Fra i tanti meriti che il Salento può vantare il meno noto, forse, è il fatto che esso è stato l’ispiratore, per quanto inconsapevole, della nascita del cosiddetto romanzo gotico, un tipi di narrativa in cui l’orrore trova la sua ambientazione nel Medioevo. è, se vogliamo, fatte le dovute distinzioni, l’antesignano del romanzo storico, il cui modello italiano è quello manzoniano, con propaggini che, fatte ulteriori distinzioni, giungono fino ai nostri giorni. Non a caso Horace Walpole (1717-1797), autore de Il castello di Otranto, Alessandro Manzoni (1785-1873), autore de I promessi sposi e e Umberto Eco (1932-2016), autore de Il romanzo dellarosa, ricorrono allo stesso espediente narrativo, fingono, cioè di aver ritrovato un manoscritto medioevale, la cui memoria, in qualche modo, non meritava di andare perduta.
Il castello di Otranto è unanimemente considerato come il primo romanzo gotico.
Pubblicato la prima volta nel 17641, nella seconda edizione, che seguì dopo un anno, e nelle successive comparve la vera paternita dell’opera, che, vivo l’autore, ebbe un numero notevolissimo di ristampe, successo editoriale che dura al momento in cui scrivo. La prima traduzione in italiano risale al 17952.
L’antiporta mostra questa immagine.
Con difficoltà, a causa della qualità di stampa più che per la scadente digitalizzazione, leggo le due firme in basso a destra e a sinistra.
Purtroppo ogni ricerca per saperne di più su questi due artisti, pur con tutte le sostituzioni possibili delle lettere di problematica decifrazione, non ha dato nessuna risposta. Solo una piccola conferma fornisce il disegno (fa parte di una collezione custodita nell’Università di Yale) che precedette la realizzazione della tavola.
In basso a destra (di seguito il dettaglio ingrandito) si legge Joino L e, a parte la conferma della paternità della tavola per quanto riguarda il disegnatore, possiamo dire con certezza, magra consolazione, qual era la lettera iniziale del suo nome.
Rimane la peculiarità della tavola italiana da cui il post è partito, come dimostra quella che è a corredo delle altre edizioni, compresa quella precedente alla nostra, in inglese, ma stampata in Italia3, del 1791, con prospettiva più ristretta che esclude totalmente la vista della Cattedrale.
E così pure, con l’aggiunta in calce della didascalia, nell’antiporta del secondo volume dei cinque che compongono l’edizione delle opere dell’autore inglese uscita appena un anno dopo la sua morte4.
(Il castello di Otranto. Da un disegno originale, come esso ora è nel regno di Napoli). A destra in basso risulta appena leggibile la seconda parola sculp(sit)=incise), facilmente deducibile dal fatto che le tavole di regola recano a sinistra il nome del disegnatore (qui assente), a destra quello dell’incisore.
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1 Col titolo chilometrico The Castle of Otranto, A Story. Translated by William Marshal, Gent. From the Original Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St. Nicholas at Otranto (Il Castello di Otranto. Una storia. Tradotto da William Marshal, gent. dall’originale italiano di Onuphrio Muralto, vescovo della Chiesa di San Nicola di Otranto).
2 Il castello di Otranto. Storia gotica, Molini, Londra, 1795.
3 The castel of Otranto, Printed by Bodoni, for J. Edwards, Bookseller of London, Parma, 1791
4 The woks of Horatio Walpole, earl Orford, G. G. anf J. Robinson, Paternoster-Row, and J. Edwards, Pall- Mall, v.II, London, 1798
In aure melos: d’una sympatica melodia per continuamente curarsi.
Il Tarantismo, fra gesuiti, impostori e commedianti
di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti
Un testo del 1661 mai fino ad ora studiato né citato sul tarantismo, vale a dire su quel complesso fenomeno storico, medico, antropologico, etnico e musicologico su cui nei secoli è stata prodotta una corposa bibliografia scientifica. Il testo, che fa un chiaro riferimento al tarantismo pugliese, è il Pregio XXV ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio, opera del gesuita milanese Ortensio Pallavicino tratto da I PREGI MARAVIGLIOSI DEL SANTISSIMO NOME[1]. Rosario Quaranta, nel suo saggio La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII – XVIII)[2], affronta il tema del tarantismo o tarantolismo nella predicazione sacra. In particolare l’autore propone alcuni testi tratti dalle opere di quattro famosi predicatori dei secoli XVII-XVIII. Di Caspar Knittel (Glatz/Klodzko 1644-Telc 1702), gesuita boemo, famoso predicatore, matematico e filosofo, propone l’opera Conciones Academicae in precipua totius anni festa[3], ovvero “Discorsi accademici per le principali feste di tutto l’anno”, stampato postumo nel 1718 a Praga. «Abbiamo ritrovato, con nostra grande meraviglia», scrive l’autore, «un discorso dedicato alla “Festa della Visitazione della Beata Vergine Maria” in cui egli si serve con disinvolta arguzia (ma non sappiamo con quanta efficacia da un punto di vista spirituale e pastorale) appunto della nostra Tarantola per costruire un discorso strabiliante rivolto “a sollievo e a utile diletto per tutti gli amanti della parola di Dio” e specialmente alla prima nobiltà e a tutti gli Accademici che si riunivano per ascoltarlo nell’Auditorium»[4]. Secondo Knittel, la Tarantola è «il Peccato Originale, anzi ogni peccato mortale, perché, come afferma San Giovanni Crisostomo “il peccato lascia nell’anima un veleno”»[5].
L’altro predicatore è il cappuccino fra Girolamo da Narni, al secolo Girolamo Mautini (Narni 1560 – Roma 1634), con la sua opera Prediche fatte nel palazzo apostolico (Roma 1632)[6]. «Con Girolamo da Narni la tarantola diventa protagonista di una predica tenuta nel palazzo apostolico vaticano, addirittura nella “corte Romana”, alla presenza del pontefice, in un mercoledì della terza domenica d’Avvento di un anno dei primi del Seicento. Argomento della predica è l’insuperabíl costanza del Battista, il quale, richiesto se fosse lui il Messia che gli Ebrei attendevano, seppe resistere con fermezza alle lusinghe dell’adulazione come un monte intorniato da venti da gli Euri da gli Austri. È proprio sulla suggestione che l’adulazione può provocare nell’animo umano, al punto da far perdere la reale consapevolezza delle proprie virtù, capacità e limiti che si inserisce la lunga digressione sulla tarantola»[7].
Quindi Mario de Bignoni (Venezia, 1601- 1660), noto anche come Mario da Venezia, predicatore cappuccino del Seicento, il quale scrive, fra le tante opere, I Serafici splendori[8]. Da quest’opera è tratto il brano dedicato alla tarantola, “precisamente dalla predica dal titolo: IL MARE CONGELATO. Gieroglifico de’ danni del Peccato, recitata nella terza Domenica di Quaresima”[9].
Ancora un altro autore è Luciano Montifontano (Lucien de Montafunertal, 1630-1716) frate cappuccino, che si occupa della tarantola nel libro di Sermoni domenicali e del Quaresimale[10]. Si tratta di un “discorso tenuto il mercoledì dopo la domenica di Passione sul tema: Tarantulae malum in viduis (la malattia della tarantola nelle vedove) sulla base di una citazione tratta dalla prima lettera di S. Paolo a Timoteo: Vidua quae in deliciis est vivens mortua est (la vedova che è nei piaceri è una morta vivente)”[11].
