La leggenda del “preti stroppiu” e altre storie di guarigioni di infermi nella tradizione della devozione alla Madonna di Pasano (Sava)
di Gianfranco Mele
“Ecco quel preti stroppiu:crazia ca li dumanda,
sanu ca lu rimanda e allecru, alla sua città!”
Questi, i versi recitati intorno al 1978 dalla anziana Giovanna Marino di Sava, all’epoca 91enne. Furono raccolti in occasione di una intervista condotta dagli associati al Gruppo Culturale Salentino di Sava, che si occupava di raccogliere informazioni intorno a tradizioni e storia del territorio, e apparvero in una pubblicazione ciclostilata.[1] Le “Note” del Gruppo Culturale Salentino, che venivano redatte e stampate a cadenza irregolare, venivano distribuite ad associati, amici e simpatizzanti. Questi ciclostilati erano composti di 25-30 pagine l’uno, e furono concepiti e distribuiti tra il 1977 e il 1979: non avevano numerazione e data.
I versi di cui sopra, tramandati oralmente di generazione in generazione, si riferiscono ad un “miracolo” operato dalla Madonna di Pasano nei confronti di un sacerdote del leccese; altri particolari di questa leggenda, li racconta Gaetano Pichierri in un articolo intitolato “La devozione alla Vergine di Pasano attraverso la lettura di due documenti del secolo scorso”. La storia è ripresa, nel caso del Pichierri, da una pubblicazione di anonimo del 1897, intitolata “I miracoli di Maria SS. Di Pasano”, stampata dalla tipografia D’Errico di Manduria.[2]
Non è chiara la datazione del presunto miracolo, ma secondo le ricostruzioni di Gaetano Pichierri è riferito al 1660 circa.[3]
Questa, la leggenda così come il Pichierri la riporta traendola direttamente dall’anonimo ottocentesco:
“Un sacerdote leccese, da gran tempo infermo e pieno di piaghe, menava amaramente i suoi giorni di vita. Quando in vision gli comparve adorna di folgoranti stelle una Nobile Signora che era appunto Maria Vergine di Pasano: lo sveglia, lo anima, lo incoraggia a farsi condurre al suo Tempio. Egli, pieno di gioia, si dispone con rassegnato spirito alla tanto desiata partenza. Lo adagiano su un legno, e giunti alla Cappella di Pasano, si prostra al privilegiato altare ove riacquista la salute. Rendendo infine grazie, mosso dal Divino Spirito Santo ne offrì due messe, facendo lieto ritorno alla patria sua, di cui restarono ammirati dal miracolo ottenuto”.[4]
In altro manoscritto ottocentesco, attribuito in parte all’ Arciprete Luigi Spagnolo, si legge:
“In uno dei paesi di là da Lecce si trovava da più anni in letto un sacerdote stroppio di mani, e di piedi, a cui comparendo la Beatissima Vergine di Pasano disse, che venisse a visitare la sua cappella di Pasano, che guarirebbe. Fattosi condurre il sacerdote ed inginocchiato avanti la sua Immagine, dopo aver pianto dirottamente ebbe la grazia, e celebrò messa nel suo altare, che tanto non avea potuto vedere”[5]
Di questa leggenda esisteva una rappresentazione pittorica, oggi purtroppo non più visibile.[6] Difatti, nel libello anonimo del 1897 vi è la descrizione di un grande quadro che si trovava “sul sommo della porta di entrata” della chiesa di Pasano, e che, a detta dell’autore dello scritto
“rappresenta due miracoli della Vergine di Pasano, l’uno, a destra di chi guarda, è quello di un uomo gettato in un pozzo; l’altro a sinistra, di un sacerdote del Capo”.[7]
La Madonna di Pasano come protettrice e guaritrice degli infermi ha una lunga tradizione miracolistica, documentata, tra l’altro, dai numerosi ex voto che sino alla fine dell’ Ottocento venivano posti ai lati dell’ altare maggiore, e consistevano nella riproduzione di particolari anatomici.[8] Di questa caratteristica, ci offre un quadro ancora il Pichierri, traendola dall’autore ottocentesco:
“La devozione a quella sacra immagine non era sentita solamente da parte degli abitanti del nostro paese, ma anche dei paesi circonvicini e di altri pure più lontani. Cosicchè le pareti del Santuario erano piene di ex voto per grazie ricevute. Ecco, a proposito, quanto si legge nell’elenco dell’autore anonimo: “A destra e a sinistra dell’ Altare Maggiore, una gran quantità di mani, di busti, teste, piedi di votivi tutti di cera vi sono appesi.”[9]
Degli ex voto anatomici di Pasano è scomparsa traccia, ma in alcuni testi di storia locale è fotografato e descritto un dipinto ex-voto dedicato alla Madonna di Pasano nella seconda metà dell’ Ottocento,[10] che rappresenta una savese, Maria Pesare “Romita” (= eremita, nella accezione di custode e abitante dell’eremo di Pasano) guarita dalla Madonna. Nell’ iscrizione si legge:
“Miracolo […] fatto a Maria Pesare Romita di questa Cappella, soffriva una spina ventosa a l’intero braccio per lo spazio di anni 24 …”.
Nel manoscritto dello Spagnolo si raccontano diversi “miracoli” operati dalla Vergine di Pasano, tra cui quello, più noto, dello “schiavo”[11], quello di un uomo scampato a una lapidazione per intercessione della Madonna,[12] e quello di un giovane che, in punto di morte, fu portato dal suo genitore in Pasano e là miracolato:
“ … un divotissimo padre, vedendo boccheggiante il suo amatissimo figlio, tutto vivezza di fiducia verso la Vergine prende in braccio il moribondo suo pegno, parte improvviso, lo conduce in Pasano, su dell’altare lo sdraia; e dove col morto suo figliuol tutti si aspettavano vederlo ritornare, è ammirato con istupore di tutti, venire il suo fanciullo appiè seguito, ed accompagnato”.[13]
La Madonna di Pasano è ritenuta specialista nel guarire molti malanni e infermità, e anche nell’intervenire prodigiosamente nei confronti di calamità naturali[14]:
“Le apoplasie, le asme, le febbri, gli spasimi, le cecità, le stroppiature, e tutta quella serie di mali, che per il peccato del nostro progenitore inonda il gran mondo; i terremoti, le inondazioni, la mancanza d’acqua, l’insetti divoratori, i rettili velenosi, i fulmini, le saette, l’archibuggiate, o al tatto di qualcun de’ suoi voti, che pendono dalle sacre pareti alla gran Donna dedicati, o all’unzioni degl’ ogli delle sue lampade, o al religioso esercizio, o per l’usanza di mandare alla sua Cappella tredici verginelle, o alla sola interna invocazione del suo Sacro Santo Nome, retrocedono, e fuggono, e spariscono”.[15]
Note
[1]
Giuseppe Lomartire, Pasano ieri e oggi – vicende varie del Casale e del Santuario, in: Note del Gruppo Culturale Salentino di Sava, ciclostilato in pr., s.d.
[2] Anonimo, Dei miracoli e dei prodigi operati dalla Vergine SS. Di Pasano (opuscolo dedicato a Monsignor M.T. Gargiulo Vescovo di Oria), Manduria, 1897, pag. 13. Ho ripreso questa citazione di seconda mano, dal testo di Gaetano Pichierri, La devozione alla Vergine di Pasano attraverso la lettura di due documenti del secolo scorso, in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri, Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1994, pp. 206-209 (trattasi di raccolta postuma di articoli e saggi di G. Pichierri)
[3] Gaetano Pichierri, La devozione alla Vergine di Pasano, op. cit., pag. 206
[5] Luigi Spagnolo, Manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, s.d.. Il documento contiene in calce al frontespizio la scritta aggiunta “”Recitata da mio zio arciprete don Luigi Spagnolo di anni 18 essendo accolito nel seminario di Oria“, e in allegato 3 fogli contenenti la storia di Pasano e dei “miracoli” attribuiti alla Madonna, con citazioni e trascrizioni di passi di Domenico Antonio Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1686 al 1722), Alessandro Maria Calefati (Vescovo della Diocesi di Oria dal 1781 al 1793, anno della sua morte), Luigi Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1800 al 1828), Pasquale Cantoro Melle (che, da una annotazione dell’autore – nipote del Luigi Spagnolo, sappiamo morto nel 1790). Il manoscritto è conservato ad Oria nella Biblioteca De Leo ed è là censito con “data stimata: 1801-1900”.
Il faro di Torre San Giovanni rappresenta il sito più antico dell’intero villaggio e costituisce, oltre che un punto di riferimento terrestre e marittimo di grande utilità e importanza, anche una testimonianza dell’influenza che Ugento e il suo territorio esercitavano nel Salento.
La torre originaria voluta da Carlo V nel XVI secolo come sito di difesa contro i Saraceni, si trova su un piccolo promontorio proteso in mare che divide a metà la costa ugentina. A nord infatti, si estende la parte rocciosa, piuttosto bassa quasi ovunque, mentre a sud, oltrepassata la zona del porto, iniziano le splendide e celebri coste di sabbia bianca e finissima. Nel corso dei secoli, la sua funzione è mutata. Da torre di vedetta è diventata faro, per aiutare i naviganti che storicamente incappavano nelle pericolosissime secche, situate proprio in prossimità del segnale luminoso.
Attualmente è di proprietà della Marina Militare in quanto è sede della Guardia Costiera. Ai suoi piedi, oltre le mura messapiche, ogni anno a Natale viene allestito un piccolo presepe all’aperto. Nel periodo estivo invece, nella piazzetta sottostante, si tengono varie feste che caratterizzano l’estate ugentina: in particolare, degna di nota è la Festa dell’Emigrante, generalmente la prima settimana del mese di agosto.
Molto caratteristico l’aspetto dell’edificio: la piastrellatura bianca e nera, disposta in foggia di una grande scacchiera, oltre a rendere la torre visibile da grande distanza in mare, la identifica nell’immaginario collettivo[1].
L’isola di Sant’Andrea si estende per circa 50 ettari e dista poco più di un miglio dal centro storico della cittadina salentina di Gallipoli. È completamente pianeggiante e la sua altezza massima non supera i tre metri. Questa caratteristica porta l’isola a essere spazzata dai marosi in caso di forte vento e la rende poco adatta a ospitare una ricca vegetazione. Per questa ragione i Messapi la chiamavano Achtotus (terra arida). Il vecchio nome messapico venne dimenticato con la conquista dei Romani della città di Gallipoli (267 a.C.) e probabilmente prese il nome di Sant’Andrea solo alcuni secoli più tardi quando i bizantini vi costruirono una cappella dedicata al santo. In passato l’isola era usata dagli abitanti di Gallipoli per pascolare le greggi, che venivano trasportate tramite imbarcazioni. Ciò era possibile per la presenza di una fonte di acqua dolce a nord dell’isola. L’isola, oggi completamente disabitata, rappresenta un patrimonio unico dal punto di vista naturalistico. L’area rappresenta, infatti, l’unico sito di nidificazione, del versante ionico ed adriatico d’Italia, della specie di gabbiano corso.
Collocata al centro di un’area marina interessata da habitat particolarmente sensibili, come la prateria di posidonia, l’isola è inoltre tappa dei percorsi migratori dell’avifauna e luogo botanico di elevato valore scientifico, in quanto ospita specie endemiche come lo statice iapigico salentino (limonium japijicum). L’isola è stata riconosciuta dalla direttiva CEE detta «Rete natura 2000», quale habitat naturale di importanza comunitaria, è stata individuata area naturale protetta dalla legge regionale della Puglia n.19 del 24 luglio 1997, ed è stata inoltre qualificata di particolare interesse storico e artistico, ai sensi della legge n. 1089 del 1939, con nota del Ministero per i beni e le attività culturali. Sul versante settentrionale è presente una zona paludosa ricca di giunco, che per evitare diventasse fonte di malaria venne collegata al mare con l’apertura di due brevi canali sulla costa. Notevole anche l’importanza archeologica per la presenza di insediamenti risalenti all’Età del Bronzo.
Sull’isola ci sono due approdi, situati uno a nord-est e uno a sud-est, e un grande faro costruito nel 1866. Il faro è sempre stato in attività, dotato di un congegno a sei lampeggianti, con un fascio luminoso che raggiungeva le due miglia marine. Alla fine del 2005, su intervento del sottosegretario alla difesa, il senatore Rosario Giorgio Costa, sono stati avviati lavori di ristrutturazione. Il nuovo impianto è entrato in attività il 26 marzo 2006 (alle 18.15) con una lampada da 1000 Watt alimentata da pannelli fotovoltaici. La sua portata oggi è di quasi 20 miglia marine. L’intervento di recupero, interamente a carico del Ministero della Difesa, è costato 180.000 euro. Nel 1997, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell’11 agosto, all’epoca Romano Prodi, a seguito della legge finanziaria, l’isola di Sant’Andrea è stata inserita in un elenco di beni, predisposto su proposta del Ministero della Difesa, dei quali veniva disposta la vendita a privati. Nel dicembre 2000, rappresentanti di partiti politici e di associazioni varie hanno però chiesto e ottenuto dal tribunale di Lecce la sospensione della vendita dell’isola di Sant’Andrea [3].
Mirko Giangrande, 1 Gennaio 1547 – La leggenda di Cria, Amazon Libri, 2020, pp. 48
Ogni agosto ad Avetrana, nell’Alto Salento, si svolge la “Giostra dei Rioni”, in onore a quella originaria bandita nel lontano 1547 dalla Famiglia Baronale dei Pagano, Signori del Casale della Vetrana, per ringraziare l’Onnipotente per lo scampato pericolo dell’invasione turca. “1 Gennaio 1547 – La leggenda di Cria“, narra gli eventi accaduti nel capodanno del 1547. Una spedizione di corsari ottomani sbarcò nei pressi della Columena, diretti ai villaggi della Vetrana. Cria, un soldato turco ma di origini veterane, colpito da nostalgia e sensi di colpa, dirottò la spedizione al vicino villaggio di San Pancrazio Salentino. Ma la storia non fu per Cria a lieto fine…
Nell’introduzione, il personalissimo inno all’amore per la propria terra da parte dell’autore:
“Ad Avetrana,
figlia del Salento,
Terra dove le mie radici
Salde si ancorano.
Culla di mille ricordi,
lacrime e sudore.
Altro non vedo
che viti e ulivi
e un mare sconfinato.
Mia prima casa,
mia prima madre,
mia ultima dimora”
Il libro è acquistabile su Amazon in formato E-book o cartaceo:
Ora erano molto vicini al Faro. Eccolo che si stagliava, nudo e dritto,
abbagliante di bianco e nero, e si vedevano le onde rompersi in schegge
bianche come vetro infranto contro gli scogli. Si vedevano le venature e le
spaccature degli scogli. Si vedevano chiaramente le finestre; un tocco di
bianco su una di esse, e un ciuffo di verde sullo scoglio. Un uomo era uscito
e li aveva guardati con il cannocchiale ed era rientrato. Ecco com’era,
pensò James, il Faro che per tutti quegli anni avevano visto attraverso la baia; era
una torre nuda su una roccia deserta.
(Virginia Woolf, Gita al faro)
I fari, luoghi che nei romanzi appaiono set di misteri e di amori, i fari che imponenti si ergono a guardia dei mari resistendo anche alle peggiori mareggiate, hanno catturato, da sempre, l’immaginario collettivo. È così romantico guardare dal basso un faro arroccato che si affaccia sul mare. Solletica l’idea di poterlo visitare arrampicandosi su centinaia di gradini per ammirare, una volta in cima un panorama mozzafiato che si perde nell’orizzonte mescolando mare e cielo. Ma, proviamo a immaginarci suoi guardiani in una notte di burrasca con le onde che arrivano fin sopra la cabina dove trova ricovero la sua luce, quando bisognava comunque arrampicarsi su una altissima scala fin lassù, per alimentare il combustibile che la teneva accesa, quando dalla capacità di farlo dipendevano le vite di tante persone disperse in mezzo a quella burrasca.
I grandi guardiani del mare erano luce di speranza nel buio e nella tempesta per migliaia di pescatori che, con i loro pescherecci, cercavano la via sicura dell’approdo per fare ritorno a casa. Hanno storie antichissime e tutte importanti, come importanti e passionali sono le storie di coloro che li hanno abitati, assumendosi l’impegno di guardiani dei fari; perché se non possedevi la forza per affrontare il mare gigante, infinito, e i suoi misteri, la voglia di sfidarlo, il senso d’avventura e la generosità per il prossimo, non potevi riuscire a dedicargli la vita, con amore, senso di dovere e grande responsabilità.
Ora essi sono in disuso, molti sono diventati patrimonio artistico e culturale da custodire ma, anticamente, era a loro e ai loro guardiani che era affidata la salvezza dei naufraghi ed anche dei villaggi. In caso di attacchi dal mare, infatti, fungevano da torri costiere, ed erano i guardiani, sentinelle nell’avamposto, i primi a poter dare l’allarme. All’inizio essi erano dei semplici falò, delle torce tenute accese per fare segnali, in prossimità delle zone di sbarco.
Ci sono testimonianze che risalgono molto indietro nel tempo, a raccontare il loro mito: nella visione di Virginia Woolf descritta nel romanzo del 1927,“Gita al Faro”: «Il Faro era allora una torre argentea, nebulosa, con un occhio giallo che si apriva all’improvviso e dolcemente la sera”. Omero nel XIX libro dell’Iliade ( parliamo dell’VIII secolo a.C.) paragona lo sfavillio dello scudo del grande Achille ad “uno di quei fuochi che dalle alture rendono sicura la via ai naviganti”.
Diventano un vero mito con antichi autori, come Ovidio che nelle Eroidi, una raccolta costituita da 21 lettere d’amore o di dolore, in distici elegiaci, che si immaginano essere scritte da famose eroine ai loro mariti o innamorati, racconta la storia di Ero, la sacerdotessa di Afrodite e di Leandro, il suo amante segreto, che per vederla attraversa a nuoto, ogni notte, l’Ellesponto guidato dalla fiaccola che lei, tra le mani, regge per illuminargli la via. Ma, la storia vuole che una notte il vento spenga la fiamma e Leandro, senza più la sua guida luminosa, si perde tra i flutti del mare dove Ero, disperata si tuffa seguendolo nella triste sorte.
Quando nel 1200 i Fenici, arrivati nel Mediterraneo, hanno l’esigenza di incrementare il commercio per mare, nasce il bisogno di protrarre i tempi della navigazione anche durante la notte, così si improvvisa, sulle coste, la costruzione di impalcature a torre dove posizionare delle ceste in cui accendere i falò, con uomini di guardia per alimentare sempre il fuoco.
I primi due mirabili fari dell’antichità nascono nel 300 a.C., uno è il Colosso di Rodi, una gigantesca statua alta trentadue metri situata all’ingresso del porto di Mandraki, il dio Helios, (protettore di Rodi) che recava nella mano destra un faro, costruito da Carete di Lindo in un lasso di tempo di dodici anni ( già il suo maestro Lisippo aveva costruito una statua di Zeus nell’antica agorà di Taranto famosa per la sua altezza di quaranta cubiti, diciotto metri), e per sessantasette anni, prima di venire distrutta da un terremoto restò a guardia dell’isola.
(Quando si va a Rodi, così come ho fatto io, è decisamente il primo luogo che sei portato a voler visitare. La guida mi condusse su un altopiano da dove si poteva vedere l’imboccatura del porto indicandomi il punto in cui sorgevano gli alti pilastri di marmo profondi quindici metri, dove i piedi del gigante erano poggiati, e lì mi insegnò a ballare il sirtaki).
Il secondo è il Faro di Alessandria che rimase funzionante sino al IX secolo, poi distrutto anch’esso dai terremoti. La sua costruzione fu voluta da un mercante greco di nome Sostrato di Cnido, per aumentare la sicurezza del traffico marittimo, in entrata e in uscita, reso pericoloso per la presenza di banchi di sabbia all’ingresso del porto di Alessandria. Venne costruito proprio sull’isola di Pharos, all’imboccatura del porto ed è da lì che si origina il suo nome. Era costituito da un alto basamento quadrangolare, che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. Ad esso si sovrapponeva una torre ottagonale e poi una costruzione cilindrica sovrastata da una statua di Zeus sostituita, in seguito, da quella di Helios. La costruzione del faro consentiva di segnalare la posizione del porto alle navi di giorno, con l’uso di speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole fino al largo e, di notte, con l’accensione di fuochi. Si stima che la torre fosse alta 134 metri e poteva essere visto a 48 km di distanza, praticamente il primo grattacielo della storia. Vista la sua utilità se ne cominciarono a costruire in molti altri luoghi del Mediterraneo.
In seguito, anche i Romani diffonderanno in tutte le loro conquiste imperiali la costruzione di queste torri di pietra con in cima il fuoco. Torri che possiederanno, vicino ai porti, anche le quattro Signorie delle Repubbliche marinare, in Italia. Dopo il crollo dell’impero romano, invece, saranno i campanili dei monasteri costruiti in cima alle rocche a svolgere questa funzione, soprattutto al nord Europa. Durante il rinascimento e l’epoca barocca vedono la nascita in Francia o in Inghilterra, all’ingresso della Manica, fari stupendi paragonabili a castelli, situati in mezzo al mare ma, tuttavia, poco funzionali. Tra la fine del 1700 e il 1800 i fari assumeranno, infine, la connotazione che noi conosciamo. Il Faro di New York, donato dalla Francia agli Stati Uniti, e conosciuto da tutti come la famosa Statua della Libertà, è stato a tutti gli effetti il faro degli Stati Uniti, gestito dal servizio fari americano, in funzione sino al 1902 ed il primo ad essere elettrificato, alla fine del 1800. Prima del petrolio e poi dell’elettricità le sostanze usate per alimentare i fuochi dei fari sono state svariate: legna, carbone, candele di spermaceti, (la materia grassa che si trova all’interno del cranio dei capodogli che bruciando non fa fumo) e olio di balena e di oliva, a seconda delle latitudini. Si può assolutamente dire che, in tutto il mondo, non esistono due fari uguali. Ognuno possiede le sue peculiari caratteristiche, ognuno custodisce delle diversità, il numero dei suoi gradini per arrivare alla luce, una storia, un segreto, ogni faro è “il faro” del suo pezzo di mare e di mondo.
Il loro aspetto esteriore serve a riconoscerli da lontano di giorno, mentre di notte la loro luce invierà segnali sempre differenti uno dall’altro, luce – eclisse, eclisse – luce, con una frequenza che servirà a far riconoscere la struttura nel buio. Su tutti i portolani, i libri che si portano a bordo e che indicano tutto sulle coste e sui loro pericoli, ogni faro viene indicato con la sua particolare luce. Nella penisola italiana, dove la costa si sviluppa per una lunghezza di 7458 km circa, vi sono dei fari bellissimi con bellissime storie, fari che sono diventati luoghi da visitare e mete turistiche molto ricercate. Il faro più antico conosciuto è il Fanale dei Pisani, nella città di Livorno, costruito nel 1302 dopo che il porto pisano alla foce dell’Arno si era insabbiato. Questo faro ha una storia drammatica poiché venne distrutto durante la ritirata dei tedeschi nel 1944 per poi essere ricostruito su volontà dei livornesi e inaugurato nel 1956. Per la sua ricostruzione sono stati utilizzati sia i materiali originali recuperati sia i conci della Verruca, materiali estratti dalla cava di San Giuliano da dove provenivano anche le pietre usate nella sua prima costruzione sulla base dei progetti dell’architetto Giovanni di Nicola Pisano che lo aveva costruito nel modello originale. Questo faro, sulla cui cima si recava Galileo Galilei per le sue osservazioni, era stato cantato da Dante Aligheri e da Francesco Petrarca nelle loro poesie. Il faro, alto 52 metri, ha un’ottica rotante che emette 4 lampi ogni 20 secondi ed ha una portata di 24 miglia marine (1). Il sito di Hundredrooms ha stilato la lista dei sedici fari più belli della penisola tra cui vi sono:
– Faro della Vittoria – Trieste, Friuli Venezia Giulia
– Faro di Capel Rosso – Isola del Giglio (Grosseto), Toscana
– Fanale di Livorno – ( di cui abbiammo accennato), Livorno, Toscana
– Faro di Ponza o Faro della Guardia – Isola di Ponza (Latina), Lazio
– Faro di Punta Carena – Isola di Capri (Napoli), Campania
– Faro del Porto di Ischia – Isola d’Ischia (Napoli), Campania
– Faro di Genova, Liguria
– Faro di Camogli, (Genova), Liguria
– Faro dello Scoglio di Mangiabarche – Isola di Sant’Antioco, Sardegna
– Faro di Capo Spartivento – Chia, Sardegna
– Lanterna del Montorsoli – Messina, Sicilia
– Faro di San Vito Lo Capo – Trapani, Sicilia
– Faro di Strombolicchio – Isole Eolie (Messina), Sicilia (2).
Ma, la regione che in assoluto vanta le location più ricche di fascino, nonché quelle più ricercate dai turisti è la Puglia, con il Faro di Vieste, che sorge sullo scoglio di Sant’Eufemia, in provincia di Foggia, con il faro di San Vito a Taranto e, di San Cataldo, a Lecce, di Punta Palascia a Otranto, di Santa Maria di Leuca, di Torre San Giovanni, a Ugento, dell’isola di Sant’Andrea a Gallipoli, di Porto Cesareo, che fanno tutti parte del Salento.
Note
Cfr. I fari di Ana Maria Lilla Mariotti, https://www.ilmondodeifari.com/index.htm
La ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia è stata segnata da una ricca produzione storiografica che ha interessato anche la provincia salentina. Un bilancio definitivo ancora non si è potuto fare perché si attendono le pubblicazioni di atti di convegno e di monografie, nate spesso sulla scia di ricerche di settore che non hanno trovato posto in volumi miscellanei e/o dell’acceso dibattito multidisciplinare che hanno alimentato. Certamente si è vissuta una stagione intensa e proficua sul piano delle conoscenze e degli approfondimenti storici, soprattutto nel campo delle indagini periferiche, quelle che hanno affrontato il processo dell’unificazione nazionale con particolare riguardo alle ricadute politiche, sociali, economiche sulle popolazioni meridionali e, nel nostro caso, specificatamente salentine.
Tra queste ultime, le ricerche di Salvatore Coppola sono tornate di grande utilità non solo perché focalizzate tra il prima e dopo l’Unità, ma anche perché orientate a verificare l’impatto dello Stato nazionale nel primo decennio post-unitario, quando cioè si passa rapidamente dall’illusione alla delusione popolare, dagli slanci idealistici di tanti patrioti ai maneggi di basso conio e alla rassegnazione politica.
In questo volume si raccolgono alcuni saggi di Salvatore Coppola meritori di aver aggredito con indagini di largo respiro, costruite cioè su una pluralità di archivi centrali e periferici, il tema dell’Unità nel Salento, in una provincia periferica del Mezzogiorno anticamente denominata Terra d’Otranto. Pochi altri studiosi hanno avuto la sensibilità di compulsare una documentazione così diversa e così vasta, amalgamandola in un ordito in cui il racconto storico non perde certamente la sua inevitabile complessità, ma si arricchisce anche di dettagli non trascurabili e di dense riflessioni storiografiche che le sole carte conservate nell’archivio di Stato di Lecce non avrebbero aiutato a fare emergere e ad elaborare. Coppola si è avvalso della sua instancabile e collaudata esperienza di ricercatore per allargare in maniera mirata l’orizzonte delle sue indagini, scegliendo di seguire e di interrogare anche le tracce documentarie superstiti conservate nell’Archivio del Museo Centrale del Risorgimento di Roma, nella Biblioteca della Camera dei Deputati, nell’Archivio Feltrinelli di Milano (Fondo Macchi) fino ad arrivare alle carte dell’Archivo Histórico del Ministerio de Asuntos Exteriores di Madrid, una novità inimmaginabile per gli studi disponibili, ma che, letta in un contesto più ampio, lega la storia del Salento a quella dell’Europa. Basterebbero queste poche ed essenziali segnalazioni archivistiche per qualificare le ricerche del Coppola, studioso che unisce al rigore scientifico una indubbia passione civile che ne esalta la statura umana. Dentro questo quadro di riferimenti documentari si snoda l’analisi del Coppola, che non a caso sceglie di aggrapparla al percorso biografico-politico di noti ed eminenti uomini del Risorgimento salentino, come Sigismondo Castromediano, Liborio e Giuseppe Romano, Giuseppe Libertini, Giuseppe Pisanelli, Bonaventura Mazza-rella, Oronzio De Donno ed altri, per declinare il difficile e contrastato processo di unificazione nazionale. Proprio attra-verso l’attività parlamentare svolta da alcuni di essi nel primo decennio post-unitario si riesce a comprendere il paradosso che sorregge il consolidamento dello Stato unitario, avvenuto a danno del Mezzogiorno, emarginato dai processi produttivi, incapace di far decollare la sua economia troppo esposta alla concorrenza interna ed estera, deluso dai mancati sostegni governativi, segnato da un disagio sociale diffuso e spinto verso forme di violenza alimentate dal clero e dalle forze più retrive legate al passato regime borbonico.
Un dato appare oramai accertato sul piano scientifico, al di là dei revisionismi di maniera che favoleggiano un regno delle Due Sicilie all’avanguardia in Europa (per porti, infrastrutture, ferrovie, fabbriche, ecc.) di una Napoli capitale al passo con Parigi, Londra, Vienna, ecc. Forse si può pure convenire che la città di Napoli al momento dell’Unità offriva un quadro in superficie “moderno” per i suoi lampioni, per il lungomare abbastanza curato e per qualche fabbrica tecnologicamente avanzata. Ma restano esempi isolati che nascondono la miseria e l’indigenza sociale delle classi meno abbienti. Se si volge poi lo sguardo al resto del regno rimane la triste realtà di un paese al collasso dal punto di vista sociale ed economico con strade di grande comunicazione pressoché inesistenti, ferrovie limitate ai 15 Km della Napoli-Portici (costruita per le passeggiate domenicali della famiglia reale), mentre in Toscana, Piemonte, Lombardia e persino nello Stato pontificio i Km di strade ferrate risultano, alla vigilia dell’Unità, molti di più. L’Unità andava costruita diversamente per ridurre il diverso sviluppo tra Nord e Sud d’Italia e di questo si mostrano fermamente convinti i parlamentari salentini che tuttavia scontano una certa impotenza se il loro impegno non va oltre la denuncia. Il fatto che tutti provano delusione e scoramento ne é una attendibile prova. Lo provano sia gli uomini schierati a Destra come Castromediano e De Donno, sia quelli della Sinistra moderata come Giuseppe e Liborio Romano, senza escludere quelli della Sinistra estrema e radicale come Libertini.
Le complesse regole di funzionamento del sistema parlamentare limitano invero la portata di alcune coraggiose iniziative promosse in particolare dal Castromediano e dai fratelli Romano (tra cui la liberalizzazione della coltivazione del tabacco, la cancellazione delle decime residuali, l’ampliamento della rete ferroviaria, la creazione di infrastrutture stradali e portuali efficienti, la concessione delle terre demaniali ai contadini, ecc.) che non trovano un positivo approdo per la resistenza delle potenti oligarchie politiche e finanziarie delle Deputazioni piemontese, lombarda e toscana. Non solo le innovative battaglie parlamentari dei politici moderati (di Destra e di Sinistra), ma anche quelle portate avanti dalla Sinistra estrema e radicale non producono risultati certi e significativi. Lo stesso Giuseppe Libertini, rappre-sentante autorevole di questo schieramento, pur ripetutamente eletto, rinuncia al protagonismo istituzionale, rifiutando di utilizzare il Parlamento come tribuna per portare avanti le battaglie per il riscatto del Mezzogiorno. Il suo radicalismo lo spinge persino a negarsi al giuramento in nome del re Vittorio Emanuele e, di fatto, a non partecipare alla vita del Parlamento, nonostante gli appelli di un altro mazziniano di primo piano (Agostino Bertani) a rivedere la sua posizione al fine di utilizzare l’aula parlamentare per far sentire le istanze delle popolazioni meridionali. L’azione politica del Libertini dentro queste contraddizioni si riduce a ben poca cosa e non sempre appare encomiabile, se si limita dopo il 1861 a “favorire” l’elezione di amici della Sinistra estrema, cercando con questo escamotage di emanciparsi dalle sue pregresse responsabilità e lasciando ad altri di realizzare “la rivoluzione interrotta”.
Sono queste alcune sommarie riflessioni suggerite da una rapida lettura dei saggi raccolti in questo volume. Ma Coppola offre un’analisi molto più articolata e complessa di quanto si è potuto brevemente richiamare. Per questa ragione siamo con-vinti della bontà di questa operazione scientifico-editoriale, le cui positive ricadute continueranno non solo ad alimentare il dibattito storiografico sul Risorgimento italiano, ma anche a suggerire approfondi-menti che riguardano il personale politico che ha rappresentato il Salento nel primo decennio post-unitario (ed oltre).
Confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare
Toponimi di confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare
di Gianfranco Mele
In agro di Latiano è presente il toponimo Malcicappa; in agro di Francavilla Fontana, similmente, Maraciccappa, entrambi fatti derivare da diversi studiosi dal vocabolo morgincap o mongergabe, che si traduce con “dono del mattino”, un istituto dell’antico diritto germanico consistente nel dono che il marito faceva alla sposa in una cerimonia mattutina in presenza di amici e parenti.
La contrada Malcicappa a Latiano si trova nella zona individuata da tali stessi studiosi come attraversata dal cosiddetto Limitone dei Greci, e precisamente a nord del limitone, nel territorio ipotizzato come longobardo. Allo stesso modo, Maraciccappa nel francavillese si troverebbe in prossimità del confine tra longobardi e bizantini.
Maracicappa e Malcicappa vengono dunque considerate località poste sul confine tra longobardi e bizantini, più o meno a ridosso del famoso Limes. Ma la questione dell’origine, del percorso, della storia e della stessa reale esistenza di un “Limitone dei greci” in Terra d’Otranto è un gran rompicapo, ed oggetto di dispute tra storici ed archeologi.[1] Nella intricata e dibattuta storia di questa opera (detta in gergo il “Paretone”) o di questa serie di opere (i “paretoni” presenti, appunto, a tratti – e in vari tratti del Salento e più in generale della Puglia) si avvicendano, insieme alle interpretazioni degli studiosi, le leggende e la tradizione popolare che attribuiscono a queste strutture ed ai luoghi circostanti altre origini, simbologie e significati.
Così, a Sava “Lu Paritoni di li Sierri” che è un tratto di muraglia presente nei dintorni del monte Magalastro, già descritta dagli storici come delimitazione facente parte del percorso del mitico Limitone, insieme con il tratto ancora presente in zona Pasano (nelle contrade Camarda, Morfitta, Curti di l’oru), secondo la versione popolare è stato invece “costruito dai diavoli in una sola notte”, come mi racconta Cosimo Schifone, un informatore depositario di molte delle più antiche tradizioni orali del posto. Tale paretone difatti è detto anche, sempre secondo il resoconto dell’intervistato, “Parete del Diavolo”. Allo stesso modo, tratti di antiche muraglie presenti in altre località son dette “Paretone del diavolo”: è il caso di Mottola (San Basilio), Gioia del Colle, Noci, e altre località.
In competizione con le ipotesi dotte attorno alle origini e alla paternità della costruzione del Limitone si insinua anche la questione delle presunte derivazioni dal termine longobardo morgincap delle già citate località in territorio di Francavilla e di Latiano. Anche qui, la spiegazione fornita dalla tradizione orale si discosta assai da quella derivata dalle teorie dei ricercatori: Maraciccappa è un posto maledetto, e, povero appunto chi ci capita: tra fantasmi, malombre e occhiature che fanno morire o sparire le persone, nell’ immaginario popolare di un tempo si guardavano con timore e diffidenza questi posti.
Nel 1933 Giovanni Antonucci pubblica su “Japigia” un articolo dal titolo “Il Limitone dei Greci”, dal quale riporto il seguente passo (il corsivo è mio per evidenziare la parte nella quale parla di Malcicappa in territorio di Latiano):
“Nel febbraio del 1915 io e l’amico Cosimo De Giorgi visitammo gli avanzi del Limitone esistenti nella masseria Scaloti e insieme constatammo che la grande muraglia era ridotta alle più meschine proporzioni: pietre informi ammassate le une sulle altre per un’altezza di circa un metro, coperte di terra e di erbe selvatiche, di rovi di scille di asfodeli. A tanta distanza di tempo ricordo benissimo che il muretto ad un certo punto subiva un’interruzione decisa e recisa, sena la minima traccia di continuità: originaria tale interruzione, o derivata da asportazione del materiale? Ipotesi l’una e l’altra ugualmente attendibili.Rileggendo oggi il bozzetto che nell’occasione fu steso dal De Giorgi e poi pubblicato nella Rivista storica salentina (an. X, pag. 5 e segg.), mi torna chiaro alla memoria il sorriso di compiacenza che animò il volto dell’illustre amico quando io richiamai a proposito della tradizione salentina i perduranti toponimi di due masserie in territorio di Mesagne, la Camarda e la Camardella, immediatamente a sud del Limitone, accennanti, secondo il Racioppi, ad accampamenti greco-bizantini. Il De Giorgi non tacque, e, osservata la carta dell’Istituto geografico militare che teneva stesa fra le mani, mi segnalò subito il toponimo Morgingappa (da Morgengabe) tradotto erroneamente in Malch’incappa, e che designa una masseria a nord del Limitone in territorio di Latiano; nonché l’altro Campi dei Longobardi, oggi Campi distrutto, a nord di Mesagne, verso S. Vito.”[2]
Del Morgincap francavillese parla invece Cesare Teofilato, in un suo articolo del 1947[3], e il Rholfs, nel suo Vocabolario dei Dialetti Salentini inserisce il vocabolo Maru-c’incappa così definendolo: “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgangaba ‘dote’?)”. [4]
Maraciccappa è in effetti una località in agro di Francavilla Fontana, attraversata dalla strada provinciale Sava-Francavilla Fontana e dalla strada comunale San Marzano-Oria. Qui si trovano la Masseria Maraciccappa e la Masseria Trentavagliuni, la Specchia Tarantina con la sua grotta carsica, e nelle contrade circostanti sorgono altre suggestive masserie, edicole votive e antiche case rustiche.
Del toponimo Maraciccappa, definendolo di origine longobarda in quanto derivato da morgengabe (o morgengab, morgingab, morgincap) parlano anche la Uggeri Patitucci[5] e lo storico locale savese Gaetano Pichierri,[6] inserendolo in una lista di toponimi presenti in diverse località situate appunto sul confine tra Longobardi e Bizantini. Tra Torre Santa Susanna, Mesagne e Latiano esistono “Camarda” e “Camardella” (tende, accampamenti bizantini) , “Farai” (guarnigioni di militari), “Maraciccappa” (doni della prima notte). A Francavilla Fontana Maraciccappa (detto anche Mali a ci ccappa e Marucincappa) e Guardiola (warta in longobardo), a Sava Camarda.
Tuttavia, nel suo saggio “Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, il Sabatini va cauto nella attribuzione del toponimo Marucincappa ad un etimo longobardo: lo inserisce difatti in una lista di toponimi dalla incerta derivazione.[7]
Come abbiamo già detto, secondo gli assertori della derivazione longobarda del toponimo, Maraciccappa o Maruciccappa, Marucincappa, Malicicappa (e varianti similari) deriverebbe da mongergabe (morgengab, morgingab, nei documenti latini spesso morgincap, morgincapitis) che sta a significare “dono del mattino”, ed era il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze. Questo dono, oltre a sancire l’unione coniugale, veniva concepito anche come risarcimento alla donna della verginità perduta (per questo motivo, era detto anche pretium virginitatis).
Abbiamo visto però che il Sabatini mette in dubbio la derivazione di Maraciccappa da morgengabe, e certamente il toponimo attribuito a queste località dalla tradizione popolare sottende qualcosa di più che un mero “erore di traduzione” come lo definisce l’ Antonucci. Che si tratti del riadattamento o della rielaborazione di un termine e di un toponimo più antico o che sia semplicemente il toponimo coniato in origine non possiamo affermarlo con certezza, ma la tradizione attribuisce alla località e al toponimo stesso ulteriori significati. In occasione di alcune interviste da me condotte sulle credenze popolari locali alcuni anni fa, Cosimo Schifone, contadino savese (condussi la mia intervista nel 2014, e Cosimo, oggi scomparso, all’epoca aveva 84 anni), mi racconta della “strada di mar’a ci ccappa” o “mali a ci ccappa”, situata tra Sava e Francavilla Fontana, in prossimità di Francavilla: “Dalle parti della strada Sava-Francavilla c’è la “strada di mali a ci ccappa”. La chiamavano così, perchè si dice che ci fossero le malombre: potevi uscirne morto, da quella strada, si raccontava …”. Nella prosecuzione del racconto, Cosimo, dopo aver abbozzato un sorrisetto imbarazzato, mi dice, razionalizzando: “… ma io non ci credo: la spiegazione è nel fatto che da lì passavano i briganti, e assalivano la gente che si avventurava in quelle strade”. Mi espone però, anche , un antico detto popolare: “Alla strata ti mali a ci ccappa, si mori pi la fami e pi la secca”. “Perchè questo detto ?”, gli chiedo. – “ Perchè, appunto, là ti assalivano le malombre e non ti lasciavano più andare, secondo la diceria”.
Se trattasi dunque di rielaborazione popolare, è assai originale; c’è da chiedersi, deriva da una attribuzione toponomastica dei luoghi fondata su altre, slegate leggende? Oppure prende spunto dal “morgincap” e affonda fantasiosamente le sue radici nella storia dei luoghi rievocando i fantasmi dei suoi antichi abitatori?[8] Dunque “è tutto vero”, nel senso che la tradizione popolare ha arricchito di fantastiche simbologie e leggende la storia di questi posti, tanto intrisi di magia quanto le vicende che li hanno caratterizzati? Sono luoghi che in effetti trasmettono e suscitano inquietudine, curiosità e senso di mistero: caratteristica e inquietante al tempo stesso è un antica masseriola situata lungo la strada Maraciccappa (tra la masseria Trentavagliuni e la masseria Monte Ciminiello), all’interno della quale vi è una targa numerata con la denominazione della contrada. La costruzione, in cattivo stato di conservazione e attualmente piena all’interno di cumuli di rifiuti e di residui di eternit là abbandonati, è assai suggestiva ed è dotata di un muro di cinta di antichissima fattura.
La masseria Trentavagliuni (detta anche Trentavagnuni) situata nei paraggi, è citata nel 1893 nella Rivista delle Tradizioni Popolari italiane curata da Angelo De Gubernatis. Chi ne parla è, con lo pseudonimo di Duchessa D’Este, Caterina Barbara Forleo (1874-1935), nobile napoletana trapiantata a Francavilla Fontana.
La Forleo fu apprezzata poetessa, giornalista e scrittrice con una grande passione per l’etnografia. In un articolo dal titolo Usanze, credenze e superstizioni pugliesi scrive:
“si sa che nella masseria Trenta vagnuni (ragazzi) vi è una grotta chiamata grotta del cane; le si da questo nome perchè – si dice – che nemmeno un cane resiste ad avvicinarsi all’imboccatura di essa senza morire. Un signore, amico nostro, asserisce ch’esso vi è entrato, quando era piccolo, e che la volta è ornata tutta di stalattiti. I contadini dicono che là dentro vi è lu contra jentu (contra vento) e nessuno osa entrarvi”.[9]
Nei paraggi le cavità naturali abbondano, e probabilmente la grotta alla quale la Forleo si riferisce è una diramazione della nota “Grotta Tarantina” o “Grotta Specchia Tarantina” situata a poca distanza dalla masseria.
La masseria Maraciccappa invece è una struttura in buona conservazione, risalente al XVII-XVIII secolo sul cui lato frontale è inglobata una imponente cappella in stile tardo-neoclassico. Qui, è interamente ambientato il testo di una canzone popolare nota tra Francavilla Fontana, San Marzano, Sava e altri paesi della zona. La canzone è intonata su una melodia di pizzica in minore e si apre con la citazione, nella prima strofa, del detto popolare di cui abbiamo già parlato (“alla strata ti mara a ci ccappa si mori pi la fami e pi la secca”: in questo caso, varia leggermente riferendosi alla masseria “questa è la masseria ti mara a ci ccappa, si mori ti la fami e ti la secca”). Le strofe seguenti raccontano di un giovane lavoratore della masseria vessato dai suoi gestori, e si configura da una parte come canto di dileggio, e al tempo stesso di malizioso corteggiamento da parte del giovanotto verso la sua datrice di lavoro. Si tratta di una versione locale della nota canzone “Mamma la rondinella”. L’intero testo differisce completamente dalle versioni eseguite dai moderni gruppi di pizzica e musica popolare, eccetto che nel ritornello “mamma la rondinella, mamma la rondinà”, mentre la melodia è identica in questa e in tutte le altre versioni. Lo riporto a seguire (ringrazio Corina Erario per averlo rintracciato e avermelo fornito):
“Questa è la massaria mara a ci ccappa
si mori ti la fami e ti la secca
ninà ninà ninà l’ora è rrivata
allu patrunu li mu fattu la sciurnata
antera antera facci ti galera
fa scapulà li femmini ca è sera
e ci cu me uè canti aza la voci
ca lu palazzu è iertu e no si senti
e ci lu palazzu è iertu fallu bbasciàri
ca voci no ni tegnu pi cantari
com’aggia fa lu pani crammatina
mi manca lu luatu e la farina
ninà ninà ninà tu non la vinci
pani ti casa mia tu no ni mangi
lu pani ti casa tua aggià mangiari
e allu liettu tua m’aggià curcari
mamma la rondinella mamma la rondinà
mamma la rondinella gira e vota e se ne va”
Note
[1] Via via, nelle ipotesi e negli studi dei vari eruditi, storici, ricercatori ed archeologi salentini e non, “il Paretone” è passato da Magnus Limes eretto dagli abitanti della Magna Grecia, a opera difensiva messapica, da Limes bizantino a muro di confinamento tra il Principato di Taranto e la Foresta Oritana, sino al negazionismo di chi la identifica come “muraglia immaginaria” eretta come un fantasioso puzzle dagli stessi studiosi che avrebbero “messo insieme” e in un (più o meno) unico (ma anche cangiante) percorso, grosse muraglie originate dalla spartizione tra feudi. Vedi: Giovanni Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del “limitone dei greci”, in “Archeologia Medievale, XXVII, pp. 333-355
[2] Giovanni Antonucci, Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933, pp. 79-80
[3] Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22). Ho rintracciato note su questo scritto ma non sono riuscito a visionarlo.
