A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

di Salvatore Coppola

Nel corso dei lavori della Conferenza interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania (Matera, 13 e 14 maggio 1950), si discusse ampiamente delle occupazioni delle terre che si erano avute nella provincia di Lecce. «Nei mesi di novembre e dicembre 1949 e gennaio 1950» – si legge nel testo del documento finale – «in concomitanza con tutta la grande azione dei contadini calabresi e siciliani, per l’occupazione e la trasformazione del latifondo in queste regioni, si sviluppava l’azione veramente di massa dei contadini poveri e dei braccianti nel leccese per l’occupazione delle terre incolte dell’Arneo e delle altre zone paludose o abbandonate del litorale adriatico del Salento. A questa azione hanno partecipato fino a 10 o 15.000 piccoli contadini ed avventizi agricoli, i quali molte volte sono partiti da comuni, come Copertino o Carmiano, distanti 15 o 20 Km. dalle terre da occupare». Si mise in evidenza, tuttavia, che le occupazioni avevano avuto un carattere fondamentalmente simbolico. I risultati complessivi, considerato che della grande estensione occupata solo poche centinaia di ettari risultavano assegnate in enfiteusi ai contadini, dovevano considerarsi nel complesso deludenti specie se messi a confronto con quelli conseguiti nella provincia di Matera dove si erano mobilitati, oltre ai braccianti, anche i coltivatori diretti, e l’occupazione di 10.000 ettari, che era stata effettiva e non simbolica, aveva portato alla concessione di 2.500 ettari di terre. Se il bilancio complessivo delle lotte venne considerato positivo, vennero individuati anche lacune e difetti («le nostre organizzazioni non sono riuscite ancora a costituire un efficace fronte contadino da opporre al fronte agrario […] molti nostri organizzati ed anche alcuni dirigenti si sono chiusi in un settarismo di categoria»). È per questo che fu proposto alle Federbraccianti pugliesi e lucane di farsi esse stesse promotrici della lotta in difesa degli interessi, non solo dei braccianti, ma anche dei coltivatori diretti (perché fossero esonerati dal pagamento dei contributi unificati e venissero esclusi dall’obbligo dell’imponibile di manodopera), dei piccoli proprietari (perché ottenessero lo sgravio di tasse e imposte ingiuste), dei compartecipanti (per un contratto che migliorasse la loro quota di riparto) e per i mezzadri (per rivendicare la giusta ripartizione dei prodotti). Tuttavia, nelle conclusioni del convegno, mancava qualsiasi riferimento preciso e programmatico ai temi della riforma agraria[1].

Nella primavera del 1950 continuarono nel Salento le occupazioni delle terre a sostegno della battaglia politica e parlamentare tesa al conseguimento di una legge di riforma agraria generale. Dopo i tragici avvenimenti di Modena (dove, nel corso di una manifestazione operaia, vennero uccisi dalla polizia sei lavoratori), e dopo la costituzione del nuovo governo presieduto da Alcide De Gasperi (del quale non facevano più parte i liberali, tra i più tenaci oppositori del progetto di riforma agraria), vennero adottati, nonostante la resistenza dei rappresentanti degli agrari meridionali, i primi provvedimenti di riforma. La legge 230 (cosiddetta legge Sila) fu approvata il 12 maggio. La 841 (legge per l’espropriazione, la bonifica, la trasformazione e la concessione delle terre, detta legge stralcio perché doveva costituire lo stralcio di un più vasto e organico progetto di riforma agraria) fu approvata il 21 ottobre 1950. Le due leggi, per la prima volta nella storia d’Italia, intaccavano la proprietà privata, sia pure con un diverso criterio di esproprio. Mentre la legge del maggio 1950 prevedeva interventi di scorporo sulla parte di proprietà eccedente i 300 ettari, la legge stralcio, con criteri più limitativi rispetto all’ammontare complessivo dell’estensione posseduta dal singolo proprietario, individuava i terreni suscettibili di esproprio con riferimento al reddito dominicale. Una volta censite ed espropriate, le terre sarebbero state assegnate ad appositi Enti di riforma che le avrebbero successivamente concesse ai contadini con contratto di enfiteusi. I dirigenti nazionali della CGIL e della Federbraccianti, pur esprimendo un giudizio complessivamente non positivo sulle leggi agrarie, considerate provvisorie e di portata limitata, si impegnarono a lottare per la gestione democratica delle stesse e per la loro estensione ad altre aree del Paese non incluse nella previsione della stralcio. Denunciarono, inoltre, la volontà del governo e della maggioranza parlamentare di mirare a dividere i contadini in quanto solo una piccola minoranza di loro avrebbe ottenuto, a pagamento, la terra, mentre ne sarebbe stata esclusa la stragrande maggioranza degli aventi diritto e, nel mentre sollecitavano l’adozione di una riforma agraria che, fissando un limite alla proprietà fondiaria, assegnasse in enfiteusi ai contadini con poca o senza terra i milioni di ettari eccedenti, mobilitarono i braccianti allo scopo di ottenere l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate anche sulla base delle vecchie leggi Gullo e Segni ancora in vigore[2].

La legge stralcio prevedeva interventi di esproprio nelle aree del Fucino, della Maremma, del Delta del Po, in Emilia, nel Veneto, in Molise, in Campania, in Sardegna e, per quanto riguarda la Puglia, nelle province di Bari e Foggia, ma non in quella di Lecce. È per questo che, a partire dai primi giorni di dicembre del 1950, la CGIL salentina promosse una campagna di propaganda e di mobilitazione finalizzata all’occupazione dell’Arneo con l’obiettivo di costringere il governo ad includere quella ed altre aree del Salento nelle previsioni di esproprio della legge.

La lotta, che si sviluppò a partire dal 28 dicembre 1950, fu impostata e condotta in modo politicamente efficace e in forme diverse dalle tradizionali jacqueriés tipiche del movimento sindacale pugliese e salentino. Essa era coordinata e diretta dai dirigenti del PCI, del PSI e della CGIL e nulla fu lasciato al caso o alla spontaneità delle masse («da vari giorni», comunicava il 28 dicembre il commissario di Pubblica Sicurezza di Nardò dr. Michele Magrone al ministro degli Interni, «questo ufficio era informato che la locale Camera del lavoro stava organizzando, dietro ordine degli esponenti provinciali del Partito Comunista Italiano, una nuova occupazione di terre nella vicina plaga dell’Arneo»). I marconigramma e le relazioni inviate dal prefetto Grimaldi al ministro degli Interni Mario Scelba sembravano tanti bollettini di guerra: «Federterra et dirigenti comunisti», si legge in una comunicazione urgente e riservata del prefetto, «hanno sospinto numerosi gruppi contadini a portarsi in alcune località zona Arneo per procedere occupazione terre. Sono affluiti in zona procedendo simbolica occupazione terreni incolti aut insufficientemente coltivati circa milleduecento braccianti agricoli vari Comuni. Numero occupanti successivamente est aumentato at circa duemila. Sul posto est stata notata presenza onorevoli Giuseppe Calasso comunista et Mario Marino Guadalupi socialista. Forze polizia et Arma scopo ottenere sgombro zona occupata facevano uso mezzi lacrimogeni, senza ottenere grossi risultati perché occupanti dileguavansi soprastante boscaglia […] tutte locali forze Polizia sono impegnate fronteggiare situazione». Nella strategia dei dirigenti politici e sindacali che promossero la nuova occupazione delle terre, questa non doveva costituire più, come per il passato, uno strumento di pressione sui proprietari terrieri per conseguire alcuni obiettivi limitati come l’imponibile di manodopera o il rinnovo dei contratti né doveva servire solo a ottenere miglioramenti salariali e altri benefici di natura economica o previdenziale. L’obiettivo era molto più ambizioso, molto più avanzato. La lotta mirava, infatti, a mettere in discussione i secolari rapporti di proprietà nelle campagne, a distruggere il latifondo e ogni forma di rendita parassitaria, a porre fine ai rapporti di tipo feudale ancora largamente presenti nelle campagne salentine e a gettare le basi per realizzare, in forme nuove e tutte da sperimentare, il programma della terra ai contadini. Poiché in quel momento lo strumento più efficace per conseguire tale risultato sembrava la legge stralcio, i lavoratori agricoli furono mobilitati per ottenere l’inclusione della provincia di Lecce nelle aree di esproprio previste dalla stessa, ritenuta come il primo passo verso la riforma agraria generale. Se i fini erano ben individuati, anche le forme di lotta furono attentamente programmate, ad ogni Lega dei paesi gravitanti sull’Arneo fu assegnata una determinata zona da occupare, ai capilega comunali e agli altri dirigenti sindacali fu affidato il compito di guidare i contadini e furono date istruzioni per evitare (con tattiche di tipo militare di avanzata e di ritiro strategico all’interno della boscaglia) scontri diretti con la polizia. Il centro operativo si trovava Lecce in via Idomeneo (dove, a poche decine di metri di distanza, avevano la propria sede tanto la Federazione provinciale del PCI quanto la CGIL), il movimento era guidato dal segretario del PCI Giovanni Leucci, dal vicesegretario Giovanni Giannoccolo, dai deputati Giuseppe Calasso (PCI) e Mario Marino Guadalupi (PSI), dal segretario della CGIL provinciale Giorgio Casalino e dal segretario della Confederterra Antonio Ventura. A livello locale la guida della lotta era assicurata dai segretari delle sezioni del PCI, del PSI e delle Leghe bracciantili dei paesi più direttamente coinvolti nell’occupazione (Salvatore Mellone di Nardò, Felice Cacciatore di Veglie, Crocifisso Colonna di Monteroni, Ferrer Conchiglia di Trepuzzi, Cosimo Di Campi e Cosimino Ingrosso di Guagnano, Luigi Magli di Carmiano, Mario Montinaro di Salice, Pietro Pellizzari di Copertino, Giuseppe Scalcione di Leverano, Pompilio Zacheo di Campi Salentina). I dirigenti delle sezioni del partito e delle Leghe bracciantili degli altri paesi della provincia erano impegnati a organizzare azioni di solidarietà morale e materiale con gli occupanti[3].

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

 

Note

[1] Archivio nazionale Flai-Cgil, Programma dei lavori della Conferenza Interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania.

[2] Sulla posizione della Federbraccianti, G. Gramegna: Braccianti e popolo in Puglia, cit., pp. 133-135.

[3][3] Asle, Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

Ho vi sto, la vita romanzesca del Pulitzer che vive a Cisternino

di Marco Carratta

Manoocher Deghati, già direttore dell’Associated Press e di France Press, vincitore di molti premi tra cui il Pulitzer per la fotografia e, per due volte, il World Press Photo, con i suoi lavori ha ritratto la storia del mondo contemporaneo. Vive dal 2014 con la famiglia a Cisternino, grazie al libro Ho vi sto, un romanzo biografico della scrittrice e archeologa Ursula Janssen, oggi ne possiamo conoscere nel dettaglio la vita avventurosa e romanzesca.

Nato nel 1954 in Iran, ha conosciuto da giovanissimo il cinema italiano, una passione che spinge Manoocher Deghati, finito il liceo, a trasferirsi a Roma per iscriversi alla scuola di Cinema. Tornato in Iran è testimone delle prime manifestazioni di protesta contro lo Scià che racconta con la macchina fotografica. Inizia così una carriera che dura da più di quarant’anni e che lo ha fatto diventare uno dei più grandi fotoreporter del mondo. Non lascia il suo strumento di lavoro neanche durante la lunga convalescenza a cui è condannato a causa di un proiettile esplosivo sparato da un cecchino israeliano nel settembre del 1996. Sfrutta la permanenza forzato nell’ospedale militare Invalides di Parigi per realizzare un reportage sui veterani di guerra francesi con cui ha condiviso i 2 anni di ricovero. La passione per la macchina fotografica lo spinge nel 2011 anche a contribuire alla fondazione della prima scuola afghana di fotogiornalismo.

Grazie al suo lavoro ha visitato 150 paesi, vissuto in 12 nazioni diverse, perché, come ama ripetere, se si vuole raccontare un posto lo si deve vivere. A causa del suo lavoro Manoocher Deghati è stato esiliato dall’Iran divenendo un testimone errante degli avvenimenti che hanno segnato mezzo secolo di storia dal Medio Oriente al Sud America, passando per la Sarajevo assediata. Passaggi cruciali già immortalati dal suo obiettivo che grazie a questo libro acquistano un rinnovato interesse, perché Ursula Janssen, che di Manoocher Deghati è anche la moglie, ci svela finalmente anche quello che avveniva dietro la macchina fotografica.

Brindisi, municipio romano (seconda parte)

di Nazareno Valente

In base ai dati desumibili dai ritrovamenti archeologici, si è portati a credere che il foro brindisino si posizionasse lì dove ora c’è piazza Mercato. In quello spazio si riunivano i comitia, le assemblee del tempo, composte dai cives e dagli incolae che nel complesso costituivano il populus, vale a dire chi, sia pure in diversa forma, era in possesso dei diritti civili e politici.

I cives erano cittadini di pieno diritto del municipio e, in quanto tali, iscritti alla tribù cui apparteneva la città. Le tribù – 35 nel complesso – non avevano alcun rilievo di carattere etnico, essendo dei puri e semplici distretti elettorali nei quali i cittadini romani erano ripartiti. Per la cronaca, Brindisi faceva parte della tribù Maecia, insieme a Napoli, Paestum, Hadria e Libarna.

Gli incolae erano invece per lo più forestieri che avevano richiesto ed ottenuto di risiedere nel territorio cittadino, oltre ad uno sparuto numero di brindisini cui non era stato riconosciuto il diritto latino nel periodo coloniale. Il populus così composto era ripartito in distretti politico-amministrativi, chiamati «curie», e partecipava alla vita pubblica prendendo appunto parte alle assemblee cittadine che, in prevalenza, avevano scopi elettorali ma anche di controllo delle attività finanziarie del municipio.

Così come per gli attuali comuni, anche i municipi romani avevano un organo collegiale di base, assimilabile ai consigli comunali, con funzioni quindi normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile organo era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales.

Le regole per diventare decuriones erano molto più rigide rispetto alle attuali. Intanto bisognava essere cives, il che presupponeva il possesso dei pieni diritti civili e politici; avere un’età non inferiore ai 25-30 anni; avere il domicilio in città da almeno cinque anni; godere degli honores (vale a dire il poter accedere alle magistrature); essersi sempre comportati in maniera inappuntabile e non aver mai esercitato mestieri infamanti. Di fatto gli attori, i banditori, i tenutari di case di tolleranza, gli impresari di pompe funebri ed i gladiatori – tutti mestieri allora ritenuti disonorevoli – non potevano aspirare al decurionato.

Le prescrizioni però non si fermavano a quelle elencate, perché occorreva avere un ben determinato censo, il cui ammontare in genere non doveva essere inferiore ai 100.000 sesterzi, vale a dire fruire d’un reddito quantificabile a spanne sui 400.000 € annui. Ed il motivo è del tutto comprensibile: i decurioni, non solo non percepivano, come avviene adesso, assegni mensili, né tantomeno vitalizi oppure vantaggi economici di vario tipo, ma erano pure soggetti a versare una cifra annuale (summa honoraria) necessaria a coprire spese ed eventuali ammanchi nel bilancio annuale del municipio. Il che spiega anche come mai i decurioni eleggibili fossero in numero molto elevato (in genere, cento); era infatti questa la migliore strategia per diluire gli oneri comunali tra quanti più cittadini facoltosi era possibile.

A questo punto, una domanda sorge però spontanea: come si riusciva a trovare tanti possidenti disponibili ad assumere un incarico gratuito, che in aggiunta comportava oneri monetari consistenti?

Parrà strano, per la nostra mentalità tutta volta al profitto, eppure allora c’era la fila di aspiranti decurioni.

Potessero rispondere direttamente gli interessati, con ogni probabilità racchiuderebbero il tutto con una semplice espressione: existimatio, vale a dire la buona fama. Diversamente da quel che avviene adesso, in antichità, la stima goduta valeva ben più della stessa ricchezza. In definitiva per i benestanti Brindisini il poter governare la città costituiva lo strumento più idoneo per alimentare la reputazione di cui godevano presso il resto della cittadinanza e, per un tale scopo, erano pronti a sobbarcarsi qualsiasi onere.

Fare politica ad un certo livello, era un punto d’onore per i possidenti e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento. Non c’erano riscontri monetari, tuttavia le gratificazioni riguardavano la considerazione e le attenzioni che il resto dei Brindisini riservava loro. Negli spettacoli, nei giochi, nei banchetti che seguivano i sacrifici ed in ogni altra manifestazione, fruivano di posti riservati, e avanzavano di posizione in conformità al proprio impegno civico. Come dire che più spendevano a favore della comunità, più si avvicinavano alle poltrone di prima fila.

Non a caso, le magistrature erano indicate con il termine honores, proprio a precisare che conferivano prestigio, non una retribuzione.

Era questo il meccanismo su cui le società antiche operavano maggiormente per attuare una qualche forma di ridistribuire del reddito e, vista in altra ottica, costituiva una vera e propria patrimoniale con un ritorno rappresentato dal credito che si acquisiva. Non a caso, quando con l’avvento del cristianesimo il clero assunse nella tarda antichità una posizione politica preminente ed il valore onorario della carica di decurione decadde ai minimi termini, nessuno più fu disponibile a svolgere un tale incarico. Tant’è che fu imposto ai ricchi per obbligo di legge; obbligo che tutti naturalmente cercavano di eludere.

Ironia della sorte, uno dei mezzi più utilizzati per esserne esonerati fu proprio quello d’intraprendere la carriera ecclesiastica, allora per altro non ancora esaltata dalla castità. Dal IV secolo in poi, il clero era stato infatti esentato dall’assumere cariche amministrative, in quanto il servizio religioso era già di per sé una prestazione considerata di pubblica utilità. All’incirca come adesso, a distanza di millenni, sono esenti dalle imposte sugli immobili le proprietà della Chiesa, perché ritenute comunque destinate ad attività di culto ed alla cura delle anime. Fu questo uno dei motivi, non certo marginale, che rese le istituzioni estranee al popolo, troncando quel processo d’identificazione comunemente operante nel periodo pagano che aveva reso solida la comunità romana.

L’ufficio era vitalizio, tuttavia la condotta dei decurioni era soggetta a verifiche periodiche (lectio senatus) che ne potevano stabilire la decadenza dalla carica. Ogni cinque anni infatti i quinquennales, così denominati perché la lectio senatus era fatta ogni cinque anni, potevano radiare i decurioni che si fossero macchiati di colpe riprovevoli che li rendevano indegni di far parte del collegio (indignitas ordinis) oppure estrometterli perché non avevano più il censo previsto per svolgere l’incarico o per aver perso il domicilio.

Va sottolineato che, in linea teorica, il diritto di promuovere l’accusa di indignitas nei riguardi d’un decurione spettava a qualsiasi Brindisino che, nel caso il magistrato giusdicente ne avesse accolto il ricorso, acquisiva il diritto di entrare nel collegio al posto del decurione condannato.

Ma oltre alla conferma di chi era in carica ed alla destituzione dei componenti indegni, i quinquennales procedevano anche alla scelta dei Brindisini degni di ricoprire l’incarico, basata sui meriti acquisiti proprio in campo politico. Non era però questo l’unico criterio. Poiché tutto il mondo è paese, capitava pure che il reclutamento soggiacesse, sia pure in via eccezionale, a pressioni e raccomandazioni di qualche personaggio importante, non escluso lo stesso imperatore.

I magistrati incaricati della lectio senatus predisponevano anche una lista dei Brindisini in possesso dei requisiti legali (sublectio) che servisse a colmare eventuali vuoti che si sarebbero creati nel corso del quinquennio, a seguito di decessi o di estromissioni. Infatti la diminuzione dei componenti in carica poteva comportare problemi sia per le decisioni da assumere – a volte erano previste maggioranze qualificate per le deliberazioni – sia per le casse comunali, perché si venivano a perdere le quote annuali (la più volte citata, summa honoraria) dei componenti decaduti.

L’ordo decurionum si radunava nella curia, corrispondente all’odierno palazzo comunale, oppure in un edificio pubblico, di solito un tempio o altro luogo sacro. La curia, da cui deriva il nome alternativo di curiales attribuito ai decurioni, si trovava nel foro brindisino che, come già detto, era collocato all’incirca dalle parti dell’attuale piazza Mercato.

In pratica questo organo ripeteva, a livello brindisino, quello che per Roma era il senato; per questo motivo, era pure chiamato senatus. Difatti le sue competenze spaziavano in tutti i campi della vita amministrativa cittadina. I decurioni avevano così il potere di determinare i giorni delle feste religiose; sovrintendere ai giochi svolti a Brindisi in omaggio a divinità; fissare a quali Brindisini concedere i posti privilegiati negli spettacoli; scegliere i sacerdoti. Erano inoltre competenti in materia finanziaria e patrimoniale, per cui decidevano sulle cessioni di immobili della città o sulla concessione di spazi demaniali per edificare statue da dedicare agli dèi o sepulchra (monumenti funebri) intitolati a Brindisini di particolare spicco; sull’esecuzione e sulle demolizioni di edifici pubblici; sull’uso degli acquedotti comunali e sull’accettazione di donazione e lasciti a favore del municipio.

Le delibere del consiglio dei decurioni, chiamate decreta, venivano conservate nell’archivio (tabularium) della curia, trascritte su tavolette lignee (tabulae).

Per la validità della seduta era talora previsto l’obbligo della presenza d’un numero minimo di decurioni (quorum praesentia sufficit), quindi di quelli la cui presenza è sufficiente. Questo avveniva, ad esempio, per ascoltare la relazione sul calendario annuale dei giorni festivi e quella sul piano finanziario delle spese ai sacra, oppure per l’approvazione dei decreti riguardanti le opere pubbliche o l’organizzazione delle rappresentazioni teatrali (ludi scaenici).

I decurioni decidevano a maggioranza. In alcuni casi era richiesta una procedura speciale di votazione in cui essi esplicitavano il voto scrivendolo su una tavoletta (tabella), e per questo detta procedura per tabellam. Si votava per tabellam nelle occasioni più importanti, tipo quando si doveva decidere sull’hospitalitas nel municipium, ovvero sulla concessione del diritto all’abitazione ed al vitto ad un ospite che poteva anche essere un intero esercito in armi.

(2 – continua)

 

Per la prima parte clicca qui:

Brindisi, municipio romano (prima parte)

Brindisi, municipio romano (prima parte)

di Nazareno Valente

 

C’è più d’un motivo per sospettare che soprattutto le classi più abbienti brindisine non furono per nulla soddisfatte dalla legge Iulia de civitate latinis (et sociis) danda, con cui nel 90 a.C. Roma concedeva la cittadinanza romana alle comunità dell’allora Italia peninsulare. La modifica istituzionale che tramutava la precedente autorevole colonia latina di Brindisi in un municipio romano comportava per la classe dirigente, e per quella equestre, una indubbia perdita di potere non del tutto controbilanciata dai benefici che s’acquisivano. Da un punto di vista formale la norma non implicava un obbligo, in quanto le città avrebbero potuto in teoria non avvalersi del nuovo stato giuridico e permanere in quello precedente. Tuttavia nella sostanza l’Urbe attuò tutti gli strumenti a sua disposizione per piegare la volontà anche delle comunità più riottose, magari usando bastone e carota insieme, al fine di arrivare ad una situazione di totale equiparazione istituzionale.

Silla — peraltro grato ai Brindisini che l’avevano accolto e sostenuto nella lotta contro Mario e Cinna — accordò, appena divenuto dittatore, al futuro municipio l’ateleia1, vale a dire la franchigia per tutte le merci trattate nel porto, e questo beneficio fu sufficiente a placare ogni possibile mal di pancia. Brindisi perse in tal modo potere politico, finendo per divenire un anonimo municipio, acquisì però un notevole impulso economico.

La scelta si rivelò azzeccata soprattutto successivamente al periodo tormentato delle guerre civili in cui la città salentina si trovò, quale punto strategico di rilevo, sempre in prima linea, con inevitabili conseguenze negative per le normali attività urbane. Passata la buriana, la pace instaurata da Augusto dopo Azio (31 a.C.) e le mutate mire espansionistiche dell’Urbe — indirizzate ormai verso il nordest dell’Europa — oscurarono l’importanza militare del porto brindisino, superato in tal senso da Ravenna e Miseno, nel frattempo scelte ad ospitare la flotta imperiale.

Le nuove strategie tolsero sì la ribalta alla città — che infatti nel prosieguo sarà meno citata dagli storici — ma ebbero l’effetto salutare di preservarla dai contraccolpi negativi che il coinvolgimento nelle attività belliche implicava, primo fra tutti quello di non dover più avere a che fare con i legionari, le cui frequenti prepotenze erano causa di grave imbarazzo per la popolazione civile.

Brindisi si mise alle spalle le pericolose glorie del passato e inaugurò il suo periodo più redditizio, la cui durata andò ben oltre le radicali riforme di Diocleziano avviate alla fine del III secolo dell’era cristiana. Fu così possibile sfruttare il porto in senso commerciale e ciò procurò notevoli vantaggi economici perché permise, grazie innanzitutto alle agevolazioni fiscali fruite, di imporre i prodotti brindisini al ricco mondo orientale. Alle produzioni di nicchia, tra le quali la più famosa riguardava le ostriche, coltivate, diversamente da quello che si narra2, nei bacini del porto interno dove le acque erano meno soggette alle correnti e non c’era pericolo che le larve venissero disperse, si aggiungevano quelle intensive riguardanti il vino e l’olio. Prodotti questi ultimi che raggiunsero anche i più sperduti mercati delle province romane. Brindisi seppe così sfruttare gli effetti positivi conseguenti all’essere stata inserita in un organismo statale di ampio respiro che consentiva contatti internazionali sino ad allora negati alla struttura coloniale.

Esamineremo magari in futuro questo boom economico che la rese una delle più ricche comunità dell’impero. In questa occasione ci soffermeremo sull’ordinamento istituzionale del municipio brindisino, aspetto questo sinora del tutto trascurato dalla storiografia locale.

Le fonti non ci forniscono una data certa di quando Brindisi fu eretta a municipio, sebbene vari indizi inducono a ritenere che nell’83 a.C. l’iter giuridico previsto fosse ormai stato definito e che, quindi, all’incirca in quell’anno iniziarono ad operare le cariche municipali. Va qui inoltre ricordato che l’etimologia del termine municipium traeva origine da munus capere (assumere un onere) indicativo della circostanza che, in cambio della cittadinanza romana, le comunità si assoggettavano ad oneri di vario tipo, determinati nello specifico dall’atto costitutivo del municipio che fissava inoltre i limiti dell’autonomia comunale. Di fatto gli abitanti dei municipia optimo iure, come quello brindisino, avevano gli stessi diritti ed i medesimi doveri dei romani originari, mentre la loro vita cittadina era regolata dai singoli ordinamenti.

Dello statuto che disciplinava la vita municipale della città non è rimasta neppure la più esigua traccia, per cui la struttura amministrativa è ricostruibile solo attraverso i testi epigrafici o le sparse informazioni disseminate nei resoconti degli autori antichi che, in genere, si soffermavano poco su questi aspetti dando per scontato che i loro lettori ne fossero a perfetta conoscenza. L’ordinamento di Brindisi non può pertanto essere completamente delineato perché esso presentava aspetti particolari sui quali, data la limitatezza delle notizie concesse dalle fonti, è possibile solo formulare delle ipotesi. Pur tuttavia poiché la riorganizzazione delle comunità italiche in municipi avvenne seguendo uno scenario legislativo comune, è possibile integrare le nostre conoscenze con quanto si è in grado di desumere, per analogia, dagli ordinamenti delle altre città coinvolte nella medesima riforma.

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

di Salvatore Coppola

A partire dai primi giorni di dicembre 1949, migliaia di contadini provenienti dai paesi confinanti con il vasto latifondo dell’Arneo si portarono con gli attrezzi di lavoro su quelle terre; l’occupazione si protrasse per più di un mese, mentre contemporaneamente venivano occupate altre terre nelle zone di Otranto e Ugento, nell’area del Magliese, a Surbo, Trepuzzi e Squinzano. La posta in palio sembrava molto alta e decisiva. La CGIL nazionale aveva posto con forza l’obiettivo dell’attacco al sistema del latifondo e l’avvio di una politica di concessione delle terre a favore, non solo delle cooperative, ma anche delle singole aziende familiari; le terre, inoltre, non dovevano essere concesse per un periodo limitato di quattro o nove anni, come previsto dalle precedenti leggi Gullo e Segni, ma occorreva prevedere per i braccianti e i contadini poveri il diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni. La CGIL sollecitava, inoltre, l’adozione di strumenti idonei a favorire una politica di incentivazione e di agevolazioni creditizie per una razionale messa a coltura delle terre concesse. Nel corso delle riunioni che si tennero presso la Prefettura di Lecce nei primi giorni di dicembre 1949, la Confederterra provinciale, sostenuta dall’ampiezza del movimento di occupazione delle terre, chiese alle autorità e ai rappresentanti della controparte padronale di non limitare la discussione alla sola zona del latifondo d’Arneo (dove gli agrari erano disposti a concedere poco più di 1.000 ettari), ma di prevedere la concessione delle terre anche delle zone ricadenti nella fascia adriatica, nella fascia ionica e nell’area del Magliese, nella prospettiva di una limitazione della proprietà terriera. La CGIL (e con essa i dirigente della Federazione leccese del Partito comunista) non intendevano promuovere e dirigere una lotta solo difensiva, tendente cioè all’applicazione delle leggi in vigore, bensì miravano a sviluppare una strategia che modificasse i secolari rapporti di classe nelle campagne attraverso l’espropriazione e la successiva concessione delle terre ai braccianti e ai contadini poveri allo scopo di assicurare una più razionale e produttiva coltivazione delle stesse e di garantire un reddito che favorisse il radicamento delle famiglie contadine, nell’ottica di un miglioramento dell’economia nazionale. L’occupazione dell’Arneo (a cui parteciparono lavoratori provenienti da Nardò, Veglie, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leveranno, Monteroni, Salice e Campi Salentina) si protrasse per più di un mese. In quegli stessi giorni di dicembre 1949 e gennaio 1950, il movimento si diffuse a macchia d’olio e interessò molte altre zone. Solo per ricordare i momenti più significativi di quella lotta, ricorderemo che nei primi giorni di dicembre 1949 oltre duemila braccianti e contadini poveri di Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Muro, Collepasso, Sogliano, Nociglia, Poggiardo occuparono le terre in località Fornelli, Monaci, Canne, Francavilla, Lucagiovanni di proprietà Guarini, De Marco e De Donno; i contadini di Surbo, Squinzano e Trepuzzi occuparono le masserie Li Gelsi, La Solicara e altre terre di proprietà del commendatore Bianco, del barone Personè, della principessa Ruffo e del commendatore Francesco Guerrieri; i lavoratori di Galatina, Cutrofiano e Sogliano occuparono le terre di proprietà Bardoscia, Mongiò e Vergine; un migliaio di lavoratori di Ugento, Felline, Alliste, Presicce, Salve, Melissano, Morciano, Casarano, Racale e Taviano occuparono in località Rottacapozza, Bovi, Torre Pizzo e le proprietà del fratelli Serafini; i braccianti di Melendugno, Borgagne, Corigliano, Carpignano e Martano occuparono le terre ricadenti nelle contrade Appidè, Padolicchie, Gianmarino, Frassanito e Pozzelle. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947 (quando due lavoratori, Nino Maci e Antonio Tramacere erano stati uccisi nel corso di una manifestazione sindacale a Campi Salentina), non si verificarono incidenti gravi, come quelli che negli stessi mesi dell’autunno 1949 e inverno 1950 provocarono le stragi di Melissa in Calabria, Montescaglioso in Lucania, Torremaggiore in Puglia e Celano in Abruzzo. La repressione fu comunque molto dura, centinaia di lavoratori e molti dirigenti sindacali furono arrestati e rinviati a giudizio[1].

 

Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio furono emanati i primi decreti prefettizi di concessione delle terre di proprietà Tamborino e Bozzi Colonna (300 ettari delle masserie Colarizzo, Fattizze, Case Arse e Bonocore ricadenti in agro d’Arneo) a favore di lavoratori di Veglie, Carmiano, Magliano e Copertino; 50 ettari della masseria Monacelli (di proprietà di Francesco Guerrieri) e 60 della masseria La Solicara (di proprietà barone Personè) furono concessi a lavoratori di Surbo e Trepuzzi. Altri 250 ettari furono concessi a lavoratori di Maglie, Muro, Scorrano, Surbo, Vernole e Lizzanello; altre concessioni seguirono nei mesi successivi. Nel complesso le lotte del 1949/50 portarono all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori concessionari, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni. I risultati raggiunti erano però ritenuti insufficienti rispetto alle reali necessità dei lavoratori agricoli. È per questo (oltre che per chiedere che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie attuate nella fase della concessione a danno dei lavoratori che maggiormente si erano impegnati nel movimento di lotta), che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni per chiedere, oltre all’assegnazione delle terre incolte, anche la concessione degli oliveti con contratti di compartecipazione[2].

 

In una relazione sulle lotte per le terre incolte che si erano sviluppate nel Salento negli ultimi mesi del 1949, il segretario della Federazione provinciale del PCI Giovanni Leucci notava che, nonostante al movimento avessero partecipato più di 15.000 contadini, il partito era stato colto impreparato dal punto di vista organizzativo e i contadini si erano mossi soprattutto sull’esempio di quelli calabresi. Lo spirito di lotta degli occupanti – a parere di Leucci – era stato “meraviglioso” soprattutto sull’Arneo, dove la zona era stata occupata per più di trenta giorni e trenta notti, nonostante i centri da cui provenivano i lavoratori distassero molti chilometri. Gli occupanti avevano dissodato il terreno, raccolto la legna ed effettuato altri lavori; non si erano avuti scontri violenti con la polizia perché i contadini avevano adottato «forme di mobilitazione tali da impressionare la forza pubblica» che aveva, dopo il primo giorno, «rinunziato ad ogni tentativo di disperdere le masse»; un centinaio di lavoratori erano stati fermati, 10 erano stati arrestati, qualcuno era stato preso, picchiato e quindi arrestato. Grazie a quelle lotte i lavoratori avevano ottenuto in concessione alcune centinaia di ettari anche se si trattava di una conquista certamente insufficiente, per cui si rendeva necessario riprendere al più presto la lotta, che però – così concludeva Leucci – sarebbe stata preparata «sulla base dei suggerimenti della Commissione Agraria del Partito». Da più parti e a vari livelli si lamentava un certo ritardo programmatico degli organi dirigenti del partito e del sindacato sulle prospettive politiche ed economiche della lotta per la terra. Antonio Ventura, segretario della Confederterra, uno dei maggiori protagonisti del movimento di lotta di quegli ricorda:

 

[…] nel sindacato e nel partito si delineò un forte schieramento che – con i sacri testi alla mano – si sforzò di dimostrare la pericolosità e l’avventurismo insito nella occupazione e ripartizione della terra laddove, come nel Salento: a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini. Fu necessario sconfiggere queste posizioni sul piano teorico (in numerose e accanite discussioni) e su quello pratico (alla fine fu convocata una riunione allargata della Confederterra che pose in minoranza i contrari all’occupazione) prima di giungere all’alba del 3 dicembre 1949 […][3].

 

Antonio Ventura, e insieme con lui altri dirigenti del sindacato e del partito (soprattutto Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo) sostenevano la necessità di prestare maggiore attenzione ai problemi dei coltivatori diretti attraverso la costituzione di una loro associazione autonoma che limitasse l’influenza che sulla categoria esercitava l’organizzazione della Coldiretti (fondata da Paolo Bonomi) che, a loro parere, mirava a contrapporre i coltivatori diretti ai braccianti agricoli[4].

Note

[1] S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci, cit.; sulla vicenda di Campi Salentina del novembre 1947, IDEM, Quelle innocenti vittime del riscatto sociale, Giorgiani, Castiglione 2018.

[2] G. Gramegna, Braccianti e Popolo in Puglia, De Donato, Bari 1976.

[3] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in Togliatti e il Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 329. La relazione di Leucci del 13/2/1950 e i successivo dibattito in Archivio Fondazione Gramsci (Fg), Archivio PCI, Micro Film (MF) 0328.

[4] Per le lotte del biennio 1949/50, Archivio di Stato di Lecce (Asle), Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

di Salvatore Coppola

 

Nel 70° anniversario dell’approvazione delle prime leggi organiche di riforma agraria del secondo dopoguerra (di cui la più importante è la cosiddetta legge stralcio dell’ottobre 1950) è possibile tracciare un bilancio sul movimento di lotta che, sviluppatosi soprattutto sul latifondo dell’Arneo (ricadente per la sua maggiore estensione in agro di Nardò) ha consentito ai lavoratori agricoli della provincia di Lecce di inserirsi nel più generale movimento di occupazione delle terre che ha visto protagonisti i braccianti e i contadini poveri di molte regioni meridionali.

Il problema della conquista della terra da parte dei lavoratori agricoli del Mezzogiorno ha interessato la politica italiana fin dai primi anni successivi all’Unità. Importanti e significative lotte agrarie si sono sviluppate nel biennio 1919/1920, quando la promessa di concedere le terre, fatta nel corso della guerra, aveva alimentato la speranza dei lavoratori agricoli di poter conseguire, attraverso il possesso di un pezzo di terra, un riscatto sociale ed economico atteso da decenni. Dopo i primi timidi tentativi fatti dal governo presieduto da Francesco Saverio Nitti di venire incontro alle attese dei contadini con l’emanazione dei decreti Visocchi e Falcioni (dal nome dei due ministri dell’agricoltura) che prevedevano la concessione di terreni demaniali a favore delle cooperative degli ex combattenti, la reazione degli agrari (sostenuti dallo squadrismo fascista) e l’avvento del fascismo al potere avevano posto fine ad ogni movimento di lotta e di rivendicazione. Nel secondo dopoguerra si ripropose in tutta la sua drammaticità il problema della terra e della riforma fondiaria, che, a distanza di quasi cento anni dall’Unità d’Italia, è stata in parte conseguita con l’emanazione delle leggi del 1950. Come si sia giunti all’emanazione delle leggi di riforma agraria e quali conseguenze abbiano avuto le stesse per l’economia del Salento, quali sono state le condizioni storiche e politiche che ne hanno favorito l’emanazione e qual è stato il ruolo delle forze sindacali e dei partiti politici che hanno promosso le lotte per la terra nel Salento, sono stati temi dibattuti nel corso di un convegno di studi (che si è tenuto nei giorni 12-13 e 14 gennaio 2001 a Nardò, Copertino, Leverano e Campi Salentina), promosso dalla Società di Storia Patria per la Puglia (sezioni di Maglie e Lecce), dal collettivo di cultura Ibrahim Masiq di Lecce, dal GAL Terra d’Arneo e dall’Insegnamento di storia delle dottrine politiche della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce[1].

Il movimento di occupazione delle terre nel secondo dopoguerra si è sviluppato in provincia di Lecce in due fasi, la prima delle quali, tra il 1944 e il 1949, aveva come obiettivo la concessione delle terre incolte sulla base di quanto previsto dalle leggi agrarie promosse dai governi di coalizione antifascista (il decreto luogotenenziale n. 279 del 19/10/1944 voluto soprattutto dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo e quelli successivi emanati dal ministro Antonio Segni nel 1947). Nella seconda fase (1949/1951) il movimento di lotta ha avuto come obiettivo principale quello della riforma agraria generale. Le leggi agrarie del periodo 1944/1947 avevano un carattere per certi aspetti innovativo rispetto alla tradizione storica italiana; nel contesto politico dell’unità antifascista, mentre si decideva di rinviare al varo della Costituzione la soluzione dei problemi strutturali e della riforma agraria generale, assunsero una certa importanza i provvedimenti adottati (la legge sulla concessione, per quattro o nove anni, delle terre incolte, quella sulla proroga dei contratti agrari e sulla parziale modifica degli stessi, con la previsione di una ripartizione dei prodotti più favorevole ai lavoratori, la legge sui benefici a favore delle cooperative per la conduzione dei terreni, le disposizioni sui decreti riguardanti l’imponibile di manodopera, ecc.). Ma già dai primi mesi del 1945, la CGIL (che tenne il suo primo congresso delle regioni dell’Italia liberata nel mese di febbraio), e successivamente la Confederterra (l’organizzazione dei lavoratori agricoli) avevano indicato nella riforma agraria generale lo strumento capace di garantire una prospettiva di sviluppo alle grandi masse dei lavoratori che, fin dal 1944, avevano dato vita al movimento di occupazione delle terre[2].