Veramente interessante notare come l’omiletica si fosse impossessata di un argomento che certo di sacro aveva ben poco, curvandolo a fini teologici.
E tuttavia Quaranta non cita il brano qui presentato[12].
Il milanese Ortensio Pallavicino (1608-1691) entrò nella Compagnia di Gesù nel 1624, insegnò retorica, filosofia e teologia nel collegio di Brera; compose panegirici latini e trattatelli dottrinali e devozionali[13]. In tutte le sue prediche raccolte nel libro spesso fa riferimento alla musica a fini retorici, in particolare nella predica Pregio XXV in cui, dopo essersi sinteticamente soffermato sugli elementi musicoterapici negli autori classici a partire da Pitagora, “Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè”, giunge poi a descrivere efficacemente il fenomeno del tarantismo – “stravagante e prodigioso il morso di quel ragno pugliese”-, attraverso un climax retorico che partendo dagli effetti malefici del morso della taranta e curativi della musica, procede con l’instaurare una similitudine tra la taranta e il peccato fino ad approdare ad una costruzione allegorica secondo cui vita è uguale a ragnatela dove s’annida perniciosa la taranta (ovvero il diavolo): “questa a vita una tela di ragni velenosi”. I mortali vengono aggettivati come “attarantati” che in quanto tali necessitano del suono salvifico della parola “Gesù”: “habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV in aure melos”. La musica è quindi la più efficace cura nel tarantismo. Rimanendo nell’ambito semantico-medico, Pallavicino più oltre scrive: “Et è l’istesso essere GIESU Salvatore e Salute che l’essere Medico e Medicina di tutti i nostri mali”[14].
Pallavicino spiega nella sua trattazione come il suono del nome Gesù sia per lui dolcissimo più di qualunque altro, paragonandolo ai cori angelici e lasciandosi trasportare nella sua esposizione dalla contemplazione estatica del mistero divino che gli fa trovare vibranti espressioni di giubilo. “È ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio”. Fa una lunga disgressione sugli effetti benefici della musica nei padri della chiesa [pp. 318- 321] e parlando dei filosofi, appunto dice:
Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè, che nella sua divina storia haveva descritto nella creatione del mondo la fabrica de’cieli fatta dall’onnipotente archetypo amore, concepì altissimo sentimento delle cose celesti. Ammirava il bell’ordine della successione della notte al giorno, la corrispondenza del maggiore, e minor luminare, la bellezza di quelli eterni pyropi, il pregio di quelle sfere d’incorrottibile zaffiro, gl’influssi, e movimenti di quel mondo fourano intorno a noi sempre pellegrinante, il regolato concerto di tanti maravigliosi oggetti, e gli pareva di sentire una sò quale harmonia, che di continuo gli feriva l’orecchio, e che quelle intelligenze motrici fossero innocenti cantatrici sirene. Ma in realtà, era un’intellettuale, e non sensibile harmonia sentita, e goduta dall’anima, a cui porgeva sommo diletto l’harmonioso concerto della providenza creatrice delle celesti maraviglie. Altra harmonia più che celeste fa sentire il nome sagratissimo di GIESV, mentre rappresenta non quello, quello, che dies diei eructat verbum, non quella, che nox nocti indicat scientiam, ma l’istesso Verbo increato fatto huomo, in quo sunt omnes thesauri sapientia,&scientia Dei , sussistente in due nature divina , & humana , quel Verbo ineffabile, che ha portato in un certo modo il cielo interra, e la terra in cielo: non il continuo pellegrinaggio delle sovrane sfere, mà l’immenso giro de’ meriti infiniti dell’unigenito Figlio di Dio [p. 322].
Una prosa infervorata, ridondante, barocca, come si può constatare, nello stile dei più ispirati predicatori del passato, i quali puntavano proprio sugli artifici retorici per colpire l’uditorio. Se pensiamo che il primo obiettivo dei predicatori era l’ammaestramento dei fedeli e che l’arma principale di cui essi disponevano era proprio l’ars oratoria, si comprenderà facilmente come i più bravi di essi fossero coloro che meglio padroneggiavano una simile arte, codificata in famosi trattati nella letteratura latina a partire da Cicerone e Quintiliano, fino a Sant’Agostino.
Pallavicino procede analizzando i riferimenti musicologici-musicoterapici in San Francesco e nella Grecia classica: Platone, Orfeo, Timotheo, Alessandro il Grande, Origene, ma sempre come contrappunto al “melodioso nome di Gesu” [pp. 323-328]. Scrive:
È stravagante, e prodigioso il morso di quel ragno pugliese, che con nome di tarantola comunemente s’ apella. Fà una ferita tanto occulta, e infonde un veleno tanto traditore, che il ferito, e avvelenato non se ne accorge. E veleno mortale sì, ma di longa vita: violento sì, perche micidiale, mà lento, viaggiando longo tempo prima d’arrivare al cuore: maligno, mà tanto codardo, e poltrone, che non vi uccide, anzi non dà segno, se non dopo molti / mesi de’ suoi interni assassinamenti fatti alla strada contra incauti, e sopiti passaggieri Mà più maravigliosa è la cura, curandosi i colpi mortali di questo picciolo malefico assassino di strada con l’harmonia del suono, ogni volta, che si truova una tale melodia, che sia sympatica col misero infermo, e si confaccia al suo genio; quasi che con un’ incantesimo innocente si disfaccia il nocevole. Siamo tutti miseri figli de gl’huomini nel pellegrinaggio per lo deserto infelice di questa vita attarantati mentre in particolare stiamo poco cauti, e in qualche modo sonnacchiosi. Ella è questa a vita una tela di ragni velenosi. Ova aspidum dice il santo, profeta ruperunt, telas aranearum texuerunt. Ogni anno della nostra vita è una tarantola che ci da un morfo homicida. co’l veleno a tempo. Ma quel, che è peggio, se non siamo svegliati, e cauti, resta anche l’anima attarantata da morsi scelerati, e maligni delle infernali suggestioni. Si che habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV inaure melos, ogni volta amiamo l’istesso GIESV; non essendo altro la sympathia, che il concorso di due vicendevoli amori, e se non manca il nostro, il suo non può mancare, perche egli è tutto infinito amore verso di noi. Eius nominis potentiam dice S. Giustino Martyre dæmones tremunt, e meglio la bocca d’oro di Giovanni Chrysostomo. Huiiusmodi incantatio non folum draconem a spelunca abigit, e in ignem coniicit, fed & vulneribus quoque medetur. Ufi pure l’astuto nemico con buggiardo, e traditore veleno tutta la malignità dell’arte sua. Si mens parata reperiatur disse quel Santo vescovo, Ut nomen Domini IESV serventi memoria retineat, et hoc sancto, gloriosoque nomine, tanquam armis adversus dolos usa fuerit, recedet diabolus fallax. S’hanno da vincere i demoni dell’inferno, come gl’effeminati Sibariti, con la melodia del canto, e del suono del dolcissimo, e potentissimo nome di GIESV. E che scioperaggine è la nostra havere nel solo nome di GIESV piamente proferito, e santamente invocato una bellissima musica di paradiso insegnataci dal divino amore, un’ harmonia più che celeste, che rallegra l’anima in qualunque stato d’afflittione, ch’ella sia, e la solleva alla melodia sovrana della trionfante città di Dio che accorda in’ pacifica consonanza gl’affetti nostri fra se più discordi, e di noi giurati nemici: che ci libera con pio, & innocente incanto dall’occulto veleno dei serpenti infernali che tutti i nostri nemici abbatte, e vince; e trascurare ingratamente favore sì segnalato, e gratia si incomparabile lo mi maraviglio più tosto, che ciascuno non desideri d’essere tutto anima, e lingua per amare, e lodare continuamente questo santissimo nome del Signore Iddio; almanco come con tutte le potenze dell’anima sua, tutti gl’affetti, tutti i pensieri, e tutte le membra del corpo, come con tante bocche eloquenti sempre non lo benedica co’l santo profeta Davide dicendo. Benedic anima mea Domino, & omnia, que intra me sunt nomini sancto eius. Facciamo dunque conforme il santo avviso al defimo, psallite nomini eius, quoniam fuave. Egli è il nome santissimo di ĠIESV soave, cioè una soavissima melodia d’ogni più ben concertata harmonia, diamoli perpetue lodi, e benedittioni, & assicuriamoci, che goderemo un’anticipato paradiso anche in questa terra; perche altro esercitio nõn hanno i beati cittadini delle celeste Sione, che lodare, e benedire il nome del suo Signore, & il nome di GIESV, che è il più dolce, & il più sagrosanto de ‘loro eterni cantici ; intimandosi a tutti, quando stanno per entrare in quella patria d’ogni bene, che questa farà la loro gloriosissima occupatione per tutti i secoli de’ secoli[15].