[4] Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322
[5] Stella Uggeri Patitucci, La necropoli longobarda di Gennarano sul confine bizantino di Terra d’Otranto, Università degli Studi di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1974, pp. 5-31
[6] Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese, I, Contributi per la Carta Archeologica e per il censimento dei Beni Culturali, Brindisi, 1978, pag. 152
[7] Francesco Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, in: Carlo Ebanista e Marcello Rotili (a cura di), “Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto medioevo”, Atti del Convegno internazionale di studi Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012 , Tavolario Edizioni, S. Vitaliano (NA), 2015, pag. 407
[9] Caterina Barbaro Forleo (pseud. Duchessa D’Este), Usanze, credenze e superstizioni pugliesi, in “Rivista delle Tradizioni Popolari italiane diretta da Angelo De Gubernatis”, Anno I, fasc. I, Forni Editore, Bologna, 1893, pag. 319.
Libri| Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870)
Con la presa di Roma del 1870, il processo di unificazione nazionale raggiungeva uno degli obiettivi più attesi ed agognati. Le terre (le celebri terre irredente) ottenute sui tavoli della conferenza di Versailles segneranno un ulteriore passo in questa eccezionale opera politica e militare, tuttavia fu forse Roma, con il suo valore storico, culturale e simbolico a rappresentare la conquista più prestigiosa e sperata da generazioni di patrioti italiani. Una conquista avvenuta a soli dieci anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dopo una serie di tentativi falliti. Dieci anni di estrema importanza per la nascita e la strutturazione del nuovo stato unitario.
Il volume da poco edito da Salvatore Coppola, Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870), Castiglione Salentino, Giorgiani 2020, esamina questo decennio cruciale attraverso una serie di saggi incentrati sul ruolo avuto dai patrioti salentini nell’opera di consolidamento del processo unitario. Ciascuno con la propria storia e con le proprie idee: dai moderati unitari come Castromediano e Oronzio De Donno, ai repubblicani radicali come Libertini, dai federalisti-unitari come Giuseppe e Liborio Romano a uomini come Pisanelli, Mazzarella e altri che hanno accettato il compromesso con i Savoia pur di raggiungere l’Unità.
A centocinquanta anni da quelle idee e da quegli avvenimenti, è per Coppola giunto il momento di riflettere sulle delusioni e sulle crisi delle certezze di molti di quei protagonisti. L’accentramento invece del decentramento federale; la repressione manu militari dei fenomeni di ribellismo delle masse contadine al posto delle riforme sociali ed economiche auspicate soprattutto dai Romano, ma anche da Castromediano; il compromesso con l’Impero francese sul destino di Roma (Convenzione di settembre), che segnò il divorzio tra mazziniani radicali e governo centrale; la mancata attuazione di riforme strutturali nel Mezzogiorno; tutto questo (e altro ancora) ha portato la gran parte dei patrioti salentini a rimanere “delusi” per quanto in quel decennio si stava realizzando. Di qui il Noi speravamo, del titolo. Una delusione, quella studiata nei saggi di Coppola, che va oltre le banalizzazioni di certo revisionismo neoborbonico tanto di moda. Una disillusione che erompe in chi ha fieramente creduto nell’ideale nazionale, salvo poi vedere quello stesso ideale ridimensionato o cancellato nelle complesse dinamiche (governative, parlamentari, politiche) che animarono il primo decennio di vita del neonato Regno d’Italia.
Da qui l’importanza e la significatività di questo ulteriore studio di Salvatore Coppola nel contesto storico del Salento all’indomani dell’unificazione nazionale.
Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.
Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.
E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.
La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.
Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.
Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.
Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.
Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.
Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.
In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.
Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.
In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.
Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.
Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).
In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.
In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigio («τὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.
Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.
Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.
Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.
Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.
Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.
Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.
Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.
Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.
Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.
La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.
In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.
In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).
Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?
Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.
Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.
Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.
Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.
Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.
Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.
Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.
Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.
Note
1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.
2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.
3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.
4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.
5Ibidem, VI 3, 1.
6Ibidem, VI 3, 5.
7Ibidem, VI 3, 1.
8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.
9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.
10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.
La chiesa di S. Giovanni Battista di Presicce, nota ai più come “Carmine”, è indissolubilmente legata ai padri carmelitani, presenti sino alla soppressione del 1809.
Nel 1559 Martino Alfarano lasciava eredi testamentari di tutti i suoi beni i carmelitani di Lecce, con l’obbligo di fondare in Presicce un convento del loro ordine e di intitolarlo a S. Giovanni Battista. La scelta del santo indicato dal benefattore potrebbe derivare dalle origini acquaricesi dell’Alfarano: S. Giovanni Battista, infatti è stato il protettore di Acquarica del Capo sino al ‘600 per poi essere sostituito da S. Carlo Borromeo.
Ampliato e rimaneggiato più volte nei secoli, il complesso originale doveva apparire assai diverso da quel che vediamo oggi. Dai documenti, dall’iscrizione del portale e dall’epigrafe settecentesca sulla controfacciata, si apprende che l’edificio fu riedificato nel 1695 per poi essere rimaneggiato nel 1790.
La chiesa si sviluppa con uno schema longitudinale ed è scandita da tre campate, una delle quali più stretta e più alta, che sovrasta l’area del coro. Nelle campate dell’aula liturgica si aprono quattro cappelle con altari in stucco, coeve agli stucchi settecenteschi.
La decorazione del 1790, voluta da fra’ Policarpo Torselli, padre priore del convento, probabilmente mosso dall’entusiasmo della recente riedificazione della parrocchiale (1781), ha interessato l’intero edificio: sia gli intradossi delle volte, sia le partiture architettoniche, sia le quattro cappelle laterali sono caratterizzate da una decorazione a stucco policromo, di gusto rococò che già guarda alle novità neoclassiche, caratterizzato dalle tinte pastello delle campiture sulle quali si stagliano gli stucchi bianchissimi.
Durante i restauri del 2015 si è appreso che l’edizione decorativa settecentesca si sovrappone su di un ciclo pittorico del ‘600 (del quale sono visibili alcune porzioni) che interessava l’intero edificio ecclesiastico. Della chiesa seicentesca rimane il superbo altare maggiore in pietra leccese. Con il recente restauro l’esuberante modellato e le dodici statue di angeli, santi e profeti che lo costituiscono hanno recuperato l’originale policromia barocca. Quando nel Settecento si rinnovarono le decorazioni dell’edificio, l’altare venne integrato agli stucchi con la realizzazione di un nuovo tabernacolo, con mensa e paliotto in stucco dipinto a finto marmo, secondo il gusto del tempo.
Per la complessità dell’edificio che, come accennato, è caratterizzato dalla successione di epoche e stili che si stratificano gli uni agli altri e le differenze materiche costitutive dei manufatti (sculture lapidee, litoidi, perni metallici originali, inserti lignei, ceramiche, dipinti murali, ecc.) le operazioni di restauro sono state precedute da uno studio stratigrafico e analisi di laboratorio, necessari a comprendere la storia degli apparati decorativi.
Alle indagini preliminari hanno seguito le operazioni di conservazione e restauro, condotte su tutte le superfici murarie interne che si presentavano ricoperte da svilenti tinteggiature contemporanee, da numerose scialbature di calce e ridipinture manutentive che nel tempo si erano sovrapposte sulle pareti, sugli stucchi e sull’altare maggiore.
Nel 1711 mons. Tommaso De Rossi, in visita nella chiesa, visita l’altare e lo definisce “bene ornatum et ex lapide liciensis confectum”. Esso si sviluppa nel presbiterio dividendo l’aula ecclesiastica dal coro. Come annota il presule, è realizzato in pietra leccese ed è caratterizzato da un complesso programma iconografico che mostra un modellato ricercato con putti, cherubini ed esuberanti decorazioni barocche, con uccelli e decorazioni fitomorfe. Quattro colonne tortili reggono la trabeazione, sulla quale appare una gloria di angeli musicanti e le sante carmelitane Teresa d’Avila e Maddalena de’ Pazzi. Nel registro inferiore e sulle paraste sono collocate le statue dei santi carmelitani Angelo martire e Alberto, mentre tra i profeti Elia ed Eliseo, al centro dell’altare, vi è la statua del Battista. Inoltre, l’altare accoglie in un’edicola, dalla cornice quadrilobata, un dipinto su tela raffigurante la Madonna del Carmine.
Sulle due porte che immettono nel coro, sormontati dai profeti vi sono due clipei, chiusi da un vetro, retti da angeli, un tempo adibiti ad accogliere reliquie: infatti, durante la citata visita pastorale del De Rossi, egli, non trovando documentazione certa circa l’autenticità delle reliquie, le fece rimuovere dai frati.
L’altare è un prezioso manufatto lapideo, testimonianza delle tecniche artistiche e della sensibilità cromatica del XVII sec. La ricca policromia, emersa dopo un lungo e delicato intervento di restauro, ci racconta che il barocco leccese, caratterizzato per la tenera pietra, quasi sempre accompagnava alla scultura il gusto per il colore.
Credo che, se questa domanda fosse posta a chi è mio conterraneo o a chi non lo è, quasi tutti risponderebbero: – Salentini, no? -. E io ribatterei: – Perché?-. La risposta, questa volta, sarebbe forse più scontata della prima: – Perché è da Salento e non da Sallento -.
Eppure, se cercate nell’Enciclopedia Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/sallentini/) non troverete la voce Salentini, ma digitando Sallentini apparirà la schermata che riproduco.
Perché questa secondarietà di Salentini rispetto a Sallentini, tanto da renderne impossibile il reperimento diretto? E perché, se anziché nell’enciclopedia cerco nel vocabolario, sempre on line (http://www.treccani.it/vocabolario/salentino/) non trovo nulla per sallentino e invece compare quanto segue per salentino?
La spiegazione dell’apparente contraddizione sta anzitutto nella natura prevalentemente scientifica di un’enciclopedia rispetto ad un comune vocabolario e nello specifico tutto è dichiarato nell’antica che accompagna la definizione di Sallentini.
La sfortuna sembra accanirsi contro di noi perché, contrariamente al solito (potete provare con altri nomi propri), l’enciclopedia non mi propone alcun etimo, mentre il vocabolario mi dà il Salentinus, anche, se più correttamente, sarebbe dovuto essere Salentinu(m), che essendo un etnico, cioè un nome di popolo (comunque un aggettivo derivante da un nome proprio), suppone la derivazione da un toponimo, nel nostro caso Salentum.
Trasferendo il processo alla voce dell’enciclopedia, ci saremmo aspettato di leggere: da Sallentum o Salentum. Dico subito che né Sallentum né Salentum è attestato da qualche fonte1, mentre l’etnico Sallentini o Salentini lo è ampiamente, ma nel modo che segue (riporto gli autori in ordine cronologico e nella tradizione manoscritta più accreditata):
SALLENTINI
Polibio (II a. C.), Storie (in greco), frammento citato da Plinio (vedi più avanti) in Naturalis Historia, III, 5, 75.
Il Sallentinos che vi compare, però, non è detto che corrisponda ad un originale greco Σαλλεντίνους (leggi Sallentìnus) e non Σαλεντίνους (leggi Salentìnus), tanto più che nella Naturalis Historia Plinio usa costantemente la forma con doppia l.
Varrone (I a. C.), De re rustica, I, 24, 1 e II, 3, 10
Virgilio (I a. C.), Eneide, III, 400
Sallustio (I a. C.), Storie (per tradizione indiretta: citato da Servio (IV-V d. C.)nel suo commento al passo dell’Eneide di Virgilio prima citato)
Ovidio (I a. C.-I d. C.), Metamorfosi, XV, 51
Livio (I a. C.-I d. C.), Ab urbe condita, IX, 42, 4; X, 2, 1; XXIII, 48, 3; XXIV, 20, 16; XXV, 1, 1; XXVII, 15,4; XXVII, 22, 2; XXVII, 36, 13; XXVII, 40, 10
Mela (I), Chorographia, II, 59; II, 68
Plinio (I), Naturalis historia, II, 107, 240; III, 5, 38; III, 11, 9; III, 11, 104; III, 11, 105; III, 23, 145; XV, 4, 20
Silio Italico (I), Punica, VIII, 573
Frontino (I-II), Stratagemata, II, 3, 21
Floro (II), Epitome delle Storie di Tito Livio, I, 15
Festo (II), De verborum significatu, frammenti alle pp. 196 e 441 dell’edizione Lindsay
Solino (III), Memorabilia, 2, 10
Eutropio (IV), Breviarium ab Urbe condita, II, 17
Macrobio (IV-V ), Saturnalia, III, 20, 6
Servio ((IV-V ), Commento all’Eneide di Virgilio, III, 121); Commento alle Georgiche di Virgilio, IV, 119
Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 639
Giulio Capitolino (V?), Vita di Marco Aurelio Antonino il Filosofo (in Historia Augusta, 1, 8)
Scholia Bernensia in Vergilii Georgica (VII-IX), III, 1
Stefano Bizantino (V-VI), Ethnica (in greco), alla voce Σαλλεντία (leggi Sallentìa)
SALENTINI
Varrone (I a. C.), frammento delle Antiquitates rerum humanarum citato dallo Pseudo Probo (probabilmente V d. c.), nel suo commento alle Bucoliche (VI, 31) di Virgilio, ma il Salentini che vi compare contrasta con il Sallentini usato, come abbiamo visto, da Catone nel De re rustica e non appare, dunque, come voce originale attendibile.
Dionigi di Alicarnasso, ( I a. C.), Antichità romane (in greco), I, 51, 3
Verrio Flacco (I a. C.-I d. C.), citato da Festo (II) nel De verborum significatu
Strabone (I a. C.-I d. C.), Geographica (in greco), VI, 3, 1; VI, 3, 5
Tolomeo (II), Geografia (in greco), III, 11 ; III, 67
Tabula Peutingeriana (la redazione originale risale al IV secolo), VI 5- VII 2)
Jordanes (VI), De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum, 161
Guidone (XII), Geographica , 28 (citando Virgilio, Eneide, III, 400) e 67
Quanto finora riportato mostra la prevalenza della forma con una sola l negli autori greci, di quella con due nei latini e nella statistica globale. Per quanto riguarda la cronologia il primato spetta ai greci con Polibio, pur con tutti i limiti della tradizione indiretta di cui s’è detto. Se escludiamo Polibio, il conto, dal punto di vista cronologico, è pari, essendo dello stesso periodo Dionigi di Alicarnasso da una parte e Varrone, Virgilio e Sallustio dall’altra.
Conclusioni: Salentini e Sallentini appaiono entrambe forme corrette e in ambito scientifico l’uso dell’una o dell’altra potrebbe essere ispirato, più che dalla maggiore simpatia riservata alla cultura greca o a quella latina, dalle risultanze statistiche che fanno prevalere Sallentini su Salentini. Per questo motivo, se la voce dev’essere scomodata, mettiamo, per dare un nome latino ad una collana di pubblicazioni, potrebbe porsi, per esempio, il dilemma: la chiamiamo Sallentinafragmenta o Salentina fragmenta? Non sarei intellettualmente onesto se continuassi a spacciare tale dilemma come esempio e non come esperienza vissuta, nel senso che avevo optato per la seconda soluzione, quando non un illustre sconosciuto, ma Marcello Gaballo mi ha orientato verso la prima, obbligandomi, senza volerlo, a scrivere questo post (se nel leggerlo la noia è progressivamente montata, sapete con chi dovete prendervela …).
Tutt’altra piega ha preso, com’è noto, la voce nell’uso comune, in cui domina incontrastato Salentini, non certo, credo, per suggestione della forma greca ma per scempiamento di –ll– interpretato, forse, come una volgare geminazione, fenomeno che contraddistingue molti dialetti meridionali, in primis il salentino; e non mi riferisco solo al raddoppiamento della consonante iniziale: bbinìre (venire), bbitìre (vedere), etc. etc.
Così Sallentini, la forma filologicamente e storicamente (se riferita al mondo romano) più corretta, divenne un ricordo sempre più sbiadito, essa che aveva avuto un uso costante nelle pubblicazioni a stampa dalla sua invenzione fino al secolo XIX; di seguito due esempi: il frontespizio del manoscritto autografo dell’Atlante Sallentino di Giuseppe Pacelli (1803) custodito nella Biblioteca Marco Gatti di Manduria (MS. Rr/5) e quello di una pubblicazione del 1833.
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1 È creazione del tutto moderna, anzi contemporanea, il Sallentum nel quale ci si può imbattere: dal titolo di un libro o di una rivista,
alla proposta di uno stemma territoriale o a quello di un club,
e, per citare prodotti più volatili, il Salentum di una serie di deodoranti per l’ambiente e di un profumo per l’uomo dinamico e carismatico,
Nell’estate del 1480 due Capitani si incontrarono ad Otranto. Entrambi furono inviati per difendere la città dagli Ottomani. Uno morì il giorno precedente all’altro.
L’antica sentinella abbagliante si ergeva svigorita sul bordo del mare. Un avamposto possente, privo di merlatura ad ornamento. La pianta quadra.
Sferzate di tramontana ebbra di sale avevano per secoli graffiato la superficie delle solide mura. Solchi scavati dai rigoli della storia disegnavano i contorni delle vecchie pietre.
Stava immobile ad anelare dal mare un Nemico, l’assalitore scellerato che un tempo la insigniva di gloria e di ragion d’essere. Credo sapesse che non sarebbe mai più tornato.
Forse per questo mi parve triste. Più che per le file di formiche indifferenti che scorrazzavano all’ombra del lato nord. Più che per la grigia porta levatoia scardinata e predata dalle catene, accasciata a terra come un soldato morto, rinsecchita da polvere di scoglio.
Si, credo sapesse che era stato per il primo il Nemico ad averla abbandonata. Ma può una Torre desiderare di essere attaccata? Ero immerso in questi assurdi pensieri quando mi resi conto che qualcosa era cambiato: la luce era scomparsa. Era notte, troppo buio per tornare sui mie passi. Gli anfratti che bucavano gli scogli mi avrebbero spezzato una caviglia, o addirittura una gamba. Mentre osservavo uno di quei pertugi olezzanti di alghe in decomposizione che sputava i suoi cadaveri, mi accorsi di un bagliore di torcia all’interno delle mura.
Il timore e la curiosità si contesero per un istante la decisione di darsela a gambe finché tra i litiganti vinse l’incoscienza. Mi arrampicai all’interno dalla porta levatoia senza porta. Una scala in legno nero scendeva da una botola al piano inferiore. Scesi i gradini senza vederli.
Al di sotto, la luce di una seconda torcia ballava con la sommità della volta a botte. Ticchettii di gocce d’acqua a intervalli lenti, regolari giungevano da uno degli angoli semibui. Mi sembrò che contassero il tempo, come l’asta di un pendolo eterno cui l’orologiaio aveva dimenticato di collegare l’orologio. Le gocce penzolavano a lungo da una fonte infilzata nel muro e si lasciavano cadere in una pietra cava.
All’interno delle pareti vi era una cisterna di preziosa pioggia, pensai.
Giunse dal di fuori uno scalpicciare di zoccoli d’animale mischiato a quegli sbuffi che emanano le narici quando grondano di fatica e fiato breve.
Trattenni il respiro. Gli occhi spalancati verso la scala che scendeva dalla porta levatoia senza porta.
Un cavaliere bardato di corazza e stendardi dipinti a mano scese la scala e si piantò di fronte a me.
Appoggiò la pesante spada alla parete e si tolse l’elmo. La fiamma della torcia balenò negli occhi scuri.
“Chi sei?” mi ordinò. Pensai che il suo volto doveva essere stato bello, un tempo.
Lineamenti proporzionati si intuivano sotto la barba incolta, bruna sulla pelle abbronzata. La statura non gigantesca ne esaltava le nobili movenze. Odorava di giornate a cavallo, di fumo e di sangue.
Pensai che non doveva contare più di 36 o 37 anni.
“Mi sono perso” risposi stupito da quel travestimento. Ripresomi chiesi “perché indossi quell’armatura e porti quelle effigi?”
“Sono le effigi del Casato di Pulsano”
La sorpresa divenne spavento.
“Il Casato di Pulsano non esiste più da secoli…Signore” incespicai nelle parole, troppo tardi per fermarle
“Sono stato inviato a combattere contro gli Ottomani. Io e il nobile Francesco della casata Zurlo, combatteremo fianco a fianco”
“Signore, in che anno siamo?” la voce tremolava
“E’ l’estate dell’Anno Domini 1480. Ignobili misfatti stanno per essere compiuti”
Balbettai qualcosa che non riuscii io stesso a comprendere. Dunque la Torre mi aveva trascinato in un altro tempo? Sarebbe bastato ripercorrere a ritroso quei gradini uno più sgangherato dell’altro per ritornare a casa?
Il cavaliere mi sembrò ancora più mesto. Si sedette su una pietra.
“Sono Giovanni Antonio Delli Falconi, Signore di Pulsano. Ogni notte ripercorro la via verso Otranto con i miei 400 fanti. Getteremo le chiavi della città a mare pur di non arrenderci all’infamia. Ci nutriremo di cani e topi pur di resistere ai barbari invasori”. Poi risvegliatosi come da una trance, con l’aria sfinita di chi non può opporsi al suo destino impugnò la spada, risalì la scala e si precipitò all’esterno dove la porta che un tempo era levatoia stava accasciata a terra, come un soldato morto.
Lo seguii fin sulla soglia. Montò sul cavallo che portava le sue stesse effigi, spronò la bestia con piglio fermo. Il cavallo nitrì e si impennò. Galopparono nel chiaroscuro dei raggi della luna finché scomparvero nel buio.
Il mattino seguente pensai di aver sognato.
Il 12 Agosto 1480 Giovanni Antonio Delli Falconi, Capitano, raggiunse Francesco Zurlo, Capitano, ucciso il giorno precedente.
Ogni notte, affacciata verso il mare, una Torre triste per la perduta gloria, dona l’ ultimo riparo ad un nobile Cavaliere. Entrambi attendono il Nemico, ognuno senza più ragione, in un tempo senza fine.
L’immagine è un’incisione di Philippe Galle su disegno di Jan Van Der Straet e fa parte di una serie di venti tavole a corredo di Nova reperta (Nuove scoperte), opera uscita ad Anversa nel 1589. Dal titolo OLEUM OLIVARUM (L’olio delle olive) raffigura tutte le fasi della produzione dell’olio cronologicamente ordinate dallo sfondo (raccolta delle olive) fino al primo piano (trasporto del prodotto finito). La didascalia recita: Decussae olivae adhuc acerbae, ex arbore, pressaeque, pinguis dant olivi copiam (Le olive scosse dall’albero ancora acerbe e pressate danno abbondanza di pingue olio).
Chi nel XVI secolo, celebrando quell’impianto allora avveniristico, avrebbe immaginato che nel XXI proprio nel Salento nello stesso tipo di impianto, anch’esso al passo con i tempi, sarebbe giunto il tempo della desolazione e dell’abbandono?
Ruggero Flores: templare pirata e ammiraglio brindisino (II parte)
I successi militari del grand’ammiraglio trentacinquenne brindisino al comando della sua Compagnia Catalana al servizio dell’imperatore d’Oriente contro le armate turche in Asia non tardarono a susseguirsi numerosi e inarrestabili per un intero anno, e parimenti furono crescendo nell’impero e fuori dallo stesso, il prestigio e il potere di Ruggero de Flor.
Giunti alla fine dell’estate del 1304, l’imperatore Andronico ordinò a Ruggero di spostarsi in Europa con le sue truppe per contrastare la minaccia dei Bulgari sulla Tracia e soccorrere il figlio erede, Mikele IX, nella sua campagna difensiva dinanzi ad Adrianopoli. Ma, visto che erano in corso tensioni a causa del mancato pagamento delle paghe pattuite, Ruggero de Flor si rifiutò in un primo momento di eseguire l’ordine dell’imperatore, non avendo in realtà voglia alcuna di soccorrere il recalcitrante Mikele, del quale del resto ben conosceva i sentimenti di invidia che nutriva nei suoi confronti.
In ottobre però, Ruggero finalmente si spostò con le sue truppe in Europa. Pose un accampamento fortificato sulla penisola di Gallipoli e quindi si recò a Costantinopoli per riscuotere le paghe arretrate, e lì le tensioni tra Andronico e il condottiero brindisino furono inasprendosi ancor più, sia a causa degli intrighi di Mikele che cercava di impedire l’accesso di quel rivale ad Adrianopoli, e sia per il tentativo dell’imperatore di pagare le truppe catalane con una moneta deprezzata tentando di sopperire alla critica situazione in cui versava l’erario. Alla fine di dicembre di quel 1304 Ruggero interruppe le trattative e ritornò a Gallipoli, rimanendovi fino all’aprile dell’anno seguente, quando ritornò sul Bosforo.
In quel nuovo incontro si giunse presto ad un accordo, e il 10 aprile Ruggero de Flor fu nominato e acclamato Cesare e l’imperatore promise onorare i pagamenti in pendenza. Allo stesso tempo, Ruggero s’impegnò a dimezzare il numero delle sue truppe fino a soli 3000 uomini ed abbandonare l’Europa per rientrare in Asia minore.
Subito dopo il ritorno a Gallipoli, il fiammante Cesare prese tuttavia l’incomprensibile decisione di recarsi con una piccola scorta in visita dal suo rivale Michele ad Adrianopoli «… forse nell’intento di riconciliarsi con lui prima della partenza per l’Asia minore e magari per ottenere l’approvazione ai suoi piani di creare un dominio feudale in Anatolia.» [Kiesewetter A.]
Al suo arrivo ad Adrianopoli, il 24 aprile, fu accolto da Mikele con tutti gli onori, ma pochi giorni dopo, il 30 aprile 1305 nel corso di un banchetto alla vigilia della sua partenza, il trentanovenne celebre condottiero brindisino fu assassinato dal comandante degli alani Georgios, che lo decapitò brutalmente in funzione di sicario agli ordini dell’erede al trono imperiale Mikele IX Paleologo.
Quando la notizia dell’assassinio giunse al campamento catalano, scoppiò la rappresaglia degli almogavari: bruciarono le proprie navi per non farsi tentare dalla ritirata, misero a ferro e fuoco Gallipoli, respinsero le truppe bizantine dell’imperatore e si volsero a saccheggiare indiscriminatamente i territori della Tracia e della Macedonia, compiendo in onore a Ruggero de Flor quella che doveva passare alla storia come ‘la vendetta catalana’. [Il ricordo di quelle azioni persiste a tutt’oggi in Bulgaria sotto la figura del Katalan, un gigantesco guerriero assetato di sangue usato per spaventare i bambini. Katalan in albanese significa mostro e ancora oggi c’è chi, in Tracia, maledice minacciando con: ‘la vendetta dei catalani ti raggiunga!’].
In seguito, gli almogavari della Compagnia Catalana furono contattati dal duca di Atene Gualtieri V di Brienne, che li assoldò in chiave antibizantina e quando quelli ebbero la meglio sui suoi nemici pensò bene tradire i patti economici accordati e tentò di espellerli da Atene, ma dovette vedersela con la loro reazione. L’esercito di Gualtieri si scontrò con i Catalani nella battaglia di Halmyros sul fiume Cefisso in Beozia il 15 marzo 1311 e gli almogavari ottennero una vittoria devastante, uccidendo Gualtieri e quasi tutta la sua cavalleria, conquistando il ducato e nominando il loro lider Roger Deslaur, nuovo duca di Atene.
«La storia del Ducato di Atene era iniziata cent’anni prima. Nel 1205, in seguito alla conquista di Costantinopoli durante la 4a crociata, Attica e Beozia furono infeudate a Ottone de la Roche che assunse il titolo di signore di Atene e suo nipote Guido I nel 1259 assunse il titolo di duca. Gli succedettero Guglielmo, Guido II e, nel 1308, il fratellastro di quest’ultimo Gualtieri V di Brienne che fu, appunto, ucciso dai mercenari catalani da lui assoldati. Nel 1312 il ducato catalano fu offerto al re di Sicilia Federico III e questi nominò duca il suo quartogenito figlio Manfredi d’Aragona, ai cui discendenti il ducato rimase finché, nel 1388, il signore di Corinto Neri Acciaiuoli se ne impadronì, ottenendo nel 1394 da Ladislao re di Napoli il titolo di duca. Finalmente, con la conquista turca del 1456 e l’uccisione di Francesco II Acciaiuoli nel 1461, il ducato scomparve.»
Quella del brindisino condottiero di mare e di terra Ruggero Flores, fu decisamente una figura magna dei suoi tempi, così come lo dimostrano i tanti risvolti internazionali che ebbero le sue gesta ed il suo stesso esistere, nonché la vastissima produzione storica romanzesca e finanche artistica, che quelle gesta hanno alimentato fin dal momento stesso in cui si produssero ed hanno continuato ad alimentare fino a tutt’oggi.
«I detrattori non esitano a definirlo un avventuriero, uomo senza scrupoli, che con le sue azioni ha gettato discredito sull’intero Ordine, avvalorando così le accuse di avarizia e cupidigia formulate contro i Templari. Il suo luogotenente e compagno d’avventure, invece, il catalano Ramon Muntaner, ne ha tracciato il ritratto di un uomo di grande coraggio e di indole generosa, sempre pronto a dividere i suoi guadagni con i compagni d’arme ed a pagare anticipatamente i suoi soldati… Moriva così, per tradimento, un uomo discusso e discutibile, un uomo che aveva servito fedelmente l’ideale del Tempio e da questo – o dai suoi uomini – era stato tradito, un uomo che, addestrato a combattere, aveva fatto del combattimento la sua ragione di vita ma, trasformato il suo ideale nella ricerca del potere, ne aveva anche subito la naturale conseguenza.» [Valentini E.]
«La sua è stata una personalità complessa, caratterizzata da numerosissime notizie biografiche il più delle volte contraddittore: se da alcuni è definito “un valoroso cavaliere che difende con ardimento gli insediamenti cristiani dalle orde saracene”, da altri invece è raccontato come “un uomo senza scrupoli, un vero pirata, che con le sue scriteriate azioni getta disonore sui Templari”. Storicamente, è stato di certo un grande avventuriero che ha combattuto con audacia a servizio di Angioini, Aragonesi e Bizantini… In Spagna le gesta di Ruggero Flores sono state rappresentate in un’opera lirica in tre atti di Ruperto Chapí su libretto di Mariano Capdepón, portata in scena la prima volta nel Teatro Reale di Madrid nel gennaio del 1878, dove ad impersonare il condottiero brindisino fu scelto il noto tenore italiano Enrico Tamberlick. La sua storia è stata narrata dai più importanti medievalisti italiani ed internazionali, e le sue imprese hanno ispirato romanzi storici di successo a firma di Azar Rudif e di Kostas Kyriazis.» [Membola G.]
«Mentre egli si trovava a pranzo col principe Paleologo e la di lui consorte, entrarono d’improvviso in quella stanza alcuni sicari, che barbaramente trucidarono il valoroso Ruggiero, mozzandogli il capo. Tale fu la fine miseranda di Ruggiero di Flores, contando la fresca età di anni 39… Quest’uomo d’aspro sembiante, ardente di cuore, vivace d’ingegno, prudente nel determinare, diligentissimo nell’eseguire e liberalissimo con tutti, occupa un posto distinto nel piccolo, ma onorevole Panteon brindisino.» [Camassa P.]
BIBLIOGRAFIA
Muntaner R. Crónica catalana de Ramón Muntaner Barcelona 1860
Kiesewetter A. Ruggiero di Flor Dizionario Biografico degli Italiani Treccani Vol. 48, 1997
Valentini E. Ruggero da Flor templare e pirataCavalieri templari, Penne & Papiri 2001
Membola G. Flores il templare divenuto corsaro il7 Magazine N.18, Brindisi 2019
Camassa P. Ruggiero di Flores Guida di Brindisi – Stab. Tip. B. Mealli, Brindisi 1897
De Stefano A. Federico, III d’Aragona, re di Sicilia dal 1296 al 1337, Bologna 1956
Giunta F. Aragonesi e Catalani nel Mediterraneo, Palermo 1959
Tramontano S. La storia della Compagnia catalana in Oriente Nuova Rivista Storica XLVI, 1962
Soldevilla F. Gli Almogavari Nuova Rivista Storica LI, 1967
Dujcev J. La spedizione catalana in Oriente all’inizio del secolo XIV ed i Bulgari Annuario de Estudios Medievales IX, 1974 – 1979.
Testimoniale del capitano e verbale di addebiti dei Deputati della salute della Città di Gallipoli Brick-Schooner “Antonino”[2], Capitano: Angelo Caporale di Torre del Greco. Rotta: Palermo-Gallipoli.
Carico: zolfo, caffè e zucchero
«Giorno 18 marzo corrente anno 1856 siamo partiti da Palermo, io e la mia ciurma di dodici uomini, con un carico di sacchetti di zolfo in una stiva e altri di caffè e zucchero nella seconda, da consegnare in questa Città di Gallipoli al mercadante Salvatore Filieri, che aveva noleggiato il nostro Scuner denominato Antonino.
Spirando venti di Ovest contrarissimi alla nostra rotta e per cagione dei tempestosi flutti che facevano beccheggiare pericolosamente la nave, fummo costretti a poggiare nel porto di Reggio Calabria.
La mattina del giorno 28, il vento cambia e così, senz’altra novità, fatta vela da Reggio Calabria siamo giunti in questo porto. Faccio perciò richiesta di poter procedere al disbarco della merce».
Questo laconico costituto[3] di approdo apparve sospetto agli ufficiali del porto, ai funzionari della dogana e al Supremo magistrato di sanità marittima della Città di Gallipoli, i quali decisero di indagare sulla condotta del capitano e dell’equipaggio durante il viaggio, ai sensi del nuovo Regolamento di servizio sanitario marittimo nel Regno delle Due Sicilie emanato nel 1853 dal Re Ferdinando II di Borbone.
La lunga permanenza dello Scuner Antonino a Reggio Calabria fu il primo motivo che insospettì le autorità del porto. La sosta imprevista di circa dieci giorni durante un percorso abbastanza breve era difficile da giustificare.
Controllata la patente di sanità[4]dell’equipaggio esibita dal capitano, i magistrati della pubblica salute, attenti ad evitare ogni possibile causa di diffusione di malattie contagiose, trovarono che
«non era a tenore dell’ordinativo delle reali disposizioni, mancandovi in detta patente l’annotazione delle mercanzie a bordo, il luogo di nascita e l’età dei marinai, la bandiera e il tonnellaggio del naviglio, le generalità di un passeggero clandestino presente sul veliero, la provvista di viveri e di acqua necessari all’equipaggio.
Oltre di ciò, ispezionate le stive, scoprirono che nel fondo di detto vascello vi erano armi molto soprannumerarie rispetto a quelle annotate sulle polizze di carico, prive di attestazioni di controlli doganali pregressi e quindi di illecita provenienza».
La nave venne sottoposta a sequestro cautelare per le irregolarità della documentazione, per la presenza di uno sconosciuto a bordo, per le armi non dichiarate, per il sospetto che la loro incerta provenienza potesse essere causa di diffusione di malattie contagiose: peste, febbre gialla, colera, tifo petecchiale o esantematico.
Quelle armi potevano infatti provenire da luoghi infetti o da equipaggi suscettibili di infezioni che, a causa dei commerci illeciti in mare, lontano dai porti, avrebbero trafficato con gente equivoca, capace di sottrarsi al rigido controllo sanitario previsto dai Regolamenti di sanità marittima.
Il capitano dello Scuner Antonino venne richiesto di fornire le sue controdeduzioni riguardo a quanto gli veniva addebitato e di rispondere in maniera chiara e puntuale all’interrogatorio cui era sottoposto.
A discolpa sua e dell’equipaggio, egli addusse le seguenti motivazioni.
«Avendo esso capitano paventato che durante il di lui viaggio il suo Scuner potuto avrebbe incontrarsi con vele nemiche e venire alla pugna, come che a bordo la propria artiglieria di difesa era scarsa assai e debole, saggiamente pensò premunirlo con altre armi con cui potuto avesse far fronte all’inimico.
E data essendosi l’occasione nel porto di Reggio Calabria, allor che si partiva, di far compra di schioppi numero 200, cioè 170 posti già in armeggio e atti all’intutto per dar fuogo all’inimico, e gli altri trenta forniti dei propri ordegni pronti all’impiego per difesa nostra o per respingere i Legni barbareschi che interamente il vasto mare dappertutto infestano».
Ma ormai, alle autorità preposte, non interessavano tanto gli attacchi di pirateria che in effetti erano di molto scemati durante il 1800, quanto le condizioni di salute dell’equipaggio e il controllo della regolarità del carico della nave per evitare ogni eventuale possibilità di contagio che poteva provenire dai traffici marinareschi. Era convinzione comune che i viaggi per mare potessero compromettere la pubblica salute attraverso gli approdi dei bastimenti, i naufragi sulle coste, la tipologia delle merci trasportate, il transito nelle città di mare di gente forestiera sbarcata nel porto, specialmente se provenente dalle coste dell’Africa, dal Levante ottomano, da altri luoghi soggetti al dominio turco, da Tripoli, Tunisi, Marocco.
Possibili portatori di infezioni contagiose erano considerati in primo luogo «l’uomo e tutti gli altri animali pelosi, pennuti e lanuti». Erano poi ritenuti suscettibili di contagio diversi generi di commercio tra cui: lana, cotone, canapa, lino, stoppa, stoffa, tappeti, tabacchi, spugne, carta, libri, qualsiasi tipo di pelli e di cuoi. Anche i metalli, «semplici o manifatturati», potevano risultare contagiosi «per ragion della ruggine e dell’untume che naturalmente concepiscono nell’essere maneggiati»[5].
Nel caso dell’Antonino si giunse facilmente alla conclusione, anche per le reticenti spiegazioni del capitano e dell’equipaggio, che il carico di fucili era stato acquistato illegalmente e che allo stesso modo poteva essere venduto. Per cui, non potendone appurare né la provenienza né le condizioni igieniche, a causa del passaggio nelle mani di organizzazioni clandestine di numerosi trafficanti che inducono condizioni propizie alla ruggine, alla polvere, a germi altamente morbiferi, i Deputati della salute confermarono il sequestro della nave e dell’intero carico.
Al Pretore del Mandamento di Gallipoli venne demandata, per competenza, la valutazione dei risvolti penali dell’intera vicenda e delle sanzioni che andavano applicate.
Il capitano, l’equipaggio e il passeggero rimasto ignoto vennero posti, come richiedevano la prevenzione quarantenaria, la pratica di isolamento e le altre strategie di contenimento dei contagi, entro il recinto del lazzaretto, o ospedale del porto, delimitato da un sicuro cordone di custodia sanitaria, da un alto muro e un fossato.
Certo le malattie contagiose non risparmiavano Gallipoli né le altre città di mare. Basti qui ricordare le infezioni di tifo petecchiale con emorragia cutanea del 1804 e del 1848, che indussero vuoti paurosi nella densità della popolazione, causate, secondo le cronache storiche della città, da partite di grano infestato da petecchia e da altri virus patogeni sbarcate nel porto e panificate per il pubblico consumo. Anche allora, come oggi per il Corona virus, alcuni solerti medici perdettero la vita a causa del morbo che cercavano di debellare. Tra questi, Salvatore Marzo e Salvatore Demitri. Illustre vittima del contagio fu il vescovo Giuseppe Maria Giove, che molto si era prodigato «a pro dei veri poveri minacciati dalla malattia e di una morte quasi inevitabile per difetto di efficaci soccorsi»[6].
In assenza di qualsiasi intervento dello Stato, le imprese commerciali, spinte dalla necessità di sostenere l’economia, mettevano a disposizione della ricerca sanitaria gli indispensabili mezzi finanziari. A Gallipoli, le ditte francesi Auverny & Co. e la Emile Vienot, la Henry Stevens, inglese, la Mac Donald, olandese, sostennero la ricerca medica con propri finanziamenti allo scopo di conoscere meglio il virus del tifo petecchiale e combatterlo in maniera mirata.
L’odierna pandemia del Corona virus fa ripensare, mutatis mutandis, alle strategie sanitarie adottate in altre simili situazioni per arginare le conseguenze devastanti di malattie che, nella storia di lungo periodo, hanno aggredito e falcidiato la vita di intere generazioni. Per cui, senza esprimere giudizi di merito e traendo spunto dalle vicende sopra riportate, ritengo cosa utile riproporre alcune norme sulle urgenze sanitarie imposte dal Regio Decreto del 1853 per il Regno di Napoli. Ognuno può fare confronti e riflettere sugli accorgimenti anticontagiosi posti in essere nel passato e su quelli che vengono proposti oggi.
I reclusi del lazzaretto, sospetti di contagio, venivano sottoposti a diverse visite mediche, comunque non meno di due, una all’inizio e l’altra al termine della quarantena.
I medici, gli assistenti e i custodi del lazzaretto dovevano «essere coperti di una sopraveste di taffettà incerata, con cappuccio e maschera, calzati di zoccoli di legno e non si permetteranno mai di toccare gli infermi, né le loro robe, né i loro letti.
A tal fine porteranno sempre in mano un bastone con punta di ferro uncinato nel fine di scoprire gli ammalati quando occorra osservarli e far sì che nessuno si avvicini a essi.
L’infermiere e le guardie di servizio avranno, invece del bastone, lunghe mollette di ferro onde somministrare agli infermi i cibi ed i medicamenti prescritti, o per raccogliere da terra gli stracci, i fili, le carte e immediatamente bruciarli.
Tutto il personale sanitario, prima e dopo le visite, deve lavarsi le mani e il viso con acqua mista ad aceto antisettico e replicare queste lozioni frequentemente […] anche con soluzioni cloriche e saponate calde.
[…] Se un infermo viene a guarigione se gli debbono far recidere da lui medesimo i capelli ed i peli di tutte le parti del corpo. Indi si deve far passare in una sala di convalescenza ed ivi lavarsi diligentemente con un bagno tiepido e dargli dell’olio tiepido, acciò se ne unga per tutta la superficie del corpo, compresa la faccia e la testa». Doveva inoltre restare in osservazione per 40 giorni.
Le camere dei lazzaretti, a mano a mano che si rendevano libere o per causa di morte o, eccezionalmente, per guarigione dei reclusi, venivano imbiancate e disinfettate con calce. Il pavimento, sottoposto a ripetuti strofinamenti con la sabbia, era poi lavato con acqua di mare, con aceto antisettico e con “fumigazioni” nitriche o cloriche.
Le “robe” dei deceduti, non escluso il letto che avevano occupato, subito venivano date alle fiamme.
Se la morte fosse intervenuta per causa di peste, febbre gialla, colera o tifo petecchiale, il cadavere doveva essere preso con uncini di ferro, riposto nudo in una fossa cosparsa di calce viva, ricoperto ancora con calce e con acqua sufficiente per portarla allo stato di sobbollimento e, quindi, la fossa veniva colmata con almeno otto “palmi” di terra[7].
Poiché siamo in tema di contagi non è superfluo ricordare che la pandemia di Covid 19, che è la prima del XXI secolo, è comparsa puntualmente a distanza di cento anni, un secolo esatto, dall’ultima pandemia dell’età moderna: la Spagnola degli anni 1918-1920, quando le attuali irrinunciabili (o irresponsabili?) movide erano ancora di là da venire.
E diciamo ancora che la Spagnola trovò terreno fertile alla fine del primo conflitto mondiale, che aveva devastato l’intera Europa, mentre il Corona virus è stato preceduto da decenni di violenza sistematica e persistente perpetrata dall’uomo ai danni del pianeta Terra.
Che il Covid 19, come tante altre pandemie, abbia messo in ginocchio l’economia mondiale è fuor di dubbio. Ma è fuor di dubbio anche la nostra colpevole noncuranza riguardo ai livelli di qualità della vita che lasceremo a chi verrà dopo di noi.