Due delle categorie agricole più importanti della provincia di Lecce (dove avevano minore estensione rispetto ad altre aree del Mezzogiorno i rapporti di mezzadria e colonia) erano quelle dei braccianti e dei coltivatori diretti, anche se erano abbastanza diffuse le figure sociali cosiddette miste (salariati, piccoli proprietari e fittavoli). La Confederterra salentina tra il 1947 e il 1949 riuscì ad organizzare migliaia di braccianti, tabacchine, coloni e mezzadri ma, sui circa 70.000 coltivatori diretti, gli iscritti non superarono mai le poche centinaia. È per questo che, all’interno dell’organizzazione, prevalevano le tematiche bracciantili su quelle specifiche delle altre categorie. In una relazione sull’attività della CGIL in Puglia (scritta dal dirigente nazionale Gustavo Nannetti nel 1949) venivano evidenziate le difficoltà (presenti soprattutto all’interno della Confederterra) dovute ad uno stato di conflittualità tra le diverse organizzazioni di categoria agricole (braccianti, mezzadri e coloni, coltivatori diretti). Nella primavera del 1949 (in coincidenza con il dibattito parlamentare per l’approvazione della nuova legge sul collocamento) si registrò in tutto il Salento una ripresa della mobilitazione sindacale per sostenere le rivendicazioni dei braccianti (diritto all’indennità di disoccupazione, stipula del contratto provinciale di categoria, garanzie per l’iscrizione negli elenchi anagrafici, concessione delle terre incolte, ecc.). Nei primi giorni di novembre del 1949, nel corso del congresso nazionale della Federbraccianti, il segretario Luciano Romagnoli indicò al movimento sindacale l’obiettivo della concessione delle terre incolte che sancisse, sul piano legislativo, il principio della fissazione di un limite alla proprietà privata. Nei giorni successivi la mobilitazione dei lavoratori raggiunse punte molto elevate; nelle province di Bari e di Foggia, ma anche nel Salento, alla lotta per la costituzione delle commissioni di collocamento e per l’applicazione dei decreti sull’imponibile di mano d’opera, si accompagnò quella per la concessione delle terre incolte. Era quello il periodo in cui masse di braccianti calabresi e siciliani occupavano i latifondi, e proprio sull’onda delle notizie che giungevano soprattutto dalla Calabria, nel Salento ci fu una ripresa su vasta scala dell’occupazione delle terre. Parliamo di ripresa perché già tra il 1944 e il 1945 si erano avuti i primi fenomeni di occupazione di terre incolte che avevano portato alla concessione, nel 1946, di poco più di duecento ettari a cooperative di contadini di Veglie, Carmiano e Martano (anche se, dopo appena un anno, le cooperative erano state in pratica costrette ad abbandonare quelle terre in quanto era risultata pressoché nulla, in mancanza di una seria politica di sostegno creditizio e di altre misure organiche, la possibilità di conseguire da quelle terre un reddito sufficiente)[3].

 

 

Note

[1] La presente relazione è una riedizione aggiornata di quella presentata al convegno di studi del gennaio 2001 (L’occupazione delle terre nell’Arneo e la politica agraria del PCI salentino, pp. 109-145), i cui atti sono stati pubblicati in M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, ed. Lacaita, Manduria 2001. Sulla vicenda dell’occupazione delle terre dell’Arneo, S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci. La lotta dei braccianti salentini per la redenzione dell’Arneo, Grafiche Giorgiani, Castiglione 1997; R. Morelli, Cristiani e Sindacato dalla fase unitaria alla CISL nel Salento. 1943-1955, Capone, Cavallino 1992, pp. 112-120; G. Giannoccolo, L’occupazione delle terre nel Salento nel quadro di due linee di politica agraria, in M. Proto, Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit, pp. 147-161; M. Spedicato, L’utopia sconfitta. Dai contadini senza terra alla terra senza contadini, ivi, pp. 179-189. Sulle proposte di politica agraria delle organizzazioni sindacali, F. De Felice, Il movimento bracciantile in Puglia nel secondo dopoguerra (contenuto negli atti del convegno organizzato dall’Istituto Gramsci Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, De Donato, Bari 1979).

[2] Sulle proposte di politica agraria delle organizzazioni sindacali: R. Stefanelli: Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967, De Donato, Bari 1975, pp.23-25; R. Zangheri: Movimento contadino e storia d’Italia, in Studi Storici n. 4/1976, p. 19.

[3] La relazione di Nannetti è contenuta nell’Archivio nazionale della Federbraccianti (oggi Flai-Cgil).

Libri| Luigi Semola. Agronomo, economista e politico

Marco Imperio, Luigi Semola. Agronomo, economista e politico, Lecce, Eusist, 2016

 

PREFAZIONE di Franco Antonio Mastrolia, Docente di Storia Economica – Università del Salento

Tra i personaggi che hanno avuto poca attenzione da parte degli storici è senz’altro Luigi Semola, nato a Muro nel 1783 da ricca famiglia di origine spagnola. Studia ad Otranto per trasferirsi a Lecce e, infine, a Napoli dove vive l’esperienza liberale. Per il suo carattere forte e la vasta intelligenza, ricopre numerosi e delicati incarichi. Prima verificatore di sale e dogana ad Otranto, poi decurione di Otranto dal 1814 al 1815 e consigliere distrettuale dal 1836 al 1839 e ancora consigliere provinciale di Terra d’Otranto dal 1840 al 1843 e dal 1853 al 1856. Sorvegliato negli anni Venti dalla polizia in quanto carbonaro, partecipa ai moti liberali del 1848. E’ il primo presidente della provincia di Terra d’Otranto nell’Italia unificata e deputato al Parlamento, rappresentando il collegio di Maglie nella IX legislatura dal 1865 al 1867. Muore ad Otranto nel 1872.

Oltre al suo impegno politico, poco conosciuto, Semola è ricordato come attento amministratore e impegnato per la crescita agricola ed economica di Terra d’Otranto. Inizia con l’amministrare il patrimonio regolare della diocesi di Otranto e subito le sue capacità sono riconosciute dai pochi attenti latifondisti. Viene chiamato a gestire dal 1828 e sino al 1860, come amministratore generale e vicario generale della casa Granito-Pignatelli, le diverse proprietà introducendo nuove coltivazioni, attrezzi agricoli e pressoi idraulici, con una gestione innovativa. La fiducia del principe Angelo Granito di Belmonte è massima, tanto da affidargli la costruzione a Galatone di un grande stabilimento oleario illuminato a gas nel 1845, il primo in Terra d’Otranto e ricordato, tra gli altri, dal Castiglione, Balsamo, De Giorgi, Arditi, e di recente da Zacchino, da Imperio e da chi scrive.

Non manca il suo contributo, in qualità di socio ordinario, della Società Economica di Terra d’Otranto. Gaetano Stella, segretario perpetuo, lo ricorda per il suo talento, le cognizioni scientifiche ed agrarie. Il 23 gennaio 1864 il prefetto di Lecce lo informa che, per il suo contributo “al progresso agricolo”, il Ministero di agricoltura, industria e commercio gli concede il diploma magistrale di cavaliere.

Un personaggio, dunque, di spessore ma anche “enigmatico” sul quale il dott. Marco Imperio, dopo l’importante contributo su Vincenzo Cepolla, ha lavorato con non poche difficoltà, scavando diversi fondi archivistici. Le approfondite ricerche hanno dato il giusto valore ad un personaggio di rilievo, che vive in un periodo di grandi difficoltà e di cambiamenti. Nonostante l’esiguità delle fonti archivistiche e bibliografiche, grazie all’attenta e appassionata ricerca dell’Autore, possiamo inserire senza alcun dubbio Luigi Semola tra i “benemeriti” di Terra d’Otranto.

La Terra d’Otranto in sette vedute ottocentesche

di Armando Polito

Credo che il potere dell’immagine, e non mi riferisco solo a quella artistica quale può essere una pittura, sul testo sia incontrovertibile, solo pensando all’effetto immediato e d’insieme (sul suo livello di profondità non m’attardo) che essa produce in chi l’osserva. La tecnologia digitale negli ultimi decenni ha favorito la prevaricazione, spero non definitiva, dell’immagine sul testo portando all’estreme conseguenze ciò che in passato era una rarità costosa che pochi, autori e lettori, potevano permettersi. E il pensiero corre alle miniature dei manoscritti medioevali e, dopo l’invenzione della stampa, alle tavole destinate a corredare testi per lo più scientifici o riguardanti la letteratura greca e latina (penso, in particolare alle innumerevoli  cinquecentine con le Metamorfosi di Ovidio tradotte e illustrate, sulla scia di analogo processo di “moralizzazione” innescato fin dal secolo XIV), prodotti oggi diremmo di nicchia, per arrivare poi nel XIX secolo alle edizioni illustrate di opere letterarie contemporanee (spicca tra tutte la quarantana dei Promessi sposi con le tavole di Francesco Gonin). In tempi in cui ci sentiamo quasi obbligati dalla sezione virtuale della nostra vita sociale a rendere partecipe tutto il mondo, soprattutto con foto e video, dei momenti anche più futili ed idioti della nostra esistenza, vacanze in luoghi più o meno esotici e … visite più o meno frettolose al bagno comprese, restiamo perfino perplessi se troviamo poche (rispetto alla mole dell’opera) illustrazioni in una produzione letteraria che nei secolo XVIII e XIX ebbe grande risonanza: i resoconti di viaggi. Chi non ha letto o  almeno una volta non ha sentito nominare, per esempio, il Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile di Jean-Claude Richard de Saint-Non, uscito a Parigi in quattro volumi dal 1781 al 1786? Avremo fra poco occasione di ritornarci a proposito di alcune tavole, ma intanto mi preme ricordare che non a caso le prime due parole del titolo ricorreranno in una caterva di opere consimili uscite nel secolo successivo e che pittoresco non sta nel dominante significato attuale di curioso, ma eredita quello che aveva nel secolo precedente, cioè si riferisce ad un gusto pittorico che rappresenta prevalentemente paesaggi solitari, specialmente con imponenti architetture o rovine, caratterizzato da forti effetti chiaroscurali. E due tra i periodici più diffusi del secolo XIX, entrambi napoletani,  erediteranno questa tendenza, non solo nel nome: il Poliorama pittoresco uscito dal 1830 al 1860 e L’omnibus pittoresco dal 1838 al 1854; al primo, guarda caso, farò fra poco riferimento anche per un dettaglio iconografico.

Nel novero delle innumerevoli relazioni di viaggio del secolo XIX un posto di rilievo spetta certamente a quella napoletana di Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi dal titolo Viaggio pittorico nel regno delle due Sicilie, uscita in tre volumi dal 1830 al 1833.

Di quest’opera, che rappresenta certamente per quanto dirò a breve,  un gesto di coraggio imprenditoriale oltre che di sfida culturale, ignorerei ancora l’esistenza se non me l’avesse segnalata qualche giorno fa l’amico napoletano Aniello Langella1, grande conoscitore e cultore di storia locale,  titolare del blog Vesuvioweb (http://www.vesuvioweb.com/it/ ), che invito a visitare, non solo per gli aspetti che ha in comune con quello che mi ospita, non ultimo l’assenza di qualsiasi forma di pubblicità.

Un esemplare è custodito nella  ETH-Bibliothek di Zurigo (https://doi.org/10.3931/e-rara-51757) e da questo sono tratte le immagini che seguiranno relative all’argomento, cominciando dal frontespizio.

In basso si legge: NAPOLI Presso gli Editori Vico di S. Anna di Palazzo N° 38 presso Nicola Settembre negoziante di carta strada Toledo n° 290.

Questo spiega i concetti di coraggio e di sfida messi in campo qualche riga fa. Gli autori, infatti, avevano costituito fin dal 1825 un’impresa litografica che già nei due anni successivi si distinse per un primo album di tavole aventi come soggetto figure tipiche del popolo napoletano, cui seguì, con successo maggiore, un secondo.

Di seguito una parziale carrellata.

Il venditore di maccheroni cotti/Il segretario degli idioti*

* Era al servizio di chi non sapeva scrivere; idiota sta in senso etimologico, dal latino idiota(m)=ignorante, a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes) che dal significato di privato cittadino passò in un disgraziato climax a quello di popolano (non degno di pubblici incarichi) e poi a quello di ignorante; mi viene in mente per associazione parziale di idee il grande successo riscosso nel XIX ed oltre dal segretario galante, genere editoriale basato su opuscoli contenenti lettere preconfezionate, cui potevano attingere utenti, soprattutto innamorati, che sapevano leggere e scrivere ma non erano dotati di grandi capacità linguistiche o di sufficiente fantasia.

Il cambiamonete/Il pescivendolo

 

Il ciabattino/Lo zoccolaio

 

Il franfellicaro*/La venditrice di castagne infornate

* Venditore di franfelliche, pezzetti di zucchero e miele colorati; dal francese fanfreluche=fronzolo, a sua volta dal dal latino medioevale  famfaluca o famfoluca (Du Cange, p. 409, a sua volta dal greco dal πομϕόλυξ  (leggi pomfòliux=bolla d’aria,  vescichetta, efflorescenza metallica.

Tuttavia fu proprio il Viaggio pittorico il loro capolavoro editoriale, anche se il nome del Bianchi rimase un po’ defilato, mentre quello del Cuciniello ebbe gli onori della cronaca, tanto che in occasione del trasferimento della sua salma dalla sepoltura comune a quella della cappella di famiglia a cinque anni dalla morte comparve sul settimanale Poliorama pittoresco, n. 25, del Gennaio 1845, un articolo corredato anche del suo ritratto in un’incisione di Gaetano Riccio (lo riproduco di seguito).

 

Alla Terra d’Otranto nella prima parte del secondo volume  sono dedicati vari pezzi testuali con questi titoli: Veduta di Otranto (pp. 87-88 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Brindisi (pp. 193-194 con successiva tavola fuori testo); Colonna miliare di Brindisi (pp. 195-196 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Taranto (pp. 101-102 con successiva tavola fuori testo)2; La piazza di Lecce (pp. 103-104 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Lecce (pp. 105-106 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Gallipoli (pp. 107-108 con successiva tavola fuori testo); La tribuna della cattedrale di Otranto (p. 109 con successiva tavola fuori testo). in calce recano tutte la firma del disegnatore Francesco Wenzel a sinistra e dei litografi Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi a destra, ad eccezione di quella relativa ad Otranto, il cui disegno è di Gioacchino Forino.

Le riproduco nell’ordine appena riportato.

1) VEDUTA DI BRINDISI  

 

 

2) COLONNA MILIARE DI BRINDISI

 

3) VEDUTA DI TARANTO

 

 4) LA PIAZZA DI LECCE

 

   

5) VEDUTA DI LECCE

 

6) VEDUTA DI GALLIPOLI

 

7) LA TRIBUNA DELLA CATTEDRALE DI OTRANTO

  

Giunto a questo punto, non son riuscito a resistere alla tentazione di operare un confronto tra queste vedute e quelle riguardanti lo stesso soggetto che sono a corredo del Voyage del Saint-Non3. A sinistra le francesi, a destra le napoletane, che, secondo me, non hanno nulla da invidiare alle prime.

BRINDISI

LECCE

TARANTO

___________

1 Si tratta del dottore, non dell’omonimo, molto più giovane ballerino, anche lui napoletano (di Torre Annunziata, mentre il primo è originario di Torre del Greco) che s’incontra come prima ricorrenza in Google. Lo preciso  con tutto il rispetto  per i ballerini …

2 Per un errore di rilegatura questa sezione si trova qui e non prima.

3 Sono 9 e si trovano nel tomo III uscito nel 1783: due per Brindisi ed una ciascuna per Lecce, Squinzano, Maglie, Otranto, Soleto, Gallipoli e Manduria.

 

  

Vuoi pubblicare? Basta pagare! Parola di Giovanni Domenico Salviati, simpatico letterato leccese del XVII secolo e di Pietro Micheli, suo editore altrettanto simpatico, entrambi amanti del vino, almeno sulla carta …

di Armando Polito

Incisione di Geronimo Cock del 1556 (per comprendere il suo inserimento bisogna arrivare alla fine) tratta da https://lib.ugent.be/catalog/rug01:002293875

 

Uno dei fenomeni più diffusi del nostro tempo è la proliferazione dei concorsi letterari, farsesca imitazione degli storici Premio Strega e Premio Campiello. Facendo leva sul narcisismo di quel terzo della popolazione italiana appartenente in via del tutto autopresunta alla categoria dei poeti (le altre, com’è noto, sono quella dei santi e quella dei navigatori, ma come la prima, non sono a tenuta stagna, nel senso che a seconda della convenienza chiunque può ascriversi a ciascuna di esse, anche se ignora l’esatta sequenza delle lettere dell’alfabeto o cos’è la bussola o ha già ammazzato quattro suoi simili), si stimola la partecipazione dei concorrenti, il cui numero sarà, grazie alla quota d’iscrizione, direttamente proporzionale al guadagno finale degli organizzatori. L’editoria in genere, però sembra aver messo da parte l’ingrediente fondamentale di qualsiasi attività imprenditoriale, cioè il rischio, adagiandosi nel comodo letto di sponsorizzazioni private e pubbliche (penso soprattutto ai quotidiani), trascurando il parametro del talento e del merito ed assecondando il gusto dominante di una caterva di lettori superficiali e suggestionabili. Così è difficile che essa scopra e promuova (pardon, produca …) personalità che entreranno a far parte della storia, anche minore o, addirittura, locale della letteratura e sarà sempre costretta a costringere gli autori a darsi da fare per il lancio della loro creazione in una serie di presentazioni, dalla più visibile (in tv) alla meno (qualche pro loco). Nemmeno sotto tortura”editori” ed “autori” confesserebbero questo stato di cose che dal punto di vista valoriale presenta molti, se non solo, lati deboli e su domanda farebbero intendere l’esistenza di un rapporto di reciproca stima. Stavano così le cose pure in tempi in cui il libro, fosse anche il più leggero, era un prodotto riservato a pochi (oggi, magari, per non sentirsi fuori, molti lo acquistano, pochissimi lo leggono …), oggi diremmo di nicchia, perché la pubblicazione comportava costi elevati non esistendo i mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia (basta pensare alle tavole che prima di arrivare alla stampa dovevano fare i conti con la penna del disegnatore e poi col rame dell’incisore), per cui non era neppure immaginabile l’abbassamento del prezzo che di regola l’economia di scala comporta? Chi ha dimestichezza con libri datati avrà notato che è immancabile una dedica, in alcuni casi chilometrica, a personaggi politicamente (ed anche allora il gemellaggio tra questo avverbio ed economicamente era quasi automatico) di rilievo, del quale padrone colendissimo il dedicatore si dichiarava umilissimo ed obbligatissimo servo osservantissimo (vada per il resto ma le due ultime due parole costituiscono una ridicola tautologia). E tutto nella speranza che il potente di turno, riconoscente per la dedica, gli concedesse qualche incarico o beneficio. Non si sottrae certamente a questa regola antica (in fondo anche a Roma i letterati dell’entourage di Mecenate erano mossi solo dall’amor patrio o dalla stima per il detentore di turno del potere) il letterato leccese il cui nome ho anticipato nel titolo.

La dedica, infatti, inizia con Al Sig.e Padron mio osservandissimo e termina con Di V. S. M. Illustre Servitore Affettionatissimo.

Sull’autore delle Rime non sono riuscito a reperire alcuna notizia e nemmeno la dedica contiene dati utili, consente solo di rilevare una certa familiarità col dedicatario: … havendo in diverse occasioni composto diversi Sonetti, parte Serii, parte Burleschi trattovi dalla natural mia vena, havendoli più volte letti ad Amici, et a V. S., essendone stato sollecitato da quelli, e comandatomi da lei, che dovesse stamparli, non hò potuto recusare. Si arguisce che si tratta di persona di un certo rilievo, come il dedicatario, del quale riproduce lo stemma e ricorda la provenienza genovese negli ultimi due versi del primo sonetto: MECENATE GENTILE (alta ventura)/venisti a Noi dal Ligure Parnaso). In mancanza di altri riscontri credo di poter avanzare come pura ipotesi di lavoro, in attesa di altri eventuali più proficui riscontri, l’identificazione con Giovanni Domenico Salviati, notaio sulla piazza di Lecce dal 1615 al 1635, il cui nome compare anche tra quelli delle persone designate ad essere aggiunte al collegio di amministrazione dell’Ospedale dello Spirito Santo di Lecce per l’amministrazione dell’eredità di Cesare Prato1.

Se la dedica rientra nella normalità, ciò che mi ha colpito del volume, a parte il sonetto iniziale di cui ho detto ed il successivo dedicato al figlio Giorgio del dedicatario, è la presenza subito dopo, quindi in una posizione ancora sufficientemente privilegiata in rapporto alla lettura, la presenza di quattro sonetti che costituiscono una sorta di simpaticissimo intermezzo tra l’autore e l’editore. Li riporto in formato immagine con, di mio, la trascrizione e le note di commento.

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a Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, Pietro Micheli, dopo un apprendistato tipografico a Roma e a Trani e una prima società costituita a Bari, nel 1631 fu il primo stampatore a Lecce. morì nel 1689.

b attira, spinge, induce

c Non riesco a capire la funzione delle parentesi.

d rinunziare a stamparle

e raffinato rigore formale

f Plozio Tucca e Lucio Vario Rufo erano due poeti del circolo di Mecenate; a loro Augusto diede l’incarico di pubblicare l’Eneide di Virgilio rimasta priva di revisione per la morte dell’autore. Qui Vario è diventato Varo per esigenze di rima.

g Giovanni Della Casa (1503-1556), autore, fra l’altro, di ll Galateo overo de’ costumi.

h Annibal Caro, (1507-1556), famoso per la traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide di Virgilio.

i Ludovico Castelvetro (1503 circa-1571), famoso per una polemica con Annibal Caro innescata da un giudizio negativo espresso da Castelvetro su una canzone del Caro, intitolata Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro, e motivato dal mancato stile e linguaggio petrarchesco e dai contenuti deludenti. La situazione si complicò quando Alberico Longo di Nardò (su di lui vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/21/alberico-longo-di-nardo-alle-prese-col-petrarca/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/06/nardo-alberico-longo-e-ursula/)

fu assassinato e il Castelvetro venne indicato dall’entourage del Caro come uno deimandanti. Lo stesso Caro nonsi lasciò sfuggire l’occasione per accusare di Eresia il Castelvetro, che nel 1560 fu condannato dall’Inquisizione subendo la confisca dei beni.

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a andate

b non mi rimproverate

c sistemato al suo posto

d la punta dello stilo

e Pseudonimo di Leonardo Salviati (1540-1589), la cui fama è legata alla fondazione dell’Accademia della Crusca, che si costituì ufficialmente nel 1585. Impossibile dire se il leccese ne fosse parente, caso in cui ci sarebbe da ravvisare quasi una sfumatura di autoironia.

f abituata a scrivere testi di protesta (lo stile, perciò è immediato)

g dettaglio difettoso 

 

La risposta dell’editore non si fece attendere.

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a punte

b saccente

Ecco la replica del leccese.

L’ultima parola, però, fu dell’editore.

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a bevute smodate nella quantità e nel numero

b ispirazione

c Divinità romane delle acque e e delle sorgenti; in epoca tarda furono identificate con le Muse, protettrici dlle arti.

d Fonte sacra alle Muse fatta sgorgare sul monte Elicona dal cavallo Pegaso con un colpo di zampa. Ma quella era una fonte di acqua, quella cui il salentino, per contrasto, sta per alludere è di vino.

e bevute; il verbo sgozzare è usato al participio passato sostantivato partendo dal significato tutto originale di riempirsi la gola fino a far comparire una specie di gozzo.

f La comprensione di questi quattro versi richiede la lettura del documento 1 riportato in appendice.

g Cavallino, alimentato dalla fonte Ipopocrene (vedi la nota d)

h Poeta greco del VI-V secolo a. C.

i Orazio, poeta latino del I secolo a. C., nativo di Venosa.

l è necessario chwe lo guidi Bacco

m abitudine; il verso è stranamente mancante della prima parte (quattro sillabe).

 

 

APPENDICE

Arcipoeta è il soprannome di Camillo Querno (circa 1470-1530). Riporto integralmente e traduco il paragrafo che alle pp. 51-52 gli dedicò lo storico Paolo Giovio nel suo Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur, Tramezino, Venezia, 1546: 

CAMILLUS QUERNUS ARCHIPOETA.

Camillus Quernus e Monopoli , Leonis fama excitus, quum non dubiis unquam praemiis, Poetas in honore esse didicisset in Urbem venit, Lyram secum afferens, ad quam suae Alexhiados supra vigintimillia versuum decantaret. Arrisere ei statim Academiae sodales, quod Appulo praepingui vultu alacer, et prolixe comatus, omnino dignus festa laurea videretur. Itaque solenni exceptum epulo in insula Tyberis Aesculapio dicata,potantemque saepe ingenti patera, et totius ingenii opes, pulsata Lyra proferentem, novo serti genere coronarunt; id erat ex pampino, Brassica, et Lauro eleganmter intextum, sic, ut tam false , quam lepide, eius temulentia, Brassicae remedio cohibenda notaretur; et ipse publico consensu Archipoetae cognomen, manantibus prae gaudio Lacrymis laetus acciperet, salutareturque itidem cum plausu, hoc repetito saepe carmine: 

Salve Brassica virens corona,

et lauro ARCHIPOETA pampinoque

dignus Principis auribus Leonis.

Nec multo post tanto cognomine percelebris productus ad Leonem infinita carmina in torrentis morem, rotundo ore decantavit; fuitque diu inter instrumenta eruditae voluptatis longe gratissimus, quum coenante Leone, porrectis de manu semesis obsoniis, stans in fenestra vesceretur, et de principis lagena perpotando, subitaria carmina factitaret; ea demum lege, ut praescripto argumento bina saltem carmina ad mensam, tributi nomine solverentur, et in poenam sterili vel inepto longe dilutissime foret perbibendum. Ab hac autem opulenta, hylarique sagina, vehementem incidit in podagram; sic, ut bellissime ad risum evenerit, quum de se canere iussu in hunc exametrum erupisset: 

Archipoeta facit versus pro mille poetis 

et demum haesitaret, inexpectatus Princeps hoc pentametro perargute responderit: 

Et pro mille aliis Archipoeta bibit.

Tum vero astantibus obortus est risus: et demum multo maximus, quum Quernus stupens et interritus, hoc tertium non inepte carmen induxisset:

Porrige, quod faciat mihi carmina docta Falernum. 

Idque Leo repente mutuatus a Virgilio subdiderit:

Hoc etiam enervat debilitatque pedes.

Mortuo autem Leone, profligatisque Poetis, Neapolim rediit; ibque demum, quum gallica arma perstreperent,et uti ipse in miseriis perurbane dicebat pro uno benigno Leone, in multos feros Lupos incidisset. Oppressus utraque praedurae egestatis, et insanabilis morbi miseria in publica hospitali domo, vitae finem invenit; quum indignatus fortunae acerbitatem, prae dolore, ventrem sibi, ac intima viscere forfice perfoderit.

CAMILLO QUERNO ARCIPOETA.

Camillo Querno da Monopoli, allettato dalla fama di Leone [papa Leone X], avendo saputo che i poeti con premi mai dubbi erano tenuti in onore, venne a Roma portando con sé la lira per cantare al suo suono gli oltre ventimila versi della sua Alessiade [di questo come si altri suoi poemi nulla è rimasto]. Piacque subito ai soci dell’Accademia, poiché allegro nel suo grassoccio volto apulo e capelluto sembrava assolutamente degno di una festosa laurea. E così, dopo averlo accolto in un solenne banchetto sull’isola tiberina dedicata ad Esculapio e mentre beveva spesso da una grande tazza e al suono della lira esprimeva le risorse di tutto l’ingegno, lo incoronarono di un nuovo tipo di corona. Essa era fatta di pampini, cavolo e alloro elegantemente intrecciata sicché tanto sul serio che spiritosamente si sottolineasse la sua ubriachezza e col pubblico consenso ricevesse lieto tra le lacrime di gioia il soprannome di Arcipoeta e similmente fosse salutato con un applauso, ripetuto più volte questo canto:

Salve, tu che verdeggi di una corona di di cavolo e di alloro e di pampini, degno ARCIPOETA alle orecchie del principe Leone.

Né molto dopo, celebre per tanto soprannome, portato al cospetto di Leone, recitò con la rotonda bocca  infiniti carmi a mo’ di torrente; e fu per lungo tempo graditissimo tra le risorse di erudito piacere quando, mentre Leone pranzava e con la mano gli allungava rimasugli di bocconi, lui li mangiava appoggiato a una finestra e bevendo a lungo  dal fiasco del principe dava vita a canti improvvisati, con la legge che almeno due canti fossero intonati a mensa  su un argomento prescritto, con la pena che per un esito insufficiente  o inadatto avrebbe dovuto bere vino annacquatissimo. A causa di questa ricca ed allegra alimentazione incorse in una severa podagra, sicché amenamente suscitò il riso quando, invitato a cantare di sé, se ne uscì con questo esametro:

L’Arcipoeta fa versi al posto di mille poeti

e mentre esitava il principe senza che nessuno se l’aspettasse gli rispose argutamente con questo pentametro:

E l’Arcipoeta beve al posto di mille altri

Allora sì che il riso sorse tra gli astanti e ancora maggiore quando Querno sbigottito ma intrepido proferì non a casaccio questo terzo verso:

Offrimi del Falerno, perché io componga dotti carmi

e Leone all’istante presolo a prestito da Virgilioa gli servì:

Anche questo snerva e debilita i piedi [qui il papa gioca sul doppio senso che in latino ha il piede, che, oltre al dettagli anatomico, indica anche un elemento fondamentale della metrica].

Morto poi Leone e allontanati i poeti, ritornò a Napoli. Qui infine, quando le armi dei Francesi facevano sentire il loro strepito ed egli, molto civilmente nel disagio diceva, invece di un benigno Leone si era imbattuto in molti feroci lupi. oppresso da ogni lato dal durissimo bisogno e dal tormento di un’insanabile malattia finì i suoi giorni in un pubblico ospizio, quando, indignato con la crudeltà della sorte, per il dolore con una forbice si trafisse il ventre e le viscere.

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a Da un epigramma facente parte delle opere giovanili attribuite a Virgilio (Appendix Vergiliana). Ecco i primi 4 versi: Nec tu Veneris, nec tu Vini capiaris amore,/namque modo Vina, Venusque nocent./Ut Venus enervat vires, sic copia Vini/et tentat gressus, debilitatque pedes (Non farti prendere dall’amore di Venere né da quello del vino; infatti allo steesso modo sono nocivi i vini e Venere. Come Venere snerva le forze, così l’eccesso di vino mette alla prova i passi e indebolisce i piedi). Ad esso si ispira pure la tavola di testa.

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1 Congregazione di Carità di Lecce O. P., Ospedale dello Spirito Santo, Actus aperturae testamenti inscriptis conditi per quondam D. Cesarem Prato, 22/06/1635-III, c. 1, b. 2, fasc. 18.

Tra Casanova e Don Giovanni: 125 anni fa nasceva Rodolfo Valentino

di Marco Carratta

La vicenda umana di Rodolfo Valentino è indissolubilmente legata alla parabola storica del cinema.

Per una curiosa coincidenza infatti, nello stesso anno in cui a Parigi viene proiettato quello che è accreditato come il primo “film” della storia (un documentario di 45 secondi, girato dai fratelli Auguste e Philippe Lumière, che riprende l’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat), in provincia di Taranto nasceva colui che sarebbe diventato di lì a poco il primo divo del giovane mondo della celluloide: Rodolfo Valentino. A questa coincidenza ne segue un’altra meno piacevole, perché la fama di Rodolfo Valentino è anche dovuta al fatto che terminò la sua giovanissima esistenza a soli 31 anni, all’apice del successo, nello stesso anno, nello stesso mese e nella stessa città, New York, in cui avviene la proiezione del primo film sonoro, Don Giovanni e Lucrezia Borgia. Una vera e propria rivoluzione che segnò l’inizio dell’inesorabile declino del mondo in cui Valentino era stato protagonista, quello che cinema muto.

Nato il 6 maggio 1895 a Castellaneta, cittadina in provincia di Taranto, Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi di Valentina d’Antonguolla, questo il suo vero nome, era il terzogenito di Giovanni Guglielmi, un veterinario ed ex capitano di cavalleria con una spiccata passione per l’araldica, e di Marie Berthe Gabrielle Barbin, di origini francesi e dama di compagnia di una nobildonna del luogo. In una delle tante biografie dedicate a Rodolfo Valentino, questi viene definito come “un visionario alla ricerca di altre realtà”; la sua naturale apertura a valori e tratti culturali estranei e lontani lo porta fin da giovanissimo, complice la madre, a vivere in diverse città italiane e straniere. Rimasto orfano di padre a soli 11 anni, per volontà della madre viene iscritto ad un collegio in Umbria, dal quale però verrà radiato a causa della sua poca passione per lo studio e dell’indole disubbidiente ed irrequieta. Proverà, senza successo, ad entrare all’accademia di Marina di Venezia, per poi frequentare, questa volta con profitto, l’Istituto Bernardo Marsano di Sant’Ilario di Genova, dove ottiene il diploma di tecnico agrario. Grazie alla licenza superiore si guadagna un viaggio premio a Parigi offertogli dalla madre, e nella capitale francese scopre un mondo incredibile, stimolante ed effervescente. Nei locali parigini alimenta la passione per la danza già coltivata nei locali notturni frequentati da adolescente a Perugia.

Il periodo parigino però finisce presto ma è talmente intenso da trasformare per sempre la sua esistenza.

È la capitale francese a far capire a Rodolfo che non sarebbe stata certamente Castellaneta il luogo dove poter esprimere la sua personalità eclettica. Diciottenne si imbarca per l’America sul mercantile Cleveland ma non era il “classico” emigrante diseredato. Scrive Enrico Deaglio: “era diverso dal dago (dispregiativo usato in America per identificare l’immigrato di origine latina) dalla pelle scura e dall’inglese smozzicato. Il ragazzo sapeva ballare. Sapeva indossare i vestiti, aveva imparato a Parigi. Era naturalmente elegante, parlava l’inglese, poteva sostenere una conversazione, scriveva poesie, amava comprare libri, leggerli e collezionarli”. Con queste credenziali arriva a New York il 23 dicembre del 1913. Certamente non è ancora il Rodolfo Valentino divo del cinema, e probabilmente neanche pensava di fare l’attore; d’altronde come avrebbe potuto proprio lui che da ragazzino veniva soprannominato “pipistrello” per il suo aspetto poco piacevole.

Nella città americana dissipa i suoi averi in frivolezze e si vede presto costretto a lavorare. Fa il cameriere e il giardiniere, e tutto quello che guadagnava lo investiva per continuare nella sua passione: la danza. Ogni giorno frequentava una sala da ballo e presto diviene un taxi dancer, un ballerino pagato da signore per far coppia con loro. La danza diventa sempre di più il suo mondo, e inizia a pensare in grande; sembra che scrivesse lettere utilizzando la carta intestata del lussuoso hotel newyorkese Waldorf Astoria per dimostrare alla famiglia di aver ottenuto un successo repentino, successo che effettivamente non avrebbe tardato ad arrivare.

Rodolfo lascia New York per trasferirsi prima a San Francisco e poi ad Hollywood, dove grazie ad una rete di conoscenze fa il suo esordio, ventitreenne, nel cinema come comparsa nel film L’avventuriero. In California si fa chiamare prima Rodolfo di Valentina, poi Rudolph Valentino, e dopo una dozzina di pellicole in cui interpreta piccoli ruoli, un ballo stravolse la sua vita. Fu un tango a farlo diventare la prima star di Hollywood, il tango che apre I quattro cavalieri dell’Apocalisse, il film del regista Rex Ingram uscito nelle sale il 6 marzo 1923 tratto dall’omonimo romanzo di Blasco Ibáñez.

Il film lo trasforma in una celebrità ambita. Partecipa alla pellicola La Commedia Umana dello stesso regista, e La Signora delle Camelie in cui interpreta il ruolo di Armand. Il 1921 termina con un altro enorme successo grazie alla sua interpretazione nel film Lo sceicco, uscito il 20 novembre. Con il film Sangue e Arena per la regia di Fred Niblo del 1922 conferma la sua ascesa e viene “proclamato icona del sex appeal”.

Nel marzo dello stesso anno sposa in Messico Nataša Rambova, al secolo Winifred Shaughnessy Hudnut, una ricca ereditiera americana e un’artista eclettica. Un personaggio celebre nell’ambiente cinematografico, danzatrice, scenografa, costumista, sceneggiatrice e collezionista d’arte. Rodolfo aveva lavorato con lei sul set de La signora delle Camelie di cui era scenografa e costumista, inaugurando un sodalizio artistico-lavorativo che avrebbe avuto grandi successi.

Charlie Chaplin nella sua biografia scrive che Rodolfo Valentino, nonostante tutto, aveva sempre un’aria triste, schiacciato dal successo e con una scarsa fortuna con le donne, soprattutto le sue due mogli.

Rodolfo si era già sposato nel 1919 con Jean Acker, e anche questa unione fu infelice. Sia Jean Acker che Nataša Rambova facevano parte del celebre “clan di lesbiche” capeggiato dalla famosa attrice Alla Nazimova di cui entrambe le mogli di Rodolfo erano amanti.

Relazioni che servivano a proteggere le attrici dai pettegolezzi sui loro legami omosessuali e che dimostrano anche quanto Rodolfo Valentino fosse estremamente aperto rispetto alle diverse identità sessuali. Nataša Rambova, inoltre non era solo la moglie di Rodolfo ma anche il suo “boss”, capace di imporre con autorità le scelte artistiche e professionali di suo marito, ed è anche merito suo e delle sue conoscenze se Rodolfo Valentino tra il ’21 e il ’22 recita in ben 9 pellicole.

Dopo l’uscita de Il giovane Rajah di Phil Rosen, Rodolfo Valentino si trova a gestire non solo un successo enorme ma anche la pressione di produttori smaniosi di scritturarlo per nuovi lavori da un lato, e dall’altro la moglie che pretendeva di gestire il suo lavoro con modi autoritari. Decide così di prendersi una pausa dalla settima arte e di dedicarsi alla poesia intraprendendo un lungo viaggio in Europa che lo riporta in estate anche nella sua Castellaneta: è il 1923.

Tornato a Hollywood dopo il viaggio in Europa, nel 1924 lavora al film Monsieur Beaucaire del regista Sidney Olcott, esperienza che segna anche la fine della collaborazione e, da lì a poco, del rapporto sentimentale con la moglie Nataša Rambova. Un anno dopo, nel novembre 1925, escono L’aquila e Il cobra, l’unico film in cui il divo interpreta il ruolo di un italiano. Nella sua carriera era stato un gaucho argentino, un torero spagnolo, un cospiratore russo, uno sceicco arabo, e ora un nobile italiano. Sempre nel ruolo del seduttore e sempre straniero. Rodolfo Valentino era diventato il divo con il quale il cinema cominciò a orientare i desideri di milioni di persone in tutto il mondo.

Il suo incontestabile successo porta anche a toni e i giudizi esasperati su di lui. In Italia i suoi film erano quasi sconosciuti. I quattro cavalieri dell’Apocalisse viene proiettato solo nel 1923, a due anni di distanza dall’uscita negli States; sorte simile per un altro film di successo, Lo sceicco, uscito in America nel 1921 e in Italia nel 1924. Altre pellicole apparvero postume, e ciò a causa del risentimento della borghesia italiana verso gli emigrati, amplificato dalla richiesta fatta da Rodolfo Valentino di ottenere la cittadinanza americana. Inoltre, nell’Italia fascista, Benito Mussolini aveva imposto il proprio stile, “ovvio che Rodolfo Valentino, l’italiano più famoso d’America, non fosse benvoluto dal Duce. Troppo ambiguo, uno che se ne era andato in America e non era tornato per combattere” e, cosa ancora più grave, “non aveva fatto mistero di essere rimasto disgustato dall’uccisione di Giacomo Matteotti. Perciò il Duce aveva ordinato che dell’attore non si parlasse sui giornali e che i suoi film non fossero ben accolti”. Anche in America la stampa più retrograda lo critica aspramente: non sopportava che ad incarnare il sogno erotico di milioni di donne fosse un uomo entrato nella storia del cinema a passo di danza con la sua fragilità mediterranea e la sua eleganza effeminata, il contrario del cowboy macho, coraggioso e rude tanto caro agli statunitensi. Rodolfo subiva anche un altro tipo di pregiudizio, quello anti-italiano: “interpretò solo un ruolo di italiano, in un film minore. Negli altri film era russo, francese spagnolo e soprattutto arabo … Intervistato sul suo ruolo di arabo, difese questa cultura, mettendola in relazione con le sue origini meridionali”, una presa di posizione scomoda nei primi anni Venti, proprio mentre il Congresso approvava forme legislative che riducevano drasticamente le quote legali di immigrazione straniera. Ma il vero e proprio “caso Valentino” scoppia nel luglio del 1926, a causa del noto articolo diffamatorio apparso sul quotidiano Chicago Tribune dal titolo Piumino rosa cipria, in cui un anonimo, prendendo spunto dall’installazione di un distributore di cipria in un bagno pubblico per soli uomini scrisse:

“Una macchina che vende cipria! In un bagno maschile! Homo Americanus! Ma perché, ci si chiede, qualcuno, senza far troppo rumore, non ha annegato Rudolph Guglielmo, alias Valentino, anni fa? Davvero le donne amano questo tipo di “uomo” che si mette la cipria in un locale pubblico e si aggiusta la pettinatura in un pubblico ascensore? Hollywood è la scuola nazionale di mascolinità … Valentino è un piumino di cipria … Se il signor Valentino è il prototipo dei nuovissimi maschi d’America, meglio che il matriarcato trionfi. Meglio un mondo di donne virili che di uomini effeminati.”

