circonda. Questa Grotta si estende moltissimo; essendosi camminata direttamente circa 300 passi, e circa un miglio con le tortuosità, e per le laterali strade si è giunto in una Galleria grandissima, ed altissima, e non si è entrato, perché vi è fango, e vi si sente una puzza assai fastidiosa. Non si sa dove conduca la divisata Galleria, e quali altre vie ci sieno. Si sono scoverte molte stanze, pozzi, e fonti d’acqua buona. Entrandosi in una stanza vi sono quattro grosse colonne di circa tre palmi di diametro, poste in regolar ordine, ed una di esse distesa a terra, Vi sono poi innumerabili altre colonne, grosse e picciole, tutte cristallizzate, che col lume delle candele risplendono come i brillanti. Vi sono delle lapidi, che cuoprono, e chiudono Sepolcri, nascondigli, ed altre aperture. Moltissime produzioni vi si scorgono d’ogni grandezza, lavorate tutte dall’arte, o dalla natura. Vi è una mensa, ne i lati della quale son poggiate in regolar situazione due colonnette per ogni lato. Vi è sospeso in aria (sebbene attaccato nel suo incominciamento al muro laterale) un baldacchino, ed indi si vede calare un panneggio tutto lavorato con pomi, ed altri intrecci; formando un padiglione di delicato gusto; e non si è passato innanzi, perché si attendono le sovrane disposizioni.  

A distanza di venti anni, sempre dalla “scoperta”, Domenico Romanelli, citando l’Alfano solo alla fine, scriveva in Antica topografia istorica del regno di Napoli, Stamperia Reale, Napoli, 1818, p. 33, nota a: Gli avanzi del tempio di Minerva a Castro si sono scoverti in una montagna appellata Zinzanusa. Qui in una lunga grotta scavata dall’arte, dove non si respira, che un odore solfureo, si sono trovate gallerie, stanze, pozzi, moltissime colonne, mense e marmi lavorati, che richiamavano l’attenzione di monsign. del Duca a farne nel 1793 un rapporto al governo.

Prima di proseguire, a beneficio del lettore che non abbia ancora preso visione delle tre lettere, ricordo che il vescovo, dalla posizione dubbiosa sulla Zinzulusa opera dell’uomo oppure della natura espressa nelle prime due, passa nella terza all’assoluta certezza, che, però, non esclude l’ambiguità, nel senso che secondo lui, si tratterebbe senz’altro del tempio di Minerva con un arredo, per così dire, misto, cioè in parte naturale ed in parte artefatto.

Come si evince dai brani che ho citato, né l’Alfano né il Romanelli si lasciano sfiorare dall’ombra del dubbio, il primo, forse, troppo condizionato dai vasti, e colti talenti nella Storia naturale, e nella scienza delle antichità del prelato.

Eppure tra i due s’inserisce, cronologicamente parlando, un brindisino, Teodoro Monticelli. Nato a Brindisi nel 1759 era un tipo che passava con una disinvoltura pari solo alla competenza dalla teologia all’apicoltura, dalla mineralogia alla vulcanologia. Nell’attuale era della frantumazione del sapere mi chiedo spesso se la conseguente specializzazione professionale non sia il portato del prevalere della formazione scientifica rispetto a quella umanistica, con un ribaltamento totale rispetto al passato, che non è stato certo avaro di conquiste in ogni campo. E penso, per esempio, a quando il buon medico di famiglia era in grado di diagnosticare le più svariate malattie, mentre oggi, a meno che non si tratti di un banale raffreddore, ti manda dritto dritto da uno specialista (che, magari, non fa nemmeno al caso tuo …).

Indietro, purtroppo, non si torna, ma anche gli scettici debbono riconoscere che la cultura umanistica era, prima che fosse scientemente e, direi … scientificamente, umiliata, in grado di conferire una marcia in più che, nel prosieguo degli studi, fossero anche di taglio esclusivamente scientifico, garantiva un’apertura ed un’elasticità mentale in grado di valorizzare l’eventuale innato intuito sempre al servizio di uno spirito profondamente critico.