[3] «Il costituto è un atto legale, con cui il Capitano di un bastimento è obbligato a deporre innanzi alle Autorità sanitarie su tutte le circostanze della navigazione eseguita dal momento della sua partenza da un luogo fino a quello dell’approdo nel luogo ove se gli domanda il costituto». Dal Regolamento di Servizio sanitario esterno per il Regno delle Due Sicilie, 1853, Titolo II, Capo II, art. 27.
[4] «La patente è una carta autentica che le autorità sanitarie rilasciano ai Capitani o Padroni di bastimenti allorché essi sono per partire da un luogo. La patente deve indicare: il nome e l’età del Capitano del bastimento a cui si rilascia; la denominazione del bastimento e la bandiera di cui è coperto; i nomi e l’età di tutti gli altri individui che vi sono imbarcati, sia come formanti l’equipaggio sia come passeggeri; la specificazione del luogo per cui è diretto; la natura delle merci di cui il carico si compone», cit., Titolo II, Capo I, articoli 17 e 20.
Era trascorso giusto un secolo dai tempi in cui Margarito da Brindisi – il famoso arcipirata divenuto poi grande ammiraglio – scorrazzava in lungo e in largo nei mari mediterranei con le sue flotte sempre vincitrici incutendo timore e rispetto, quando ecco apparire un altro brindisino che sembra voler ricalcare sugli stessi scenari quelle rocambolesche gesta marinare. Si tratta di Ruggero Flores e per lui, il pirata e poi il grande ammiraglio furono preceduti nientemeno che dal templare.
Ruggero de Flor nacque a Brindisi nel 1267, ultimo figlio di un militare tedesco che si crede fosse stato un falconiere dell’imperatore svevo Federico II re di Sicilia, Riccardo Blum – latinizzato in Flor e poi in Flores – e di una ricca dama dell’alta società brindisina. Riccardo, combattendo dalla parte dei ghibellini, nel 1268 trovò la morte nella battaglia di Tagliacozzo, quella in cui Corradino di Svevia, ultimo dinasta degli Hohenstaufen, fu sconfitto e poi fatto decapitare dall’angioino Carlo I, nuovo re di Sicilia.
A seguito di quegli eventi, che in varie regioni del regno erano stati preceduti da una lunga e aspra guerra civile, i beni della famiglia Blum, così come quelli di tante altre famiglie brindisine del partito ghibellino, vennero interamente confiscati lasciando la madre di Ruggero in povertà e costretta ad alloggiarsi con i figli in una umile casa nei pressi del porto.
Tutto ciò d’accordo al racconto che ne fa nelle sue cronache catalane Ramòn Muntaner, che fu per molti anni compagno d’armi e luogotenente di Ruggero, unica fonte disponibile per il primo periodo della vita di Ruggero Flores. Una fonte forse non sempre del tutto affidabile – perlomeno non proprio sulla veridicità di tutti i dettagli di quello che racconta – spesso incline a corredare di una certa coloritura fantastica e leggendaria la vita dei vari personaggi narrati.
Quando Ruggero aveva circa otto anni, il templare frate Vassayl nativo di Marsiglia e comandante di marina dell’Ordine del Tempio, mentre svernava nel porto di Brindisi per stivare la propria nave e farla riarmare nel rinnovato arsenale brindisino, notò il vispo ragazzino che evidentemente gironzolava tutt’intorno e intuitone le potenziali qualità se lo fece affidare dalla madre per introdurlo all’Ordine e al mestiere marinaro.
Certo è comunque, che Ruggero fece una carriera velocissima: solo quindicenne venne considerato uno dei migliori mozzi della flotta e quando anni dopo prese il manto di frate-converso, era già un esperto navigante, probabilmente il migliore dell’intera marineria templare, tant’è che appena ventenne gli fu affidato il comando del Falcone del Tempio, la più bella e moderna nave della flotta templare, acquistata dai Genovesi ed impiegata nelle rotte del commercio mediterraneo e nel trasporto di pellegrini in Terrasanta.
Ruggero de Flor, al comando di quella sua nave si trovava nei pressi di San Giovanni d’Acri – l’attuale Akko in Israele – nella primavera del 1291, mentre dal 5 aprile era in corso l’assedio poi culminato il 18 maggio con la caduta della città nelle mani degli assedianti Mamelucchi. Nel corso dell’evacuazione che seguì all’assedio e alla conquista musulmana, la Falcone del Tempio di Ruggero riuscì audacemente ad imbarcare numerosi facoltosi profughi civili cristiani che con i tanti beni recuperati furono condotti in salvo. Alcuni degli evacuati si fermarono a Cipro e gli altri proseguirono fino a Mont-Pélerin in Francia.
Quel viaggio dovette certamente fruttare ingenti guadagni per le arche del Tempio, ma presto si sparsero pesanti dicerie rispetto al capitano della nave, Ruggero, il quale fu finalmente e formalmente accusato dai gerarchi templari di aver trattenuto illegalmente per sé buona parte di quei guadagni, tradendo in tal modo il Tempio. I detrattori del giovane e prestigioso capitano brindisino – molti dei quali probabilmente non del tutto esenti da una qualche dose di invidia nei suoi confronti – ebbero la meglio sui difensori e convinsero della veridicità delle loro accuse il gran maestro Jacques de Molay, il quale espulse Ruggero dall’Ordine e ne predispose la cattura.
A quel punto a Ruggero de Flor non restò altro che levare le ancore, e con il Falcone del Tempio si diresse a Marsiglia. Poi, senza l’abito templare, ricomparve a Genova dove comprò a messer Ticino Doria – a detta di Muntaner R. grazie al denaro prestatogli da amici – una galera, l’Olivetta, allestita la quale pensò bene dirigersi a Sud e prestare i suoi servizi di capitano marinaro di ventura nel regno angioino ‘di Napoli’ del re Carlo II d’Angiò, ormai privato della Sicilia, che dopo la rivolta dei Vespri del 1282 era passata agli Aragonesi.
E proprio nell’aragonese Sicilia, sul finire del 1300, finì per approdare da rinomato corsaro il condottiero di mare Ruggero Flores per porsi al servizio del re Federico III in permanente conflitto – nella ventennale guerra dei Vespri – contro gli Angioini di Napoli.
Nella primavera del 1301, con una flottiglia di cinque navi, condusse una fruttuosa spedizione contro gli Angioini sulle coste della Puglia, nella quale riuscì ad impadronirsi ripetutamente di navi cariche di granaglie che, predate, furono impiegate per soccorrere diverse città della Sicilia colpite dalla carestia, ovvero vendute per pagare le guarnigioni aragonesi dislocate in Sicilia e in Calabria. Quindi, non disdegnò nuove azioni di più franca pirateria, che condusse principalmente lungo le coste della Provenza delle Baleari e della Catalogna, appartenenti tutte al regno d’Aragona dell’antagonista re Giacomo II.
Poi, alla fine dell’estate di quello stesso 1301, al comando di dieci galee, prese parte alle operazioni condotte per la liberazione di Messina assediata dalla potente flotta angioina di Ruggero Lauria e dall’esercito di Roberto, principe d’Angiò. Liberazione per la cui riuscita risultò fondamentale il contributo di Ruggero de Flor.
Tutti quei considerevoli successi ottenuti sul mare dall’ormai famoso condottiero brindisino, indussero Federico III a nominarlo viceammiraglio della flotta siciliana e a conferirgli la signoria sui castelli di Tripi e Licata, nonché le entrate dell’isola di Malta.
Poi, quando finalmente la guerra dei Vespri giunse al termine con la pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302, che formalizzò il teoricamente ‘temporale’ riconoscimento della Sicilia agli Aragonesi, il corsaro Ruggero de Flor restò senza una formale occupazione e l’inquieto ed ancor giovane condottiero di mare cominciò a volgere il suo sguardo verso altri lidi.
D’altra parte, le sue turbolenti milizie catalane, con gli almogavari parcheggiati senza occupazione in Sicilia, costituivano un potenziale problema per il re Federico III e questi vide subito di buon occhio l’idea prospettatagli da Ruggero Flor di ‘prestarle’ all’imperatore d’Oriente Andronico II Paleologo, il quale si era mostrato interessato al loro ingaggio per combattere la crescente avanzata dei Turchi che erano riusciti a sottomettere quasi tutta l’Asia minore e a ridurre il dominio bizantino a una sottile fascia costiera tra Nicea ed Efeso.
«Gli Almogavari erano soldati della Corona d’Aragona reclutati prevalentemente in Navarra Aragona e Catalogna, che nel trascorso dei secoli XIII e XIV operarono su vari fronti iberici ed europei e la cui origine – nonché lo stesso nome – ebbe certamente qualcosa di arabo. Fanti leggeri senza corazza, indossavano corte braghe di cuoio molto spesso ed erano armati con due pesanti giavellotti un grosso coltello ed una spada corta. Erano soldati di professione, al servizio di chi era disposto alla loro remunerazione, praticamente milizie mercenarie. Quando in seguito ai Vespri siciliani il re Pietro III d’Aragona appoggiò la rivolta e mosse guerra a Carlo I d’Angiò, gli almogàveres formarono l’elemento più efficace del suo esercito. La disciplina e la ferocia, unite all’abilità con cui lanciavano i loro giavellotti contro i cavalli, li resero formidabili contro la cavalleria pesante sulla quale riportarono sistematiche vittorie.»
Ruggero de Flor colse al balzo quella ghiotta occasione, e nella primavera del 1303 stipulò accordi con l’imperatore che previdero: per le truppe della sua ‘Grande Compagnia Catalana’ riorganizzata ad hoc, quattro mesi di stipendio anticipato e per se, il titolo di megadux – megaduce, comandante della flotta – nonché la mano della nipote dell’imperatore e figlia dello zar bulgaro Ivan Asen, Maria. All’inizio di agosto il fiammante megadux prese il largo con ben 36 navi e circa 6000 almogavari alla volta di Costantinopoli, dove fu ricevuto con grandi onori e dove fu fastosamente celebrato il matrimonio convenuto.
(1. continua)
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Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (VII)
Il Salento lo devi vivere, perché ti entra nell’anima, ti avvolge e non ti lascia più.
Fabrizio Caramagna
Il desiderio chiede al territorio spazi di libertà. Vuole essere slegato dai torpori del quotidiano, dai pesi economici, dalle angustie dei poteri e chiede di abitare luoghi in cui sia possibile realizzare i sogni[1].
E torniamo ancora a parlare della Bufalaria, perché la casa che era stata il cuore pulsante di Helen e di Arno è tornata, dopo la loro scomparsa, a rivivere ancora attraverso gli occhi di altri. Qui, ora, è la casa di Klaus ….Questo luogo fa ancora suoi i termini ricorrenti di “società di artisti”, “Repubblica”, “utopia” e “comunità”, perché sono stati le parole chiave di Helen e del suo fermento intellettuale ancora presente nella casa; Klaus e Ulrike lo sentono forte, è come se fosse rimasto impigliato tra le trame magiche della natura, nell’odore della terra, in quel gioco di luci che ella riusciva a catturare e riprodurre nelle sue sculture.
Giunto nel 1968 alla Masseria, con la moglie Ulrike, per visitare gli amici artisti Arno Mandello e Helen Ashbee, Klaus decide di esplorare un ambiente che diventa luogo di ricerche e fecondi contatti. Ne rimane tanto affascinato da metterci le radici, e comunicarne la bellezza attraverso i suoi romanzi e i suoi film, dove personaggi reali raccontano strane storie di vita che riviste oggi a distanza di tanti anni permettono ancora di riconoscersi appieno, di capire dal caleidoscopio di immagini in bianco e nero o a colori che si fa ancora parte della cultura del tempo, mai andata perduta, a cui si guarda sempre con un piglio nostalgico e affettuoso.
Nel suo primo cortometraggio Klaus Voswinkel racconta il Salento (Landpartie “Scampagnata”, 44 min, 1977) attraverso due episodi. Nel primo si sofferma sui preparativi per un banchetto pasquale organizzato in un agrumeto di Sternatia da una benestante famiglia leccese. Nel secondo un gruppo di amici festeggia in collina la Madonna della Campana a Casarano, al suono della pizzica[2]. – « Hanno suonato e noi li abbiamo amati» – dice, – «Anni dopo ho compreso che questo film costituiva una grande testimonianza, perché questi musicisti rappresentano la vecchia generazione dei suonatori di pizzica[3]» – Il suo secondo lavoro è dedicato al profilo di Norman Mommens, scultore geo-astronomo e della sua compagna Patience Gray, scrittrice-orafa-rabdomante, (anche loro ormai scompars). Il suo titolo è “Sonne, Mond” (Sole-Luna, 44 minuti, 1983), una preziosa testimonianza, ed è stato realizzato insieme alla moglie Ulrike. I due artisti sono ripresi non solo nei loro luoghi di lavoro: a Masseria Spigolizzi, sulla collina dove ricercavano selci, ma anche sul barcone, in processione a Torre Pali o sulla serra del “Paiorone” di Pozzo Mauro, dal quale Norman, grande conoscitore della cultura salentina, era partito per studiare le corrispondenze tra toponimi e astronomia. Il documentario si conclude con l’ascolto di Casta Diva, durante la festività di Sant’Andrea di Presicce.
Con il terzo documentario “Piazza”, (44 min., 1984), Klaus ci porta in Sicilia, ai piedi dell’Etna, per seguire da vicino la vita dei cantastorie siciliani e la grande festa di Sant’Alfio a Trecastagne. Straordinaria, tra l’altro, la sequenza dell’incontro col “poeta delle piazze” Ignazio Buttitta che declama i suoi versi sull’insostituibilità del patrimonio dialettale. Si ritorna sul tema-conduttore del folklore, della festa e della musica con La Banda, del 1987. Questa volta viene inseguita nelle sue varie performance un’orchestra di quaranta uomini, guidata da una giovane direttrice, Grazia Donateo di Surbo, la prima in tutta Italia (che fu invitata molte volte a Stoccarda dopo che il lavoro di Klaus si diffuse in Germania, ma non ci andò mai, per via dei suoi tanti impegni con le feste patronali). Chiude la rassegna il lungometraggio “Ragazzi” o “L’invenzione della commedia”, un gruppo di aspiranti attori in cerca di identità, che intrecciano il loro vissuto di provincia e la loro voglia di fare teatro.
In questi suoi lavori Klaus restituisce la verità dei paesaggi, delle situazioni e dei personaggi, senza enfasi e senza forzature, riuscendo a fare “poesia” con le immagini, con i suoni, i colori e i tagli fotografici. Un’indagine condotta sapientemente su ciò che di più autentico possiede il nostro territorio, in un linguaggio cinematografico dal tono asciutto: nello scavare l’humus delle tradizioni e della cultura salentina si avverte il carattere essenziale di un mondo fermo nel tempo, in un passato prossimo, oggi sempre più minacciato dalla globalizzazione e dalla omologazione imperante, eppure ancora vivo nel presente.
Una interessante ricerca quella di Klaus, molto apprezzata, tra l’altro, dai nostri connazionali in Germania. Molti salentini, entusiasti dinanzi alle inaspettate immagini della loro terra, mandate in onda dalla tv tedesca, hanno subito telefonato agli amici del Capo per dimostrare apprezzamento.
É da un punto di vista inedito che Klaus Voswinkel osserva il Sud nei suoi documentari degli anni Settanta: un Salento, aspro come le pietre dei muretti a secco, sospeso nel tempo come i suoi ulivi. I documentari di Klaus sono uno spaccato sociale sugli aspetti demo-antropologici della cultura meridionale, con una particolare attenzione alle tradizioni popolari delle feste in provincia, un mondo culturale che ha affascinato il regista di origine tedesca (nato ad Amburgo nel 1943), fin dal suo primo arrivo nell’estremo sud della penisola salentina[4].
Klaus, Ulriche e la figlia Esther (nella cui voce si può, forse, scorgere una certa inflessione salentina), tutti qui hanno il loro posto, il loro angolo solitario di paradiso dove meditare o dedicarsi alla propria attività di pensiero o di scrittura. Ulriche che cura programmi per una radio tedesca, in cui parla di scrittori e letteratura, trova il suo spazio con la macchina da scrivere eletta a “Deus ex machina” dello spirito, posizionata di fronte ad una finestra che è sguardo aperto su questo lembo di terra. La scrittrice ha pensato molte volte di presentare degli autori salentini. Una volta ha coinvolto in una rassegna a Monaco, l’amico Tommaso Di Caiula: – «appena ci conoscemmo, gli abbiamo detto che eravamo innamorati della Puglia e lui ha risposto: io vorrei vivere in Germania» – . Il posto preferito da Klaus, invece, è sotto un albero, su una sdraio, protetto da un gran cappello di paglia. C’è uno spazio immenso che si lascia abitare docilmente e culla le menti, non si può desiderare null’altro alla Bufalaria. Il mare vicino trasporta il suo odore di salsedine che si mischia con quello del giardino. La sera poi, la casa si riempie di accordi musicali e di voci recitanti, li a ridosso di un costone di roccia che declina a semicerchio, quasi nella forma di un piccolo anfiteatro naturale: fra i gradoni in pietra e cemento, in questa terra dove la gente ama la banda, ci si muove al ritmo della pizzica che sovrasta le voci della campagna. Qui per ascoltare la banda, le persone farebbero anche le due di notte.
Ulriche ricostruisce nel suo racconto la fitta rete di passioni intellettuali e umane cresciuta intorno ad Helen Ashbee e a Normann Mommens e a Patience Gray: – « Piano piano, abbiamo fatto qui tante esperienze. E poi sono venuti gli amici, molti amici. Come Helmut e Christina. Loro sono venuti per incontrarci e sono venuti nel meridione da Milano. Hanno conosciuto Arno ed Helen ed hanno deciso anche loro di comprare la masseria in cui vivono. Dopo Helmut è venuto Binder, poi Mirjam ed Enzo. Enzo è venuto perché amico di Binder. Binder è venuto perché amico di Helmut. È così[5]».
Le esperienze di vita e arte di questi salentini d’adozione e elezione hanno animato per decenni le campagne vicino al mare di Torre Mozza, inusuale agorà culturale in dialogo con il Mediterraneo e l’Europa, e ancora oggi continuano a raccontare l’unicità di questo territorio, luogo di ispirazione da vivere e difendere[6].
Giungiamo, così, alla storia breve ma intensa della stilista Cinzia Ruggeri, anche lei innamorata del Salento, al quale si rivolge durante l’apice del successo, per staccare la spina e ritrovarsi, ospite di Michael Binder.
Ha precorso il tempo, confrontandosi con straordinaria visionarietà con tutti i linguaggi della progettazione. L’arte per Cinzia Ruggeri era un modo di ridisegnare il mondo e le cose, specialmente quelle di tutti i giorni, quelle nel quotidiano di tutti, arredi e oggetti, ambienti, abiti e accessori, che sapeva puntualmente arricchire di eloquenza, di eleganza, d’impagabile humour e provocazione.
“Non l’ho conosciuta, come molti, negli anni 60, 70 e 80, quando lei già era una bionda seducente, eccentrica e rivoluzionaria protagonista della scena milanese e internazionale. Tuttavia avevo memoria di lei, delle sue sfilate fuori dai canoni, dei suoi interventi sulle pagine di Domus e di Vogue, delle sue collaborazioni per molte industrie del design, dei suoi progettuali sodalizi con Studio Alchimia e Occhio Magico. E, quasi per volontà del destino, il desiderio di incontrare Cinzia mi è cresciuto dentro, quasi ossessivo. Così ho cominciato a cercarla, a chiedere di lei, che dopo il grande successo già riscosso aveva abbandonato tutto, per vivere dieci anni dove la terra precipita nel mare, nella punta estrema dello sperone, in Salento. Un humus che la rasserenava, una certezza di benessere anche, che aveva maturato da ragazza nelle lunghe vacanze in barca con il padre”[8] – . Cinzia, era periodicamente ospite di Michael Binder. Era giunta in questa terra per la prima volta negli anni sessanta, convinta di poter cambiare il mondo. Fuggiva dall’alienazione di una città come Milano ed era attratta dal profondo sud immaginandolo come un posto magico in bilico tra i due mari, tra il sorgere e il tramontare del sole. Immaginava nella sua fervida fantasia una lunga fila di automobili che una volta giunte a Santa Maria di Leuca, col finire della strada precipitavano a capofitto nel mare e che, quindi, sotto al faro si potesse scorgere una lunga fila di automobili che sporgevano dall’acqua. Una sorta di avamposto nel nulla dove avrebbe potuto dialogare con la natura. Nella sua creatività il linguaggio della (e con ) la natura era fondamentale sorgente di ispirazione trasferita, per esempio, nei suoi bellissimi abiti floreali intessuti di fitte foglie e ramoscelli. Il primo amore per il Salento era avvenuto solennemente al cospetto del Ciolo dove, sosteneva, che ci si potesse costruire una casa semplicemente con quattro stracci e le cose portate dal mare. In seguito, attraverso l’amicizia comune dello stilista Ken Scott, aveva stretto amicizia con Helen Ashbee e Arno Mondello, decidendo di stabilirsi alla Bufalaria. Erano i primi anni novanta e Cinzia si era lasciata contagiare dal sogno di Helen. Quel sogno di costruire una comunità di artisti in osmosi con la natura. Uno status che più avanti qualcuno identificò come “Glocal”, ovvero quello stato di dover vivere senza rinunciare mai alla propria identità culturale, pur guardando con entusiasmo al mondo. Ma, invero una teoria del baratto culturale era stata azzardata anche dal salentino Eugenio Barba quando, nel 1974, l’Odin Teatret era sbarcato a Carpignano Salentino[9]: Il loro proposito di rinchiudersi in un posto dimenticato da Dio si sgretolò e desiderarono di costruire un ponte tra il Teatro con la t maiuscola e la teatralità spontanea di quei luoghi. Da allora, da quasi cinquanta anni, si ripete ogni anno nel paese questa festa, che può considerarsi quasi l’antesignana di tutte le sagre, dove il centro storico di Carpignano diventa quasi un teatro a cielo aperto. Un luogo di musica, danza, ronde e amore per la tradizione; una tradizione mai ignorante, ma ubriaca di cultura e arte[10].
Si trattava di una compagnia teatrale norvegese, alla ricerca di un posto remoto dove lavorare al futuro spettacolo. La faccenda andò un po’ diversamente. Quei professionisti del teatro subirono tutto il fascino di un mondo contadino, di un paese dal centro storico bellissimo, dai campi coltivati a vigneti, ulivi e tabacco. Trovarono la purezza di una storia in cui il Teatro ufficiale non era mai approdato, eppure il potenziale mimico degli abitanti si manifestava in ogni occasione, durante le festività, nei canti spontanei, nella gestualità accesa, nei rituali del lutto.
Il periodo del trasferimento alla Bufalaria fu un buon momento per la produzione creativa di Cinzia, presero forma straordinari e originalissimi pezzi di design come l’armadio Rocco, che si ispirava ai colori rosso e nero delle confraternite religiose che sfilavano nelle processioni del venerdì santo, l’aspirapolvere proboscide e il ventilatore orecchie d’elefante. Con le sue installazioni sfrontate e trasgressive partecipò anche ad alcune mostre a Lecce. Sempre in quel periodo anche Helen Ashbee organizzò una memorabile mostra, quella dei suoi gioielli annidati ed esposti tra i rami degli alberi della masseria. Poi, si passò dalla fase di euforia e speranza a quella di una cocente delusione, perché come sostenevano Michael e Cinzia, mancava l’appoggio delle istituzioni, mancavano dei sostegni concreti e ogni bella iniziativa si andava a spegnere nell’indifferenza. Helen nel suo sogno era rimasta isolata, e dopo la sua morte era svanita ogni aspettativa. Forse il territorio e gli artisti che avevano creduto in quel sogno non erano ancora pronti ad affrontarsi, forse si trattava di un Salento dormiente, che non aveva ancora chiarezza sulle sue infinite possibilità. Era come se il Salento dapprima tagliato fuori a causa dell’inadeguatezza della politica locale, si fosse poi ritrovato a essere tagliato dentro, come un’isola che non ha un retroterra. Così Cinzia, che dopo la morte di Helen aveva sofferto la solitudine, per non andare oltre, chiuse la sua parentesi lunga dieci anni legata a questa terra e, ripartendo per il nord, al Salento disse addio.
Il Salento è una magia da scoprire che affascina e cattura quanti realizzano la possibilità di conoscerlo. Si lascia penetrare fin nei più piccoli segreti e apre il cuore a ogni viaggiatore interessato alla sua storia e, pian piano, si insinua dentro e ruba l’anima.
Attraversata la Serra delle Fontane, a sud di Ugento, c’è la Bufalaria, una delle poche masserie salentine in cui si allevavano bufali che, si dice, potrebbero essere stati introdotti in Italia nell’epoca sveva e normanna. Alle spalle della casa vi è un boschetto di pini. In Salento pochissimi allevatori si erano dedicati a questa scelta, che prese invece piede in Sicilia e in Campania. Si allevavano i bufali esclusivamente per il loro latte, per ricavarne i prodotti caseari ma, vi era ripugnanza a mangiare la loro carne. “Una vita grama, quella dei bufalari, sempre in lotta con la malaria, che come paga riceveva poco burro alla settimana e il diritto di contendere al bestiame la cicoria selvatica[1]
Ma, andiamo con ordine, riprendiamo il nostro viaggio itinerante nella Mancha del Salento, esattamente da dove si era interrotto con l’ultima storia, quella di Michael Binder, artista della Baviera che aveva scoperto il Salento su invito di Helmut Dirnaichner, fino a farne la dimora della sua arte e della sua vita. Andò in questo modo la storia d’amore tra Helmut e Christine Dirnaichner e il Salento:
Un interminabile viaggio da Lecce a Gallipoli e poi da Gallipoli a Ugento. Da soli, in tutto un vagone del treno della Sud Est, mentre oltre i finestrini, corrono ulivi e pietre e all’orizzonte si snoda il nastro azzurro del mare. Tutto il tempo necessario per rimanere folgorati da un vero e proprio colpo di fulmine. Nel 1979 fu il loro primo viaggio, la loro prima volta nell’affacciarsi da quel finestrino sulla poesia del Salento, e bastò a fargli decidere di farne la loro seconda patria.
Helmut e Christine, tedeschi della Baviera, come altri degli artisti di cui abbiamo parlato si trasferirono circa quarant’anni fa nell’entroterra di Torre San Giovanni, presso Gemini, con il loro bambino, tra le pietre e gli ulivi di una campagna primordiale dove, dicono con orgoglio, non è mai entrato un trattore. Nella masseria tutto è lasciato alla sua selvatica e naturale bellezza, le antiche e nude mura architettoniche e la vegetazione: un misto di alberi e macchia mediterranea, agavi, fichi d’India, capperi, menta, basilico e altro ancora. Persino il serpente insediato nelle fessure della colombaia può restare indisturbato e la natura, dona in cambio del loro rispetto, una vastità enorme di frutti e ortaggi da non aver quasi bisogno di nulla altro.
Christine, oltre ad essere un’intellettuale, diventa una capace vestale della casa e una massaia formidabile, che impara a sfruttare appieno tutte le risorse di quella generosa terra, così come era già accaduto a Michael, a Patience e Mommens, a Gerhard e Rita, ad Heinz e Mirjam. Helmut e Christine sentono intensamente il valore dell’ospitalità e il piacere della conversazione.
La loro casa è un punto di incontro e di scambio, un cenacolo dove costruire progetti e nuove situazioni. Helmut intrattiene rapporti di dialogo di vari livelli con i suoi vicini, non solo per i problemi dell’agricoltura, ma anche per scambi culturali, facendo della masseria un luogo d’incontro e dibattito. Nella persona di Helmut nei panni di profeta, sembra essersi trasferito lo spirito che già aveva animato le scelte e lo stile di vita degli abitanti di Spigolizzi e della Bufalaria: quell’identico legame profondo con la terra e la struttura contadina, quel desiderio di essere attenti e rispettosi verso i luoghi e il desiderio di socializzare il proprio lavoro. Helmut rispetto a Normann ha dovuto affrontare più spostamenti, a causa degli studi del figlio e di alcune necessità che lo hanno ricondotto a singhiozzo a Milano e a Monaco ma, sin dal principio si era creato un sodalizio perfetto tra lui e Normann, le feste, i raccolti, le vendemmie condivise, i discorsi sull’arte e anche le mostre insieme: la prima fu “Costellazioni Terra e Pietra” a Palazzo D’Elia a Casarano nel 1986, la seconda fu “Materia sorgente”, al Circolo “La Scaletta”, a Matera nel 1989.
Nato nel 1942 a Kolbemoor in Germania. Dal 1970 al 1976 studia all’Akademie der Bildenden künste a Monaco. Nel 1978 arriva a Milano con una borsa di studio del DAAD. Il suo lavoro artistico è incentrato sulle terre e sui minerali di cui ricerca materia, colore e storia in stretto rapporto con lo spazio. Quando nel 1979 conosce il Salento, e acquista la casa presso Ugento, vi trascorre lunghi periodi collaborando con le realtà culturali del luogo. Globe trotter con esperienza di vita e d’arte a Monaco e a Parigi, a Mosca e a Londra, ad Amsterdam e a New York, in Spagna, Messico, Egitto e un lungo percorso italiano da Milano a Firenze, da Roma a Matera, individua in quel di San Giovanni l’essenza della sua futura vita. Come Federico II di Svevia, il suo conterraneo, Helmut sente profondamente il fascino di questa terra di Puglia, da sempre luogo di transito di civiltà di cui conserviamo tracce ovunque, come nei misteriosi graffiti di porto Badisco, nelle memorie dei messapi, greci, romani, monaci basiliani e nello Zeus di Ugento. Terra che da sempre, essendo centro di esodi e di approdi, ha irradiato cultura nella cultura, come il paziente e minuzioso lavoro degli amanuensi di Casole.
Helmut venera e rispetta la terra, ne fa la materia privilegiata dei suoi lavori. Per lui la terra racconta, ha una storia, una memoria. Come un alchimista manipola le polveri preziose di lapislazzulo, malachite, acqua marina tormalina e il cinabro, di origine magmatica, già noto ai greci, che usa in pittura per produrre il pigmento vermiglione. E ancora, preleva per le sue magie la ricca terra rossa del Salento, la terra grigia di palude, sedimentata vicino al mare, le argille gialle, le nere ceneri dell’ulivo bruciato che lega con la cellulosa.
Il tutto viene disposto con ordine nell’ambiente più bello della masseria che dopo alcuni restauri è diventato il suo studio, una grande stanza con il soffitto a botte, cinquecentesca, dove entra una luce chiara che accende di colore i minerali preziosi che usa per esprimere la sua arte. Le forme dei lavori di Helmut, semplici e minimali, sono suggerite dalla natura: l’ovale del frutto, la forma lanceolata delle foglie, l’anello della chioma d’ombra dell’ulivo.
Così l’artista ritrae il Salento, esattamente nel modo in cui lo ama e tutto il suo lavoro racconta la mappa del paesaggio e ne racconta la forma sotterranea e originale. La sua opera è pittura e struttura, corpo plastico e figura astratta. Si articola nello spazio e si costruisce sulla memoria di architetture reali e spazi concreti ma, se si indaga oltre, si scopre che i suoi lavori sono veri distillati del mondo che oltrepassano il confine fisico del visibile per andare oltre la materia, percependo l’infinito e vestendolo di poesia. Quando trasforma i suoi elementi, Helmut lo fa immergendosi nella ricerca di una ricostruzione del paesaggio passando per un percorso di rarefazione della materia prima, per poi concettualizzarlo in modo che non perda la sua naturalità espressiva. Insomma non è un alchimista alla ricerca della pietra filosofale ma un artista che mette la sua anima nella profondità dell’oggetto per arrivare alla sua essenza e sentirsi un tutt’uno con essa. Ed è proprio questo che dona alla sua opera una profonda aria di sacralità. Esattamente come Piet Mondrian, il pittore olandese famoso per i suoi quadri “non rappresentativi” che in realtà erano frutto di una instancabile ricerca di equilibrio tra linee e colori, Helmut vuole raggiungere l’essenza dei materiali e delle cose e renderla visibile allo spettatore, mettendolo a parte così, della magia che caratterizza ogni singola creazione[2]. Nel 2005 ha tenuto uno stage all’Accademia di Belle Arti di Lecce.
Le sue mostre hanno visto come sedi Dresda, New York, Monaco, Milano, Bonn, Mittwock ma anche Lecce, Casarano, Copertino, Matera, Presicce e Nardò, nella primavera del 2018, come ci racconta l’intervista del Tacco D’Italia:
Dopo la partecipazione alla manifestazione tenutasi nel luglio scorso a Presicce, dove aveva fatto ammirare alcuni suoi lavori, magica combinazione sintetica di colori e materia, di forme sospese nell’aria, l’artista bavarese ritorna nel Salento con una mostra delle sue opere più recenti, installate a Nardò, presso la galleria L’Osanna. Risponde con piacere ad alcune nostre domande.
– Dopo l’esposizione di Presicce, si ritorna a Finis terrae: quale valore ha per Lei questo estremo lembo tra due mari?
– E’ stato affascinante per me constatare come le mie opere, con i colori minerali, sono entrate in corrispondenza con gli affreschi dell’ex convento degli Angeli a Presicce. Nel convento, rinato a nuova vita in occasione della manifestazione “Insediamenti“, nei mesi di luglio-agosto, grazie all’entusiasmo dell’Associazione Nous, si è creata un’atmosfera magica e meditativa. Da quasi quarant’anni sono legato al Salento come importantissima fonte della mia ispirazione artistica. La luce, il senso della materia, la forza meditativa e i rapporti di amicizia mi fanno sempre tornare di nuovo.
– Non è la prima volta che espone opere nella galleria d’arte neretina.
– Volentieri torno, dopo otto anni, a Nardò per continuare la collaborazione con la galleria L’Osanna, presentare il mio sviluppo artistico e portare avanti la comunicazione con le persone interessate all’arte.
– Ogni mostra è sempre una sfida per creare un tutt’uno con lo spazio, in questo caso con la volta a stella. La Sua carriera artistica è in continua evoluzione e richiama un interesse sempre maggiore da parte della critica. Quali sono gli elementi innovativi che caratterizzano i Suoi ultimi lavori ?
– Nell’ultimo periodo mi occupo di un pensiero che avevo agli inizi del mio lavoro artistico e cioè il tratto del pennello, come l’acquarello, che con massima concentrazione descrive un andamento lungo e insieme profondo. Nei miei lavori attuali le pennellate hanno acquistato un corpo, creato a mano con i minerali di forma lanceolata; tali forme, sospese, si muovono con le correnti dell’aria. Nei vari periodi della mia evoluzione artistica ho costantemente inseguito lo stesso silenzio contenuto nella pennellata contemplativa, che oggi nell’installazione “Meteore” trova la sua espressione attuale.
Come non rimanere incantati dai lavori di Dirnaichner ?
Nelle sue opere parte da elementi presenti in natura per trasformarli in combinazioni di forme e colori di grande eleganza estetica. Rigore ed essenzialità sono alla base della sua ricerca, prima che luce e materia si schiudano in scrigni d’arte. Così Helmut riesce a emozionare e suggestionare: mettendo insieme cellulosa ed elementi attinti alla natura, siano pietre o minerali, erbe o vegetali, una sintesi che racconta lo spazio e il tempo. Di ciò che è in natura studia le qualità intrinseche, ne evidenzia le trasformazioni: le reazioni ad ogni movimento dell’aria, alla luce cangiante di cui si impregna la materia. Vivono di luce i colori delle sue installazioni di pittura-scultura,” mossi dal vento, dalla pioggia, dall’arcobaleno”, come meteore e particelle di un cosmo infinito che non smette mai di sorprenderci[3].
La sintesi della realtà concettuale dei lavori di Helmut è contenuta e documentata nei suoi libri artistici. Essi sono esposti anche nella preziosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, il luogo mitico in cui era collocata anche una delle sette meraviglie dell’antichità. E persino nelle pagine dei suoi libri è tangibile come la carta diventi soggetto di un processo manipolatorio in cui il bianco puro divetta colore appena percettibile, dando vita a forme elementari e antiche legate alla cultura del luogo. Nel 2001 l’artista, con la collaborazione della moglie Christine, pubblica sulla rivista “A Contrappunto”, la rievocazione di una sua conversazione sull’arte con Normann, scomparso l’anno prima, e una sorta di lettera-diario di viaggio da lui inviata dalla Spagna all’amico, datata in successione 19/XII- 29/XII/1992-5/I 1993[5].
Sul finire degli anni sessanta, avevamo detto… Normann Mommens, scultore-scrittore-astronomo-archeologo-contadino, e Patience Gray, scrittrice e giornalista, insieme alla coppia Arno Mandello, fotografo e pittore, ed Helen Ashbee, scultrice e orafa, si fermarono nella campagna tra Salve e Ugento al termine del loro viaggio verso sud alla ricerca di pietre e di luoghi persi. Qui avevano trovato una pietra povera e docile, per le sculture di Normann ed Helen, e per tutti l’illusione di essere giunti in un isola di vita antica, intatta[6].
I quattro amici, tutti di cultura ed esperienze cosmopolite, vennero rapiti dalla magia del luogo, dall’ospitalità semplice e spontanea della gente, dal cibo sano e genuino, dal senso di libertà che derivava da quella che Patience avvertiva come “ la meravigliosa mancanza di tutto”. Quello che sentivano di voler realizzare era proprio uno stile di vita che tenesse al di fuori tutto ciò che era un bisogno inutile costruito meramente dalla società. Aspiravano a costruire una comunità stanziale di spiriti itineranti attraverso la condivisione della cultura e dell’arte, e il rispetto della natura e di tutto quello che offriva. E, avrebbero fatto conoscere il Salento a molti amici artisti, ancora ignari della sua esistenza, invitandoli a trascorrere del tempo in quel luogo. Giusto il tempo di innamorarsene come era accaduto a loro.
Decisero quindi di scegliere due masserie vicine e farne la loro casa, dando vita ognuno alla propria vocazione personale e dando il via a questo meraviglioso progetto di identità. Le masserie Spigolizzi e Bufalaria divennero questo centro di aggregazione a cui molto presto si unirono altri salentini e altri artisti venuti dal loro paese o da altri luoghi stranieri. Tutti sensibili a questi principi. Un tentativo davvero eroico per il luogo e per i tempi, che molte volte, si scontrava con troppa burocrazia generando insofferenza, che alcune volte, mancava di concretezza, che ogni tanto, gettava nello sconforto perché, pareva di dover intraprendere una lotta per tante cose come quando, Don Chisciotte in sella a ronzinante, si era lanciato contro i mulini a vento credendoli dei giganti, finendo disarcionato per terra. Quando la sua lancia si era conficcata tra le pale che, mosse dal vento facevano muovere la macina, credendole braccia di giganti nemici, di difficoltà insormontabili, Don Chisciotte si era reso conto che Sancho aveva ragione, i mulini non si dovevano combattere, ma solo aggirare e proseguire in cerca di nuove avventure.
E così anche i nostri amici avevano continuato a proseguire la loro impresa nella mancha del Salento con desiderio e tenacia. Negli anni Settanta, si sa, i problemi del Mezzogiorno erano ancora tanti. Questi meravigliosi artisti che avevano lasciato tutto per cominciare il loro sogno ci misero tanto impegno. Per farla diventare una vera comunità però, oltre all’entusiasmo occorreva più diffusione e più sostegno. Senza una rendita stabile l’agricoltura della Bufalaria poteva solo mantenere i primi membri della comunità, producendo frutta, verdura, vino e olio.
La Bufalaria era stata trovata dopo ben tre mesi di ricerca, attraverso tutta la penisola salentina, era disabitata e in rovina con un’antica aia per battere il grano, quindici ettari di terreno trascurato, qualche albero di olivo e un bosco di pini alle spalle, e aveva di fronte una vista stupenda sul mare. Dopo lunghe trattative diventò la loro nuova “home”. Poco a poco, almeno in parte il “sogno” cominciava a realizzarsi. Gli androni principali della vecchia costruzione diventavano la casa con un “atelier” per Arno Mandello, l’amico di Man Ray, Pablo Picasso e Joseph Roth. In un edificio separato, che originariamente era la stalla dei buoi, fu creato un laboratorio di scultura per i lavori di saldatura e di fusione di Helen Ashbee, che già si prevedeva di ampliare grazie allo spazio magnifico intorno.
Nello stesso tempo si riparavano muri diroccati si piantavano cipressi come frangivento, si curavano gli ulivi rimondati, si piantavano frutteti e vigneti e si scavava un pozzo.
La vecchia stalla di capre, accanto al laboratorio, era stata trasformata in foresteria per amici e ospiti interessati a vedere quello che la masseria poteva offrire, per studenti venuti per contribuire con il loro lavoro nei mesi di vacanza alla realizzazione del “sogno” o addirittura, per rimanere e diventare una parte integrante del gruppo.
Nei primi tre anni di soggiorno nel Salento una grande scultura slanciata dorata fu ordinata per la sala di esposizione della “Olivetti” a Lecce, e una prima “manifestazione” o mostra dei vari lavori di entrambi gli artisti ebbe luogo alla Bufalaria nel 1972: tutto questo con l’aiuto e l’interessamento del Sindaco di allora S. Corvaglia, dell’Ente del Turismo, del Comune, di Ugento e della Pro loco, con la collaborazione del giornalista C. Pizzinelli[7].
Così, la campagna che circonda torre mozza, nella marina di Ugento, diventò negli anni settanta il set principale di un sogno, il sogno sognato da una donna, Helen Ashbee, che dopo la sua odissea nel mondo europeo approdava lì. Un percorso quello della Ashbee che avveniva esattamente in direzione contraria e originale partendo da uno dei centri culturali e artistici tra i più fervidi e importanti del secolo, come quello di Parigi, dove incontrò il suo maestro Giacometti, per giungere, in un angolo sperduto del mondo nel profondo sud che sapeva di Grecia e di miti ancestrali, alla ricerca di una autenticità senza compromessi.
Quando si arriva a Salve, Ugento, Santa Maria di Leuca è inevitabile fermarsi, siamo giunti a Finis terrae, oltre non c’è più niente…o meglio c’è solo il mare, e le colonne d’Ercole verso l’Oriente. In un ondata di emigrazione intellettuale verso sud, oltre un secolo prima, c’erano stati altri artisti che avevano compiuto quei viaggi in cerca di ideali, di poesia, di identità, e non tutti possedevano già fama e gloria; alcuni partivano portando con sé solo l’urgenza di ritrovare se stessi.
C’era stato Ferdinand Gregorovius, giovane trentenne in cerca delle tracce materiali di quel mito che lo caratterizzava e che sentiva essere il suo proprio destino. Segno di distinzione sono proprio le memorie raccolte nei suoi diari di viaggio, che ponevano attenzione ad ogni aspetto letterario, artistico e sociologico dei luoghi che attraversava e grazie ai rapporti intessuti con le persone con cui veniva a contatto, uno storico, non un pittore.
Il quinto volume della sua raccolta di viaggi è quello dedicato alla Puglia, “Apulische Landschaften”,(Lipsia, F. A. Brockhaus, 1877),dove si recò nel 1874 e nel 1875. C’era stato anche Johann Wolfgang von Goethe, da prendere come modello di attenzione e di sensibilità. Aveva viaggiato a lungo nel bel paese, ma a causa della ferrovia che all’epoca era ancora in buona parte da costruire, egli non arrivò mai nel Salento. Anche per lui valeva lo stesso discorso: « Lo scopo di questo mio magnifico viaggio non è quello d’illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti.»
Il viaggio in Italia consentì a Goethe di compiere «il passaggio definitivo da una visione soggettivistica e passionale a una visione oggettiva e serena della realtà», al punto che, secondo Pareyson, l’esperienza estetica maturata dal poeta tedesco divenne da allora inseparabile da quella scientifica e filosofica. Sarà infatti proprio di ritorno dal viaggio che Goethe inizierà a dedicarsi con slancio allo studio scientifico della natura, andando oltre le ristrettezze materialistiche degli scienziati del suo tempo, limitate a una concezione meramente meccanicista dei fenomeni, producendo opere di spessore come la Metamorfosi delle piante e la Teoria dei colori[8].