Fra oratoria biblica e citazioni latine Pallavicino mira a convincere il lettore di quanto sia melodioso il nome santissimo di Gesù, alla cui invocazione spira una musica di paradiso che riporta la serenità all’anima travagliata. Il suono di questo nome libera l’uomo dalle pene e dalle afflizioni quotidiane, perfino dal peccato, “l’occulto veleno dei serpenti infernali”, tanto che il religioso si chiede come mai ciascuno non desideri essere tutto anima e lingua per potere questo nome continuamente santificare. C’è la lezione di Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa, Crisostomo, tutti per altro citati, certamente quella di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino, ma si avverte soprattutto l’influenza della grande predicazione cristiana dovuta agli ordini religiosi medievali, su tutti i domenicani ed i francescani, grazie alla cui opera l’omiletica raggiunge la più alta perfezione, diviene prosa d’arte, in massima parte per l’interpretazione allegorica dei testi sacri: si pensi solo a Sant’Alberto Magno o a San Bonaventura da Bagnoregio, campioni di stile in questo campo. I sermoni che vibrano sulle bocche ispirate dei predicatori del Cinquecento e del Seicento sanno toccare le corde giuste di un uditorio predisposto, con un misto di esaltazione e ammonimento, sono come delle macchine di alta precisione, colpiscono nel segno, centrano l’obbiettivo della catechesi. Forse un punto di riferimento per il Pallavicino fu Egidio da Viterbo (1469–1532), cardinale agostiniano, il più grande predicatore dei suoi tempi, il quale grazie ad una straordinaria cultura multidisciplinare riusciva a confezionare dei sermoni che erano capolavori di oratoria sacra in cui disseminava citazioni dalle più svariate fonti, sacre e pagane, sortendo un effetto di corrispondenza ed entusiasmo nei suoi ascoltatori.
Non mancano altri passi in cui il gesuita, rifacendosi alla letteratura patristica, riprende il paragone Gesù-medico[16].
Un altro esempio di uso omiletico del tarantismo ci è fornito dal gesuita francese Etienne Binet (1569-1639) che nel 1615 pubblica in Francia I fiori dei salmi, tradotto in italiano nel 1661. In quest’opera, che è un commento dei salmi, il religioso invita il lettore a scegliere il versetto che si addice al proprio peccato ed è qui che si instaura la similitudine con il tarantismo:
quanti versetti, tante herbe medicinali per guarire le malatie dell’Anime nostre, che sono le passioni: Sciegliete quelle, che fanno à proposito per voi, e per il vostro humore peccante. Quelli, che sono morsicati dalla Tarantola, non guariscono, che per mano dell’harmonia pare un miracoloso ragguaglio il raccontarlo; e pure egli è verissimo, che talhora un bravo suonatore di liuto doppo, che hà fatto parlarė li suoi deti,e toccate mille ricercate, e canzoncine, se fi avviene in una per buona. forte che ferisce lo spirito della malato, lo guarisce, e ciascuno amalato vuole un suono particolare per il suo male”. Crea quindi il paragone peccato-demonio-tarantola:“noi tutti siamo stati morsicati mortalmente dalla Tarantola d’Inferno colà nel Paradiso, e che il peccato originale hà sconcertata tutta la bella, e dolce harmonia dei nostri corpi & anime?.
Il profeta Davide viene presentato come un dono di dio che con i salmi cura i peccatori come il musico cura gli attarantati[17]. Tra i mali indicati dal gesuita da sanare con i salmi appunto “vi sono divotioni bellisime per i Cartusiani” [Cartesiani][18].
Un caso di uso poetico barocco dell’exemplum del tarantismo ci è fornito dal gesuita e panegirista napoletano Giacomo Lubrano (1619-1693). Sotto lo pseudonimo di Paolo Brinacio, Lubrano, nelle sue Scintille poetiche, pubblica il sonetto La Musica Rimedia in parte a lor tossico[19]. Dello stesso Lubrano è un sonetto, Stravaganza velenosa della tarantola, che sempre in forma poetica ma senza finalità retoriche descrive gli effetti del morso della taranta pugliese: “De l’Appulo terren rettile maga, / picciola Erinni in velenosi umori,/ onde apprendesti ad eternar la piaga ,/ viva al ferire e postuma ai dolori ?// Mordi insiem e tradisci ; e pur non paga / di tesser bave e vomitar malori/ fai che di novi spasmi presaga/ […] Oh di strega natura empi dispetti !”[20]. Osserva Mina che il poeta “affianca il tossico dei ragni alle potenti fiamme estive, mostrando infine le piaghe della Ragione, la vana ambizione di ridurre fedelmente la realtà, che invece sfugge con inganni e i suoi enigmi”[21]. Va tenuto presente, come osserva Santoro, che la «cultura barocca considerava le malattie fisiche e mentali come l’espressione della presenza e “dissonanze” che facevano del corpo degli uomini una sorta di strumento male -accordato da sanare con una giusta intonazione coreutico-musicale»[22].
Un altro predicatore e apprezzato teorico, stavolta teatino, è il vescovo di Tortona Paolo Aresi. Si deve a lui, come evidenzia Doglio, l’ “archetipo” della “«predica a impresa» […] costruita su una «immagine significativa», simbolo o oggetto simbolico a valenza metaforica multipla”[23]. Aresi nel 1624 riprende il tema degli effetti del morso della taranta, “nelle parti della Puglia”, che si cura con la musica, che per l’infermo “ha diversa simpatia per diversi suoni”, quindi instaura l’analogia “tribolatione”- taranta: “Ne tutte con una sorte di suoni si risanano, altra canzone suonar bisogna al povero altra all’infermo”, e il predicatore si presenta al pari di un musico che sperimenta i vari suoni per infine concludere sull’unico suono salvifico:
ho fatto sentire varie corde hor il canto dell’amor divino , hor il basso della sua giustizia, hor il tenore della sua providenza, e hor l’altre dei suoni diversi attributi, Vi ho cercato diverse canzoni , della charità, della speranza, della fede, dell’utile, del dilettevole e dell’honesto, Non credo dunque vi sarà attarantato, che non habbia udito suono corrispondente al suo male”[24].