Si era superato il limite e Rodolfo Valentino non può far finta di nulla. Sfida apertamente l’autore dell’articolo ad un incontro di boxe, ad accettare fu il giornalista sportivo del The New York Evening Journal Frank O’Neill, visto che nessuno della redazione del Chicago Tribune aveva rivendicato la paternità dell’editoriale. Rodolfo Valentino vince l’incontro disputato sul tetto dell’Hotel Ambassador di New York di fronte a decine di giornalisti. In quelle settimane l’attore stava compiendo una tournée promozionale del film Il figlio dello sceicco diretto da George Fitzmaurice, una sorta di sequel del film Lo sceicco del 1921. È l’ultimo film di Rodolfo Valentino. Il 15 agosto collassa nella sua camera d’albergo di New York e il 23 agosto 1926 alle 12:10 muore di peritonite dopo sette giorni di degenza al Polyclinic Hospital della stessa città. Aveva compiuto 31 anni da pochi mesi ed era all’apice della carriera.

Quando viene annunciata la sua morte ci sono scene di isterismo collettivo a New York. Di fronte alla Campbell’s Funeral Home, sotto una pioggia battente, ci sono disordini, cariche della polizia a cavallo, svenimenti (l’attrice Pola Negri, la diva del cinema di origine polacca e sua ultima amante perse i sensi ben tre volte), vetrate in frantumi, un’auto ribaltata, feriti, arresti, bimbi dispersi. Arrivano anche alcuni membri della Lega fascista del Nord America con una corona di fiori con su la scritta “From Benito Mussolini”, un tentativo disperato di impadronirsi della figura del divo. Ad impedirglielo furono i membri dell’alleanza antifascista con in testa Vittorio Vidali e Carlo Tresca. E poco importa se alcune delle camicie nere erano delle comparse della Campbell’s e che l’ambasciata italiana dichiarerà la propria estraneità all’iniziativa e negherà che il duce avesse mai ordinato una corona di fiori.

Ai suoi funerali, due, uno a New York e dopo il trasferimento del feretro in California a Hollywood, partecipano migliaia di persone. Nei giorni successivi più di 60 donne dichiarano di aspettare un figlio da lui e si parla di una trentina di suicidi legati in qualche modo alla scomparsa di Rodolfo Valentino.

Ripercorrere la vita di Rodolfo Valentino non è un’impresa facile, in questo articolo ho riportato le notizie ricavate dalla biografia scritta da Emilia Costantini Rodolfo Valentino. Il romanzo di una vita, i saggi raccolti in Rodolfo Valentino. Un mito dimenticato a cura di Angelo Romeo, il romanzo storico di Enrico Deaglio La zia Irene e l’anarchico Tresca, il libro scritto dal manager dell’attore S. George Ullman Valentino As I Knew Him e la puntata della trasmissione Wikiradio in cui Gianluca Favetto racconta Rodolfo Valentino e da cui ho preso il titolo di questo articolo.

Interessanti sono anche altri prodotti culturali e artistici che negli anni sono stati dedicati alla commemorazione del mito di Rodolfo Valentino come il testo Adagio dancer di John Dos Passos, i due film Valentino, il primo di Lewis Allen e il secondo di Ken Russell, e lo sceneggiato radiofonico in quindici puntate di Emilia Costantini con Raul Bova.

 

L’opera e il suo doppio. Per un’attribuzione a Maria Rachele Lillo

di Franco Contini

Dopo la recente ricomparsa di un prezioso disegno di Vincenzo Ciardo, del quale non se ne sapeva l’ubicazione e conosciuto solo attraverso una pessima riproduzione fotografica, una nota casa d’aste europea continua a riservare sorprese per la storia dell’arte in Puglia. Nello specifico riguarda un’opera della pittrice Maria Rachele Lillo (Ruffano, 1768 – Lecce, 1845), una delle rare, per l’epoca, artiste donne di questa terra.

Cominciamo dicendo che alle ore 20:10:31 del primo Aprile 2020 è stato aggiudicato un dipinto passato in asta come “Anonimo: Sacro Cuore di Gesù Bambino”.

 

Si tratta di un dipinto ad olio su tela di cm. 55×40, proposto come [Quadro della tradizione popolare, probabilmente ispirato al dipinto “Bottega siciliana secc. XVIII-XIX. Dipinto del Sacro Cuore di Gesù Bambino” presente nell’inventario dei beni storici e artistici della Diocesi di Piazza Armerina (Sicilia, Italia). Ex voto con iscrizione sacra “Dolce Cuore del mio Gesù, fa ch’io vi ami sempre più”… Proveniente da collezione privata].

Verosimilmente, saranno state queste presunte peculiarità a spingere l’acquirente a rilanciare, concitato, più volte la posta fino ad aggiudicarsi il lotto.

Abbiamo cercato, ed in fine trovato, il dipinto a cui si fa riferimento nella scheda di presentazione della casa d’aste, e sulla quale poggia l’attribuzione dell’opera “Sacro Cuore di Gesù Bambino” alla “Bottega siciliana”. Ce lo ha fornito l’inventario dei beni artistici e storici della Diocesi di Piazza Armerina (la piccola città della Sicilia centrale, più famosa per lo splendore dei mosaici ed i resti di una grande ed incredibile villa romana), nel quale inventario è schedato un dipinto dal titolo “Madonna con Gesù Bambino e Sacro Cuore”, un olio su tela di cm. 94×70, dichiarato “di ambito Italia centrale sec. XIX, Bottega Umbra”.

 

Effettivamente, al confronto risulta evidente, nelle due tele, la similitudine anatomica nella parte superiore della figura di Gesù dove il busto, le braccia e la testa denotano la stessa, identica gestualità, mentre la parte inferiore si differenzia per le inconfondibili posture: seduto nella prima opera e, nella seconda, in piedi sulle ginocchia della Madre seduta che lo indica al mondo.

Fin qui, sembrerebbe non fare una piega il ragionamento sull’assegnazione alla Bottega siciliana dell’opera venduta all’asta. Esiste però una terza opera che non solo smonta in maniera inoppugnabile e definitiva la tesi della “Bottega siciliana” riconducendola, di fatto, alla Scuola pugliese e che, senza equivoci, rende certa anche l’autografia del dipinto il quale, pur non essendo firmato, è da assegnare senza ombra di dubbio, così come abbiamo accennato nell’introduzione, alla salentina Maria Rachele Lillo.

 

L’opera è dipinta ad olio su tela e misura cm. 56×37, quasi le stesse misure del dipinto battuto in asta. Allocata nella chiesa matrice di Tutino, frazione di Tricase (Lecce), fa parte dei beni storici e artistici della Diocesi di Ugento.

La totale, e chiara, sovrapponibilità del disegno compositivo, dell’una e dell’altra opera, conferma l’ipotesi che Maria Rachele non disdegnasse dipingere i suoi soggetti utilizzando ripetutamente i medesimi cartoni preparatori apportando, di volta in volta, solamente lievi modifiche: quella più evidente, tra le due opere, è l’assenza in una e la presenza nell’altra del cuore (che insieme alla catena d’oro è l’attributo iconografico del soggetto rappresentato), pendente dalla catena che Gesù regge tra le mani. Identica è pure la didascalia apposta alla base che si differenzia invero nella stesura testuale: “Dolce catena tiene = In mano il mio Signore / E lega col suo Cuore, = Un cuor che lo ferì”.

Simile è la tavolozza cromatica e la stessa timbrica tonale. Uguali sono la fonte luminosa proveniente da sinistra e le ombre. L’incarnato è reso con il consueto, solito, effetto luminoso, di un rosato chiaro ottenuto da sintesi tonali che sfumano in leggerissime ombre, quanto basta a dare il senso della tridimensionalità corporea e la resa dei dettagli anatomici.

Sul petto è posto l’attributo iconografico principale: il Cuore infiammato coronato di spine e sormontato dalla Croce.

Sul viso è fissata l’espressione di una grazia accogliente e rassicurante, quella grazia con cui Maria Rachele Lillo si distingue e con la quale, in fondo, si distingue dagli altri artisti a lei coevi.

A sinistra, in alto, fanno capolino due testine alate (delle quali diremo dopo) riscontrabili in altri suoi dipinti e che, in particolare, abbiamo notato nel dipinto “Sacro Cuore di Gesù con l’Immacolata e San Giuseppe” collocato nella chiesa matrice di Sant’Eufemia, altra piccola frazione del Comune di Tricase (Lecce).

 

Quest’ultima opera, datata 1833, così come attualmente appare, non è certamente da annoverarsi tra le meglio riuscite a Maria Rachele (probabilmente perché umiliata da ripetute ridipinture) però ci consente di ipotizzare il periodo di esecuzione delle due telette caratterizzate da un forte simbolismo che affonda le radici nel Vecchio Testamento e nei Vangeli di Luca, Matteo e Giovanni.

In entrambe i dipinti la figura di Gesù Bambino si staglia su un fondo scuro ma comprensibilmente collocata in uno spazio di verzura. È una evidente allusione all’orto del Getsèmani sul Monte degli ulivi dove Gesù si ritirò per pregare pronunciando le parole: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca. 22, 39-46) e ( Matteo. 26, 39-49). Gli apparve un angelo dal cielo per confortarlo prima di essere arrestato, tradito da Giuda Iscariota.

Maria Rachele sceglie dunque di raffigurare Gesù Bambino nel paesaggio di un giardino, l’orto del Getsèmani e, cosi facendo, carica la rappresentazione di chiari significati simbolici.

In primo piano, a sinistra e a destra, si staglia un tripudio botanico di foglie e fiori che rafforzano e sostengono cromaticamente il colore del mantello regale (preludio anch’esso alla Passione e Morte ed alla Resurrezione di Cristo) che avvolge il corpo di Gesù Bambino e ne enfatizza la sacra dignità.

Maria Rachele sceglie anche di non rappresentare l’angelo mandato da Dio secondo i racconti di Luca (22, 43) a confortare Gesù prima che iniziasse il supplizio ma, colloca, nella scena in alto a sinistra, due cherubini alati.

Secondo la gerarchia angelica i cherubini sono collocati con estrema vicinanza a Dio. Hanno una sola faccia e due ali. Nell’Antico Testamento si legge: “Li io mi i contrerò con te; dal propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull’arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i figli di Israele”. (Esodo. 25, 18-22) ed in (Giovanni. 17, 6-8).

Nella raffigurazione dei due dipinti i cherubini rappresentano dunque il diretto intervento di Dio Padre Onnipotente per consolare il proprio Figlio.

Maria Rachele non raffigura l’angelo mandato da Dio secondo il Vangelo ma, due cherubini, tra i quali sta Dio, secondo l’Antico Testamento. Cioè, pone in essere un’iperbole iconografica e insieme iconologica che ne amplifica il significato ed il significante.

Al momento non ci è dato conoscere la reale formazione culturale di Maria Rachele Lillo. Molto avrà influito su di lei frequentare la bottega del padre Francesco Saverio ma, la dimestichezza e la perspicacia, o l’acume, con cui ha affrontato, e risolto, le problematiche della rappresentazione del soggetto dei dipinti in questione, ci suggerisce che la conoscenza dei testi sacri non le era affatto estranea.

Ci avviamo alla conclusione annotando inoltre che, pur conservando il medesimo impianto disegnativo, le due tele presentano una differente tecnica esecutiva nella stesura della materia pittorica riguardante la flora, particolarmente nelle rose.

Ciò induce ad ipotizzare anche l’intervento di un’altra mano, presumibilmente quella di un aiuto di bottega che, al momento, resta a noi sconosciuto.

Rimane da chiosare chi ha preso da chi, tra l’Anonimo di Piazza Armerina e Maria Rachele Lillo o, da chi, entrambe gli artisti, ipoteticamente potrebbero avere attinto. È risaputo, d’altronde, che le riproduzioni delle opere dei grandi maestri circolavano tra gli artisti attraverso le stampe calcografiche divenendo, talvolta, veri e propri modelli a cui ispirarsi o da cui trarre spunto. In fondo, né più e né meno di quanto accade oggi con certa arte contemporanea, in maniera molto più amplificata ed estesa, per via dei potenti e rapidi sistemi di informazione e di divulgazione a portata di mano o, per meglio dire, di click.

Libri| Notai e Notariato in Terra d’Otranto

 

Marco Imperio, Notai e Notariato in Terra d’Otranto, Lecce, Eusist, 2013, 104 p. , ill.; 24 cm.

 

«Un volume che, inserendosi nel solco già segnato dal Cosi, colma un vuoto storico fornendo, attraverso le ricerche di Marco Imperio, un utile strumento per appassionati e storici e consente di ricordare figure di professionisti, che in virtù del loro impegno professionale, civile e non solo, hanno contribuito allo sviluppo della nostra terra, alla razionalizzazione dei rapporti e allo sviluppo del progresso» (Introduzione del Prof. Franco Antonio Mastrolia, p. 7).

Lecce, S. Oronzo e la peste nel 1656 e nel 1690

di Armando Polito

La preziosità delle memorie storiche è inversamente proporzionale al tempo trascorso, soprattutto quando esse riguardano eventi dirompenti, come terremoti ed epidemie. Forse chi ha vissuto di persona un’esperienza spiacevole tende ad enfatizzarla, ma è certo che la sua testimonianza è destinata ad essere più affidabile di altre basate sul sentito dire. Può sembrare strano, però anche nel caso di uno scampato pericolo i toni, in questo caso di sollievo, possono essere dettati dalla sensibilità di ognuno di noi, dalla stessa fede religiosa e politica. Una volta tanto non sarò tanto invadente e presuntuoso dall’accompagnare il lettore nella lettura del documento che sto per presentare e del quale mi limito a riprodurre solo il frontespizio.

Esso si presenta mutilo. La la mutilazione, purtroppo, coinvolgerà pure le pp. 9-18 in misura più ridotta, per diventare, purtroppo, drammaticamente estesa fino a p. 26, dove il testo s’interrompe definitivamente e, se si pensa che verso la fine della pagina precedente era appena iniziata la parte relativa alla peste del 1690, si comprende come la lacuna debba essere estremamente estesa e ci priva di notizie di cui l’autore fu testimone diretto e  degno di fede, forse non solo perché era Michele Pignatelli, vescovo di Lecce dal 1682 al 1695.

La Relazione è indirizzata al papa Innocenzo XII (1691-1700), al secolo Antonio Pignatelli. Entrambi appartenevano alla stessa nobile famiglia e lo stemma parlante che campeggia sul frontespizio sarebbe comune se non recasse, oltre alle tre piccole pignatte1, la tiara e le chiavi. Sempre nel frontespizio, a restauro avvenuto, la mutilazione è stata integrata, dopo In Lecce  con, scritto a mano, dagli Eredi di Pietro Micheli 16912. Di seguito, con una parentesi tonda aperta ma non chiusa: Ved(i) Poliantea Salent(ina)3 vol(ume) n(umero) c(artella) 25 pag(ina) 103.

Il volume è custodito nella Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” di Lecce e lo troverete al link  http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=MagTeca+-+ICCU&id=oai:www.internetculturale.sbn.it/Teca:20:NT0000:RMSE008409. Buona lettura!

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1 Pignatta si fa derivare dal latino medioevale pineata=simile a pigna, forma aggettivale dal classico pinea=pigna. La voce più vicina alla latina è lo spagnolo piñata, da cui il meridionale (compreso il salentino) pignata. La geminazione di t in pignatta potrebbe essere dovuto, secondo me, ad incrocio con piatto. Coerente con pignata è Pignatelli (er non Pignattelli), una delle più antiche e potenti famiglie napoletane.

2 Pietro Micheli, nato a Dole in Borgogna nel 1600, fu il primo stampatore riconosciuto attivo a Lecce dal 1631 (prima pubblicazione:  Philippi Formosi u(triusque) (iuris) d(octor) a Turri Susannia Carmina ad illustrissimum, & excellentissimum dominum d(ominum) Io(annem) Antonium Albricium Farnesium) fino al 1688 (ultima pubblicazione: La lira venosina in canto italiano: cioè, Oratio volgarizato, da Pietrantonio Epifani poeta salentino. Consacrato all’apostolica maestà di Giuseppe d’Austria Re d’Ungheria. Dove si racchiude la Poetica, ed altre erudite annotazioni), quando subentrarono gli eredi.

3 Collana di opere di autori salentini, a stampa e manoscritte, che Luigi De Simone raccolse arricchendola di annotazioni e commenti.

Libri| Pane!…Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra

Salvatore Coppola, Pane!…Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra, Lecce, Giorgiani 2018    

 

Prefazione di Giuseppe Caramuscio

«Le donne stanno per diventare uomini», scrive Rosa Rorà in un romanzo comparso nel 1917, compiacendosi dei passi compiuti dal gentil sesso verso l’indipendenza e l’eguaglianza civile. Già ad inizio del XXI secolo la cultura e l’opinione pubblica occidentali erano state penetrate da una dialettica intesa a ridefinire l’immagine e il ruolo della donna in una società attraversata da profonde trasformazioni. Tuttavia in Italia il movimento ‘emancipazionista’ o ‘femminista’ (spesso denominato anche ‘suffragista’ per la rivendicazione del diritto elettorale femminile) non coglie risultati analoghi a quelli delle Nazioni europee più avanzate. Lo sconvolgimento operato dalla prima guerra mondiale, poi, a giudizio di molti storici, presenta ricadute ambivalenti: tappa decisiva per l’emancipazione femminile o piuttosto momento di esaltazione delle differenze e delle discriminazioni fra i sessi?

Sebbene con notevole ritardo rispetto ai ritmi della ricerca internazionale, anche in Italia la riflessione su tali processi ha inaugurato suggestive piste di lavoro persino in un ambito, quale la guerra, che la tradizione ha da sempre considerato esclusivo dominio virilista, tanto sul piano pratico quanto nella dimensione dell’immaginario. In effetti, oggi non può sembrare esagerato affermare che l’avanzamento degli studi sulla Grande Guerra sia in buona parte debitore proprio dellagender history, spesso e volentieri rafforzata dall’apporto della storia sociale e dalle indagini su realtà territoriali circoscritte.

Questi approcci si riscontrano ben presenti (e fra loro interagenti) nella nuova monografia di Salvatore Coppola, già noto alla comunità scientifica come uno dei più attrezzati storici pugliesi del movimento contadino e sindacale del Novecento. Egli si muove lungo una linea metodologica che non considera la storia delle donne come una sfera separata del discorso storiografico, bensì la inserisce in una serie di rapporti fra elementi di una complessa trama. Peraltro, è appena il caso di rimarcare che nell’occasione viene superato il nesso – ritenuto indiscindibile da non poche storiche – tra soggetto e oggetto della narrazione storiografica, dal momento che il presente volume di Coppola rappresenta uno dei (rari) casi in cui è un uomo ad occuparsi di uno spaccato di storia delle donne.

Nell’occasione la sua attenzione non si rivolge al tema, divenuto ormai classico, della vicarianza delle donne nei lavori a prerogativa esclusivamente maschile. Indotta dall’eccezionale mobilitazione bellica del 1915-18, tale funzione ha già ricevuto (a partire almeno da trent’anni fa) un congruo approfondimento, in particolare grazie a studi mirati sulle aree urbane e industriali del Paese, dove le donne sono state chiamate, in misura consistente, a sostituire operai e tecnici in mansioni ritenute fino a pochissimo tempo prima a loro inaccessibili sia per intensità che per qualità di impegno psico-fisico. Oggetto del presente lavoro è una peculiare forma di conflitto sociale che esplode negli anni centrali della Grande Guerra, un inedito e imprevisto movimento di donne propagatosi, a macchie di leopardo, anche in numerosi centri della Terra d’Otranto in un arco cronologico relativamente breve. Si tratta di agitazioni locali che, originate dalla protesta per il carovita e per l’inadeguatezza dei sussidi pubblici, arrivano a porre sul banco degli imputati i grandi proprietari terrieri, i commercianti, gli amministratori municipali fino a contestare decisamente la guerra in corso.

Tratti comuni a tutti questi movimenti la preponderante ed energica presenza femminile, il suo attivarsi al di fuori dei partiti e dei sindacati, il ricorso a forme di lotta illegali senza timore delle possibili conseguenze penali. La scoperta del protagonismo femminile in questo tipo di agitazioni (di fatto antibelliche) è un’acquisizione relativamente recente da parte della letteratura nazionale, al punto da considerarsi piuttosto l’avvio di un’operazione scientifica potenzialmente foriera di risultati fecondi. Sorprende ancor di più che tali sommovimenti si siano manifestati nel territorio otrantino, già valutato, a giudizio unanime delle autorità prefettizie del tempo, come impermeabile alla propaganda sovversiva e renitente non solo a forme di protesta (più o meno) organizzata, ma anche alla ribellione spontanea.

L’indagine di Coppola prosegue nella direzione recentemente aperta da alcuni contributi – non a caso firmati da archiviste – che hanno attinto ai fascicoli della Prefettura per delineare i fondamentali elementi conoscitivi delle agitazioni del 1916-17 nel Salento: l’andamento dei fatti e i conseguenti provvedimenti adottati. Di più, l’Autore allarga lo sguardo all’intera Provincia Otrantina, analizzando i diversi casi locali che costituiscono una sorta di “geografia della protesta”. Compulsando le carte dell’Archivio Centrale dello Stato, è riuscito inoltre ricomporre un quadro più organico e credibile sull’ordine pubblico e sugli atteggiamenti della popolazione civile durante la guerra del 1915-18.

Una folla anonima ed esasperata, costituita quasi esclusivamente da casalinghe e contadine di ogni età, emerge così, dopo un secolo, dalle carte d’archivio, prende corpo, anima, voce, si concretizza in alcune individualità, si agita e indirettamente ci racconta la drammaticità dell’emergenza scatenata dalla guerra. Merito dello studioso è di averci restituito il clima di quegli anni ricostruendo una pagina pressoché ignota della nostra storia recente, in grado di porre in discussione lo stereotipo della donna meridionale rassegnata, passiva e indifferente alle vicende sociali e politiche. Al contempo Coppola riesce ad evitare l’opposta seduzione dell’enfatica celebrazione delle donne tumultuanti, quasi eroine di un rinnovato Quarto Stato in marcia, capaci di fare a meno della tutela maschile.

Egli raggiunge una posizione di equidistanza tra i due estremi interpretativi grazie ad un’attenta disamina delle fonti e alla corretta contestualizzazione delle vicende nel loro sfondo storico-geografico: in tal modo l’Autore può dare ragione dell’origine, dello sviluppo, della fenomenologia, dei caratteri e dei limiti di questo movimento femminile di protesta.

La collocazione nella periferia meridionale ci spiega la matrice dei moti, sostanzialmente contadina sia nel senso dell’appartenenza sociale che della sua caratterizzazione culturale, ma questa non è sufficiente, persino in un’area limitata, per pervenire ad una sia pur approssimata generalizzazione geografica del processo. Infatti, epicentri delle agitazioni sono i Comuni capoluogo, come Lecce e Gallipoli, che si dilatano a piccolissime realtà di poche migliaia di abitanti; coinvolgono territori con una certa tradizione di lotte politiche e sindacali, come Nardò e Galatina, ma anche cittadine prima ignote alle cronache della lotta sociale. Tra le poche certezze desumibili, l’assenza dei paesi del Capo dalla mappa della protesta e la constatazione di un certo “effetto domino” nella propagazione dei tumulti. I documenti concordano nell’attribuire alle donne del luogo la guida, la responsabilità e la composizione totale degli assembramenti, con la sporadica compartecipazione di minorenni e anziani dell’altro sesso. Esse vengono identificate con connotazioni genericamente dispregiative, non di rado mutuate dal lessico maschilista.

Non si riscontra altresì, nelle relazioni delle autorità, il sospetto che la leadership dei moti possa attribuirsi ad una regìa (magari maschile) esterna al territorio: motivazione, questa, invece abbastanza ricorrente anche nell’interpretazione ufficiale di fatti simili accaduti in passato, specialmente quando le caratteristiche di pericolosità dei disordini sono tali da non potersi spiegare con l’improvvisazione. Si adombra tuttavia l’ipotesi (non infondata) di un concorso, quanto meno morale, dei militari in licenza, in funzione di sobillatori e di divulgatori di notizie in senso allarmistico e disfattistico. Se nell’Italia settentrionale le masse femminili trovano negli operai politicizzati la sponda al loro dissenso, nella periferia del Mezzogiorno lo schieramento che si oppone alla guerra in corso vede l’alleanza implicita tra donne e quei combattenti che, con l’esperienza al fronte, hanno maturato una più elevata consapevolezza dell’insostenibilità –se non dell’inutilità – del sacrificio militare e civile.

Il malcontento femminile non mette in discussione tanto i rapporti strutturali di classe o di proprietà, quanto l’iniqua distribuzione delle risorse alimentari e la gestione clientelare e personalistica di esse a svantaggio dei ceti meno abbienti. Non a caso viene scelto quale momento ‘fondativo’ della protesta la distribuzione del pane o dei sussidi alle famiglie. Il primo bersaglio polemico è l’amministrazione municipale, mentre le invettive contro la guerra chiamano in causa il governo nazionale. Manca l’individuazione dello strato intermedio della rappresentanza politica, i parlamentari, i quali, dal canto loro, ingaggiano una competizione, a suon di interpellanze e di suppliche, per ostentare il proprio interessamento nei confronti della popolazione dei rispettivi Collegi elettorali (nel 1913, lo ricordiamo, si erano svolte in Italia le prime elezioni a suffragio universale maschile).

La fiammata si estinguerà gradualmente fino a spegnersi del tutto proprio in prossimità della disfatta di Caporetto, che attiverà la speranza di una conclusione del conflitto, o forse perché il governo rafforzerà le misure preventive e repressive di pubblica sicurezza. Le reazioni dei responsabili dell’ordine appaiono improntate più ad una preoccupata sorpresa che all’indignazione scandalizzata o ad una reazione dura. In effetti rifuggono dall’uso della forza, come di solito accade per analoghe manifestazioni a guida maschile. La protesta non rimane senza esiti immediati, per quanto modesti: le promesse di un’assegnazione di prodotti di migliore qualità, contestualmente alla sospensione dei provvedimenti più gravosi, troveranno qualche precaria soddisfazione. In casi più rari si arriverà alle dimissioni di sindaco o assessori.

Ma il movimento non troverà un’adeguata sintesi politica a livello provinciale e tanto meno su scala nazionale, nemmeno da parte dei partiti di sinistra, più preoccupati che incoraggiati da movimenti popolari spontanei, sorti al di fuori del loro controllo e per di più ben connotati nel loro genere: davanti ad essi il movimento progressista italiano paleserà una impreparazione culturale e politica destinata a perdurare per molti anni.

Grati a Salvatore Coppola per la luce gettata su questo tema, i nodi storiografici rimasti da sciogliere rimangono i consueti nella storia di genere: in che modo i fatti hanno evidenziato la specifica identità femminile? Le ribellioni del 1917-18 possono essere considerate anche in senso emancipativo? È un fronte effettivamente trasversale ai differenti gruppi sociali? Qual è il ruolo di altre categorie nel contesto? Quanto alle prospettive di ricerca comparativa sulle “donne comuni” (nuova categoria storiografica, coniata per designare una massa più generale rispetto alle distinzioni tradizionali basate sulla classificazione cetuale), va osservato che il dibattito storiografico, avviato dalla questione del rapporto tra guerra ed emancipazione, si è allargato alla correlata discussione sugli esiti in termini di inclusione nella Nazione e nello Stato e di riconfigurazione delle identità e dei sistemi di genere. Le interpretazioni finora espresse risentono della scala di osservazione e dell’estensione dell’orizzonte temporale, del peso dell’angolo visuale (sociale, giuridico, temporale), e delle differenze tra donne (età, residenze, classe). I rapporti considerati da Coppola sono quelli tra i poteri e le donne, alla luce di una documentazione istituzionale, che lascia zone d’ombra su almeno altre due relazioni: tra donne e uomini, e tra cultura e istituzioni.

Forse sbaglieremmo a ricercare nelle ideologie tradizionali (il cattolicesimo) o nuove (il socialismo) l’humus delle proteste delle donne di Terra d’Otranto, sebbene l’una e l’altra possano aver influito sulla perdita definitiva della già scarsa fiducia nella guerra. La sempre più forte dissociazione tra Paese reale e Paese legale, l’affollata ritualità religiosa Pro pace, l’incremento delle azioni collettive di contestazione, le testimonianze dell’insubordinazione militare, i frequenti lutti bellici intfrafamiliari, rafforzandosi reciprocamente creano un effetto moltiplicatore delle rivolte popolari fino a renderle quasi epidemiche. Più che una coscienza di classe (i cui semi, comunque gettati, non tarderanno a dare frutto) sembra voglia imporsi un’appartenenza identitaria femminile. Lo spirito che emerge nella fattispecie pertanto potrebbe ritrovarsi nell’atavico istinto di sopravvivenza e di protezione familiare, che le nostre donne vogliono esprimere liberamente quali antiche vestali della Vita, ma per farlo dismettono le loro vesti consuete e ricorrono all’oltraggio e alla violenza a pubblici ufficiali, al danneggiamento di proprietà private o di edifici pubblici, insomma alle forme di lotta proprie del sesso forte.

 

Francesco Porrata Spinola di Galatone e l’eruzione del Vesuvio del 1631

di Armando Polito

Il Vesuvio prima e dopo l’eruzione del 16 dicembre 1631 in due incisioni del francese Nicolas Perrey tratte da Gianbernardino Giuliani, Trattato del Monte Vesuvio e de’ suoi incendi, Longo, Napoli, 1632 (https://doi.org/10.3931/e-rara-10365)

Non sono pochi i salentini che nel corso dei secoli si sono occupati in prosa o in versi di ciò che nell’immaginario collettivo dell’intero pianeta è il simbolo di Napoli, dopo la pizza e il mandolino1. Nella sterminata schiera, poi, dei testi scientifici un posto preponderante è senz’altro occupato da quelli che si occuparono della catastrofica eruzione del 1631. Tra essi è da annoverare quello il cui frontespizio presento di seguito.

A parte la rarità2, il volume già nel titolo, conformemente all’uso del’epoca chilometrico, presenta qualcosa di insolito e, dunque, originale, cioè il pronostico di effetti maggiori, basato su concomitanze astrologiche riassunte nella figura di p. 20.

Non sono un medico o un filosofo o un astrologo (tanto meno eccellentissimo): forse so, più probabilmente presumo di sapere qualcosa di letteratura propriamente detta e ancora meno di filologia, e per questo lascio a lettori più qualificati di me il giudizio sul valore scientifico di tutto il Discorso, che ognuno potrà agevolmente leggere dal link prima segnalato per le tavole.

Mi limiterò, perciò, a prendere in considerazione e ad approfondire solo alcuni dettagli. Comincio dall’autore dicendo che le notizie sono estremamente scarne e non sapremmo nemmeno che era di Galatone senza il Galateo del provvidenziale e pretenzioso (per via dei titoli, ma allora non c’era la specializzazione spinta di oggi, cosa che, d’altra parte, aveva pure i suoi aspetti positivi …) frontespizio. debbo precisare, però, che la famiglia Porraca Spinola è di chiarissima origine genovese e che essa vantava anche uno zecchiere (Agostino). Di seguito una moneta del 1563 con la sua sigla (AS) nel verso.

Dal frontespizio apprendiamo pure che l’opera è dedicata è al nobile fiorentino Vincenzo Sirigatti, il cui stemma appare bene in vista, mentre dalla dedica interna che, stranamente breve, occupa solo le prime due pagine, apprendiamo che Vincenzo era dotato di rare e gentili maniere, ammirate e amate da tutti non solo in questa Provincia, dove al presente si ritrova, ma molto più di lungi e poco dopo l’autore dichiara di aver composto il Discorso in volgar lingua contro ‘l mio Genio, come V. S. e molti sanno , acciò in questa pubblica occasione ogn’uno publicamente goda l’utile, e ‘l diletto insieme. Insomma il nostro aveva intenzione di scriverlo in latino, poi prevalse l’intento divulgativo (di mercato, diremmo oggi, se non fosse che testi simili restavano pur sempre di nicchia). E quanto ad esibizione di titoli sbattuti nel frontespizio a concorrenza non sarebbe stata certamente da meno. Basta considerare il frontespizio che segue, tratto da  https://doi.org/10.3931/e-rara-23442.

Nel titolo, qui ancor più chilometrico, spicca il greco ῥιγοπύρετον che per il suo significato (febbre con brividi) conferisce una connotazione quasi umana al vulcano in eruzione e poi l’autore (Vincenzo Alsario della Croce) dopo essersi dichiarato di Genova, sventola la sua brava caterva di titoli: Professore di medicina pratica all’Università della Sapienza, già camerlengo segreto di Gregorio XV, ora camerlengo onorifico del papa Urbano VIII. Ma torniamo al volume del salentino.

Alla dedica seguono, secondo una prassi consolidata in pubblicazioni del genere, quattro componimenti elogiativi (tre sonetti ed un epigramma in distici elegiaci) che riproduco e, laddove è necessario, commento.

Il primo sonetto, dedicato Al Signor Vincenzo Sirigatti, è di Francesco San Pietro di Negroa   

Tu che del nobil Arno i tersi Argenti

rendi adorni di Glorie, e di splendoei,

tu che virtù difendi da furori

di nemica Fortuna, e d’empie genti,

tu col tuo chiaro nome, ch’eran spenti

questi d’Astrologia raccolti fiori

per dotta man sacrati  hor à tuoi honori

solo ravvivi con affetti ardenti

così ben pare sculto in lettere d’oro

perche il Vesuvio hà svelto arsi macigni

et omicide vampe à i vicin Campi;

e quando fia, che Marte non più avvampi

e la Pace trionfi del suo Alloro,

e gli altri influssi à noi rotin benigni. 

_________

a Da identificare forse con  Lagonegro, in Basilicata.

 

Gli altri due, dedicati all’autore, sono di Pietro Angelo De Magistris Galateob Academico Ociosoc detto il Tranquillo.

Sparse armato il Vessuvio à danni nostri

con Tremoti d’orror fiamme voraci,

ceneri spaventose, onde fugaci,

theatro infausto di Prodigi, e mostri.

E ‘l Tuon, che diè da suoi Tartarei Chiostri

rimbomba hor ne’ tuoi scritti aurei, e veraci,

e i baleni veggiam viè più vivaci

co’ lampi, e rai de’ tuoi purgati inchiostri.

Ammira il Mondo le raggioni, e l’arte

de la tua dotta Penna, e ‘l tuo lavoro

de gli Astri le Virtù pinge in gran parte.

Prendan dal tuo bel dir l’alme ristoro,

e contempli ogni cor nelle tue carte

la Cenere hor cangiata in pioggia d’Oro. 

_____________

b Di Galatone.

c L’Accademia degli Oziosi era stata fondata a Napoli nel 1611.

 

T’impennò l’ali à la Celeste Metaa

girando ogn’hor con regolati errorib,

e dando all’almac tua lampi, e splendori

ogni Stella, ogni Segno, ogni Pianeta.

E già con dir facondo, e mente quieta

de le Ceneri sparse, e de gli ardori

sveli il ver, cause adduci, incendi i corid

con tua Virtù qual degna aurea Cometa.

Da foco di Vessuvio è il mondo offeso

quasi infermo di febre, e in sì ria sorte

in fumo si dissolve il mortal peso;

deh fà (volgendo al Ciel tue luci accorte

di quelle fiamme sempiterne acceso)

pronostichi di Vita, e non di Morte.

_______

a Consentì alla tua scienza astrolofica di innalzarsi

b In senso etimologico: movimenti.

c animo

d susciti discussioni

 

L’epigramma, indirizzato a Vincenzo Sirigatti,  è di anonimo, ma, dietro la dicitura cuiusdam perfamiliaris (di uno molto amico) non mi è difficile supporre che si nasconda l’autore dell’opera, in un’ulteriore dichiarazione di modestia …

Magnus Alexander sic Mundo sculptus ab uno

Lisippo, atque uno pictus Apelle, datur,

praeclarum, SIRIGATTE, tuum sic Spinola nomen

ingenio clarus (perlege) non maculat.

Traduzione: Così si tramandaa che Alessandro Magno fu scolpito dal solo Lisippoe dipinto dal solo Apellec, così, o Sirigatti, Spinola illustre per talento (finisci di leggere) non macchia il tuo nome illustrissimo.

_________

a Plinio, Naturalis historia, VII, 38: Idem hic imperator edixit ne quis ipsum alius quam Apelles pingeret, quam Pyrgoteles scalperet, quam Lysippus ex aere duceret (Quest’imperatore medesimo stabilì che nessun altro potesse raffigurarlo con la pittura se non Apelle, con la scultura in marmo se non Pirgotele, con quella in bronzo se non Lisippo).

b Scultore greco del IV secolo a. C.

c Pittore greco del IV secolo a. C.

 

Vi lascio immaginare quanto desidererei conoscere il pensiero del dedicatario, sempre che l’opera sia stata da lui letta …

E, in chiusura, non posso non ricordare il contributo etimologico che sul nome del vulcano il nostro offre a p. 4: Mons Vaesevus da Vae, cioè guai, e Saevus, cioè crudele, perché guai a chi lì fabrica, ò coltiva, o confida habitare, veggendosi poi esso o suoi discendenti all’improviso perder così la robba, e la vita. Essa ricalca nella prima parte  quella del contemporaneo Camillo Tutini3, che, riprendendo una tradizione popolare, sosteneva che Vesuvio è da Vae suis (Guai ai suoi!) partendo dalla considerazione che la sua attività distruttiva storicamente aveva preceduto o seguito disgrazie per la popolazione. Confesso che nella miriade di proposte etimologiche avanzate e citate in molti lavori  questa del salentino la leggo per la prima volta, anche se mi pare anch’essa una paretimologia. Un tocco di originalità, che pur con riserva sto campanilisticamente sottolineando (forse per farmi perdonare qualche spunto ironico al quale nemmeno qui ho saputo rinunciare) o semplicemente una mia lacuna di letture su questo argomento e non solo?

__________

1 Vedi, per esempio, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/07/salento-vesuvio-poesia-pellegrino-scardino-san-cesario-lecce/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/03/nardo-vesuvio-anno-piu-anno-meno/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/12/gli-arcadi-di-terra-dotranto-gregorio-messere-di-torre-s-susanna-20-20/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/26/marco-antonio-delli-falconi-di-nardo-tiene-a-battesimo-il-monte-nuovo/

Ad integrazione della produzione in versi in riferimento all’eruzione del 1631 di cui al terzo link appena segnalato a breve in un altro lavoro saranno aggiunti altri contributi di letterati salentini.

2 L’OPAC ne registra solo 4 esemplari.

Libri| Vincenzo Cepolla. Patriota, politico e magistrato

Marco Imperio, Vincenzo Cepolla. Patriota, politico e magistrato, Lecce, Eusist, 2012, 94 p. : ill. ; 24 cm.

 

«Accade a volte che personaggi appartenenti alla storia locale, alla cui memoria peraltro vengono intitolate vie o piazze, cadano nell’oblio, dimenticati sia dalla storiografia che dal patrimonio di memorie di una Comunità. Il merito di questo volume è di aver restituito alla memoria collettiva la storia e il contributo fondamentale che il nostro illustre concittadino Vincenzo Cepolla ha dato agli eventi del Risorgimento e alla vita politica dell’Italia»

(Saluti del Sindaco e dell’Assessore alla Cultura del Comune di San Cesario di Lecce, p. 5).

Biodiversità nell’oliveto del Salento, agli inizi del XX secolo

di Gianpiero Colomba

In Terra d’Otranto, tra la fine del XVIII° e per tutto il XIX° secolo, come conseguenza dei continui dissodamenti dovuti alla nascita di nuovi impianti con piante che per la prima volta colonizzavano il territorio (olivo, gelso, fichi, tabacco, ecc.), c’era poca disponibilità di nuovi terreni coltivabili. Una chiave per l’equilibrio produttivo fu l’intensificazione del livello di coltivazione nei terreni in genere ma soprattutto negli oliveti, con cereali e legumi spesso in rotazione tra loro. La parcellizzazione del territorio salentino e la coesistenza di colture diverse nello stesso fondo è stata una caratteristica delle comunità tradizionali che ha garantito nel tempo l’autosussistenza delle famiglie.

L’olivo quasi sempre era all’interno di possedimenti nei quali condivideva lo spazio con coltivazioni come i cereali, la vite, gli ortaggi e altre colture arboree come il gelso, il mandorlo o il fico. La distanza tra le piante di olivo permetteva di intercalare colture che consentivano al contadino di avere un reddito diversificato e quindi pressoché costante nel tempo.