Ma se solo Goethe avesse conosciuto la nostra terra, sono sicura che molte delle sue poesie ne avrebbero parlato, egli, l’ultimo “uomo universale” a camminare sulla terra, come nessun altro, avrebbe tradotto la magia dei nostri luoghi in parole, in versi, in musica, in immagini, di un incanto perenne. E c’era stato anche Paul Bourget:
“Se il leggendario stivale che forma l’Italia portasse uno sperone, la cara città da dove scrivo queste righe occuperebbe proprio il posto della rotella. […]L’occhio è affascinato fino a essere abbacinato, lo spirito è preso fino al rapimento da questa ricercatezza di pietra che posa come un merletto, come un ricamo su tutta la piccola città. Questa capitale della terra d’Otranto è una città della fine del XVII secolo napoletano, rimasta intatta, con ogni sorta di particolari dovuti dapprima agli architetti di Carlo V, poi agli ultimi allievi del Rinascimento.[…] Qui si sognano musiche leggere, mascherate, feste voluttuose e facili, una Spagna italianizzata e felice. […]Gli abitanti hanno una sobrietà di gesti che contrasta coi popoli vicini del rumoroso Mezzogiorno. Nelle particolarità della strada, ci son gentilezze in cui si è lieti di trovar la prova d’una razza raffinata – come il ponticello di legno montato su ruote che si mette tra un marciapiede e l’altro nei giorni di pioggia perché si possa passare senza salirvi; – e quando, come ora, è giorno di pubblico mercato, la forma delle lampade di terra col loro becco allungato, quella dei vasi, stavo per dir delle anfore, destinate all’olio e al vino con le due anse, basta a ricordarvi che questi contadini, venuti dalle pianure vicine, sono i moderni eredi dei coloni cretesi sbarcati con Idomeneo, e gli ultimi nipoti degli antichi sudditi di Dauno, il suocero di Diomede. […]Eccomi dunque in piena Magna Grecia, già ho potuto veder sorgere sopra una porta le statue di Dauno e di Idomeneo. Gli stessi nomi delle strade serbano qui la traccia di quei lontani ricordi e di altri quasi ugualmente remoti, ma più autentici. Sono di nuovo Dauno e Idomeneo, favolosi eroi della leggenda; è Ennio, il poeta che nacque a Rudiae, vicinissima; è Augusto, che apprese a Lecce la morte di Cesare; sono Adriano e Marco Aurelio, che s’occuparono del porto ai tempi in cui la città era più vicina al mare. Essi hanno fatto da padrini a queste strade e a queste piazze, e i loro nomi s’alternano con quelli di Goffredo, di Boemondo, del re Tancredi, di Manfredi, di Gualtiero di Brienne, di Federico II. […] Bisogna scendere fino all’XI secolo e al periodo dei re normanni, per trovare una reliquia, veramente grandiosa, questa. Si tratta della chiesa dei Santi Nicola e Cataldo, fuori di Porta Napoli. Cominciata dal re Tancredi nel 1180, s’ingrandì poi d’un chiostro e fu posseduta dagli Olivetani dei quali riconosco gli stemmi. Le tre montagne con la croce e gli alberi mi ricordano i miei lunghi e tranquilli soggiorni nel convento di Monte Oliveto. […] Se ho mai rimpianto di non aver ricevuto o di non essermi procurato quella special educazione che permette di discernere al primo sguardo il valore tecnico d’un pezzo d’architettura, fu in altri tempi in Inghilterra, davanti a cattedrali come quella di Canterbury, ed è qui, davanti a questa facciata normanna. Malgrado ciò io l’ho sentita bellissima. […]Le più romanzesche leggende, di cui si compiacquero le immaginazioni dei novellieri cari un tempo all’ingegnoso Hidalgo nel suo castello della Mancia, non superano in inverosimiglianza la vera storia degli avventurieri normanni dei quali questo religioso re fu quasi l’ultimo erede. […]Il mare ondeggia senza posa all’orizzonte, d’un azzurro marezzato di brividi, ed ecco, di là dal mare, spuntar fuori la costa albanese, color viola, infarinata di neve. Il treno si ferma ai piedi d’una città che ammucchia le case a ridosso di una collina cinta di spalti e di bastioni: è Otranto che sembra non esser per nulla mutata dall’anno famoso in cui i Turchi le dettero il sanguinoso assalto. Ah! Che immediato, delizioso incanto di colori! Gli uliveti che circondano Otranto sono grigi, ed essa è costruita di pietre dorate e rossicce. Il mare, in questa rientranza del golfo, e all’orizzonte, sfoggia profonde sfumature di zaffiro. Non una nube vagola per il cielo, che sembra di turchese.
Le montagne della penisola greca, viste così da lontano, con riflessi d’argento e d’ametista, mostrano perfino i crepacci del più intenso lilla in cui vagheggia la chiara macchia dei villaggi. Questa è la Finisterra d’Italia, o quasi, giacché il capo d’Otranto fa – con quello di Leuca, l’antico Japyx, e Gallipoli, – un triangolo che chiude la penisola dal lato della Grecia[9].
Note
[*] Vittorio Bodini, Foglie di tabacco (1945-1947), in Macrì O. (a cura di), Tutte le poesie, Lecce, Besa Editrice, 1997, p.61.
[1] Curiosità: Il consumo della carne di bufalo, invece, sembra fosse discretamente diffuso a Napoli, soprattutto presso la comunità ebraica, così come avveniva a Roma. Nel 1852, Vito Antonio Ascolesi definiva la carne di bufala “dura e disgustosa al palato, e ripugnante all’odorato, anche quando l’animale è giovine”, mentre nel 1903, per Giuseppe Santini, “quella dei bufalotti è assai pregiata e, mangiata inconsciamente, può senza dubbio passare per carne di bovino”: insomma, da qui potrebbe derivare il termine… “bufala”, intesa come “fregatura”. https://www.lacucinaitaliana.it/news/in-primo-piano/storia-della-bufala-dalla-mozzarella-alla-carne/
[2] Cfr. M. Cataldini, M. Pizzarelli, (testi), Caterina Gerardi (foto), Verso Sud, Anima Mundi edizioni, Otranto, 2008.
[9] Paul Bourget, Sensations d’Italie (Toscane – Ombrie – Grande Grèce). Con traduzione italiana dei capitoli XVI-XXIV / Paul Bourget ; edizione anastatica e traduzione a cura di Alessandra De Paolis – Edizioni digitali del CISVA, 2010 – 404 p. – integralmente riprodotto. http://www.viaggioadriatico.it/biblioteca_digitale/titoli/scheda_bibliografica.2011-02-08.6502316502 ( direttore Giovanna Scianatico), (dominio dell’Università del Salento), visualizzato il 26 maggio 2020, ore 18,31.
Il 19 maggio 1962 si concluse dinanzi al Tribunale di Lecce la prima fase di un lungo e tormentato iter giudiziario che si sarebbe concluso (tra appelli, ricorsi, sentenze di rinvio e nuovi ricorsi) nel maggio del 1969. Sul banco degli imputati finirono Berardino Cecchini (vice brigadiere dei carabinieri addetto, insieme con l’appuntato Paolo Logoluso, alla sorveglianza delle operazioni di disinfestazione e alla «prevenzione di incidenti»), Oronzo Zaccaria Pranzo (amministratore della ditta Villani Costantino & C. nonché titolare della licenza per l’utilizzo di solfuro di carbonio), Donato Colopi (chimico, direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro), Raffaele Martina (tecnico patentato preposto alle operazioni di disinfestazione) e il dr. Vincenzo Tommasi (ufficiale sanitario). I primi quattro dovevano rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime (determinati da «negligenze, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi, ordini e discipline») oltre che di una serie di contravvenzioni per la mancata osservanza di norme e regolamenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla violazione di una serie di prescrizione in materia di impiego di gas tossici. Il dr. Tommasi doveva rispondere del reato di falso ideologico per avere «attestato falsamente in un certificato rilasciato il 21/5/1960 che i locali della ditta Villani Costantino e C., siti in Calimera alla via Martano 11, erano separati ed allestiti con tutte le cautele previste dall’art. 45 e segg. del Regolamento Speciale del 9/1/1927 sui gas tossici»[1].
La tragedia si consumò in pochi attimi alle 7.40 di un giorno festivo per Calimera (S. Antonio). Le operaie erano intente a «travasare il solfuro di carbonio da un bidone posto su di un cavalletto in recipienti piccoli, così da potere gli stessi, riempiti del liquido, essere avviati (col sistema del passamano a catena) nell’interno degli ambienti e posti un po’ dovunque, sulle ballette di tabacco ivi ammassate», quando un cerino incautamente acceso dal vice brigadiere Cecchini per dare fuoco alla sigaretta che teneva in bocca provocò lo scoppio improvviso del liquido, cui seguirono l’incendio e l’emissione di vapori tossici. Le operaie più vicine furono avvolte dalle fiamme, le altre furono soffocate dal gas. Natalina Tommasi, ridotta a una torcia umana, ebbe la forza di gridare all’indirizzo del brigadiere: “Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”. Luigia Bianco, anche lei avvolta dalle fiamme, gridò “u brigadiere è statu”. Il Tribunale così descrive la drammatica scena:
[…] Le fiamme innanzi la porta d’ingresso, essendo la stessa stretta e con una impannata chiusa, crearono una barriera per chi si trovava dentro, ove per giunta, alcuni dei recipienti pieni si rovesciarono, aumentando il fuoco, il gas tossico e il panico. Le persone che erano all’interno restarono in trappola, chiuse nei vani, dalle fiamme che divampavano sul pianerottolo, impossibilitate a saltare dalle finestre sulla strada, in quanto queste erano munite di inferriate fisse, né vi erano altre uscite […][2].
Il Tribunale riconobbe la responsabilità del vice brigadiere Cecchini («con fare disattento ed inconsiderato, come avviene al fumatore che accende la sigaretta senza accorgersene, meccanicamente, mentre era in corso il travaso dell’infiammabilissimo liquido, si mise a fumare. Diede fuoco con un cerino alla sigaretta provocando immediato lo scoppio del solfuro che in gran copia era nei recipienti scoperti»). La sua mancanza di «ogni elementare norma di prudenza» che si materializzò nella «inopinata accensione del cerino» non furono, tuttavia, da Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ritenute sufficiente da sole a provocare la catastrofe se non si fossero determinate tutta una serie di concause di cui furono chiamati, con pari grado di responsabilità, a rispondere gli altri imputati. L’inosservanza, infatti, di una serie di norme poste a tutela dell’incolumità dei lavoratori fu giudicata altrettanto grave quanto il gesto incauto del vice brigadiere, la cui presenza sul posto doveva essere di garanzia della regolarità e sicurezza delle operazioni.
In sede giudiziaria fu acclarato che l’operazione di disinfestazione del tabacco – di per sé pericolosissima – avrebbe dovuto svolgersi in locali lontani dal centro abitato e non in quelli di proprietà Lefons (presi in affitto dal Pranzo per conto della ditta Villani Costantino & C.) che si trovavano vicini al centro abitato, in via Martano 11. Gli stessi erano privi di uscite di sicurezza al primo piano. All’interno non c’erano estintori, né indumenti di protezione dalle fiamme e maschere antigas, di cui avrebbero dovuto essere dotate le operaie. Il luogo dove si effettuava il travaso da un fustino metallico collocato su un cavalletto in piccoli recipienti che dovevano essere trasportati ai piani superiori era un angusto pianerottolo posto in cima ad una scala da cui si accedeva al primo piano attraverso una sola porta d’ingresso di dimensioni non regolamentari (larghezza inferiore a 1 metro e 10 centimetri). Le fiamme sprigionatesi davanti all’unica porta d’ingresso crearono una barriera che intrappolò le povere donne chi vi si trovavano dentro «senza altra possibilità di uscita». Anche le finestre che davano sulla strada erano sigillate dall’interno («sbarrate con rete metallica») e chiuse all’esterno da una «robusta cancellata in ferro». Non c’era alcuna via d’uscita dall’inferno di fuoco che avvolse e spense le giovani esistenze di quelle povere e infelici donne. A parere dei giudici, in mancanza di porte apribili dall’interno non si sarebbe dovuto mettere le operaie di fronte ad un rischio a cui le stesse non erano tenute in base alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro (il chimico Colopi), cui spettava l’obbligo «morale e giuridico» di assistere e dirigere le operazioni di solfurazione, era assente («l’opera che si stava eseguendo e che non si portò a termine stante l’accaduto, avrebbe dovuto compiersi alla presenza del direttore tecnico, Colopi, dal principio alla fine»). Egli aveva lasciato il controllo e la gestione dell’intera operazione al tecnico patentato Martina che si fece coadiuvare dall’operaio Murra. A parere dei giudici, se egli fosse stato presente non avrebbe consentito che le operaie – personale non idoneo e non autorizzato – partecipassero alle operazioni «inerenti alla solfurazione» e non avrebbe permesso che il travaso del liquido fosse eseguito in un luogo inidoneo qual era lo strettissimo ballatoio collocato davanti all’unica porta d’ingresso ai locali, peraltro molto piccola:
[…] Il Colopi avrebbe potuto consentire il lavoro solamente se le porte dei locali avessero potuto permettere la rapida uscita delle persone ed essere agevolmente apribili dall’interno durante il lavoro. Siccome questi presupposti non sussistevano il direttore tecnico non doveva permettere la solfurazione. Non sembra al Tribunale che, non potendosi disporre del congruo numero di uscite, si dovessero porre le operaie di fronte ad un rischio che la legge sugli infortuni vieta debba essere affrontato; nella peggiore delle ipotesi, la solfurazione non doveva farsi in quel giorno ed in quel luogo […]. Non sarebbe stato difficile predisporre, con alcune finestre situate nel retro del fabbricato al primo piano comunicanti con due terrazze, delle uscite di sicurezza[3].
Il Tribunale ritenne che la colpa del solfuratore patentato Raffaele Martina consisté nell’essersi fatto aiutare, nell’operazione di disinfestazione del tabacco, da personale non abilitato (quali erano l’operaio Achille Murra e le undici operaie tabacchine):
[…] Ciò non avrebbe dovuto fare per ragioni di prudenza di facile comprensione, per non esporre quel tipo di personale, per di più quasi tutte donne, ad un rischio mortale. Consisté la colpa nel non avere considerato il Martina (negligenza, imprudenza) che, senza porte di sicurezza, era pericoloso porre al lavoro le persone, stante il pericolo di incendio e di emanazione di vapori mortali. La manovra del travaso del solfuro, dall’imputato organizzata ed eseguita in luogo angusto, fu altra imperdonabile imprudenza e negligenza, dovendo facilmente, il Martina, prospettare a sé stesso l’ipotesi di una combustione del liquido proprio in quel punto, sì che avrebbe chiusa ogni via di scampo a coloro che lavoravano nell’interno […][4].
Quanto all’amministratore Pranzo (titolare della licenza per l’impiego del solfuro), egli – a parere del Tribunale – non avrebbe dovuto consentire che venisse utilizzato per un’operazione così pericolosa personale non abilitato, quali erano le operaie, che egli aveva assunto per il tramite della capo operaia Maria Assunta Pugliese:
[…] La licenza per l’impiego del solfuro era stata rilasciata dal Questore a Pranzo in persona, sicché doveva il titolare della licenza personalmente presenziare alla solfurazione […] a lui incombeva fra gli altri l’obbligo di non impiegare personale non abilitato durante la solfurazione […]. Pranzo diede ordine alla capo operaia Pugliese di assumere le tabacchine per la disinfestazione […]. I lavori di sistemazione dei locali erano stati compiuti il 12 giugno, mentre restava solo da distribuire il liquido velenoso nei singoli vani: da ciò la necessità di chiamare undici tabacchine, che lavorarono col sistema del passamano a catena per far giungere i barattoli pieni di solfuro dal pianerottolo ove avveniva il travaso fin nel più lontano locale […] egli non doveva affidare a personale non abilitato a termini di regolamento lavori strettamente inerenti all’impiego del liquido tossico […] alle tabacchine, invece, fu dato ordine di permanervi, pur non essendo patentate, per tutto il tempo necessario alla distribuzione dei recipienti pieni, nei dodici ambienti […]. Fra gli accorgimenti tecnici, sarebbe bastato munire i locali del magazzino di tante uscite proporzionate al numero delle operaie, facendo sì che le aperture […] avessero trovato sfogo all’aperto, in atrii, terrazzi, cortili contenuti, questi, come accessori scoperti, entro l’ambito cintato e circoscritto del magazzino […][5].
Il cerino acceso da Cecchini – queste le conclusioni del Tribunale – non fu da solo sufficiente a determinare l’evento («la causa sopravvenuta posta in essere non sarebbe stata sufficiente da sé sola a determinare l’evento» senza il concorso di cause «precedenti, immediate, dirette poste in essere dagli altri tre imputati»):
[…] Così avvenne, quanto a Pranzo e Colopi, che predisposero gli ambienti senza possibilità di scampo o di fuga per chi si fosse trovato dentro; che fecero lavorare delle persone non abilitate al rischioso uso del solfuro di carbonio; che non le munirono di maschere antigas, né di indumenti refrattari al fuoco; che non corredarono i locali con meccanismi atti ad estinguere gli incendi […] Martina, dal canto suo […] si rese conto che le tabacchine non erano adatte a quel genere di lavoro, a loro vietato, tanto che la leggene escludeva l’impiego. Pur vide, infine, che le tabacchine ed il suo aiuto Murra non avevano né maschere, né indumenti protettivi […]. La sola azione del Cecchini non avrebbe sortito l’effetto mortale, sol che il personale fosse stato munito di indumenti protettivi, non attaccabili dal fuoco e di maschere atte alla respirazione, in ambienti infestati da gas venefici; sol che avesse avuto, ognuno dei presenti, via libera per fuggire […] certamente le conseguenze non sarebbero state così disastrose; perché, se non tutti, si sarebbero salvati molti, specie dalla morte, con la fuga, con la respirazione attraverso le maschere antigas, con gli indumenti resistenti al fuoco[6].
Il Tribunale, sulla base del principio giuridico «ogni singola causa è causa dell’evento» inflisse ai quattro imputati la medesima condanna. Per il reato di omicidio colposo plurimo la pena inflitta fu di 6 mesi per ogni operaia morta (totale 36 mesi). Per le lesioni più gravi fu inflitta la pena di 9 mesi (3 mesi per ognuna delle tre persone ferite); per le lesioni meno gravi la pena inflitta fu di 4 mesi (1 mese per ognuna delle quattro persone ferite). In totale la pena complessiva fu determinata in 4 anni e 1 mese, cui si aggiunsero le ammende per l’inosservanza dei regolamenti e il risarcimento a favore delle parti civili calcolato in un milione per ognuna delle operaie morte. Il Tribunale assolse con formula piena (il fatto non costituisce reato) il dr. Tommasi giudicando che egli, nel rilasciare il certificato, aveva ritenuto «in sua scienza e coscienza, essere il magazzino di via Martano 11 in Calimera attrezzato in maniera idonea all’uso dei gas»; egli pertanto non aveva avuto intenzione di «attestare cosa fuori dalla concreta realtà»[7].
La Corte d’Appello, con sentenza del 15/12/1962, riconobbe agli imputati alcune attenuanti generiche e ridusse la pena a due anni di reclusione, applicando nel contempo il beneficio della prescrizione per alcune contravvenzioni inflitte a Pranzo e Colopi. La vicenda giudiziaria si protrasse ben oltre le sentenze di primo, secondo e terzo grado (Cassazione, 25/6/1963). A seguito del rinvio (limitatamente a una parte della sentenza della Corte d’Appello di Lecce) il processo finì davanti alla Corte d’Appello di Bari che si pronunciò il 22/5/1964. Un nuovo ricorso in Cassazione si concluse (5/2/1967) con un altro rinvio del processo alla Corte d’Appello di Bari, che con sentenza del 20/12/1968 accordò agli imputati Colopi e Martina il beneficio della prescrizione in merito al reato di delitto colposo. Un nuovo ricorso in Cassazione e la pronuncia della Suprema Corte (19/5/1969) posero la parola fine alla vicenda.
I nomi delle tabacchine di Calimera rimarranno per sempre scolpiti, oltre che nel cuore dei calimeresi e dei salentini tutti, anche sul monumento ideale al lavoro e al sacrificio di quanti nel Salento sono Caduti per pane e lavoro.
Note
[1] Asle, Tribunale civile e penale, Sentenze penali, sentenza n. 614 del 19/5/1962.
“Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”.
Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie,
una tragedia annunciata
di Salvatore Coppola
La storia delle tabacchine salentine è stata segnata da momenti di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste sociali, ma anche da immani tragedie, le più gravi delle quali sono state, in epoca fascista, la repressione a Tricase della manifestazione del 15 maggio 1935 (quando vennero uccise Maria Nesca, Cosima Panico e Donata Scolozzi), e, negli anni della democrazia, l’incendio che si sviluppò nel magazzino di proprietà di Giuseppe Lefons di Calimera, gestito (per le sole operazioni di disinfestazione del tabacco), dalla ditta Villani Costantino & C.[1].
Il 13 giugno del 1960 un incendio divampò all’interno del locale provocando la morte di cinque operaie, quattro delle quali (Natalina Tommasi di anni 30, Luigia Bianco di anni 34, Luigia Tommasi di anni 22 e Maria Assunta Pugliese di anni 46) perirono a causa delle gravi ustioni patite tra il 13 e il 14 giugno; un’altra (Epifania Cucurachi, di anni 27) morì il 16 luglio a causa dell’intossicazione, e l’ultima (Lucia Di Donfrancesco, di anni 30 al momento della catastrofe) cessò di vivere il 14 gennaio del 1962, dopo un lungo periodo di malattia e di ricoveri in diversi ospedali. Luigia Bianco, Natalina (Lina) Tommasi e Lucia Di Donfrancesco erano nubili. Luigia Tommasi (moglie di Pantaleo Garrisi) lasciava orfani Brizio Antonio di anni 5 e Domenico di anni 1; Maria Assunta Pugliese (moglie di Paolo Greco) lasciava un figlio di anni 20; Epifania Cucurachi (moglie di Pasquale Palano) lasciava orfani Carmelo di anni 7 e Antonio di anni 2. Rimasero ferite le tabacchine Gaetana Tommasa, Cristina Di Mitri, Elvira Castrignanò, Cesaria Lucia Perrone, Paola Lucia Montinaro e gli operai Achille Murra di San Pietro in Lama (aiutante del tecnico Raffaele Martina preposto alle operazioni di disinfestazione del tabacco) e Paolo Greco (marito della Pugliese) che cooperava a dette operazioni. Restarono leggermente feriti anche Paola Lucia Montinaro (madre di Lina Tommasi), Vincenzo Gabrieli e il sindacalista della CGIL, nonché assessore comunale, Brizio Niceta Di Mitri, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro per prestare soccorso.
Nel pomeriggio del 13 giugno, la Prefettura informò il Ministero degli Interni sulla tragedia che si era consumata a Calimera:
Verso ore 7.30 stamane, Comune Calimera, mentre procedevasi, con regolare licenza, at disinfestazione tabacco in foglie fabbrica Villani Costantino, mediante impiego solfuro carbonio, per cause non ancora accertate, sviluppavasi violento incendio causato da combustione gas. Circostanza sette persone riportavano gravissime ustioni et intossicazione, per cui venivano ricoverate presso Ospedale Civile con prognosi riservata. Di esse due versano imminente pericolo vita, mentre condizioni altre permangono gravissime. Successivamente altre cinque persone venivano ricoverate stesso nosocomio per intossicazione, ma loro stato non est preoccupante. Sul posto si sono recati immediatamente Vigili Fuoco per operazioni soccorso et spegnimento incendio. Autorità Giudiziaria, collaborazione Organi Polizia, procede accertamenti per stabilire cause grave sinistro. Ho visitato degenti Ospedale Lecce et disposto assistenza at favorefamiglie infortunati […][2].
Il Comune (era sindaco Giovanni Aprile) si accollò le spese per i funerali delle povere vittime[3].
Si trattò di una tragedia annunciata, come risulta dal verbale redatto dall’ingegnere Antonino Fiorica, comandante dei Vigili del Fuoco di Lecce, che denunciò la mancata osservanza delle più elementari norme in materia di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, con riferimento soprattutto al DPR n. 547 del 27/4/1955 e al R.D. n. 147 del 9/1/1927; nel verbale inviato al Ministero degli interni e alla Prefettura, si legge, tra l’altro:
[…] Il locale dove si effettuava la disinfestazione è costituito da due grandi vani al primo piano ai quali si accede attraverso un vano di disimpegno che comunica con un’unica scala. Essi vani sono sovrastanti ad abitazioni ed i locali del pianoterreno adiacenti a queste ultime sono anch’essi adibiti ad abitazioni. Ai magazzini del primo piano si accede attraverso una scala a sbalzo in pietra leccese, che smonta ad un pianerottolo antistante al vano di disimpegno. I locali per disposizione dell’Ufficio Compartimentale Tabacchi sono dotati di un solo accesso e privi quindi di altra uscita, che, in caso di sinistro, possa servire come uscita di sicurezza nell’eventualità che venga a trovarsi ostruita la normale via di accesso (art. 13 del decreto DPR 27/4/1955, n. 547). Ciò si è verificato nel caso che si espone. Quella mattina si stava procedendo alla disinfestazione del locale con solfuro di carbonio, il quale venendo adoperato per le specifiche proprietà tossiche, è soggetto alla regolamentazione di cui al R.D. 9/1/1927 n. 147. Il titolare del magazzino, pertanto, in ottemperanza a quanto disposto dal sopracitato R.D. si era rivolto alla ditta Perrone e Colopi al fine di disinfestare sia il locale che il tabacco con solfuro di carbonio, il quale passando allo stato gassoso emette vapori tossici ed infiammabili. Essi vapori mescolandosi all’aria in determinate percentuali possono provocare anche esplosioni […]. Le operazioni relative all’impiego del gas tossico erano state iniziate alle ore sette circa, in assenza del Direttore Tecnico, e senza aver provveduto ad allontanare dai locali il personale non abilitato alla esecuzione delle operazioni relative all’impiego del gas tossico, come disposto dall’art. 46 del sopracitato R.D. Sembra anzi che gli operai si trovavano nell’interno del locale per aiutare il sig. Martina, unico abilitato alle operazioni di impiego del gas tossico, a trasportare e depositare sulle ballette di tabacco i recipienti contenenti solfuro di carbonio. E’ stato rilevato inoltre che nessun cartello con lo scritto “E’ vietato l’ingresso, Pericolo di morte”, […] era stato apposto all’ingresso dei locali. Gli operai non erano stati dotati di apparecchi per la protezione individuale contro l’azione tossica del gas (art. 40 R.D. sopracitato) e nemmeno tali apparecchi si trovavano nel locale, come prescritto dall’art. 369 del decreto del Presidente della Repubblica del 27/4/1955, n. 547. I recipienti in cui era stato trasportato il solfuro di carbonio non portavano i contrassegni relativi all’infiammabilità e alla tossicità del gas. L’incendio del solfuro di carbonio che ha causato le ustioni e le intossicazioni degli operai che si trovavano all’interno del locale si è verificato mentre si procedeva al travaso del liquido infiammabile da un fustino metallico in recipienti di latta. Detta operazione di travaso veniva effettuata sul pianerottolo della scala, antistante all’unico accesso ai locali per cui gli operai che si trovavano nell’interno si sono venuti a trovare con l’unica uscita sbarrata dalle fiamme e tutte le finestre chiuse e sigillate all’interno, con carta convenientemente incollata (per evitare fuoruscita dei vapori del solfuro di carbonio) e sbarrate con rete metallica e robusta cancellata in ferro all’esterno […][4].
La relazione indicava come possibili cause dell’incendio «l’incauto uso di fiamme libere sulla scala e nell’androne di ingresso sito al piano terreno», o le scintille provocate dallo «strofinio dei cerchi metallici del fustino con il pavimento del pianerottolo», o quelle provocate «dall’urto del fusto con i barattoli metallici» oppure le scintille provocate «dall’urto di scarpe chiodate o forzate con il pavimento in cemento»[5].
Lucia Di Donfrancesco, costretta a continui ricoveri negli Ospedali di Lecce, Bari e Napoli a causa dell’intossicazione patita, il 13 gennaio del 1961 indirizzò un accorata appello al prefetto per lamentare le gravissime condizioni di salute ed economiche in cui versavano lei e i propri genitori (Brizio Maria e Maria Addolorata Lefons che erano entrambi anziani e pensionati):
[…] Sua Eccellenza signor Prefetto, anzi tutto mi scuso se mi rendo seccante, avevo saputo che doveva venire la Signoria Vostra a Calimera ed avevo mandato la mamma sul municipio ma invece le hanno detto che per questa domenica non l’è stato possibile, le cerco una preghiera quando verrà a Calimera che vorrei parlarle direttamente, sono sempre la solita martire che venne a trovarmi all’ospedale di Lecce, mi portarono di nuovo a Napoli credendo di migliorare, ma invece ho peggiorato son tornata di nuovo a Calimera che proprio oggi sono trascorsi 7 mesi di pene, è già un mese che sono a casa mia, con la mia vecchia mamma che mi assiste e mio padre pure è vecchio, ci campiamo con la loro vecchiaia, fin adesso ho avuto solo il suo aiuto e pregherò sempre per la sua bontà, non dimenticate che una sua visita è forse la mia salvezza desidererei tantovederlo un’altra volta giacché speravo una mia guarigione per venire io personalmente a ringraziarlo di tutto, ma non ho più speranza sto peggio di prima, e di nuovo con l’ossigeno, e non so ancora quando finisco di soffrire, sono molto stanca. Le chiedo con tutto il cuore un suo conforto e se non le sarà possibile almeno un suo scritto che da oggi conto i giorni che ho scritto, aiutatemi. Distinti saluti, Lucia DiDonfrancesco, via Martano n. 55 […][6].
Il successivo 17 marzo, Lucia scrisse nuovamente al prefetto:
[…] Sua Eccellenza signor Prefetto. Anzi tutto chiedo scusa se mi rendo seccante, sono Lucia Di Donfrancesco l’operaia che sono stata la più grave di tutte, credo che si ricorda quale sono, che Sua Eccellenza è venuta pure a trovarmi all’ospedale di Lecce, avevo scritto due mesi or sono ma non ho avuta riposta, se fossi in condizioni un po’ migliorate sarei venuta a trovarlo personalmente, ma le condizioni di salute non lo permettono, la prego ancora di non dimenticarmi che ho tanto bisogno ci campiamo con la vecchiaia dei miei vecchi genitori, non so a chi rivolgermi, la prego aiutarmi, non credo che non si ricorda chi sono, l’operaia del magazzino incendiato di Calimera […][7].
Lucia Di Donfrancesco cessò di vivere il 14 gennaio del 1962. Fu la sesta vittima dell’immane tragedia che aveva colpito Calimera il 13 giugno del 1960; non risulta che alle sue accurate lettere il prefetto avesse mai risposto. Qualche giorno dopo la sua morte, egli comunicò al sindaco che aveva disposto a favore dei genitori (74 anni il padre e 68 la madre) l’erogazione di un contributo di lire 50.000 e lo pregò di porgere loro il proprio cordoglio[8].
Note
[1] Sul drammatico episodio di Tricase, S. Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà, Giorgiani, Castiglione 2015.
[2] Asle, Prefettura, Gabinetto, II versamento, b. 266, fasc. 3111 (telegramma del prefetto Di Cuonzo).
[3]Ivi, comunicazioni del prefetto e del comandante della Compagnia provinciale dei Carabinieri Aldo Favali; la Prefettura e l’APTI erogarono un contributo alle famiglie delle vittime e a quelle di coloro che erano stati ricoverati.
SAVA, 1889: I RITROVAMENTI MESSAPICI E GRECI, LA VISITA
DEL PROF. VIOLA E L’INDAGINE ARCHEOLOGICA OMESSA
di Gianfranco Mele
In un articolo apparso su “La Voce di Maruggio” ho parlato esaustivamente del manoscritto di Achille D’Elia “Sava e il suo feudo”, della storia antica di Sava raccontata dal D’Elia (ma anche dall’ Arditi e dal Coco), e della figura del D’Elia stesso fornendo una biografia dell’autore che mostrava la serietà e il peso culturale del personaggio.[1]
Con questo scritto intendo dimostrare come alcune annotazioni dello studioso circa l’archeologia e la storia savese siano assolutamente da rivalutare, sulla base di una serie di interconnessioni con le vicende che coinvolgono la ricerca storico-archeologica nel territorio in quegli anni ed i protagonisti di quella ricerca.
Dobbiamo prendere in considerazione due diversi aspetti dell’analisi fornita dal D’Elia in merito alla Sava antica: le certezze documentarie, e le congetture, senza accavallare e confondere tra loro questi suoi due distinti e distinguibili contributi.
Ora, il D’Elia fornisce, per ciò che concerne le certezze, una serie di dati fondamentali: 1) l’esistenza, in Sava, di quelli che egli chiama “Castelli Castrum Munitum Messapici”; 2) i rinvenimenti di “ monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive”; 3) l’esistenza, ancora all’epoca in cui scrive, delle “fondamenta d’epoca evidentemente ciclopica”; 4) il rinvenimento di una serie di reperti visionati anche nell’agosto del 1889 dal “chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto”; 5) l’esistenza di un sepolcreto messapico a 500 metri dal rione Castelli.
Vedremo più avanti, nei dettagli, per quale motivo le notizie suddette sono da considerarsi certezze. Per quanto riguarda le congetture, invece, il D’Elia finisce con l’identificare il territorio di Sava con la mitica “Sallentia urbs messapiorum”, e qui entriamo sicuramente nel campo dell’ indimostrabile, sebbene lo storico savese Gaetano Pichierri riprenda con slancio e passione nelle sue ricerche, arricchendole di ulteriori speculazioni, queste ipotesi affascinanti ma un po’ visionarie del D’Elia.[2]
A causa di queste conclusioni (che peraltro lo stesso D’Elia presenta come dato ipotetico, quasi fantasioso, e non come convinzione), sia il Coco che storici successivi non prendono troppo sul serio l’opera del D’Elia. Ma c’è di più: ciò che viene considerato veramente inspiegabile e perciò contribuisce a non dar troppo credito a tutto l’impianto del manoscritto è la notizia che il D’Elia fornisce circa le parole attribuite al professor Viola durante la sua visita a Sava: ciò che il Viola vede, lo dichiara, stando a quanto riportato dal D’Elia, “di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene“. Come mai, ci si è chiesto spesso, se Viola resta così stupefatto dei reperti rinvenuti in Sava, non ne raccoglie e diffonde documentazione, non li prende con sé esponendoli al Regio Museo, non pubblica un report, non cita e non pubblicizza la scoperta?
La risposta sta proprio nella figura del professore e nella sua biografia, costellate di imbarazzanti contenuti ed episodi. Nel corso di questa esposizione ci soffermeremo a lungo sulla storia del personaggio e su alcuni momenti-chiave del suo operato.
Andiamo ora per ordine, riportando 1) quanto esposto nel manoscritto del D’Elia, 2) i dati e le evidenze a supporto dei contenuti del manoscritto, 3) la questione della visita del Prof. Viola a Sava e della omissione della rendicontazione di quanto osservato.
Il manoscritto del D’Elia
La più esaustiva fonte descrittiva dell’ agglomerato antecendente l’attuale Sava e denominato Castieddi, sullle rovine del quale quale viene fondata Sava, consiste in un manoscritto del 1889 di Achille D’ Elia andato perduto ma del quale Primaldo Coco fornisce vari stralci nella sua opera “Cenni storici di Sava”. Il Manoscritto aveva per titolo “Sava e il suo feudo, storia paesana”.
Prima del D’Elìa sarà l’Arditi a parlare, seppur fugacemente, dei “Castelli”, e successivamente, oltre al Coco, ne parleranno il Del Prete e il Pichierri che forniranno ulteriori descrizioni.
Riporto a seguire i più importanti passaggi dell’opera del D’Elia:
“La storia di Sava non è gran che negli annali civili di questa provincia; essa è circoscritta alla più esigua cronaca militare di una rocca. Non potrebbe però convenevolmente parlarne chi trascurasse rifarsi e discutere dei Castelli Castrum Munitum Messapici, o Salentini ora distrutti e ridotti in un bel giardino ad Oriente della novella Sava […] Ch’essi Castelli fossero costruzione vetustissima – non ben accertato se messapica o salentina per mancanza d’ iscrizioni – lo attestano le monete della vecchia Orra quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero; la irregolarità delle forme nei massi tufacei delle fondamenta ancora visibili – d’epoca evidentemente ciclopica e certi cocci di una tal terraglia pesante come ferro del color della ghisa è bastante che il chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto in una breve visita fattavi nell’ultimo agosto (1889) dichiarasse di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messena.”[3]
Come si è visto, qui il D’Elia cita la visita in Sava del Prof. Viola, argomento sul quale torneremo nel seguito di questo scritto per chiarire cosa accadde dopo quella visita. Da notare che il manoscritto è redatto nello stesso anno della visita di Viola, presumibilmente pochi mesi dopo. Il D’Elia prosegue:
“Questi Castelli erano in comunicazione sotterranea con un piccolo fortino sito in contrada Specchiodda e forse anco con quello di Uggiano Montefusco, e di Manduria: ciò che prova che essi rappresentar dovessero un intero sistema di fortificazioni di confini dei due regni Messapico e Tarantino. […]Tale sarebbe la versione più modesta che potrebbe darsi alle dicerie corse sui nostri Castelli. Ci sarebbe dell’altro però. Dalla lunghezza della via sotterranea di forma poligonale, visibile anche oggi in casa Testa e nel giardino Melle, ci sarebbe da arguire che essa servisse alle comunicazioni segrete fra i vari forti.
Dai sepolcri messapici – con la facciata del cadavere sempre rivolto ad Oriente – trovati in gran numero a mezzo chilometro dai vecchi Castelli e ad un metro di profondità in quel tratto di terreno che va dal convento di S. Francesco sino alla via provinciale, ci sarebbe da inferirne che qui fosse un sepolcreto da quelli dipendente.”[4]
Sin qui, il resoconto obiettivo del D’Elia. Con poche righe successive e conclusive entra poi nel campo della congettura:
“Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbs Messapiorum ?” [5]
I dati a supporto delle tesi del D’Elia
Dell’antico casale Castelli fornisce per primo alcune notizie Giacomo Arditi:
“Il territorio si appoggia sul sabbione e sul calcare di varia specie; nel predio Castelli, appo l’abitato, sogliono scavando rinvenirsi delle monete di tipo greco […] Qui d’appresso esisteva una volta il casale appellato Castelli, e ne fan fede il nome che ancora dura nella contrada, le due vecchie vie che esistono e che chiamano Vetere o Portoreale, e i ruderi e le monete accennate di sopra. Distrutto Castelli nel sec. XV, o per vecchiezza, o per incidenza delle guerre e dei conflitti allor combattuti tra Spagnuoli e Francesi, i suoi abitanti eressero vicin vicino quest’altro appellato Sava […] “ [6]
Il Coco a sua volta riprende la maggior parte delle descrizioni dell’antica “Castelli” dal manoscritto del D’Elia, accettandone la ricostruzione dei fatti, ma rigettando l’ipotesi della identificazione di “Sava-Castelli” con la antica e leggendaria Sallenzia, però conclude :
“Quanto poi riferisce l’autore circa la forma dei Castelli, la via sotterranea, i sepolcreti e le monete trovate, merita fede avendo io – le stesse cose – sentite narrare da altri testimoni oculari” [7]
Del resto, sempre il Coco cita alcuni ritrovamenti avvenuti alla sua epoca:
“ Salvatore Schifone trovò in un suo podere non lungi da Sava una grande quantità di monete greche in bronzo.
Sotto l’abitazione del sig. Pietro Schifone furono rinvenuti alcuni antichi vasetti in un sepolcro scoperto a caso. Alcune tombe sono state scoperte nella contrada del paese detta “Castelli”mentre si cavavano le fondamenta di alcune case e vi si trovarono non poche monete di vaolre e oggetti preziosi. Quivi e nei dintorni della masseria di Pasano si osservano tuttora dei cunicoli e dei grandi recipienti scavati nel masso, che i proprietari adibiscono a depositi d’acqua”.
Ad Aliano poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche.
Pare, da ciò che ne riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano.
Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal feudatario signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.
Tutto quanto però si è trovato nei detti casali e dintorni e quanto era rimasto dell’antico è andato soggetto a vandalica distruzione per ignoranza, oper ingordigia”. [8]
Riguardo alle vie sotterranee esiste poi un resoconto di Pasquale Del Prete[9] e altre testimonianze raccolte da Gaetano Pichierri, mentre rispetto a tombe, ritrovamenti e sepolcreto c’è un’ampia ricostruzione del Pichierri stesso corredata da testimonianze, e anche da foto di reperti trovati in una tomba.[10]
Della Sava messapica parla anche lo studioso francavillese Cesare Teofilato, laddove nel suo scritto su Allianum la descrive come caratterizzata da una cinta megalitica distrutta:
“Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.”[11]
Fondamentali, rispetto alla documentazione sulle monete ritrovate, una serie di testimonianze di Attilio Stazio e altri ricercatori che riassumo a seguire. Abbiamo già citato l’opera del 1879 dell’Arditi, nella quale, a proposito di Sava, riferisce di ritrovamenti di antiche monete “di tipo greco” nel rione Castelli; dieci anni dopo, come abbiamo visto, il D’Elia sempre parlando dei Castelli riferisce i ritrovamenti di “monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute, miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero”. E’ molto probabile che entrambi gli autori siano a conoscenza e si riferiscano – tra l’altro – ad una scoperta sensazionale avvenuta alcuni decenni prima dell’uscita dei loro scritti, che fece scalpore nel mondo della ricerca archeologica e numismatica dei tempi (sino ad essere citata ancora oggi nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato[12] ).
Difatti, in un testo editato nel 1863 Sambon riferisce con dettagliata descrizione in merito a ritrovamenti avvenuti in Sava pochi anni prima, nel 1856: monete incuse di Sibari, Crotone, Metaponto, Siris, Taranto.[13] Il ritrovamento, di grande importanza, viene citato successivamente da Evans nel suo “The Horsemen of Tarentum” edito nel 1889[14] . Riprende la citazione della scoperta Attilio Stazio, specificando:
“Quando, sul finire del sec. VI a.C., Taranto dette inizio alle sue emissioni monetali, nella tecnica “incusa” caratteristica della Magna Grecia e secondo il sistema ponderale in uso nell’area achea di Sibari, Crotone, Metaponto e Caulonia, nessun altro centro della regione Puglia coniava moneta. Tuttavia sin dall’inizio del secolo successivo in alcune zone della Puglia è documentata la presenza di monete della Magna Grecia, giuntevi evidentemente per il tramite di Taranto, la cui costante rivalità con le popolazioni indigene confinanti non impedì certamente rapporti di scambio, come non impedì – e in un certo senso, anzi, favorì – influssi culturali spesso profondi e determinanti sul piano linguistico, religioso, artistico, ecc. “[15]
A tutt’oggi le monete rinvenute a Sava sono tra le più antiche tra quelle ritrovate. Difatti lo Stazio così prosegue:
“E a questo proposito può essere significativo ricordare che i più antichi tesoretti monetali della regione sono stati rinvenuti a Sava e a Valesio, cioè lungo quella naturale via istmica di collegamento tra il mar Ionio e il mar Adriatico, che poi, in età romana, sarà la via Appia”.[16]
Non mi dilungo, in questo scritto, con le citazioni dei ritrovamenti ben più documentati e frequenti nella contrada savese di Agliano, distante pochi km dal centro abitato di Sava,[17] nonché nella vicina altra contrada di Pasano[18] (ne ho parlato in altri scritti e a quelli, qui inseriti nelle note, rimando), e sul monte Magalastro situato tra feudo di Sava e Torricella.[19] Rispetto ad Agliano, è interessante notare come il Teofilato la inserisca all’interno di una triade insediativa comprendente Manduria, Sava e la stessa “Allianum”; in occasione di una sua indagine sul campo, lo studioso vi scorge inoltre una iscrizione messapica segnalata al Prof. Ribezzo e “al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera.[20]
Teofilato scorge in Agliano anche i resti di un antico tempio citato anche dal Coco, e resti di costruzioni consistenti in “ enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria”.[21]
La cosa curiosa è che gli storici locali, ad eccezione del Teofilato, hanno tenuto separati gli studi e la storia di queste località dell’agro di Sava da quelli riguardanti Sava-Castelli, attribuendo a quest’ultima presenza messapica, e a quegli altri siti magno-greca. Si tratta in realtà di siti che distano pochissimi km dal centro abitato di Sava, e che sembrano parte di una storia antica comune e coerente non solo per questioni di datazioni dei ritrovamenti e per prossimità geografica, ma anche perchè, quand’anche il territorio di Sava fosse stato spaccato in due, in un dato momento storico, da una espansione della Chora tarantina sino a queste terre, prima della presunta espugnazione di parte del territorio ad opera dei tarantini, si sarebbe trattato comunque di una unica comunità messapica insediata, appunto, tra l’attuale centro storico di Sava, la sua periferia, e le vicinissime contrade di Agliano, Pasano, Magalastro, Tima,[22] ed altre. Devono aggiungersi a questi siti anche quelli di contrada Petrose[23] e contrada S. Giovanni, ancor più prossimi al centro del paese, e si deve tener presente che la distanza tra il cosiddetto sepolcreto messapico e la zona indicata come di insediamento magnogreco non supera i 2 km.
Luigi Viola e la ricerca non divulgata
Sebbene vi siano precedenti importanti e significativi, la ricerca archeologica sistematica e continuativa in area ionico-tarantina inizia nel 1880 con l’invio in Taranto, da parte ministeriale, del professor Luigi Viola, professore di greco ed esponente della Scuola Italiana di Archeologia.[24] Già nel 1881 Viola pubblica resoconti delle sue attività in quest’area nella prestigiosa rivista “Notizie degli scavi di Antichità” della Regia Accademia dei Lincei, e dal quel momento e per una serie di anni successivi continuerà a pubblicare dettagliate relazioni. Nel 1882 viene istituito un Ufficio speciale per le Antichità e nel 1884 il comune di Taranto stipula grazie a Viola una convenzione per l’istituzione di una collezione museale tarantina. In precedenza tutti i reperti ritrovati erano stati inviati, depositati ed esposti presso il Museo Nazionale di Napoli. Tuttavia l’invio di materiali a Napoli non cessò neanche negli anni successivi, poiché tra il 1891 e il 1898 la Direzione del Museo di Napoli annesse a sé la Direzione scientifica ed amministrativa del Museo di Taranto.[25]
Il Viola è ricordato come personaggio competentissimo ma anche assai discusso, e vedremo perchè.