Senza scomodare Leonardo da Vinci, fino al secolo scorso non era difficile incontrare figure di studiosi che si sono cimentati in campi che tra loro non sembrano avere nulla in comune. E torno a Teodoro con lapidarie ma significative informazioni.

Monaco benedettino, fu professore di morale nell’Università di Napoli negli anni 1792-94; imprigionato per sei anni nell’isola di Favignana per aver partecipato alla rivoluzione del 1799, fu nel 1808 nominato professore di chimica nella stessa università, della quale sarà poi rettore nel 1826-1827.

Siccome il numero e la qualità delle pubblicazioni oggi è il criterio, almeno teorico, per sancire la degnità (e la dignità …) accademica di un insegnante, se il nostro fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe potuto aspirare a buon diritto almeno a tre cattedre contemporaneamente.

È raro che  tutti o i principali lavori  di un autore, risalenti a tempi diversi, trovino ospitalità in una pubblicazione detta in gergo opera omnia, mentre egli è ancora in vita; se questo avviene, lungi dal tradire la volontà di attendere un po’ (giusto il tempo che muoia, per intenderci …) per evitare di dover sprecare carta, inchiostro ed energia per altri flop editoriali, è per riconoscimento dell’importanza degli studi fin lì fatti. E di questo privilegio godette Teodoro (morirà nel 1845) con Opere dell’abate Teodoro Monticelli, Stabilimento tipografico dell’Aquila, Napoli 1841-18431.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/24/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-2-2/

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1 Un esemplare è custodito nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò. Di seguito riporto i titoli inclusi in ognuno dei tre volumi.

VOLUME I 

Su l’economia delle acque da ristabilirsi nel Regno di Napoli (quarta edizione; la prima era uscita nel 1809). Trattato ispirato a lungimiranza anche politica, esemplare ed attualissimo alla luce dell’emergente coscienza (?) ecologica.

Memoria del cav. Teodoro Monticelli sull’origine delle acque del Sebeto, di Napoli antica, di Pozzuoli, ec. letta nella tornata de’ 15 giugno 1828 del Real Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali, ed inserita nel 5 volume degli Atti di detto Istituto (prima edizione 1830)

In agrum Puteolanum Camposque Phlegraeos commentarium (prima edizione nel 1826)

Su la pastorizia del Regno di Napoli

 Del trattamento delle api in Favignana (la prima edizione è del 1807)

 

VOLUME II

Descrizione dell’eruzione del Vesuvio avvenuta ne’  giorni 25 e 26 dicembre dell’anno 1813 (seconda edizione; la prima era uscita nel 1815)

Rapporto del segretario perpetuo  della Reale Accademia delle Scienze sulla eruzione del Vesuvio del (sic) dì 22 al 26 dicembre 1817 letto nella tornata del 9 marzo 1818

Relazione sulla doppia paraselene osservata dal signor Egg in Piedimonte d’Alife il 1° maggio 1817 estratta dal secondo volume degli atti della Reale Accademia delle Scienze di Napoli

Relazione umiliata a S. M. dalla Reale Accademia delle Scienze onde impetrare il permesso di analizzare le acque minerali e termo-minerali del Regno riferita nel secondo volume degli atti della Reale Accademia delle Scienze di Napoli (il volume citato era uscito a Napoli nel 1825).

Notizia di un’escursione al Vesuvio, e dell’avvenimento che vi ebbe luogo il 16 gennaio 1820, quando il francese Coutrel vi precipitò in una di quelle nuove bocche. Letta alla Reale Accademia delle Scienze nell’adunanza del 20 gennaio  

Escursioni fatte sul Vesuvio in compagnia d’illustri soggetti, e celebri dotti stranieri dal 1817 al 1820

Memoria sopra le sostanze vulcaniche estratta dal secondo volume degli atti della Reale Accademia delle Scienze di Napoli

Memoria su le vicende del Vesuvio letta nella tornata del 10 di Agosto 1827 ed approvata con rapporto nella tornata del 18 dicembre detto anno

Memoria sulla lava della Scala rimessa alla Società Reale Geologia di Londra, cui come socio estero appartiene l’autore 