Il tema demonio-taranta non è certo originale, come segnala Luisa Cosi; lo ritroviamo in una tarantella a cinque voci con violini: Per la Nascita del Verbo di Cristoforo Caresana (Napoli 1670), quando era universalmente riconosciuta l’efficacia della iatromusica: “Il ragno apulo viene identificato con Lucifero, tarantola d’abisso tarantola ribelle, con suggestiva insistenza di certe relazioni simboliche (nido, ragno d’oscurità, pianti, tremori …) fra demonologia e rito attarantato. Dimostrazione efficace di certa capacità controriformistica di accomodarsi alla cultura del popolo, attuando un traslazione di significati”[25]. A p. 120, nota 22, è riportato il testo: “Tarantola d’abisso, empio serpente [ …] Tarantola ch’in cielo il nido avesti ma per troppo volar cadesti […] Tarantola ribelle, fulminata or che in terra la luce è nata”. Le cantate natalizie, come osserva Catello, “fanno esplicito riferimento al ritmo della tarantella e della tarantola, metafora dello spirito infernale che verrà cacciato sprofondando negli abissi”[26].
Anche nella letteratura spagnola si assiste ad una progressiva trasposizione retorica che unisce il tarantolato al demonio che nella drammaturgia del XVI secolo avrà grande fortuna, come documenta Casciano, tanto da fare della tarantata “un possibile archetipo”[27]. Spedicato individua nella presenza dell’episcopato spagnolo la via di trasmissione delle conoscenze del tarantismo pugliese in Spagna[28]. Tralasciando le molteplici trasposizioni drammaturgiche, che come è facile supporre sono il più naturale approdo delle manifestazioni del tarantismo, scevre di ogni implicazione clinico-patologica, il tarantismo stesso si può sinteticamente definire, come fa De Giorgi, una specie di “dramma sacro teatrico”[29].
Possiamo ora prendere in considerazione un certo uso retorico del fenomeno che ci è presentato da Scipione Ammirato, in due contesti differenti, quello poetico e quello della trattatistica. Il poeta, la cui ispirazione è sopita da altri impegni mondani, secondo un topos letterario, si rianima per aver ricevuto una lettera -il mittente è Angelo di Costanzo- con l’invito di portarsi a Napoli e intraprendere la redazione dell’opera Delle famiglie nobili napoletane, e come succede per un tarantato all’udire una certa melodia, anche in lui si ridesta l’ispirazione: “Vedeste un qua quì vui / Vecchio , o fanciul ,che mai l’avesse morso/Quel verme che taranta appeliam nui ; quando gran tempo è già passato e scorso,/se avvien poi che la cornamusa intenda, / Quasi Baccante agevolarsi al corso, /e porsi in sul ballar ? Simil comprenda / Chi’io mi divenni: e saltellarmi il core /sentì più di una volta entro sua tenda”[30]. Ma Ammirato ricorre all’analogia suono-taranta in un’altra sua opera, i Discorsi intorno a Cornelio Tacito (Libro III, Discorso II), laddove il buon governante è paragonato a un medico in grado di saper diagnosticare il male e curarlo con gli opportuni rimendi: “Conviene esser ricco di rimedi, perche cosi non nuoca coi troppo leggieri, come farebbe coi troppo aspri; nella qual quantità di rimedi ; mi occorre di raccontare per ispiegar bene il mio intendimento, come si medica il mai della tarantola in terra d’Otranto”, e continua “Cerchi dunque, & procuri la carità del buon Principe di trovare il suono , & il modo appropriato a i gravi mali onde giace inferma la sua Repubblica”[31].
Un’altra drammatizzazione, che trae origine da situazioni reali, è quella del tarantolato che si finge tale per accattonaggio e per ottenere elemosine, fenomeno molto diffuso anche in Italia, come scrive il domenicano Giacinto Di Nobili (1594-? ), sotto lo pseudonimo di Frionoro:
Fingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da cui son nominati), ed esser caduti in quella infirmità, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa, tremano con le ginocchia; spesso al suono cantano o ballano”, quindi chiosa amareggiato l’autore: “piacesse a Dio che io avessi guadagnato tanto in questo anno con li miei sudori, studj e fatiche, quanto questi furbi si portano alla patria [Puglia]”[32].
Infatti, in particolare nel teatro del XVIII secolo è frequente il personaggio che per opportunismo si finge tarantato/a mentre nel contempo diventa sempre più ricca la letteratura negazionista del tarantismo[33]. Pini e Frionoro ci offrono un esempio di approccio critico al fenomeno del tarantismo attraverso un’ottica satirica: anche in questo caso non mancano esempi d’autore di approcci agli effetti del morso della tarantola ad incominciare da Anton Francesco Doni che, attraverso il topos del viaggio nell’oltretomba e la visione del mondo ultraterreno, denuncia “gli inganni e i pericoli del mondo, in una prosa eccentrica e umoristica, volta alla rappresentazione allegorica della condizione umana”[34]. Per il nostro studio, è interessane un cameo sul tarantismo che ritroviamo nelle pagine dell’Inferno de’ mal Maritati e delli amanti. L’oggetto di “burla” è il matrimonio mal riuscito di chi non più giovane sposa una donna di piacevoli fattezze, tra satira e velati doppi sensi. Il tarantismo diventa metafora dell’amore non sempre disinteressato:
Ella è una mira che ciascuno vi radrizza l’occhio, tutti sospiran per lei [giovani, i ricchi , i galantuomini] i poeti con parole che espugnano il cielo , non che una donna aguzza l’ingegno di qua, e chi di là; tanto il suono della sua tartantola ; perché i versi son tanti che egli è forza che fa salti per qualche uno la liberalità, e un balletto dilettevole, l’oro ha il diavolo addosso, la giovinezza piace la bellezza non si disprezza”[35].
Un anonimo autore pubblica nel 1738 La rete de’ matti ordita (96 pagine) che con tono chiaramente ironico se non satirico dileggia l’astrologia e gli astrologi. Nel titolo stesso troviamo un primo riferimento al tarantismo, la “rete”, ma dopo l’avviso al lettore si promette l’uso della “Sapienza e della perfetta morale” che sono l’antidoto contro il veleno della Pazzia; anche qui i rimandi all’armamentario del tarantismo sono impliciti. Apre la sua trattazione dichiarando l’analogia tarantati-astrologi come due categorie di “Matti”:“Evvi una specie d’ insetto, che chiamasi da Latini Falangium, e dagl’ Italiani comunemente, Tarantola Si genera in qualche Paese caldo in specie nella nostra Puglia”. Quindi descrive le manifestazioni coreutiche del fenomeno soffermandosi sul fatto che tali manifestazioni spesso si concentrano in un dato giorno dell’anno: “Qui però non è tutto il mirabile di questi avvelenati, perchè ogni Anno, almeno per una volta, da lor risentesi il furore medesimo”: qui l’autore scrive di aver visto egli stesso degli “ attarantati “che ho vedu to anch’ io gli Attarantati, ed holli veduti annualmente replicare i furiosi lor balli”; ma, come chiarisce dopo, questi tarantati sono gli astrologi agitati all’approssimarsi della periodica apparizione di una certa formazione astrale[36].