Intanto è bene ricordare che a quei tempi l’acquisizione museale dei reperti era condizionata da leggi non ancora adeguate alla situazione attuale. Tutto ciò che si ritrovava nei terreni di proprietà privata, era considerato di appartenenza del proprietario del suolo, che poteva liberamente vendere qualsiasi anticaglia rinvenutavi, previo un nulla osta dello Stato, la qual clausola però era, tra l’altro, facilmente e sistematicamente elusa.[26]
Si creò il fenomeno della caccia ai reperti e del loro traffico e vendita incontrollati.
Nel 1885 Luigi Viola sposa Caterina Cacace, figlia del latifondista Carlo Cacace, il quale si ritrovava nella stessa posizione di molti altri uomini del suo status: i ricchi latifondisti dell’epoca e della zona erano tacciati di speculare sui reperti ritrovati nei numerosi suoli che possedevano. Di più, il Viola inizia a collaborare con il suocero in questo genere di attività.[27]
Difatti, Luigi Viola iniziò a subire diverse critiche all’epoca, per i suddetti motivi e perchè improvvisamente dedito più alla politica che alla professione (nel 1889 divenne anche Sindaco), ma soprattutto, per quel che ci riguarda, perchè era accusato di disattenzioni nel suo operato di archeologo: testualmente, Fedele, Alessio e Del Monaco riportano che
“gli veniva infatti rimproverato non solo di non dare più notizie al mondo scientifico delle notevoli scoperte di cui era fortunato spettatore, ma anche di non documentare in maniera sufficiente gli scavi fatti, dei quali non registrava l’ubicazione, non traeva disegni dei monumenti, non teneva separati i materiali”.[28]
Questo periodo particolare e discusso del Viola coincide con la sua visita a Sava, che, come riportato dal D’Elia, risale al 1889. E’ esattamente il periodo delle “distrazioni” del professionista e della sua elusione dalla rendicontazione di osservazioni e scoperte.
A seguito di questi motivi e delle critiche e accuse subite, pare, nel 1891 il Viola viene trasferito a Napoli, ma nel frattempo il rapporto con il Ministero si inasprisce sempre di più e nel 1895 rassegna le sue dimissioni. Da questo momento diviene un dichiarato e accanito antagonista del Museo, e addirittura si dedica apertamente e ancor più intensamente, a quanto riportato, al commercio di reperti archeologici per conto del suocero e di altri privati:
“Da quel momento Viola divenne un accanito antagonista del Museo, collaborando con il suocero in attività poco chiare di reperimento e di commercio di oggetti archeologici e svolgendo inoltre il ruolo di consulente di privati in contrattazioni di vendita con il Museo, nell’interesse dei quali, e per proprio tornaconto, giocava sempre al rialzo delle valutazioni”.[29]
A questo punto è chiaro il motivo per il quale pur avendo dichiarato Il Viola nella sua visita a Sava insieme al D’Elia di aver visto cose interessanti “ di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene”, non vi fu un seguito a livello di trasparenza, documentazione e ricerca archeologica ufficiale in merito a quanto osservato. E forse, a seguito di ciò si spiega anche il motivo per il quale il manoscritto del D’Elia non fu mai dato alle stampe. Il D’Elia era un autore particolarmente prolifico e proprio in quel 1889 edita difatti ben due opere per i tipi della Parodi di Taranto e Lazzaretti di Lecce, e a distanza di soli 2 anni ne edita altre tre sempre per Parodi.[30] Qualcosa o qualcuno dunque dovette indurre l’erudito a desistere dal completare e pubblicare “Sava e il suo feudo”: l’impossibilità di provare gran parte dei contenuti dello scritto, o una qualche pressione a non divulgare più di tanto?
Sta di fatto che di sicuro il Viola non compie disinteressatamente la sua visita a Sava, proprio negli anni del suo maggiore invischiamento in operazioni di ricerca non istituzionale, e sta di fatto che della visita e delle scoperte fatte in Sava da parte del Viola non viene fatta menzione alcuna in articoli, riviste, documenti. Questo riserbo certamente non è da imputare al caso, quanto alla coerenza con quell’atteggiamento di commerciante di oggetti archeologici e di consulente di privati.
Nel 1895 il Museo di Taranto è diretto dal prestigioso archeologo Paolo Orsi, il quale in una relazione dell’anno successivo pubblicata in “Notizie degli Scavi di Antichità” lancia un feroce j’accuse al Viola scrivendo:
“…E’ stata una vera jattura per l’archeologia in genere, e specialmente per la topografia tarentina, che delle frequentissime scoperte dell’ultimo ventennio non siasi tenuto un diario minuzioso ed esatto…”[31]
[2] Gaetano Pichierri, I confini orientali della taranto greco-romana, in: Omaggio a Sava, raccolta postuma di saggi a cura di Vincenza Musardo talò, Edizioni Del Grifo, 1994, pp. 251-256; si veda anche: Gianfranco Mele, Sulle tracce dell’antica Sallenzia: le ipotesi di Achille D’Elia e Gaetano pichierri concernenti l’agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html
[3] Achille D’Elia, Sava e il suo feudo, Storia paesana, Mss. di f.3, 1889, citato e trascritto da Primaldo Coco in Cenni Storici di Sava, Stab. Tip. Giurdignano, LE, 1915 ( ristampa a cura di G.C.S., Marzo Editore, 1984), nota (1) pp. 58-60
[6] Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’ Otranto, 1879, pp. 548-549
[7] Primaldo Coco, Cenni storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Le, 1915 – ried. Marzo Editore, Manduria, 1984, nota a pag. 60
[8]
Primaldo Coco, op. cit., nota 1 a pag. 16. Laddove riferisce di “Aliano”, trattasi di contrada savese altrimenti detta Agliano, a pochi chilometi dal centro di Sava. Agliano fu anche fattoria romana e casale medievale. [9]
Pasquale Del Prete, Il Castello federiciano di Uggiano Montefusco, Archivio Storico Pugliese,Bari, Società di Storia Patria per la Puglia a. XXVI, 1973, I-II, pp. 41-42; vedi anche Gianfranco Mele, Sava: “Li Castieddi” e i camminamenti sotterranei, La Voce di Maruggio, sito web, novembre 2018, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-li-castieddi-e-i-camminamenti-sotterranei.html
[11] Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi. Allianum, in Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2
[12]
Notiziario del portale Numismatico dello Stato – Ministero per i Beni e le Attività Culturali: “Contributi/Vetrine e Itinerari/Dossier n. 1, 2013, pag. 36: “… Sambon aveva potuto dare notizie di un ritrovamento di monete della Magna Grecia avvenuto a Sava nel 1856, fornendo l’elenco delle monete scoperte e disperse solo sulla base di una notizia ricevuta “par un tèmoin oculaire” ed entrando peraltro solo in possesso di pezzi scelti”. [13]
Arthur Sambon, Recherches sur les anciennes monnaies de l’ Italie meridionale, Neaples, Cataneo, 1863, pag. 11
[14]
Arthur Evans , The Horsemen of Tarentum – a contribution towards the numismatic history of Great Greece, London, 1889, pag. 2, nota 4
[15]
Attilio Stazio, Per una storia della monetazione dell’antica Puglia, in Archivio Storico Pugliese, 28, 1972, pag. 42
[19] Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico, luglio 2018, pp. 14-28
[20] Francesco Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105
Per i trecento anni della statua di Sant’Antonio di Padova venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano
di Fernando Scozzi
La statua di Sant’Antonio di Padova, venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano, compie 300 anni. Non è una ricorrenza di secondaria importanza perchè nel difficile lavoro di ricostruzione delle vicende religiose e sociali della comunità melissanese anche l’immagine del Santo Patrono ha la sua rilevanza. Il simulacro, infatti, testimonia la generosità del vescovo di Nardò, Mons. Antonio Sanfelice e la devozione dei melissanesi per Sant’Antonio di Padova il cui patrocinio non trae origine da avvenimenti straordinari, ma da un dipinto del Santo che i De Franchis, feudatari di Melissano, donarono alla nuova chiesa parrocchiale nei primi anni del XVII secolo. (1)
Fin da quel periodo, quindi, Sant’Antonio di Padova divenne il Santo di riferimento del piccolo paese, anche se il primo documento che ne attesta il patronato risale al secolo successivo. Dalla relazione della visita pastorale del 11 maggio 1719 apprendiamo, infatti, che il vescovo Sanfelice, accompagnato dal parroco, Don Ottavio Piamonte, visitò la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’ Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano; visitò gli altari del Rosario e del Protettore, ma la non la statua del Santo, dal momento che la parrocchia era così povera da esserne sprovvista.
L’anno successivo, lo stesso presule visitò nuovamente la chiesa, la torre campanaria, il sepolcro dei defunti, le suppellettili sacre e la nuova statua di Sant’Antonio di Padova con sacra reliquia, circostanza riportata nella relazione della visita pastorale ..… visitavit novam statuam Santi Antonii de Paduacum sacra reliquia. Nessun dubbio, quindi, riguardo alla datazione del simulacro che fu intagliato fra il 1719 ed il 1720. E’ molto probabile che fu lo stesso Sanfelice a commissionare la statua, dopo aver constatato, nel corso della prima visita pastorale, che la parrocchia ne era priva. Il vescovo si rivolse, quasi certamente, al “maestro di legname” Giovanni Antonio Colicci (attivo a Napoli negli anni fra il 1692 ed il 1740) che in quello stesso periodo scolpiva le statue dell’Assunta per la cattedrale di Nardò e del San Filippo Neri per il seminario della medesima città, mentre per la parrocchiale di Lequile firmava il mezzobusto ligneo del Santo dei miracoli (2).
Quest’ultimo è simile alla statua di Sant’Antonio venerata nella chiesa di Melissano (occhi grandi, viso ovale, panneggio della tunica che cade sul basamento) il che ne avvalora l’attribuzione all’artista napoletano. Il Santo è raffigurato insieme a Gesù Bambino che, con una mano benedice e con l’altra indica il volto di Sant’Antonio come ad esortare i fedeli ad imitarne le virtù. Completano l’immagine il giglio ed il libro simboli, rispettivamente, di purezza e di ispirazione alla Sacra Scrittura.
Nel 1788 si rese necessario l’ampliamento dell’antica chiesa parrocchiale al cui interno fu edificato un artistico altare del Protettore che, con le sue linee settecentesche, caratterizza il sacro edificio. Qui, sulla controfacciata, si nota un’effigie di Sant’Antonio di Padova che, a detta dei più anziani, fu impressa sulla parete dalla scarica di un fulmine durante l’infuriare di un temporale. Certo è che il dipinto risale ai primi anni del secolo scorso, ma non è escluso che sia stato eseguito su una preesistente immagine del Santo.
Dagli atti del Comune di Taviano (cui Melissano fu aggregata agli inizi del XIX secolo) risulta che nel 1812 il Municipio stanziava otto ducati per solennizzare la festa patronale che, fin da quel periodo, prevedeva due appuntamenti annuali: il 13 giugno (festa liturgica) e la prima domenica di settembre (festa solenne). In questa occasione, fin dal 1877, fu istituita una fiera a supporto di un’economia agricola in forte espansione che aveva fatto della viticoltura il punto di svolta per lo sviluppo socio-economico della comunità melissanese. E proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, con le risorse finanziarie provenienti dalla commercio del vino, si edificava la nuova chiesa parrocchiale che, in continuazione ideale con l’antica matrice, fu aperta al culto nel 1902 e dedicata al Protettore e alla Madonna del Rosario, titolare della parrocchia.
La statua di Sant’Antonio, quindi, passò dall’antico al nuovo tempio e continuò ad essere accompagnata nelle tre processioni annuali, parte integrante dei festeggiamenti svolti secondo un programma che, per molti aspetti, è stato seguito fino allo scorso anno: concerti di bande musicali, illuminazione delle principali vie del paese, messa solenne con panegirico e conclusione della festa con lo spettacolo di fuochi pirotecnici. (3)
Nel 1910 il simulacro fu impreziosito (per devozione di Fortunato Caputo) da un medaglione d’argento, mentre Francesca Panico donò la corona lignea dorata sotto la quale viene esposta ancora oggi la statua del Santo. Successivamente, il parroco Don Salvatore Tundo, pubblicò un libro in versi sulla vita di Sant’Antonio (4) mentre i coniugi Giuseppe e Antonia Musio fecero dipingere il maestoso altare del Protettore dove campeggia un’immagine del Santo (risalente al 1902) pregevole opera del pittore leccese Luigi Scorrano. Nel 1931, fu realizzato un ciclo di dipinti che raffigura gli episodi più significativi della vita del Santo dei miracoli (il transito, la gloria, la distribuzione del pane ai poveri) mentre la devozione popolare si manifestava con i numerosi monili offerti al Protettore per grazia ricevuta (esposti sull’immagine in occasione delle processioni) con la capillare diffusione del nome del Santo fra i melissanesi, le edicole sacre, le immagini fra le mura domestiche.
L’ultimo restauro della statua, il tredicesimo, risale al 2008. I lavori, affidati ad un’impresa specializzata, sotto la sorveglianza della Soprintendenza dei Beni Culturali di Lecce, ne hanno confermato la datazione, visto che la reliquia del Santo, posta nell’incavo centrale dell’immagine è autenticata dal sigillo di Mons. Antonio Sanfelice. E’emerso, inoltre, che il simulacro, di pregevole fattura, “è costituito dall’assemblaggio di tre pezzi di legno tenero tenuti insieme da un sistema di chiodi passanti che ne assicura la tenuta”. (5)
La statua, secondo gli addetti ai lavori, è stata riportata al suo stato originario; ma, nonostante gli interrogativi suscitati da un intervento così radicale, rimane un elemento di identificazione della Comunità melissanese affidatasi nel corso dei secoli a Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dalla cristianità.
Note
I De Franchis, marchesi di Taviano ed utili signori di Melissano, erano così devoti a Sant’Antonio di Padova da far costruire e dedicare nel 1643 al Santo dei miracoli il convento dei francescani riformati di Taviano.
“La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta il programma della festa del 1951: “Hanno avuto inizio i festeggiamenti in onore del Patrono S. Antonio di Padova. Il Comitato ha preparato il seguente vasto ed interessante programma. Nelle ore pomeridiane di sabato 1 settembre e in quelle antimeridiane di domenica, la statua del Santo sarà portata processionalmente per le vie del paese. Una solenne messa in musica sarà celebrata nella parrocchia a termine della processione di domenica 2 settembre, messa che sarà eseguita dall’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto”. Terrà il panegirico il Prof. Padre Gerardo Miccioli dei Frati Minori. Per l’occasione sono stati ingaggiati l’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto” e il concerto musicale di Corigliano d’Otranto rispettivamente diretti dal Maestro Dino Milella e dal Maestro Marcianò. L’addobbo sarà curato dalla locale ditta Fratelli Parisi e vi saranno batterie di fuochi artificiali. Come per tradizione la fiera del bestiame e merci avrà luogo domenica 2 settembre”. Dalla fine degli anni Settanta, al tradizionale programma è stato aggiunto uno spettacolo di musica leggera con l’ingaggio di cantanti anche di fama nazionale. Invece, la processione che si svolgeva nel giorno della festa solenne è stata soppressa con il conseguente impoverimento dei festeggiamenti religiosi, ora limitati alla sera della vigilia. Ma, in generale, sono cambiate le motivazioni alla base delle feste patronali. Per quanto riguarda Melissano in particolare, la festa solenne che fino a pochi anni fa segnava l’inizio della vendemmia e quindi il rientro in paese dei melissanesi residenti nella abitazioni estive, è diventata (per l’abbandono dell’attività agricola e per il cambiamento climatico) un appuntamento da passare al mare ed a cui partecipare, tutt’al più, nelle ore serali.
Arc. Salvatore Tundo, S. Antonio, Carra, 1936. Così esordiva Don Salvatore nella sua pubblicazione: “Fortunata sei tu Melissano/d’aver scelto a celeste Patrono/ chi di gemme ha cosparso il suo trono/ed è ricco i tutti i tesor. I tuoi padri da Fede guidati/quando assursero a libera vita/ al Rosario cercarono aita/ad Antonio fidarono i cuor”.
Don Giuliano Santantonio , “Sant’Antonio … ritrovato”, in “Il Carrubo”, a. 1, n. 3, giugno 2008.
L’Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie
L‘Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie. Affresco e ceramiche: una proposta di datazione
di Riccardo Viganò.
L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia.
Quest’opera è una libera interpretazione del fortunato schema dell’Ultima Cena di Livio Agresti, ripresa successivamente anche dal Tintoretto nel 1574 nella basilica di San Marco e da Rubens nel 1632 . Lo stesso schema fu utilizzato nel 1648 per la realizzazione del frontespizio figurato del Missale romanum, da Cornelius Cort e da G. Merli.
L’opera vegliese è dipinta con una tecnica pittorica mista tra affresco e tempera, realizzata da un pittore tuttora sconosciuto, che secondo recenti studi è stato attribuito a Diego Oronzo Bianco di Casalnuovo (1683-1767).
L’artista fu attivo nella prima metà del ‘700 e produsse opere in Brindisi nella cappella del SS. Sacramento datata 1715, in Manduria nella casa dei francescani e nel refettorio degli scolopi in Francavilla fontana.
L’attribuzione di questo dipinto è forse leggermente azzardata, poiché il fattore cronologico tra l’artista e il decoro delle ceramiche raffigurate, come vedremo, non combacia.
L’autore nel realizzare il suo cartone fu certamente attento alla realtà che lo circondava, cercando di rimanere fedele a modelli materiali correnti in quel periodo e presenti nella vita quotidiana. Egli non ha rappresentato le produzioni ceramiche di Casalnuovo (Manduria), sua patria, ma il materiale in uso nel convento dei francescani di Veglie.
La Mensa è coperta con una tovaglia bianca decorata con un motivo floreale a cinque petali. Su di essa vi sono vetri di buona qualità, dei quali uno a campana con gambo a colonnetta del tipo veneziano detto “façone de Venise”; ambedue sono forniti di relative alzatine smaltate in monocromia bianca utilizzate come sottocoppe. Sia sulla sinistra che a al centro della scena vi sono altre tre alzate, una a gambo corto contenente della ricotta, e due , ad uso di fruttiera, una con gambo colonnetta e con un piede ampio, l’altra ad alto gambo.
In tutta l’apparecchiatura di questa mensa, come in altre rappresentazioni coeve salentine, mancano le posate. Forchette e cucchiai sono assenti, i coltelli hanno manici di legno o di osso con lunghe lame puntute e rivolte tutte con la punta verso l’esterno a sinistra della tavola. Gli “stusciafacce” come i tovaglioli o asciugamani sono piegati in ottavo con frange alle estremità.
Al centro della mensa vi è una coppa in monocromia bianca che contiene la portata principale, cioè l’agnello, e tre saliere a cupola sempre smaltate. Sono anche collocati dei pani di forme diverse, verdure e frutti presenti nel Salento nei tre mesi della stagione primaverile: carciofi, fave novelle nei baccelli verdi con foglie, ma anche fave secche, pere, mele, arance nelle fruttiere e limoni dimezzati al centro della mensa.
In questa rappresentazione vi è una non comune quantità e qualità di stoviglie, del tutto inusuali nelle rappresentazioni pittoriche dell’Ultima Cena, e qui, come in altre rappresentazioni salentine, le ceramiche vengono ritratte dal vero.
Partiamo dalle due anforette a corpo globulare ritratte in primo piano sulla mensa , probabilmente contenti acqua. La prima anforetta è fornita di due anse, o biansata, col collo cilindrico e corpo globulare decorato con racemi e girali vegetali in verde ramina terminanti con foglioline in turchino e bacche rosso ferraccia.
Del tutto simile per forma la seconda anforetta, con anse a volute, che presenta una decorazione a racemi e girali più accurata della precedente. Alternate e affiancate a questi contenitori per l’acqua, vi sono le brocche.
Questi due contenitori sono rappresentati trilobati e mono ansati, rivestiti di smalto bianco e decorati in bicromia azzurro/giallo, colori tipici delle produzioni “compendiarie” della prima metà del ‘600. Centralmente vi sono raffigurati un decoro floreale “alla margherita”. Differentemente dei precedenti esemplari contenenti acqua, questi sono colmi di vino.
Le forme delle ceramiche qui rappresentate e soprattutto i decori “compendiari” erano largamente diffusi nella penisola salentina nella prima metà del ‘600. Tralasciando i centri produttori di ceramica di uso comune, territorialmente vicini a Veglie, come Salice Salentino che ebbe il suo exploit a partire del primo ‘700, l’unico centro produttore di maiolica di alto livello fu Nardò. Questo centro, a partire dal XVII, ebbe con la famiglia Bonsegna, il monopolio commerciale di ceramica smaltata di pregio in tutto il Salento centro meridionale, soppiantata successivamente dalla più imponente Laterza.
Recenti scavi archeologici svolti nel centro storico, datati al primo trentennio del ‘600, hanno restituito scarti di bottega sia in monocromia e policromia, in tutto e per tutto simile agli esemplari riprodotti in questa opera pittorica vegliese. Dunque, grazie alla nuova cronologia fornita da questi scavi di un ambito chiuso, l’attribuzione a Diego Oronzo Bianco (1683-1767) di questa opera pittorica, proprio per i motivi prettamente cronologici che abbiamo esposto, viene meno, dovendosi individuare un altro artista, che ad oggi resta sconosciuto.
L’organo a canne “Vincenzo De Micheli” della chiesa parrocchiale di Tutino
La nota informativa, apparsa sul blog della fondazione, sul recente restauro di un antico organo a canne di una chiesa del nostro Salento (1) mi ha dato lo stimolo per presentare un breve cenno storico sull’organo custodito nella chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie di Tutino (fraz. di Tricase).
Premesso che l’organo è uno strumento antichissimo utilizzato in Egitto già alcuni secoli prima di Cristo (funzionante con un sistema idraulico per evolversi in uno strumento ad aria) e successivamente a partire dall’VIII secolo d. C. utilizzato nella civiltà romana e nell’area mediorientale per celebrare le grandi festività pubbliche, venne via via perfezionato cominciando a raggiungere una larga diffusione soprattutto a partire dal XVII secolo tanto che ogni chiesa ambiva di averne uno per rendere le funzioni liturgiche più solenni.
Nella piccola chiesa parrocchiale di Tutino, nella cantoria a balconata posta sulla porta d’ingresso principale, dalla quale si accede da una strettissima e ripida scala ricavata nelle mura perimetrale, fa bella mostra di sé un organo a canne di antica costruzione , per molti anni lasciato in disuso e senza alcuna manutenzione di cui questi maestosi strumenti hanno bisogno.
Purtroppo la mancanza di risorse e l’impegno di ripristinare ciò che il lungo tempo trascorso aveva alterato in maniera profonda, sia le canne che la struttura meccanica dell’organo, nel 2015 si è reso necessario un radicale restauro per poter rendere l’opera nuovamente fruibile grazie all’impegno del parroco e con il contributo dell’intera comunità di Tutino.
Un lavoro svolto con grande professionalità e competenza ad opera della ditta organaria “Nicola Puccini” di Pisa il quale pur non avendo trovato all’interno alcuna firma del costruttore ha tuttavia confermato, dopo una comparazione con altri organi della zona, di attribuire l’opera al magliese organaro Vincenzo de Micheli, databile al 1868/69. Infatti una nota del verbale della Giunta Municipale di Tricase datata 21.10.1868, conservato negli archivi comunali, conferma la necessità per la chiesa parrocchiale di Tutino di avere un nuovo organo perché quello esistente ormai non funzionante. Si legge difatti: “… la Giunta Municipale del 21.10.1868, in seguito alla richiesta di contributo presentata dal Parroco della Borgata di Tutino, per la costruzione del nuovo organo della chiesa parrocchiale, essendo l’attuale ormai consunto dall’annosità, delibera di doversi assegnare al Parroco suddetto lire cento, da servire per la costruzione dell’organo”(2).
Questo importante documento ci informa dell’esistenza di un organo ben più antico, sicuramente realizzato tra i secc. XVII/XVIII, e dal quale sicuramente sono stati recuperati i pezzi in buon stato di conservazione per la costruzione del nuovo.
È suddiviso in tre campate, divise da lesene decorate con motivi ornamentali in legno intagliato e dorato di impostazione barocca, con 25 canne di facciata in stagno distribuite a cuspide e munito di due antine che chiudono il mobile in legno di noce dipinto. Essa è divisa in due parti: in quella inferiore sono alloggiati i due mantici e i canali portavento, in quella superiore invece trovano posto le meccaniche, il somiere e le canne.
La tastiera manuale costruita in osso e noce verniciato di nero consta di 55 tasti e una pedaliera di 13 note costruite tutte in legno e collegate al somiere; sul lato destro della tastiera vi sono i comandi dei registri su due file rispettivamente di due e sei tiri con pomellini in ottone.
Le 345 canne, tutte originali, attualmente alimentate da un nuovo elettroventilatore sono in stagno (di facciata), piombo (quelle interne) e di legno di abete verniciato di rosso capaci di imitare, con un effetto speciale, il suono della Zampogna che lo rende unico nel circondario.
Dopo anni di oblio quest’organo è ritornato a regalarci la sua armonia nei giorni festosi e solenni e a raccontarci la sua storia; in un certo senso ha riacceso in noi un interesse nostalgico di valorizzazione di quanto, in questi ultimi decenni, avevamo accantonato e orgogliosamente possiamo dire che anche un piccolo borgo come Tutino ha potuto contribuire al grandioso e straordinario patrimonio artistico e culturale del nostro Bel Paese.
La vita dei cosiddetti “figli d’arte” ha probabilmente aspetti più negativi che positivi e il fenomeno che possiamo chiamare “professione ereditaria”, non è certo recente.
I personaggi di oggi costituiscono una coppia, una delle tante, del passato i cui componenti, padre e figlio, sono caratterizzati dall’aver esercitato la stessa professione: quella di medico. Nel nostro caso il figlio è Diego, il padre Epifanio (1569-1638).
Cominciamo, per motivi, come si conviene, anzitutto cronologici da Epifanio. E lo facciam nel modo più immediato, oggi alla moda, cioè con il suo ritratto, riservandoci dopo un approfondimento meno frivolo di quanto, in generale, lo sia la sola immagine.
La tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando in Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, t. II, 1713.
Ingrandiamo due dettagli:
Nel primo: Epiphanio Ferdinando Messapien(si) Medicoet Philosopho/Dominicus De Angelis Lycien(sis) D(onum) D(edit) D(edicavit)
A Epifanio Ferdinando di Mesagne1 medico e filosofo/Domenico De Angelis di Lecce come dono diede dedicò.
Nel secondo: F. De Grado sculp(sit).
Francesco De Grado incise.
Il De Grado fu un apprezzatissimo incisore (sculpsit=incise) attivo a Napoli tra il 1694 ed il 1730.
Questa seconda tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando a firma di Pasquale Panvini in Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, tomo VI, Gervasi, Napoli, 1819. Da notare che la data di morte (1635) che non coincide con quella (1638) registrata nella biografia scritta dal De Angelis. Nel dettaglio ingrandito:
C(arolus) Biondiinc(idit)=Carlo Biondi incise
Anche Carlo Biondi fu un incisore abbastanza famoso, attivo a Napoli nel XIX secolo. La derivazione del suo ritratto da quello del De Grado è troppo evidente per parlarne. Non possiamo, però, non fare osservare che, se per i tratti somatici il Biondi era giocoforza costretto a seguire il De Grado, sul piano dell’originalità avrebbe potuto farsi sentire meglio, magari giocando sui dettagli. Lo ha fatto sì, ma rendendo uniforme lo sfondo con l’eliminazione del tendaggio che nel primo ritratto conferiva profondità e per il resto conservando l’ovale ma riducendolo col taglio (di mano e libretto) all’altezza della penultima coppia di bottoni. Come vedremo alla fine con Ferdinando e Diego, anche qui l’ultimo arrivato non rimedia una bella figura.
Per chi ha interesse a conoscere tutti i dettagli registrati della vita di Epifanio rinviamo alle due opere appena citate, il che consentirà di cogliere la grande differenza di spessore professionale tra padre e figlio.
Siamo un popolo che scrive tanto, senza saperlo fare e legge poco o nulla, non sapendo fare, nemmeno quello, complice il degrado sempre più spinto della scuola.
Fino a qualche decennio fa non era così e non lo era ancor più qualche secolo fa, sicché nel passare al vaglio quegli autori si può assumere come parametro di giudizio il numero delle loro pubblicazioni, prima ancora della qualità.
Nel nostro caso, poi, giudicare in base a questi parametri è ancora più semplice, dal momento che Diego, come brutalmente anticipiamo, non pubblicò nulla, per Epifanio, invece, lascimo parlare i titoli (con i relativi frontespizi quando reperiti in rete).
Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611
+
Ci piace segnalare che dei quattro componimenti encomiastici in latino che precedono il testo vero e proprio uno è del nostro concittadino Scipione Puzzovivo. Il lettore non neritino ci perdonerà se lo riportiamo e lo traduciamo:
(Esastico di Scipione Puzzovivo, dottore di entrambi i diritti, all’autore
Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegni più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica)
De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Nuccio, Napoli, 1612.
Purtroppo in rete non è reperibile alcun esemplare di questa edizione. Dato il tema trattato, il libro dovette andare a ruba, ma è strano che non abbia avuto subito una o più ristampa. La ristampa anastatica con traduzioni a cura di Maria Luisa Portulano-Scoditti e Amedeo Elio Distante è uscita nel 2004 per i tipi di Sulla rotta del sole, Mesagne. Gli stessi autori hanno il merito, con questa ed altre pubblicazioni che volta per volta verranno segnalate, di aver riportato alla ribalta la figura del mesagnese, a parte la citazione fatta da Ernesto De Martino in La terra del rimorso (1961) di alcune testimonianze sul tarantismo presenti nell’opera del mesagnese che subito dopo nominerem.
Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni, Venezia, 1621
Segnaliamo: Amedeo Elio Distante, Maria Luisa Portulano-Scoditti Epifanio Ferdinando: le “Centum Historiae” e la medicina del suo tempo, s. n., Mesagne, 2000.
Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626.
Segnaliamo l’edizione a cura degli stessi autori menzionati per Centum historiae: La peste. Epifanio Ferdinando, s. n., s. l., 2001.
Oltre alle quattro opere a stampa ricordate, il De Angelis nella sua opera citata all’inizio ci ha lasciato un lungo elenco di titoli di Epifanio rimasti manoscritti. Lo riproduciamo da p. 229 in modo che il lettore abbia contezza della molteplicità di interessi nutriti dal mesagnese (dalle voglie delle donne in gravidanza al vulcanismo, dal tarantismo alle api, dai gechi all’obesità, dalle comete al modo per generare figli maschi, etc. etc.
Purtroppo, a quanto ne sappiamo, di tanta produzione solo della Messapographia, seu Historia Messapiae è custodita nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi una copia (ms. D/13), dal titolo Antiqua Messapographia, eseguita da Ortensio De Leo nel 1752 (come recita una nota a c. 2r). Di seguito il frontespizio.
A proposito di quest’opera ricordiamo che la stessa biblioteca custodisce un manoscritto (ms. M/4) del XIX secolo che ne contiene in due libri la traduzione fatta dal latino all’italiano da Antonio Mavaro, giurista mesagnese vissuto tra il XVIII e il XIX sec. (di seguito il frontespizio.
Nella carta 1r che più avanti riprodurremo il Mavaro ha avuto la felice idea di riportare due composizioni scritte, una in latino l’altra in italiano, in lode di Epifanio e della sua Messapographia dal canonico Francesco Roma, all’epoca vicario foraneo. In calce le trascriveremo, tradurremo la prima e commenteremo entrambe, non senza aver prima sottolineato che questo tipo di omaggio è frequente nelle opere a stampa di quei tempi (vedi l’esastico di Scipione Puzzovivo prima riportato) e che la loro presenza, di cui nessuno avrebbe sospettato l’ esistenza senza la pubblicazione pur manoscritta del Mavaro, alimenta l’ipotesi che tutto fosse pronto o quasi per consegnare il libro alla stampa ma qualcosa lo impedì. Forse le pessime condizioni di salute nell’ultimo decennio di vita e la volontà venuta meno a causa della malattia di fare l’ultima revisione. Scrive il De Angelis a p. 227 della sua opera:
carta 1r
Ad Epiphanium Ferdinandum Medicum praestantissimum in Librum de antiqua Messapographia D. Franciscus Roma Canonicus Messapiensis. Epigramma.
Messapi! Regale decus ne longa vestustas/obrueret tenebris, dirueretque solo/Ferdinandus, adest, fama clarissimus atque/Euboica fulcit moenia ducta manu./Et solide munit sic cuncta, ut temporis ictus/non timeant imbrem, praecipitemque Notum./Perpetuo stabunt cunctis miranda per Orbem,/sed magis a casu, qui eripuit Patriam./Qui inde fugat morbos. Qui Cives eripit Orco,/et famae tradit nomina cuncta virum.
Traduzione: Ad Epifanio Ferdinando medico validissimo per il libro sull’antica Messapografia Don Francesco Roma canonico mesagnese. Epigramma.
Messapi! Perché il lungo trascorre del tempo non avvolgesse nelle tenebre una nobiltà regale e non l’abbattesse al suolo è venuto Ferdinando chiarissimo per fama e sorregge con la mano tesa le mura euboiche2. E fortifica tutte le cose così saldamente che esse non temono le offese del tempo, non la pioggia e l’impetuoso Noto3. Tutte resteranno per sempre degne di ammirazione per tutti sulla Terra, ma più (lontano) dalla sventura che ci ha rapito la Patria. (Ferdinando) che mette in fuga da qui le malattie. (Ferdinando) che sottrae i cittadini alla morte e consegna alla fama tutti i nomi degli uomini.
L’epigramma è costituito da cinque distici elegiaci di buona fattura. Da notare i congiuntivi imperfetti obrueret e dirueret in dipendenza dal presente abest. Secondo la consecutio temporum classica ci saremmo aspettato obruat e diruat. Tuttavia c’è da ipotizzare che quel presente sia stato usato, non sappiamo quanto consapevolmente, quasi a mo’ del perfetto greco, per cui, per esempio un οἶδα alla lettera significherebbe vidi ma si traduce con so. Qui il processo, però, è inverso, cioè adest alla lettera significherebbe è presente ma è come se derivasse da un è arrivato. Questo valore logico di perfetto attribuito a ciò che grammaticalmente è presente giustifica gli imperfetti congiuntivi, non solo, ma dà quasi l’idea che Epifanio sia in grado non solo di frenare gli effetti nefasti del tempo ma, addirittura, di sanare in qualche modo quelli già atto.
Sonetto dello stesso Autore
Visse Messapia già da mano altera/eretta e cinta da superbe mura:/ma qual cosa mortal che poco dura/sull’alba del natal vidde4 la sera./Cadde, ma ne’ tuoi scritti oggi qual’era5/anzi più bella assai si raffigura;/cadde ma la tua penna oggi la fura6/a morte, e la richiama a vita vera./Tanto può dotta penna. In marmi egreggi7/tuo nome inciso il Mondo già ne attende./Già ti cede Messapo i suoi gran preggi8./Eresse egli Città che alle vicende/del tempo cader vide i propri freggi9/ma eterna il tuo saper oggi la rende.
Che rabbia fa leggere nell’elenco dei titoli dei manoscritti lasciatoci dal De Angelis quel Dilucida, et compendiosa tractatio de Terraemotu, et incendio Montis Vesuvii, et de remediis ad futuros Terraemotus pensando che sicuramente l’eruzione del Vesuvio è quella disastrosa del 1631 e che il nostro sarebbe stato una fonte salentina certamente attendibile da aggiungere altre salentine in passato oggetto di studio.
Per oggi basta con Epifanio. Alla prossima, con Diego.
2 Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, IX, 2, 13: Ἐν δὲ τῇ Ἀνθηδονίᾳ Μεσσάπιον ὄρος ἐστὶν ἀπὸ Μεσσάπου, ὃς εἰς τὴν Ἰαπυγίαν ἐλθὼν Μεσσαπίαν τὴν χώραν ἐκάλεσεν (Nel territorio di Antedonia [regione della Beozia] c’è il monte Messapio [così chiamato] da Messapo, colui che dopo essere andato in Iapigia chiamò la regione Messapia).
7 Forma normalmente in uso nel XVII secolo, giustificata dal fatto che egregio deriva dal latino egrègiu(m), composto da e-=fuori+grex/gregis=gregge. La geminazione della g in egreggio è dovuta proprio al gregge e non grege italiano.
Dopo la morte del re Guglielmo II e l’ascesa nel gennaio del 1190 di Tancredi d’Altavilla sul trono di Sicilia, Margarito, che a quella elezione ed al successivo sostegno armato del re normanno contro le pretese dell’imperatore Enrico VI di Svevia aveva contribuito attivamente – con la sua flotta nell’autunno del 1191 aveva addirittura intercettato e fatto prigioniera Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e futura madre di Federico II – fu nominato dal novello re conte di Malta ricevendo l’investitura feudale dell’arcipelago maltese.
In quegli anni, l’ammiraglio Margarito spesso soggiornava a Messina, il più importante porto militare normanno in Sicilia, e lì si era costruito un fastoso palazzo dove a fine di settembre del 1190 ospitò il re Riccardo Cuor di Leone in sosta prima dell’imbarco per la terza crociata. E poco tempo dopo a Brindisi – il più importante punto d’appoggio continentale della flotta del regno – dove Margarito risiedeva prevalentemente e dove possedeva una ancor più lussuosa dimora, nel febbraio 1191 fu ospitata la madre dello stesso re Ricardo, Eleonora d’Aquitania, e la sua promessa sposa, Berengaria di Navarra, prima che costei verso i primi di aprile salpasse per la Terrasanta per poi raggiungere Cipro, dove il 12 maggio celebrò il suo matrimonio con il re.
Quella sfarzosa domus brindisina di Margarito fu molto celebre: fornita di bagni, giardini, forni e altri servizi accessori e con diretto accesso alle cale portuali, era nei pressi della rocca normanna. Nel 1215 fu da Federico II concessa all’Ordine Teutonico, eccezion fatta per i locali utilizzati per l’officina della zecca e per l’ufficio del gabelliere. Poi, nel 1229, Federico II riacquistò dai Teutonici la domus Margariti con le sue pertinenze, per ricomporne l’integrità e destinarla tutta ai servizi di Stato. Il pontefice Innocenzo IV, scomunicato lo svevo Federico II, dispose della domus assegnandola nel 1247 al suo partitario otrantino Riccardo di Maramonte. Il papa Alessandro IV nel 1257, invece, regnando il nemico svevo Manfredi la concesse, virtualmente perché di fatto non ne disponeva, a Zaccaria Nicola e Bibulo, i tre figli di Sergio Bibulo che era stato fatto uccidere da Manfredi. Nel 1284 infine, il re Carlo d’Angiò, trasferita in una nuova sede la zecca, donò ai frati Minori sia quella che era stata la casa di Margarito che l’adiacente area su cui era stata la rocca normanna, perché vi edificassero il convento e l’annessa chiesa, tuttora esistente, la chiesa di San Paolo eremita.
Dato che durante gli ultimi anni di regno del re Tancredi non si verificarono conflitti militari di rilievo contro l’imperatore Enrico VI, e visto che quel re di Sicilia aveva anche rinunciato a proseguire l’attiva politica mediterranea antibizantina dei suoi predecessori, la flotta di Margarito da Brindisi non ebbe molto che guerreggiare e così, il potente ammiraglio si dedicò soprattutto all’amministrazione dei suoi feudi e fece ripetute donazioni a chiese e monasteri – forse per far dimenticare, o magari per farsi perdonare, quel suo rocambolesco passato da pirata.
Particolarmente favorito fu il monastero di San Nicola di Paratico, a cui tra il 1192 e il 1194 donò vari terreni nel territorio di Policoro e Colobraro. Un’ulteriore donazione, del settembre 1193, riguardò il famoso Archimandritato di San Salvatore a Messina al quale egli assegnò tutte le entrate del casale Cremastro a Calatabiano. Mentre a Brindisi in quegli stessi anni donò alla Chiesa tre suoi edifici siti nei pressi del porto e finanziò la costruzione del convento con la chiesa di Santa Maria del Ponte Parvo e due altre piccole chiese, di Santa Margherita e San Demetrio, che furono sottoposte allo stesso convento nel quale si insediarono in nutrito gruppo premostratensi seguaci di San Agostino provenienti da San Manuele di Barletta.
Dopo la morte di Tancredi, l’imperatore Enrico VI, che non aveva mai rinunciato a rivendicare il trono di Sicilia a nome di sua moglie, la normanna Costanza d’Altavilla, entrò a Palermo il 21 novembre del 1194 ricevendo il castello del porto senza incontrare resistenza alcuna da parte di Margarito, ma questi, inevitabilmente, cadde presto in disgrazia. Margarito infatti, perse subito la contea di Malta, assegnata dall’imperatore all’alleato genovese Guglielmo Grasso, e le isole greche di Cefalonia Zacinto e Itaca tornate ai Bizantini; quindi perse anche ogni altra proprietà e privilegio finché, accusato a torto o a ragione di aver partecipato nella primavera del 1197 ad una supposta congiura contro l’imperatore, fu da questi fatto imprigionare, accecare ed evirare. Infine, fu deportato a Treviri dove, in una qualche data anteriore all’anno 1205, avrebbe cessato di vivere.
«Margarito fu personalità non marginale nel tempo in cui ebbe la ventura di vivere e, al tempo stesso, aggiunge aura di leggenda e favola alla città. Il racconto storico si fa mito e intreccio avvincente, sostrato di quella memoria condivisa ancor oggi insussistente. Brindisi si è costruita, decostruita e ricostruita per secoli sullo stesso sito; alla persistenza dei luoghi non si è però accompagnata quella della popolazione che a quei luoghi avrebbe bisogno di dar significanza.» [Giacomo Carito, 2013]
BIBLIOGRAFIA
Membola G. Margarito audace uomo d’armi e Brindisino illustre in il7Magazine n.48 Brindisi, 2018
Stomati D. Margarito il leggendario arcipirata da Brindisi Lupo Editore, 2013
Carito G. Tra normanni e svevi nel regno di Sicilia: Margarito da Brindisi in Federico II e le nozze di Oriente e Occidente. L’età federiciana in terra di Brindisi, 2013
Kiesewetter A. Megareites di Brindisi, Maio di Monopoli e la signoria sulle isole Ionie in Archivio Storico Pugliese, 2006
Moscardino G. Margarito o Margaritone da Brindisi Bari, 1946
Antonucci G. Margarito da Brindisi in Archivio storico per la Calabria e Lucania, 1934
Garufi C.A. Margarito di Brindisi, conte di Malta e ammiraglio di Sicilia, in Miscellanea di archeologia, storia e filolologia dedicata al prof. A. Salinas, Palermo 1907
Francioso R. Margaritus de Brundisio, in Rassegna pugliese di scienze, lettere ed arti, 1902
Lezzi G.B. Margarito o Margaritone da Brindisi, in Biografie degli uomini illustri del regno di Napoli ornata de’ loro rispettivi ritratti. Napoli, 1819.
Quando, tantissimi anni fa, a Londra con mia moglie – venezuelana – diretti a piedi al Royal Observatory Greenwich ci imbattemmo in una scuola “Sir Francis Drake Elementary School” che sotto il nome esibiva un vistoso busto bronzeo, mia moglie sorridendo esclamò: «’sir’ Francis Drake? In Venezuela è Francis Drake ‘famoso pirata inglese’… altro che ‘sir’». Ebbene quell’episodio mi è inevitabilmente tornato in mente a proposito del nostro Margarito da Brindisi: grande ammiraglio o famoso pirata? Naturalmente noi propendiamo decisamente per la prima accezione, tant’è che Brindisi gli ha dedicato, se pur non una scuola, una via!
Un nostro concittadino però, il dottor Dario Stomati, nel 2013 gli ha dedicato un libro, un bel libro, un romanzo storico intitolato ‘Margarito il leggendario arcipirata da Brindisi’: «Da migliaia di anni, nei caldi tramonti di luglio, le acque del Seno di Ponente si colorano di rosso sanguigno, mentre lambiscono le fiancate delle navi, che dolcemente s’accostano sicure all’approdo. E ci piace pensare che questo sia stato anche l’ultimo saluto a Virgilio morente, mentre già il suo spirito, dirigendosi verso l’immortalità, lasciava indelebile traccia di sé in questo seno. La natura ha voluto che il porto di Brindisi s’aprisse, offrendosi maternamente ospitale, a tutte le navi che solcano il Basso Adriatico, senza chiedere se a bordo vi siano militari, pacifici viaggiatori, i grandi della Terra, la disperazione di immigrati senza patria, o persino pirati. Da qui prende l’incipit il romanzo di Dario Stornati, proiettandoci in uno spaccato della storia nel XII secolo, per farci rivivere le gesta del greco Margarito, ammiraglio o pirata poco importa, che seppe dare lustro alla città, che lo aveva accolto e nutrito, amandola al punto da assumerne il nome e identificandosi completamente con essa. Pur alla prima prova da romanziere, l’autore, utilizzando sapientemente i canoni del romanzo storico, riesce a dare solidità alla ricostruzione della vicenda umana, personale e famigliare, di Margarito da Brindisi, continuamente intrecciandola con gli avvenimenti della Grande Storia.» [Damiano Mevoli].