Osservazioni dello stato del Vesuvio dal 1823 al 1829

 Altre escursioni fatte sul Vesuvio

 Risposta alla lettera del celeberrimo sig. barone Alessandro De Humboldt

 Del zoogeno e della fibrina, pretese scoperte del commendatore de Gimbernat ne’ vapori del Vesuvio e nelle acque di Senogalla in Ischia

Storia de’ fenomeni del Vesuvio avvenuti negli anni 1821, 1822 e parte del 1823 con osservazioni e sperimenti. Questo lavoro era già uscito nel in tedesco col titolo Der Vesuv in seiner Wirksamkeit wahrend der Jahre 1821, 1822 und 1823, nach physikalischen, mineralogischen und chemischen Beobachtungen und Versuchen dargestellt, Schonian’sche Buchhandlung, Elberfeld, 1824  ed ancor prima in francese col titolo Observations et expériences faites au Vésuve pendant une partie des années 1821 et 1822, Cabinet Bibliographique et Typographique Rue S. Liguori num. 41, Napoli, 1822. A riprova della stima che i colleghi vulcanologi avevano per lui, va ricordato che nel 1831 Henry James Brooke chiamò monticellite un minerale scoperto sul Vesuvio.  

 

VOLUME III

Philippi Caolini vita (1a edizione nel 1812)

Elogio di Vincenzo Petagna

Note lette nella Reale Accademia delle Scienze nella tornata del 13 marzo 1832

Prodromo della mineralogia vesuviana (scritto con Nicola Covelli; la prima edizione era uscita nel 1825) 

 

Fuori restano:

Analisi del fango dell’Etna, s. l, s. n., s. d. (scritto con Nicola Covelli)

Theoremata ex mathesi, ac philosohia selecta quae D. Theodorus Monticelli in tyrocinio regalis coenobii S. Crucis de Lycio auditor sub auspiciis Xaverii Marincola facit, cathedram moderante D. Petro Maria Kalephato, De Dominicis,  Napoli, 1776. Del volume l’OPAC registra solo un esemplare custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi.

Propositiones theologico-dogmaticae, morales, et canonicae quas publice discutiiendas proponit D. Theodorus Monticelli congr. Coelestinorum ord. S. Benedicti monac. et in collegio S. Eusebii de urbe sac. theol. audit. sub assistentia D. Raphaelis Chiumaroli, et D. Xavierii Bassi theologiae lectorum, Barbiellini, Roma, 1780. La pubblicazione risale al periodo in cui il Monticelli era nel collegio di S. Eusebio a Roma per gli studi di teologia, filosofia e matematica ed aveva, quando il lavoro uscì, 21 anni.

Catechismo di agricoltura pratica, e di pastorizia per la pubblica istruzione de’contadini del Regno di Napoli, Cons, Napoli, 1792. Anticipando l’analisi di problemi ancora oggi irrisolti (o risolti male …), individuava la necessità di maggiore libertà di mercato, della riduzione delle tasse, dell’introduzione di nuovi macchinari e colture, di interventi strutturali (bonifiche, rimboschimenti ecc).

Descrizione della grotta della Zinzanusa, ossia dell’antico tempio della dea Minerva in Castro Minerva ne’ Salentini, s. n., Napoli, 1807 (estratto dal Giornale enciclopedico di Napoli).

Atlante della mineralogia vesuviana, Tramater, Napoli, 1825 (con Nicola Covelli)

Memorie sopra alcuni prodotti del Vesuvio ed alcune vicende di esso, Stamperia Reale, Napoli, 1844

I titoli riportati danno un quadro eloquente delle molteplici scienze che il Monticelli coltivò con rigore metodologico e del prestigio internazionale di cui godette, come mostrano le decine di corrispondenti, tra cui sovrani e uomini politici, letterati e scienziati italiani, europei e statunitensi, nonché  le onorificenze conferitegli da numerose società e accademie, italiane e straniere, di molte delle quali fu membro.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/24/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-2-2/                                

 

                                                            APPENDICE DOCUMENTARIA

 

Le tre lettere inviate dal vescovo di Castro a Ferdinando IV

a) prima lettera del 17 settembre 1793 (dalla Gazzetta di Parma, venerdì, 6 dicembre 1793)