Un esempio di dramma sacro, La Fenice d’Avila Teresa di Giesù, di Giuseppe Castaldo, musiche di Francesco Provenzale, in 3 atti, ripercorre la vicenda della monacazione contrastata di Teresa D’Avila. Tra i personaggi, il demonio tentatore che assume varie sembianze, ma anche Rodrigo, “un amante che in segreto soffre tace”, due popolani, ovvero Ciccotto Napolitano e Giampetro calabrese, i quali, sparsasi la voce del futuro matrimonio di Teresa, si preparano a recarsi alle nozze per approfittare del pranzo – “s’unchia la panza”-, presentandosi come musici. Passano in rassegna i vari balli e strumenti musicali per l’occorrenza e poi, per bocca di Giampetro, “Vajia la tarantiella/ che è la più bella”. Con la “Tarantella” eseguita da Ciccotto, Giampetro e il coro, si conclude, con la scena XVI, l’atto II:
Tarantola d’amore è un bel sembiante/Che lo core mi va pungendo /Tirititiritommola, /Che lo core mi và pungendo, e non le piante, / E lo punge senza pietà, /Tirititiritommola,/Tarantola mmardetta, e quando Scumpe?/E lo cuollo non te lo rumpe, /Tirititiritommola, /E lo cuollo non te lo rumpe, /Mamma mia, ca ntroppeca: / Chi me lega m’asciogliarrà, /Tirititiritommola. /Tarantula m’afferra a lu ienucchiu,/ Lu talluni mi muzzicau, /Tirititiritummula. /Lu taluni mi muzzicau, e mo gunucchiu/Non mi pozzu chiú frizzicà, Tirititiritummola./Tarantola d’amore è gelosia,/Che pian piano rodendo và, /Tirititiritommola./Che pian piano rodendo và la vita mia, /Gran veleno è la beltà. Tirititiritommola/ Tarantola me sciacca, e vò, ch’abballa, /Statte fitto te rumpe la spalla, /Tirititiritommola/ Amore me fa mpazzire, ahi cecavoccola /Me fa fà capotommola,/ Tirititiritommola. /Taranta mi grattughia a cuzzicuni, /E mi vinni la smangiasumi, /Tirititiritummula./E mi vinni la smangiasumi a li piduni, /Non mi stari chiù a stridià, /Tirititiritummula./ Tarantola vi batte, e dà tormento. /N’è tarantola nò, tirititiritommola, /N’è tarantola nò, ch’è abbattemiento: /Singhi aucisu. /M’havifte à sciacca, Tiritiritommola/[37].
Il testo di Castaldo non è che un esempio del fenomeno di “spettacolarizzazione che ha portato a Napoli i santi a teatro, soprattutto nella seconda metà del Seicento”[38]. La scena della tarantella era già stata da Castaldo rappresentata nella commedia dedicata a santa Rosalia (1670), ovvero Lacolomba ferita, che ambientava le vicende di Rosalia nella fastosa corte di Ruggero II. Anche in questo caso le musiche sono di Francesco Antonio Provenzale (1632-1704), “uno dei maggiori compositori d’opera e musica sacra del Seicento e tra i maestri più influenti nella catena didattica napoletana”[39].
Quelli proposti sono solo testi esemplificativi della capacità pervasiva del tarantismo che ben si presta a svariati usi e strumentalizzazioni[40]. La bibliografia è sempre in aggiornamento ed è facile restare impigliati nella sua rete tra dotte citazioni, plagiari di ogni epoca e sorte e contemporanei “tarantologi”, per finire di malavoglia come novelli Padron ’Ntoni andando “ tutto il giorno di qua e di là, come se [si ] avesse il male della tarantola”[41].
[3] Conciones Academicae In Praecipua totius Anni Festa: Ad primariam Nobilitatem, populumque Academicum, Pragae In Auditorio Academico, ab Authore dictae: Opus posthumum (Pragae 1707, 1711, 1718, 1722).
[4] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 2.
[5] Il curioso discorso sul “salto” della Tarantola del gesuita Caspar Knittel anche in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/25/un-curioso-discorso-sacro-sul-salto-della-tarantola/
[6] Prediche fatte nel palazzo apostolico dal M. R. padre F. Girolamo Mautini da Narni vicario generale dell’ordine de frati minori cappuccini terza editione Romana, 1639. Il libro, oltre a quella del 1632, ebbe diverse ristampe: a Venezia (1637) a Roma (1639) e a Parigi (1637).
[7] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 9.
[8] I Serafici splendori da gli opachi delle più celebri accademie e rilucenti tra l’ombre di vaghi geroglifici compartiti in concetti tratti dalle divine lettere, contrapuntati dalle professioni humane per li giorni ordinari di quaresima, noto anche come Quadragesimale, edito a Venezia nel 1649 e poi nel 1651, 1654, 1660, pp. 183-196.
[9] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 12.
[10] Sacrarum moralium concionum Dominicale, nec non Quadragesimale, quae tanquam aera minuta duo cum vidua paupere in ecclesiae Gazophjlacium primo deponit humiliter a. v. p. lucianus montifontánus Ord. FFr. Min. S. Francisci Capucinorum in Provincia Anterioris Austriae Sacerdos Concionator, Typis Ducalis Monasterij Campidonensis, Anno 1688, pp. 107-113.
[11] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p.15.
[12] Come pure non è citato in D. Rota, I Gesuiti eleTarantole, Lucca, Libreria musicale italiana, 2012. Nella lettura del tarantismo anche in ambito musicale, imprescindibile riferimento è il gesuita Athanasius Kircker (1602-1680), di cui si occupa la stessa Rota.
[13] Si veda: C. Sommervogel, Bibliothèque, IV, coll. 115-117, e XII, col. 1176, cit. in G. Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 217, nota 6. Ortensio Pallavicino fu chiamato a gestire la difficile posizione dei correligionari padri gesuiti vicini al movimento quietista dei Pelagini, che era stato tacciato di eresia. Questo movimento spirituale fu fondato dal laico Giacomo Filippo Casolo presso l’oratorio milanese di Santa Pelagia a metà del Seicento e si diffuse in Veneto e in Lombardia, caratterizzandosi per un’intensa attività devozionale basata sull’esercizio collettivo: Cfr. L. Roscioni, L’eresia della preghiera. Gesuiti e Pelagini tra Lombardia e Veneto nel Seicento, Ediz. Critica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021.
[14] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.
[15] Nelle trascrizioni si riporta esattamente la grafia originale del testo, senza alcun emendamento.
[16] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.
[17] La figura evocata dai predicatori è sempre Davide con riferimento alle valenze terapeutiche della musica, secondo quanto riporta il Primo libro di Samuele: “quando dunque lo spirito sovraumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui”. Samuele, I, cap .16, v. 23, in La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale CEI, Roma, Edizioni San Paolo, 1980, p. 246. Quanto invece a San Paolo, è ben noto l’episodio che ne giustifica il ruolo nel tarantismo ed è riportato negli Atti degli Apostoli, cap. 28, vv. 3-5: “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. La Sacra Bibbia, cit., p. 1116. Su tale episodio si innesta il rapporto San Paolo –Taranta: Cazzato e Vallone evidenziano come tale “equazione” si afferma nel Settecento e consolida nell’Ottocento a scapito di San Pietro che come documentano i due studiosi era in passato riconosciuto come protettore dai morsi della tarantola. M. Cazzato, Da San Pietro a San Paolo. La cappella delle “tarante” a Galatina, Galatina, Congedo Editore, s.d., p. 27, e G. Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso: dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Pref. di G. Galasso, Galatina, Congedo, 2004.