Alla fine del XVIII° secolo il medico e agronomo salentino Giovanni Presta, indicava una distanza conveniente tra le piante di olivo di circa 65 «palmi», il che corrispondeva a poco meno di 50 piante per ettaro, la stessa densità indicata un secolo dopo dal cavaliere Gennaro Pacces, il quale si riferiva al dato medio dell’intera provincia di Terra d’Otranto. Intorno agli anni trenta del XX secolo si stima con maggior precisione una densità media di 62 piante per ettaro. Per fare un confronto: in Andalusia, regione leader nel mondo in quanto a produzioni di olio, nello stesso periodo potevano esserci tra le 90 e le 100 piante per ettaro. Per inciso, attualmente nella provincia di Lecce si stimano 112 piante per ettaro e un minimo livello di consociazione.

Per avere un riscontro rispetto alla reale condizione delle colture intercalate nell’oliveto in epoca preindustriale, prendiamo come rappresentativo il classico lavoro del professore Attilio Biasco di inizio XX secolo:

Gli oliveti specializzati, se non mancano del tutto, sono sicuramente molto rari. La consociazione arborea è abitualmente con la vite, la mandorla e il fico. La consociazione è talmente rilevante che l’olivo si considera la coltivazione secondaria.

Esiste dovunque una rotazione in cui spesso figurano le cereali e scarseggiano le leguminose: le prime sono rappresentate dal frumento, dall’avena, dall’orzo; le seconde dal lupino, dalla fava e il trifoglio incarnato.

Ma quali colture erano intervallate nell’oliveto e in quale proporzione? I dati che permettono un’analisi più precisa sono quelli in calce al Catasto Agrario del 1929. Per la prima volta in Italia nel su indicato Catasto, si descrivevano le aree coltivate differenziandole tra superficie cosiddetta «integrante» ovvero specializzata e superficie «ripetuta» ovvero associata ad altre coltivazioni prevalenti. L’oliveto integrante, a sua volta, era definito «esclusivo» laddove non vi era alcuna promiscuità con altre coltivazioni, o «prevalente» laddove la coltivazione associata occupava non oltre il 50% della superficie dell’oliveto.

Secondo la definizione data nel Catasto Agrario quindi, all’interno della categoria integrante potevano ricadere oliveti con all’interno fino al 49% della superficie occupata da altre colture. Per semplificare, poteva esserci un ettaro di oliveto con intercalati 3 mila metri quadri di mandorlo. Quindi, non solo esisteva una quota parte di olivi associati in altre coltivazioni, ma, vi era anche un certo livello di promiscuità colturale all’interno dell’oliveto definito integrante.

L’analisi dei dati permette un’interessante ed inedita valutazione: poco più del 33% dell’oliveto specializzato (50.591 ettari su 149.947 ettari nel 1930) aveva al suo interno coltivazioni in rotazione (principalmente, grano duro, avena, orzo, fave e lupini). Questo significa che esisteva ben un terzo dell’oliveto specializzato al cui interno vi era un certo livello di promiscuità, ed era quello che si definiva come oliveto prevalente. Di queste colture, il 44% erano cereali, il 21% piante da foraggio (trifoglio, veccia, …), il 13% fave, il 7% lupini e il 13% altri legumi. Si avverte che questa è una fotografia sul territorio in un dato momento storico e che, secondo quanto enunciato nel catasto, queste rilevazioni erano dati medi riferiti al sessennio 1923/28. Data inoltre la ciclicità annuale delle coltivazioni, l’analisi che ne può derivare riveste un significato di sola tendenza.

A questo punto se consideriamo la totalità della superficie dell’oliveto, cioè sia la superficie di associato che di specializzato, osserviamo che in percentuale l’oliveto esclusivo «puro» senza alcuna associazione, rappresentava in Provincia una quota poco più alta della metà di tutto l’oliveto ossia il 54%. Per altro verso, era pari al 18% la superficie occupata dagli olivi in associazione ma, se includiamo la categoria prevalente, non indicata nelle statistiche ufficiali ma qui calcolata, vediamo che la percentuale sale al restante 46%. Quindi, in poco meno della metà della superficie totale dell’oliveto (associato + specializzato), esisteva una qualche forma di associazione colturale. Riassumiamo il tutto nella figura sotto.

Tipologia dell’oliveto in Terra d’Otranto nel 1930. (Ettari). Fonte: propria elaborazione.

 

Alcune riflessioni. In alcune zone d’Italia e in particolar modo nel Salento, c’era poca disponibilità di territorio supplementare per le nuove colture. Infatti, già nel 1929 la quota di terra forestale (pascoli permanenti e boschi) si era progressivamente ridotta a poco meno del 10% su tutto il territorio della provincia di Lecce. Inoltre, l’alta densità di abitanti obbligava a rendere altamente efficienti tutti i terreni disponibili. Una chiave per l’equilibrio produttivo per tutto il XIX secolo e anche nei primi decenni del XX, fu l’intensificazione del livello di coltivazione nella stessa area con cereali e legumi, a dimostrazione di una più compiuta razionalità ed efficienza contadina, e rappresentando quindi un esempio di land-saving strategy. Le consuete rotazioni tra fave o lupini da un lato e avena, grano duro o orzo dall’altro, consentivano il soddisfacimento dei bisogni familiari in condizioni di sostenibilità per l’oliveto. L’associazione tra colture è uno dei segnali che rafforza l’idea di una strategia agraria basata sull’autoconsumo.

Questa tendenza si sarebbe poi evoluta nel giro di alcuni decenni in direzione della monocoltura e della specializzazione. Nel 1980 l’Istat riportava circa 1 milione di ettari d’olivo in consociazione su tutto il territorio italiano, circa 1,4 milioni di ettari nel 1950 e a circa 1,7 milioni nel 1910. Secondo stime più recenti del progetto europeo di agro-selvicoltura Agforward (2014-17), in Italia circa 200.000 ha di olivo sono attualmente gestiti in consociazione. Il trend quindi è in calo. Assistiamo a una lenta evoluzione in direzione della specializzazione colturale.

Sebbene quindi intorno al 1930, abbiamo calcolato un consistente livello di diversità colturale negli oliveti, verosimilmente questa quota era in diminuzione e con esso diminuiva progressivamente la biodiversità al loro interno. Ed è altrettanto plausibile che per l’oliveto, il quale per chi scrive ha rappresentato il classico esempio di coltura promiscua in epoca contemporanea, l’uscita dalla crisi produttiva iniziata alla fine del XIX° secolo fu rappresentata proprio dal percorso di avvicinamento alla specializzazione. Tutto ciò coincise anche con la globalizzazione dei prodotti e il conseguente ingresso di cereali a basso costo provenienti da altre parti del mondo. Tutta questa complessa e simultanea concomitanza di eventi, condizionò l’abbandono delle tradizionali strategie contadine, le quali consideravano l’associazione tra le colture come sistemi agronomici efficienti e in ultima analisi, forzò il percorso di semplificazione degli agro-ecosistemi. Negli ultimi decenni, l’utilizzo massivo di agro-chimici negli oliveti si sta realizzando senza controllo, contaminando il suolo e le acque, e originando, da un lato una forte perdita di sostanza organica e dall’altro una minaccia alla biodiversità.

Bibliografia

Biasco A., L’olivicoltura nel basso leccese, Napoli 1907.

Casella O., L’Ulivo e l’olio: manuale pratico ad uso degli agricoltori e dei proprietari, Napoli 1883.

Cimato A., Il germoplasma olivicolo in provincia di Lecce: recupero, conservazione, selezione e caratterizzazione delle varietà autoctone, Matino (LE) 2001.

COLOMBA G., Transición socio-ecológica del olivar en el largo plazo. Un estudio comparado entre el sur de Italia y el sur de España (1750-2010), Tesi di dottorato, Siviglia 2017.

Pacces G., Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola in Italia, Monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura e della classe agricola dei singoli circondari della provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1880.

Presta G., Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Napoli 1794.

Tombesi A. et al., Recommendations of the working group on olive farming production techniques and productivity, «Olivae», 63, Madrid 1996.

 

Colomba Gianpiero, indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

Libri| Repubblica Neritina. Nardò, 9 aprile 1920

S. Coppola, Repubblica Neritina. Nardò, 9 aprile 1920. Cronaca politico-giudiziaria di una rivoluzione attraverso la voce dei protagonisti, Giorgiani editore, Castiglione 2020

 

Il clamoroso episodio di Nardò del 9 aprile 1920, di cui furono protagonisti braccianti agricoli in massima parte, artigiani e muratori, uomini e donne, guidati dai dirigenti socialisti di Nardò e di Galatina, finì al centro dell’attenzione della politica nazionale, non solo e non tanto per le modalità in cui si svolse lo sciopero generale, quanto per lo spirito di solidarietà che animò le diverse componenti sociali del mondo del lavoro e per le capacità organizzative dimostrate dai dirigenti delle Leghe dei contadini e dei muratori.

Nonostante vi fossero serie ragioni economiche per proclamare lo sciopero generale dei lavoratori agricoli, i dirigenti leghisti decisero di indirlo in segno di solidarietà con le vittime di Decima Persiceto, una località del bolognese dove, il 5 aprile, la feroce repressione aveva provocato l’uccisione di nove manifestanti.

Quell’eccidio – osserva Remigio Morelli nella Prefazione – «agì da detonatore della rivolta di Nardò» e «fu l’ultimo anello di una catena di eventi e il riflesso di una complessa trama di fattori scatenanti che già avevano creato uno stato generale di alterazione dello spirito pubblico e consolidato una forma di lotta estrema, estrema e incontrollabile nelle masse operaie e contadine […]. La “rivolta” di Nardò rappresenta il punto estremo del conflitto sociale nel ‘biennio rosso’ in terra salentina e una delle più drammatiche vicende dello scontro politico in Puglia tra la fine del primo conflitto mondiale e l’avvento del fascismo».

Legare lo sciopero generale alla solidarietà con le vittime della repressione di Decima Persiceto fece di esso un atto di contenuto squisitamente politico, anche se emersero, nel corso della giornata, le ragioni economiche immediate che portarono molti manifestanti a tentare di assaltare le case dei “signori”, rei – agli occhi dei contadini – di non avere rispettato gli accordi sindacali (l’ultimo siglato il 6 aprile) che prevedevano aumento del salario giornaliero e occupazione dei braccianti nelle terre che i signori lasciavano colpevolmente incolte.

Artefici dell’accordo del 6 aprile erano stati i dirigenti socialisti di Galatina Carlo Mauro e Fedele Liguori e i capi leghisti locali Giuseppe Giurgola, Gregorio Primitivo, Eugenio Crisavola, Luciano D’Ostuni, Antonio Palermo e Luigi Patera.

Salvatore Coppola nel sottotitolo qualifica come rivoluzionaria la giornata del 9 aprile, anche se, prima dell’arrivo nel pomeriggio di ingenti forze militari giunte da Lecce e Bari per reprimere il movimento, non si verificò alcun episodio di violenza rivoluzionaria. Ci furono, è vero, alcuni episodi di assalto ai palazzi dei signori i quali furono obbligati, anche questo è vero, a recarsi in piazza per sottoscrivere un nuovo concordato di lavoro, dopo che quello del 6 aprile era stato violato già il giorno successivo da molti di loro, ma i “signori” non subirono alcun atto di violenza, nonostante la presenza infuriata nella piazza di più di cinquemila manifestanti.

Bastarono gli appelli e i discorsi di Antonio Palermo e, soprattutto di Gregorio Primitivo, perché gli scioperanti li lasciassero rientrare nelle proprie cose incolumi e sotto scorta.

Il termine rivoluzione lo si trova in molti documenti prodotti dai diversi funzionari dello Stato che riferirono sulla vicenda (commissari e vicecommissari di polizia, comandanti dei carabinieri, prefetto). Rispetto ai numerosi episodi di scioperi e lotte sociali che si erano avuti nel Salento prima del 9 aprile, infatti, apparve un atto di violenza rivoluzionaria l’obbligo imposto a carabinieri, guardie di finanza e municipali di consegnare le armi nelle mani dei dirigenti leghisti affinché non venissero utilizzate per reprimere il movimento; atti rivoluzionari vennero considerati l’esposizione di una bandiera rossa, al posto del tricolore sabaudo, sul balcone del Municipio e, soprattutto, l’esposizione, all’interno di un ufficio municipale, del cartello Repubblica neritina al posto dei sovrani sabaudi. Per questo la repressione fu molto dura. Quegli episodi apparvero come una sfida all’autorità dello Stato che intervenne con il massiccio invio di carabinieri e soldati accompagnati da due pesanti e micidiali autoblindate.

Il movimento del 9 aprile ebbe un carattere diverso dai tanti episodi di lotta sociale che in quel “biennio rosso” videro i lavoratori agricoli scendere in lotta per rivendicare aumenti salariali e gestione paritetica delle politiche occupazionali.

Molti di quegli episodi ebbero il carattere ottocentesco delle rivolte spontanee, il più delle volte destinate alla sconfitta, vere e proprie jacquéries spesso senza un progetto e senza una guida. Ci riferiamo alle numerose manifestazioni popolari che, fin dalla primavera-estate del 1919, con il progressivo rientro dei reduci, scossero diversi paesi del Salento. La gente scendeva in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita, i braccianti agricoli occupavano le terre perché, nelle trincee, soprattutto dopo Caporetto, si era sparsa la voce e la speranza che al loro rientro nei paesi d’origine avrebbero ottenuto un pezzo di terra.

Quelle lotte furono, a volte, sostenute dalle associazioni combattentistiche, e sempre più spesso dalle Leghe contadine socialiste e, dopo la fondazione del Partito popolare, anche cattoliche. Contro Leghe rosse e Leghe bianche (come venivano indicate dalla pubblicistica dei giornali borghesi) si scatenò ben presto la violenza organizzata dai padroni delle terre.

Coppola sottolinea che contro quella che gli agrari e la stampa moderata e conservatrice bollavano come ondata di bolscevismo che si diffondeva nelle campagne salentine (con riferimento alle manifestazioni di lotta e a qualche parziale conquista sindacale da parte dei lavoratori agricoli), venne promossa, dagli stessi agrari, la formazione di gruppi armati per la tutela dei propri interessi. «Per i padroni delle terre» – scrive Coppola – «lasciarle incolte oppure apportarvi migliorie, rispettare gli accordi sottoscritti oppure non tenerne conto, retribuire i lavoratori in denaro oppure in natura, assumere uomini oppure, per corrispondere salari più bassi, donne e ragazzi, doveva costituire una prerogativa assoluta che nessun accordo e nessuna legge sul controllo del mercato del lavoro avrebbero dovuto limitare. Gli agrari salentini non rispettavano quasi mai gli accordi sottoscritti, ed anche l’attività delle commissioni paritetiche di avviamento al lavoro, istituite dai prefetti, veniva paralizzata da quella che molti funzionari governativi indicavano come la tenace e ostinata “resistenza dei proprietari”».

A tale proposito, l’episodio di Nardò (una delle pagine più significative dello scontro di classe che ha caratterizzato il biennio rosso salentino) costituisce – scrive sempre Coppola – «un classico esempio di microstoria che ci consente di cogliere le dinamiche della conflittualità sociale e politica che si è sviluppata in Italia nel periodo che va dalla fine della guerra all’avvento del fascismo». Il collegamento tra lotte agrarie e nascita del fascismo (voluto, sostenuto, finanziato e utilizzato dalla grossa proprietà terriera come strumento di reazione contro il movimento dei lavoratori), appare evidente dalla decisione dei proprietari terrieri di Nardò di costituire, il giorno successivo alla Repubblica neritina del 9 aprile 1920, il «fascio dell’ordine contro l’invadenza sovversiva».

Quando le organizzazioni sindacali crebbero per numero di aderenti e acquisirono una forza che avrebbe potuto intaccare i privilegi secolari delle classi abbienti, queste ultime ritennero legittimo ricorrere a forme di autotutela (anche armata), per stroncare le richieste di controllo del mercato del lavoro e di imponibile di manodopera. Sul punto, Coppola conclude la sua analisi sostenendo che «il terreno culturale e politico sul quale nacque e si innestò il fascismo fu l’odio di classe, di cui la violenza era l’espressione più manifesta, odio e violenza contro coloro che sembravano poter mettere in pericolo privilegi secolari, contro i socialisti e i comunisti bolscevichi che si facevano portavoce dei diritti dei lavoratori; contro i popolari, bolscevichi anche loro quando si schieravano a fianco dei lavoratori agricoli che lottavano per rivendicare i propri diritti, ed infine contro le associazioni degli ex combattenti quando le stesse si ostinavano a rivendicare autonome iniziative politiche a favore delle classi subalterne».

La fedele ricostruzione di Salvatore Coppola, che si basa, oltre che su documenti dell’Archivio centrale dello Stato, su una mole di fonti compulsate presso l’Archivio di Stato di Lecce (soprattutto quelle giudiziarie), consente di aprire nuovi scenari nel dibattito sulla storia del movimento di classe nel Salento. Il libro dà voce a tutti i protagonisti della vicenda, a partire da quella dello Stato che si espresse attraverso le relazioni dei suoi funzionari e dei giudici di Trani e Lecce cui spettò emettere la sentenza definitiva. Per passare poi alla voce della stampa, dei testimoni a carico e di quelli a discarico, degli imputati (più di duecento tra uomini e donne), degli avvocati difensori e, infine, dei dirigenti sindacali, soprattutto quella dei tre più importanti protagonisti a livello direttivo, ovvero Carlo Muro, Giuseppe Giurgola e Gregorio Primitivo (che, dal carcere, fece giungere ai pubblici ministeri un ricco, documentato e appassionato Memoriale, il cui valore storico trascende la contingenza della vicenda che lo vide protagonista).

La sentenza – annota Coppola nelle pagine finali del libro – «si rivelò un vero e proprio atto d’accusa nei confronti della classe padronale», il cui «comportamento giudaico» e la cui «mala fede» erano stati le vere cause di una rivolta che provocò la morte di tre lavoratori (un agente di polizia, Achille Petrocelli, e due contadini, Pasquale Bonuso e Cosimo Damiano Perrone).

Dal libro di Coppola emerge come la giornata del 9 aprile abbia avuto un carattere di innovazione nella conduzione delle lotte sociali (di cui avrebbero fatto tesoro, trent’anni dopo, i braccianti che occuparono le terre incolte d’Arneo). L’avere avuto lo sciopero generale del 9 aprile (rispetto alle tradizionali jacquéries delle campagne pugliesi) una guida, un’organizzazione efficiente e una direzione da parte dei dirigenti delle Leghe, l’essere frutto di un progetto che, qualora non fosse stato represso, avrebbe potuto costituire un modello per analoghi movimenti di lotta sociale, rappresentano altrettanti fasi di una modernità che sarebbe stata alla base della coscienza di classe che, frustrata per più di vent’anni dalla dittatura fascista, sarebbe riemersa prepotente nelle lotte del secondo dopoguerra.

L’ erba concordia e l’erba discordia nella leggenda e nella magia popolare (orchidee e legamenti amorosi)

di Gianfranco Mele

 

Ho elaborato alcune note anticipanti questo scritto in un articolo del 2019 nel quale fornisco anche un elenco delle Orchidaceae spontanee presenti nella flora salentina[1], rimandando poi, per approfondimenti, ad un testo di Piero Medagli et al.[2] Qui, mi soffermo nei dettagli sullle origini della attribuzione ad Orchidee e affini di una simbologia legata all’eros, e su credenze e miti attorno ai loro poteri magico-medicinali.

Queste piante hanno sin dall’antichità grande fama afrodisiaca e si pensava potessero essere utilizzate tanto ai fini di legamenti che di slegamenti d’amore, da qui la doppia e complessa attribuzione di erbe della concordia e della discordia.

Vedremo anche che, se oggi le orchidee sono considerate piante da regalare alla donna amata (con il significato, non casuale, di donarle amore), in realtà i diretti beneficiari dei loro poteri “magico-farmacologici” son sempre stati considerati più che altro gli uomini.

Volgarmente, con il nome di Concordia è attualmente appellata la Dactylorhiza maculata (sin.: Orchis maculata), una pianta della famiglia delle Orchidaceae. Un altro nome volgare di questa pianta è Erba d’ Adamo. Ma vengono chiamate Concordia anche la Dactylorhiza sambucina, l’ Orchis mascula e altre Orchidaceae.

Esiste anche un’ erba detta Sconcordia, che è il nome volgare dato alla Orchis latifolia detta anche Orchide palmata e palma Christi. [3]

Orchis deriva dal greco ὄρχις che significa testicolo; l’ allusione è ai due tuberi appaiati, di forma sferica o ovoidale, che ricordano appunto i testicoli. Questa forma fu interpretata, per analogia con gli organi maschili e in aderenza alla teoria della segnatura,[4] come un segnale indicante proprietà afrodisiache.

Orchis è anche un personaggio mitologico, figlio di una ninfa e di un satiro,[5] che viene sbranato dai cani di Dioniso per aver tentato di violentare una sacerdotessa: gli dei lo trasformano in una pianta che porta il segno del suo problema amoroso (in altra versione, è un ermafrodito che, non trovando corrispondenza amorosa, poiché sia maschi che femmine lo sfuggivano trovandolo ambiguo, diverso da loro, si suicida gettandosi da una rupe)[6].

Orchis mascula

 

Serapias è il nome dato a un genere della famiglia delle Orchidaceae. Deriva da Serapis, dio egizio della fertilità.

La pianta dell’ Orchidea, assieme alla sua analogia con i testicoli, viene citata da Teofrasto nel suo De Historia Plantarum.[7] Ne parla anche Plinio, nel suo Naturalis Historia, scrivendo:

Poche piante sono meravigliose come l’Orchis o la Serapias, le foglie sono simili al porro con uno stelo lungo come il palmo di una mano e che i fiori sono color porpora e le radici consistono in due tuberi, uno grosso ed uno più piccolo simili a testicoli. Il tubero più grosso, o più duro, come lo chiamano alcuni, preso con l’acqua stimola la lussuria. Il più piccolo che è anche il più molle, preso con il latte di capra reprime il desiderio amoroso. Alcuni dicono che ella ha foglie di scilla, ma più pulita e minore, e il gambo spinoso. Le sue radici guariscono le ulcere della bocca, e la flemma della pelle; e bevute in vino ristagnano il corpo”.[8]

 

Più avanti, Plinio distingue tra “Satirio” e “Orchis”:

Il Satirio ha forza d’infiammare la lussuria. Egli è di due sorti: l‘ uno ha le foglie più lunghe che l‘ulivo, il gambo di quattro dita, il fior rosso, e due radici a modo di testicoli d’uomo, le quali l’ un anno gonfiano, l’ altro scemano. L’ altro Satirio si chiama Orchis, e tiensi che sia femmina. E differente pei nodi, perché fa cesto più ramoso, ed ha radice utile al mal d’ occhio. Nasce quasi appresso il mare. Questo guarisce gli enfiati e i difetti di quelle parti, impiastrandovelo con polenta, 0 posto di per sé. La radice del primo in latte di pecora villereccia distende i nervi, e per opposito in acqua gli raccoglie.[9]

 

Successivamente, Plinio parla “del Satirio, o Eritraico”:

Dicono i Greci che il Satirio ha foglie di giglio rosso, ma minori, e sono non più che tre, che escono di terra: ha il gambo pulito, alto un braccio, e ignudo: ha doppia radice, e la inferior parte e maggiore genera maschi, la superiore e minore femmine. V’è un altro Satirio, chiamato Eritraico, il quale ha seme di vilice, ma maggiore: è pulito, di radice dura, di corteccia rossa, e dentro bianca, di sapore alquanto dolce, e solito ritrovarsi in luoghi montuosi. La radice, ancora tenendola in mano, desta la lussuria, ma più, s‘ella si bee in vin brusco. Dassi a bere ai montoni e a’ becchi, quando essi non sono bene caldi in amore. I Sarmati usano darlo a’ lor cavalli, che per la continua fatica sono pigri al coito; il qual difetto si chiama prosedamo. L’ acqua melata, o la lattuga presa spegne la sua virtù. I Greci quando vogliono significare questa concitazione venerea, la dicono satirio, o anche la chiamano cretegi, e teligono, e arrenogono, perché il seme di queste erbe e simile a‘ testicoli. Dicesi ancora, che coloro che hanno addosso la midolla dei rami del titimalo si fanno più ardenti alla lussuria. Stranissima cosa è quella che intorno a ciò scrisse Teofrasto, autore per altro grave, cioè che solo col toccar un‘ erba, il cui nome e forma ei non descrisse altrimenti, l‘ uomo abbia carnalmente usato ben settanta volle di seguito.”[10]

 

Scrivono dettagliatamente dell’ Orchis anche Dioscoride nel suo De Materia Medica, e Galeno nel trattato De Simplicium Medicamentorum Temperamentis ac Facultatibus. [11]

Nella sua traduzione del Dioscoride, il Mattioli ci riferisce “del Testicolo di cane”:

Il testicolo, il qual chiamano i Greci cynoſorchis, produce le frondi attorno alla piu bassa parte del suo fusto, strate per terra, simili a quelle dell’olivo, ma piu lunghe, e piu strette, e liscie. Cresce il suo fusto all’altezza d’una spanna: sopra al quale è il fiore porporeo. Sono le sue radici bulbose, lunghette, doppie, e ristrette à modo di una oliva: delle quali la piu bassa è piena, e carnosa: e la piu alta fiappa, languida, e vana. Mangiansi queste radici, come i bulbi, lesse, e arrostite. Dicono, che la maggiore mangiata dagli huomini, fa generare i maschi: e la minore mangiata dalle donne, le femine. Oltre à questo dicono, che le donne di Thessaglia danno per provocare i venerei desiderij la piu carnosa a bere nel latte di capra: e la fiappa per lo contrario effetto: di modo che l’una guasta la virtù dell’altra. Nasce in luoghi sassosi, e arenosi”.

 

Più avanti, il Mattioli parla, sempre traducendo il terzo Libro di Dioscoride, di “un altro Testicolo”, il Serapis, descrivendone le virtù risanatorie per le ulcere, per le fistole e gli infiammi. Ancora, descrive gli effetti del Satirio (altra orchidacea) come antispastico e come facilitante il coito, e del Satirio erithronio la cui “radice bevuta nel vino” analogamente alla prima “provoca il coito”.

In epoca medioevale le Orchidee mantengono la fama di afrodisiaci e vengono chiamate “coglioni di cane” o “testicoli di volpe”: ci fu dunque, una ricerca continua del tubero “miracoloso” che veniva essiccato e conservato per essere poi utilizzato all’ occorrenza.

Da I Discorsi del Mattioli

 

L’ Orchidea gode della fama di afrodisiaco, e per tali usi è ricercata, sino ai primi del novecento. In un testo di Michele Greco, ricercatore manduriano dei primi del ‘900, si ritrova la descrizione di una orchidacea ritenuta afrodisiaca negli usi popolari:

.. un’altra pianta, dal nome volgare cujoni ti cani (Orchis mascula) [Orchide testicolo o testicolo di cane] è ritenuta un afrodisiaco dal popolo…[12]

 

Di fatto, diverse piante bulbose e tuberiformi, appartenenti a differenti ordini (Liliales e Orchidales) e specie (Liliaceae, Amaryllidaceae, Orchidaceae) son ritenute afrodisiache nella tradizione magico-popolare, e hanno in comune tra loro la forma (bulbosa o tuberosa) che ricorda quella dei testicoli, in aderenza alla teoria della segnatura per la quale le piante vengono associate agli organi umani a parti di esse somiglianti. [13]

Nella medicina e nella tradizione popolare, nella letteratura esoterica e nei verbali dei processi inquisitori si ritrovano spesso citate l’erba concordia e l’erba discordia (detta anche erba sconcordia), impiegate per legamenti d’amore e fatture.

Più in generale, nei verbali dei processi, si ritrovano citazioni di non meglio specificate “polveri” ottenute da erbe e utilizzate ai fini di legamenti d’amore: è il caso, ad esempio, dei verbali del Fondo Sortilegi e Stregonerie dell’ Archivio della Curia di Oria: ricorre spesso il tema del potere di una particolare polvere affatturante. Tra le varie deposizioni pervenuteci, si può citare quella della masciàra Caterina Verardi, che interviene a favore di Francesco de Milano, il quale le aveva chiesto aiuto per poter “consumare carnalmente una giovane”. E’ così che Caterina consegna a Francesco

una cartolina con una polvere, che per ogni volta che m’incontravo e vedevo detta giovane io avessi dovuto aprire detta carticella con la polvere e dire le seguenti parole: “la sementa sia con che essa tiene l’intenzione e la concordia con me”: che così mi diceva detta Caterina che detta giovane con tali parole non aver potuto veder altro che me”.[14]

 

Le “polveri”, ma anche intrugli vari, infusi e decozioni per i legamenti d’amore erano ottenute con l’utilizzo di differenti erbe alle quali erano attribuiti poteri afrodisiaci o di legatura. Tra le erbe impiegate a fini di legamenti, oltre alle Orchidee vi erano l’ Artemisia, la Felce, Solanacee varie (Giusquiamo, Mandragora ecc.).

In un rituale siciliano di legamento amoroso si impiegano insieme il sangue mestruale e l’erba concordia:

Raccogliere il sangue mestruale del terzo giorno del ciclo in una boccettina, ed esporlo per tre giorni agli influssi del sole e della luna. Trascorsi i tre giorni, mischiare il sangue con un pizzico di erba chiamata Concordia, quindi portare il sangue in chiesa, assistere alla messa e all’atto della consacrazione, inginocchiarsi, stringere la boccettina con il sangue tra le mani, e dire per 7 volte:

“Nun vegnu pi Gesù Cristu, ma vegnu pi attaccari a chista N.N. (nome, cognome e data di nascita della persona da legare) tantu l’ ha liari chi di mia N.N. (nome e dati della persona che fa il rito) nun s’avi a scurdari. A questo punto il sangue è consacrato e andrà somministrato in piccola quantità all’uomo, nel vino o nel caffè, dicendo mentre si mescola, per tre volte, le seguenti parole:“N.N. ti dugnu lu sangu di li me’ vini, tu m’ha amari finu alla fini; N.N. ti dugnu lu sangu di li me ossa, tu m’ha amari finu alla fossa; N.N. ti dugnu lu sangu di lu mè funnu, tu m’ha amari finu alla fini du munnu”.

Tavole del botanico cinquecentesco Rembert Dodonaei

 

Nel 1901, Giuseppe Bellucci ci racconta, nel Bollettino della Regia Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, alcune leggende reatine, tra cui quelle intorno all’ Erba concordia e all’ Erba sconcordia: la prima è individuata nell’ Orchis maculata, la seconda nell’ Orchis latifolia:

Quest’erbe, cosi’ impropriamente qualificate appartengono a due specie di orchidee, che vivono sulle praterie del Terminillo, ed in generale di tutti i monti dell’Appennino, al di sopra di 1500 metri di altezza. Da per tutto hanno un’importanza notevole ne’ pregiudizi popolari, e sono i tuberi di codeste orchidee, che s’impiegan per determinare fatture, filtri amorosi, sortilegi. […]La forma del tubero intiero con le sue appendici richiama quella di una piccola mano, provveduta percio’ di un numero normale od anormale di dita. Secondo la fantasia popolare il tubero con cinque appendici, ossia la mano normale, e’ l’erba della concordia ( Orchis maculata L.); il tubero invece che ha un numero di appendici inferiori a cinque, ossia la mano anormale, e’ l’erba della sconcordia (Orchis latifolia L.). […] Basta di far bere nel vino ad una di esse, e meglio a tutte e due, la polvere dell’erba della concordia, senza che si conosca pero’ da’ bevitori qual sorta d’intingolo si fa loro trangugiare, per veder subito ritornare fra di essi la pace violata, l’amicizia antica, l’amore perduto. Al contrario, basta fatturare il solito vino colla polvere dell’erba della sconcordia per vedere rapidamente susseguire un odio implacabile, tra le due persone che incautamente vuotarono il bicchiere, in cui la polvere della mano con dita anormali introdusse il fermento della piu’ potente discordia.

Questa la  leggenda che mi fu raccontata sul monte Terminillo; e siccome conosceva che in altre parti dell’Appennino, e singolarmente sul gruppo de’ monti Sibillini, a determinare l’amore o l’odio si adoperano i tuberi intieri, che si portano indosso a guisa di amuleti per ottenere l’intento, dimandai al narratore della leggenda, se tale costumanza si avesse anche tra le genti, che vivono alle falde del Terminillo. Egli mi rispose di si’; ma noto’ che, bevendo la polvere di tali erbe nel vino, l’effetto e’ immediato, mentre con la sola presenza dell’erba, a contatto o in vicinanza della persona, l’effetto che ne conseguita, e’ lento e tardo a manifestarsi. E’ meglio quindi , concludeva, di fatturare il vino, che nessuno rifiuta di bere.[15]

 

In un testo satirico di un anonimo anticlericale ottocentesco, si ritrovano descritte una serie di “superstizioni” ancora in voga a fine ottocento, tra cui quella relativa agli “effetti” dell’ Erba concordia e dell’ Erba discordia:

dar da mangiare ad un marito ed a sua moglie l’erba concordia, oppure l’erba discordia, perchè vivano in buona armonia, od all’incontrario, si bisticcino fra loro[16]

 

La forma dell’apparato radicale di molte Orchidee (specie di quelle a tuberi digitati: es. Dactylorhiza, Gymnadenia, Nigritella) ricorda quella di una mano con le sue dita, da qui denominazioni riferite a mani divine. Remo Bracchi ci offre un quadro delle diverse denominazioni popolari di queste piante associate alle “mani”:

Nell’ alta valle (a Piatta) le due locuzioni parallele la man del Signòr e la man del diàul designano le due radici a forma di mani che intrecciano tra loro le dita, una più bianca e una più scura, dell’ Orchis maculata. […] A Bormio per classificare l’ Orchis maculata incontriamo anche la denominazione di pè del Signor […]. A Livigno manìna da la Madòna, più usualmente man o manìna dal Signòr, rappresenta un sintagma scelto come designazione della Nigritella nigra […], anch’essa della stessa famiglia, detta a Castionetto perfèt amur.[17]

 

Alla base delle denominazioni sopra riportate (pè del Signòr, manìna da la Madòna, manìna dal Signòr, Palma Christi ecc.) c’è anche la leggenda secondo cui

un monaco che, appropriatosi di un braccio di una statua miracolosa di Gesù Bambino, lo seppellì, prima di perdersi vagando, in preda a sensi di colpa, tra le montagne, dove trovò la morte. L’anno seguente spuntò una piantina che riportava nella radice la forma della mano di un bambino.” [18]

Palma Christi, dalle tavole del Mattioli

 

Anche, e ancor prima, Cypripedium calceolus, che ha come nome volgare “Scarpetta di Venere”, poi cristianizzata in “Pianella della Madonna”, è legata alla leggenda, in questo caso di un calzare ricamato in oro, e perso da Venere-Afrodite durante una tempesta. Tale calzare fu ritrovato da un uomo, ma prima d’essere toccato e profanato dal mortale, si trasformò in una pianta che aveva la forma e il colore dorato del divino calzare.

Ritornando a Concordia e Discordia, è ancora Remo Bracchi, con la sua ricerca sulle credenze popolari italiane, a descriverci gli impieghi magico-afrodisiaci delle Orchidee:

Tra le erbe usate dalle streghe per i loro sortilegi si può ricordare l’ erba della concordia o della discordiaOrchis maculata” e altre specie. A Roma con le radici ridotte in polvere si preparavano filtri amorosi […]. In latino era detta anche coniugalis herba. Nelle valli di Lanzo, quando due fidanzati vogliono conoscere in antecedenza se il loro matrimonio avrà luogo, vanno in cerca della concordia. La sua radice è divisa in due parti, che raffigurano due mani con cinque dita. Se le due mani sono unite, è segno che il matrimonio sarà fatto, se sono divise invece non andrà a effetto”. [19]

tavole del botanico cinquecentesco Jacob Theodorus detto Tabernaemontanus

 

In un processo per stregoneria tenutosi a Bormio nel 1673, Giovanni Bormetti confessò che per i suoi incantesimi utilizzava l’ erba tirella, identificata con l’ orchidea.[20]

Naturalmente, come da tipicità delle credenze magiche, una pianta (o una famiglia di piante) non ha l’ esclusiva per qualsivoglia impiego magico-rituale: ai fini dei legamenti, ad esempio, vi sono diverse possibilità di impiego di svariate piante (o altri elementi) che abbiano effetti o proprietà finalizzate, o che, per la teoria della segnatura, presentino analogie con le parti del corpo umano oggetto di intervento. Così, anche la Felce rientra tra le piante magiche utilizzate per legare o slegare:

Nell’ Abruzzo si usa la Felce raccolta nella notte di Natale e che ha una forma di mano, che le streghe congiungevano o disgiungevano, quando operavano le loro magie per provocare la discordia o l’unione tra due fidanzati o due sposi”. [21]

 

Ritornando alle Orchidee, è interessante notare come sin dalle già citate descrizioni di Plinio (“Il tubero più grosso, o più duro, come lo chiamano alcuni, preso con l’acqua stimola la libidine. Il più piccolo che è anche il più molle, preso con il latte di capra reprime il desiderio amoroso”) la stessa pianta, o parti diverse della stessa pianta, assolvano funzioni opposte:

Si danno casi in cui l’opposizione divino/diabolico è presente nella stessa area per designare una opposizione reale, basata su una differenza non della specie, ma morfologica. Si pensi alla forma della radice di certe orchidee, cui si aggiunge la divergenza del colore, una opposizione chiaro/scuro. E’ il caso appunto dell’ Orchis sambucina, molto comune in montagna, la cosiddetta erba concordia. Stesso nome (ed era detta anche erba d’ Adamo) ha l’ Orchis maculata. A questa ed altre specie di orchidacee si dava in Abruzzo il nome di jerve de la cungòrdije e de la scungòrdije; le radici intrecciate, polverizzate e somministrate in qualche cibo o bevanda, avevano il potere di mettere pace in famiglia o tra due persone; le radici invece divergenti sortivano l’effetto contrario. Queste erbe hanno tuberi palmati, a forma di mano (man de la Madòna nell’ Agordino la maculata, e man de San Zoàn a Trento e dintorni; manìna del Signore all’ Argentario l’ Orchis papilionacea), e dall’ intreccio di quelle ‘dita’ si traevano auspici sulla durata di un amore: se sarebbe continuato per sempre o se si trattava di cosa passeggera. I fiori della sambucina sono rosso-violacei, oppure gialli, e gli individui a fiori o rossi o gialli si presentano spesso insieme dando l’impressione di specie del tutto diverse. In generale prevalgono i gialli, e il loro nome nelle valli valdesi è mano di Dio (man dà Bundiu) mentre quelli a fiore rosso si chiamano mano del diavolo. In Val d’Aosta la sambucina è fiore del diavolo; nell’Agordino la doppia possibilità del colore ha suggerito il nome Adamo e Eva. L’ Orchis morio dai fiori scuri rosso violacei, in Piemonte ha nome discordia (o disconcordia), a Bologna scuncordia.[22]

Dunque questi tuberi, come abbiamo visto nelle vari descrizioni, a seconda della conformazione o della specie da cui provengono hanno il potere di legare e slegare, di generare concordia e discordia, di rendere virili o impotenti di far generare (come da una descrizione citata del Dioscoride) figli maschi (se ingeriti dai maschi) o figlie femmine (se ingeriti dalle donne). Un ruolo fondamentale in questa ambivalenza lo gioca sempre la dottrina delle segnature, per cui il rizotubero grande rappresenta la potenza sessuale e quello piccolo l’impotenza[23], o ancora se la radici son divergenti hano l’effetto di allontanare e se non lo sono di congiungere.

I poteri attribuiti alle Orchidaceae attraversano il tempo e le culture: si ritrovano in ogni parte del globo credenze legate alla loro “efficacia” magico-afrodisiaca.

Il filosofo e alchimista Giovan Battista Della Porta cita le virtù afrodisiache del satirione (nome volgare dato a varie specie di orchidea) indicando una ricetta a base di radice questa pianta confettata in miele insieme a pinoli, anice e altri ingredienti di origine animale e vegetale.[24]

Nella sua ricerca farmaco-antropologica su una vasta mole di formulari e ricette elaborate da maghi, streghe e alchimisti tra la metà del XV secolo e il XVII secolo, il tossicologo Enrico Malizia cita una pozione per favorire il coito a base di satirione, seme di ortica, zenzero, pigne e pinoli.[25] Un rimedio per curare la frigidità è composto di: “insalate ricche di rughetta, satirione e sedano condite con aceto rosato, testicoli di oca, ventre di lepre condito con spezie” da cuocere tutti insieme a fuoco lento.[26] Un elettuario per stimolare gli impulsi sessuali si compone di conserva di satirione, conserva di cedro, noci macerate in miele, pigna macerata in miele, pistacchi fritti in burro, decotto di carne di tartaruga al mughetto, cinnamomo.[27] Un elettuario per favorire la fecondazione contiene radice di satirione insieme a svariati altri ingredienti vegetali e animali (di più o meno simile composizione a quello precedentemente citato).[28] Radici di satirione insieme a numerosi altri ingredienti sono presenti anche in un elettuario contro la sterilità femminile.[29] Una polvere per far concepire destinata ad essere bevuta in vino rosso dall’uomo se è lui ad essere sterile o dalla donna se lo è lei, è composta di un macerato di “radici di satirione, radici di eringio, foglie di sambuco, fichi tagliati, fegato e testicoli di un giovane porco seccati al calore del camino”.[30] Semi di satirione insieme a numerosi altri ingredienti fanno parte di un elettuario per eccitare i sensi.[31]

In Oriente, sin dall’antichità, si utilizza il Salep (o Sahlab), ricavato dai tuberi essiccati di diverse Orchidee. E’ considerato un alimento energetico, ricostituente ed afrodisiaco.