 

b) seconda lettera (prima parte) del 17 settembre 1793 (dalla Gazzetta di Parma, venerdì, 13 dicembre 1793)

c) seconda lettera (seconda ed ultima parte) del 17 settembre 1793 e terza lettera del 13 ottobre 1793 (dalla Gazzetta di Parma, venerdì, 20 dicembre 1793)

 

Racale, restauro dell’organo a canne ottocentesco

Oggi 22 febbraio, alle ore 19:00, a Racale, presso la chiesa parrocchiale della B.V.M. Addolorata, sarà inaugurato l’organo a canne, restaurato da  Giuseppe M. Costantini per interessamento della locale Confraternita dell’Addolorata.

L’organo, finalmente recuperato e salvato dal grave stato di incuria e abbandono, fu realizzato a Maglie dall’organaro  Vincenzo De Micheli nel 1859 su committenza di Felice Basurto, barone di Racale e rettore della Confraternita, con il contributo del devoto Giuseppe Reho.

Alto circa 2,5 metri e largo circa 1,20, con una profondità di 60 cm,  è classificato come organo “positivo” per le piccole dimensioni e facilità di trasporto. Provvisto di una tastiera a 45 tasti, con le canne in stagno, piombo e legno racchiuse in una cassa armonica lignea con ante snodabili anteriori e ornamenti floreali ai lati.

Il terremoto del 20 febbraio 1743 nell’interpretazione popolare e religiosa, e in un antico canto dialettale savese

 

di Gianfranco Mele

 

Come noto, il 20 febbraio del 1743 vi fu un violento sisma[1] che danneggiò la città di Nardò in particolare, ma anche altri numerosi altri centri: si ebbero danni consistenti in Francavilla Fontana, Leverano, Brindisi, e numerose altre città e paesi di Terra d’Otranto. Nel territorio di Sava si verificarono danni al Santuario di Pasano, e mi soffermerò sulla storia degli effetti del terremoto in questa cittadina per raccontare di come la devozione popolare abbia attribuito alla Madonna una intercessione divina nei confronti della catastrofe, immortalando tale accadimento anche in una composizione dialettale in versi.

Un po’ dappertutto, persino nei luoghi dove vi furono morti, si volle credere che Madonne e Santi protettori avessero scongiurato un disastro ancora più grave. Così, finanche i danni subìti da edifici religiosi furono interpretati come effetto della protezione divina che aveva preferito attirare su di sé, sui luoghi di culto, gli effetti del terremoto, anziché danneggiare più di tanto il popolo.[2]

In Sava, si attribuì alla Madonna di Pasano il potere di aver scongiurato una tragedia annunciata: per tradizione, la Vergine (che aveva luogo di culto nel casale omonimo già da epoca bizantina)[3] era ritenuta specialista sia in miracoli concernenti malattie,[4] che nell’evitamento di catastrofi e calamità naturali:

“Le apoplasie, le asme, le febbri, gli spasimi, le cecità, le stroppiature, e tutta quella serie di mali, che per il peccato del nostro progenitore inonda il gran mondo; i terremoti, le inondazioni, la mancanza d’acqua, l’insetti divoratori, i rettili velenosi, i fulmini, le saette, l’archibuggiate, o al tatto di qualcun de’ suoi voti, che pendono dalle sacre pareti alla gran Donna dedicati, o all’unzioni degl’ ogli delle sue lampade, o al religioso esercizio, o per l’usanza di mandare alla sua Cappella tredici verginelle, o alla sola interna invocazione del suo Sacro Santo Nome, retrocedono, e fuggono, e spariscono”[5]

La chiesa di Pasano viene riedificata, ultimata e inaugurata nel 1712 (ce ne danno notizia un vecchio manoscritto attribuito (parzialmente) all’ Arciprete Luigi Spagnolo[6] e l’opera “Cenni storici di Sava” di Primaldo Coco)[7], e viene costruita a ridosso di una cappella più antica. Il terremoto del 1743 la danneggia notevolmente, per cui dieci anni dopo, nel 1753 la chiesa viene parzialmente ricostruita e fortificata con l’aggiunta di contrafforti laterali e con modifiche e restauri al dossale dell’altare.[8]

Santuario Madonna di Pasano: i contrafforti laterali furono eretti in conseguenza del terremoto del 1743

 

Dei lavori di restauro effettuati nel 1753 a effetto del terremoto sono testimonianza due iscrizioni murate vicino all’altare maggiore, come documenta il Coco, poi riassunte e sostituite in una unica lapide.