[18] [Petronio Ferrifiori], Fiori De’Salmi, Et Affetti D’un’Anima Santa. Con Due Modi Per Viuere in Gratia Di Dio, & Essere Sempre Contento. Composti Dal P. Stefano Binetti Della Compagnia Di Giesu’, Venezia Appresso Nicolò Pezzana, 1661. Scrittore gesuita, nato a Dijon, Francia, nel 1569, Binet morì a Parigi nel 1639. Entrò nella Compagnia di Gesù nel 1690 e fu rettore dei collegi di Rouen e Parigi, e provinciale di Parigi, Lione e Champagne. Fu amico di San Francesco di Sales: Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) bio-gráfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Madrid, Universidad Pontificia Comillas, Roma, Insititutum Historicum Societatis Iesu, 2001, p. 950. Come scrive Pellandra, “Binet è uno di quegli autori gesuiti sui quali grava ancora la riprovazione di Pascal”, che lo cita nella lettera IX delle Provinciali: C. Pellandra, L’usage de la maladie chez le Père Étienne Binet, in Littérature et pathologie, Saint-Denis: Presses universitairesde Vincennes, 1989 <http://books.openedition.org/puv/1236>.
[19] P. Brinacio, Scintille poetiche, o poesie sacre, e morali di Paolo Brinacio Napoletano. In Napoli, Con licenza de‘ Superiori, 1692, p. 65. Il primo testo a stampa del Lubrano era uscito molto tempo prima. Nell’opera Le egloghe simboliche (Lecce 1642) di Ascanio Grandi infatti, si trova un suo Elogium dell’autore. “Nonostante esprima una netta condanna degli eccessi della poesia marinista, il Lubrano delle Scintille si inserisce a pieno titolo in quel filone, di cui estremizza molti aspetti, riuscendo nel compito non facile di dare un’interpretazione molto originale di uno stile ormai giunto al tramonto. Supportato da un’inventività linguistica straordinaria (grazie alla quale conia un grandissimo numero di neologismi), mette in atto un’accorta strategia retorica, avvalendosi di figure già molto sfruttate nella poesia barocca [..]. Dal punto di vista formale va notata la grande ricchezza delle soluzioni retoriche (particolarmente sfruttata è la figura dell’antitesi), ben in linea con la tradizione della predicazione barocca”: Giacomo Lubrano, a cura di Luigi Matt, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 66, 2006 (on line).
[20] G. G. Ferrero, La Letteratura Italiana. Storia e Testi. Volume 37. Marino e i Marinisti, Milano, Ricciardi, 1954, p.1041. M. Niola, Il corpo mirabile. Miracolo, sangue, estasi nella Napoli barocca, Roma, Meltemi, 2002.
[21] G. Mina, Introduzione, in W. Katner, L’enigma del Tarantismo. La malattia del ballo, a cura di Gabriele Mina, Nardò, Besa, 2002, p.18.
[22] V. Santoro, Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Alessano, ItinerArti Edizioni, 2021, p. 76.
[23] M.L. Doglio, Premessa, in Predicare nel Seicento, a cura di M.L. Doglio e C. Delcorno, Bologna, Il Mulino, 2011, p.11.
[24] Lettioni di monsignor Paolo Aresi vescovo di Tortona nelle quali discorrendosi dell’essere, natura, cagioni et effetti della tribulatione, molti curiosi dubbi si risolvono, Appresso Nicolò Viola, 1624, pp. 817-818. Paolo Aresi (1574-1644) “è anche autore di Arte di predicare bene (Venezia 1611), edita più volte, anche nel compendio del confratello G. Morandi (Roma 1664)”: Paolo Aresi, a cura di Francisco Andreu, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 4, 1962 (on line).
[25] L. Cosi, Tarantole, folie e antidoti musicali del sec. XVII fra tradizione popolare ed esperienza colta, in Tarantismo, transe e possesione, musica, a cura di Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2001, pp. 57-58. Della Cosi, «Tirar con esca alla devozione». Musica e strategia missionaria dei Gesuiti nel Seicento, fra Napoli e Terra d’Otranto, in «L’Idomeneo», Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia – sezione di Lecce, n. 10, 2008, Galatina, Panico, 2008, pp.
[26] R. Catello, Il successo mondiale della tradizione del Presepe, in Patrimoni intangibili dell’umanità: il distretto culturale del presepe a Napoli, a cura di Stefano De Caro, Walter Santagata e Massimo Marrelli, Napoli, Guida, 2008, p. 175.
[27] B. Casciano, Tarantole e Tarantolati e tarantelle nella Spagna del “Siglo de oro”, Elison Paperback, 2021, p. 85.
[28] M. Spedicato,Chiesa e trasgressione: il tarantolismo in Terra d’Otranto in età post-tridentina, in Rimorso, La tarantola tra scienza e letteratura. Atti del convegno del 28-29 maggio 1991 a San Vito dei Normanni, Nardò, Besa, 2001, pp. 9-2. Si veda inoltre B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, Roma, Carocci editore, 2019, pp. 20-41.
[29] P. De Giorgi, Tarantismo e rinascita, Lecce, Argo, 1999, p. 89. Non è forse un caso che in era moderna prima della missione di Carpitella e De Martino del 1959, il tarantismo ritornò alla ribalta nazionale con il fotodocumentario Le invasate di Chiara Samugheo e testo di Emilio Tadini sulla rivista «Cinema Nuovo» del 1955.
[30] S. Ammirato, Costanzo non è forse ancora un mese, in Le Rime d’Angelo di Costanzo, Cavaliere Napoletano. Quinta edizione delle passate molto più illustrata, ed accresciuta. Si sono aggiunte le Rime di Galeazzo di Tarsia, Autore contemporaneo in Padova: appresso Giuseppe Comino, 1738, p. 114 (Alle pp. 114-124 si trovano le rime dell’Ammirato dedicate a Costanzo). Su Scipione Ammirato (1531-1601) si vedano tra gli altri, la voce a cura di Rodolfo De Mattei, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 3, 1961 (on line); R. De Mattei, Varia fortuna di Scipione Ammirato; Opere a stampa di Scipione Ammirato; Codici di Scipione Ammirato, in «Studi salentini», n. 8, 1960, pp. 352-407; Idem, Scipione Ammirato «Il vecchio» e Scipione Ammirato «Il giovane», in «Archivio Storico Italiano», vol. 119, n. 1, 1961, pp. 63-76, F. Tateo, Divagazioni sul Tacito di Scipione Ammirato, in «Esperienze Letterarie», vol. 28, n. 3, 2003, pp. 4-18; S. Ammirato, I trasformati, a cura di Paola Andrioli Nemola, Galatina, Congedo Editore, 2004; C. Vasoli, Note sugli «Opuscoli» di Scipione Ammirato, in Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, Atti del Convegno internazionale, Torino, 2003, a cura di Massimo Firpo, Firenze, 2005, pp. 373-396; Idem, Unità e disunione dell’Italia? Uno storiografo della Controriforma. Scipione Ammirato e la sua replica al Machiavelli, in Le sentiment national dans l’Europe méridionale aux XVIe et XVIIe siècles, a cura di Alain Tallon, Madrid, 2007, pp. 189-203; I. Nuovo, Otium e negotium: da Petrarca a Scipione Ammirato, Bari, Palomar, 2007, pp. 361-387; C. Continisio, Federico Borromeo lettore di Scipione Ammirato (con 17 lettere), in Storia, rivoluzione e tradizione. Studi in onore di Paolo Pastori, a cura di Sandro Ciurlia, Firenze, Edizioni del Poligrafico Fiorentino, 2011, pp. 311-338,
[31] S. Ammirato, Opere, a cura di Martino Capucci e Marco Leone, Galatina, Congedo Editore, 2002, p. 122.