Il professore Giacomo Carito, invece, da storico quale egli è, nel novembre dello stesso 2013, al Convegno sull’età federiciana in terra di Brindisi, ha presentato un interessante e documentato lavoro dedicato per intero al nostro – comunque storico e indubbiamente famoso – personaggio, vissuto nel XII Secolo e strettamente legato alla storia della nostra città ‘Tra normanni e svevi nel regno di Sicilia: Margarito da Brindisi’.
Le ipotesi più accreditate indicano per Margarito l’origine greca, forse proveniente da Megara nell’Attica da cui il suo nome – Megareites, cioè di Megara – latinizzato in Margarito, però si è anche ipotizzato che sia nato a Brindisi – per cui fu sempre detto Margaritus de Brundusio – nel seno di una delle numerose famiglie d’origine bizantina che al tempo vi risiedevano. E di Margarito la matrice leggendaria racconta che molti dei suoi contemporanei ne apprezzarono enormemente le qualità al punto da definirlo rex maris o novus Neptunus, mentre fu temutissimo dai suoi nemici che, i più, lo considerarono null’altro che un arcipirata.
Nelle cronache della storia invece, Margarito comincia ad essere citato in associazione con la presa di Tessalonica, effettuata il 24 agosto 1185 dalle truppe normanne del re di Sicilia Guglielmo II e dalla sua flotta comandata dal conte di Lecce Tancredi, ed a tale proposito c’è chi fa coincidere il nostro Margarito con Sifanto, un corsaro che combatté in prima fila al servizio del re di Sicilia in quell’azione bellica antibizantina. Qualche mese dopo, i Normanni occuparono anche le tre isole ioniche di Zacinto Cefalonia e Itaca, le quali vennero assegnate in allodio – cioè a titolo di possedimento personale – proprio a Margarito.
Ma la vera prima grande impresa militare di successo Margarito la realizzò nell’estate del 1186 sulle coste di Cipro, quando s’impadronì rocambolescamente di tutte le settanta triremi costantinopolitane che al comando dell’anziano Giovanni Contostefano erano impegnate nella riconquista dell’isola passata sotto il controllo dell’usurpatore Isacco Comneno.
Margarito, già soprannominato Margaritone per la sua imponente stazza, s’impadronì delle navi prive degli equipaggi che nel frattempo erano sbarcati e le poté distruggere senza incontrare resistenza; gli stessi equipaggi furono poi catturati e Margarito inviò al re Guglielmo II in Sicilia i principali dignitari della flotta bizantina con una grossa parte del bottino: un successo epocale che lo rese subito internazionalmente famoso e per il quale il re Guglielmo II lo titolò ufficialmente suo ‘ammiraglio’.
Il 2 ottobre 1187, al comando della flotta di Sicilia, l’ammiraglio Margarito riuscì a salvare e portare in Sicilia il patriarca Eraclio con altri cristiani fuggiti da Gerusalemme occupata da Saladino ed in seguito, contribuì decisivamente affinché i cristiani di Terrasanta sconfitti, riuscissero a conservare perlomeno il controllo di Tiro Tripoli e Antiochia, obbligando di fatto Saladino a rinunciare alla loro conquista.
(1. continua)
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (V)
5) Michael Binder arrivò nel sud del Salento chiamato da Helmut Dirnaichner, altro artista della Baviera che, nel 1979 insieme alla moglie, aveva conosciuto il Salento ed era stato “subito amore”. Alla fine si conoscevano un po’ tutti, ed era come se una parte della Baviera fosse rifiorita in quel luogo magico alla fine della terra. Michael, dopo molto girovagare, compresa un’esperienza deludente in Grecia, quindi, si trasferisce. Del Salento ama l’odore che si innalza nella campagna quando i contadini bruciano per mesi le foglie dell’ulivo: – “È un profumo inebriante, come l’incenso nelle chiese” – dice. Ne ama gli spazi di solitudine, lo scorrere del tempo tra le incombenze dei lavori agricoli, nell’alternarsi delle stagioni, il senso assoluto di libertà; gli piace quella vita povera e semplice che parla al cuore senza grandi filosofie: del lavoro, della terra, del cibo, del vino, degli animali, dei raccolti, dell’aiuto reciproco che le persone si danno senza tanti perché. Si ritrova in perfetto agio, immedesimato nel ruolo di massaro, vivendo come più gli piace e dialogando con la campagna, si sente felice e soddisfatto a cuocere pane e verdure, tutto made in home e trova che in questo sia il senso della vita, nella cultura delle piccole cose. L’unica concessione che si è fatta è stata quella di una piccola stanza da bagno con una vasca, annessa a quella che oggi è una stanza per gli ospiti ma, che in origine, era un ricovero per le capre. Sul muro sopra la vasca ha graffito e affrescato una figura di donna che sembra un modello di pittura romana, come la nuotatrice di Ercolano o il tuffatore di Paestum.
Fuori a fare ombra sulla casa, il grande albero di noce sotto al quale l’estate si fa salotto, e intorno eucalipti, albicocchi, ulivi e la vigna dal quale è fierissimo di ricavare vino rosso e rosato per sé e per gli amici. L’artista tenta anche di imbrigliare intorno alla casa la natura prorompente nelle reti e nei cartoni disposti tra i filari della vite, nel tentativo, inutile, di impedire all’erbaccia di crescere, ma il verde rigoglioso e indomabile invade la sua terra in ogni dove; fichi e campanule si intrecciano in un abbraccio inestricabile.
Appesa al muro, nell’abitazione vi è la locandina di una sua mostra personale a Brema, dal titolo “Menshen und katzen”, (uomini e gatti). E, dei gatti, l’artista possiede il senso di libertà, l’orgoglio, l’autonomia duramente conquistata.
Il pittore sembra il pifferaio magico delle favole, con al seguito tredici gatti, mentre traffica nella campagna. Curioso è lo scenario che si presenta agli occhi quando si appresta a dar loro da mangiare e gli corrono incontro da ogni dove. Non è un caso questa folta compagnia felina che lo circonda, ed essi prendono la forma anche dei suoi dipinti, di cui spesso sono protagonisti, fino all’identificazione in “un autoritratto come gatto”.
Ma, se all’esterno dell’abitazione sembra che il dominio appartenga alla natura, in casa regna l’ordine, ci sono troppe, tante cose, tuttavia ogni cosa è messa in un certo qual modo al suo posto. E la stessa cosa è nel suo studio, un capanno in mezzo alla vigna: qui i pennelli sono nei loro contenitori, i colori nei barattoli, i dipinti e i disegni occupano un ordinato posto sulle superfici, l’artista ha a suo modo organizzato e sistemato ogni cosa. Sul cavalletto vi è una tela appena finita, su uno sgabello una composizione, le sue opere raffigurano le stagioni che si susseguono in quella vita rupestre e tranquilla ma, accanto a queste vi sono anche opere astratte, dal carattere più allusivo, dove entrano in gioco sottili componenti emotive e psicologiche. C’è negli oli, un tratto sicuro e sintetico, un cromatismo pacato intriso di luce. Quella di Michael è una pittura stringata, secca, assomiglia all’uomo, ha il suo pudore[4]. Quella di Michael è, come quella di tanti altri artisti di cui abbiamo raccolto le storie, una narrazione poetica attraverso forme e colori di una terra che ispira da sempre le muse e i poeti, che fa sentire a casa, che invade di serenità l’anima. Una terra generosa, senza confini, come solo il Salento può essere. Abbiamo visto cinque diverse storie, di gente straniera arrivata da lontano per caso o per scommessa, alla ricerca di un posto da amare e che li amasse, di una terra, meglio ancora di un luogo, che lasciasse loro spazio per esprimere appieno la loro arte e la loro creatività. E, non persone qualunque ma, gente di grande cultura e talento. Tutti sono rimasti stregati dalla magia del mare e della campagna, dal modo che si prospettava loro di poter condurre una vita semplice, fuori dagli schemi e, dalla libertà che vi hanno trovato. Essi hanno arricchito notevolmente la memoria del Salento e la sua visione, rendendolo noto in tutto il mondo, con il loro personale contributo.
Ovviamente, ce ne sarebbero a migliaia di queste storie da raccontare, tutte uniche e interessanti nella loro diversità, ci si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Tuttavia, grazie a Carlo Stasi e, al suo profondo legame con il Salento, (nato a Berna, in Svizzera, nel 1960, da padre di Acquarica del Capo e madre di Salve), la provincia di Lecce è la prima ad avere un dizionario bio-bibliografico, una voluminosa opera in due tomi, “Dizionario Enciclopedico Dei Salentini” (Vol. I, A-L; Vol. II, M-Z, Edizioni Grifo, Lecce, 2018, prefazione di Alessandro Laporta, Università del Salento), che illustra a largo raggio il panorama del patrimonio storico-culturale salentino in un quadro sincronico, ma anche diacronico: l’antico con le sue radici storiche unito all’attualità del contemporaneo con i suoi diversificati e multiformi aspetti e le sue molteplici espressioni. Nella raccolta di dati enciclopedici, l’autore non prende in considerazione solo personaggi insigni del passato, ma dà spazio anche a contemporanei che si sono distinti per il loro contributo creativo nei diversi campi del sapere, dell’etica, per l’impegno sociale, per le competenze specifiche storico-culturali: dalla politica all’imprenditoria, dalla moda alle invenzioni, dalle medaglie ai riconoscimenti poetici , canori e sportivi. Un’indagine che va oltre il mondo della letteratura e delle arti e delle scienze, spaziando negli ambiti più svariati, al fine di illustrare “tutto quanto sia notabile o notevole”. Sfilano in questo modo personaggi illustri dell’antichità, dell’età moderna e contemporanea accanto a chi si è imposto all’attenzione sociale nei cento comuni della provincia, non solo autori leccesi di nascita, ma tutti quelli che hanno operato ed operano nel Salento, valorizzandone il patrimonio culturale, il contesto ambientale e artistico: “personalità “forestiere” che ci hanno aiutato a conoscere e riconoscere la nostra terra, a guardarla con occhi diversi”, scrive Stasi nella premessa[6]».
Quando si giunge a capo Otranto, dove Jonio e Adriatico si incontrano, da un lato vi è il mare, dall’altro la macchia mediterranea, la sensazione è quella di essere arrivati alla fine del mondo. È ora che, chiudendo gli occhi dinanzi a questa visione di infinito, ci si può immaginare in tutti i posti e in nessuno.
« I pescatori del tratto di mare tra la Torre del Serpe e la Palascìa raccontano che in certe giornate, quando le nuvole in cielo sono gonfie di pioggia e il sole le illumina come fossero vele, sulla superficie dell’acqua si può scorgere un brillio: i riflessi dorati di qualcosa di simile a una tromba [8]» “Il viaggio è un cantiere in evoluzione e tu, viaggiatore che intraprendi questo cammino ricorda che non sei mai, “solo” in viaggio, per il gusto di viaggiare, ma che ti accingi a scoprire camminando il tuo sentiero nascosto, il senso del tuo “esplorare e sentire” di un luogo che darà pace alla tua anima migrante. Tornerai a casa con uno zaino più pesante di pensieri e di parole a cui potai attingere all’occorrenza, come da un pozzo per dissetarsi e, allora, ti sarà certo che il tuo viaggio è stata un’esperienza di cui il tuo cuore mai si scorderà.
Non a caso il primo esempio di logo, accompagnato o no da un motto, dopo l’invenzione della stampa è costituito proprio dalle marche editoriali. In un’epoca in cui il concetto di deposito del marchio e il relativo istituto ancora non esistevano, l’esclusività dell’uso non era assicurata ed erano tutt’altro che rari i casi in cui la stessa immagine era adottata a tal uopo da editori diversi. D’altra parte, anche nei nostri tempi ogni tanto si ha notizia di controversie legali dovute a furti o plagi, reali o presunti che siano. L’ignoranza della legge, si sa, non vale, e da tempo immemorabile, come giustificazione e quella della pubblicità , da qualche decennio a questa parte, ancora meno, sicché è difficile farla valere come sinonimo di buona fede. Ci possono essere, tuttavia, dei casi limite, in cui a due o più persone in un arco di tempo estremamente breve può balenare la stessa idea più o meno sfruttabile economicamente. Risulta difficile in tal caso ricostruire la paternità prioritaria in assenza di documenti datati o databili con certezza e fa testo la data di deposito (ma non è detto che il depositante non sia stato uno spione …). Lo stesso, però, può avvenire anche nel caso in cui il divario temporale tra due o più creazioni sia notevole, sicché l’idea è unica pur non essendoci nessun legame, né d’influenza, né d’imitazione fra i singoli ideatori.
Dopo questa premessa teorica passo al concreto con una domanda: come articolereste la rappresentazione di un santo, volendo sottolineare la sua caratteristica di protettore di una determinata città? Molto probabilmente prevarrebbero le risposte in cui il santo appare nell’atto di benedirla da posizione elevata, possibilmente il cielo … o una nuvola.
Com’è noto, s. Oronzo, quale protettore di Lecce, subentrò nel 1656 a s. Irene, rea a quanto pare, di avergli lasciato il compito di proteggere la città dalla peste che infuriò quell’anno in tutto il regno, risparmiando solo quella provincia. Il frontespizio che segue è di una pubblicazione del 1526, della quale mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/28/lecce-sua-veduta-cinquecentesca-14/
Qui voglio solo mettere in risalto l’eloquenza di ogni dettaglio: SANCTA ERINA D(OMINA) LICII (S. Irene patrona di Lecce) per evitare qualsiasi problema di attribuzione, la proporzione volutamente esagerata della sua figura rispetto a quella della città, i tre oranti a sinistra in primo piano: un frate (a rappresentare la comunità clericale), una donna ed un uomo quella laica. Del cielo e di tutto quello che di soprannaturale esso evoca qui non c’è nemmeno l’ombra.
Poi, come ho anticipato, ci fu il passaggio delle consegne e la sua prima rappresentazione fu quella del gallipolino Andrea Coppola con un dipinto che entrò nella cattedrale di Lecce il 17 dicembre 16561.
Rispetto a quella di S. Irene direi che il pittore, interpretando forse un sentimento popolare in cui la paura che la santa spodestata potesse in qualche modo mostrare il suo spiacevole disappunto trovava conforto nel credere che il passaggio fosse stato deciso da un potere superiore a quello dei santi, ha introdotto interpreti tutti celesti relegando allo sfondo, peraltro molto arretrato, l’immagine della città, con un distacco gestuale e, direi, sentimentale, nei suoi confronti assente nella tavola di S. Irene; e non è un caso che l’iconografia del secolo successivo abbia seguito questo modello. Che la parte “ideologica” dell’inventio sia quella mi pare evidente, per esempio, nel dipinto attribuito a Giuseppe da Brindisi (XVIII secolo) custodito nello stesso tempio
o, e siamo già più avanti nel tempo, in quello del leccese Serafino Elmo (1696-1777), custodito, sempre a Lecce, nella chiesa di S. Croce,
oppure, dello stesso artista, in quello dell’altare del santo nella chiesa di S. Matteo.
Chissà se tra i preziosi ricami in filo incollato in alcuni dei quali la figlia Marianna riprodusse i suoi dipinti non ce ne sia pure uno che si riferisca a quest’ultimo. Il sospetto nasce dalla parziale affinità dei quattro che di seguito riproduco (solo il primo reca la firma dell’artista; gli altri, comunque, sono riferibili alla sua scuola), nonostante nei primi due librata su Lecce appaia s. Irene e nel terzo l’identificazione con s. Oronzo del vescovo raffigurato contrasti con l’assenza della barba.
Ho parlato prima di sentimento popolare, ma ho il dovere di precisare che in questo, come in altri casi consimili, tale sentimento è indotto da un intervento più o meno condizionante e che il condizionamento è tanto più spinto quanto maggiore è l’autorevolezza di chi lo procura e di chi, poi, consapevolmente o meno, lo rafforza. Nel nostro caso il corresponsabile secondario sarebbe Domenico Schinia, un sacerdote di origini calabrese ricordato da Carlo Bozzi nel suo I primi martiri di Lecce. Giusto, Oronzio e Fortunato, Micheli, Lecce, 1672. Cito, anche per alcuni dettagli, che ho evidenziato con sottolineatura perché evocano analoghi interrogativi attualmente suscitati dal Covid-19, dall’edizione Mazzei, Lecce, 1714, pp. 104-106: Or queste memorie già tutte smemorate, e perdute dalla mente dei fedeli, piacque al Signore Iddio di ravvivarle, per accrescere le glorie di questi suoi santi servi, e particolarmente del glorioso vescovo S. Oronzio, allorquando nell’anno 1656 per punire le colpe del regno di Napoli, avendo attaccato una fierissima peste nella città Metropoli del medesimoRegno, e da quella essendo andata serpeggiando per l’altre città e provincie, doveva per ogni ragione restarne anco infetta quella di Lecce: particolarmente per li molti forastieri, e paesani, che fuggendo dal contagio di Napoli ne vennero appestati a ricovrarsi nella propria Patria. Ma essendo rimasta servita la Divina Misericordia di privilegiare ad intercessione dei nostri santi, non solo la città ma la provincia tutta di Lecce, con esimerla da un male così grande, volle anche il mondo tutto, e singolarmente i preservati conoscessero per qual mano venuta le fosse la grazia: che però dispose, che ritrovandosi in napoli per lo spazio di molti anni trattenuto dalla sacra Congregazione del Santo Officio in prova del suo spirito un venerando sacerdote Calabrese, della terra di Biatico, della Diocesi di Mileto, per nome D. Domenico Schinia, con lettera del Cardinal Francesco Barbarino de’ 19 giugno 1655, e dal Vescovo di Sora a 26 di Giugno dell’istesso anno, che fu pochi mesi prima del contagio, inviato ne fusse per decreto della medesima Congregazione a Monsignor Luigi Pappacoda nostro Vescovo, acciò come Prelato di gran senno, e sapere facesse nuova esperienza della sua celebrata virtù. E piacque al Signore Iddio, ancora che la venuta in Lecce di questo buon sacerdote molto tempo prima fosse stata predetta da una buona serva di Dio, monaca del terzo ordine di S. Domenico, per nome suora Massimilla Celonese di Lecce, morta nel primo febbraio dell’anno 1652, della quale scrivendo la vita il R. P. Baccelliere Fr. Domenico Maria Marchese dell’ordine de’ padri predicatori, nel suo sacro diario domenicano nel tomo primo delle vite de’ santi Padri dell’ordine de’ predicatori, racconta il fatto con queste parole: Il glorioso S. Oronzio, tutto che fosse stato il primo cristiano, e Vescovo della città di Lecce, permise nondimeno il Signore che stasse incognito, a segno che, non che altri, ma gli stessi Leccesi ne avevano perduto affatto la memoria,acciò con maggior gloria del santo, ed utile non solo di quella illustrissima città, ma di tutta la provincia d’Otranto si rendesse chiaro nell’anno 1656 difendendola, e liberandola dal fiero contagio, che in quell’anno infettò tutto il vasto regno di Napoli, con mortalità così grande, che si renderà incredibile a posteri. OR questa serva di Dio molti anni prima che ciò succedesse, esortava le signore Leccesi sue famigliari, che fossero divote di S. Oronzio, e non tenessero più scordata la sua memoria, che col tempo ne doveano avere di bisogno, ed allora sarebbe pubblicato il suo nome da un sacerdote forestiero. E ciò si esperimentò vero, quando un sacerdote Calabrese per nome D. Domenico, e di buona vita, trovandosi in Lecce l’anno del contagio pubblicò in nome di Dio le glorie di questo santo, e che già Dio pe’ suoi meriti volea liberare quella provincia da quella comune infezione, come successe, donde cominciò in tutta la Provincia la divozione verso il glorioso S. Oronzio, prima pubblicata da Suora Massimilla. Or questo servo di Dio D. Domenico Schinia mosso, come si pensa, da divino impulso per glorificare il gran martire Oronzio, predicendo da per tutto la immunità della peste, non solo alla città ma a tutta la provincia di Lecce, per intercessione del prenominato santo, prese con apostolico spirito a riscuoter dal seno dell’oblio, e la memoria,e la divozione di sì glorioso protettore, e secondando il Signore le predizioni del buon sacerdote con gli eventi d’una perfettissima salute per tutt’i luoghi della provincia, anche tra gli evidenti pericoli della peste, già introdotta da alcuni in più d’una parte ne’ loro medesimo corpi, quali però ne rimasero tosto liberi, cominciò a crescere in modo la pietà de’ popoli verso di S. Oronzio …
Il manoscritto n. 9 della Biblioteca Provinciale di Lecce reca il titolo Rivelazioni di D. Domenico Aschinia e contiene il resoconto delle ventotto visioni apparse al sacerdote calabrese tra l’aprile ed il dicembre del 1656, in base alle quali egli è certo che la salvezza della provincia di Lecce dalla peste è dovuta al Signore per l’intercessione di s. Oronzo. Il manoscritto, datato 1756, è la copia di un originale a firma di Giovanni Camillo Palma, letterato leccese del XVII secolo, arcidiacono della cattedrale e restauratore dell’Accademia dei trasformati. A sua volta il testo del Palma è traduzione dell’originale in latino andato perduto, a parte le pp. 33-39 che nel volume del Bozzi sono citate alle pp. 128-131.
Abbiamo letto Schinia nel Bozzi e Aschinia nel manoscritto, troviamo Schinnì in Bonaventura da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della Provincia di S. Nicolò, parte seconda, Chiriatti, Lecce, 1714, dove al sacerdote calabrese sono dedicate le pp. 30-33.
Con un frontespizio ho cominciato e con un altro continuo.
Si tratta di una pubblicazione del 1658, dunque posteriore di appena due anni alla peste del 1656 ricordata, d’altra parte, nello stesso titolo. L’editore è Pietro Micheli attivo a Lecce dal 1631 al 1688 (anno in cui gli subentrarono gli eredi). La produzione dei suoi torchi è stata oggetto da parte mia di uno studio che a a breve comparirà su questo blog; qui basta dire che accanto ad edizioni scarne ve ne sono altre impreziosite da frontespizi o da antiporte di un certo spessore2. È vero che all’epoca un rame aveva il suo costo, ma mi pare strano che Nicolò Perrone non abbia deciso e concordato con l’editore una riduzione del numero di pagine (sono ben 198; le prime 22, non numerate, contengono, nell’ordine, la dedica, l’argomento, l’indice degli autori citati da Abramo Ortelio a Zonario, l’imprimatur del vescovo Luigi Pappacoda e l’avviso al lettore) per rendere possibile di includere nel frontespizio un’immagine meno “economica” di quella che si vede prima degli estremi editoriali e replicata in calce all’ultima pagina.
Insomma, forse meritava di più un santo, come dice lo stesso autore nell’esporre l’argomento, tirato dalle ingorde fauci dell’ottenebrata oblivione, ove giacea sepolto, ed invocato con applausi universali, à voci di Viva tributate al suo nome per PROTETTORE contro la Pestilenza. E a p. 123, quasi a conferma della mia interpretazione di una pretestuosa giustificazione del passaggio dal culto di un santo a quello di un altro in nome di ragioni di ordine superiore : … laonde sorta orrida, e funesta Pestilenza, che sfiorisce con suoi squallidi fumi le più belle, e vaghe Città dell’Europa, abbiamo avuto risposta da un’3 Oracolo Celeste, che si dovessero à questo Gran Martire trascurato celebrare le pompe del suo Martirio, se illesi bramiamo mantenerci à gl’orridi fossi delle sue crude tempeste; e credo di certo, (e già te ‘l dissi) che come Atene all’indomito orgoglio di questo Mostro maligno, ergendo un’Ara, Ignoto Deo, fu libera dalla sua crudeltà, o Lecce, alzando magnifici Altari , e Tempi ad un Santo sconosciuto, (cioè per molto tempo non riverito, ed il suo culto trascurato à fatto) ti renderai esente dalla sua malignità.
Questa lacuna editoriale verrà colmata, stando a quanto son riuscito a reperire, solo con l’antiporta dell’opera del Bozzi nell’edizione uscita per i tipi degli Eredi di Vincenzo Marino a Lecce nel 1835.
L’incisione è del napoletano Raffaele D’Angelo, come si legge fuori campo in basso a destra. Manca il nome del disegnatore4. Faccio notare come la composizione sembra articolata allo stesso modo dell’ultimo dei ricami di Marianna Elmo prima presentati.
E, per tornare all’assunto iniziale e non risparmiarci fino in fondo nessuna domanda, concludo chiedendo: siamo veramente sicuri che l’anonimo autore del disegnino del nostro frontespizio non sia stato suggestionato, mutatis patrono eventuque5, al di là della soluzione compositiva più o meno banale che a parecchi verrebbe in mente, dalla tavola che segue incisa da Nicolas Perrey e che è a corredo di Gianbernardino Giuliani, Trattato del Monte Vesuvio e de’ suoi incendi, Longo, Napoli, 1632?
E la rappresentazione di Giuseppe da Brindisi sarà stata totalmente indipendente, mutato patrono locoque6, da quella di Luca Giordano (1634-1705) custodita a Napoli nel museo di Capodimonte (di seguito in vista comparativa)?
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1 Luigi Giuseppe De Simone, Lecce e i suoi monumenti descritti ed illustrati, p. 101 nota 8.
2 La figura del santo, fra l’altro, era apparsa ventiquattro anni prima nel frontespizio di Lecce sacra dell’Infantino.
3 Sic; s’incontra spesso in testi a stampa di quell’epoca, ma non è una buona scusa, ora che l’ho detto, per ripristinarlo …
4 Il D’Angelo, comunque, lavorò molto in tandem con il romano Luigi Agricola. Di seguito tre loro opere.
5 Inutile cercare questa locuzione latina da qualche parte. L’ho inventata io e la traduzione è: cambiati il protettore (qui è S. Gennaro) e l’evento (qui è l’eruzione del Vesuvio del 1631).
6 Mutato il protettore e il luogo (s. Oronzo invece di s. Gennaro e Lecce invece di Napoli).
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (IV)
A poca distanza dalla masseria Spigolizzi, comincia il nostro quarto racconto.
Ci vivono Heinz e Mirjam Steffens. Il loro centro del mondo è qui, nella “casa solare” immersa nella campagna di Salve, ad appena un chilometro dal mar Jonio.
Ci si arriva attraverso le estreme propaggini delle serre salentine e la strada che si inerpica oltre una chiesa bianca di calce, dal profilo messicano. Mirjam, è una montanara della Baviera, dalle forti mani e dal bel volto come intagliati nel legno, uno spirito nomade che si è fermato qui, per amore di Heinz, ingegnere, che ha sistemato la loro casa, (anche se, poi, ammette di essersi sentita “predestinata” e di essersi profondamente legata al Salento). Sente la durezza, la forza oscura e la magia segreta di questa terra e attribuisce questo incanto al potere che essa ricava dal suo continuo dialogare con il mare che la culla da ogni parte. È profondamente attratta dalle pietre del luogo, che usa per il suo lavoro, pietre che portano il segno della storia, levigate dal mare. Qui, si vive un continuum neolitico tra specchie, dolmen e menhir. Porto Badisco, le cento pietre di Patù, Le selci di Spigolizzi, il ”Paiarone” di Pozzo Mauro, le veneri di Parabita. La casa, è un rifugio in progress, cresciuto intorno alle strutture contadine preesistenti, che Heinz ha adattato alle esigenze di un’operosità che spazia dai lavori agricoli alla cura degli animali, dall’attività artistica all’ospitalità offerta agli amici che vengono a trovarli. Insieme inseguono il sogno di una vita indipendente dai meccanismi della società industriale. Mirjam trova nei legni, nelle pietre e nella segreta magia del luogo materiali ideali e suggestioni profonde per il suo lavoro da artista che è aspro e forte. Il laboratorio è un luogo alchemico dove realizza maschere e figure totemiche, simbologie solari e lunari, arcane divinità matriarcali, ma anche burattini, mentre Heinz, si appassiona a distillare il vino e la grappa. Tutto quello che mangiano e che offrono agli amici è rigorosamente fatto in casa. A Mirjam piacciono le scelte estreme, nella ricerca artistica come nella vita. Non ama parlare molto di sé né essere fotografata, -”la fotografia, ti scheda, ti crocifigge”-, dice. Tuttavia si abbandona volentieri a parlare del suo rapporto con Normann Mommens, vicino di casa; lui le procurava le pietre, le portava scalpelli e martelli, la veniva a trovare per guardare il suo lavoro, ma era anche capace di lasciarla libera, senza mai interferire. In lui aveva trovato un interlocutore prezioso, come difficilmente accade ad una donna che voglia praticare la scultura.
Anche in Germania non era stato semplice. Si era laureata in economia, per “distruggere il capitalismo” e l’obiettivo principale della sua arte rimane quello di socializzare i risultati, soprattutto in difesa dei diritti delle donne e per l’ambiente. Cerca solo un linguaggio molto semplice per comunicare i messaggi della propria arte, i contenuti che le stanno a cuore. Il suo lavoro indaga sulle radici ultime, che accomunano le culture sui grandi temi dell’umanità: la natura, l’amore, il sacro, il ruolo della donna, perché convinta che esista un unico flusso energetico che accomuna uomini, terra e cielo. Uno dei suoi campi di indagine preferiti è quello dell’antropologia culturale, della religiosità popolare, partecipa a processioni, pellegrinaggi, i riti del paese, come quello delle tarante, profondamente radicato nel Salento. Nella campagna accanto, Michael Binder, tedesco del sud ha riadattato, anche lui, con interventi minimi strutture contadine preesistenti, in un disordine da bidonville che alla fine presenta una sua speciale dimensione estetica: Quinta tappa del nostro Salento itinerante, vissuto da animi forestieri diventati, forse, più salentini dei salentini.
All’alba del 28 dicembre più di duemila lavoratori si portarono con le biciclette (prezioso strumento per raggiungere l’Arneo, che distava decine di chilometri dai paesi limitrofi), con i loro arnesi di lavoro e con bandiere rosse e tricolori sulle masserie Carignano piccolo, Mandria Carignano, Case Arse e Fattizze, zone limitrofe a quella dove, dopo le concessioni del 1949, era stato fondato il villaggio agricolo Antonio Gramsci. A differenza di quanto era accaduto nei giorni dell’occupazione del 1949, la polizia e le forze dell’ordine non si fecero trovare impreparate e, intervenendo in forme anche platealmente illegali, verso le tre del mattino del 28 dicembre, quando i primi gruppi di lavoratori si stavano dirigendo verso l’Arneo, fermarono e arrestarono a Nardò i locali dirigenti sindacali Salvatore Mellone e Antonio Potenza, e, insieme con loro, il segretario dei giovani comunisti Luigi De Marco in quanto – come si legge nella motivazione indicata nel verbale di arresto – erano in procinto di «commettere il reato» di occupazione abusiva delle terre (non perché, quindi, si fossero già resi responsabili di occupazione abusiva di terreni). Nel pomeriggio di quello stesso giorno vennero tratti in arresto il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino e altri dirigenti sindacali comunali (Pietro Pellizzari di Copertino, Crocifisso Colonna di Monteroni e Cosimo Di Campi di Guagnano). Nonostante gli arresti preventivi, il movimento proseguì con maggiore intensità e agli occupanti pervenne la solidarietà morale (telegrammi di protesta per l’arresto di Casalino e degli altri dirigenti politici e sindacali) oltre che materiale (invio sulle terre occupate di viveri e coperte) da parte delle altre categorie di lavoratori della provincia e delle province limitrofe. Il 29 dicembre venne arrestato Pompilio Zacheo, segretario della sezione del PCI di Campi, mentre riuscirono fortunosamente a sottrarsi alla cattura il segretario della CGIL di Veglie Felice Cacciatore e il segretario provinciale della Confederterra Antonio Ventura, contro i quali era stato spiccato mandato di arresto. Molti contadini rimasero accampati sulle terre anche la notte di Capodanno, quando, come si legge nel rapporto di un funzionario di polizia, «il solito onorevole Calasso aveva portato il solito saluto agli eroi dell’Arneo». Si chiese ed ottenne, da parte delle autorità della provincia, l’invio di un contingente di polizia del battaglione mobile di Bari in pieno assetto di guerra. La repressione fu molto dura, vennero distrutte le biciclette, furono sequestrati e dati alle fiamme i «viveri della solidarietà», si fece largo uso, da parte delle forze di polizia, di lacrimogeni e manganelli, fu anche utilizzato un aereo militare che coordinava l’azione dei poliziotti e dei carabinieri pur di raggiungere l’obiettivo di far sgomberare le terre. Il 3 gennaio le forze di polizia riuscirono a cacciare i lavoratori dalle terre, ad arrestarne una sessantina (tra loro altri dirigenti politici e sindacali, Ferrer Conchiglia e Salvatore Renna di Trepuzzi, Giovanni Tarantini di Monteroni, Antonio Stella, dirigente provinciale della Confederterra). Quella dell’Arneo divenne una questione nazionale, se ne occuparono giornali locali (L’Ordine e La Gazzetta del Mezzogiorno) e nazionali (Il Paese e L’Unità)[1].
Molti deputati e senatori del PCI e del PSI denunciarono in Parlamento la brutalità delle forze di polizia a fronte di un’azione sostanzialmente pacifica di occupazione e lavorazione delle terre incolte, ma, nonostante ciò, l’azione repressiva continuò nei giorni successivi con gli arresti di Felice Cacciatore (segretario della CGIL di Veglie), di Cosimo Lega e Pietro Mellone di Nardò (consigliere comunale del PCI il primo, segretario della CGIL l’altro), di Giuseppe Scalcione (segretario della sezione del PCI di Leverano), di Mario Montinaro (segretario della CGIL di Salice), di Carlo De Vitis di Lecce, di Cesare Reo (segretario della CGIL di Supersano) e dello stesso segretario provinciale del PCI Giovanni Leucci. I partiti della sinistra e la CGIL sollecitavano l’adozione di iniziative politiche e parlamentari per la liberazione dei lavoratori e dei loro dirigenti politici e sindacali. Il 2 febbraio vennero scarcerati Leucci, Casalino e un gruppo di lavoratori. Qualche giorno dopo la Confederterra nazionale prese posizione sulla vicenda denunciando le gravi condizioni di miseria nelle quali versava la provincia di Lecce e chiedendo l’adozione di un provvedimento legislativo che prevedesse l’inclusione della stessa nelle previsioni di esproprio della legge stralcio. Il successivo processo a carico di quanti erano stati rinviati a giudizio (assistiti da un collegio di difensori di cui facevano parte, oltre agli avvocati del foro leccese Giovanni Guacci, Fulvio Rizzo, Vittorio Aymone e Pantaleo Ingusci, anche Fausto Gullo, Mario Assennato, Lelio Basso e Umberto Terracini) costituì l’occasione per una battaglia politica di portata nazionale. Con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 24/4/1951, venticinque imputati furono condannati a un mese di reclusione e a £. 6.000 di multa, tutti gli altri vennero assolti. Nel corso della Conferenza dell’Agricoltura per la Rinascita dell’Arneo, tenuta a Veglie il 10/12/ 1961 nel decimo anniversario di quella lotta, così Giorgio Casalino ricordava quelle giornate:
[…] grandi masse di più partiti e di tutti i sindacati seguirono l’indirizzo della Camera Confederale del Lavoro occupando le macchie dell’Arneo; in quei giorni centinaia di bandiere rosse e tricolori garrivano al vento issate dai giovani braccianti su cumuli di pietra o su olivastri. La lotta fu dura e contrastata, vi furono centinaia di arresti ma ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la legge stralcio e gli Enti di Riforma […][2].
Con D.P.R. n. 67 del 7/2/1951 fu istituita presso l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania una sezione speciale per la riforma. La provincia di Lecce fu inclusa nel comprensorio di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000. I terreni inclusi nelle aree suscettibili di espropriazione ricadevano nei comuni di Nardò, Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole. Le concessioni (in realtà molto limitate) vennero effettuate nella forma dell’assegnazione di poderi (che potevano avere un’estensione da 5 a 9 ettari) ai contadini privi di terra, e di quote (da un minimo di 1 a un massimo di 3 ettari) ai piccoli proprietari. Il 29 marzo 1951 presso la sede della CGIL di Veglie, alla presenza dei segretari delle Camere del Lavoro dei paesi interessati e del rappresentante della Confederterra Antonio Ventura, furono fissate le prime quote da assegnare ai comuni di Carmiano (35 ettari), Copertino (30), Guagnano (20), Leverano (30), Monteroni (5), Nardò (20), Salice (35), e Veglie (40); altri 320 ettari delle masserie Fattizze, Case Arse e Chiusurella furono concessi alle cooperative ACLI Vita Nuova di Lecce e Fede e Speranza di Carmiano; altre zone vennero concesse alla cooperativa Giacomo Matteotti di Galatina e all’Associazione Combattenti e Reduci di Veglie. Sulle modalità di distribuzione delle terre, in proprietà o in enfiteusi, sotto forma di appoderamenti individuali o di cooperative, sulla politica discriminatoria adottata dagli Enti di riforma e su altri temi legati alla riforma agraria, si sviluppò all’interno della CGIL provinciale e dei partiti della sinistra (in primo luogo il PCI) un forte dibattito[3].
L’intervento governativo colse il movimento politico e sindacale pugliese impreparato sul piano progettuale. L’obiettivo che la Federbraccianti regionale perseguì fu, da un lato, quello di ampliare la lotta per la legge stralcio e, dall’altro, di imporre l’applicazione delle leggi Gullo-Segni. I modesti risultati conseguiti in Puglia dimostrarono la relativa debolezza dell’organizzazione sindacale nella lotta per la conquista della terra, anche se tale giudizio non era estensibile a tutta la regione; la provincia di Lecce, infatti, rappresentò (a parere di Giuseppe Gramegna, in quegli anni un dirigente regionale del movimento sindacale) la punta di diamante nella conduzione della lotta per la riforma agraria grazie alla capacità dimostrata dal movimento sindacale di coinvolgere in quella lotta altri strati della popolazione, oltre ai braccianti. Molti studiosi hanno sottolineato come vi sia stata in tutto il movimento sindacale pugliese una sottovalutazione dell’impegno per la riforma e la tendenza a mettere in primo piano le lotte per il salario e per l’applicazione dell’imponibile. Su questi temi all’interno della Federazione provinciale del PCI salentino si è sviluppata per tutti gli anni cinquanta una complessa e non sempre facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Nel dibattito affioravano incertezze programmatiche, tipiche di un movimento come quello salentino che, avendo privilegiato per ragioni storiche e sociali, gli obiettivi tipici del bracciantato, stentava, nonostante il successo conseguito con la lotta dell’Arneo, a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge stralcio. Nei giorni 13 e 14 ottobre 1951 si tennero a Nardò e a Martano due convegni zonali dei contadini dei comuni interessati alle aree di esproprio, nel corso dei quali la CGIL propose di riprendere l’occupazione delle terre che l’Ente non aveva incluso nel comprensorio di riforma. Si avviò così un nuovo periodo di occupazione da parte dei lavoratori agricoli di Surbo, Squinzano, Trepuzzi, Martano, Melendugno, Maglie, Cutrofiano, Melissano. I dirigenti provinciali dell’organizzazione si sforzarono di individuare e di definire gli obiettivi possibili e la strategia delle alleanze per la riforma agraria nel Salento. Emergeva la preoccupazione che il processo avviato con l’applicazione della legge stralcio stesse creando serie difficoltà per l’indicazione al movimento contadino di una seria prospettiva di riforma agraria. Gli appelli a costituire o rafforzare i Comitati della terra, a creare un’autonoma Associazione dei coltivatori diretti per favorire l’alleanza con tale importante ceto sociale, a chiedere l’applicazione delle leggi Gullo e Segni, a estendere l’occupazione anche ai 60.000 ettari di oliveto, si accompagnavano sempre ad una riflessione critica e autocritica sulla gestione delle lotte. La CGIL denunciava le pratiche demagogiche e discriminatorie dell’Ente di riforma, criticava l’eccessiva limitatezza dei piani di esproprio e i tentativi di dividere le masse contadine, metteva in risalto i modesti risultati conseguiti, anche se, nello stesso tempo, sollecitava gli assegnatari a non rifiutare le terre concesse (anche se di qualità scadente) e impegnava le organizzazioni politiche e sindacali a sollecitare forme di aiuto e di assistenza tecnica per mettere i lavoratori nelle condizioni di sfruttare al meglio la terra concessa.
Dal congresso nazionale della Federbraccianti (ottobre 1952) emerse la necessità di una svolta nella politica della lotta per la terra da realizzare attraverso la richiesta di assegnazione, non solo delle terre incolte, ma anche degli oliveti, nella prospettiva generale della fissazione di un limite permanente della grande proprietà terriera. Nel 1953 la CGIL mobilitò i lavoratori agricoli salentini sui problemi tipici del bracciantato (tutela degli elenchi anagrafici, costituzione delle commissioni comunali di collocamento, sussidio di disoccupazione, assegni familiari e altre misure di tutela previdenziale, aumenti salariali), ma nello stesso tempo pose con forza il problema della limitazione delle grandi proprietà, un tema questo che fu al centro del dibattito nell’autunno del 1953 nel corso dei congressi provinciali della Federbraccianti (di cui era segretario Antonio Ventura), e dell’Associazione dei contadini del Salento guidata da Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo. Quest’ultimo propose di riprendere la lotta per rivendicare, sia l’assegnazione immediata dei 12.000 ettari già espropriati e ancora in possesso dell’Ente di riforma, sia la concessione di altri 90.000 ettari di oliveti di proprietà di 500 aziende. Giannoccolo sosteneva che fosse necessario, allo scopo di venire incontro alle esigenze del ceto medio delle campagne, favorire lo sviluppo di cooperative per la vendita dei prodotti. Egli, infine, rivendicava l’unità d’azione dell’Associazione contadini con la Federbraccianti per superare i limiti che negli anni precedenti avevano impedito l’unità nelle campagne. Ventura, da parte sua, invitava a cercare, come al tempo delle lotte sull’Arneo, un «denominatore comune per le varie categorie di lavoratori della terra», a rivendicare la concessione in compartecipazione a favore dei contadini dei 118.000 ettari di oliveto condotti direttamente dai proprietari, a denunciare l’artificioso frazionamento delle proprietà cui ricorrevano spesso gli agrari[4].
Per le organizzazioni sindacali, l’obiettivo restava sempre quello del 1950: la terra ai contadini, la conquista di almeno 60.000 ettari nel Sud Salento, l’immissione dei contadini negli oliveti (almeno 70.000 ettari) con contratti vantaggiosi ai concessionari. Negli anni di applicazione della riforma era sorta la nuova figura sociale dell’assegnatario che poneva una serie di problemi non sempre facili da risolversi (pagamento delle quote di riscatto, problemi fiscali, rapporto con l’Ente, ecc.), problemi che l’Associazione dei contadini, oramai solida, avrebbe affrontato e tentato di risolvere. Dei 15.509 ettari espropriati, ben 2.400 erano boschi e paludi inutilizzabili; gli assegnatari, a distanza di tre anni dalle lotte dell’Arneo, erano 1.716. Tali risultati, certamente insufficienti rispetto ai bisogni del mondo delle campagne, rendevano urgente la ripresa della lotta per dare un colpo decisivo alla grande proprietà fondiaria, non solo con l’immissione dei contadini negli oliveti, ma anche con l’imposizione degli imponibili ordinario e straordinario e dell’obbligo per i proprietari di reinvestire la rendita fondiaria in opere di trasformazione irrigua. Si sarebbe potuto in tal modo legare alla lotta dei contadini poveri privi di terra o con poca terra i 35.000 coltivatori diretti che, in mancanza di risposte chiare ai loro problemi, rischiavano di diventare massa di manovra delle destre monarchiche e fasciste. Alla fine del 1954 ripresero su vasta scala le occupazioni delle terre da parte dei braccianti di Squinzano, Trepuzzi, Campi Salentina, Surbo e Novoli, di quelli dell’area ionico-ugentina e della zona Frigole-Otranto, di Tuglie, Collepasso, Cutrofiano, Scorrano, Maglie, Supersano, Copertino, Veglie, Leverano, Torre Cesarea, San Pancrazio Salentino, Carmiano. Nel corso di quelle lotte si registrarono scontri tra le forze di polizia e gli occupanti, molti dei quali vennero fermati, arrestati e rinviati a giudizio; sui cartelli dei lavoratori era scritto: «gli oliveti in mano degli agrari danneggiano l’economia agricola; i contadini chiedono l’immissione negli oliveti, i contadini chiedono la concessione degli oliveti». Ricordando quel periodo della ripresa della lotta e delle occupazioni Giovanni Giannoccolo, allora segretario dell’Associazione dei contadini, scrive:
[…] Occorre dire, con molta chiarezza, che il movimento sindacale, almeno nei suoi dirigenti provinciali, ed i partiti della sinistra ed il PCI in particolare […] osteggiarono ogni sintomo di ripresa di quelle lotte. E ciò perché erano tutti influenzati dalla posizione tenuta da Grieco e dalle sue direttive […]. A differenza di Grieco, Emilio Sereni riteneva che il movimento non dovesse appagarsi dei modesti risultati conseguiti, che era necessario dispiegare queste grandi energie per assestare un ulteriore colpo al latifondo a colture intensive. In sostanza Sereni voleva dire: sino ad ora i contadini hanno preso l’osso, adesso gli spetta un po’ di polpa […]. L’idea di Sereni faceva breccia fra i contadini […] il movimento ebbe nuovo impulso e fu esteso, riuscimmo a mobilitare migliaia di contadini […] la posta in gioco era alta in quanto quella volta si occupavano terre coltivate e, perciò, la reazione degli agrari e delle forze di polizia sarebbe stata ancora più dura rispetto a quella avutasi nell’occupazione delle terre incolte. Indubbiamente ci furono cariche e arresti, ma i contadini credettero nella giustezza della battaglia che conducevano e, pur subendo le violenze che più o meno, altri, prima di loro, per analoghi motivi, avevano subito, conclusero quelle occupazioni con una grande e significativa vittoria, consolidandosi nel possesso delle terre […][5].