Le iscrizioni più antiche recitavano:

Singularis fidelium pietas erga efficiem hanc

Virgini Pasanensis hoc altare primam ex licentia

lapide fecit A.D. MDCCXXXII

Terremotu postea dirutum magam partem

iterum riedificavit pietas ipsa ac tandem

postridie Kalendas Iunius A Virg. Partu

MDCCLIII inaugurare complevit.

 

Nei primi del Novecento queste iscrizioni furono sostituite con la seguente:

D.O.M.

Aram principem Virgini deiparae de Pasano

Quam pietas fidelium primum erexit a. MDCCXXXII

Et denuo terremotu pene dirutam a. MDCCLIII refecit

expolivit picturisque exornavit an. Maximi Iubilei

MCM

 

In appendice al manoscritto redatto dal non meglio identificato nipote di Luigi Spagnolo (forse Giovanni Spagnolo, anche lui Arciprete in Sava, dal 1884 al 1901), si narra di un turbine avvenuto il 2 maggio 1871 che danneggiò terreni facendo cadere numerosi alberi in agro di Sava, e diroccò due edifici del paese. All’invocazione da parte dei savesi della Vergine di Pasano (e del posizionamento a mò di sfida della sua statua), il turbine deviò percorso, secondo il racconto dello Spagnolo. A seguire nel manoscritto, lo Spagnolo racconta della guarigione da parte della Vergine di Pasano di un sacerdote leccese “stroppio di mani”, e di un miracolo riguardante il terremoto del 20 febbraio. Qui, però, si indica un anno nel quale non risultano terremoti in Terra d’Otranto: il 1790. Trattasi evidentemente di un errore da parte dello scrittore, che voleva indicare appunto il terremoto del 1743. Devo aggiungere che ho potuto consultare il testo originale (in una riproduzione digitalizzata a cura di Internet Culturale)[9] ma era monco proprio di questa parte (un foglio), che ho ripreso dalla trascrizione di Giuseppe Lomartire, inserita nel suo libro “Sava nella storia”.[10] E’ lo stesso Lomartire in ogni caso, in articolo successivo, a chiedersi se non vi sia stato un errore nella datazione (il giorno e il mese coincidono, ma non l’anno).[11] Ecco i passi dello Spagnolo trascritti dal Lomartire:

Nel 1790 a 20 febbraio quasi tutti i luoghi di questa provincia, e forse l’Europa tutta ebbero danni dal flagello del terremoto, che fu alle ore 23 e mezza circa del su detto giorno, e solo in Sava non vi fu danno alcuno, ma soltanto cadde il capo altare della Cappella di Pasano, sicchè la beatissima Vergine par che indusse il suo Figlio a scaricar l’ira sua sopra di sé in detta cappella, ed esimere Sava da detto flagello.

In un ciclostilato senza data a cura del Gruppo Culturale Salentino di Sava (le “Note” del G. C. S., distribuite ad associati, amici e simpatizzanti, furono concepite e diffuse tra il 1977 e il 1979) il Lomartire ritorna sull’argomento e riporta i versi popolari che ricordano il terremoto del 20 febbraio 1743, raccolti dalla voce di una anziana donna savese:

Fuei la Matonna nostra ti Pasanu

ca ti na cranni sbintura ni sarvòu

la menzanotti ti lu vinti ti febbraru

quannu totta la terra trimulòu.

La Matonna an cielu sta priàva

lu fiju sua onniputenti

surtantu la Cappella cu sgarràva

e di Sava cu ni lìbbira la genti.

E difatti Sava fuei sarvàta,

ma la Cappella rumàsi rruinàta!