Sahlab

 

I medici ayurvedici indiani han sempre considerato le Orchidaceae come afrodisiaci, nella convinzione che i tuberi abbiano il potere di moltiplicare il seme maschile e contribuire ad una sessualità sana e potente.[32]

Per alcuni popoli nomadi, la radice del Karengro (“pianta del fanciullo”), identificabile con l’ Orchis mascula, è insieme afrodisiaco e amuleto amoroso. La raccolta rituale della radice ricorda il rituale magico della raccolta della Mandragora:

“Un cane nero viene legato per la coda alla pianta del fanciullo, ovunque famosa, dopodiche, dopo aver prima estratto a metà la pianta con un coltello mai usato prima, si pone davanti al cane un pezzo di carne d’asino; mentre il cane balza sulla carne la pianta viene divelta. Ora dalla radice vengono intagliati dei genitali maschili, che quindi vengono avvolti in una pezza di pelle di daino e portati sotto il braccio sinistro. Per gli zingari questo è anche un mezzo segreto per combattere la sterilità.”[33]

 

Ma esiste in ambito magico anche un impiego che si discosta dalle più comuni finalità afrodisiache: nello sciamanismo himalayano i frutti dell’ Orchidea sono fumati con tabacco, e si pensa che questa miscela permetta di viaggiare nell’ Altro Mondo. [34]

 

Note

[1]

Gianfranco Mele, Orchidaceae e Orchidee spontanee: dal mito alla magia e alla medicina popolare, La Voce di Maruggio, giugno 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/orchidaceae-e-orchidee-sponatnee-dal-mito-all-magia-e-lla-medicina-popolare.html

[2]            Piero Medagli, Rita Accogli, Alessio Turco, Vincenzo Zuccarello, Antonella Albano, Fiori spontanei del Salento, guida al riconoscimento e alla tutela, Grifo Edizioni, Lecce, 2016

[3]    A.A.V.V., Dizionario delle Scienze Naturali nel quale si tratta metodicamente dei differenti esseri della natura, Volume XVI, Firenze, Battelli, 1846, pag. 607

[4]    https://it.wikipedia.org/wiki/Dottrina_delle_segnature

[5]            I nomi Satyrium e Orchis dati ad Orchidaceae, secondo alcune fonti, sono ricollegabili anche  alla leggenda dei satiri, in quanto consumatori dei rizotuberi della pianta.

[6]    Alfredo Cattabiani, Florario, Miti, leggende e simboli di piante, Mondadori, 2017, pag. 601

[7]    Per un sunto, corredato di illustrazioni, si veda sul web Luca Oddone, Agli albori dell’orchidologia: le orchidee di 2000 anni fa, settembre 2012 in: G.I.R.O.S. – Gruppo Italiano per la Ricerca sulle Orchidee Spontanee, Forum http://www.giros.it/forum/viewtopic.php?f=8&t=1395

[8]    Plinio, Naturalis Historia, Vol. II, LXII

[9]    Ibidem

[10]  Plinio, cit., LXIII

[11]  Si vedano le interessanti note e illustrazioni sul già citato Forum del Gruppo Italiano per la Ricerca sulle Orchidee Spontanee

[12]  Michele Greco, Superstizioni Medicamenti Popolari Tarantismo, Filo editore, Manduria, 2001 (riedizione a stampa di un manoscritto del 1912 ), nota 27 a pag. 93

[13]  http://www.cure-naturali.it/medicine-alternative-altro/1936/teoria-segnature/487/a

[14]  Denuncia di Francesco de Milano in data 28 marzo 1742 contro Caterina verardi, masciàra in Archivio Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie al tempo di Monsignor Labanchi, f. 7

[15]          Giuseppe Bellucci, Perugia, settembre 1901 in Bollettino  della Regia Deputazione di Storia Patria per l’Umbria vol VII fasc. 3

[16]  Anonimo, Di palo in frasca – veglie filosofiche semiserie di un ex religioso che ha gabbato S. Pietro, Volume III, Parte I, Ginevra, Libreria Filosofica, 1870, Pag. 157

[17]  Remo Bracchi, Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera, Walter de Gruyter Ed., 2009, pag. 376

[18]          http://www.venetoagricoltura.org/upload/pubblicazioni/Orchidee_E320/cap_5.pdf

[19]  Remo Bracchi, op. cit., pag. 376

[20]  Gianluca Toro, Flora Psicoattiva Italiana, Nautilus, 2010, pag. 101

[21]  Ibidem

[22]  Ibidem

[23]  Come osserva il Piccari, proprio a causa della analogia morfologica, “il più grande faciliterebbe la riproduzione, mentre il più piccolo la ostacolerebbe; l’uno segnalerebbe una fecondità latente, l’altro, invece, una impotentia generandi” (Paolo Piccari, Giovan Battista Della Porta, il filosofo, il retore, lo scienziato, Franco Angeli, Milano, 2007, pag. 76)

[24]  Giovanni Battista Della Porta, La magia naturale, Giunti Demetra, 2008, pag. 130 (testo orig. Magia Naturalis, sive de miraculis rerum naturalium – libri XX, Napoli, 1589)

[25]  Enrico Malizia, Ricettario delle streghe. Incantesimi, prodigi sessuali e veleni, Edizioni Mediterranee, 2003, pag.169

[26]  Enrico Malizia, cit., pag. 189

[27]  Enrico Malizia, cit., pag. 154

[28]  Enrico Malizia, cit., pag. 254

[29]  Enrico Malizia, cit., pag. 163

[30]  Enrico Malizia, cit., pag. 259

[31]  Enrico Malizia, cit., pag. 150

[32]  Christian Rätsch, Le piante dell’amore. Gli afrodisiaci nel mito, nella storia e nella pratica quotidiana, Gremese Editore, 1991, pag. 66

[33]  Christian Rätsch, cit., pag. 144

[34]  Gianluca Toro, cit., pag. 101

La settecentesca accademia di S. Vito dei Normanni (2/2)

di Armando Polito

La settima riunione si tenne, come mostra la c. 213r di seguito riprodotta, il 1° gennaio 1738, cioè, almeno stando a quel che risulta registrato, a sette anni dalla precedente. Lacuna volontaria o no nella registrazione oppure sintomo di una progressiva stanchezza (fenomeno frequente per le accademie dopo l’entusiasmo e la prolificità dei primi anni)? Troppo il lasso di tempo per non credere nella prima ipotesi e la conferma viene dal fatto che più avanti (c. 221r) è riportato un sonetto di Ortensio De Leo e in calce una nota che recita: Il sopradetto Sonetto fu rappresentato nell’Assermblea Accademica per il compleanno del Signor Principe, tenuta nel palazzo di detto Signore a 7 Gennaio, Sabbato giorno di Santo Antonio Abbatead ore 21 1733. 

 

Problema Accademico. qual fosse il motivo principale della Santità di Santo Francesco Xaverio: l’umiltà di sé stesso, ovvero la carità esercitò verso del Prossimo. Tenuta la presente Accademia nella Chiesa Vecchia a primo del 1738 giorno di Giovedì, e Capo del’anno ad ore 20, l’apertura della quale si fe’ dal Reverendo Andrea De Leonardis

Questa volta il problema accademico non è discusso in prosa ma trattato direttamente nelle cc. 214r-231v nei componimenti di Ortensio De Leo (6; l’ultimo, a c. 221r, in realtà è del 7 gennaio 1733, come riportato in una nota aggiunta in calce e del quale ho detto poco fa), Teodomiro De Leo (4), Ortensio De Leo (3).

L’ottava riunione ebbe luogo il 12 febbraio 1738, come si evince dall’incipit di c. 228r.

S’invitano li Pastori della nostra Arcadia a festegiare le felicissime nozze del nostro invittissimo Regnante D. Carlo Borbone, Rè delle due Sicilie, etc. colla Serenissima Real Principessa di Polonia Donna Maria Amalia Primogenita del Rè Augusto 3 di Polonia. e Duca della Serenissima Casa di Sassonia nella presente Assemblea Accademica, che si celebra quest’oggi li 2 di Febraio 1738 giorno di Domenica.  

Seguono a partire dalla stessa carta fino a c. 231v tre componimenti di Ortensio De Leo.

Si direbbe che le riunioni dell’accademia, almeno quelle registrate, terminino qui, perché la c. 232r non fa nessun riferimento specifico ad una tenuta nella data che pure è indicata (giugno 1738).

Seguono (cc- 233r-244r) i componimenti di Giovanni Battista Notaregiovanni, Ortensio De Leo, Giovanni Scazzioto (3) di Brindisi, Vito Ruggiero, Lorenzo Cavaliere, Lorenzo Ruggiero (2), Carmine Ruggiero (2), Francesco Ruggiero (2), Pietro Matera di Francavilla (3), Padre Piertommaso Barretta di S. Vito Baccelliere dei carmelitani, un autore il cui nome è illegibile (c. 242r), dottor fisico signor Carlo Evaranta (?) di Francavilla, un autore il cui nome risulta abraso.

Dopo aver angustiato il lettore con questa descrizione che pure era necessaria per avere contezza del documento e conoscere nomi di poeti poco noti se non ignoti sui quali varrà la pena in seguito approfondire [(solo alcuni di loro, per giunta parzialmente, risultano pubblicati in Pasquale Sorrenti, La Puglia e i suoi poeti dialettali : antologia vernacola pugliese dalle origini ad oggi, De Tullio, Bari, 1962; ristampa Forni, Sala Bolognese, 1981 (1 copia nelle biblioteca “Achille Vergari” di Nardò)], concludo, nella speranza che non si sia già dileguato, con un assaggio per così dire, divertente e anticonformista. Divertente perché riguarderà due componimenti che potremmo inquadrare nell’enigmistica; anticonformista, come è la stessa raccolta, perché, cosa inusuale in quelle di altre accademie, essa contiene pure sei componimenti in vernacolo, e ne leggeremo uno.

c. 134r

In lode dell’Eccellentissimo Signor D. Giuseppe Marchese

Eloggioa latino

 

                                                     I

                                                 oseph

                                                 illustri

                                              Marchese

                                           edito familia

                                      vestigiis maiorum

                                    consequuto suorum,

                                 miris patris santi gestis

                                   virtute, iustitia, clementia,

                         charitate, magnanimitate atque robore

                            insigni praecellenti celebris tantae

            probitatis specimemb, onusto gloriae immortalium

               donanti cunctis per Orbem concelebrantibus

              ad piramidis insta relogium hocce Leo per me  

                        struitur            erigitur     dicatur

 

                                                      dello stesso Signor Carmine de Leo    

 

_________

a Forma che s’incontra anche nei libri a stampa dei secoli passati.
b Errore per specimen.

Traduzione: A Giuseppe Marchese nato da illustre famiglia. che ha seguito le orme dei suoi antenati, le mirabili gesta del padre santo, che per valore, giustizia, clemenza, carità, magnanimità e forza, insigne, eccellentissimo, conosciuto, che, carico della gloria degli immortali,  dona a tutti coloro che nel mondo lo festeggiano un esempio di tanta onestà, ecco, questo elogio a forma di piramide da me Leo viene costruito, eretto, dedicato.

Il componimento dal punto di vista iconografico appare ispirato dal carme ropalico [dal latino Rhopalicu(m), a sua volta dal greco ῥοπαλικός (leggi ropalicòs), derivato  di ῥόπαλον (leggi ròpalon)=clava], gioco metrico-grafico praticato già in Grecia a partire dal IV secolo a. C. poi in ambito latino presso i poeti neoterici del II secolo d. C., consistente nel costruire un verso con parole in cui ognuna ha un numero di sillabe pari a quello della precedente più uno, in modo che, sistemando le parole una sotto l’altra, esce fuori una forma che ricorda quella della clava. Qui, come si nota, rispetto al modello originale l’aumento progressivo delle sillabe è rispettato solo nelle tre righe superiori e la forma finale (che non è quella della clava ma della piramide) è ottenuta anche con un opportuno ingrandimento o rimpicciolimento dei caratteri (ragion per cui nella mia trascrizione, avendone adottato una dimensione fissa, la piramide è andata a farsi benedire. Oltretutto nelle composizioni latine similari la prima parola, anche e costituita da una sola lettera, doveva avere un senso compiuto. Qui, invece l’iniziale I (che in latino, imperativo presente del verbo ire, avrebbe significato va’) è parte integrante del successivo oseph: insomma, un giochetto di origine dotta ma furbescamente semplificato.

c. 138v

 

il medemo soggettoa

Programma

Donno Fabio Belpratob Marchese

Anagramma purissimo letterale

Febbo nomar se po’ perch’è natal dì 

________

a Festeggiamento del compleanno di Fabio Marchese..

b Vedi la nota n. 2  

Anche qui il purissimo con cui l’autore (Ferdinando De Leo) definisce il suo anagramma è velleitario, come appare a contare solo il numero di lettere che compongono la frase di partenza (26) e quella anagrammata (27), la quale, inoltre, presenta una p in più, una p  invece di b e una e invece di o.

c. 73r

Dellu patre Rusariu Mazzottia Letture domenicanu pe’ la muta addegrizzab di tutti l’emminic, e le fimmene de santu itud pe’ la enutae de lu segnore Princepe donnuf Fabbiug Marchese 

Sunettu 

Oh quantu ndé presciamuh, ch’è benutu

Fabiu lu Sirei nesciuj, e lu Segnore!

Staamuk propriu propriu senza core

penzando ndé le fosse ntravenutu.

Nui Santu itu nd’è preammul mutu

cù lu ziccam pe’ ricchian, e caccia foreo

de Napul’, e lu nducap quae a do ore

pur’a fazza la mosciaq, ci ae pè utur.

Se ndé varda cu’ l’ecchi, nò ndé sazia!

E vol’à se la mbarcias n’autrat otau?

Potta de craev, í  com’olew à nde strazia!  

Deh Santu itu fermande ddax rota

de la fortuna, e fandey st’autraz raziaza:

middzb‘anni a mienzuzc á nui cù se reotazd.

_________ 

a Di Brindisi.

b Da notare in questa parola, nella penultima del terzultimo verso e nella prima dell’ultimo la grafia di dd, in cui ciascuna lettera appare tagliata a metà da una barretta orizzontale. È come se il copista con quel segno diacritico avesse voluto precisare che il gruppo dd (esito di ll) nel dialetto brindisino presenta una pronuncia ben diversa dalla cacuminale retroflessa del leccese (perquest’ultima vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/01/il-solito-dubbio-di-trascrizione-per-un-fonema-salentino/).

c Plurale di ommu, che a prima vista potrebbe sembrare un francesismo (da homme). Tra l’altro gli etimologi considerano l’italiano uomo derivato dal latino homo, che è nominativo, contravvenendo alla regola che vuole i nomi formatisi dall’accusativo (hominem), mentre il plurale uomini mostra chiaramente la sua derivazione dall’accusativo plurale homines. Credo che proprio in –mm– stia la spiegazione dell’apparente stranezza, ipotizzando la seguente trafila: homine(m)>homne(m) (sincope)>homme (assimilazione)>ommu (regolarizzazione della desinenza; simile il napoletano ommo attestato ne Le Muse napoletane di Giambattista Basile (XVI-XVII secolo); lo stesso fenomeno, mediato dalla lingua parlata, avrebbe coinvolto uomo.

d Per apocope da Vito; da notare in itu l’iniziale minuscola, quasi la parola si ricordasse dell’aferesi e sottintendesse V.

e Per aferesi, come nel precedente itu,  da venuta.

f Parallelo al donno dell’italiano antico, dal latino dominu(m) attraverso il sincopato domnu(m) e l’assimilato donnu(m).

g Incoerenza grafica (non errore ortografico a quel tempo, perché in testi a stampa dei secoli passati si legge, per esempio, Fabbio Massimo)  rispetto al Fabiu del primo verso. 

h Alla lettera ci pregiamo che, cioè siamo onorati che. Nel salentino il verbo è usato anche assolutamente (sta mmi prèsciu=mi sto rallegrando) e il sostantivo prèsciu come sinonimo di gioia.

i Nel dialetto salentino sinonimo di padre. La voce è dal francese antico sire, a sua volta dal latino senior, comparativo di senex=vecchio. Qui probabilmente si carica ulteriormente del significato che la parola, di uso letteraria e oggi obsoleta, aveva in italiano, anche se il successivo Segnore sembrerebbe, se non escluderlo, almeno limitarlo.

j Passaggio str>sci abituale nel salentino (maestra>mèscia, finestra>finescia, etc. etc.).

k Per sincope da stavamo.

l Da priare, dal latino precari, con aspirazione, evanescenzae scomparsa della c, a differenza di quanto successo per l’italiano pregare.

m Da (z)ziccare, corrispondente all’italiano azzeccare, che è dal medio alto tedesco zecken=menare un colpo. La voce salentina ha il significato di prendere, afferrare.

n Per aferesi da orecchia.

o Nel salentino è usato anche col significato di in campagna e, col valore di sostantivo (enallage), in espressioni del tipo fore mia=la mia proprietà rurale.

p Da ‘nducire, dal latino indùcere

q Vedi la nota j.

r Aferesi per voto.

s Da mbarciare (a sua volta per dissimilazione da mmarciare, che è per aferesi da ammarciare (a sua volta per assimilazione da ad+marciare). il riferimento è al camminare impettito, ostentando serietà e, per traslato, togliersi d’impaccio facendo finta di nulla e continuando imperterrito.

t Da notare l’esito al>au, come nel francese hautre; in altre zone del Salento, invece, è in uso aḍḍa, che fa pensare ad una derivazione dal greco ἄλλη (leggi alle).

u Per aferesi da volta e consueta caduta di l come in càutu=caldo, motu=molto, etc. etc.

v Potta d’osci (vulva di oggipotta è voce fiorentina d’incerto etimo; osci è dal latino hodie)  e potta de crae (crae è dal latino cras) sono entrambe interiezioni. Non sorprenda che un uomo di chiesa abbia inserito un’espressione volgare: evidentemente già all’epoca lessa era tanto inflazionata dall’uso che aveva perso gran parte, se non tutta, della sua valenza oscena. Piuttosto è da notare come solo ai nostri giorni il suo corrispondente maschile (cazzo!) sia stato sdoganato nella lingua parlata e in quella scritta.

w Da vole, terza persona singolare dell’indicativo presente di ulìri, con abituale aferesi di v-.

x Per aferesi da chedda (=quella); per la grafia di dd vedi la nota b.

y Per dissimilazione da fanne (fà a noi).

z Vedi la nota t.

za Per progressiva lenizione da grazia attraverso crazia (sottoposto poi ad aspirazione di c-) in uso in altre zone del Salento.

zb Vedi la nota b.

zc Per dissimilazione -zz->nz.

zd Da riutare, composto dalla particella ripetitiva re– e da utare, che, come l’italiano voltare, è per sincope dal latino volutare (=concamerare, cioè fabbricare a volta; può significare anche ), a sua volta da    A Nardò il verbo è usato con riferimento al vento che cambia direzione (sta rriota=sta rivoltando).

 

(Del Padre Rosario Mazzotti lettore domenicano per la muta allegria di tutti gli uomini e le donne di San Vito per la venuta del signore principe Don Fabio Marchese

Sonetto

O quanto ci rallegriamo perché è venuto/Fabio  il padre e il signore nostro!/Stavamo proprio proprio senza cuore/pensando che non sarebbe intervenuto./Noi ne pregammo molto san Vito/perché lo prendesse per l’orecchio e lo spingesse fuori/da Napoli e lo conducesse qui in due ore/solo per mostrare che ci va per voto./Se ci guarda con gli occhi, non ci sazia!/e vuole svignarsela un’altra volta?/Puttana di domani, come lui vuole straziarci!/Oh san Vito ferma per noi quella ruota/della fortuna e facci quest’altra grazia:/che possa vivere mille anni in mezzo a noi)   

Prima, a c. 53r lo stesso tema era stato trattato in latino da Scipione Ruggiero in un componimento latino in sette distici elegiaci (numero che ricorda quello dei versi che compongono un sonetto).

Reverendi Domini Scipionis Ruggiero ad Eccellentissimum dominum nostrum Principem in eius reditum a Neapoli ad Patriam 

Principis adventum cives celebremus ovantes.

Laeta dies, nobis plaudite laeta quiete.

Viximus in tenebris, venit lux aurea ab Astris,

novimus ac cuncti, quam decet atque iuvat.

Omnes laetamur merito, sed maxime servus

qui vitam praebet pro sanitate tua.

Partenopesa, redeas, orat, nam bella moventur,

dextera tuta tua, te duce, seque tenet.

Vota, precesque deo dabimus ut proelia sistant.

Sic aderit nobis pax, et amica quies.

Quam tua nos hilares, Princeps, praesentia reddat,

en spectare potes, quo obsequio colimus.

Permaneas Patriae, cunctos solare rogantes

o domine, aspectu civica corda beas 

(Del reverendo don Scipione Ruggierob all’ eccellentissimo nostro signor principe per il suo ritorno in patria da Napoli

 

Cittadini, celebriamo esultando la venuta del principe. È un giorno lieto, applaudite per la calma a noi lieta. Vivemmo nelle tenebre, una luce aurea è venuta dagli astri e tutti sappiamo quanto conviene e giova.  Tutti ci rallegriamo a buon diritto, ma soprattutto il servo che offre la vita per la tua buona salute. Partenope prega che tu ritorni perché vengono mosse guerre e, sicura della tua destra, si difende. Rivolgeremo voti e preghiere a Dio perché cessino i combattimenti. Così verrà per noi la pacee l’amica quiete. Ecco, o principe, puoi vedere quanto la tua presenza ci renda allegri, con quanto rispetto ti onoriamo. Resta in patria, tu, o signore, rendi felici con lo sguardo tutti quelli che chiedono consolazione, i cuori dei cittadini)

_________

a Per Parthenopes.

b Era parroco della chiesa di S.Maria della Vittoria, in cui si tenne, come sopra s’è riportato, l’accademia del 14 marzo 1731. La cronotassi degli arcipreti, per la stessa chiesa, registra anche i nomi di Carmelo Ruggiero (1757-1759) e di Francesco Ruggiero (1760-1775), quasi una dinastia …; Per quanto riguarda Francesco, poi, egli non è cronologicamante incompatibile con il Francesco Ruggiero registrato come principe dell’Accademia del 5 marzo 1730.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/25/la-settecentesca-accademia-di-s-vito-dei-normanni-1-2/

 

Libri| La famiglia Letizia in età barocca

 

Antonio Faita – Luciano Antonazzo, La famiglia Letizia in età barocca. Ricostruzione storica e biografica. Opus pennicilli xcellentis pictoris Agnelli Letitia Alexanensis
Schena Editore, Collana: Biblioteca della ricerca. Puglia storica, Fasano 2019, pp. 180

 

Dalla Prefazione di Mimma Pasculli

Il volume illustra la biografia del pittore Aniello Letizia (napoletano di nascita ma per parte paterna di origine alessanese), nonché del cugino Oronzo Letizia.

Di entrambi, che con la loro arte diedero lustro al Salento dalla fine del XVII secolo fin oltre la metà del successivo, si tracciano anche le vicende familiari, aspetto fin qui mai affrontato dagli esperti. Con l’ausilio di documenti inediti, rinvenuti sia in Napoli, presso gli archivi di Stato, Fondazione Banco di Napoli e Curia Arcivescovile; in quello di Stato di Lecce, in quelli parrocchiali (Alessano, Patù, Presicce, Lecce, Gallipoli e Galatone) e diocesani (Gallipoli, Lecce e Ugento), si fa piena luce sull’anno di nascita e sul primo nome di battesimo di Aniello, come anche sulle vicende sue e della famiglia Letizia. Si sapeva che era figlio d’arte in quanto il padre Domenico era iscritto alla Corporazione dei pittori di Napoli mentre non si era a conoscenza che la sua specializzazione fosse quella di pittore su cristallo. Rientrato in Alessano sul finire del 1600 in un primo tempo collaborò verosimilmente col cugino Oronzo che con la sua famiglia si era trapiantato a Lecce.

Nonostante la sua arte fosse considerata dagli esperti inferiore a quella del cugino la sua produzione pittorica fu di gran lunga maggiore. Ciò è dovuto certamente ad un suo presunto apprendistato presso Luca Giordano, ma forse in misura maggiore al clamore suscitato nel 1714 da un presunto evento miracoloso riconducibile ad una immagine di san Bernardino Realino da lui dipinta. Delle prime opere di Aniello si è rinvenuta solo qualche sporadica notizia mentre la sua attività è ben documentata per i lavori eseguiti, a partire dal primo decennio del 1700, per la chiesa del SS. Crocifisso della Pietà di Galatone e per gli oratori confraternali della Purità e del SS. Crocifisso di Gallipoli. Inoltre, un excursus delle sue opere ‘certe’, documentate o datate, senza sconfinare in fantomatiche analisi comparative, con ipotetiche attribuzioni sulle varie opere disseminate in ‘Terra d’Otranto’.

Aniello dalla consorte Agnese Fanuli non ebbe discendenza, ciò che gli consentì di vivere una vita agiata a differenza di Oronzo che vide dilapidata la sua fortuna ad opera dei suoi due figli maggiori già durante la propria vita. Negli ultimi anni della sua esistenza infatti fu costretto a far entrare in Conservatorio le due figlie più piccole mentre Aniello accoglieva presso la sua casa la nipote Chiara, figlia del fratello Gennaro che ebbe buona fama di scultore. E fu proprio Chiara ad essere nominata propria erede da Aniello. Ma alla morte di questi sorsero gravi controversie su detta eredità con una netta contrapposizione tra Gennaro e la figlia che si vide costretta anche, per l’opposizione del padre, a contrarre un matrimonio segreto.

La questione dell’eredità di Aniello rimase aperta e sembra che solo dopo la morte di Chiara e di Gennaro la vicenda trovò una soluzione. Questo lavoro è rivolto a tutti gli studiosi di arte, di storia-patria, alle guide turistiche per approfondire il loro operato e a tutti coloro che con la loro sensibilità vogliono preservare e recuperare il nostro patrimonio storico-artistico.

Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.

Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.

I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.

Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.

Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.

Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.

Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.

A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.

L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.

A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.

Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.

Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).

Ingresso del cimitero di Spongano

 

Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.

La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.

Statua di Cristo risorto di A. Marrocco

 

Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.

Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità”  (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).

 

 

Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.

Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.

Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.

Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.

La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.

Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.

Cappella della famiglia Rizzelli

     

Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)

  

Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.

Cappella Scarciglia

 

particolare con il rosone della cappella Scarciglia

 

Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.

Cappella della famiglia Bacile

 

Cappella funeraria della famiglia Rini

 

Cappella funeraria della famiglia Coluccia

 

Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.

Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya

                      

particolare della cappella funeraria Tarantino

 

Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.

Particolare della cappella Casarano

 

Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.

Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.

Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.

Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.

Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.

Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?

Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.

Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.

Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).

Donato Corvaglia capomastro muratore

 

Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.

E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.

“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*

Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).

Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.

Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.

 

 

*Piccola nota di costume.

Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.

Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.

In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.

Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.

Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.

Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.

Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).

Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.

Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.

 

Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia

La settecentesca accademia di S. Vito dei Normanni (1/2)

di Armando Polito

Inutile cercarla  in rete o in biblioteca, almeno che non si ricorra, sapendolo, all’unica fonte esistente, vale a dire un manoscritto (ms_F/7) del XVIII secolo custodito nella biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” a Brindisi. Quello delle accademie è un fenomeno molto diffuso nei secoli passati e se ne ebbero di tutti i gusti, nel senso che i temi in esse dibattuti potevano essere di natura scientifica, filosofica o, in senso lato, letteraria. Tra le accademie letterarie chi non ha almeno una volta sentito parlare dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690 da Giovanni Mario Crescimbeni e della quale negli anni furono pastori (così si chiamavano i soci) anche parecchi salentini1?

Non tutta la produzione di ogni accademia ebbe il privilegio di esser data alle stampe e non mancano casi, come il nostro, in cui solo una fortuita e fortunata circostanza consente di liberarne, magari solo parzialmente, la memoria dalla polvere del tempo e dalla limitatissima frequentazione tipica dei manoscritti: in fondo, se è lecito paragonare le piccole cose alla grandi, pure Fleming scoprì la penicillina per caso …

Il manoscritto, in gran parte inedito (solo pochi componimenti di pochi autori sono stati pubblicati da Pasquale Sorrenti in La Puglia e i suoi poeti dialettali: antologia vernacola pugliese dalle origini ad oggi, De Tullio, Bari, 1962; ristampa Forni, Sala Bolognese, 1981; una copia è custodita nella biblioteca “Achille Vergari” di Nardò), del quale ci accingiamo a leggere una parte (è mia intenzione, se avrò vita e voglia, di pubblicarlo integralmente), è una sorta di diario, con allegata documentazione, delle assemblee tenute dai componenti di un’accademia che si riuniva a S. Vito in casa del principe Fabio Marchese2.

Il tutto ricalca perfettamente, anche nei dettagli (tra i quali spicca la finalità, in alcuni casi, dichiaratamente  encomiastica) le coeve pubblicazioni a stampa di altre accademie, in primis l’Arcadia, con l’unica differenza che non risultano indicati  i soprannomi  che i singoli pastori si davano. Se i temi trattati non fossero seri (con preponderanza di quelli religiosi) qualcuno potrebbe ritenere che l’Accademia di San Vito fosse un’associazione di buontemponi , anche perché, come vedremo, ad un certo punto gli associati l’11 giugno 1730 elessero a loro principe (un ruolo parallelo a quello che nell’Arcadia era ricoperto dal custode), come vedremo, Vito Petrino, un ragazzo di appena quattordici anni, al quale spettava esprimere un giudizio sulla questione del giorno trattata prima in due parti da due distinti componenti dell’assemblea; per giunta, l’imberbe fanciullo succedeva al principe della precedente (o, più precisamente, la prima registrata) riunione del 5 marzo 1730, il sacerdote Francesco Ruggiero, che molto probabilmente, come vedremo in seguito, è lo stesso che sarebbe diventato arciprete della chiesa maggiore (S. Maria della Vittoria) dI S. Vito dei Normanni.

Vito Petrino fu principe anche della terza riunione del  5 novembre 1730; le successive (17 gennaio, 2 aprile e 14 marzo del 1731 e 1 gennaio e 12 febbraio 1738) non ebbero principe. L’elezione a principe di Vito Petrino è celebrata nella carta che di seguito riproduco.

c. 54r

Eiusdem ad Illustrem Dominum Vitum Petrinum quarto decimo anno natum, qui prò excellentia virtutis Princeps praesentis Achademiae conspicitur. Sexasticon

 

Laudibus es dignus, laudes Petrine mereris,

rethoricas artes dum studiosus amas.

Tu puer egregia fulges Demostenis arte.

Laurea virtutum pendet ab ore tuo.

Sit tibi longa salus, sint Nestoris Anni,

ut Domui Lumen sis, patriaeque decus.

 

Ad Dominam Victoriam Avossa Matrem eiusdem, prae gaudio flentem. Octasticon

 

Mellifluo eloquio nati Victoria gaudes,

et lato ostendis corde tui lacrimas.

Mater amas, et amare licet sine crimine Natum,

virtutum comitem, moribus atque piis

apparent vultu, mentem quae gaudia tentant,

ex oculis meritò fletus ut unda fluit.

Laetare o felix, faciemque ostende serenam,

doctrinis Gnati laeta, iucunda fave.

           

(del medesimo [Scipione Ruggiero] all’illustre Don Vito Petrino a 14 anni, che per eccellenza di virtù viene considerato principe della presente accademia. Esasticoa

 

O Petrino, sei degno di lode, meriti lode, mentre diligente ami la retorica. Tu ragazzo risplendi nell’arte di Demosteneb dalla tua bocca pende l’alloro delle virtù. Abbia tu lunga vita, abbia tu gli anni di Nestorec, affinché tu sia luce per la famiglia e decoro per la patria.

 

A Donna Vittoria Avossa3 madre del medesimo, piangente per la gioia. Ottasticod

 

Tu, Vittoria, godi dell’eloquio del figlio e mostri per il tuo  gran cuore le lacrime. da madre tu ami ed è lecito amare senza distinzione il figlio compagno delle virtù e per i pii costumi appaiono in volto le gioie che accarezzano la mente, dagli occhi a ragione il pianto scorre come onda. Rallegrati, o felice e mostra il volto sereno, lieta del sapere del figlio, gioiosa applaudi)

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a Epigramma di sei versi.

b Famoso politico e oratore greco del IV secolo a. C.

c Fu il più vecchio e il più saggio tra i sovrani greci che, sotto la guida di Agamennone, assediarono Troia.

d Epigramma di otto versi.

 

Le altre carte che ho estrapolato e che ora riproduco costituiscono, per così dire, l’ossatura dell’intero manoscritto. La prima riunione avvenne il 5 marzo 1730, come testimonia la carta che segue

c. 12v

Problema Accademico ove vieppiù approfittara si puose un virtuoso nell’Accademie, ovvero nello solitario studio. Sostenuto nella Casa delli Signori de Leo dalli Signori clerici Don Carmine di Leo, e Signor Don Ortenzio di Leo, e giudicato dal Reverendo Signor Don Francesco Ruggiero Prencipe dell’Accademia a 5 marzo seconda Domenica di Quaresima 1730 Santo Vito

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a Nel senso etimologico di giovare (quando ancora la collaborazione non aveva assunto il concetto egoistico con cui il verbo viene usato oggi).

 

Spiccano i nomi della famiglia De Leo, soprattutto quello di Ortensio, esperto in legge, archeologo ed antiquario, zio di Annibale, il fondatore della biblioteca brindisina. Le carte 13r-14v riportano l’introduzione all’argomento a firma di Francesco Ruggiero, le 15r-19v l’intervento di Carmine De Leo, le 20r-25r quello di Oronzo De Leo (altro rappresentante della famiglia), la 25v il giudizio di Francesco Ruggiero, lo stesso che aveva introdotto l’argomento. Le carte 26r-36v contengono componimenti poetici di Carlo De Marco, Scipione Ruggiero (molto probabilmente parente di Francesco), Andrea De Leonardis (2), Vito Petrino (4), Oronzo Calabrese (2), Anselmo De Leo (2), Giuseppe Ruggiero (probabilmente parente di Francesco e di Scipione) (2), Francesco Ruggiero (2) (non recitato/come Prencipe non potè recitare), Giuseppe Milone, Ferdinando De Leo.

Di Carlo De Marco la stessa biblioteca conserva molti manoscritti costituenti il fondo del suo epistolario (alcune lettere sono indirizzate a Ferdinando De Leo).

Per quanto riguarda la famiglia De Leo a Carmine ed Ortensio (di lui nello stessa biblioteca si custodisce un manoscritto contenente la Vita di Gianfrancesco Maia Materdona di Mesagne, datata 1780, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/19/mattarella-la-cagnetta-mesagne-larcivescovo-brindisi/) si sono aggiunti Anselmo e Ferdinando, per la famiglia Ruggiero a Francesco si sono aggiunti Scipione e Giuseppe. La partecipazione, tenendo conto del numero dei componimenti inseriti per ciascuno o per ciascuna famiglia, appare abbastanza bilanciata. Al numero di contributi di Vito Petrino potrebbe non essere estraneo il fatto che appartenesse, magari solo per parentela, allo stretto entourage di Fabio Marchese2.

 

La seconda riunione ebbe luogo il 14 giugno 1730, come si legge nella carta che segue.

c. 39r

Problema accademi: se San Vito avesse dimostrato magior costanza nella Fede per non sgomentarsi dalli minaccie de’ Tiranni, o pure per resistere alli vezi di bellissime sonzelle. Sostenuto nella Casa dell’Eccellentissimo Sig. Principe di Santo Vito dalli Signori Dottori D. Giacomo de Leonardis,e Ferdinando di Leo; e giudicato dal Signor Vito Petrino Principe dell’Accademia alli 14 di Giugno vigilia del detto Santo. 1730 ore 22

Le carte 40r-41v  contengono l’introduzione di Vito Petrino, le 42r-45v l’intervento di Giacomo De Leonardis, le 46r-50v quello di Ferdinando De Leo, le 51r-51v il giudizio di Vito Petrino, le 52r-89r i componimenti poetici di Scipione Ruggiero (6, il secondo3 e il quarto4 presentano un tema che ha dei punti di contatto con quanto riportato in nota 2), Andrea Felice De Leonardis (3), Domenico Oronzo Ruggiero (4), Fra’ Rosario Mazzotti di Brindisi, lettore filosofo dell’Ordine dei Predicatori (7; il sesto e il settimo, carte 73r-73v sono in dialetto), Lorenzo  (6), Teodomiro De Leo (4), Giuseppe Giovanni Greco (2), Carmine De Leo (11), Francesco Ruggiero (8), Fra’ Luigi Maria dell’ordine dei Predicatori (2), Fra’ Domenico dei Minori Osservanti, Fra’ Rusino da S. Vito dei Minori Osservanti (3), Fra’ Anselmo da S. Vito dei Minori Osservanti, Salvatore Calcagnuti, Giuseppe Ruggiero, Giuseppe Bardari (5), Ortensio De Leo (2), Giacinto Greco, Cosmo Greco di Taranto (2).

Da notare come ai precedenti sisono aggiunti nuovi nomi, come ai rappresentanti della famiglia De Leo si è aggiunto Teodomiro e come nell’elenco che ho riportato la parte del leone la recitano con il loro elevato numero di contributi Rosario Mazzotti con 7 componimenti e, soprattutto, Carmine De Leo con 11.

La terza riunione ebbe luogo il 5 novembre 1730, come si legge nella carta che segue.

c. 91r

Problema accademico. Qual renda più glorioso un principe: l’uso dell’esatta giustizia, o quello della clemanza? Tenuta in Casa dell’Eccellentissimo Signor Principe di S. Vito a 5 novembre giorno di domenica nell’anno 1730 coll’intervento dell’Illustrissimo D. Cono Del Vermea Vescovo d’Ostuni ad ore 22

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a Fu vescovo di Ostuni dal 1720 al 1747; di lui fu pubblicata la Dichiarazione fatta in favore della causa della venerabile madre suor Rosa Maria Serio carmelitana, s. n., Ostuni, 1747. Di Maria Serio si parlerà più avanti in riferimento a Vito Petrino.

Fino c. 92v prosegue l’introduzione di Vito Petrino Principe dell’Accademia. le carte 93r-100v  contengono l’intervento di Francesco Ruggiero, le 101r-108r quello di Giuseppe Bardari, le 108v-110r il giudizio di Vito Petrino Principe dell’Accademia, le 110v-129r i componimenti poetici di Vito Petrino, Cono Dello Verme Monsignore d’Ostuni (10), Giuseppe Marchese (probabilmente parente di Fabio), Angelo Lauresich canonico d’Ostuni (5), Carmine De Leo (4), Teodomiro De Leo (4), Fra’ Raimondo Arcuti di Ruffano lettore filosofo dell’Ordine dei Domenicani (2, il secondo, a c. 128r è in dialetto leccese), Giuseppe Ruggiero (2).

Altri nomi si sono aggiunti e tra essi spicca, anche per il numero di contributi, quello del vescovo dimOstuni Cono Luchini del Verme.

La quarta riunione si svolse il 17 gennaio 1731, come apprendiamo dalla carta che segue.

c. 129v

Assemblea accademica in occasione del natale dell’Eccellentissimo Signore D. Fabio Marchese tenuta nella Sala del detto Eccellentissimo Signore alli 17 gennaio giorno di mercordì festa di S. Antonio Abbate1731 ad ore 22.

Le carte 130r-140v contengono i componimenti poetici di Carmine De Leo (3, il secondo a c. 134r è ropalico), Ferdinando De Leo (7; il terzo a c. 138v è un anagramma purissimo letterale).

La c. 141r contiene il sonetto introduttivo di Teodoro De Leo alla sua commedia, che occupa le cc. 141v-146r. Le cc. 146v-156v ospitano componimenti di Ortensio De Leo (3), Giuseppe Ruggieri (2), Girolamo Bax, Oronzo De Leo (2), Francesco Ruggiero.

La quinta riunione si ebbe il 2 aprile 1731, come testimonia la carta che segue.

c. 161r

Problema accademico. Qual sia stato maggior portento del Glorioso San Francesco di Paola; l’entrar nel fuoco, e non abbruggiarsi o il passar il mare e non annegarsi. Tenuta nella Chiesa del Convento dei PP. Antoniani di Santo Vito a 2 aprile 1731 lunedì ad ore 21 giorno del detto Glorioso Santo

Le cc. 162r-171v contengono il discorso di Andrea Felice De Leonardis, le 172r-190v i componimenti di Scipione Ruggiero, Giuseppe Giovanni Greco (3), Francesco Ruggiero (2), Carmine De Leo (2), Ferdinando De Leo (5),Teodomiro De Leo (5), Ortensio De Leo (4).