Negli anni seguenti i gravi problemi dei vitivinicultori, dei tabacchicultori e dei coloni, per i quali dispiegò un’intensa attività l’Associazione dei contadini, favorirono, all’interno del movimento sindacale, sia pure con un certo ritardo, una maggiore presa di coscienza dei temi specifici dei produttori e dei coltivatori diretti[6].
Il 10 dicembre 1961, organizzata dalla CGIL provinciale, si tenne a Veglie la Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo, alla quale parteciparono i segretari provinciali del PCI e del PSI Mario Foscarini e Romano Mastroleo, l’onorevole Giuseppe Calasso, sindaci, consiglieri provinciali e comunali, rappresentanti degli assegnatari e dei quotisti e dei Comitati aziendali dell’Arneo. Nella relazione introduttiva, il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino indicò per le masse lavoratrici delle campagne un processo di riforma agraria generale che garantisse al contadino «il possesso della terra e gli aiuti per una moderna e razionale coltivazione dei terreni». Dopo avere passato in rassegna i principali problemi dell’agricoltura salentina, Casalino si soffermò sulla questione dell’olivicoltura che, nel biennio 1960-61, era stata al centro dell’iniziativa politica e sindacale, sostenendo che, poiché la maggior parte degli oliveti erano condotti in economia con sistemi rudimentali, privi di irrigazione e concimazioni adeguate, la CGIL proponeva l’immissione dei braccianti, dei compartecipanti e dei contadini poveri negli oliveti, in modo che riunendosi in cooperative potessero garantire, grazie all’aiuto della tecnica agraria e dell’irrigazione, una razionale e moderna coltivazione. Particolare attenzione egli dedicò ai coltivatori diretti ai quali veniva proposto di associarsi in cooperativa «per far fronte alle speculazioni dei monopoli della Montecatini e per chiedere sgravi fiscali e prestiti a basso tasso di interesse per l’ammodernamento dei propri poderi». Anche ai coloni, ai compartecipanti, ai mezzadri e ai fittuari venne indicata la prospettiva della concessione degli oliveti e dei vigneti, con l’estromissione dei grandi agrari («che ormai non assolvevano più ad alcuna funzione») e la costituzione di cooperative, oleifici e consorzi per l’irrigazione. «Per vincere la crisi dell’agricoltura bisogna estromettere dalle campagne i grandi agrari dando la terra a chi la lavora», queste le conclusioni cui giunse Casalino, dando così un nuovo senso alla tradizionale parola d’ordine la terra a chi la lavora. Venendo al tema specifico dell’Arneo, Casalino rivendicò «la giustezza della lotta che i lavoratori affrontarono negli anni 1949, 1950, 1951 occupando le terre incolte e malcoltivate dell’Arneo»; sottolineò gli aspetti negativi della politica agraria della DC e degli Enti di riforma che avevano condotto ad abbandonare al proprio destino assegnatari e quotisti, molti dei quali, privi di mezzi, indebitati e sfiduciati, oberati dalle tasse e dalle quote di ammortamento, avevano abbandonato i poderi o pensavano di farlo, tanto che – così concluse Casalino – «nei poderi abbandonati dagli assegnatari sono tornate a pascolare le pecore». Che cosa fare dunque per invertire la tendenza che, all’interno della politica del Mercato Comune Europeo e del Piano Verde, doveva fatalmente portare l’Arneo ad essere «invaso dalle macchie» e i contadini ad emigrare all’estero? Queste le proposte che emersero dagli interventi (particolarmente significativi quelli di Felice Cacciatore, sindaco di Veglie), Sigfrido Chironi, segretario della Federbraccianti, Francesco Leuzzi, membro della segreteria della CGIL, Romano Mastroleo e Mario Foscarini: lottare affinché i finanziamenti statali fossero assegnati ai lavoratori della terra in forma singola o associata; costituire consorzi di miglioramento, cantine e oleifici sociali che favorissero il superamento della tendenza individualista dei contadini che dovevano, invece, essere tutti uniti per costituire un fronte comune contro l’offensiva dei grandi agrari e dei monopoli; pretendere che i contributi del Piano Verde venissero destinati ai lavoratori agricoli per il progresso delle campagne; rafforzare il ruolo del neonato consorzio per l’area di sviluppo industriale di cui facevano parte tutti i comuni dell’Arneo; impiantare industrie per la trasformazione e la conservazione dei prodotti; chiedere una serie di agevolazioni creditizie e fiscali per gli assegnatari allo scopo di creare quelle condizioni di stabilità sul fondo e di benessere che consentissero loro di poter «lavorare proficuamente per lo sviluppo economico dell’Arneo». Ai comuni della fascia dell’Arneo la CGIL affidava ancora una volta il compito di guidare la lotta per la riforma agraria e per la rinascita economica. Così concluse Casalino la conferenza:
[…] Quelle memorabili lotte dell’Arneo ormai sono scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento e già molti spesso raccontano ai figli come in quegli anni furono costretti a permanere 40 giorni e 40 notti nelle macchie dell’Arneo, delle biciclette che perdettero perché bruciate o sequestrate, degli elicotteri che sorvolavano le macchie per indicare le posizioni dei contadini asserragliati fra i cespugli. E di come fu pronta e spontanea la solidarietà popolare […] la solidarietà di tutti i cittadini e primi fra essi degli esercenti fu grandissima, e altrettanto grande fu l’unità raggiunta fra tutti i lavoratori. I risultati non mancarono e le statistiche ci dimostrano come il reddito agricolo zootecnico forestale negli anni successivi è cresciuto per decine di miliardi […][7].
[2]Ivi, fasc. 3418. Il testo dell’intervento di Giorgio Casalino alla Conferenza di Veglie in: Archivio Flai-Cgil, cit.
[3] G. Gramegna, Braccianti e popolo in Puglia, cit. Egli scrive: «tra il quadro dirigente ed in tutto il movimento democratico, politico e sindacale, si aprì un vasto dibattito, dando vita ad un esame critico ed autocritico sulle azioni condotte e sui risultati conseguiti […]. Innumerevoli furono, infatti, le riunioni che si svolsero a livello regionale con la partecipazione di dirigenti nazionali del sindacato e della Commissione agraria del PCI. Le critiche erano aspre, ed a volte anche ingenerose, verso compagni che pure avevano dato il meglio di sé nella conduzione della lotta. Tuttavia, restava il fatto che difetti vi erano stati e che, quindi, in una situazione siffatta anche le critiche ingenerose avevano non solo un fondamento ma stimolavano verso la ricerca degli errori, che non potevano essere solo di carattere organizzativo, ma investivano la visione e la strategia delle lotte nelle campagne pugliesi» (pp.155-157).
[5] L’intervista a Giannoccolo in S. Coppola, Il movimento contadino in terra d’Otranto, cit., pp. 179-183.
[6] Fg, Archivio PCI, MF 0430 pp. 2488-2556; MF 0446, pp. 2801-2805; MF 0473, pp. 822-840.
[7] Archivio Flai-Cgil, Atti della Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo. Fg, Archivio PCI, MF 0407, pp. 2923-2946; pp.2985-2990; pp. 3028-3036. In un documento del Comitato regionale pugliese della Federbraccianti (del febbraio 1965) predisposto per la delegazione dei senatori che facevano parte della Commissione agricoltura (riportato da De Felice, Il movimento bracciantile, cit.) si legge questa valutazione complessiva sulla legge stralcio: «Se si tiene conto che sono stati espropriati solo o in gran parte terreni a scarso reddito, bisogna concludere che la riforma stralcio ci ha dato delle utili indicazioni pur non essendo stata completata […]. Si può parlare di fallimento solo in relazione al fatto che la legge stralcio contiene dei limiti gravi […] ma i fatti dimostrano che, quando la terra era nelle mani dei vecchi proprietari latifondisti, questa non produceva. Oggi i contadini -ieri braccianti- con il loro sacrificio e con la loro intelligenza hanno creato anche giardini dove prima era il deserto. Non per questo però si deve dire che non vi sono state delle storture. Ad esempio, circa un migliaio di assegnatari ha ottenuto in assegnazione terre non suscettibili di trasformazione, che lo Stato ha pagato a peso d’oro ai proprietari fondiari […] (p. 401).
Vicina a noi Salentini, intendo dire, e andrò a dimostrarlo. Prima, però, vale riassumere ciò che di essa a tutti, o quasi, è noto. Che sia il polmone della terra attaccato da quel virus nefasto che è per il pianeta l’uomo è un concetto da tutti accettato finché non si decide seriamente di porvi rimedio …, che il toponimo trae origine dall’idronimo Rio de Amaxones, nome dato al fiume dall’esploratore spagnolo Francisco de Orellana quando lo scoprì nel 1540, è nozione da tempo consegnata alla storia. Lo spagnolo non doveva essere digiuno di mitologia, altrimenti non avrebbe messo in campo le Amazzoni (in greco Ἀμαζόνες (leggi Amazònes1) a lui evocate dagli scontri avuti, secondo quanto riferì al ritorno in patria, con tribù locali di donne guerriere. Altrettanto noto è che l’etimo più ricorrente per Ἀμαζόνες è da α- con valore privativo e μαζός (leggi mazòs), che significa mammella, in linea con le antiche testimonianze letterarie2 secondo le quali donne della zona del Mar Nero si mutilavano della mammella destra per tendere meglio l’arco, ma in contraddizione costante con tutte le rappresentazioni artistiche dove il seno (e in particolare il destro) appare ben integro e fiorente.
Dettaglio di un rilievo con scena di combattimento tra un greco ed un’amazzone su un sarcofago da Tessalonica risalente circa al 180 d. C.
Per questo quell’α- secondo altri non avrebbe un valore privativo ma esattamente opposto, cioè intensivo, per cui Ἀμαζόνες significherebbe donne dal seno fiorente.
Lo spagnolo aveva fatto corrispondere al salto all’indietro nel tempo un salto in avanti nello spazio, nel senso che, partendo da un etnico che aveva avuto il suo habitat originario nella regione del fiume Termodonte sulla costa meridionale del Mar Nero era andato a finire nell’America del sud con un idronimo che alla fine avrebbe dato al toponimo che designa il vastissimo territorio circostante, l’Amazzonia appunto.
Io col toponimo mi accingo a fare esattamente l’opposto. Ἀμαζονία (leggi Amazonìa) è il titolo di una delle opere attribuite ad Omero dalla Suda o Suida, una sorta di enciclopedia in greco del X secolo. Alla voce Ὅμηρος (leggi Òmeros) si legge: … Ἀναφέρεται δὲ εἰς αὐτὸν καὶ ἄλλα τινὰ ποιήματα· Ἀμαζονία, Ἰλιὰς μικρὰ … (Gli sono attribuiti anche alcuni altri poemi: Amazzonia, Piccola Iliade …).
Come nome di donna compare in un epicedio (epigramma funerario) di anonimo dell’Antologia Palatina (raccolta di epigrammi risalente al X secolo). È il n. 667 del libro VII: Τίπτε μάτην γοόωντες ἐμῷ παραμίμνετε τύμβῳ;/Οὐδὲν ἔχω θρήνων ἄξιον ἐν φθιμένοις./Λῆγε γόων καὶ παῦε, πόσις, καὶ παῖδες ἐμεῖο/χαίρετε, καὶ μνήμην σώζετ᾿ Ἀμαζονίης. (Perché gemendo invano state davanti alla mia tomba? Tra i morti non ho nulla degno di gemiti. Cessa e cessa di gemere, o marito, e state bene, figli miei, e conservate il ricordo di Amazzonia)
Diodoro Siculo (I secolo a. C.), Bibliotheca Historica
II, 3 Τοῖς δ’ ἀνδράσι προσνεῖμαι τὰς ταλασιουργίας καὶ τὰς τῶν γυναικῶν κατ’οἴκους ἐργασίας. Νόμους τε καταδεῖξαι, δι’ὧν τὰς μὲν γυναῖκας ἐπὶ τοὺς πολεμικοὺς ἀγῶνας προάγειν, τοῖς δ’ἀνδράσι ταπείνωσιν καὶ δουλείαν περιάπτειν. Τῶν δὲ γεννωμένων τοὺς μὲν ἄρρενας ἐπήρουν τά τε σκέλη καὶ τοὺς βραχίονας, ἀχρήστους κατασκευάζοντες πρὸς τὰς πολεμικὰς χρείας, τῶν δὲ θηλυτερῶν τὸν δεξιὸν μαστὸν ἐπέκαον, ἵνα μὴ κατὰ τὰς ἀκμὰς τῶν σωμάτων ἐπαιρόμενος ἐνοχλῇ· ἀφ’ ἧς αἰτίας συμβῆναι τὸ ἔθνος τῶν Ἀμαζόνων ταύτης τυχεῖν τῆς προσηγορίας.(Agli uomini [la regina delle Amazzoni] assegnava la filatura della lana e gli altri lavori domestici delle donne. Essa stabiliva leggi in base alle quali guidava le donne alla guerra e destinava gli uomini ad uno stato umile ed alla schiavitù. Dei figli ai maschi mutilavano gambe e braccia rendendoli inadatti alle necessità della guerra, bruciavano la mammella destra delle donne affinché non fosse d’impaccio durante gli sforzi del corpo)
III, 53: Φασὶ γὰρ ὑπάρξαι τῆς Λιβύης ἐν τοῖς πρὸς ἑσπέραν μέρεσιν ἐπὶ τοῖς πέρασι τῆς οἰκουμένης ἔθνος γυναικοκρατούμενον καὶ βίον ἐζηλωκὸς οὐχ ὅμοιον τῷ παρ᾽ἡμῖν. Ταῖς μὲν γὰρ γυναιξὶν ἔθος εἶναι διαπονεῖν τὰ κατὰ πόλεμον, καὶ χρόνους ὡρισμένους ὀφείλειν στρατεύεσθαι, διατηρουμένης τῆς παρθενίας· διελθόντων δὲ τῶν ἐτῶν τῶν τῆς στρατείας προσιέναι μὲν τοῖς ἀνδράσι παιδοποιίας ἕνεκα, τὰς δ᾽ἀρχὰς καὶ τὰ κοινὰ διοικεῖν ταύτας ἅπαντα. Τοὺς δ᾽ἄνδρας ὁμοίως ταῖς παρ᾽ἡμῖν γαμεταῖς τὸν κατοικίδιον ἔχειν βίον, ὑπηρετοῦντας τοῖς ὑπὸ τῶν συνοικουσῶν προσταττομένοις· μὴ μετέχειν δ᾽αὐτοὺς μήτε στρατείας μήτ᾽ ἀρχῆς μήτ᾽ ἄλλης τινὸς ἐν τοῖς κοινοῖς παρρησίας, ἐξ ἧς ἔμελλον φρονηματισθέντες ἐπιθήσεσθαι ταῖς γυναιξί. Κατὰ δὲ τὰς γενέσεις τῶν τέκνων τὰ μὲν βρέφη παραδίδοσθαι τοῖς ἀνδράσι, καὶ τούτους διατρέφειν αὐτὰ γάλακτι καὶ ἄλλοις τισὶν ἑψήμασιν οἰκείως ταῖς τῶν νηπίων ἡλικίαις· εἰ δὲ τύχοι θῆλυ γεννηθέν, ἐπικάεσθαι αὐτοῦ τοὺς μαστούς, ἵνα μὴ μετεωρίζωνται κατὰ τοὺς τῆς ἀκμῆς χρόνους· ἐμπόδιον γὰρ οὐ τὸ τυχὸν εἶναι δοκεῖν πρὸς τὰς στρατείας τοὺς ἐξέχοντας τοῦ σώματος μαστούς· διὸ καὶ τούτων αὐτὰς ἀπεστερημένας ὑπὸ τῶν Ἑλλήνων Ἀμαζόνας προσαγορεύεσθαι. (Dicono che nelle parti occidentali della Libia ai confini della terra comanda un popolo governato da donne e che conduceva una vita diversa dalla nostra. Infatti per le donne era costume occuparsi della guerra e per un tempo stabilito dovevano combattere mantenendo la verginità. Trascorsi gli anni del servizio militare si univano agli uomini per procreare ed esercitavano il potere e tutti gli affari pubblici. Gli uomini trascorrevano la vita in casa, come presso di noi le mogli, obbedendo agli ordini delle consorti. Non partecipavano al servizio militare né al potere né ad alcun’altra facoltà nelle cose pubbliche, da cui prendendo coscienza potessero opporsi alle donne. Alla nascita dei figli affidavano i piccoli agli uomini e questi li nutrivano con il latte e con gli altri alimenti come conveniva all’età dei bambini)
Quinto Curzio Rufo (incerta l’epoca in cui sarebbe vissuto, ma compresa tra il I e il IV secolo d. C.), Historiae Alexandri Magni Macedonis, VI, 5: Erat, ut supra dictum est, Hyrcaniae finitima gens Amazonum, circa Thermodonta amnem Themiscyrae incolentium campos.Reginam habebant Thalestrin, omnibus inter Caucasum montem et Phasin amnem imperitantem. Haec cupidine visendi regis accensa finibus regni sui excessit et, cum haud procul abesset, praemisit indicantes, venisse reginam adeundi eius cognoscendique avidam. Protinus facta potestas est veniendi. Ceteris iussis subsistere, trecentis feminarum comitata processit atque, ut primum rex in conspectu fuit, equo ipsa desiluit duas lanceas dextera praeferens. Vestis non tota Amazonum corpori obducitur: nam laeva pars ad pectus est nuda, cetera deinde velantur. Nec tamen sinus vestis, quem nodo colligunt, infra genua descendit. Altera papilla intacta servatur, qua muliebris sexus liberos alant: aduritur dextera, ut arcus facilius intendant et tela vibrent. (C’era, come sopra s’è detto, il popolo confinante delle Amazzoni che abitavano i campi intorno al fiume Termodonte. Avevano come regina Talestri che dominava su tutte le terre tra il monte Caucaso e il fiume Fasi. Questa, presa dal desiderio di vedere il re, uscì dai confini del suo regno e quando non fu molto distante mandò avanti alcuni ad avvertire che la regina era venuta desiderosa di conoscerlo. Subito le fu concessa la facoltà di venire, Comandato agli altri di star fermi, venne avanti accompagnata da trecento donne e, non appena fu al cospetto del re, saltò giù dal cavallo tendendo con la destra due lance. Non tutta la veste cinge il corpo delle Amazzoni: infatti la parte sinistra è scoperta fino al petto, le restanti parti sono coperte. Tuttavia l’orlo della veste, che stringono con un nodo, non arriva alle ginocchia. Un seno è conservato intatto per allattare i figli di sesso femminile. La destra viene bruciata perché più agevolmente tendano l’arco e scaglino le frecce)
Stefano Bizantino (probabilmente VI secolo d. C.), Ἐθνικά (leggi Ethnicà), alla voce Ἀμαζόνες (leggi Amazònes): ἔθνος γυναικεῖον πρὸς τῷ Θερμωδόντι, ὠϛ Ἔφορος, ἅς νῦν Σαυροματίδας καλοῦσι. φασὶ δὲ περὶ αὐτῶν ὅτι τῇ φύσει τῶν ἀνδρῶν διαφέροιεν, αἰτιώμενοι τοῦ τόπου τὴν κρᾶσιν, ὡς γεννᾶν εἰωθότος τὰ θήλεα σώματα ἰσχυρότερα καὶ μείζω τῶν ἀρσενικῶν. Ἐγὼ δὲ φυσικὸν νομίζω τὰ κοινὰ πάντων πάθη, ὥστ’ ἄλογος ἡ αἰτία. Πιθανωτέρα δ’ ἥν φασιν οἱ πλησιόχωροι. Οἱ γὰρ Σαυρομάται ἐξ ἀρχῆς ἐπὶ τὴν Εὐρώπην στρατεύσαντες καὶ πάντες διαφθαρέντες, τὰς γυναῖκας οὔσας μόνας …. καὶ αὐξησάντων τῶν ἀρρένων, στασιάσαι πρὸς τὰς γυναῖκας, ὑπερεχουσῶν δὲ τῶν γυναικῶν καταφυγεῖν τοὺς ἄρρενας εἰς δασύν τινα τόπον καὶ ἀπολέσθαι. Φοβηθεῖσαι δὲ μή πως ἀπὸ τῶν νεωτέρων τιμωρία τις γένηται, δόγμα ἐποίησαν ὥστε τὰ μέλη συντρῖψαι καὶ χωλοὺς πάντας ποιῆσαι. Ἐκαλοῦντο δὲ καὶ Σαυροπατίδες παρὰ τὸ σαύρας πατεῖν καὶ ἐσθίειν, ἢ [Σαυροματίδες] διὰ τὸ ἐν τῇ Σαυροματικῇ Σκυθίᾳ οἰκεῖν. Ἔστι καὶ Ἀμαζονία πόλις Μεσσαπίας. Λέγεται καὶ Ἀμαζών ἀρσενικῶς. Λέγεται καὶ Ἀμαζόνιον τὸ οὐδέτερον διὰ τοῦ ι καὶ Ἀμαζονίδης. (popolo di donne presso il Termodonte, come dice Eforo, che ora chiamano Sarmati. Dicono che per natura differiscono dagli uomini adducendo a causa il clima del posto, come se fosse abituato a generare i corpi femminili più forti e validi di quelli maschili. Io invece ritengo cosa naturale le caratteristiche comuni di tutti, sicché la causa addotta è assurda. Ritengo più verosimile quella che adducono i vicini. Infatti dicono che i Sarmati da principio avendo combattuto contro l’Europa ed essendo morti tutti, le donne che erano sole …. ed essendosi gli uomini moltiplicati entrarono in competizione con le donne, poi, però, essendo più numerose le donne, gli uomini fuggirono in un luogo boscoso e morirono. Esse, temendo che ci fosse una qualche vendetta da parte dei più giovani, stabilirono il principio per cui le loro membra dovevano essere compresse e che tutti fossero resi storpi. Erano chiamate anche Sauropatidi per il fatto che mangiavano e si nutrivano di lucertole o [Sauromatidi] per il fatto che abitavano nella Scizia sarmatica. C’è anche Amazzonia città della Messapia. Si dice anche Amazzòne al maschile3 . Si dice anche Amazzonio neutro con (aggiunta di) i e Amazzonide.
Dove fosse con precisione l’Amazzonia messapica o con quale centro antico o attuale possa identificarsi io non lo e non so nemmeno se qualcuno si sia mai posto il problema. L’unica speranza è che qualcosa possa venire dagli organizzatori della prossima Notte della taranta che, apprendo, hanno l’intenzione di portare sul palco gli Indios dell’Amazzonia … (https://www.virgilio.it/italia/lecce/ultima-ora/notte_taranta_2020_con_indios_amazzonia-59744853.html). A quando gli Esquimesi?
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1 In latino, con retrazione dell’accento, Amàzones (per via di o greco che è breve), da cui la voce italiana.
2 In Περί ἀέρων, ὑδάτων, τόπων (Arie, acque, luoghi), attribuito ad Ippocrate (V-IV secolo a. C.), 17: Ἐν δὲ τῇ Εὐρώπῃ ἐστὶν ἔθνος Σκυθικὸν, ὃ περὶ τὴν λίμνην οἰκέει τὴν Μαιῶτιν, διαφέρον τῶν ἐθνέων τῶν ἄλλων, Σαυρομάται καλεῦνται. Τουτέων αἱ γυναῖκες ἱππάζονταί τε καὶ τοξεύουσι, καὶ ἀκοντίζουσιν ἀπὸ τῶν ἵππων, καὶ μάχονται τοῖσι πολεμίοισιν, ἕως ἂν παρθένοι ἔωσιν. Οὐκ ἀποπαρθενεύονται δὲ μέχρις ἂν τῶν πολεμίων τρεῖς ἀποκτείνωσι, καὶ οὐ πρότερον ξυνοικέουσιν ἤπερ τὰ ἱερὰ θύουσαι τὰ ἐν νόμῳ. Ἣ δ’ ἂν ἄνδρα ἑωυτῇ ἄρηται, παύεται ἱππαζομένη, ἕως ἂν μὴ ἀνάγκη καταλάβῃ παγκοίνου στρατείης. Τὸν δεξιὸν δὲ μαζὸν οὐκ ἔχουσιν. Παιδίοισι γὰρ ἐοῦσιν ἔτι νηπίοισιν αἱ μητέρες χαλκεῖον τετεχνημένον ἐπ’ αὐτέῳ τουτέῳ διάπυρον ποιέουσαι, πρὸς τὸν μαζὸν τιθέασι τὸν δεξιὸν, καὶ ἐπικαίεται, ὥστε τὴν αὔξησιν φθείρεσθαι, ἐς δὲ τὸν δεξιὸν ὦμον καὶ βραχίονα πᾶσαν τὴν ἰσχὺν καὶ τὸ πλῆθος ἐκδιδόναι. (In Europa c’è il popolo degli Sciti che vive intorno alla Palude Meotica, differente dagli altri popoli e col nome di Sauromati. Le loro donne vanno a cavallo, tirano con l’arco e dal cavallo lanciano il giavellotto finché sono ragazze. Non perdono la verginità fino a quando non abbiano ucciso tre nemici e non possono convivere prima di aver compiuto i sacrifici previsti dal loro costume. Quella che prende un uomo per sé cessa di andare a cavallo finché non c’è la necessità di un servizio militare comune a tutti. Non hanno la mammella destra. Ad esse quando sono ancora bambine le madri pongono sul seno destro un arnese infuocato fatto di bronzo e il seno viene bruciato così da impedirne la crescita, per dare alla spalla e al braccio destro tutta la forza e l’estensione)
3 Da non confondere (perché tramandato con l’iniziale maiuscola, ma i manoscritti dettano legge fino ad un certo punto sulla distinzione rispetto alle minuscole) con il comune ἀμαζών (leggi amazòn), che significa alla lettera privo di pagnotta e per traslato uomo povero, avendo tutt’altra etimologia :da α– privativo+μάζα (leggi maza)=focaccia d’orzo.
Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (III)
Nel Salento approdarono nel 1970 lo scultore olandese Norman Mommens con la compagna Patience Gray, scrittrice e giornalista inglese e ci rimasero per più di trent’anni, fino alla loro morte, vivendo un legame estremo con la terra di Spigolizzi. La loro masseria fu solo spartanamente restaurata e non vollero mai l’elettricità. Normann Mommens e Patience Gray, riconvertirono la campagna in un luogo di arte e conoscenza, e da essi viene la seconda testimonianza di un territorio scelto, come luogo di vita, da gente straniera. Patience, giornalista londinese, orafa, appassionata di botanica e studiosa di gastronomia si era lasciata catturare dal fascino della macchia mediterranea che, in cambio, aveva donato storie di cultura antica e misteri che lei e il compagno, seppero sapientemente tradurre in arte con la pittura, la scultura e la scrittura.
Di fronte alla masseria c’era un’aia circolare dove Normann, l’artista fiammingo, situò un’erma alta tre metri e venti, che chiamò Anatoli, dal greco, perché la statua è rivolta verso est.
I libri che Patience scrisse, vennero pubblicati in Inghilterra, e raccontano il Salento, interrogato nel profondo della sua anima storica e nelle sue tradizioni alimentari.
Esperta botanica, Patience raccoglieva anche funghi e verdure selvatiche nelle vicinanze della masseria, che preparava secondo le ricette della tradizione locale che, già in quegli anni, rischiavano di cadere in disuso perché associate a tempi di povertà e privazioni. Sotto questo punto di vista, il contributo della Gray alla preservazione dell’antica cultura culinaria del Salento, è stato straordinario. Nella loro nuova dimora salentina continuarono a coltivare ognuno la propria arte, ma si trasformarono ben presto in cultori e difensori della macchia mediterranea, delle vestigia archeologiche e dei paesaggi del Salento, che cominciavano ad essere stravolti dall’ondata di speculazione edilizia degli anni Settanta. Patience e Norman cominciarono da subito a coltivare la terra della masseria. Un contadino del posto, “dal nome appropriato di Salvatore”, insegnò loro i metodi ancestrali per la coltivazione di pomodori, piselli, ortaggi e verdure locali. Nel corso della lunga “odissea del marmo”, Patience aveva raccolto centinaia di ricette dalle massaie e dei cuochi delle trattorie. “Sono stati i contadini e i pescatori”, diceva, “a creare le ricette piuttosto che i cuochi degli alti prelati e dei principi. Questi ultimi si erano solo limitati a raffinarle”. Annotava non solo le ricette, ma anche il significato profondo che esse rivestivano nella vita quotidiana delle persone e il loro valore culturale per quella comunità. Così ha continuato a fare nel Salento. La masseria di Spigolizzi diventò, negli anni, meta di visitatori ed estimatori da ogni angolo del Salento e del mondo. Un folto gruppo di giovani del luogo fu da loro ispirato a impegnarsi in campagne per la protezione del patrimonio archeologico e ambientale del Salento. A questo gruppo di giovani volenterosi, il regista tedesco Klaus Voswinckel dedicò il film documentario “I Ragazzi nel 1989”. Troupe televisive e giornalisti inglesi e americani sono scesi nel Salento a intervistare Patience. Tra gli altri, Derek Cooper, conduttore per oltre un ventennio del Food Programme della Bbc, nel 1988 realizzò a Spigolizzi un’intervista alla scrittrice, trasmessa poi su Radio 4. Patience è stata l’antesignana dello slow food prima ancora che quest’espressione fosse coniata e diventasse moneta corrente sulle riviste patinate e nei talk-show. La sua idea di dieta mediterranea era, però, ben diversa da quella presentata in tanti programmi televisivi in Italia e, soprattutto in Europa e in America, spesso a base di leggeri piatti di pesce con un filo d’olio d’oliva. Per Patience, la dieta mediterranea era calorica, ricca di amidi e verdure, ma anche di proteine, destinata a soddisfare il sano appetito dei lavoratori della terra e del mare. Non condivideva le ossessioni salutiste e la paura del colesterolo che, secondo lei “aveva sostituito il concetto di peccato”[2].
Nel 1968 Normann, lavorando a Carrara, aveva capito di avere bisogno di più spazio per tutte le sculture che aveva realizzato, di un grande spazio in cui vivere e così lui e Patience fecero il primo viaggio in Salento, insieme ad amici: Helen Ashbee e Arno Mandello. Inizialmente l’idea era stata quella di acquistare una casa per viverci tutti insieme, poi però, i due amici avevano acquistato la Bufalaria verso la marina di Ugento e loro avevano acquistato Spigolizzi. A quei tempi non c’erano neanche le strade e i luoghi erano tutti molto isolati.
Ogni masseria era dotata di tutto l’indispensabile per poter vivere, come un forno di pietra e una cantina per le scorte, e avevano un orto e un giardino e distese di verde a perdita d’occhio e, anche se era tutto inselvatichito e le case sembravano ruderi, Patience e Normann erano felici.
Producevano l’olio e il vino, facevano il pane, le frise, i taralli e ogni incontro era una festa. Nel tempo la masseria Spigolizzi di Normann e Patience è divenuta insieme alla Bufalaria di Helen e Arno, crocevia di incontri e di esperienze con altri artisti, un punto d’incontro, di condivisione e di progettualità per moltissime persone[5].
Anche Normann si dedicò alla scrittura e pubblicò in particolare un libro, “Remembering Man”, scritto – disse – «nello stesso modo con il quale scolpisco la pietra», in cui diede forma al suo pensiero; apprese dalla natura e s’applicò alla geometria sacra; tentò di conciliare gli antichi miti con la moderna cosmologia; curò l’orto, lavorò la vigna; comprese la continua festa celebrata «da un capo all’altro del mondo» dalle correnti magnetiche che avvolgono il pianeta; s’impegnò attivamente per la tutela del territorio nel Basso Salento. In breve, ebbe modo di immergersi di volta in volta nell’«azione del momento». Per Norman Mommens l’arte e, in generale la cultura, avevano una «funzione-base umanizzante», e riguardavano l’essere umano nel suo complesso, e dunque la vita, l’abitare la terra, il rapportarsi con l’Altro. Di conseguenza non erano tanto le questioni prettamente estetiche a suscitare il suo interesse. La scultura era una modalità attraverso la quale si poteva percepire, con i sensi liberi dalla tirannia del fine, l’accadere del mondo. Per questo egli riteneva che la preoccupazione maggiore dell’artista fosse «per la sua precipitazione immaginativa nello sconosciuto. Il valore del risultato può essere discutibile, ma l’atto stesso, segno del creatore, sarà sempre attinente alla nostra umanità». Così, le sculture possono anche essere sepolte, nascoste – il loro potere terapeutico, persino taumaturgico, non verrà meno. All’opera compiuta viene assegnata minor importanza rispetto all’atto creativo. E colpisce la forza e la perseveranza, accompagnata sempre da un atteggiamento positivo nei confronti della vita, con cui seguì la sua strada. Tipico è il suo metodo nel rappresentare il serafino: queste metamorfosi della figura dell’angelo diventano figure a piombo estremamente stilizzate con le braccia unite protese in alto, le gambe dritte in tensione che la forza di gravità tiene inchiodate al basso, le punte dei piedi ritte e fuse in una forma convessa, le mani che sorreggono modellando un tutt’uno concavo. A volte, non sempre, lievi segni di divaricazione accennano lo stacco tra le gambe e tra le braccia. Ma il blocco di pietra mantiene tutta la forza dei monoliti arcaici, alieni dalla dispersività dell’articolazione. – Come racconta Philip Trevelyan, i Serafini «presero origine da uno schizzo che Norman fece dopo la guerra, nel quale rievocava il salvataggio di poveri innocenti in fin di vita da un cinema colpito dalle bombe, al confine tra la Germania e l’Olanda. […] Per estrarre le vittime, era necessario sollevare sezioni del pavimento collassato e sostenerle in alto a braccia». – I Serafini, dunque, medicano il dolore e, nonostante tutto, annunciano la vita. Inoltre, le statue assumono immediatamente una rilevanza cosmica. Quei corpi stesi verticalmente, allungati, protratti, schiudono di fatto uno spazio-tempo vitale tra un sopra e un sotto. O meglio: aprono un vuoto – un intervallo – che rende possibile il trascorrere e l’abitare. Separano e, nel contempo, mettono in relazione un basso e un alto, impedendo il collassare dell’uno nell’altro in un’aderenza senza resto, mortifera.[6]
Le rughe sul volto di Patience, segnate dal sole, assomigliavano ai solchi della campagna ma, “Questa linea dell’orizzonte, questa distesa di spazio, sempre vivo, sempre diverso, ormai mi accompagna dentro e quando mi allontano, quando a volte vado a Londra, comprendo la fortuna di vivere in questo posto. Io mi sento leale al silenzio della pianura”, diceva. Gli studi di Patience sui legami tra cibo, cultura e territorio vanno al di là delle semplici ricerche gastronomiche. Nei paesi anglosassoni e, in America, i suoi libri “Plats du jour”, (piatti del giorno) e “Honey from a weed” che significa pressappoco “Miele da un’erbaccia”, sono testi fondamentali per gli specialisti che così, si sono potuti avvicinare, lontani ospiti, alle nostre tavole. Da noi i suoi libri rimangono ancora non tradotti. La masseria d’arte è in continuo fermento. Sono tante le persone che vengono, parenti da molto lontano e poi amici, tanti: intellettuali e persone semplici.
Fra essi ci sono Salvatore e sua moglie, contadini del posto che insegnarono a Normann e Patience a coltivare la loro terra. Sicché anche Normann e Patience divennero contadini del posto: – “ Salvatore a volte mi sgridava, poi insieme abbiamo coltivato le patate e i pomodori. La nostra è stata una grande amicizia” – [9].
Oggi questi luoghi sono custoditi con cura da Nicolas Gray, figlio di Patience, e dalla sua compagna. Edoardo Winspeare ha più volte dichiarato l’importanza estrema che ha avuto Mommens nella sua formazione e nell’ispirazione del suo lavoro. Qui si respira il ricordo tangibile di Norman e Patience, in particolar modo nelle grandi sculture primitiviste interrate nei terreni vicini alla casa-studio, nei piccoli scudi dipinti su carta e nelle fotografie che narrano di una vita sospesa tra i ritmi della campagna e le visioni dell’arte. D’altronde, come ricorda Nicolas, «Giunsero qui perché cercavano il sole. Ma arrivati a Salve si fermarono perché non c’erano più strade. Era la fine del mondo »[10]. E arriviamo così a una terza e bellissima testimonianza.
3) Gerhard Cerull era l’amico fidato di Normann e Patience, uniti dalla convinzione che le ragioni dell’arte coincidono con le ragioni della vita e con quelle della natura.
Per Gerhard Cerull le cose sono andate così: un mattino di circa trent’anni fa era a scuola, come ogni giorno, e d’improvviso un’illuminazione: perché fare l’insegnante? Torna a casa, raccoglie i pennelli, i suoi colori e si mette in viaggio con la sua vecchia mercedes rimessa a nuovo. Nessuna meta precisa: sicuramente verso sud. Prende per l’Italia che già conosceva e strada facendo pensa “troverò un posto dove fermarmi a dipingere”. Gli sarebbe piaciuto in Toscana ma era un marzo piovoso e proseguì oltre. Pioveva anche quando giunse a Napoli. Al bivio fra la Calabria e la Puglia, scelse la Puglia che non conosceva. Nell’attesa che smettesse di piovere la percorse tutta. Così giunse a Santa Maria di Leuca, ma pioveva anche lì. A quel punto fu costretto a fermarsi. Non poteva più andare oltre, non c’era più terra da percorrere! Gerhard non dice espressamente di essere stato catturato dal Salento, non glielo consente la sua naturale ritrosia ma, conclude il suo racconto esclamando che lui, tedesco del sud, sapeva che prima o poi, qui sarebbe uscito il sole. Il sole, nel bene e nel male, è uno dei protagonisti principali della storia di questa terra. Il Salento è senz’altro terra di transito. Non soffoca, non prende alla gola. Si lascia sfogliare come un libro antico, tanti sono i luoghi della memoria. Basta vederli per decidere di fermarsi. E Gerhard vide, in agro di Salve, in fondo ad un viale di pini, una bellissima masseria barocca, con una torre selvaggia e abbandonata, presa d’assalto dal convolo blu che la rivestiva romanticamente: il luogo ideale per dipingere[11]. Fu amore a prima vista.
Gerhard Cerull è arrivato nel Salento una sera primaverile del 1975, all’età di trentatré anni, alla ricerca di se stesso e di un luogo dove potersi dedicare completamente all’arte, a contatto con la natura. Lasciava un posto di insegnante (lingua tedesca, storia e geografia) in una scuola media statale, insieme a tutti quei condizionamenti che non gli consentivano di dedicarsi alla sua vera inclinazione: la pittura. Aveva compiuto studi di teologia, oltre a quelli di pedagogia, e da giovane aveva seguito la vocazione monacale, rimanendo per tre anni in un monastero. Ma si era ricreduto su entrambi i fronti, appena in tempo per non commettere errori, sia verso il giuramento monacale che verso quello statale. Finalmente lontano dalla società omologante e consumistica, può ora mettersi alla prova, davanti a un cavalletto, noncurante degli spifferi provenienti dalle finestre senza vetri, abituato, com’è, a una vita austera . Di lì a poco, grazie alla sua costanza e alla sua tenacia, dal suo primo rifugio (la masseria del Feudo) si trasferisce in una liama con attigua paiara-rudere, nei pressi della Masseria dei Fani (Salve), dove riesce a crearsi uno spazio più accogliente. Senza averlo mai immaginato, passano così i suoi primi dieci anni, vissuti da salentino “per caso”. Sono anni dedicati interamente alla pratica della pittura, durante i quali realizza finalmente un suo linguaggio espressivo, dapprima con disegni a china di ispirazione paesaggistica e surreale, (ricostruisce atmosfere salentine fatte di ulivi e architetture barocche, ruderi campestri assediati da querceti, corbezzoli e severi carrubi; un brulicare di vegetazione selvatica che lui ama e conosce perfettamente), poi con forme astratte dalla geometria caleidoscopica, sempre più intensamente cromatica. Insieme ai suoi sogni prendono corpo i suoi quadri, a contatto con Norman Mommens e Patience Gray e Maria Vittoria Colonna, vicini di casa, ma anche con Arno Mandello ed Helene Ashbee che abitano la Masseria Bufalaria (Gemini). “Ciò che mi ha attratto, fin dal mio arrivo in questa terra, è stata la particolare ospitalità dei salentini”, ci dice. Proprio grazie a un amico che cede la sua casa nei pressi del faro di Leuca per una mostra collettiva, il pittore ex-insegnante espone per la prima volta alcuni suoi lavori. Incoraggiato a proseguire la sua ricerca artistica dallo scultore Norman Mommens, è spinto a continuare: seguono altri contatti ed esposizioni ad Alessano e Casarano etc. Col tempo, diventano sempre più frequenti non solo le visite di amici locali, ma anche di quelli d’Oltralpe, dalla Germania in particolare, interessati all’acquisto delle sue chine, lavori pazienti e meticolosi in bianco e nero, e dei suoi quadri dai colori più accentuati. I Fani diventano luogo di attrazione per tanti ospiti. E’ così che, la modesta abitazione rurale riadattata, con splendida vista panoramica sulla vegetazione del canale, dalla serra di Spigolizzi fino al mare, non è più sufficiente ad accogliere i gruppi di visitatori, sempre più numerosi. Occorre ampliare gli spazi per poter assicurare vitto e alloggio agli amici che ne fanno continua richiesta, coltivare un orto. Con travi di legno, canne ed embrici l’artista restaura di suo pugno tetti per altri vani, utili al soggiorno di gruppi di archeologi australiani, di musicisti americani e giovani artisti di varia provenienza. Capita perciò, di trovare da Gerhard un’intera equipe impegnata nel lavoro di scavo alla chiusa del canale o attiva nel laboratorio allestito per l’occasione, oppure un rabbino di Boston che, sorridendo, canta canzoni napoletane. In un habitat dalle lontane origini storiche, eppure abbandonato, si alternano stage di danza, di espressione corporea, di teatro, performances di musica rinascimentale, di cabaret o di pizzica, nella suggestiva cornice della macchia mediterranea, ancora meravigliosamente intatta.
– “Ricordo che uno dei primi anni, – racconta Rita Ciullo, insegnante di origine salvese e oggi moglie di Gerardo – il movimento e le performances vocali e canore di un gruppo di giovani ospiti, riecheggiando nel fondo del canale, hanno finito con l’ insospettire gli agricoltori dei campi vicini, i quali hanno segnalato le strane e inusuali urla alle forze dell’ordine. Si sono tranquillizzati, ovviamente, solo dopo il controllo effettuato.” – Sotto la luna dei Fani si susseguono, intanto, serate estive e feste musicali indimenticabili, per tutti i presenti. Anche le ricerche archeologiche, condotte in modo continuato nell’arco di nove anni, risultano tanto soddisfacenti da essere riconosciute come prestigiose ed importanti (premio Rotary International “Colonie Magna Grecia” per i ricercatori dell’Università di Sidney). Con Rita, Andres e William, da un improvvisato ostello, occasionalmente allestito, si giunge alla promozione di stage di creatività e di musica, fino agli incontri di cultura internazionale. I legami di amicizia con gli abitanti del luogo portano l’artista a radicarsi a tal punto nell’ambiente di finisterrae da condividere con Rita, appassionata- tra l’altro – di yoga e di erboristeria, gli ideali e lo stile di vita “francescana” e campestre, secondo i ritmi della natura. Una decisione a cui segue quella di creare una famiglia con Andres e William, undicenni colombiani provenienti da Bogotà. L’ultimo periodo, tutto caratterizzato dagli impegni nel seguire da vicino la loro crescita fino all’Università, non ha alterato l’armonia e l’autenticità del luogo, la disponibilità ed il carattere semplice e cordiale dei coniugi Cerull. Chiedo a Gerardo quali sono le ultime novità al canale dei Fani.“ La varietà di questi funghi che ho in mano, mai visti prima di qualche anno fa’. – “Sono cresciuti sotto gli alberi di pino piantati quando sono arrivato qui”- mi risponde. Anche la processionaria, la malattia che infesta la pineta, è un cambiamento ultimo, sto facendo di tutto per contrastarla”. Guardo il boschetto di pini, a ridosso della sua casa e mi sembrano incredibilmente cresciuti. Con la loro chioma alta sembrano segnare gli anni trascorsi. Ora sono lontani i primi tempi, l’incredulità di chi lo osservava incuriosito nella vecchia masseria disabitata e di chi veniva a visitarlo poi nella liama, sul cui camino era appesa una lunga muta di serpente (la sacara), per sentirlo parlare del suo lungo viaggio da Regensburg, alla ricerca di una diversa dimensione esistenziale.” Il mio è un racconto da scrivere a puntate”, mi dice, con un bicchiere di vino della vendemmia locale in mano. Lo stesso sorriso di quando ha messo piede nel Basso Salento, una terra che fin dall’inizio lo ha affascinato per le sue contraddizioni, per le sue sorprese e per le sue bellezze nascoste da scoprire col tempo. Risorse di cui Gerardo ha giurato di rimanere custode. Un giuramento finalmente a lui congeniale![13] Così, Gerhard pittore, artista ma anche cuoco e contadino insieme alla mogie Rita, salentina, fanno come Patience e Normann, un punto di ritrovo culturale e ospitale della loro casa.