Così come, dunque, a Sava fu considerata la Vergine di Pasano protettrice della popolazione rispetto alla calamità, a Nardò si credette che fu San Gregorio a intercedere per evitare danni ancor più gravi, a Lecce si pensò all’intervento provvidenziale di S. Oronzo, a Mesagne si ringraziò la Beata Vergine del Carmelo, a Francavilla Fontana la Madonna della Fontana, a Latiano Santa Margherita, a Oria San Barsanofio.[12]

I versi popolari raccolti in Sava hanno un corrispettivo nei più noti versi leccesi dedicati a S. Oronzo per il medesimo avvenimento:

Foi Santu Ronzu ci ne leberau

de lu gran terramotu ci faciu

a binti de febraru tremulau

la cetate, e no cadiu.

Iddu, iddu de cieli la guardau

e nuddu de la gente nde patiu.

È rande Santu! Ma de li santuni

fece razie. E meraculi a’ migliuni.”

Santuario di Pasano, interno (altare e dossale)

 

[1]
Per approfondimenti, una serie di articoli sul terremoto in questione è pubblicata su Fondazione Terra d’Otranto: https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/terremoto-1743/

[2]    Daniele Perrone, Il terremoto del 1943 che scosse il Salento, novembre 2014, Bistrò Charbonnier http://bistrocharbonnier.altervista.org/il-terremoto-del-1743-che-scosse-il-salento/

[3]    Gianfranco Mele, Sava (Taranto). L’antica chiesa di Pasano, settembre 2016, Fondazione Terra d’Otranto https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/14/sava-taranto-lantica-chiesa-di-pasano/

[4]    Gianfranco Mele, L’antica tradizione degli ex voto a Pasano, La Voce di Maruggio, gennaio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/l-antica-tradizione-degli-ex-voto-a-pasano.html

[5]    Dal manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, s.d.. Il documento contiene in calce al frontespizio la scritta aggiunta “”Recitata da mio zio arciprete don Luigi Spagnolo di anni 18 essendo accolito nel seminario di Oria“, e in allegato 3 fogli contenenti la storia di Pasano e dei “miracoli” attribuiti alla Madonna, con citazioni e trascrizioni di passi di Domenico Antonio Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1686 al 1722), Alessandro Maria Calefati (Vescovo della Diocesi di Oria dal 1781 al 1793, anno della sua morte), Luigi Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1800 al 1828), Pasquale Cantoro Melle (che, da una annotazione dell’autore – nipote del Luigi Spagnolo, sappiamo morto nel 1790). Il manoscritto è conservato ad Oria nella Biblioteca De Leo ed è là censito con “data stimata: 1801-1900”.

[6]            Manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, op. cit.

[7]    Primaldo Coco, Cenni Storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Lecce, 1915, pp. 282-284

[8]    Cfr. Primaldo Coco, op. cit.; vedi anche Antonio Cavallo, Santuario di Santa Maria di Pasano, C.S.P. Centro Studi Pubblicitari, Tipografia Centrale, Manduria, senza data, pag. 8

[9]    Internet Culturale, cataloghi e collezioni digitali delle biblioteche italiane http://www.internetculturale.it/

[10]  Giuseppe Lomartire, Sava nella storia, Grafiche Cressati, Taranto, 1975, pp. 87-93

[11]  Giuseppe Lomartire, Pasano ieri e oggi – vicende varie del Casale e del Santuario, in: Note del Gruppo Culturale Salentino di Sava, ciclostilato in pr., s.d.

[12]  Cfr. Daniele Perrone, cit.