La sesta riunione si svolse il 14 marzo 1731, come attesta la carta che segue.

c. 191r

 

Problema accademico. Qual fusse stato magiore: il piacimento di Modesto nel’aver il Glorioso San Vito abbracciata la fede Cattolica, o la dispiacenza d’Ila nel’aver il detto Santo suo figlio lasciato l’infedeltà? Sostenuta la prima Parte dal Reverendo Signor D. Andrea Felice De Leonardis licenziato in Teologia, e la 2a parte fu sostenuta dal Dottor Signor D. Ferdinando di Leo. E la detta Accademia fu tenuta nella Maggior Chiesa della Terra di Santo Vitoa sotto li 14 del Mese di Giugno del 1731 Giorno di Giovedì viggilia del menzionato nostro Protettore Martire di Cristo Glorioso S. Vito. E s’incominciò ad ore 22 del suddetto giorno. Li discorsi de quali sono l’infrascritti.

14 marzo 1731 ore 22

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a È la chiesa di S. Maria della Vittoria.

Le cc. 192r-197v contengono L’intervento di Andrea Felice De Leonardis, le 198r-203r quello di Ferdinando De Leo; seguono alle cc. 204r-211r i componimenti di Francesco Ruggiero (2), Carmine De Leo, Teodomiro De Leo (3), Ortensio De Leo (4)

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1 Sul tema vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/ 

2 Casimiro di S. Maria Maddalena, Cronica della provincia de’ Minori Osservanti Scalzi di S. Pietro Alcantara, Abbate, Napoli, 1729, tomo I, p. 234: Nell’anno 1698 la Terra di Martano assieme con Calimera dal medesimo D. Orazio Trani, Duca di Corigliano fu venduta a D. Girolamo Belprato Marchese, Principe di Crucoli, e S. Vito. Tomo 3 del Repertor. fog. 594, e Quintern. 185 fog. 86. Questa nobilissima Famiglia: Marchese prese ancora il Cognome Belprato, allorchè D. Giuseppe Marchese Principe di Crucoli, restò erede di D. Pompeo, e D. Bernardino Belprato, Conti d’Anversa in Appruzzo, che morirono senza Figli. A D. Giuseppe succedè D. Girolamo suddetto suo Figlio primo Signor di Martano. Nel mese di Novembre dell’anno 1676, aveva già presa per Moglie D. ELeonora Caracciolo de’ Marchesi dell’Amorosa. Da Lei ebbe il presente D. Fabbio suo Figlio Principe di Crucoli, e S. Vito, e secondo Signor di Martano. A’ 7 di Febbraio del 1700 sposò D. Fulvia Gonzaga, ch’er de’ più stretti Parenti del Duca di Mantova. Egli vive con una generosità, e magnificenza propria di Principe, onde pare, ch’abbia accresciuto maggiore splendore alla sua cospicua Famiglia. Sugli antenati di Fabio Marchese fino a quasi la metà del secolo XVII vedi Ferrante della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese nei seggi di Napoli, Beltrano, Napoli, 1641, pp. 224-236.

3 Giuseppe Gentili, Vita della Venerabile Madre Rosa Maria Serio di S. Antonio, Recurti, Venezia, 1742, pp. 338-340: Molti altri miracoli trovo ancora registrati ne’ processi, operati dalla Serva di Dio nella Terra di S. Vito, uno de’ quali fu in persona dell’Eccellentissimo Signor Principe D. Fabio Marchesi Padrone di detta Terra. Ritrovandosi egli nel mese di Luglio dell’anno 1726 attaccato da Febbre maligna con pessimi segni, e sintomi mortali, e vedendo, che il male ogni giorno più l’opprimeva, senza ricevere giovamento alcuno da tanti medicamenti sperimentati, un giorno, in cui per la violenza del male neppure poteva sofferire un picciolo spiraglio di luce, onde gli conveniva star totalmente all’oscuro, gli sovvenne di ricorrere alla Serva di Dio Suor Rosa Maria, di cui aveva avuto in dono dalla Superiora del monastero di Fasano un Berrettino intriso del suo sangue. Chiamato pertanto un Giovane, che gli assisteva, per nome Vito Domenico Petrini, e fattogli prendere dal suo scrigno il detto Berrettin, con gran divozione, e con viva fede nei meriti della Serva di Di, applicollo alla sua testa, e indi a non molto comandò a’ suoi domestici, che aprissero le Finestre, e ad alta voce esclamò: – Io sto bene, ed ho ricevuto la grazia -. Quasi nel tempo medesimo sopraggiunsero i Medici, e disse loro, che voleva alzarsi, sentendosi bene in salute, per ispeciale miracolo della Serva di Dio; e quantunque i Medici lo trovassero netto di Febbre, nulladimeno non volevano accordargli l’uscir da lett, mentre non avendo egli avuta crisi alcuna, era cosa facile, che ritornasse la Febbre. Ma egli affidato nella protezione della sua liberatrice: – No – soggiunse loro – non tornerà, perché questa è grazia, ed io ho viva Fede nella Serva di Dio, che me l’ha fatta -. E in loro presenza volle alzarsi dal letto, né più lo molestò la Febbre, godendo poi una perfetta salute. Da questa miracolosa guarigione concepì il detto Signor Principe tale affetto, e fiducia verso la Serva di Dio, e tal confidenza nella sua Reliquia, che quante volte deve accingersi a qualche viaggio, la prima cosa, a cui rivolge il suo pensiero, è il premunirsi con la detta prodigiosa Reliquia, tenendo per certo, avere in essa uno scudo contra ogni pericolo, ed un forte riparo da tutte le disgrazie. Per mostrar poi la dovuta gratitudine, si è più volte portato apposta a venerarne il Sepolcro, e le Religiose di quel Monastero riconoscono nella persona di questo Principe uno de’ maggiori  Protettori del loro Istituto, ed un singolar promotore della Santità della loro V. Madre. Lo stesso Vito Domenico Petrini, del quale abbiamo poco di anzi fatto menzione, fu nel mese di Gennaio 1729 sorpreso da un gravissimo dolore di petto con febbre ardente, e affannoso respiro accompagnato da sputo sanguigno, e da un totale stordimento di capo. Li Medici giudicarono essere il male pericoloso, e mortale, perciocché da’ segni esterni argomentavano esser pontura; determinarono però di non applicargli per allora, che erano le 21 ore, rimedio alcuno, volendo aspettare la mattina vegnente, acciò che il male si fosse maggiormente manifestato. La Madre vedendo il Figlio estremamente angustiato, e li Medici molto lenti nell’operare, desiderosa di porgergli qualche presentaneo sollievo, prese una Reliquia della Serva di Dio Suor Rosa Maria (ed era appunto una di quelle pezze intrise nel sangue, che usciva dalle ferite del suo cuore) avuta dalla Superiora del Monastero, applicolla con fede viva al cuore dell’affannato Figliuolo, e poi fece scrivere una lettera alle Religiose del Monastero di Fasano, dando loro contezza del pessimo stato del medesimo, acciocché colle sue orazioni gl’impetrassero dalla Ven. Madre la grazia. Prima però di spedire la lettera, fece ritorno alla Stanza dell’Infermo, ed interrogatolo come se la passasse, egli rispose di star bene, di non sentir più dolore, né affanno, né calore febbrile … Un fratello minore del sopradetto Vito Domenico, chiamato Andrea, non uno, ma due portentosi miracoli ricevette, coll’applicargli Vittoria Accossa loro Madre le Reliquie della Serva di Dio …  

Alla fine del brano riportato apprendiamo che la madre di Vito si chiamava Vittoria Accossa. Su questo nome la carta 54r, che sopra abbiamo analizzato, pone un problema con il suo Vittoria Avossa. Errore del copista del nostro manoscritto o di stampa del volume del Gentili?

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/28/la-settecentesca-accademia-di-s-vito-dei-normanni-2-2/

 

 

 

 

 

 

 

Libri| Profili biografici degli amministratori di Terra d’Otranto

Marco Imperio, Profili biografici degli amministratori provinciali e distrettuali di Terra d’Otranto (1808-1860), Lecce, Edizioni del Grifo, 2007, 406 pp., ill. ; formato 24 cm.

 

«[…] con grande sensibilità Marco Imperio si è fatto interprete di questa esigenza ed ha colmato con un lavoro davvero paziente e metodologicamente ineccepibile, una lacuna che riscontriamo con frequenza, affrontando il settore della vita politica e proponendo circa settecento “profili” di amministratori salentini di età moderna (esattamente dal 1808 all’Unità). […]  Fornire il profilo delle istituzioni, stendere le brevi biografie, raccogliere gli stemmi ed i ritratti, ricostruire le genealogie, fa apparire l’autore come un caparbio Indiana Jones in una giungla di informazioni: recide, spezza, taglia, mette ordine ricuce, fino a darci un prodotto leggibile, gradevole, esauriente per il secolo preso in esame. Un approccio non comune il suo, una vocazione totale al mare magnum della biobibliografia salentina: facciamogli all’unanimità i complimenti per tanto coraggio e tanta buona volontà […]» (Prefazione del Prof. Alessandro Laporta, Direttore Biblioteca Provinciale Lecce, pp. 9-11).

«[…] il lavoro di Marco Imperio si offre come una proposta concreta di costituire un archivio che dovrà naturalmente essere ampliato percorrendo dettagliatamente la storia d’Italia per oltre un secolo […]» (Presentazione dell’Assessore alla Cultura della Provincia di Lecce Sandra Antonica e del Presidente della Provincia di Lecce Sen. Giovanni Pellegrino, pp. 5 e 6).

«[…] Questo volume di Marco Imperio, sia pur riportando profili biografici di quanti tra il 1808 e il 1860 amministrarono le Province e i Distretti dell’ex Terra d’Otranto, offre un serio contributo per la costituzione di un repertorio biografico dei salentini che per buona parte del XIX secolo si impegnarono, pur vivendo in un periodo difficile e travagliato che, dopo lotte, sofferenze e maturazione della coscienza politica, sarebbe finalmente sfociato nell’Unità d’Italia. Lavoro meticoloso e certosino, quello di Marco Imperio, che ha potuto trarre ben poco dalla letteratura edita […]» (Presentazione del Sindaco di Lecce On. Adriana Poli Bortone, pp. 7 e 8).

 

 

 

Avventure di mare: alcune vicende accadute nelle acque di Gallipoli durante il ‘700

di Antonio Faita

Storie di mare, dei suoi uomini e di viaggi, è il risultato di una piccola indagine condotta sugli atti notarili riguardanti specialmente il traffico marittimo nella città di Gallipoli e alcuni fenomeni legati alla navigazione. Ho appurato anche che durante il Settecento si nota un cospicuo aumento delle imbarcazioni ‘patronizzate’ da patroni napoletani ed equipaggi provenienti dall’area napoletana (Napoli, Procida, Piano di Sorrento, Vico Equense, Positano, ecc..), mentre nello stesso periodo si assiste ad un vistoso calo della presenza genovese. Tale calo risultava soprattutto dopo l’ascesa al trono di Napoli dei Borboni. In questo periodo rimaneva pressochè invariata la presenza francese mentre, accanto ai tradizionali siciliani e maltesi, comparivano sempre più di frequente i velieri inglesi. Le navi commerciali, che trasportavano grano, olio, vino, legname e altre mercanzie erano il tipo di imbarcazione che predominavano maggiormente e che, dalla Puglia e dalla Calabria, trasportavano merci verso l’area napoletana e non solo. Tra le navi di trasporto le più numerose erano le tartane, grosse barche da carico, con scafo in legno di forma piena ad un solo albero con vela latina e uno o più fiocchi, con un equipaggio composto da una decina di marinai. Le tartane vennero, dalla metà del Settecento, sostituite dalle marticane, piccoli velieri di maggiore portata con tre alberi e con un equipaggio composto dal ‘patrone’, due timonieri, uno scrivano, un nostromo, un pilota e alcuni marinai. Tra le navi mercantili frequenti sono anche da ricordare le polacche e i pinchi, questi ultimi presenti dalla fine del Seicento in poi.

Proseguendo la ricerca si è constatato che le cause che determinarono la perdita delle navi furono quasi sempre la forte presenza dei turcheschi e dei corsari in agguato e i numerosi naufragi, provocati dalle tempeste o dalle improvvise burrasche, rappresentando un rischio costante per la navigazione autunnale e invernale.

Dall’analisi della documentazione riporto qui di seguito alcuni stralci delle testimonianze di chi con il mare ha avuto un rapporto intenso e appassionato, proponendo al lettore racconti di mare e di navigazione. Raccolte dai notai Carlo Mega e Carlo Antonio Alemanno, in questo caso le testimonianze avvenivano, oltre alla presenza del Notaio e dei testimoni, alla presenza del Sindaco e dei “Deputati della salute”, una sorta di commissione medica. Il loro modo di vivere e raccontare il mare consegna storie emozionanti, ricche di ricordi, aneddoti e descrizioni indimenticabili.

Gallipoli

La morte di un marinaio

Gallipoli, 6 agosto 1710

Stando lontani e sopravento nel lido di mare del porto di Gallipoli, il signor Sindaco Francesco Roccio, il Dottor Matteo Sansonetto, D. Giovanni Ximenes e D. Giuseppe d’Acugna, Deputati della Salute, assieme con i Dottori Fisici Oronzo Lovero, Salvatore Creddo, Giuseppe Vito Orlandino, Angelo Liviero e con i soliti soldati di guardia, si erano recati per conferire con il signor Gioacchino Zavarese di Sorrento, padrone della tartana nominata ‘Madonna delle Grazie’, per interrogarlo e far calare a terra e accertarsi della morte di un marinaio avvenuta sulla sua tartana. Ancor prima che il signor Zavarese raggiungesse il lido con il suo schifo[1], il dottor Giuseppe Vito Orlandino espose ai colleghi e alla presenza del notaio Carlo Mega e dei testimoni Utriusque Juris Doctor Matteo Cariddi e Nicola Vamelst, quanto era accaduto nei giorni precedenti. Approdata a Gallipoli, il 28 luglio, la tartana del padron Zavarese, proveniente da Corfù, come da prassi, prima di essere autorizzarti a scendere a terra, i marinai dovevano essere interrogati e visitati dal medico per escludere l’esistenza di qualche morbo, come la peste. Appena giunti, su uno schifo, il padron Zavarese e i suoi marinai furono visitati dal medico, il quale li trovò tutti in buona salute ma, per sicurezza, furono posti in quarantena. Venerdì primo agosto, il dottore Orlandino fu fatto chiamare dal signor Zavarese, in quanto un marinaio, di nome Orazio de Trapane di Vico Equense, manifestò dei problemi di salute per cui fu chiesto l’intervento del medico. Intervento che non fu imminente, solo il giorno dopo si presentò il dottor Orlandino con le guardie e i Deputati della Salute. Sceso a terra e, alla presenza del medico, il padron Zavarese disse di ‘tenere sopra la sua Tartana un Marinaro infetto di voce, di nome Oratio Trapane per la quale causa lo richedeva di rimedii alla di quello infermità’. L’Orlandino diede l’ordine ‘chera necessario farlo calare in terra’. Il marinaio fu calato e messo sullo schifo e, a ‘distanza competente et interrogatolo dell’origine della sua infermità’, disse che: ‘come nell’antecedente notte di venerdì (1 agosto) sendosi lo medesimo coricato sopra la campagna[2] della sua Tartana vi dormì tutta la notte in tempo che tirava un impetuoso vento di girocco et alzatosi poi la matina s’intese un grandissimo dolor di torace che li cagionò gran tosse con sputo di robbe catarrali con portione di sangue’. Questi furono gli effetti che tennero dietro a questa imprudenza. Il medico prescrisse all’infermo un “evacuante” ma, malgrado la cura non si verificò, nei giorni successivi, nessun miglioramento. Anzi, lo sfortunato Orazio de Trapane, il giorno 6 agosto, ‘sene passo da questa a meglior vita’. A questo punto intervennero, alla giusta distanza, i Dottori Fisici, ordinando di denudare il cadavere per accertarsi se sul corpo avesse segni evidenti di qualche malattia contagiosa. Non avendone visti fu disposto dai detti medici, dal Sindaco e dai Deputati della Salute, che: ‘fusse portato sopra la detta Tartana e posto entro un tauto ed impececato acciò così poi se li desse sepoltura[3]. La sepoltura avvenne il giorno successivo, sabato 7 agosto, così come risulta dall’atto di morte che riporto qui di seguito: “Nell’Anno del Signore mille settecento e diece à di sette Agosto: Oratio de Trapane da Vico d’anni trenta cinque in circa nella Comunione della S. madre Chiesa rendè l’anima a Dio, il corpo del quale fù sepellito nella chiesa di S. Nicolò fuora della Città, essendo morto ab Intestato[4] per ordine della Curia Vescovale, il quale sopradetto Oratio era marinaro della Tartana del Padrone Gioacchino Zavarese, nominata La Madonna della Gratia, S. Martino, e L’Anime del Purgatorio[5].

Risarcimento danni

Gallipoli, 10 agosto 1716

La storiografia ha sempre privilegiato associare l’immagine dei commerci veneziani con l’aspetto più fascinoso dei traffici con l’oriente, dei prodotti più esotici, dei beni di lusso redistribuiti poi in tutta Europa. Solamente in anni più recenti si è prestata maggior attenzione ad altri generi di commerci, tra i quali quello derivante dallo sfruttamento dei boschi. Non a caso per indicare l’epoca che precede la rivoluzione industriale si parla di “ civiltà del legno”, e Venezia di quella civiltà fu protagonista, inviando tavole non solo verso il sud Italia, ma fino ad Alessandria d’Egitto[6]. Secondo le esigenze specifiche delle varie città, il legname veniva utilizzato per approntare le fortificazioni, per la produzione di mobili e specchi, per l’allestimento dei cantieri all’interno degli edifici e soprattutto come risorsa strategica per eccellenza per qualsiasi flotta navale. Durante il tragitto per via mare non era raro che il prezioso carico andasse perso, o per naufragio o per scelta del comandante del naviglio che se ne disfaceva per scongiurare rischi di affondamento durante violente burrasche. Nell’ufficio del ‘Magnifico Regio Locotenente del Regio Portolano di detta città’ di Gallipoli, i signori Prospero Castagnola e Giacomo Cappello di Lavagna (presso Genova), presenti nel porto gallipolino con le loro tartane, furono richiesti, come ‘prattici nell’arte Nautica’, dal signor Giuseppe Pietra Santa e dal signor Andrea Avallone di Napoli, ‘Padrone della Tartana nominata San Felice, Santa Barbara e l’Anime del Purgatorio’, di fare ‘la determinatione e tassa delli danni patiti da detto Padrone Andrea nella borrasca’ che li investì nel loro viaggio di ritorno da Venezia ‘col carrico di Tavole per questa città di Gallipoli[7]’. Per le difficoltà dovute all’infuriare della burrasca il padron Avallone fu costretto a gettare in mare il suo carico di tavole ‘a sollievo di detta tartana per non sommergersi’. Nonostante però fosse stata alleggerita del carico ‘in numero di duecento ventisette’ tavole veneziane, la tartana subì dei danni ‘coll’haversi rotta una torticcia[8] in tre parti, e l’Antenna del trinchetto anche in tre parti, lo sporone[9] di quella, e perdita di tre petrere[10] tirate in mare dalla banda[11] dalla detta borrasca’. Il tutto fu riportato nel testimoniale redatto dal detto padrone Avallone.  Ascoltato quanto era accaduto, ‘essi Padrone Prospero Castagnola, Padrone Giacomo Cappello’ con giuramento e alla presenza del signor Giuseppe Petra Santa e del padron Andrea Vallone, ‘dichiarorno et attestarno che d’essi visto e considerato li detti danni determinorno in tutto quelli ascendere in ducati Novanta cioè ducati sessanta n’aspettano alla Mercantia e ducati trenta alla barca[12]. Inoltre, dopo il pagamento del nolo[13] di ‘ducati settant’uno e grana settanta al detto padrone Andrea’, i due esperti aggiunsero che il padron Avallone doveva ricevere ‘per danno dell’avaria ducati dodici e grana novanta’. A questo punto il signor Giuseppe Petra Santa[14], ‘in presenza nostra pagò a detto Padrone Andrea Avellone li detti ducati dodeci e grana novanta, che in moneta d’argento usuale di questo Regno manualmente et in contanti ricevè ed hebbe’. L’Avallone quindi ‘se ne chiamò quieto e contento et intieramente sodisfatto e così ancora del detto nolo facendone la dovuta quietanza’[15].

 

Una comoda prigionia

Gallipoli, 24 febbraio 1719

La testimonianza del sergente spagnolo D. Gabriele Rodriquez, prigioniero, assieme ad altri sessantadue tra soldati e marinai, in un palazzo di Gallipoli, non identificato, rilasciata alla presenza del Notaio Carlo Mega e dal testimone D. Benedetto Pizzarro, spagnolo ma abitante a Gallipoli:

Io sottoscritto D. Gabriele Rodriquez Sargente Spagnolo della Nave di Guerra Spagnola naufragata nella Marina della Terra d’Alliste di questa Provincia di Terra d’Otranto, e al presente priggioniero In questa Città di Gallipoli con altri numero Sessanta due Soldati, e Marinari della suddetta Nave, con li quali sono Io stato, è al presente mi ritrovo dentro un Palazzo destinatoci per nostra habitatione dal Signor D. Giovan Battista Pievesauli Sindico di questa Città, Certifico con la presente, dichiaro, e cunfesso d’haver ricevuto dal detto Signor Sindico e dal signor Casciero dell’Università di detta Città dal dì quattro del passato prossimo mese di Gennaro del corrente anno del qual giorno fussimo portati prigionieri in questa Città con ordine dell’Illustrissimo Signor Preside di questa Provincia. In sino hoggi le venti quattro del corrente mese di febbraro, ogni giorno sessanta tre rationi di pane per noi tutti priggionieri, quali rationi sono state di peso once venti quattro, hotto per ogni ratione hiasche di uno [16]di noi priggionieri.

E dichiaro haver riceuto ancora da detti signori Sindico e Casciero Sessanta tre sarcene di paglia per potere noi dormire sopra d’essa et In fede della verità per cautela delli detti signori Sindico e Casciero e di chi aspetta richiesta ho fatto la presente, sotto dalle mie proprie mani[17].

 

La fuga

Gallipoli, 23 agosto 1719

Fuori le mura della città, precisamente vicino la chiesa di Santa Maria del Canneto, si recarono il Notaio Carlo Mega, i testimoni il Dottor Fisicus Giuseppe Vito Orlandino, il Dottor Fisicus Tommaso Senape e il signor D. Giovan Battista Pievesauli, General Sindaco della Fedelissima Città di Gallipoli, i quali, su richiesta di quest’ultimo, conferirono, stando sopravento, con le solite guardie. Queste ebbero l’ordine di chiamare e mantenendosi alle giuste distanze, in quanto in quarantena, i signori Tommaso Cavilline napoletano, di anni ventisei, Antonio Rubini di Ancona di anni ventisei, Lorenzo Selvini di Macerata di anni venti e Nicolò de Napoli, ‘decrepolo’ (deficiente) di Romania. ‘Fatta una croce di legno espostasi a distanza di noi a quelli se li diè il giuramento che dovessero dire la verità’. Disciolta la croce e buttati i legni a mare, iniziò l’interrogatorio. Fu chiesto come mai si trovavano nel porto di Gallipoli e per quale luogo erano diretti e con che tipo di imbarcazione. Disse uno di loro, ‘essendo noi in Malta da passegeri cui andavamo trovando imbarcatione per Genova’, trovarono una tartana gaetana (di Gaeta) vuota senza mercanzia, da ‘passageri s’imbarcorno’  e, navigando un giorno e mezzo nel canale di Malta, incrociarono un vascello spagnolo il quale assalì e predò la detta tartana, facendo prigionieri tutti i marinai e i passeggeri. Per ben venticinque giorni dimorarono sul vascello dopo li quali ‘essi quattro fuggirno da detta nave con una barca piccola’  e, nel mentre si trovavano nel mare di Calabria, navigando per otto giorni, furono avvistati da due tartane francesi che provenivano da Genova e dalle quali ‘li fù dato charitative un poco di pane, acqua e vino’ senza aver dato loro in cambio nulla. Navigando con quella piccola barca, giunsero la sera di venerdì 17 agosto nel porto di Gallipoli dove, su ordine del Sindaco e dai Deputati della Saluti, furono posti in quarantena. Visitati dal medico, risultarono tutti in buona salute e la piccola imbarcazione fu affondata[18].

 

Il legname di Rossano Calabro

Gallipoli, 30 luglio 1745

Nell’affascinante storia della Rossano commerciale una delle merci più preziose era il legname da costruzione per doghe di botti, il cui massimo acquirente era la Puglia. Un andirivieni di navi mercantili che attraccavano alla banchina per poco, giusto il tempo che serviva per scaricare e caricare le merci. Il 19 luglio 1745, si trovava nel porto di Gallipoli e in partenza per la marina di Rossano, la tartana del padron Giacinto Attanasio di Positano, sulla quale imbarcarono: Pietro Condoleo di Tropea, marinaio della tonnara di Gallipoli, il quale fu inviato dal padrone della tonnara per ‘pigliar robba di detta Tonnara’; Francesco Staiano di Positano, mastro bottaro in questa città presso la bottega del signor Francesco Romito, incaricato dal signor Romito per incontrare i mercanti e “per ivi attendere al scarto della legname di far botti”. Salpate le ancore, si fece vela per la marina di Rossano dove giunsero il martedì 20 luglio alle ore sedici[19]. Appena giunti alla marina[20], il ‘Padrone all’istesso tempo andò sopra Rossano per trovare li mercadanti’. Una volta trovati i signori D. Lelio Abenante[21] e Luca Maria Perrone[22], presentò ‘alli medesimi l’ordine del signor Francesco Romito’. Essi gli ordinarono di tornare giù per la marina e che la mattina del giorno seguente ‘si dava senz’altro, principio al carico di detta legname’, in quanto tutto era pronto. Purtroppo l’attesa fu invana, per tutta la giornata del 21 e sino al giorno 23 ‘non comparse persona veruna, ed esso padrone mandò un marinaio sopra Rossano per protestare contro detti mercadanti’ e, per mancanza del notaio, non fece nessun atto di protesta. Sul tardi, della stessa giornata, si recò alla marina ‘detto signor Luca Maria dicendo, che non trovava né carri, né persone per poter portare la detta legname alla marina’, inoltre, che il bosco[23] distava due miglia, caricando e assicurando un viaggio al giorno pur ‘con quattro cavalcature’. Il giorno 24, fino a tarda notte, si abbattè sulla marina una forte tempesta che durò 24 ore e fu necessario mettere in sicurezza la tartana dando fondo[24] con tutte le ancore e ‘capi’, in un fondale profondo ‘braccia quaranta’. Il giorno seguente, pur aver subito dei danni alli ‘capi e grippie[25]’, si ‘caricò sopra detta Tartana tutta quella legname che vi era alla marina’. Legname che non fu in quantità sufficiente per garantire un buon carico.

Verosimilmente ci fu un cambio di programma, quello di far recare la tartana presso la marina della Torre dell’Arso per un ulteriore carico. La sera, infatti, verso le ore 24[26] si fece vela (fig.9) per tale marina, lasciando a terra il mastro Staiano, per avvisare il signor D. Lelio Abenante e di far trovare presto ‘la robba la matina seguente’. Infatti, la mattina del giorno 26 luglio, ‘di nuovo si diede fondo in detta marina dell’Arso[27] in attesa che arrivassero gli ufficiali per dare inizio alle operazioni di carico del restante legname[28]. L’attesa si prolungò sino alle ore 20[29] e, giunti gli ufficiali ‘si pose la gente tutta a far detto carico, che sino ad ore 24[30] si caricarono da una migliara cinque e otto cento detta legname’. Nella notte però, ‘si pose un’altra tempesta à segno di Greco, e Tramontana, che fù necessario di sarpare et andare alla volta del Capo di Santa Maria, e tanto s’ingrossò il tempo che si perse il schifo della Tartana sudetta’. Il giorno successivo, 27 luglio, si fece rotta dal Capo di Santa Maria di Leuca per Gallipoli, e ad ‘ore 20[31] si giunse in questo Porto di Gallipoli[32].(fig.10)

 

Note

[1] piccola imbarcazione a vela o a remi;

[2] Luogo aperto, che si presta al rapido movimento di truppe e di mezzi;

[3] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1719, coll. 40/13, cc. 229r-230r;

[4] senza testamento;

[5] apsagallipoli, Registro degli atti dei Defunti dal 1702 al 1719, c.82r;

[6] Vieceli m., “L’immagine per i mercanti di legname veneziani tra il XVI e XVII secolo: fluitazione di materiali e di idee”, tesi di laurea, anno accademico 2001/2012, p.7;

[7] Il fenomeno dell’architettura civile e religiosa di Gallipoli, specialmente quello di committenza confraternale, tra il XVII e XVIII secolo conoscerà la più radicale e duratura trasformazione d’immagine della sua lunghissima storia. (vedi: cazzato m. – pindinelli e., “Dal particolare alla città. Edilizia Architettura e Urbanistica nell’area Gallipolina in età Barocca”, Tip. Corsano, Alezio 2000); E’ il caso dell’Oratorio confraternale di Santa Maria della Purità che, fino alla seconda metà del XVIII secolo, fu un cantiere di lavoro per la sua realizzazione. Furono acquistate diverse tavole veneziane per vari usi, come si può notare dal libro dei conti della confraternita presso l’Archivio Storico Diocesano di Gallipoli: Esito 1709, “Per tavole numero quindici a ragione di grana 35 l’una, per la pittura de quattro fatti miracolosi alle mura della chiesa d. 5.1.5”; “Detto prezzo di 4 tavole veneziane che stanno nella Congregazione d.1.2”; Esito 1714-15, “Prezzo per 44 tavole veneziane, d. 22”; “Per 6 tavole veneziane di bulli 6, d. 3.75”; Esito 1737-38, “Pagati a Giacomo Spinola per tavole veneziane, chianette, centre e fatica per mezza d.6.80” (vedi: antonazzo l. –faita a., “Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700” in anxa, n. 5-6 magg.-giu. 2016, pp. 12-13; pindinelli e., “L’Oratorio e la Confraternita di Santa Maria della Purità. I fratelli ‘bastasi’ e l’esito decorativo in età barocca a Gallipoli”, Grafiche CMYK, Alezio 2017;

[8] www.treccani.it: fune costituita da più funi a trefoli, usata per apparecchi di sollevamento;

 

[9] www.treccani.it: Nelle costruzioni navali, speciale forma del dritto di prua di navi militari di ogni tempo (dai più antichi esempi minoici, ai rostri romani, a quelli dell’Ottocento) foggiato in modo da sfondare, con l’urto, la parte subacquea dello scafo attaccato. Uno s. si trova, per scopi completamente diversi, sotto forma di bulbo rigonfio in alcune carene moderne, quale forma adatta a ridurne la resistenza al moto e soprattutto a frenare i movimenti di beccheggio in mare mosso;

[10] A Marine Vocabulary in three languages, (1814): E’ un piccolo cannone di palla di una libra di peso;

[11] www.treccani.it: Ciascuno dei due lati della nave, dritta e sinistra. Essere sbandata;

[12]Sono a carico dell’assicuratore i danni e le perdite che colpiscono le cose assicurate per cagione di tempesta, naufragio, investimento, urto, getto, esplosione, incendio, pirateria, saccheggio ed in genere per tutti gli accidenti della navigazione.

[13] prezzo convenuto per il trasporto di merci;

[14] verosimilmente, agente e garante della mercanzia;

[15] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1716, coll. 40/13, cc. 364r-365r

[16] ciascheduno;

[17] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1719, coll. 40/13, cc. 74v-76v;

[18] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1719, coll. 40/13, cc. 334v-335v;

[19] paltrinieri g., “Fine Settecento: ora Italiana ora Francese”, in ‘Quaderni di gnomonica’ n. 5, Bologna 2002. Dallo studio svolto dal Paltrinieri si può risalire, consultando un grafico, da lui elaborato, a tradurre le ore italiche citate da autori del passto con le ore francesi, cioè in pratica quelle attuali. Le ore 16:00 riportate sul documento, corrisponderebbero, pressappoco, alle ore 8:00;

[20] Storicamente, la spiaggia di Rossano viene identificata con la località di Sant’Angelo, un insediamento che include la Torre Stellata, il fondaco, alcuni magazzini e case di pescatori; Cfr. Francesco Joele Pace, Grano, mulini e pane nella Sibaritide del ‘700, in: Il Serratore. Bimestrale di vita, storia, cultura e tradizioni di Corigliano e della Sibaritide,

n.1(1988), pp. 37–39; Francesco Joele Pace, Rossano:ipotesi di topografia e toponomastica medievale, Corigliano Calabro, Il serratore, 1992; Vito Calabretta e Francesco Joele Pace, I secoli XV-XVIII autonomie e infeudazioni, in: Rossano: storia cultura economia, 1996, pp. 87–134; Francesco Joele Pace, Società ed economia nella Rossano feudale, in: Il Serratore. Bimestrale di vita, storia, cultura e tradizioni di Corigliano e della Sibaritide, n.15(1991), pp. 48–49;

[21] piccioni l. “Una famiglia di ‘Monopolisti’ del Regno di Napoli: sulle attività economiche degli Abenante di Rossano nel settecento, dall’archivio Martucci di Rossano”, 2006: Dalle carte Martucci gli Abenante emergono come protesi, una generazione dopo l’altra, al consolidamento e all’ampliamento del patrimonio e delle attività imprenditoriali, con modalità che appaiono coerenti e consapevoli. Gli Abenante una tra le più vivaci case mercantili operanti nel Mezzogiorno. Quel che sappiamo con certezza è che Lelio nasce nel 1702, fissa la sua dimora principale in Rossano e muore nel 1765 dopo essersi saldamente insediato a Napoli in veste di commerciante. Nonostante non sia nobile e sia insediata a Rossano soltanto da pochi decenni la famiglia Abenante compare in seconda posizione nel catasto per rendita agraria. pp. 104, 108;

[22]I Perrone furono un’antichissima e nobile famiglia del Cosentino sin dal XIV secolo e, in particolare, Giovanni Perrone, segretario dell’Imperatore Carlo V, nel 1521 fu nominato nobile e gli fu concesso di potersi fregiare dell’aquila imperiale. Il ramo di Rossano fiorente in Catanzaro ha goduto nobiltà in Calabria e Sicilia e risulta iscritto nei sedili nobiliari come nobile di Rossano. Luca Perrone, agente negli affari commerciali, nelle negoziazioni e contrattazioni della famiglia Sambiasi. Principi di Campana e duchi di Crosia. La famiglia Sambiase è un ramo della Casa Sanseverino e trae origine da Ruggero Sanseverino il quale, nel XIV secolo si rifugiò in Calabria. Il materiale documentario, posseduto dal prof. Ioele Pace, è costituito da 26 pezzi archivistici compresi tra il 1658 e il 1862 e comprende bandi, pandette del Principe, significatorie erariali, libri contabili, produzioni di causa. Ringrazio il prof. Pace per la sua collaborazione;

[23]Il bosco di Orgia, situato nella zona tra le province di Cosenza (Sila Greca e Sila Grande). Qui avveniva lo scarto di prima o seconda scelta deli alberi di castagno o quesrcia, tagliati in pezzi e utilizzati per la produzione di doghe, remi, pali, per costruire e costituire flotte navali;

[24] calare l’ancora;

[25] Cavo di canapa legato all’ancora, per recuperarla o per indicare il punto in cui è sommersa;

[26] pressappoco alle ore 16:00;

[27] A quanto mi riferisce lo studioso prof. Francesco Joele Pace, la marina della Torre dell’Arso detta Calopizzati, era la marina del feudo di Mandatoriccio dove si praticava il carico e lo scarico di vari prodotti come anche del legname proveniente dal bosco dell’Orgia. Essa era sotto la gestione del regio Portolano del Fondaco di Sant’Angelo che controllava il commercio di tutto ciò che transitava a largo della costa ionica cosentina da Rocca Imperiale a Neto;

[28] calderazzi A. – carafa R. (a cura di), La Calabria fortificata. Ricognizione e schedatura del territorio, Vibo Valentia, 1999, Il “Fondaco”, sede degli uffici della dogana con deposito e magazzino di merci, testimonia come Rossano abbia avuto per secoli, un ruolo economico rilevante per all’importanza di questa struttura daziaria. Il fondaco fu un centro fortificato, posto in riva al mare, atto a difendere e diffondere le ricchezze del territorio. Ad attestarne l’esistenza resta l’attuale Torre Sant’Angelo o stellata, per via della sua forma, costruita per volontà del principe Bona Sforza, tra il 1543 ed il 1564, proprio per salvaguardare l’allora struttura doganale dalle incursioni Arabo‐Turchesche. Gli uffici mercantili erano diversi. Nel fondaco operavano il credenziero addetto alla stima delle merci d’imbarco e responsabile dell’intera struttura;

[29] pressappoco alle ore 12:00;

[30] pressappoco alle ore 16:00;

[31] pressappoco alle ore 12:00;

[32] Aslecce, Not. ALEMANNO Carlo, protocollo Anno 1745, coll. 40/19, cc. 191V-193V.

Questo studio, corredato di note, è la rivisitazione di quanto già pubblicato con il medesimo titolo in Rassegna Storica del Mezzogiorno, organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, n°3, Anno 2019, pp.153-161.

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

Mario Colomba

di Fabrizio Suppressa

 

Mario Colomba, Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900. Nardò, Tipografia Carrino, 2017, pp. 136, ISBN 9791220021937.

C’è stato un tempo in cui le maestranze salentine per la loro riconosciuta ars aedificatoria erano chiamate a prestare la loro abilità oltre i propri confini provinciali. Si veda l’esemplare caso degli Spalletta di Nardò, costruttori di un gran numero di torri costiere del litorale salentino, che alla fine del Cinquecento sono chiamati ad operare a Barletta nel bellissimo Palazzo della Marra (oggi Pinacoteca De Nittis). Oppure si pensi alle maestranze leccesi, che nello stesso periodo si aggiudicano la costruzione delle torri costiere sul litorale di Terra di Bari, dall’Ofanto a Fasano.

La storia dell’architettura (minore) è testimone di una moltitudine misconosciuta di maestranze salentine attive anche a Napoli, Roma, Reggio Calabria, Crotone, la cui sapiente arte del costruire, trasmessa e rimasta pressoché inalterata fino agli anni Cinquanta del Novecento, è ad oggi in gran parte scomparsa.

C’è invece un presente, basato sulla perenne crisi dell’edilizia salentina, con diverse imprese che operano sul territorio con scarsa o mediocre qualità tecnica e professionale, oppure società costrette a lavorare in subappalto al massimo ribasso in giro per l’Italia o per l’Europa, con grande sacrificio dei dipendenti e conseguente riduzione della qualità del lavoro prestato.

Perché questa abissale differenza tra ieri e oggi? Perché un tempo l’arte del costruire era, almeno per la nostra provincia, un’attività seria e meritevole di rispetto per la tradizione e trasmissione della provata esperienza. Le maestranze, anche se spesso illetterate, avevano una grande padronanza dei materiali, delle tecniche, della statica, della durata del costruito nel tempo. Un corpus di nozioni immateriali che venivano trasmesse durante la lunga attività lavorativa, spesso da padre in figlio o comunque all’interno di una cerchia ristretta di fidati collaboratori.

In secondo luogo, al contrario di oggi, si costruiva poco, bene e per l’eternità, rispettando al contempo i luoghi e i cicli naturali, come appunto testimonia il detto locale, chi fabbrica in inverno, fabbrica per l’eterno.

Il lavoro editoriale dell’ingegnere Mario Colomba, dal lungo ma necessario titolo “Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardó e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani intorno alla metà del ‘900” prova a fare luce su questo vasto argomento, che purtroppo finora non ha destato il meritato interesse da parte del mondo accademico, e soprattutto di quello locale, che pare essersi disinteressato, per svariati motivi, di quell’arte che ha accompagnato ogni costruttore per secoli.

L’autore, testimone in prima persona di questa antica arte del costruire, ne descrive ogni aspetto con estrema chiarezza e dovizia di particolari, offrendoci non solo interessanti aspetti tecnici e pratici, ma anche e soprattutto un particolare contesto fatto di persone, prima che di pietre, che pur se apparentemente secondarie nella “squadra” e soggette ad un ordine gerarchico o piramidale, in realtà restano fondamentali per la specificità delle funzioni ricoperte e per i quali “l’unico aiuto tecnologico era rappresentato dall’uso delle sole macchine semplici conosciute da tempi immemorabili: la leva, la carrucola, il verricello ed il piano inclinato”. Motore di tutto era il “maestro”, lu messciu, che per indole e capacità trasmetteva i “segreti del mestiere, a quei soggetti (discepoli) che riteneva più dotati non solo di talento naturale ma anche di interesse e curiosità, inclini e capaci di recepire e ritrasmettere successivamente quanto veniva loro rivelato”.

Consiglio vivamente questo libro, non solo, come ovvio, a tutti i colleghi professionisti attivi nell’edilizia o nel settore del recupero o restauro, ma soprattutto a chi si occupa, tra le varie difficoltà, di dare un futuro solido al nostro territorio, affinché da questo glorioso passato possa attingerne utili indirizzi di sviluppo dell’edilizia.