[2]Patience, la visionaria che amò il Salento rurale, di Aldo Magagnino https://www.quotidianodipuglia.it/cultura/patience_la_visionaria_che_amo_il_salento_rurale-2555928.html
[9] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[10]Patience, la visionaria che amò il Salento rurale, di Aldo Magagnino https://www.quotidianodipuglia.it/cultura/patience_la_visionaria_che_amo_il_salento_rurale-2555928.html
[11] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[12] M. Cataldini, M. Pizzarelli, C. Gerardi, Verso sud, Salento d’acqua e di Terra rossa, Anima mundi edizioni, Otranto, 2008.
[13] Gerhard Cerull, salentino per caso, https://www.iltaccoditalia.info/2007/10/10/gerhard-cerull-salentino-per-caso/
Meno rilevante il ruolo dei due quattuorviri aedilicia potestate che, però, avevano un compito esecutivo di gran lunga più gravoso perché dovevano sovraintendere al buon funzionamento delle strade, degli edifici pubblici, delle cerimonie religiose e degli spettacoli pubblici. Soprattutto questi ultimi rappresentavano forme di svago di cui tutto il mondo romano era oltre misura appassionato. Basterebbe ricordare la famosa frase di Giovenale panem et circenses (pane e giochi da circo) per rendersene conto. Erano di fatto una delle poche forme di svago che, al pari dei Romani, neppure i nostri antichi concittadini avrebbero mai fatto a meno. I magistrati che dovevano allestirli a volte si svenavano per andare incontro ai favori della gente, tant’è che la storia ricorda casi a Roma di celebri personaggi (e Cesare fra questi) che s’erano indebitati sino al collo quando ricoprivano la carica di edile.
Non c’è motivo di credere che a Brindisi fosse diverso perché lo spettacolo era connaturato anche allo spirito religioso del tempo. Ce n’era per tutti i gusti ma quelli che appassionavano di più erano i giochi circensi, soprattutto se cruenti. Anche il cinema moderno ha rappresentato la vita dei gladiatori e i loro combattimenti, a volte sino all’ultimo sangue. Su di loro ne sappiamo già abbastanza, per cui basta ricordare che, fatte le debite proporzioni, c’erano gladiatori osannati e famosi quasi – se non più – di idoli moderni come Messi e Ronaldo. E bastava la loro apparizione nell’arena per scatenare il boato della folla.
Molto meno conosciute – ma non certo meno gradite agli spettatori del tempo – erano gli allestimenti teatrali in cui dei criminali comuni interpretavano le parti di eroi mitici. Queste rappresentazioni avevano infatti la particolarità d’essere realiste sino alle più estreme conseguenze, tant’è che c’erano attori costretti a recitare scene il cui culmine era la loro stessa morte. In pratica venivano così eseguite pene capitali: invece del patibolo, il condannato sosteneva il ruolo d’un personaggio storico destinato a morire nel corso dello spettacolo teatrale. In definitiva erano esibizioni in cui non c’era bisogno di fingere. La paura, il dolore, i gemiti, le agonie erano reali, ed era questo che eccitava la platea.
Chi organizzava spettacoli apprezzati dal popolo poteva poi vivere di rendita; guai, però, a deludere, si rischiava d’essere bruciati e di dire addio ad ogni aspirazione politica.
Le epigrafi salvatesi dal tempo ci regalano i nomi di alcuni brindisini che ricoprirono tali alti incarichi municipali. Ad esempio i quattuorviri Gaio Falerio Nigro, Tito Aulio Aper, Lucio Cassio Flaviano, Lucio Audio e Lucio Graeceio, questi ultimi due anche quinquinnales, Caio Antonio Achaico, pure censore.
E possiamo immaginarceli mentre si aggiravano per le strade della città in toga praetexta — vale a dire la toga fregiata con un orlo di lana purpurea — che, insieme alla sella curule, faceva parte dei loro signa (segni distintivi).
Di sera passavano tra la folla accompagnati da torce (funalia) e candele (cereos) però solo i quattuorviri iure dicundo erano seguiti dai littori (lictores), muniti di verghe (fasces) ma senza le scuri (securibus), ad indicare che la loro magistratura non era insignita d’imperium1.
Per adempiere all’obbligo (officium) derivante dalla carica politica assunta, i magistrati municipali potevano contare sugli apparitores, personale subalterno che, pagato dal municipium, faceva parte dei cosiddetti officia. Questi erano composti con un numero fisso di addetti e dovevano comportare una spesa prestabilita anche nei rapporti tra magistrati: quelli a disposizione dei due giusdicenti prevedevano una spesa due volte e mezzo superiore a quella destinata ai collaboratori degli edili. Ed anche questo era indice del diverso peso politico e sociale dato ai quattuorviri iure dicundo rispetto ai quattuorviri aedilicia potestate.
Allora, bello o brutto che possa apparire, gli appiattimenti sociali non erano consentiti, e tutto andava graduato e collocato in una scala di valori ben delineati.
I due iure dicundo disponevano probabilmente del seguente personale: due lictores (littori), un accensus (usciere, aiutante), due scribae (segretari), due viatores (messi), un librarius (archivista), un praeco (banditore), un haruspex (aruspice) — che cercava di cogliere il volere degli dèi prima dell’avvio di una seduta o di una attività pubblica — un tibicen (flautista).
I due edili, invece, uno scriba, un praeco, un haruspex, un tibicen e dei servipubblici che li assistevano nelle funzioni di carattere sacro, tipo nei sacrifici.
Quelli che godevano dello stipendio più alto erano gli scriba, tra l’altro obbligati a giurare che avrebbero svolto le mansioni con diligenza e facendo i conti senza dolo e senza tentare di appropriarsi dei soldi del municipium. Neanche a dirlo, e tipico d’una società meritocratica, gli scribae che lavoravano con gli iure dicundo percepivano un salario più alto.
Come per i magistrati, il loro incarico durava un anno.
Alle funzioni religiose (cura sacrorum) erano preposti a Brindisi i pontefici e gli auguri, eletti nei comizi con carica vitalizia.
Occorre rilevare che in ambito religioso avevano competenza anche gli iure dicundo che, oltre ad officiare molte cerimonie sacre, presentavano, per l’approvazione del consiglio dei decurioni, il calendario festivo (dies festi), vale a dire dei giorni in cui si celebravano cerimonie religiose in onore di divinità o per ricorrenze di carattere civile d’interesse locale. Questi erano decisi annualmente dai magistrati, che così fissavano appunto i giorni festivi d’interesse locale e quelli lavorativi (diesprofesti) dell’anno in cui erano in carica. Ai giorni festivi, si dovevano aggiungere le feriae (festività) determinate a livello centrale dall’Urbe e che rappresentavano le feste in vigore per tutte le comunità romane.
Con ogni probabilità, a Brindisi, i pontefici e gli auguri erano raggruppati nei conlegia pontificum augurumque (collegi dei pontefici e degli auguri), i quali erano composti da non più di 3 sacerdoti ciascuno.
Al pontefice spettava la sorveglianza del culto e delle cerimonie pubbliche nei loro vari aspetti, oltre al compito specifico di sovrintendere ai sacra municipalia, ossia ai riti riguardanti divinità
onorate prima che Brindisi diventasse città romana. L’unica divinità indigena di cui è rimasta traccia, ma con il nome assegnatole dai Romani, è Pales2 che fu evocata da Attilio Regolo durante l’assedio di Brindisi.
L’augure, oltre a partecipare a tutte le funzioni sacre, aveva competenza esclusiva negli auspicia che erano delle forme d’investigazione del volere divino. Dal volo degli uccelli (da cui, auspicia da aves specere, osservare gli uccelli) che era il modo più antico d’indagine, dall’osservazione dei tuoni (tonitrua), delle saette (fulmina) e dei lampi (fulgura), vale a dire dagli auspicia caelestia (dai segni del cielo), e dal modo di mangiare dei polli sacri (auguria pullaria) gli auguri interpretavano la volontà degli dèi. Vale a dire se gli dèi erano consenzienti all’azione che s’era in procinto di fare.
In definitiva non si voleva conoscere l’avvenire ma sapere solo che quanto si stava per intraprendere non violasse il patto stipulato con gli dei, la cosiddetta pax deorum.
Tra i privilegi goduti, i pontifici e gli auguri — come per altro i loro figli — erano esentati dall’essere arruolati nella milizia e da obblighi pubblici (munera publica), in più, come i tribuni della plebe, erano inviolabili (sacro sanctius), nel senso che nessuno poteva arrecar loro anche il minimo danno fisico. Il solo toccarli, era infatti punibile con la pena capitale.
Avevano inoltre il diritto di partecipare alle cerimonie indossando la toga praetexta e prendendo posto tra i decurioni, quando c’era d’assistere ai ludi ed agli altri spettacoli che si svolgevano a Brindisi.
Durante le cerimonie sacre, i sacerdoti municipali erano assistiti da personale subalterno, quali i camilli (paragonabili agli attuali chierichetti), il tibicen (flautista), ed i victimarii, personale incaricato di uccidere l’animale vittima nei sacrifici.
Pare che a queste celebrazioni potessero partecipare officianti di altri specifici culti, come, ad esempio, Lucio Pacilio Tauro e Flavia Cypare, rispettivamente sacerdote e sacerdotessa della Magna Mater Cibele e della dea Syriae presso il municipio brindisino, i cui nomi sono stati preservati da due antiche epigrafi.
L’idea di turismo, come filosofia di viaggio può essere ricondotta a una sorte di memoria inconscia della condizione nomade dell’umanità. Molte volte si comincia un viaggio per uscire momentaneamente da sé, fare un giro e ritornarvi; per orientarsi verso qualcosa che ci distragga momentaneamente dal peso dell’abitudine; perché si ha il ricordo e il richiamo di una terra che abbiamo già visitato o di cui abbiamo sentito parlare e per il sospetto che essa potrà essere determinante nella nostra vita. Ma, come quando Ulisse intraprese la sua odissea, è nel corso d’opera, in itinere, che accade l’inaspettato che cambia il corso dei giorni. Ad un certo punto della vita non siamo più noi a cercare i viaggi ma sono loro a cercare noi. La vita non è mai dove è ma dove si arriverà. Una ricerca di sé sempre in partenza, in attesa di un approdo per dipanare la matassa della vita, in cui siamo aggrovigliati e chiusi come in un bagaglio, prima di arrivare alla meta. Quanta ironia c’è nelle carte d’identità, nei passaporti e negli strumenti indispensabili del viaggio: ci sono tempi, luoghi, dimensioni e professioni nelle quali ci si conosce bene, eppure non ci si riconosce mai, perché ogni volta è tutto nuovo, è come ricominciare ogni volta daccapo. Ma che differenza c’è tra il trovare e l’essere trovati? Una diversità che affascina nel momento fondante della propria esistenza, quando l’io riconosce la sua dimensione e la dimensione riafferma l’io; quando l’anima chiama al viaggio sopra ogni cosa, superando anche la paura di smentirsi. Nel viaggio abita l’ironia profonda di non sapere mai a cosa si va incontro e in che modo esso cambierà il percorso della nostra vita. L’anima e la terra sono le note in sintonia a cui l’uomo, in corso di ricerca, dovrebbe evitare di contrapporre l’elemento razionale. E, tuttavia, anche l’Odisseo ad un certo punto del Nostos è combattuto tra l’irrequietezza originata nel bisogno di vagare e di conoscere e la razionalità del ritorno a casa e agli affetti. Tutto sta nell’ambiguità dello scambio, della novità di culture, tradizioni, cibo, persone, prospettive e, nel fine da raggiungere, per mediare la nostra esistenza con la felicità. Potremmo dire che ad un certo punto si è rapiti da un bisogno di avventura e di incognito come quello che rapì la mente del Don Chisciotte di Cervantes che, in groppa a Ronzinante, al fianco di Sancho Panza, si dedicò all’esplorazione delle terre della Mancha.
Il Salento, nel profondo sud, non è mai stato luogo di confine ma piuttosto quel “sud nel sud”, quell’idea di “luogo non luogo” dalla quale è difficile uscire e a cui è altrettanto difficile non tornare. Il Salento è sin dall’antichità quella terra-paese che bisognerebbe attraversare tutta, per poterla trasformare in un racconto itinerante di poesia proprio come nel pensiero di Bodini e di Carmelo Bene che, per consegnare voce e visione a quella poesia dell’amico Vittorio, avrebbe voluto compiere quel Don Chisciotte itinerante nel “Salento della Mancha”. Progetto purtroppo rimasto irrealizzato. ( Nel 1975, siamo stati vicini di casa, io e Carmelo, al secondo piano del palazzo Bozzicorso, in via degli Antoglietta n° 42, dove io abitavo con mia nonna. Ricordo che ero appena undicenne e una mattina ci incontrammo sul pianerottolo mentre lui apriva la porta, di ritorno da uno dei suoi impegnatissimi viaggi, (infatti restò solo pochi giorni) e quella era la casa in cui da Campi Salentina si era trasferito con la famiglia. Vedendo che io sbirciavo curiosa, all’interno, mi fece segno di entrare e io lo feci, mi fermai nell’ingresso e scambiammo qualche parola, era appena morto mio padre. Carmelo era molto gentile e carismatico, una personalità stravagante e immensa, con il senno di poi, (intendo per me che, ancora piccola, non conoscevo la sua importanza). Mi è sempre rimasto impresso quell’incontro. Per i condomini del palazzo non era chiaro se la presenza del “personaggio” fosse gradita o scomoda ma, di sicuro nelle mie memorie ricordo che lo definivano “uno strano”. Proprio la sua città è stata quella che meno lo ha capito e ha riconosciuto il suo talento. Quando mise in scena l’Amleto al teatro Ariston, i leccesi gli furono apertamente ostili e quindi, come dare torto a quell’animo straordinario che sosteneva di « essere nato al Sud del Sud dei santi e che del Salento era orfano»? E questo è forse, uno di quei pochi casi inversi, in cui per concedere libertà all’immenso genio, si ebbe bisogno di lasciare un luogo amato, pur portandolo nel cuore.
Il Salento che Carmelo sognava è una parte di quel sud che con grande fatica, eppure senza sforzo, si era impegnato a raggiungere il resto dell’Italia e dell’Europa dopo la sua unità ma che, pur tuttavia, aveva sempre conservato con onore e gelosia quella piccola distanza silenziosa nel fiume del dialogo con il resto dei luoghi. Ed è stata questa rispettosa distanza che ha permesso al Salento di restare “Il Salento” nei cuori di tutti coloro che l’hanno lasciato e poi ritrovato o semplicemente scoperto. Il Salento degli incontri e degli scontri, della terra e del mare, dell’accoglienza e dell’ascolto, dei tramonti e del dolce naufragare. Delle partenze, dei transiti e dei ritorni.
Forse quel giorno avrò sognato… ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancha, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancho, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure … Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà…”[2].
Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. A maggior ragione se, il “viaggio” è stato nel sud che, con la sua poesia, ti scava dentro, un solco nell’anima che nessun’altro luogo può riempire.
[…] Non era qui sorta, nella Magna Grecia, la prima splendida civiltà? Non erano qui nate, in Palermo e nella Puglia, al tempo di Federico II, la letteratura e l’arte nazionale? Non era sempre questo l’incantato paese «dove fiorisce l’arancio»? Tutti credevano che fosse la terra promessa, colma di tutti i doni celesti, a’quali il mezzogiorno «troppo favorito dalla natura», secondo il Bonghi, «eccezionalmente cospicuo» a detta del Sella, «singolarmente ricco», per bocca del Depretis, «il più bello, il più fertile paese d’Europa», a giudizio del Minghetti, il quale parlando alla camera nel giugno del ’61, metteva in prima linea, tra le inesauribili occulte miniere della nostra fortuna, la nuda steppa, che è tutta un bassofondo marino quaternario, del tavoliere di Puglia: già prima di loro, non lo aveva forse descritto Vincenzo Cuoco, esule a Milano nel 1804, come il «più ferace sotto più dolce clima», e Pietro Colletta presso a morte, in Firenze il 1831, quale «terra ubertuosa sotto cielo lascivo», e Petrucelli della Gattina, profugo a Torino nel 1849, «un paese per cui Iddio esaurì la sua opulenza di creazione»[3]? Il termine “viaggio” nel dizionario indica uno spostamento in cui è dato sempre, un luogo di partenza ed un luogo di arrivo. Ma se fosse un mero spostamento, un transito e basta, non riscuoterebbe tanto interesse da parte di chi lo compie. Attraverso il “Nostos”, in cui si origina la nostalgia, il dolore, la mancanza, la tensione, il desiderio del nuovo o del vecchio già conosciuto, avviene il “ritorno”. Gli occhi di ogni viaggiatore sono importanti per descrivere un luogo, come pure è importante la visione di chi ci vive da sempre e non lo ha mai lasciato, ma niente, e ripeto “niente” è così incisivo come la storia di chi lo ha scelto seguendo una sorte fatale e lo ha abitato per dare un percorso nuovo alla propria vita. Nel caso del Salento, per esempio, non sono né gli abitanti che lo vivono da sempre né i turisti che lo visitano per poi ripartire che ce lo possono raccontare; possono farlo, invece, tutti quei personaggi venuti da lontano a scoprirlo quando ancora esso non era una moda ma, un modo di vivere, fiero e ineguagliabile testimone di tradizioni, libertà e cultura in bilico tra afa e tramontana, scirocco e respiro del mare.
(1 – continua)
Note
[1] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, (a cura di Oreste Macrì), Controluce, Nardò, 2015.
Una delle caratteristiche dei municipi romani – tradizione questa risalente al periodo repubblicano – era l’assenza di organi monocratici, per questo non esisteva il corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. A Brindisi il collegio dei massimi magistrati cittadini si componeva di quattro membri (quattuorviri), ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate.
La prima coppia aveva un ruolo preminente, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli. A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre cose la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle funzioni di culto ed amministrare le finanze comunali.
Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio brindisino per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo la summa honoraria che dovevano versare per assumere l’incarico era particolarmente onerosa. Di conseguenza solo i Brindisini particolarmente danarosi potevano aspirare ad un simile incarico.
Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti tutte le funzioni amministrative riguardanti l’approvvigionamento della città, il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure funzioni di polizia urbana che dovevano consentire una vita pubblica regolata.
Rispetto al presente, però, chi aveva “poteri edili” non poteva accampare scuse di bilancio se c’era, ad esempio, una strada brindisina dissestata, né allargare le braccia per esprimere impotenza. Era costretto a cercare di trovare i soldi necessari allo scopo, magari mettendo mano al portafoglio ed a provvedere in parte a sue spese. Non l’avesse fatto, avrebbe visto evaporare la stima di cui godeva e nessun concittadino sarebbe stato più disponibile a dargli il voto in un’altra occasione. I quattuorviri duravano infatti in carica un solo anno ed erano i comitia, le assemblee cittadine, ad eleggerli. Sicché, chi si era dimostrato in un qualche frangente troppo sparagnino o incapace, non aveva molto tempo a disposizione per far dimenticare la brutta figura fatta. Senza poi contare che non si godeva dell’appoggio di partiti politici compiacenti — in quanto allora inesistenti — in grado di sostenere una diversa, e più favorevole, versione degli avvenimenti. Esistevano sì le fazioni (optimates e populares), naturalmente impegnate ad indirizzare la politica cittadina nel senso desiderato, ma nessun apparato burocratico funzionante a sostegno delle varie candidature. Chi si dava alla politica doveva pertanto contare quasi esclusivamente sulle sue specifiche qualità e sulla cerchia di amici e di clientes per emergere e sui suoi mezzi per mantenersi a galla.
Dai magistrati si pretendeva la diligentia (da dis e lego, vale a dire di scegliere con discernimento) quindi un comportamento scrupoloso nell’adempimento dell’incarico e di non fingere una cosa facendone un’altra (sine dolo malo). E questo atteggiamento solerte e sincero lo dovevano assumere sin dal momento della candidatura che essi presentavano durante la contio. Le contiones erano riunioni dei comitia a carattere consultivo in cui gli aspiranti candidati presentavano il proprio programma politico facendosi propaganda. Ed era proprio in queste occasioni che i cittadini li accettavano come candidati. Da questo momento in poi iniziava il loro andare intorno (ambire da cui il termine ambitus, poi utilizzato ad indicare il reato di propaganda elettorale illecita) nel foro cercando di convincere i Brindisini a concedergli il proprio voto.
Le campagne elettorali soggiacevano a precise norme – dette appunto de ambitu – per evitare che il candidato adottasse forme illecite nell’ottenimento dei suffragi. Come dire che anche allora c’era il sospetto che avvenissero pratiche spregiudicate, tipo il voto di scambio, solo che in antichità prendevano le leggi un po’ più sul serio.
Le norme prevedevano che in un periodo, variabile da uno a due anni1, i candidati non potessero organizzare oppure invitare qualcuno a cena per questioni collegate alla sua candidatura. Né potevano fare doni o regali per lo stesso motivo. E lo stesso valeva per i loro sostenitori, sia che lo facessero perché spinti dal candidato, sia di loro spontanea volontà. Nel caso, erano puniti allo stesso modo candidato e suoi fautori, e la condotta fraudolenta poteva essere evidenziata e perseguita da chiunque (cui volet).
Il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era di sicuro quello più prestigioso e più impegnativo da un punto di vista politico. In pratica, l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, intesi appunto come sequenza delle cariche pubbliche) a livello municipale, anche perché erano loro che, a scadenza quinquennale, diventavano i quinquennales incaricati, come già detto, della lectio senatus. Era questa una carica che aveva un valore speciale per l’antichità, perché collegato a quello che era il bene che più si teneva in considerazione: il proprio buon nome.
A Roma li chiamavano censori, e la magistratura che svolgevano era detta censura, termine che derivava da censeo (valuto ovvero stimo). Pur non avendo poteri militari, giuridici e comunque coercitivi – quelli derivanti dall’avere una carica dotata di imperium – i censori nell’Urbe, ed i quinquennales a Brindisi potevano incidere sulla sfera sociale di ciascun cittadino, decretandone di fatto l’emarginazione. Infatti il loro compito principale era fare i censimenti che, a quel tempo, non avevano scopi puramente statistici quanto piuttosto di stabilire il censo di ciascun cittadino. Di fatto ogni cittadino veniva incasellato socialmente per fissare, in base ai beni da ciascuno posseduti, le tasse da pagare.
Se queste operazioni fossero svolte ancora ai nostri tempi, ci dichiareremmo tutti (o quasi tutti) capite census vale a dire tra chi, non avendo beni di sorta, doveva essere censito solo per la propria persona, sicché non era tenuto a pagare alcuna tassa dovendo essere inserito nel censo minimo,.
Allora invece era motivo d’onore avere proprietà ed essere inseriti nel censo più elevato possibile perché di fatto ne determinava il peso sociale. Così come un decurione ci teneva a non essere degradato, lo stesso valeva per gli equites (cavalieri o equestri), i magnati del tempo, così come per qualsiasi abitante della città, anche il meno abbiente. Il censimento ricollocava pertanto ogni Brindisino nella classe di reddito di spettanza stabilendo il carico fiscale e la consistenza sociale da ciascuno posseduta nell’ambito cittadino.
Di là dall’inserire ciascun cittadino nella fascia socio-economica di competenza, i quinquennales avevano il potere di esercitare la nota censoria, una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù. Una specie di disistima sociale o ignominia che accompagnava gli ignominiosi (così venivano identificati) per i cinque anni successivi, sino cioè al successivo censimento.
Serve ricordare, per curiosità, che anche in antichità sorgevano dispute se questo potere sanzionatorio dovesse essere assoluto o subire un controllo. Sicché, così come ai nostri tempi si discute se sia sufficiente l’incriminazione o la condanna in primo grado o più, per considerare un parlamentare indegno di svolgere l’incarico, allora si litigava se alla base della nota censoria ci dovesse essere o no una condanna che avesse comportato di già la perdita di alcuni diritti civili (deminutio capitis). Ed anche allora c’erano giustizialisti e garantisti. Tra i secondi è ricordato Clodio, fratello di Clodia, meglio nota come Lesbia negli immortali canti di Catullo, che fece passare una legge (lex Clodia de censoria notione) che limitava nel 58 a.C. il potere dei censori ai soli casi in cui ci fosse stata in precedenza una condanna.
Non si conosce — essendo una di quelle questioni sulle quali gli storici non si trovano tuttora d’accordo — per quanto tempo tale norma sia poi rimasta in vigore nell’ordinamento giuridico, certo fu motivo di controversia anche nei secoli successivi.
D’Voornaamste fortresse van Koningryc Napels en Sisielie in Italie è il titolo (nel cartiglio in basso) di una stampa di mappe di 18 città fortificate attribuite a Cornelis Danckerts (1664-1717), pubblicata ad Amsterdam tra il 1635 ed il 1645 e custodita nella Biblioteca nazionale di Francia.
Tre sono dedicate al Salento. Le riproduco di seguito opportunamente ingrandite.
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)
Sulla vicenda complessiva dell’Arneo è opportuno fare alcune considerazioni. Il movimento contadino pugliese, fin dai primi anni del secolo scorso, e in modo clamoroso nel primo dopoguerra, si è sostanzialmente espresso in forme di lotta anarcoidi ed estremistiche tipiche di una regione caratterizzata dalla presenza di una grandissima massa di braccianti e contadini poveri, ai quali i governi che si sono succeduti dall’Unità d’Italia in poi non avevano saputo offrire alcuna seria alternativa alle loro durissime condizioni di vita. Improvvise esplosioni di collera popolare e forme di protesta anarchica e primitiva hanno costituito la forma di lotta tradizionale del bracciantato pugliese che, più che nel riformismo del PSI, aveva cercato una guida, una prospettiva ed un programma nella tradizione massimalista delle Leghe bracciantili che avevano assicurato un discreto consenso elettorale al PSI nelle elezioni del 1919 e del 1921. Nel secondo dopoguerra il movimento sindacale era ancora fortemente condizionato dalla tradizione massimalista che trovava la propria giustificazione nella tragica condizione dei braccianti e dei contadini poveri. Le lotte del periodo 1945-1949 ebbero come obiettivo le rivendicazioni immediate (il pane, il lavoro, il salario) più che i problemi delle riforme di struttura, del rinnovamento dello Stato e delle possibili alleanze di classe. Anche il movimento che si è sviluppato in Puglia tra il 1949 e il 1951, in concomitanza con l’occupazione delle terre in Calabria e in altre regioni del Mezzogiorno, non pose al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra e della riforma agraria generale, con l’unica eccezione del movimento di lotta che si è sviluppato sull’Arneo. Quel movimento ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad analoghi movimenti popolari e contadini della Puglia, ha posto al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra, della riforma agraria generale e delle alleanze con i ceti medi della campagna e della città. La lotta contro il più vasto latifondo borghese del Salento avrebbe potuto costituire un modello per le future azioni di lotta in tutta la regione, ma così non fu, e anzi, all’interno dello stesso movimento sindacale salentino, nella fase di attuazione della riforma agraria, emersero alcune incertezze programmatiche tipiche dell’intero movimento sindacale pugliese che stentava a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge di riforma. I dirigenti politici e sindacali salentini che guidarono il movimento di lotta sulle terre dell’Arneo dimostrarono di aver saputo individuare precisi obiettivi di riforma agraria che i gruppi dirigenti di altre province, come ad es. quelli di Bari e Foggia, non avevano saputo indicare.
Al di là dei risultati immediati conseguiti con la riforma agraria (il numero degli ettari di terre concesse e delle famiglie degli assegnatari, il reddito agrario conseguito dalle stesse, ecc.), è importante sottolineare il dato storico rappresentato dal fatto che la lotta contro il latifondo borghese, condotta soprattutto sull’Arneo e in qualche altra zona del Salento, ha rappresentato l’inizio della fine del regime feudale nelle campagne salentine, un sistema fatto di soprusi e di angherie, di gestione clientelare del mercato del lavoro, di prestazioni servili. Quella lotta ha costituito il primo passo per il definitivo riscatto politico, sociale, morale e culturale delle masse contadine del Salento. Con riferimento alla seconda fase dell’occupazione (1950/1951), così scriveva nel 1977 Antonio Ventura:
[…] i contadini lasciarono l’Arneo, a piedi: le loro biciclette contorte e bruciate erano rimaste sotto gli alberi d’ulivo, simbolo emblematico di una sconfitta che poteva non essere tale. E non lo fu se si guarda a ciò che quel movimento riuscì a conquistare, alle cose che riuscì a chiarire, alle alleanze che fece intravedere come possibili [… ] e se tali furono i risultati ottenuti là dove meno forte e organizzato era il movimento operaio, c’è da chiedersi a quali vette si sarebbe giunti, nel Salento e altrove, se alla lotta per la riforma agraria e per imporre un limite alla proprietà terriera, le zone più forti e le categorie più combattive avessero dato quel contributo che esse potevano dare in particolare[1].
Le riflessioni di Ventura rappresentano uno dei tanti contributi al dibattito sui risultati delle lotte per la riforma agraria che, negli anni cinquanta e sessanta, si è sviluppato all’interno delle organizzazioni politiche e sindacali salentine come in ambito storiografico nazionale. Per quanto riguarda il Salento, la valutazione non può essere univoca. I limiti del movimento appaiono evidenti, e sono costituiti essenzialmente dalla mancata estensione della lotta alla vasta area del basso Salento (dove la stragrande maggioranza dei lavoratori agricoli fu costretta a cercare nell’emigrazione il proprio riscatto economico e sociale) e dalla insufficiente capacità delle forze politiche della sinistra di esercitare un efficace controllo sulla gestione della riforma che, sul piano politico, ha finito col favorire i partiti di governo, soprattutto la Democrazia cristiana. Questo partito riuscì, infatti, attraverso l’uso di strumenti pubblici quali gli Enti di riforma, la Cassa del Mezzogiorno e gli istituti di credito, a legare a sé la maggior parte delle famiglie dei coltivatori diretti. Nel corso di una delle tante cerimonie di assegnazione delle terre d’Arneo, alle quali partecipavano deputati e sottosegretari democristiani, autorità civili e religiose (chiamate queste ultime a benedire le terre concesse), un autorevole rappresentante della DC neretina dichiarava che «la riforma agraria si attua per opera della DC nell’ordine, nella legalità e nella libertà. Si ottiene contro i comunisti»[2].
In quegli anni di grandi passioni politiche e di scontri ideali e ideologici, la DC incassava i risultati di una riforma che sostanzialmente aveva voluto e per la quale, nelle prime elezioni successive all’adozione dei provvedimenti agrari, pagò un prezzo in termini elettorali perdendo voti a vantaggio sia delle destre (Partito liberale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale) sia dei partiti di sinistra (soprattutto il PCI, che nella lotta per la terra e per la riforma agraria aveva impegnato l’intero gruppo dirigente meridionale). Quello che la DC perse nell’immediato sul piano elettorale lo conquistò però sul piano politico nel periodo di media e lunga durata. All’interno della CGIL e dei partiti di sinistra (in particolar modo il PCI) si è sviluppata, negli anni successivi alla conquista della legge stralcio, una complessa e non facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Emergeva la consapevolezza che era stato un errore concentrare la lotta solo sulle terre del latifondo classico senza investire contemporaneamente le immense estensioni degli oliveti condotti in economia dai grossi agrari e con rese produttive largamente inferiori a quelle che si sarebbero ottenute se quelle terre fossero state concesse ai contadini con contratti di compartecipazione. Emergeva, altresì, la consapevolezza che era stato un errore concentrare gli sforzi solo su alcune zone (l’Arneo, la fascia adriatica a nord e sud di Lecce) senza interessare alla lotta le zone del basso Salento (dove i rapporti agrari erano ancora di tipo feudale), e che era stato fatto poco per coinvolgere nella lotta contro i grossi agrari i piccoli e medi proprietari terrieri. All’interno della sinistra si confrontavano due linee diverse di politica agraria, una legata alla piattaforma sindacale dei braccianti, che costituivano la categoria più importante e maggioritaria dei lavoratori iscritti alla CGIL, un’altra che, pur non volendo trascurare l’impegno per quella categoria, sollecitava l’elaborazione di una politica agraria che coinvolgesse nella lotta contro la rendita parassitaria le categorie dei ceti medi produttivi, ai quali occorreva assicurare un forte impegno per la costituzione di cooperative di produzione e consumo, per una politica di agevolazioni creditizie, onde garantire la stabilità sulla terra e la proprietà della stessa a coloni e mezzadri, per la ricerca di sbocchi di mercato che non fossero imposti dalla strategia capitalistica dei monopoli pubblici e privati, per la creazione, infine, di una rete di complessi manufatturieri di lavorazione e trasformazione dei prodotti.
Al di là, quindi, della riflessione sui risultati economici della riforma (siamo d’accordo con quanti sostengono che i circa 17.000 ettari concessi a poco più di quattromila famiglie contadine non possono essere considerati una vera e propria riforma agraria), nonostante tutti i limiti oggettivi e soggettivi emersi dalla conduzione e gestione della battaglia per la riforma, dobbiamo sottolineare come la lotta contro il latifondo borghese abbia costituito uno dei momenti più significativi della storia sociale della provincia di Lecce. Dopo l’Arneo, e grazie all’Arneo, nulla fu più come prima nei rapporti agrari; l’Arneo ha contribuito, infatti, a fare dei braccianti e dei contadini poveri, fino ad allora politicamente e socialmente disgregati, una classe pienamente consapevole dei propri diritti. Dall’Arneo è partito il movimento di rinascita degli anni cinquanta e sessanta, quando i braccianti e contadini poveri hanno conseguito altre significative vittorie, come l’abolizione definitiva del cappuccio e la sua sostituzione col paniere nel lavoro di raccolta delle olive e la trasformazione dei contratti colonici miglioratari in contratti di enfiteusi. Migliaia di coloni, infatti, che avevano trasformato terreni seminativi poveri in vigneto e oliveto, erano costretti (sulla base dei vecchi contratti) a cedere la metà del prodotto ai proprietari, il più delle volte esentati dalle spese di trasformazione e di coltivazione. Il perdurare di tali contratti era insostenibile non solo dal punto di vista della giustizia sociale, ma anche della stessa economia della provincia, perché condannava l’agricoltura alla stagnazione e al regresso, e i contadini all’esodo. Con la loro lotta (sviluppatasi soprattutto alla fine degli anni sessanta) i coloni riuscirono a far approvare la legge sulla trasformazione dei contratti di colonia in contratti di enfiteusi che garantiva la stabilità sulla terra a migliaia di famiglie contadine e consentiva loro di riscattarsi dalla servitù feudale e dal capestro delle scadenze che, il più delle volte, colpiva i lavoratori proprio quando avrebbero potuto raccogliere i frutti di anni di intenso e duro lavoro.
Se la riforma agraria, con tutti i suoi limiti, non ha trasformato la realtà produttiva della provincia di Lecce (tant’è vero che molti tra i primi assegnatari abbandonarono le terre concesse per mancanza di prospettive concrete), il giudizio sul movimento di lotta dell’Arneo deve essere più articolato. Nelle relazioni e nei documenti delle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra si trovano di frequente espressioni come «la lotta eroica dei contadini dell’Arneo», «la gloriosa lotta dell’Arneo», le «memorabili lotte dell’Arneo oramai scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento», dell’Arneo insomma si parlava quasi con toni mitici. Anche nei documenti della controparte padronale e in quelli delle autorità preposte al controllo dell’ordine pubblico si trovano spesso riferimenti all’Arneo, con toni naturalmente diversi. La possibilità o il timore che i lavoratori agricoli di altre zone della provincia potessero fare quanto era stato fatto sull’Arneo costituiva, infatti, un formidabile pungolo a chiudere le trattative e a sottoscrivere i contratti provinciali di categoria. Molti grossi proprietari che avevano lasciato incolti i loro terreni, temendo un’azione di occupazione da parte dei braccianti, effettuarono opere di dissodamento, impiantarono vigneti e oliveti.
Se i braccianti agricoli e i contadini poveri del Salento hanno maturato una chiara coscienza politica lo si deve proprio all’Arneo, la cui vicenda, avvertita come una loro vittoria per avere costretto il governo ad estendere alla provincia la legge stralcio, costituì lo stimolo per ulteriori lotte e per nuove conquiste sociali, economiche e culturali. Oggi, comunque, gli studi e le ricerche per esprimere un giudizio sereno su quella pagina di storia non mancano, e anche la pubblicazione degli atti del convegno organizzato in occasione del 50° anniversario di quelle lotte possono rappresentare un contributo utile ad approfondire una pagina di storia politica e sindacale che è tra le più importanti e significative del Salento[3].
fine
Note
[1] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in F. De Felice, Togliatti e il Mezzogiorno, cit., pp. 331-332.
[2]L’Ordine, organo dei cattolici salentini, del 28/12/1951.
[3] M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit.
La piazza principale del paese era fisicamente suddivisa in due parti a livello differenziato. la presenza di un piano sopraelevato di un gradino che raccordava la “colonna” con il Sedile, sede storica del Circolo cittadino, limitava la parte semideserta che era di esclusiva pertinenza del Circolo per il passeggio dei soci.
La zona più estesa, ma a quota inferiore, compresa tra l’ex Pretura e l’imbocco di via Duomo, era gremita di persone. vi stazionavano i fattori, i caporali e i numerosi braccianti agricoli alla ricerca di un ingaggio e per ricevere le disposizioni necessarie allo svolgimento delle lavorazioni da eseguire il giorno successivo.
l’area più ristretta, nei pressi dell’imbocco di Corso V. Emanuele II, costituiva il luogo d’incontro degli operatori delle altre attività produttive, degli artigiani, dei trasportatori, ed in genere dei fornitori di materiali da costruzione (conci di tufo, tufina, calce in zolle, acqua, ecc. ) In quel luogo, in un arco di tempo limitato a poche ore, venivano assegnati da parte dei maestri, gli ordinativi della fornitura, presso i vari cantieri, dei materiali necessari. Operazioni che, in caso di pioggia, si svolgevano nel locale del vicino bar.
Il trasporto
I conci prodotti venivano trasportati dalla cava fino al luogo di impiego a mezzo di carri (traìno) a due ruote, senza sponde, trainati da uno o, raramente, due cavalli (valenzino).
I conci venivano disposti sul pianale di carico del carro (littera) con modalità costante; generalmente tutto il pianale veniva ricoperto con due strati sovrapposti di conci. Il carico, compreso il peso del conducente (trainieri), veniva equilibrato rispetto all’asse delle ruote per non gravare eccessivamente sulla schiena dell’animale.
L’unità di misura del carico era il viaggio, che corrispondeva a 6 conci da 20 cm o a 4 conci da 30 cm di spessore.
L’andatura dei cavalli era al passo e, per questo, il materiale prevalentemente usato proveniva da luoghi distanti non più di 3-6 km. (una o due ore) dal luogo di impiego. Le cave di tufi erano ubicate nella zona di Torremozza, Tagliate, Corillo, Mondonuovo, ecc.
Un materiale di particolare pregio era la Carparina di Nardò– pietra di colore paglierino e di modesto peso specifico unito a notevole resistenza meccanica; veniva cavata solo da alcuni strati del banco di cava e solo in determinate località.
Anche per il notevole costo del trasporto, l’uso della pietra leccese proveniente dalle cave di Cursi o del carparo delle cave di Gallipoli-Alezio, era limitato a circostanze particolari imposte da motivi statici o decorativi ed alle lastre usate per le pavimentazioni solari (chianche).
Economia della produzione
La caratteristica principale era il riciclaggio di tutti i materiali di scarto: non si buttava niente.
Nel corso del processo costruttivo c’era sempre la possibilità di impiegare i materiali provvisoriamente scartati, tanto che, alla chiusura di un cantiere, spesso, si doveva sgomberare solo l’attrezzatura.
Tutto ciò dipendeva molto dalla diffusa sensibilità al risparmio che coinvolgeva tutti gli addetti, convinti della maggiore incidenza del costo dei materiali nell’economia generale, rispetto a quello della mano d’opera, relativamente a più buon mercato.
Per dare poi un’idea della sinergia che doveva esistere tra il muratore che metteva in opera i conci e lo squadratore che li preparava, cito ad esempio un particolare:
Il muratore, nel mettere in opera i conci di un filare, stendeva preliminarmente con la cazzuola uno strato di malta; tale strato, di spessore longitudinalmente costante, aveva trasversalmente, (per la conformazione della cazzuola con cui inevitabilmente si esercitava una maggiore pressione con la punta che assottigliava di più la malta stesa) uno spessore maggiore sul lato interno rispetto alla posizione del muratore.
Per evitare il fuori piombo della faccia del concio determinato dalla disuniformità trasversale dello strato di malta, era opportuno che la superficie dell’assetto del concio venisse tagliata leggermente “sottosquadro” di qualche millimetro, corrispondente al maggiore spessore della malta che risultava stesa verso l’interno.
Questo accorgimento era importante perché evitava al muratore la produzione di sforzi supplementari necessari per risollevare il concio già “assettato” tutte le volte che era obbligato a ridurre lo spessore eccessivo della malta sul bordo interno dell’assetto, velocizzando contemporaneamente la posa in opera del concio e quindi migliorando la produttività. In effetti, tutte le “astuzie” che venivano adoperate tendevano ad un unico superiore scopo: realizzare manufatti il più possibile perfetti, anche perché la perfezione pagava. Per esempio, la regola di realizzare corsi di muratura senza ondeggiamenti tornava utile non solo perché denotava una migliore qualità, ma anche perché rendeva più facile la costruzione del corso successivo. Infatti, la presenza di una ingobbatura del profilo orizzontale del corso in corrispondenza del giunto verticale tra due conci, a causa del naturale sfalsamento, provocava instabilità del concio superiore che “ballava”, ruotando sul punto di contatto che o doveva essere spianato o produceva un eccesso di pressione con pericolo di frattura del concio.
L’eliminazione del difetto comportava uno sforzo fisico supplementare che, se ripetuto durante la giornata lavorativa provocava un affaticamento che comprometteva la quantità della produzione.
Un breve sguardo sulla situazione dell’epidemia alla vigilia della fase 3.
La curva dei contagi ci narra dell’andamento dell’epidemia e di come essa adesso risulti contenuta, ma non certo sotto controllo. Abbiamo infatti ancora giornalmente quasi un migliaio di nuovi casi, anche se, per il 75%, essi risultano concentrati nelle quattro regioni in cui è attualmente maggiore il contagio: Lombardia, Piemonte, Emilia e Romagna e Liguria.
La tabella fornisce i dati che caratterizzano la storia dei contagi e un valore (% positivi/casi testati) con il quale s’intende cogliere l’incidenza dell’ultima settimana, in modo da poter in un qualche modo evidenziare la situazione attuale delle varie regioni.
Per quanto riguarda la storia, si può rilevare che il tasso di letalità a livello nazionale è pari al 14,13%, uno dei più alti verificati nei Paesi in cui s’è diffuso il Covid-19. In altre parole ci dice che, su mille contagiati, 141 nostri connazionali non ce l’hanno fatta a superare la malattia.
Tra le diverse regioni è la Lombardia che presenta il più alto tasso di letalità (18,28%), mentre se limitiamo l’attenzione al solo Sud, vediamo che è la Puglia a detenere questo triste primato (10,59%).
La Puglia è anche una delle regioni nelle quali sì è fatto il minor uso percentuale di tamponi (1,55%) probabilmente perché ne ha fatto un uso mirato, almeno considerato l’andamento dell’epidemia.
Per valutare la situazione attuale, si sono presi in considerazione i valori delle percentuali di positivi riscontati nei test effettuati nell’ultima settimana e se ne è calcolata la media.
Per la Puglia tale valore è risultato dell’1,41%, come dire che su mille tamponi fatti si riscontrano poco più di 14 positivi. Il che non è un valore molto elevato, tra l’altro molto inferiore alla media nazionale (2,57%).
Le regioni che sembrano da questo punto di vista più in sofferenza, sono: la Lombardia (6,37%), la Liguria (5,56%) ed il Piemonte (4,05%). Il non banale valore del tasso di positività rilevato in queste zone dovrebbe invitare le autorità nazionali e regionali ad adottare la fase 3 con grande cautela.
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