Dialetti salentini: ‘nduccicare

di Armando Polito

Tamme nna manu cu ‘ndòccicu lu lanzulu! (Dammi una mano per piegare il lenzuolo!). Nell’era dell’usa e getta, non solo in riferimento alle lenzuola, ma anche a tovaglie e tovaglioli monouso, l’invito, normale fino a qualche decennio fa, rischia di diventare un pittoresco ricordo, a meno che non ci sia una rapida e globalmente concorde  inversione di tendenza. Lo stesso vale per il suo uso come sinonimo di avvolgere, almeno come riferimento al gomitolo , visto il declino di quelli che un tempo erano normalissimi lavori femminili. Meno male che la voce conserva una certa vitalità quando è usata  come sinonimo di incartare. Ad un antiquario dilettante della lingua come me non rimane, comunque, che dire qualcosa sul suo etimo. Essa risulta dall’aferesi di induccicare, cioè in origine era composta dalla preposizione in (come l’italiana, dal latino in).  Togliendo in– rimane duccicare. Se dicessi che esso corrisponde all’italiano duplicare che è dall’identica voce latina formata da du– (da duo=due)+plicare=piegare, nessuno ci crederebbe. Conviene, allora, partire da lontano. Ecco gli esiti del digramma pl latino (naturalmente seguito da vocale) in italiano e in salentino: planus>piano>chianu; plenus>pieno>chinu; plicare>piegare>piecare; plovere o pluere>piovere>chiuire. Si nota come puntualmente pl in italiano è passato a pi e nel salentino in ch. Con questa premessa ci saremmo aspettato  per quanto riguarda duplicare un italiano dupiegare ed un  salentino dupiecare. Non si sono formati né l’uno né l’altro, perché l’italiano (che pure dal primitivo plicare aveva dato piegare) ha conservato il duplicare latino. Lo stesso non è successo, però, con il nostro ‘nduccicare, che ha seguito la seguente trafila: *induplicare> ‘nduplicare (aferesi)>‘nducchiecà (passaggio –pl->-ch-, con geminazione di –c-; la forma è in uso nel Tarantino). La variante neretina ‘nduccicare ha semplicemente eliminato l’aspirazione, per cui alla fine, non si è avuta la consueta evoluzione pl>ch ma pl>cc. Per questa volta almeno credo di non essere rimasto ‘nduccicatu

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (quarta parte)

 

di Mirko Belfiore

Andrea, figlio di Michele III Senior, fu mandato a Roma per studiare e formarsi nell’atmosfera ecclesiastica, accanto alla figura dell’illustre prozio Giuseppe Renato. Il carattere del giovinetto non fu mai affine alle vicende romane, quest’ultime intrise di frivolezze e pomposità, caratteristiche che si scontravano pienamente con l’atteggiamento chiuso e sensibile del principino, dedito più che altro alla meditazione e al ripiegamento interiore. Dovette comunque accettare le nozze imposte dal padre con Anna Caracciolo figlia di Giuseppe dei principi della Torella, nipote del signore di Avellino, il 30 giugno del 1717. L’unione portò alla nascita dell’erede Michelino Juniore, nato il 7 luglio del 1719 a Francavilla, evento gioioso che non migliorò, in nessun modo, i rapporti fra padre e figlio, divisi profondamente da due temperamenti agli antipodi. Mentre in Michele era forte il richiamo ai valori feudali e alla tutela del prestigio del Casato, per Andrea tutti questi obblighi erano superflui e inutili.

Importante fu, la politica di promozione economica e di ristrutturazione urbanistica che questo Michele III attuò e sostenne nel feudo di Francavilla. Segni indelebili del suo interesse, sono rimaste le imponenti opere urbane realizzate a Francavilla; la citta si sviluppò intorno ai tre grandi assi viari che vennero tracciati simultaneamente: “la strata longa” o via Michele Imperiali, via Simeana, chiamata così in onore della principessa Irene, sua moglie, e via del Carmine, oggi denominata via Roma. Numerosi inoltre furono gli interventi al Castello, nel cui ampliamento profuse grandi somme di denaro. La dimora subì un imponente ristrutturazione, tanto importante da trasformarla in una residenza aristocratica che non aveva nulla da invidiare alle corti del Regno di Napoli. Una volta succeduto all’avo, anche il giovane Michele IV (1719-1782), si profuse in opere di munificenza e di sviluppo, della città e della sua cittadinanza.

ritratto di Michele IV Imperiale Juniore – (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, trafugato).

 

Dopo la battaglia di Bitonto del 1734 e la conseguente liberazione del Regno di Napoli dagli austriaci, nel Meridione si venne a insediare una nuova dinastia, con Carlo III di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V.