 

Chi è interessato a ricevere copia del volume può rivolgersi direttamente all’Autore, tramite posta elettronica: studiomariocolomba@gmail.com

Coronavirus: le storie dell’orso

di Nazareno Valente

Lo confesso. Dopo un mese e più di segregazione, sono un po’ sul depresso e non riescono a modificare questo mio triste stato — se non in peggio — le audaci performance, per fortuna ora solo bisettimanali, del dottor Angelo Borrelli, soprattutto se in compagnia del professor Silvio Brusaferro. Con calma olimpica i due alti esponenti degli apparati governativi snocciolano i dati tragici dell’epidemia, appunto come se, invece di vite umane, si trattasse di noccioline.

Chiaro che a metterci troppa enfasi, si rischierebbe di far allarmare viepiù i già tanto preoccupati cittadini, però un minimo di partecipazione al lutto magari non guasterebbe. In particolare maggiore trasparenza, tanto per non avere la sensazione che, oltre al danno, si debba subire la beffa di passare per quelli che se le bevono tutte. Anche la fantasia ideata sul momento.

Il massimo si raggiunge quando si dà spazio alle domande dei giornalisti, dando l’avvio ad un dialogo tra sordi o, meglio ancora, tra persone che usano gli stessi termini assegnando però loro un significato completamente diverso.

Domanda tipica: ma i tanti morti in casa sono compresi tra quelli che ci comunicate dovuti al Coronavirus?

Risposta di rito che dice e non dice. Che si arrovella nelle più ingegnose circonlocuzioni con l’unico intento di tenersi lontani dal dare una chiara definizione della questione.

Tutti rimangono nel dubbio: ma è un sì, oppure un no? Ivi compreso il giornalista che ha posto la domanda che, però, abbozza. E ringrazia pure.

Resta però un mistero, cosa intenda il dottor Borrelli quando parla di morti per Coronavirus.

Il fatto è che per la Protezione civile i “morti” di cui dà nota non sono tutti i deceduti che hanno contratto il Coronavirus ma solo una parte, vale a dire unicamente quelli la cui positività è stata accertata dal tampone. Quindi, in assenza di test, anche se i sintomi sono tali da non lasciare spazio a possibili dubbi, non si è morti per Coronavirus.

D’altra parte, sempre per non allarmare la gente, ed anche allo scopo di tacitare i numeri, si è sempre un po’ contato sull’ambiguità terminologica. Il problema sta a monte e bisogna risalire alla definizione di caso per capirci qualcosa.

Tra i documenti dell’Istituto Superiore della Sanità si scopre tra le note che “La definizione internazionale di caso prevede che venga considerata caso confermato una persona con una conferma di laboratorio del virus che causa COVID-19 a prescindere dai segni e sintomi clinici”.

A parte la cacofonica ripetizione dei termini, pare di capire che, per convenzione internazionale, un caso di contagio è tale solo se accertato da un test. Non è quindi possibile diagnosticarlo in altro modo, anche qualora segni e sintomi clinici lo rendessero manifesto. In definitiva non si è contagiati finché un tampone non abbia rilevato la positività.

Evidente che, se si muore prima di essere stati dichiarati contagiati ufficiali, non si può essere morti per Coronavirus, anche qualora gli effetti del virus fossero evidenti.

Chiaro pertanto che meno tamponi si fanno, meno contagiati ci sono e, di conseguenza, meno morti causati dal virus.

La questione che pare andare oltre la definizione internazionale — comunque tutta d’accertare vista la trasparenza equivoca dei comunicati governativi — è che nel nostro Paese per essere considerati “contagiati” ci vuole anche un ulteriore test. Leggiamo infatti in un bollettino dell’Istituto Superiore della Sanità (ISS) che i casi di Covid-19, diagnosticati dai laboratori di riferimento regionale come positivi, vengono poi processati dal laboratorio nazionale dell’ISS.

Sembrerebbe pertanto che al tampone regionale debba seguire un tampone nazionale, e solo se si è positivi in entrambi si può essere a pieno titolo conteggiati tra i “contagiati”.

Ora, se la valutazione fatta a livello nazionale rilevasse consistenti discrepanze con i risultati ottenuti in sede regionale, questo secondo passaggio avrebbe motivo d’essere. Scopriamo invece che i risultati concordano quasi sempre: di fatto nel 99% dei casi, come lo stesso Istituto Superiore della Sanità fa sapere. In definitiva, sempre che io abbia compreso il congegno, il tampone che potrebbe essere usato per scoprire altri positivi, sarebbe invece spesso adoperato per permettere all’ISS di mettere il suo bollino. Si sprecherebbe così una risorsa — l’unica di cui si è dotati per scovare dov’è il virus e combatterne la diffusione — per porre un sigillo che, nel 99% dei casi, non fa altro che accertare quello di cui si era già certi prima.

La cosa appare così strana che, con tutta probabilità, sono io che prendo lucciole per lanterne, sebbene proprio ieri (21 aprile) è stato diffuso un nuovo dato che tenderebbe a confermarlo: il milione e mezzo di test fatti (1.450.150, per la precisione) ha riguardato solo 971.246 persone. Di conseguenza c’è ampio spazio che questo doppio accertamento sia in effetti stato svolto.

D’altra parte l’equivoco è alimentato nelle stesse conferenze stampa della Protezione civile, dove più volte si è fatto cenno alla questione, senza però affrontarla con la dovuta considerazione.

Molta più attenzione è stata invece riservata ad una faccenda, per certi versi ben più imbarazzante, vale a dire come mai da noi il Coronavirus comporta una mortalità quasi quattro volte superiore a quella rilevata in Germania.

Qui i consulenti governativi, aspiranti tali e non, hanno fornito le più disparate spiegazioni.

Taluni hanno affermato che fosse conseguenza del fatto che siamo una popolazione “molto” più anziana; peccato che abbiano momentaneamente dimenticato che i Tedeschi, in media, sono sì più giovani di noi ma per questioni di qualche mese, cosa che più di tanto non può incidere.

Altri hanno argomentato che i Tedeschi ammalatisi erano tutti giovani (in quanto l’avevano contratta nelle stazioni invernali, sciando), mentre i nostri connazionali erano all’opposto dei vecchietti che l’avevano contratta nei loro abituali ritrovi; peccato che poi i contagiati in Germania sono diventati decine di migliaia, e farli passare tutti per sciatori è parso anche a queste eccelse menti un po’ eccessivo.

Gli esponenti dell’ISS hanno invece partorito una spiegazione scientifica. In particolare il professor Brusaferro che ne è presidente, ha fatto sapere che un loro studio consente di identificare in maniera inequivocabile le caratteristiche del deceduto: egli è, in media, un settantanovenne con 3,3 patologie croniche pregresse. Quindi un Italiano ormai più minato dai problemi fisici precedenti che dal virus.

Il che, non solo è servito a dare una risposta ammantata dai crismi della scientificità ad un inquietante interrogativo, ma anche di far considerare che, se morti ci sono state, queste coinvolgevano chi già, per pregresse patologie, era ormai al termine del suo cammino.

Probabilmente, senza volerlo, ha dato pure esca a tutta una serie di antipatiche considerazioni che indicano sempre più l’anziano come destinatario – e, ciò che è peggio, a volte pure fonte – della diffusione del virus. E la sparata (molto poco democratica), con cui la signora von der Leyen ha invitato a segregare gli anziani, è la naturale conseguenza d’un ritornello ormai diventato un must.

Infatti a sentir ripetere sempre la solita tiritera, ed in aggiunta cantata in coro da cotanto qualificato pulpito, si finisce per convincere anche i più ribelli ed a farla ritenere una scontata verità.

Ma è davvero così?

Per curiosità ho provato a verificare l’affermazione. E, come al solito, andando al fondo delle cose, si scopre che non è tutto oro quello che riluce. Anzi che di oro ce n’è ben poco.

Intanto una considerazione di carattere generale che a me pare del tutto scontata: gli anziani hanno di per sé un’aspettativa di vita inferiore ai giovani e, quindi, non c’è bisogno di scomodare il Covid-19 per assegnare loro una maggiore probabilità di salutare questo mondo. Tutto ciò avviene comunemente, in qualsiasi contesto normale. Senza fare conseguentemente di loro dei possibili pericoli.

Nello specifico, l’affermazione del professor Brusaferro – e la sicurezza con cui essa è pronunciata – accentua ancor più questo stato di fatto.

C’è un report, che l’ISS redige periodicamente titolandolo “caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”, da cui il professor Brusaferro ha tratto le informazioni utili.

In quello compilato con riferimento ai dati del 20 aprile scorso, si afferma che, analizzato un campione di 21.551 casi, come dire più di 2.500 in meno di quelli che costituivano la popolazione alla data precitata1, si ricava che i deceduti hanno un’età media di 79 anni e presentano un numero medio di patologie croniche preesistenti, vale a dire diagnosticate prima di contrarre l’infezione, pari a 3,3.

Il che attesterebbe la veridicità di quanto più volte dichiarato dal professor Brusaferro.

Tuttavia, quello che non viene mai precisato in pubblico, ma che risulta contenuto nel report, è che tale valore di 3,3 patologie preesistenti non riguarda il campione già ristretto di 21.551, ma di un campione ulteriormente ridimensionato di 1.890 deceduti, vale a dire di quelli di cui si è potuta analizzare la cartella clinica

Senza tediarvi troppo sugli aspetti teorici riguardanti la scelta di un campione statistico e su come calcolare una sua idonea numerosità, vado subito alle conclusioni.

Intanto, data la popolazione di partenza, i 1.890 casi rappresentano una numerosità campionaria che garantisce un errore statistico molto basso. Quindi più che sufficiente a garantire ottimi risultati.

Il campionamento andrebbe poi fatto in modo che il sottoinsieme prescelto sia rappresentativo della popolazione che s’intende studiare e che, quindi, sia in grado di sintetizzarne le caratteristiche. Solo a queste condizioni è infatti possibile fare inferenza, cioè a dire ricavare dal campione ciò che c’interessa sapere della popolazione. In definitiva il campione va scelto con metodi ben precisi, detti probabilistici.

Quello fatto dall’ISS è, invece, il tipico campionamento di convenienza, non basato su metodi probabilistici, ma sulle unità che in quel momento passa il convento.

Già di per sé un campione così fatto fornisce valori poco attendibili e compromette la possibilità di generalizzare i risultati. Qui in più c’è l’aggravante che recluta unità del tutto particolari che lo rendono lontanissimo dalla popolazione che vorrebbe al contrario rappresentare. Infatti il campione utilizzato dall’ISS è costituito dai soli deceduti di cui s’è potuta analizzare la cartella clinica. In altre parole di quelli che, nella maggior parti dei casi (se non proprio in tutti), per problemi clinici precedenti avevano avuto già a che fare con il sistema sanitario, tant’è che le strutture ospedaliere erano in possesso della loro cartella clinica.

In definitiva un campione “distorto” — di fatto il più indicato per desumere risultati del tutto fuorvianti — in quanto costituito con le unità con più probabilità di avere patologie preesistenti e con la totale esclusioni di chi, al contrario, ha meno probabilità di averne.

In pratica si sono calcolate le patologie croniche pregresse di 21.551 positivi, valutando un campione che non lo rappresenta in quanto costituito da unità con più possibilità di essere “malate” e con l’esclusione di quelle con più possibilità d’essere “sane”.

E come se, ad esempio, volessimo indagare sull’uso abituale e prolungato di tabacco da parte di una certa popolazione ed includessimo nel campione solo quelli che fumano. È chiaro che avremo dei valori elevati, che tenderanno a diminuire man mano che le unità del campione sono sostituite con chi non fuma, sino a diventare addirittura zero, quando il campione include solo chi non ha mai fumato.

Non stupisce pertanto che lo studio dell’ISS sia arrivato a definire il deceduto positivo da Covid-19 minato già da molteplici magagne fisiche. Considerato il campione prescelto, è difficile che potesse essere diversamente.

In definitiva non credo proprio che quel valore di 3,3 patologie pregresse croniche attribuite a chi non ce l’ha fatta a superare la malattia abbia un qualche riscontro con la realtà. E, in ogni caso, quando la storiella viene raccontata in pubblico, andrebbero precisati, per completezza d’informazione i grossi limiti metodologici con cui si è proceduto nei calcoli.

Ma, quel che più conta, non può essere utilizzato per giustificare, nemmeno in parte, l’alto tasso di letalità rilevato (13,40%) per i contagiati italiani. Né l’alto numero di vittime che il Covid-19 ha mietuto nel nostro Paese.

Né, a maggior ragione — ma questo è tutto un altro discorso —costituire la base scientifica con cui accreditare eventuali politiche di segregazione degli anziani.

Come sembrerebbe sempre più all’orizzonte.

 

1 Probabilmente, diversamente da ciò che è scritto, i dati si riferiscono a qualche giorno precedente anche se la cifra indicata non combacia con nessuna di quelle comunicate dalla Protezione civile. Tuttavia in un altro documento, “Epidemia Covid-19” — però riferito al 16 aprile — in nota ad una tabella, si legge testualmente: “la tabella non include i casi con sesso non noto”. L’affermazione è di per sé strana perché ci racconta che ci sono deceduti di Covid-19 di cui l’ISS non conosce neppure il sesso. Ma, sebbene tutto sia possibile, parrebbe ancor più strano che un simile dubbio possa riguardare moltissimi casi. Sicché la diversità delle cifre dovrebbe essere per lo più causata dai ritardi di comunicazione, del tutto naturali in simili frangenti.

 

Brindisi: il porto in un disegno che passò per le mani del Boccaccio

di Armando Polito

La Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze custodisce un manoscritto (Plut. 35.231) del XII secolo2, restaurato nel XIV, che fu posseduto e postillato dal Boccaccio3. Esso contiene la Pharsalia di Lucano (I secolo d. C.), poema che ha come argomento la guerra civile che oppose Cesare a Pompeo. L’immagine che segue è la riproduzione della carta 17r.

Sulla sinistra sono riportati i versi vv. 616 (Nec tamen hoc artis inmissum faucibus aequor)-665 (ipsa, caput mundi, bellorum maxima merces) del secondo libro con annotazioni sparse ai margini, mentre sulla destra si nota un disegno, anche questo preceduto, affiancato e seguito da annotazioni. Tutto non è casuale, perché i versi costituiscono la parte iniziale dell’episodio dell’assedio di Brindisi (9-18 marzo 49), dove Pompeo si era asserragliato, da parte di Cesare e il disegno ne rappresenta il porto. Tuttavia la descrizione del porto inizia dal v. 610 e termina al 627, versi che di seguito riporto e traduco.
Urbs est Dictaeis olim possessa colonis,/quos Creta profugos vexere per aequora puppes/Cecropiae victum mentitis Thesea velis./Hinc latus angustum iam se cogentis in artum/Hesperiae tenuem producit in aequora linguam,/Hadriacas flexis claudit quae cornibus undas./Nec tamen hoc artis inmissum faucibus aequor/ portus erat, si non violentos insula Coros/exciperet saxis lassasque refunderet undas./Hinc illinc montes scopulosae rupis aperto/opposuit natura mari flatusque removit,/ut tremulo starent contentae fune carinae./Hinc late patet omne fretum, seu vela ferantur/in portus, Corcyra, tuos, seu laeva petatur/Illyris Ionias vergens Epidamnos in undas./Hoc fuga nautarum, cum totas Hadria vires/movit et in nubes abiere Ceraunia cumque/spumoso Calaber perfunditur aequore Sason.

(Questa città [Brindisi] fu posseduta un tempo dai coloni dittei4 che, profughi da Creta,  navi cecropie5 trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto6. Da qui un angusto tratto dell’Italia che già si restringe sospinge nel mare una tenue lingua che racchiude le onde dell’Adriatico con corna ricurve. Tuttavia questo mare immesso in strette gole non sarebbe un porto se un’isola non smorzasse con le sue rocce il violento maestrale e non respingesse onde stanche. Da una parte e dall’altra la natura ha opposto al mare aperto l’altezza di rocciosa scogliera ed ha tenuto lontani i venti in modo che le imbarcazioni potessero stazionare trattenute da una tremula gomena. Da qui si estende il mare aperto sia che si spieghino le vele verso i tuoi porti, o Corcira, sia che si cerchi di raggiungere  a sinistra Epidamno d’Illiria che si protende verso le onde dello Ionio. Questo è il rifugio dei marinai quando l’Adriatico scatena tutta la sua forza e i monti Cerauni svaniscono tra le nubi e la calabra Sason è sommersa dal mare spumeggiante)

Passo ora al dettaglio ingrandito del disegno.

Purtroppo lo stato di conservazione (o la qualità della digitalizzazione) non consente la decifrazione di tutte le parole che in esso compaiono in punti strategici, complice anche l’interferenza della scrittura sul verso. Sarebbe strano che il disegno si riferisse all’aspetto che il porto aveva al momento in cui fu tracciato e non fosse invece una ricostruzione virtuale di com’era al tempo della guerra civile, una rappresentazione grafica, insomma, di quanto descritto nei versi della colonna a sinistra.

Dall’alto in basso :

IN

SULA È l’isola di S. Andrea prima ricordata nel verso 617. Non riesco ad attribuire un significato alla corona circolare che la cinge, se non l’allusione ad una struttura difensiva, il che suppone l’esistenza di fabbriche all’interno, come chiaramente si vede in un altro disegno presente in un codice ancora più antico del nostro (è dell’XI secolo), del quale mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/wp-admin/post.php?post=93632&action=edit e che di seguito riproduco.

MARE  MARE

por              tus   da notare il suo contorno regolare, un cerchio quasi completo, con la circonferenza, però, ad intervalli regolari sovrascritta da sporgenze ed incavi che sembrano alludere ad altrettanti moli. All’interno due torri ed una fabbrica più alta molto simile a quella accanto alla torre nel disegno più antico. 

 mons             mons Alla lettera dovrebbero essere un monte per parte. Mi pare, però, che nel diario di Cesare non ci sia un riferimento preciso  nell’elenco delle opere messe in atto per l’assedio, come il lettore potrà facilmente constatare.

Commentarii de bello civili, I, 25, 5-10: Qua fauces erant angustissimae portus, moles atque aggerem ab utraque parte litoris iaciebat, quod his locis erat vadosum mare. Longius progressus, cum agger altiore aqua contineri non posset, rates duplices quoquoversus pedum triginta e regione molis collocabat. Has quaternis ancoris ex quatuor angulis destinabat, ne fluctibus moverentur. His perfectis collocatisque alias deinceps pari magnitudine rates iungebat. Has terra atque aggere integebat, ne aditus atque incursus ad defendendum impediretur; a fronte atque ab utroque latere cratibus ac pluteis protegebat; in quarta quaque earum turres binorum tabulatorum excitabat, quo commodius ab impetu navium incendiisque defenderet.

(Dove l’imboccatura del porto era strettissima faceva gettare massi e costruire un argine dall’una e dall’altra parte della costa, poiché il mare in quel punto era poco profondo. Allontanandosi da lì, poiché un terrapieno non poteva resistere per l’acqua troppo alta, faceva collocare a partire dal punto dell’argine una coppia di zattere  di trenta piedi per lato. Le faceva fissare con quattro ancore ciascuna dai quattro angoli perché non fossero spostate dai flutti. Finito di realizzarle e collocarle, ordinava poi di aggiungere altre zattere di pari grandezza. Le faceva ricoprire di terra e materiale per colmare, perché non fosse impedito l’accesso e il passaggio  per difendersi;  faceva proteggere la parte frontale ed entrambi i fianchi con graticci e ripari mobili; su ciascuna quarta zattera faceva innalzare torri di due piani, per difendersi meglio dall’assalto delle navi e dagli incendi)

Tuttavia il dettaglio che ho sottolineato nel testo originale ed in traduzione risulta chiamato monte anche in una tavola di Andrea Palladio a corredo di molte edizioni7 dell’opera di Cesare, a cominciare dalla prima, dalla quale l’ho tratta: in Commentari di Caio Giulio Cesare con le figure in rame degli alloggiamenti, de’ fatti d’arme, delle circonvallationi, delle città, et di molte altre cose notabili descritte in essi fatte da Andrea Palladio per facilitare a chi legge la cognizione della storia, De Franceschi, Venezia, 1575. Con la circonferenza bianca ho evidenziato ciò di cui si parla.

brundi

sium               scritto nel vuoto di quella che ha tutta l’aria di essere la porta principale di accesso alla parte più interna della città. Se non fosse una carta storica, cioè riferentesi ai tempi di Cesare, avrei supposto che potesse essere laporta maggiore, cioè Porta Mesagne fatta costruire da Federico II nel 12432.   

ITALIA

__________

1 http://mss.bmlonline.it/s.aspx?Id=AWOIfaZKI1A4r7GxMIXk#/book

2 Così si legge in https://flore.unifi.it/handle/2158/952178?mode=full.624#.XpQppv0za-w nella scheda compilata da Laura Regnicoli.

3 https://flore.unifi.it/handle/2158/952178?mode=full.624#.XpQppv0za-w

4 Da Ditte, monte di Creta.

5 Ateniesi; da Cecrope, antichissimo re dell’Attica, fondatore della rocca di Atene.

6 Il riferimento è legato al tributo dovuto da Atene a Minosse, re di Creta, dal quale era stata sconfitta: il sacrificio annuale (secondo altre versioni quinquennale) di sette fanciulli e sette fanciulle destinati ad essere divorati dal Minotauro. La terza spedizione sacrificale fu affidata aTeseo il quale promise al padre Egeo che, se fosse riuscito ad uccidere il mostro, al ritorno avrebbe issato vele bianche. Teseo con l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, che si era innamorata di lui, uccise il Minotauro, uscì dal labirinto e fuggì con la ragazza, che, però, poco dopo fu abbandonata dall’eroe sull’isola di Nasso. Teseo, però, sulla via del ritorno ad Atene dimenticò di issare le vele bianche al posto delle nere, sicché il padre Egeo, credendo che egli fosse morto, si gettò nel mare che da lui prese il nome.

7 (Con lo stesso titolo) Foglietti, Venezia, 1598 e 1618; Commentari di C. Giulio Cesare, con le figure in rame di Andrea Palladio, le quali rappresentano a gl’occhi di chi legge, accampamenti, ordinanze, & incontri di esserciti, citta, fiumi, siti de paesi, & altre cose notabili contenute nell’historia, Misserini, Venezia, 1619 e 1627.

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

I materiali da costruzione: i conci (cuzzetti) e la malta (conza)

 

di Mario Colomba

Il “cavamonti”, detto zuccatore, era l’artigiano che materialmente estraeva i conci dal banco di tufo che, nelle località ove esisteva, consisteva in un ammasso di arenaria (banco) coperto da una coltre di terreno vegetale che veniva preliminarmente rimosso.

Il tufo pugliese fa parte dei calcari teneri di origine sedimentaria marina, di facile lavorazione con mezzi normali come le mannare e sono adatti ad essere cavati e squadrati in conci parallelepipedi regolari con superficie piana.

Il De Giorgi considera i tufi calcari arenacei, costituiti da “sabbie marine mescolate con elementi calcarei di origine organica (perischeletri di foraminiferi) con frammenti di coralli, briozoi, molluschi, echinodermi, legati fra di loro con cemento calcareo siliceo-argilloso”. Sotto l’aspetto litologico essi sono di origine sedimentaria (esogena, acquea, nettunica) contenente detriti (calcarei e cretacei), provenienti dalla terra ferma e spoglie calcaree di organismi (molluschi), il tutto cementato con sostanza calcitica segregata dallo stesso sedimento.

I tufi hanno generalmente caratteristiche variabili: anche nella stessa cava gli strati successivi possono differenziarsi sia nell’aspetto che nella costituzione e nelle caratteristiche meccaniche.

Dopo avere spianato il banco, rimuovendo anche lo strato superficiale di arenaria intrisa di terra rossa e, spesso, friabile, venivano cavati i conci con l’uso di un attrezzo simile ad un piccone ordinario (lu zueccu) ma caratterizzato da una estremità molto sottile e da un’altra molto larga

Con l’estremità sottile detta pìnnulu venivano praticate sulla superficie orizzontale del banco delle fessure longitudinali parallele (carasse), alla distanza, l’una dall’altra, di circa 25 cm (un palmo) o 30 cm (per i pizzotti) e della profondità di circa cm. 20 o 25 cm. (per i pizzotti); successivamente veniva praticata un’altra serie di fessure ortogonali alle prime, distanti fra loro circa 65 cm., corrispondenti alla lunghezza dei conci da cavare (due palmi e mezzo).

In seguito, con l’estremità larga del piccone veniva estratto (scappato) il primo concio e successivamente tutti gli altri componenti della stessa fila e quindi quelli delle altre file, fino all’esaurimento di tutto lo strato (linea) del banco.

Il concio così ottenuto era un parallelepipedo che aveva, dopo la squadratura, le dimensioni di centimetri 63 x 25 x 20 di spessore. Poteva anche ottenersi il cosiddetto palmatico, che aveva uno spessore di centimetri 25, generalmente non usato da noi, oppure il pizzotto, da cm 30 di spessore.

Decisamente, il lavoro dello “zuccatore” era il più duro fra tutti quelli praticati nel settore delle costruzioni, non solo per il sacrificio fisico della costrizione a lavorare sotto il sole d’estate e al freddo e al vento d’inverno ma anche per la precarietà del risultato produttivo. Infatti non era infrequente l’eventualità di dover estrarre i conci da banchi naturalmente fratturati all’interno che non si lasciavano intravedere dall’esterno ma che si scoprivano man mano, quando i conci si fracassavano durante la scappatura, vanificando il lavoro di ore o a volte di giorni, senza alcuna possibilità di produzione,, necessaria per il sostentamento personale e familiare. Per questo e per l’imprevista presenza di catene (strati interclusi di calcare duro e compatto di spessore variabile da qualche millimetro ad alcuni centimetri) alcune cave anche di modesta profondità venivano abbandonate.

Il limite della profondità della cava a cielo aperto era rappresentato dalla disponibilità del suolo necessario per la costruzione di agevoli rampe di accesso la cui pendenza e lunghezza doveva essere necessariamente contenuta nei limiti della capacità di tiro e di resistenza dei cavalli che equipaggiavano i traini (traìni) di trasporto.

Qui le parti precedenti dello stesso Autore:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento

L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino

Tira aria di ammutinamento

di Angelo Micello

Tira aria di ammutinamento. Se anche il pacifico Antonio Chiarello minaccia di uscire di casa il 4 maggio qualunque sia la volontà del governo vuol dire che siamo al limite. Il #iorestoacasa nudo è crudo ha rotto i coglioni. Il #iorestoacasa tarato solo per la città di Milano ha strarotto i coglioni. Non si possono fare tutte le leggi in questo paese per Roma e Milano, esistono anche le piccole città, i paesini, le pianure e le montagne.
Credo che ci governa lo abbia pure capito e stia in dubbio se aprire le gabbie o prenderci per il culo facendocelo credere. Comunque dopo il 4 maggio il paese non lo tratterranno più, siamo finalmente arrivati al #sifottanoivecchi.

La banda dei Martinitt - Museo dei Martinitt Milano

C’erano una volta le bande musicali, orgoglio di ogni paese salentino. Erano gli anni in cui l’ascolto della musica poteva avvenire solo in presa diretta e la gente si accontentava di ascoltare in piazza gli arrangiamenti per soli fiati dell’operistica. Partivano ogni anno per la stagione delle feste patronali, corriera a nolo, strumentazioni in solidi cassoni, niente cavi o spine, un paio di eleganti uniformi, un maestro da cartellone, un paio di bravi solisti, il resto buona volontà e infine i tuttofare. A questi ultimi in genere caricavano sulle spalle il trombone nelle ultime file giusto per quadrare la geometria del plotone. Facevano finta di suonare, ma il loro vero incarico era la manovalanza, vale a dire il carico e scarico del materiale, la sistemazione dei palchi e alla fine cucinare per tutti in enormi pentoloni. Non si tornava a casa la sera. La bombola e il camerone con le brandine in cui dormire li metteva il comitato festa, la pasta e la salsa a volte si a volte no. Come le vere bande militari suonavano e sparavano. Al termine dei festeggiamenti tornava la corriera per portarli in un altro camerone in un altro paese in festa. La stagione del bannista cominciava in primavera e finiva con le ultime feste di settembre, una vita peggio di chi partiva allu feu. Mattinale col passaggio a marcetta per le strade del paese, stralunga processione solenne, suonata in alta uniforme fino a notte inoltrata, riposo di poche ore con i piedi ormai a pirilla.
Se oggi si chiedesse a una dozzina di operai di chiudersi per un paio di mesi in un reparto notte e giorno, cucinarsi, lavarsi e riposare in branda finito il turno per di salvare il paese, la fabbrica, il posto di lavoro e la salute dei propri familiari ai rappresentanti sindacali verrebbe un infarto o ti salterebbero alla gola. Quelle cose da raccontare poi ai nipoti, come veri eroi, piuttosto che annoiarli con quel 2020 che ci chiusero alla catena come i cani.
Comunque, tutto sempre da verificare, messa in campo la giusta contrattazione. Non c’è categoria che non utilizzi la tragedia per ricavarci qualcosa. Tutti che vogliono il rimborso esaustivo del danno, l’accesso illimitato al credito e una poscia di fiche. Sfugge a tutti il concetto di disgrazia planetaria.

Come a noi sfugge la ragione dell’avversione del legislatore alla piantumazione di cucuzze e peperoni. Parlo di noi hobbisti (così ci definiscono) che in realtà dovremmo essere i colti (da coltura) mentre chi legge solo libri dovrebbero essere i culti (da cultura), ma passiamoci sopra. Una via Crucis di quaranta giorni passati come un contrabbandiere, uno spallone frontaliero, un raccoglitore di sale nelle conche, come un carbonaro nella notte a fari spenti. Quaranta giorni di crepuscoli pieni di muttura. Una massa di coglioni al comando: prima le pàpare, poi la deroga per la xylella, poi per gli incendi, da oggi pare che sia arrivato il turno delle cucuzze. Un permesso inutile, le campagne e gli orti almeno dalle nostre parti e credo in tutto il Meridione stanno già sistemati, basta avere gli occhi. Le spaselle di cornulari, tomboloni e maranciane nei vivai si sono vendute a raffica, neppure scaricate e le facce non erano quelle delle partite iva. Oggi pure quella cosa inutile di Emiliano, a doppio stipendio, ha capito il concetto di autoconsumo per molte famiglie pugliesi, e che non esistono solo hobbisti e partite iva, ma pure tanti pensionati con la minima che campano di campagna arrotondando. Si è svegliato solo dopo che in Senato è passato un emendamento in tal senso e ha fiutato l’aria che tira: si può andare nei campi ma solo una volta al giorno: Incinta, ma solo poco poco. Oggi per protesta resto a casa.

Coronavirus. Situazione al 18 aprile 2020

di Nazareno Valente

Sebbene l’incremento percentuale dei contagi non sia sceso in maniera significativa, la situazione epidemiologica a livello nazionale è migliorata. Ciò è stato reso possibile da un più largo uso dei tamponi che sta consentendo di rilevare la malattia in uno stadio meno avanzato. Si alleggerisce pertanto la pressione sulle strutture ospedaliere, nelle quali diminuisce il numero dei pazienti ricoverati in terapia intensiva e nei reparti. I buoni dati clinici rappresentano un segnale confortante per il futuro.
A livello regionale, il fatto che la situazione non si sia di molto modificata attesta di per sé la buona tenuta del sistema, anche se non appare ancora ben definito  il caso della casa di riposo “Il Focolare” di Brindisi.

Urbanistica in Terra d’Otranto. Il caso di Francavilla e le sue porte urbiche

di Mirko Belfiore

Durante la sua secolare storia, l’abitato di Francavilla poté contare sulla realizzazione di ben tre cinte murarie. La prima, con molta probabilità, fu costruita durante la seconda metà del XIV secolo dopo che, nel 1364, la città ottenne, dal principe di Taranto Filippo II d’Angiò (1329-1374), una concessione per la costruzione di nuove mura, ma di questo tracciato, purtroppo, non rimangono testimonianze.

Alcuni tempi dopo, quando a governare la città giunse il nuovo principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1401-1463), ritenendo Francavilla non adeguatamente provvista di una perimetrazione difensiva, ordinò la costruzione di una nuova cerchia. Quest’ultima è riconducibile alla descrizione che ne fa l’abate Giovan Battista Pacichelli (1641-1695) il quale, facendo tappa a Francavilla, durante il suo soggiorno nel Regno di Napoli. fra il 1683 e il 1694, ci racconta di come l’impianto urbano fosse organizzato entro mura, torri e sei porte urbiche: “Al numero concorso delle genti, che dalle convicine, e remote parti vennero a farli novelli Cittadini di Francavilla, si formo la Terra circondata da Mura, e Torri, alle qualu furono distribuite sei Porte, tre picciole e tre maggiori, le maggiori furono la prima chiamata Porta grande, hoggi detta Porta della Piazza; la seconda la Porta di Sant’Antonio Abbate, hoggi del Castello; terza, che fu l’ultima a farsi, La Porta Nuova; le tre picciole, la prima fu detta Porta D’Elia, hoggi di San Sebastiano, la seconda Porta di San Carlo, hoggi la Rucirella, e la terza la Porta di S. Nicolò, hoggi detta dal volgo il Cravotto”.

1. Giovan Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, 1703.

 

2. Veduta di Francavilla, da Giovan Battista Pacichelli, 1703

 

Con i secoli a venire la città non smise di crescere e anzi, sotto l’impulso dei nuovi feudatari giunti da Genova e del ruolo raggiunto dalla stessa Francavilla in Terra d’Otranto, si giunse al superamento della cinta muraria cinquecentesca. La conseguente spinta edilizia incentivò la realizzazione di nuovi quartieri abitativi, congiuntura che spinse il principe Michele III Imperiale a farsi promotore fra il XVII e XVIII secolo, della realizzazione di una nuova cerchia muraria: la terza.

3. Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Quest’ultima, oltre a difendere il numero sempre più crescente di una popolazione che ormai raggiungeva il migliaio di fuochi, raggruppò le nuove borgate nate a Sud, Est ed Ovest dell’antico agglomerato quattro-cinquecentesco.

Percorrendo l’asse Sud che, dall’antica piazza del Foggiaro, oggi piazza Umberto I, prosegue attraverso il Burgo Grande, si erge in tutta la sua monumentalità la mole architettonica della Porta del Carmine, eretta intorno alla metà del XVII secolo e situata all’imboccatura di Via Roma (già Via del Carmine), una delle arterie cittadine fra le più scenografiche della città, sulla quale si andranno a inserire i più importanti ed eleganti palazzi della nobiltà francavillese.

4. Porta del Carmine, XVII secolo, prospetto principale.

 

Ad una prima occhiata, si può notare subito la particolarità del suo prospetto, conforme ai canoni dei trattati cinquecenteschi del Serlio e del Palladio e innalzata quasi a voler imitare gli antichi archi di trionfo d’epoca romana. La struttura, deteriorata nella superficie tufacea dall’erosione degli agenti atmosferici, si presenta articolata in tre fornici, tutte contraddistinte da arcate a tutto sesto e fiancheggiate da semicolonne, quest’ultime poggianti su alti plinti e coronate da pregevoli capitelli compositi. Quattro dadi sporgenti e un cornicione aggettante caratterizzano la trabeazione, mentre due ricche cornici rettangolari, poste in asse coi portali laterali, realizzate forse con lo scopo di accogliere scritte mai eseguite, arricchiscono il prospetto principale.

5. Porta del Carmine. Prospetto interno

 

La facciata interna, invece, presenta le medesime modanature ma, in alternativa alle semicolonne, si articola di alcune lesene finemente decorate da festoni floreali.

6. Ritratto di Michele IV Imperiale Juniore – (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, trafugato).

 

Lungo la direttrice Sud-Est che, sempre dalla piazza del Foggiaro, procede lungo l’attuale via Regina Elena e insieme a viale Capitano Di Castri crea quell’arteria viaria che mette in comunicazione il centro della città con il Complesso conventuale di Maria S.S. della Croce, fuori le mura, si posiziona la struttura classicheggiante della Porta della Croce (o di Cagnone).

 

7. Porta della Croce, 1714, Davide De Quarto e Goisuè Pozzerrese, prospetto principale.

 

Costruita secondo le fonti intorno al 1714, dai maestri Davide De Quarto e Giosuè Pozzerrese, essa si caratterizza di un prospetto lapideo a bugnato, composto da una serie di pietre squadrate poste a raggiera che, ricoprendo tutta la facciata, evidenzia gli archivolti dell’arcata a tutto sesto e incornicia in chiave di volta lo stemma feudale dei committenti: gli Imperiale. Le modanature continuano in senso orizzontale lungo tutto il resto del prospetto, venendo interrotte solo dalle due semicolonne, unico elemento verticale. Quest’ultime, incoronate da due corpi lievemente aggettanti e poggianti su semplici basamenti quadrati, concorrono come elementi decorativi a creare un gioco chiaroscurale sulla superficie continua dei pilastri. Il medesimo effetto chiaroscurale si accentua nella doppia modanatura posta a metà della costruzione, da cui parte l’impostazione dell’arco, ripresa nella parte rastremata dalle colonne e conclusa da un capitello dorico.

8. Porta della Croce. Prospetto interno

 

La facciata interna, più sobria, presenta alcune profilature che percorrono in senso verticale i fianchi dell’arcata e in senso orizzontale la trabeazione.

Infine, lungo la direttrice Nord-Ovest posta in posizione diametralmente opposta alla Chiesa dello Spirito Santo, in origine Complesso conventuale dei Frati minori cappuccini, trova posto Porta Cappuccini, già Porta Nuova.

9. Porta Nuova, XVIII secolo, Frà Liborio da Manduria, prospetto principale.

 

Essa, secondo le fonti coeve, fu costruita durante la seconda metà del XVIII secolo e fu con molta probabilità realizzata dallo stesso artefice della chiesa antistante, fra’ Liborio da Manduria. Porta Nuova, rispetto a quella della Croce, si presenta con linee curve e superfici rotondeggianti, frutto di un’interpretazione del barocco più sobria e misurata. La sua struttura imponente è costituita da un’arcata, sempre a tutto sesto, due semicolonne ai lati, poggianti su un alto basamento e coronate da capitelli compositi, e due ali leggermente rientranti arricchite da un fine arriccio al vertice. La trabeazione è sormontata da un frontone, dai profili curvi e rettilinei, mentre la parte sommitale è caratterizzata da un coronamento dalle spigolature aggettanti e un timpano a mezzaluna.

10. Porta Nuova. Prospetto interno

 

Sulla parete interna, l’arco ribassato è mascherato da un arco a pieno centro poggiante su due pesanti lesene. Come per la Porta della Croce, anche questo accesso al borgo seicentesco si presenta oggi isolato e poco valorizzano dalle costruzioni limitrofe, ma contribuisce a rimarcare la teatralità che le porte urbiche francavillesi prospettavano ai viandanti che si apprestavano a varcare le soglie.

A queste architetture civili, vanno aggiunte le ormai scomparse Porta Paludi, Porta Pazzano (o di San Vito), Porta San Lorenzo e Porta San Carlo (o Porta Roccella).

Porta Paludi, situata nel quartiere omonimo e posizionata all’angolo fra via Simeana e la direttrice extramurale di via San Francesco d’Assisi, fu demolita nel 1925 perché: “Oltre a rappresentare uno sconcio evidente, (è)… causa grave di pericolo per la pubblica incolumità, date che, nei tempi di pioggia, quel tratto di strada resta del tutto allagato […] e le acque che là si raccolgono, vanno a formare dei pantani immensi”.

11. Porta Pazzano, foto d’epoca, XX secolo.

 

Porta Pazzano invece, posizionata a Nord-Est dell’abitato seicentesco, sulla strada che collega Francavilla a San Vito dei Normanni, venne demolita nel 1952. Tramite un’istantanea dell’epoca, possiamo ricostruirne solo il prospetto Sud, semplice nelle linee e nella mole, se paragonato alle precedenti. Quest’ultimo, composto da un arco a tutto sesto leggermente ribassato e una trabeazione rettangolare coronata da un piccolo cornicione aggettante, presenta alcune modanature distribuite lungo tutta la facies, le quali, nell’insieme, contribuiscono ad aggiungere un po’ di dinamismo al prospetto, altrimenti essenziale.

Di Porta di Brindisi (o di San Lorenzo), situata a cavallo fra le attuali via San Lorenzo e via Francesco Baracca, costruita dai già citati Davide De Quarto e Giosuè Pozzerrese nel 1714 e Porta Roccella, indicata nella veduta del 1643 come Porta San Carlo, quest’ultima posizionata alle spalle del convento dei Padri Redentoristi sull’attuale via Barbaro Forleo, non abbiamo più tracce; forse danneggiate dal terremoto del 1743, ma ancora presenti in una pianta ottocentesca della città, subirono probabilmente la stessa sorte di Porta Pazzano e Porta Paludi e quindi smantellate.

12. Pianta dell’abitato di Francavilla, con il circuito murario degli Imperiale e le porte di città, pianta del XIX secolo.