[32] R. Frionoro, Il vagabondo, overo sferza de’ bianti, e vagabondi. Opera nuova, nella quale si scoprono le fraudi, malitie, & inganni di coloro che vanno girandoper il mondo alle spese altrui. Et vi si raccontano molti casi in diversi luoghi, e tempi successi. Data in luce per avertimento de’ semplici, In Venetia, appresso Anzolo Reghettini, 1627, pp. 51-52. Si riportano i testi sempre in trascrizione paleografica. L’opera, che avrà ampia fortuna anche fuori d’Italia, è una traduzione/rimaneggiamento dello Speculum cerretanorum di Teseo Pini, scritto probabilmente fra il 1484 ed il 1486, che conobbe solo circolazione manoscritta: T. Pini, Speculum cerretanorum, in Il libro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi,1980, pp. 39-40. Diversamente, Tommaso Campanella riteneva i tarantati non dei simulatori («io non credo che quei poverelli pagassero tanto l’anno per finzione a sonatori»): T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, p. 260, cit. in M. Combi, Tommaso Campanella, il morso della tarantola e la magia naturalis, in Antropologia e scienze sociali a Napoli in età moderna, a cura di Roberta Mazzola, Roma, Aracne editrice, 2012, pp. 20-21. Come scrive Di Mitri, il Frionoro ci trasmette un’immagine del falso tarantato “tra il picaresco e l’oleografico quasi che i protagonisti del racconto uscissero dalla commedia dell’arte o da una corte dei miracoli”: G.L. Di Mitri, Storia biomedica de tarantismo nel XVIII secolo, Firenze, Olschki, 2006, p.3.
[33] G. L. Di Mitri, Storia biomedica del tarantismo, cit., p. 2. Per un raffronto tra teatro e interpretazione del fenomeno: B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, cit., pp. 43-60. P. Sisto, La metafora della tarantola: storia e leggenda dello stellione fra antichi e moderni, in «Esperienze letterarie», Pisa- Roma, Fabrizio Serra editore, XLIII, n. 4, 2018, pp. 53-65.
[34] L. Spalanca, Il potere della parola. Gli Inferni di Anton Francesco Doni, in DNA – Di Nulla Academia Rivista di studi camporesiani, Vol. 2, n. 2 (2021), p. 30: Inferno e Post-Inferno I DOI: 10.6092/issn.2724-5179/ e A.F. Doni, I mondi e gli inferni / Anton Francesco Doni, a cura di Patrizia Pellizzari; introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994.
[35] Ibidem. Su Doni si veda Il segreto della Commedia dell’arte: la memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII. Secolo, a cura di Ferdinando Taviani, Mirella Schino, Firenze, La Casa Usher, 1986, p. 357.
[36] La rete de’ matti ordita da deliri del grande stolto celeste calcolata al meridiano, ed orizonte di Brescia, sopra l’anno bisestile 1738, In Brescia: per Giacomo Turlino, 1738, pp. 9-10.
[37] La Fenice d’Avila Teresa di Giesù melodrama sacro, del dottor Giuseppe Castaldo, Nella stampa di Michele Luigi Mutio (senza data), pp. 41-42. Croce ci fornisce alcune informazioni sulla fortuna di quest’opera da fonti d’epoca: B. Croce, I teatri napoletani: sec XV –XVII, Napoli, Presso Luigi Pierro 1891, p. 156; inoltre V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida editori, 1969, p. 202. Come osserva Surian, l’introduzione di elementi farseschi e di personaggi di carattere comico e coreografico e l’accostamento dell’aspetto agiografico spettacolare saranno fra i tratti tipici del teatro dal Seicento: E. Surian, Manuale di Storia della musica Vol. I Dalle origini alla musica vocale del Cinquecento, terza edizione riveduta, Milano, Rugginenti editore, 2002, p. 283. Su Castaldo: F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri: i santi nel teatro musicale sacro del Seicento a Napoli, in «Sanctorum: rivista dell’Associazione Italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia», n. 6, 2009, pp.116-119.
[38] F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri, cit., p. 93.
[39] Voce, a cura di Fabris Dinko, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 85, 2016 (on line).
[40] Vari sono i riferimenti al tarantismo riportati in F. M. Attanasi, Il tarantismo in musica: preliminari storici per un’indentificazione musicologica, in L’eredità di Diego Carpitella. Etnomusicologia, antropologia e ricerca storica nel Salento e nell’Area Mediterranea, Atti del convegno Galatina 21-23 giugno 2002, a cura di Maurizio Agamennone e Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2003, pp. 243-250. I. Nuovo, Presenze del tarantismo nella produzione letteraria umanistico–rinascimentale, in La Magia e le arti nel Mezzogiorno, a cura di Raffaele Cavalluzzi, Bari, Ed. B. A. Graphis, 2009, pp. 49-69. Una ottima bibliografia del tarantismo in G. Mina, La tela infinita: bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo, 1945-2006, Nardò, Besa, 2006.
[41] G. Verga, I Malavoglia, Introduzione e note di Nicola Merola, Milano, Garzanti, 1983, p. 47.
Entrando nella chiesa matrice di Novoli, non si può non essere attratti dal pregevole e grandioso affresco che occupa quasi tutto il soffitto della stessa chiesa. L’affresco rappresenta il Martirio di S. Andrea, martirio che avvenne secondo la tradizione a Patrasso, nel 60, per ordine del proconsole Egea.
La chiesa matrice di Novoli, costruita forse verso la metà del ‘500, allorché il paese, avvicinandosi al migliaio di abitanti, sentì il bisogno di avere una chiesa più grande dell’attuale chiesa dell’Immacolata, allora chiesa parrocchiale con la denominazione di Chiesa Vecchia, risulta già dal 1640, secondo la visita parrocchiale di Mons. Luigi Pappacoda, intitolata a S. Andrea Apostolo.
L’affresco in questione nella sua iconografia rispetta fedelmente la tradizione religiosa e presenta il santo con un certo realismo nel drammatico momento del suo martirio. Anche se, a prima vista, dà la sensazione di essere un’opera di antica fattura, in realtà la sua realizzazione avvenne nel 1925, cioè all’epoca in cui iniziarono i primi restauri della chiesa matrice, retta in quegli anni da Mons. Francesco Greco, protonotario apostolico, detto per antonomasia il prete signore, per il suo comportamento e il suo tratto squisitamente signorile. L’autore fu, come si è potuto accertare, il pittore salicese Vittorio Colletta, la cui firma, con un po’ di attenzione, si può notare (assieme all’anno di esecuzione) sull’opera stessa, giù in fondo alla destra di chi entra in chiesa.