La situazione economica disastrosa e la persistenza del baronaggio aristocratico, ormai a discapito anche delle classi più dinamiche come la borghesia mercantile straniera adeguatesi alla mentalità tipicamente meridionale, non fermarono la politica illuminata del nuovo reggente. Questa nuova linea fu favorita dalla presenza di un uomo forte e intelligente, il ministro delle Finanze Bernardo Tanucci, il quale con un’azione decisa, compì una serie di riforme strutturali radicali: riduzione dell’immunità ecclesiastica, creazione di un catasto e di un censimento, tassazione uguale per tutte le proprietà, politica di promozione economica delle industrie e tentativo di eliminazione del muro di monopoli e appalti, vero e proprio potere occulto della baronia locale. Il Tanucci, prima di essere rimosso dal suo incarico nel 1777, a causa delle divergenze con Carolina d’Asburgo, moglie dell’erede Ferdinando IV di Borbone, succeduto al padre Carlo III a sua volta nuovo Re sul trono di Spagna, architettò una vera e propria “trappola” ai danni dei feudatari locali per poter eliminare, nel Regno, quel fenomeno parassitario che era il feudalesimo.

Stabilì che lo Stato potesse disporre dei propri beni per la pubblica utilità, dichiarò nulla qualsiasi bolla papale non approvata precedentemente dal re e con estrema furbizia riempì di onori e titoli questa aristocrazia passiva con l’intento di allontanarla dai loro possedimenti e con la speranza che questi ne perdessero l’interesse.

In questo tranello cadde Michele IV Juniore, il quale attirato dalle cariche conferitegli: Maggiordomo Maggiore di Sua Maestà Siciliana, Gentiluomo di Camera e Gran Camerario, insieme alla vita mondana della capitale, dimorò spesso e volentieri fuori dai suoi feudi prendendo residenza a Napoli.

Nel 1740, convolò a nozze con Eleonora Borghese figlia di Camillo, principe di Sulmona. Secondo le fonti, la Principessa ebbe subito modo per farsi amare dai suoi sudditi e l’occasione arrivò, funesta, durante il terremoto del 20 febbraio 1743, evento sismico che sconvolse buona parte della Puglia meridionale. La principessa Borghese dimostrò grande solidarietà umana, non disdegnando di partecipare in prima persona all’opera di soccorso, portando il conforto della sua presenza e sostituendo in modo egregio il marito che si trovava a Napoli.

Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Grazie alla munificenza del Principe, inoltre, fu possibile ricostruire gli edifici compromessi dal sisma: fra tutti ricordiamo la Chiesa Matrice, il convento di Santa Chiara e quello dei Frati Cappuccini. Michele IV contribuì, inoltre, al compimento dei lavori del Castello, completati nel 1739.

Con il passare del tempo però le soste degli Imperiale a Francavilla divennero sempre più rare. Nel 1755 Michele IV prese in affitto una sontuosa dimora per milleseicento ducati l’anno, che fece decorare a proprie spese, per poter ospitare degnamente la nobiltà della capitale e lo stesso re Carlo III. Il Principe morì a Napoli il 10 febbraio 1782 . Non avendo avuto figli, dichiarò suo erede universale il marchese di Latiano Vincenzo Imperiale figlio di Giovanni Luca, suo cugino; ma questi non essendo l’erede naturale, fu contrastato dal Regio Fisco, il quale forte di un diritto di prelazione sui feudi, iniziò il processo di devoluzione annotando e sequestrando tutti i beni e i possedimenti.

Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo (ph Domenico Ble)

 

Il Marchese però, fece opposizione. Si aprì un processo che durò a lungo e nel 1785 si stabilì che tutti i beni immobili degli Imperiale, sarebbero passati al Fisco. La disputa quindi si risolse con un accordo e l’erede venne liquidato con la somma di trecentosettantacinque mila ducati, tutti i beni mobili presenti nelle residenze, come gioielli, argenti, librerie, attrezzatura del teatro e i titoli di Marchese di Oria e di Principe di Francavilla. Lo Stato procedette alla vendita dei singoli beni del feudo ai migliori offerenti, decretandone così lo smembramento.

 

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Per la prima parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (prima parte)

Per la seconda parte:

L’antichissima e nobile famiglia Imperiale, da Genova in Terra d’Otranto (seconda parte)

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