 

Presso queste porte urbiche, poste sulle arterie viarie che dagli agglomerati limitrofi confluivano verso il centro di Francavilla, stazionavano i gabellieri. Quest’ultimi, preposti al controllo delle merci sia in entrata che in uscita, oltre che applicare i dazi preposti, sorvegliavano il flusso e il deflusso degli abitanti, impedendone l’ingresso agli indesiderati. L’importanza di queste strutture era tale che persino la larghezza dei traini era regolamentata seguendo l’ampiezza dei varchi.

Spettatrici di avvenimenti quotidiani quanto di fatti cruenti e sanguinosi, le porte urbiche furono testimoni anche di momenti di giubilo: il 29 marzo del 1740, fra due ali festanti, varcò la soglia di Porta del Carmine, il corteo proveniente da Roma con la principessa Eleonora Borghese, nuova consorte del principe Michele IV Juniore: “con lo tiro a sei, da 40 carrozze a un solo tiro, con una bellissima cavalcata di duecento para di cavalli avanti, con una Infanteria di Libardieri, […]appresso poi da 200 contadini armati sotto lo capitano Scilazza, Alfredo Carlo Di Noi, ricevendola dalla Porta sino alla piazza, sotto una bella e sontuosa Archiata fatta da Core di Donna”.

 

BIBLIOGRAFIA

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D. Camarda, Il terremoto del 20 febbraio 1743 a Francavilla e nell’area del basso Ionio, Francavilla Fontana 1997.

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M.C. Forleo, Da quelle antiche voci: Francavilla Fontana. I suoi uomini, la sua cultura, Schena editore, Fasano 1988

G. Martucci, Carte topografiche di Francavilla Fontana, Oria e Casalnuovo del 1643 e documenti cartografici del principato Imperiali del secolo XVII, S.E.F., Francavilla Fontana 1986.

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P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, 1901.

Libri| Zia Valeria. Lettere ai giornali e appunti di viaggi

 

“Zia Valeria”, l’ultimo libro del salentino Rocco Boccadamo, recensito da un altro salentino (lombardo d’elezione), Paolo Rausa

di Paolo Rausa

 

Conoscendo Rocco Boccadamo di Marittima (Le), ridente località del Sud Salento a ridosso sul mare, a strapiombo sul fiordo suggestivo di Acquaviva, c’è da star sicuri che questo non sarà l’ultimo suo libro di pescatore di perle, o ragazzo di ieri come ama definirsi lui, giovane di bella età in cui tutto è permesso, finanche di volare ma sempre con i piedi ben piantati nel suo paesino natale. Che dico? Nel suo quartiere, nel nucleo costitutivo dell’aggregato rurale che tradisce nel suo nome la vocazione marinaresca. E Rocco è marinaio, di terra però. Se può esserci un nauta che tocca terra ma che vive nell’alto mare dei ricordi, nelle tempeste e nelle gioie della vita come una navigazione di cui si è certi solo del porto di partenza. Infatti, nulla si sa della vita, come per ognuno di noi. Le sue mosse partono da lui infante, circondato dall’amore dei genitori, dei parenti, di tutto il vicinato, che lui enumera e snocciola, nome per nome, età, professione in bilico tra la terra e il mare, grado di parentela, i figli che scappano come lui al Nord per cercare fortuna, però qui hanno piantato le radici che germogliano ma che ricevono alimento e sostanza dal cuore e dalla mente persa nel passato e rivolta al futuro, quasi come fotocopia. Non immagina Rocco una vita senza le carezze della madre, per quanto lo abbia lasciato giovinetto, e se anche si bea delle carezze della nidiata dei nipoti, Rocco resta sempre figlio della sua terra e di sua madre che vigila e lo attende d’estate o nei periodi delle feste natalizie a casa, all’Ariacorte, dove brulicava la vita primordiale di un centinaio di anime, ora quasi spenta. Rocco si fa figlio della propria terra, diventa cantore, “raccontastorie” o “cuntacunti” alla dialettale, rievoca le battaglie non davanti alla Porte Scee ma nel suo nucleo primordiale vitale che assurge ad ombelico del mondo. La compostezza di Rocco si espande grazie alla memoria, alla descrizione minuziosa dei particolari, alla genealogia dei suoi conterranei che hanno condiviso con lui le stradine del paese e la resistenza alla miseria, che hanno imparato a percorrere le strade della dignità come strumento non per conseguire la gloria omerica, ma per esaltare la semplicità della vita nei campi, virgiliana, fatta di tenacia e di umiltà, che ora sta per soccombere. Ecco allora che tutti i personaggi sono evocati da Rocco che, dopo il suo peregrinare in tutta Italia da sede a sede nella sua attività da bancario, ritorna al suo paese, sedotto come la prima volta quando è ritornato da Monza, e poi da Firenze, Taranto, Messina, Lecce, alla sua villa ‘La “Pasturizza”, dove la terra è “mara” e “nicchiarica”, come dice il poeta. Che non morirà mai finché ci sarà il suo cantore in vitam che esalta i particolari, gli attrezzi che ritornano a chiamarsi come un tempo. Divelta la lingua italiana estranea, quegli oggetti vivificano sotto i suoi e i nostri occhi, per un momento riacquistano vita come per essere reimpiegati. Ma l’illusione si ferma qui. A Rocco basta denominarli, secondo il linguaggio antico, e insieme a loro anche i protagonisti, oscuri di natali, ma eroici per aver resistito a un destino difficile, tuttavia non privo di affetto nel richiamo dei nomi propri personali, i Vitale, i Costantino e la zia Valeria, la piccola della famiglia materna, lei che assicura la continuità di una stirpe e di un popolo stampigliato sulle carte in modo che tutti rimangano impressi per non morire mai. Il libro è impreziosito dalla prefazione di Ermanno Inguscio e dalla postfazione di Raffaella Verdesca. Spagine, Fondo Verri edizioni, Lecce, 2019, pp. 162,  € 10,00.

 

L’Arcadia salentina (Tommaso Perrone, Ignazio Viva, Pasquale Sannelli, Pietro Belli e Lucantonio Personè) e la peste di Messina (2/2)

di Armando Polito

Passo ora ai tre arcadi rimasti fino ad ora, almeno per me, sconosciuti.

Il primo è PASQUALE SANNELLI del quale, sotto il nome pastorale di Alfenore (probabilmente dal nome di uno dei compagni di Ulisse in Ephemeris belli Troiani, traduzione fatta nel IV secolo d. C. da Lucio Settimio di un’opera, perduta, scritta in greco da Ditti Cretese, autore del III-II secolo d. C.) sono riportati due sonetti (A e B), rispettivamente alle pagine 54 e 57.

A

Questa, che ricomporsi al fasto usato

e riprender l’onor d’alta Reinaa

del Sebetoa si mira alla vicina

sponda, è l’Italia; e tien fra ceppi il Fato.

Dal suol più adustob, e fin dal mar gelato

ciascun’Abitator sua gloria inchina.

Ceda il Trace, o s’aspetti alta rovina,

se non compie l’onor, che gli altri han dato.

Sì gran sorte serbata al secol nostro

fu per Carlo dal Ciel. Carlo ripose

lei c i nel suo stato del primier valore.

Or se industre scalpello e dotto inchiostro

serbano ad altre Età l’opre famose,

godrà l’Italia d’eternar suo Onore.

___________

a Vedi la nota b del componimento precedente.

b caldo; dal latino adustu(m)=bruciato.

c l’Italia

 

B

Mille cignia sublimi e mille Ingegni

volgan lor penne alla grand’opra e l’arte,

che più che ‘n marmi ad eternarla in carte

tutti ha mossi l’Idumeb i suoi disegni.

D’Orfeoc, d’Omerod in vece, i non men degni,

che onora il secol nostro in questa parte

faccian le Imprese del novello Marte

illustri e conteea’ più remoti Regni.

Io, cui fu il Ciel sì d’arte e ingegno avaro,

che non ispero aver dell’alta fronda

ornato il capo, e gir con quelli a paro,

son pur pago che Apollo ad essi infonda

tanta virtù per Carlo, ond’Ei sia chiaro

del nostro Idumef alla sinistra spondag.

___________

a poeti

b Vedi la nota a del componimento precedente.

c Mitico cantore che col suono della sua lira ammansiva le belve.

d L’aedo dell’Iliade e dell’Odissea.

e note

f Il nesso sembra  un ricalco dal verso iniziale (Del re de’ monti alla sinistra sponda) del petrarchista Angelo Di Costanzo (XVI secolo), che, a sua volta, può essersi ispirato, con le dovute differenze di situazione al ponsi del letto in su la sponda manca (Petrarca, Canzoniere, CCCLIX, 3)

g Vedi nella prima parte la nota b al secondo componimento di Tommaso Perrone.

 

Il secondo è PIETRO BELLI (1680-1750 circa), del quale a p. 79 è riportato l’epigramma in distici elegiaci che fra poco leggeremo, mentre la nota 1 recita: Patrizio Leccese, detto tra gli Arcadi Ario Idumeneo … ci ha fatto avere il presente suo purgatissimo  Componimento, posto nel presente sito, non perché questo sia il suo propio [sic, ma la forma in passato era in uso anche in testi a stampa] luogo, ma solamente perché ci perviene in questo medesimo istante, nel quale il nostro Stampatore cerca por fine alla Stampa della presente Raccolta. Nonostante qui il Belli sia utilizzato come tappabuchi, debbo dire che non mi pare affatto un intruso, perché, come vedremo, l’epigramma riguarda sempre Carlo Borbone, con riferimento alla sfera personale non privo di valenza pubblica. Prima di passare alla lettura dell’epigramma debbo dire che il Belli fu il traduttore dell’edizione napoletana per i tipi di Parrino del 1731 (testo abbastanza raro, tant’è che l’OPAC ne registra solo dieci esemplari, di cui uno custodito nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò) del Syphilis sive de morbo gallico di Girolamo Fracastoro. Il volume reca la prefazione di Giambattista Vico, preceduta  dalla dedica del Belli a Monsignor Ernesto de’ Conti di Harrac Uditore della Sacra Ruota Romana. Tuttavia, a proposito di quest’ultima  Carlantonio De Rosa marchese di Villarosa nell’edizione da lui curata degli  Opuscoli di Giovanni Battista Vico, Porcelli, Napoli, 1818, a p. 7 in nota 1 scrive:  Quantunque la presente dedica si vegga impressa col nome del traduttore del Poema Pietro Belli, pure da uno squarcio di essa da me ritrovato fra le Carte del Vico deducesi esserne costui stato l’Autore. Ed oltre a ciò dallo stile, e dalle cose che contiene tutte uniformi ai pensieri del Vico, chiaramente si scorge averla egli distesa interamente. E a p. 327 ulteriormente precisa:  Il Signor Pietro Belli gentiluomo Leccese fu dotato a sufficienza di beni di fortuna, ed avendo contratta stretta dimestichezza con Vico l’aiutò bene spesso in urgenti bisogni … Grato il Vico al suo benefattore, ed amico si assunse la cura dell’edizione corredandola di una sua Prefazione, e distendendone anche la Dedica, del che io sono stato assicurato, avendo fra le Carte autografe di Vico ritrovato anche il principio di tale lettera dedicatoria scritta di suo carattere. Tradusse il Belli anche il Satyricon di Petronio, e scrisse molti altri Poetici Componimenti, le quali produzioni sono ite a male. Morì verrso la metà del secolo passato.

Per quanto riguarda il nome pastorale, se Ario potrebbe essere dal latino Ariu(m), a sua volta dal greco ᾿Αρεύς (leggi Arèus), nome di due re di Sparta (meno bene, perché poco confacente ad un arcade, dal greco  Ἄρειος, leggi Àreios, =di Marte, marziale, Idumeneo è certamente connesso con Idomeneo per quanto detto nella prima parte nella nota b al componimento A di Tommaso Perrone.                                                                                

Praesagium

Ad Amaliam

Da Natum Mundo tandem, Regina precanti,

cum Patre, qui regnet, iam seniore, senex.

En quot  regna fili Pater,et quot sceptra paravit,

et quot, vincendis hostibus, arma parat.

Nascere, parve Puer, sed maximus inde futurus,

nascere cunctorum maxime, Patre minor.

 

Presagio

Ad Amaliaa

Dà, di grazia, o Regina, un figlio al mondo che lo chiede,

che regni vecchio insiemecol padre ancora più vecchio.

Ecco quanti regni e quanti scettri del figlio il padre ha apprestato

e quante armi prepara per vincere i nemici!

Nasci, fanciullo piccolo ma destinato poi a diventare grandissimo,

nasci, o il più grande di tutti, minore del padre.

_____________

a Amalia di Sassonia (1724-1760), moglie di Carlo, regina consorte di Napoli e Sicilia dal 1738 al 1759 e di Spagna dal 1759 fino alla morte.

 

L’ordine di entrata, dicono, è importante e il primo e l’ultimo posto sono i più ambiti; per questo chiudo con l’ultimo arcade ritrovato, mio compaesano, LUCANTONIO PERSONÈ di Nardò, che va ad unirsi ad Antonio Caraccio, del quale mi sono occupato a più riprese1. E, per fare le cose come si deve, riproduco in formato immagine il suo componimento.

DI D(ON) LUCANTONIO PERSONÈ

Barone di Ogliastroa, tra gli Arcadi

Alcinisco Liceanitideb

 

Menic i giorni ciascun lieto e sereno

più che non feo nell’aurea età d’Augustod

il Popol di Quirinoe omai vetustof,

della cui gloria il vasto Mondo è pieno.

Poiché sul Trono del sicano adustog,

di Partenopeh bella accolto in seno,

regna il gran Carlo di virtù ripieno

e di trionfi e d’alte spoglie onustoi.

E tempo è già che la Regal Sirena

rimembril i pregi avitime il priscon usatoo

verso ripigli col suo dolce canto,

or chè rimbomba in questa Piaggiap amena

il nome del gran Carlo in ogni lato,

fugati i mali, e già sbanditoq il pianto.

____________

a Antico feudo di Nardò. Vedi Marcello Gaballo, Vicende della masseria e del feudo di Ogliastro in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/28/vicende-della-masseria-e-feudo-diogliastro/

b Per Alcinisco il riferimento potrebbe essere al greco Ἀλκίνοος (leggi Alkìnoos)=Alcinoo, il mitico re dei Feaci, con aggiunta del suffisso diminutivo -ίσκος (leggi –iscos); Liceanitide potrebbe essere connesso con il greco Λύκειος (leggi Lùkeios)=della Licia, epiteto di Apollo.

c trascorra                                                                                                                                                            

d più di quanto fece durante l’età dell’oro al tempo di Augusto 

e il popolo romano; Quirino era il dio romano protettore delle curie.

f vecchio

g siciliano bruciato (dal sole). Per sicano vedi nella prima parte la nota t al primo componimento di Tommaso Perrone; per adusto vedi anche la nota b al primo componimento di  Pasquale Sannelli.   

h Metonimia per Napoli. Partenope era una delle tre sirene (le altre erano Ligeia e Leucosia) che si suicidarono buttandosi in mare e tramutandosi in scogli, perché battute nel canto da Orfeo secondo una tradizione, per non essere riuscite ad ammaliare Ulisse secondo un’altra. Ad ogni modo, Partenope finì alla foce del Sebeto e lì sarebbe stata fondata Napoli.

i carico

l ricordi

m degli avi, antichi

n antico

o abituale

p paese

q messo al bando, esiliato

 _____________

1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/07/antonio-caraccio-di-nardo-e-le-sue-ecfrasi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/13/larcadia-salentina-tommaso-perrone-ignazio-viva-pasquale-sannelli-pietro-belli-e-lucantonio-persone-e-la-peste-di-messina-1-2/?fbclid=IwAR36ToHbAWsBK3BlP0zscMfqWEStp6PD5hmmZX4DT-vcMXV_1eWFBrvMLdI

Coronavirus. Situazione al 14 aprile 2020

di Nazareno Valente

A livello nazionale la situazione epidemiologica non è delle migliori:  l’incremento percentuale dei contagi non scende significativamente, com’era nelle aspettative, visto il distanziamento sociale imposto alla popolazione. Chiaro segnale che l’esecutivo non ha saputo accompagnare le limitazioni fissate con una strategia in grado di farci superare le secche d’una situazione stagnante. I Contagi giornalieri, pur in leggera diminuzione, non fanno infatti che fluttuare ormai da tempo attorno alle 3.000/4.000 unità, restando ancorati ad un plateau la cui fine non s’intravede.
Decisamente migliori i dati clinici, in considerazione che sta diminuendo il numero dei ricoverati in terapia intensiva.
A livello regionale la situazione non s’è molto modifica, anche se i centodue casi positivi riscontrati nella casa di riposo “Il Focolare” di Brindisi non sono un buon segnale. Malgrado ciò l’epidemia sembra poter essere contenuta.

Lecce: quando l’Accademia degli Spioni si schierò contro quella della Crusca

di Armando Polito

Non posso fare a meno di fare a meno, scusate il gioco di parole, della famigerata premessa, ma prometto, augurandomi di mantenerlo, che essa sarà veramente breve. Lo faccio introducendo il vero protagonista di questa storia, cioè il senese Girolamo Gigli (1660-1722): professore di eloquenza all’Università di Pavia dal 1698 al 1708 (si capirà a breve perché lo fu per un solo decennio …), socio delle due più prestigiose accademie di quell’epoca e non solo: l’Arcadia (nella quale ebbe lo pseudonimo di Amaranto Sciaditico) e la Crusca, nonché di altre d’importanza, per così dire, locale: quella degli Intronati di Siena (con lo pseudonimo di Economico), degli Accesi di Bologna e dei Timidi di Mantova, il Gigli fu un letterato i cui punti di forza erano l’arguzia e l’ironia. La vera ironia, tuttavia, è quella che ciascuno manifesta nei propri confronti, il che è forse l’unico modo serio per non prendersi troppo sul serio. Così Girolamo, dopo aver tartassato il bigottismo in Il Don Pilone, ovvero il bacchettone falso (commedia rappresentata a Lucca nel 1711, pubblicata nel 1721), non risparmiò frecciate all’indirizzo della sua stessa famiglia in L’avarizia più onorata nella serva che nella padrona ovvero la sorellina di don Pilone (rappresentata nel 1708 e pubblicata nel 1721) e sistematicamente tra il 1712 e il 1714 le ridicolezze del suo tempo negli Avvisi ideali o Gazzettino.

La premessa che ho annunziato non sarebbe più breve se dovessi citare innumerevoli altre opere del Gigli e non andare direttamente alla pietra dello scandalo: dopo aver curato la pubblicazione di alcune opere di S. Caterina da Siena, da esse egli trasse il Vocabolario cateriniano sostenendo la superiorità del senese sul fiorentino. Si attirò, così, i fulmini della Crusca, che lo espulse, e la pubblicazione del Vocabolario si interruppe nel 1717 alla lettera R (già nel 1708 per lo scalpore suscitato dal Don Pilone aveva dovuto rinunciare alla cattedra universitaria) e il libro venne condannato al rogo. Ecco cosa si legge, annotato a penna, su un esemplare superstite del 1717.

(Questo libro pieno di facezie, e motteggi contro l’Accademia della Crusca, de’ Fiorentini, e d’altre Persone di qualità, e forse di chi ci governa, e regge, non solo a Roma fu proibito per Decreto del Maestro del Sacro Palazzo del 21 Agosto 1717, ma bruciato per le mani del Boia nel dì IX Settembre dell’istesso Anno al Bargello a suono di Campana; oltre l’essere stato l’Autore raso a pubblica voce da 40 Accademici della Crusca a ciò adunati la mattina de’ 2 Settembre di detto mese d’ordine del Serenissimo Principe di Toscana Protettore della predetta Accademia; e l’Autore esiliato da Roma per 40 miglia)

Analogo destino subirà poco dopo Il Don Pilone con decreto del 7 febbraio 1718. Ma andiamo avanti.

Correva il 1° gennaio 1720 e da Lecce partiva la missiva che riproduco integralmente, dopo l’antiporta e il frontespizio del volume I, da Collezione completa delle opere di Girolamo Gigli, All’Aia, 1797, v. II, pp. CLV-CLVII.

La lettera reca la firma di Girolamo Palma, Salvador Perrone ed Ignazio Viva, tutti dell’accademia leccese degli Spioni o Speculatori1. In particolare va detto che un dettaglio accomuna Ignazio Viva2 a Girolamo Gigli: anche lui fu socio dell’Arcadia col nome pastorale di Verino Agrotereo, il che ne fa il più coraggioso dei tre3.

_________

1 Per saperne di più vedi Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 150-15 e L’ Accademia degli spioni di Lecce, sua origine, progressi, e leggi: dove si fa menzione nommen de’ viventi, che de’ morti accademici, fondata l’anno 1683 dedicata da Oronzio Carro vicesegretario della medesima al glorioso martire di Cristo, patrizio, e primo vescovo di Lecce, S. Oronzio, Chiriatti, Lecce, 1723 (ristampa anastatica  a cura di Giuliana Iaccarino, Eurocart, Casarano, 2000); Raccolta di componimenti de’ signori accademici Spioni di Lecce composta in occasione della natività del serenissimo primogenito reale infante don Filippo. Intitolata alla maestà di Carlo Borbone dall’illustrissimo signor don Domenico Maria Guarini patrizio, e general sindaco della città di Lecce, Viverito, Lecce, 1747.

2 Per saperne di più vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/

3 Dell’Arcadia era socio dal 1715 Tommaso Perrone, pure lui di Lecce (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/), ma non so se di Salvatore fosse parente e tanto meno di che grado.

 

L’Arcadia salentina (Tommaso Perrone, Ignazio Viva, Pasquale Sannelli, Pietro Belli e Lucantonio Personè) e la peste di Messina (1/2)

di Armando Polito

Della tragedia che si abbattè su Messina dal 20 febbraio 1743 fino al 23 febbraio 1745 (data in cui la città ricevette la certificazione dalla liberazione dal morbo dopo che erano passati nove mesi senza che si registrasse un solo caso di contagio) una relazione dettagliata è nella memoria di Orazio Turriano, della quale riproduco di seguito il frontespizio.

contagio a Messina

Com’era naturale, il flagello destò preoccupazione anche in continente e sul comportamento del governo centrale ecco quanto scrive il Turriano a p. 4: Lodevolissima intanto è stata la condotta del Monarca Carlo Borbone, e de’,suoi Ministri pietosissimi, che non solo scandalizzati non si mostrarono per lo fatal’avvenimento di Messina, ma più tosto ritrassero motivo d’usar seco maggiore pietà, e compassione. La soccorsero a maraviglia, tantochè fu effetto, dopo il Divino aiuto, della reale Munificenza, il non essere rimasta totalmente distrutta come più appresso diremo.

Anche se il Turriano ricopriva la carica di segretario della città e la mia diffidenza nei confronti dei gestori del potere (dal più al meno importante nella scala gerarchica, anche, forse soprattutto, nel settore burocratico) rimane sempre attiva, tuttavia, debbo credergli sulla fiducia, non avendo da esibire prove in contrario.

Se, dunque, il sovrano verosimilmente si preoccupava dei sudditi e si occupava dei loro bisogni (oltretutto il duplice cordone sanitario per impedire che l’epidemia si diffondesse in Calabria funzionò), altrettanto si può dire dei sudditi, almeno quelli leccesi, nei suoi confronti. Infatti il sindaco dell’epoca, Angelo Antonio Paladini in nome della città aveva offerto al sovrano ed a tutta la casa reale di ricoverarsi in Lecce, come Città, che con tutta la Provincia, sotto la Protezione del Gloriosissimo S. ORONZO Primo Vescovo di Lecce, era stata sempre esente dal morbo contagioso, come si legge in un rapporto sulla risposta del sovrano stilato da Francesco Saverio De Blasi Consolo dell’Accademia dei signori Spioni di Lecce a nome della medesima ed indirizzato al sindaco. Tale rapporto, del quale di seguito riproduco il titolo, è all’inizio del secondo volume del Saggio istorico della città di Lecce di Pasquale Marangio, uscito a Lecce per i tipi di Marmi nel 1817 e ristampato da Giuseppe Saverio Romano, sempre a Lecce, nel 1858.

 

Il volume è importante perché una sezione intitolata Componimenti in loda di S. Maestà l’invittissimo Carlo Borbone Re delle due Sicilie comprende versi di autori salentini, tra i quali alcuni soci conosciuti della famosa accademia romana dell’Arcadia (che era stata fondata nel 1690) ed altri molto probabilmente ignorati fino ad ora non solo da me, tanto più che il loro nome non compare in nessuno dei cataloghi della detta accademia. Certo, avrei preferito parlare di loro ad integrazione, sempre provvisoria, della collana Gli Arcadi di Terra d’Otranto  fin qui pubblicata in 20 puntate su questo blog, non in coincidenza della tragedia sanitaria che stiamo vivendo; ma le poesie che presenterò, in cui la celebrazione del sovrano prende quasi il sopravvento sulla tragica esperienza di quel tempo col riferimento, direi apotropaico, a s. Oronzo, possano essere di buon, anzi migliore auspicio per tutti, ma in particolare per coloro che invocano l’aiuto divino dopo aver violentato l’ordine naturale delle cose.

Comincio da TOMMASO PERRONE, del quale, nell’ambito della collana citata, mi ero già occupato in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/. 

Le pagine 50-53 e 59 ospitano di lui, rispettivamente,  un carme (A) ed un sonetto (B).

 

A

Questa, che miri ogn’or memoria Augusta

e tanto al suo splendor chiarore aggiunge,

città, che l’ortoa da Malenniob avesti.

è ben dover, c’alla futura etade

passi de’ Figli tuoi. Perché i tuoi Figli,

premendo l’ormec de’ Maggiorid  loro,

sieguanoe ad illustrartif in ogni tempo.

Che bel misto di glorie in lei traluce!

Glorie, che vanno a terminare al Santo

tuo Difensorg da questa Terra al Cielo,

ad emularh quella verace gloria,

ond’Eii fruisce in sì stupende guise.

Il tuo gran Santo ha in Ciel la gloria vera,

che gli cagiona la vision di Dio,

vista soave, che Beato il rende

pe ‘l diffuso piacer, che sempre abbonda.

__________

a nascita

b Secondo la tradizione, discendente di Minosse, fondò Lecce. Ebbe un figlio di nome Daunio e una figlia, Euippa, che andò sposa ad Idomeneo re di Creta.

c seguendo l’esempio

d antenati

e continuino

f darti fama

g S. Oronzo, protettore della città.

h tentare di uguagliare

i Egli (s. Oronzo)

 

Ved’egli Dio, com’è in sè stesso. Vede,

che l’unità della Divina essenza

non contraddica all’esser Uno, e Trino.

Vede ingenito il Padre ed il Figliuolo

dal solo Padre generato e d’Ambo

(come da un sol Principio) procedente

lo Spirtossantok e tutto quel che sempre

a lui dispensa della gloria il lume

in quell’abisso d’infinito Bene.

Ma dalla Terra ha un’altra gloria il Divol,

gloria, c’accidental da noi si noma.

Nasce da quell’onor, dal sacro culto,

c’assi di lui, da’ Templi e sacri Altari,

dalle Colonne, dagli Archi e Colossi

eretti al nome suo: da’ dì festivi

a lui sacrati, dalle molte cere,

da’ lieti fuochi, da’ notturni lumi,

c’ardon per lui, dalle diverse lodi

che gli si danno e dall’immenso Stuolo

c’accorre ad onorarlo. Ei tutto accoglie

in lieto aspetto, e ne dimostra i segni

dal Ciel, donde largisce in copia i doni.

Quindi, se Iddio, per vendicar le offese

che l’uomo ingrato ogn’or gli fa peccando,

scuota la terra, ovver di strage l’empia,

che dal contagio, o dalla guerra nascam,

Ei supplice lassù, pregando, il placa

____________

k Ricorre, invece di Spirito Santo (quasi una resa grafica del concetto di uno e trino), anche in opere in prosa dei secoli scorsi. Qui, però, la scelta era obbligata per motivi metrici.

l divino (S. Oronzo).

m Viene qui ripresa la concezione medioevale del Dio punitore con sciagure di ogni tipo.

 

in tuo favore; e tu sicura osservi

da lungi il colpo dell’ultriceo destra

altrove con furor di già vibrato.

S’avvien che il Ciel da lungo tempo nieghi

l’umor vitalep alle tue piante e accorri

divota all’Ara a lui sacrata, tosto

benigno manda lor l’attesa pioggia.

Se mai le mandre del tuo gregge assalga

spiacevol morbo, che le uccida, basta

che tu le segni con fiducia ferma

del pingue umorq che dalle olive spremi,

che sempre arde in su’ onor presso l’Altare,

e in simil guisa ne riporti lieta

grazie, e favori allor, c’a lui ricorri.

Ma la parte miglior di questa gloria,

c’or dalla Terra al tuo gran Santo ascende,

è quella, che dal Regio onor diriva.

Il Re, accogliendo con pietoso affetto

l’Olio del Santo in auree Ampolle accolto,

che il provido tuo Padre  in don gli porse,

baciolle e in sacri accenti il labbro sciolse,

per onorarlo, in sì divote forme,

che degli Astantir umoris dagli occhi estrasse,

allor che parte del Sicaniot suolo

era di peste nel malore involta.

E a te si espresse, che se il mal seguisse

ad infestar questo bel Regno, il seno

 ____________

o vendicatrice

p la pioggia

q l’olio, simbolo della grazia divina (oleum divinae gratiae)

r presenti

s lacrime

t siciliano; i Sicani, insieme con i Siculi e gli Elimi errano antichi popoli della Sicilia.

 

del tuo ricinto ad onorar verrebbe,

come di tanto mal sicuro asilo.

Or chi sa dunque se invitato e mosso

dall’innata pietà, che in lui risplende,

non porti il culto del tuo Santo dove

bagna il Betiu, la Vistolav e Garonnaw,

non che al vicin suo Regno di Trinacriax?

O chi sa ancor, che non l’avesse un giorno

per la Città Regale, ov’Ei dimora,

ad ottenere in suo Padrone, e Donnoy,

che ben può farlo? e sì a tal gloria aggiunga

gloria maggiore, a sè medesmo ancora?

Ma chi di sì bel fatto e sì bell’opra

ne porta il vanto? Egli è il tuo Padre, e Duce,

che ti governa, e regge. Il Duce, e Padre

è quegli, c’or da Sindaco presiede,

vegghiando in tuo vantaggio. Ei basta solo

che sia dal sangue Paladinz disceso,

per dir che sia di nobiltade adorno.

di generosi spirti, di prudenza,

di senno, di valore e di pietade.

Viva egli dunque il tuo gran Santo in Cielo.

Viva egli in Terra dentro il cuor di Tutti,

e nella lingua. Viva il tuo gran Rege,

che tanta gloria a Lui divoto accresce

e di tal gloria la cagion pur viva.

_____________ 

u Fiume della Spagna; da Baetis, nome latino del Guadalquivir.

v Il principale fiume della Polonia.

w Fiume della Francia.

x Sicilia. Trinacria è l’antico nome, dal greco τρινακρία (γῆ)=(terra) a tre punte.

y signore, dal latino dominu(m).

z La nobile famiglia Paladini, della quale parecchi rappresentanti eccelsero nelle armi (d’altra parte, con quel cognome, sembravano predestinati …)

 

B

Sia principio il gran Carlo, e fine al canto

di nostre rime, o bei cignia d’Idumeb.

Da lui prendiam, nel dir, vigore e lume,

che largo spande oltre i confin del vanto.

Cantiam com’Ei, divoto al nostro Santoc,

renda più Santo il suo Regal costume,

poiché, qual fiamma, ch’altra fiamma allumed, accresce a sua pietà pietade ahi quanto!

Per ciò, benigno, a noi volgendo il petto,

le prove del suo amor ne ha rese contee.

Or quale onor può compensarlo appieno?

Escano a schiere dall’ondoso letto,

e ‘l Regio piè per noi gli bacin pronte

Ninfe e Tritonif onor del bel Tirreno.

____________  

a poeti

b Fiume leccese; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/18/alle-fonti-dellidume-idronimo-inventato/

c S. Oronzo

d illumina; francesismo, da allumer.

e cognite, note.

f creature fantastiche, metà uomo e metà pesce.

 

Passo ora ad IGNAZIO VIVA, integrando quanto già registrato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/

Alle  pagine 62 e 93 ii due sonetti (A e B) che seguono.

A

De’ più be’ fiori ornando il crine, e ‘l seno

surge il Sebetoa in fra gli eletti cori

dell’Almeb Ninfe e in mezzo alli splendori

di CARLO passa al mar lieto, e sereno.

Mira intorno le sponde del Tirreno

cinte di Palme, e di veraci Allori;

mira de’ Gigli d’oroc i nuovi onori

sul Po, la Dorad, e sulla Mosae e ‘l Renof.

Mira di CARLO il forte invitto Brando,

che strinse in sua difesa, e per suo vanto

là sul Tebrog in quel Giorno memorando.

Poi si riposa dolcemente a canto

(l’alte Ghirlande dell’Eroe membrandoh)

all’ombra del Reale inclitoi Manto.

 _____________

a Fiume di Napoli.

b che danno vita

c I tre gigli dello stemma.

d Nome generico di due affluenti del Po (Dora Baltea e Dora Riparia).

e Fiume che nasce in Francia e scorre attraverso il Belgio e i Paesi Bassi.

f Tra i più lunghi fiumi europei, attraversa sei stati (Svizzera, Liechtenstein, Austria, Germania, Francia, Paesi Bassi).

g Tevere, dal latino Tibri(m). Allude ai fatti primavera del 1736, quando una serie di gravi abusi commessi a Roma dagli arruolatori napoletani e la violenta reazione popolare portarono a un punto di rottura i rapporti con la Chiesa: ne seguirono l’espulsione del nunzio da Napoli e duri provvedimenti militari contro le popolazioni laziali dalle truppe spagnole di stanza nello Stato pontificio.

h illustre 

 

B

A S. Eccellenza il Signor Marchese di Salasa

 Non perché in te, Signor, l’alto splendore

del Nome Illustre è di sè pago e degno,

sdegnar tu dei che ogni divoto ingegno

del nostro Idumeb offra il suo puro Amore.

Non giugnec, è ver, tanto alto un parco onore

del nostro umile Amor verace segno;

ma pur si appaga di un sincero pegno

di rispetto, e di fede il tuo gran Core.

Movesi il bel desiod che ne conduce

a spiegar l’opre eccelse e in van fa mostra

di giugnere là dove Virtù ti adduce.

Ma godiamo in pensar che l’età nostra,

or che di Astreaf tu sei la guida e il Duce

coll’età degli Eroi si agguaglia, e giostrag.  

___________ 

a Giuseppe Gioacchino di Montealegre, Segretario di Stato e di Guerra.

b Vedi la nota b al componimento B di Tommaso Perrone.

c giunge

d desiderio

e giungere

f Dea greca dell’innocenza e della purezza. Scesa sulla terra nell’età dell’oro, diffuse i sentimenti di bontà e di giustizia ma, disgustata dalla degenerazione morale del genere umano si rifugiò nelle campagne e sopraggiunta l’età del bronzo, scelse di ritornare in cielo dove oggi risplende nell’aspetto della costellazione della Vergine

g gareggia

Nella seconda parte passerò in rassegna gli arcadi salentini dei quali fino ad ora ignoravo l’esistenza, anche se, ribadisco, sarebbe stato opportuno che ben altre circostanze me ne avessero propiziato la “scoperta”. L’augurio è che, tra voglia di conoscere, tenacia, intuito, circostanze magari fortuite ma fortunate ben altri ricercatori giungano presto a conoscere completamente ed a consegnare, cancellandola, alle pagine della storia della medicina la minaccia che incombe.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/16/larcadia-salentina-tommaso-perrone-ignazio-viva-pasquale-sannelli-pietro-belli-e-lucantonio-persone-e-la-peste-di-messina-2-2/?fbclid=IwAR1TWkuUrfKzk5EXpPV2Hjtgu_rMgAPOcbrkTYcxqQaeMzgUpiZMrdgi65Q

Coronavirus. Situazione all’11 aprile 2020

di Nazareno Valente

 

Il nostro Paese mantiene il triste primato delle vittime causate dal virus (18.849) e del più alto tasso di letalità (12,77%).
A livello nazionale sembra attenuatosi l’incremento percentuale dei contagi attestatosi oggi 10 aprile al 2,75%. Buone notizie arrivano anche per altri valori quali i ricoverati in strutture ospedaliere ed in terapia intensiva, in diminuzione significativa negli ultimi giorni. A livello regionale la curva epidemica dei contagi  segna un incremento del 3.42% . In aumento il tasso di letalità (8,47%), che risulta il più alto tra le regioni del Sud; si mantiene consistente il numero dei test effettuati (mediamente sui 1.500 al giorno).

Stupore

Pietro Bellotti (1625 – 1700), Autoritratto (Gallerie Accademie di Venezia)

 

di Pier Paolo Tarsi

Mi stupisce ogni volta questa natura indeterminata e magmatica delle cose che più avremmo bisogno di conoscere ma che meno ammettono misure assolute.

Un nostro comportamento adeguato, il più bello e virtuoso che possiamo immaginare, trascolora inevitabilmente nel suo contrario: accorgersi del limite prima che ciò accada è, ogni volta, il solo indice di un saper vivere.

Non è facile per chiunque essere per ogni occasione un buon sarto dei propri abiti.

Una reazione comprensibile diviene accanimento, un atteggiamento scherzoso diventa irritante, la serietà, da necessità, può scivolare nell’ottusità, l’altruismo diviene cappio dell’altro; ancora, ora occorre essere fedeli ai propri progetti per dare consistenza alla propria autodeterminazione, per il raggiungimento di un qualche scopo, poi, in un momento difficilmente identificabile ma che bisogna pur riconoscere, ciò che accade intorno fa precipitare quella ferrea volontà in stupidità e miopia.

Cupertinum doc 2020, il giornale etico della Cantina di Copertino

Giunto alla nona edizione, quest’anno il giornale della Cantina di Copertino esce sotto il segno della speranza e dell’etica. Tra i contenuti principali: l’intervista a Mons. Fernando Filograna e a Don Giuseppe Venneri sul progetto Opera Seme; l’intervista a Barbro Guaccero, la stilista che ha valorizzato il vino di Copertino in Svezia; l’intervista a Guy Martin, uno dei massimi chef del mondo; l’intervista a Raffaele Casarano sul jazz e oltre; lo straordinario racconto di Rosario Tornesello sulla degustazione al buio con i campioni dell’Ascus Lecce; le foto di Raffaele Puce, creativo fotografo salentino; la presentazione del nuovo Copertino Doc e dell’etichetta con il disegno di Fra’ Angelo Rocca, monaco intellettuale cinquecentesco; il Glykòs, il passito che contiene il sole del Salento; il rosato Spinello dei Falconi e la sua eleganza mediterranea. Da segnalare anche la bella copertina, citazione e omaggio a Gianni Sassi, indimenticabile creativo e grafico.
Francesco Trono, presidente della Cantina, presenta nell’editoriale i contenuti che sottendono questo numero e il lavoro della Cupertinum: “’Rinnovare il lavoro in senso etico, significa rinnovare tutta la società, bandendo la frode e la menzogna, che avvelenano il mercato, la convivenza civile e la vita stessa delle persone, soprattutto dei più deboli’ ha detto Papa Francesco. La Cupertinum con tutti i suoi uomini e donne impronta la propria etica su valori quali la trasparenza e la cooperazione e, passando dall’esperienza della Cantina al mondo, per affrontare i problemi del nostro pianeta è per una visione etica di sistema. È quanto ci ha sollecitato a fare Papa Francesco con la sua enciclica: poiché tutto è legato e tutto è in relazione, serve una visione globale, una ecologia integrale, valorizzando i legami esistenti tra la sostenibilità ambientale e l’equità sociale, e nel quadro di uno sviluppo mondiale sostenibile.
Noi partiamo dalla concretezza di una realtà vitivinicola che ha ottantacinque anni e radici antichissime e vogliamo insistere sulla qualità dei prodotti e sulla valorizzazione territoriale, che passa anche dal turismo, dalla qualità della vita, dalla capacità di essere felici, dalla cura verso la terra che abitano.
Vogliamo mettere insieme innovazione, responsabilità, etica, speranza. La partecipazione a Opera Seme lo conferma: questo progetto diocesano che vuole, come dice il Vescovo Mons. Fernando Filograna nell’intervista: ‘tenere assieme commercio etico, rispetto per il lavoro e il territorio, e vuole anche presentarsi come un segno di speranza per chi crede che questo sia un territorio ricco di risorse e possibilità […] La vocazione agricola e turistica del nostro territorio, ricco di tipicità e di storia, fa da cornice al progetto. Ciò che si intende promuovere è una visione innovativa e sostenibile dell’esistente, che non tralascia – però – la memoria e l’esperienza’. In questo momento questi intenti assumo ancora più valore. Insieme ce la faremo!”.
Cupertinum doc. Il cuore del negroamaro si può trovare al punto vendita della Cantina, nelle migliori librerie di Lecce, nelle edicole di Copertino o richiedendolo a cupertinum@libero.it

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