L’opportunità di accertare chi fosse veramente l’autore, mi fu data in occasione di una mostra dedicata proprio alla memoria del Colletta e organizzata nel 1982 dal locale Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali e dall’Assessorato Comunale alla Pubblica Istruzione, in occasione della 305a Fiera di Salice “Madonna della Visitazione”. Fra le numerose fotografie delle opere realizzate dal Colletta, figurava anche quella della chiesa Matrice di Novoli.
Che fosse un artista di valore lo dimostrano comunque le tante opere che si trovano nei comuni di Mesagne, Maruggio, Campi Salentina, Guagnano, Veglie, nel Convento dei Frati di Salice, nelle sontuose dimore dei D’Agostino, dei Leone e dei De Castris, antiche famiglie di Salice. Secondo quanto ha scritto Franco Colletta (pronipote dello stesso) in un suo articolo, il pittore nacque a Salice il 16 Dicembre del 1866 da Tobia, maestro decoratore del tempo. Studiò presso il Liceo Artistico di Lecce e, successivamente, all’Accademia di Belle Arti di Napoli senza, però, completare gli studi. A Lecce, lavorò e studiò presso un famoso pittore della scuola fiorentina (di cui, purtroppo, s’ignora ancora il nome) che in tale città era stato chiamato per impartire lezioni e per lavorare. Poi ancora molto giovane, assieme al fratello Francesco, cominciò a realizzare affreschi che gli procurarono subito grande fama. Il senatore De Castris, di cui era amico, gli fece affrescare la cappella patrizia del suo palazzo e qui vi dipinse le stupende figure degli Evangelisti. Sposò felicemente a Salice la nobildonna Ermelinda Capocelli. Fino a tarda età, continuò a produrre e a lavorare sodo con i giovani nipoti Agostino e Tobia Colletta, figli del fratello Francesco, morto nel 1931.
Morì in Salice il 20 Aprile del 1947, ultraottantenne. I Salicesi lo ricordano e lo amano in particolare per l’opera La Madonna della Visitazione (quadro di proprietà della famiglia Faggiano-Toma), che è una riproduzione “a memoria” del quadro attribuito a Paolo Calieri detto “il Veronese” e che andò distrutto il 29 luglio del 1895. Si racconta che il senatore De Castris, all’epoca Sindaco di Salice, non ritenendo che nel luogo vi fosse nessun artista in grado di riprodurre il quadro del Veronese si rivolse al pittore Montefusco di Napoli. Colletta, a proprie spese, per dimostrare il contrario realizzò il quadro e lo espose vicino casa, lo stesso giorno dell’inaugurazione di quello del Montefusco che si trova nella chiesa matrice. Il senatore lo supplicò di togliere il quadro e gli promise di fargli affrescare il suo palazzo (cosa che avvenne), Il quadro del Colletta, si differenzia da quello del Montefusco perché è, come è stato rilevato, più fedele all’originale.
Il Colletta eseguiva inoltre la realizzazione delle sue opere con la tecnica dello spolvero e con disegno a carbone.
L’affresco di Novoli, sarà stato certamente eseguito con la tecnica dello spolvero, ingegnoso sistema che consisteva nel bucherellare con uno spillo tutti i contorni del disegno, avendo cura di applicare nel contempo sotto il cartone altro foglio di carta che rimaneva a sua volta bucherellato nella stessa maniera. Battendo sopra i buchi di questo secondo foglio con un sacchetto pieno di carbone pestato (o di terra rossa verde o altra polvere) si otteneva sull’intonaco, o su un’altra superficie, tutta la serie dei forellini che, facilmente riuniti, ricostruivano con esattezza la 1inea generale di tutto il disegno.
Nonostante varie ricerche fatte nell’Archivio della chiesa matrice, non si son potuti trovare elementi utili per meglio documentare la presenza del Colletta a Novoli, e quindi sul perché della realizzazione di quest’opera. Solo nell’archivio della Chiesa della Madonna del Pane, molto tempo, fa, ci capitò di rintracciare una minuta scritta a matita, molto rovinata, fatta dall’Ingegnere Francesco Parlangeli nel 1904, e che era la liquidazione dei lavori di pittura eseguiti proprio da Vittorio Colletta però nella chiesa parrocchiale di Campi Salentina.
Da quella minuta si rileva che per incarico del Sindaco di Campi il sottoscritto ingegnere ha esaminato la nota presentata dal pittore Vittorio Colletta per i lavori di pittura testè eseguiti nel coro di questa chiesa parrocchiale. I lavori consistono in due passate di tinta bianca e due passate di ripolin bianco ed a colore sulle cornici e muri con riquadri nei fondi. In complesso la dipintura fu fatta sulla superficie di mq. 260; liquidata al prezzo minimo generalmente convenuto nelle private contrattazioni di L. 1.75 si ha l’importo di L. 445.000; onde riscontrata esatta ed equa la nota presentata dal Colletta per l’importo di L. 453.000 che l’amm. può pagare ad esso Sig. Colletta essendo stati i lavori eseguiti conformi alle regole d’arte”.
Il documento ha la sua importanza perché, anche se il Parlangeli morì nel 1916 ovvero diversi anni prima della realizzazione dell’affresco, nulla vieta, attraverso tale minuta, di intendere che probabilmente il Colletta e la sua arte furono portati all’attenzione dei Novolesi dallo stesso Parlangeli e che, verosimilmente, lo stesso abbia potuto eseguire, prim’ancora dell’affresco. di S. Andrea, forse nelle abitazioni (come era solito fare) di qualche Novolese, altri lavori conformi alle regole d’arte e che ora attendono di essere scoperti e valorizzati giustamente.
Per quanto riguarda ancora l’iconografia, si è scoperto infine che il Colletta si è totalmente ispirato, riproducendolo quasi fedelmente, ad uno dei tre affreschi conosciuti come le Storie di sant’Andrea, eseguiti per il coro di sant’Andrea delle Valle a Roma, negli anni 1650-1651, dall’artista Mattia Preti, detto Cavalier Calabrese, nato a Taverna il 24 febbraio 1613 e morto a Malta il 3 gennaio del 1699, il maggiore pittore napoletano del secondo seicento. L’affresco è appunto Il Martirio di Andrea ed è, insieme agli altri due (che rappresentano rispettivamente La Condanna ed Andrea legato alla Croce), uno degli ultimi lavori lasciati a Roma da questo artista prima di trasferirsi, per approfondire meglio i termini del proprio linguaggio, nell’Italia settentrionale. Artista in cui si riconosce, secondo gli studiosi, una certa matrice caravaggesca sulla scia di autori quali il Battistello e il Sellitto. Altre opere del Preti (autore anche di numerose tele) si trovano sempre a Roma (Galleria Corsini e Galleria Pallavicini), a Napoli (Museo di Capodimonte e Palazzo Reale), a Modena (affreschi nella chiesa di S. Biagio), a Malta (La Valletta e l’Oratorio dei Cavalieri) dove vi rimase per circa quarant’anni svolgendo anche l’attività di architetto.
L’affresco del Colletta, differisce da quello del Preti (come si può notare guardando le immagini di entrambi riprodotte) solo per lo sfondo in alto che il Colletta ha voluto semplificare sostituendo le complesse, numerose e stupende figure angeliche e di profeti del Preti con altre indubbiamente più semplici. Sono presenti, come nel Preti, i due angeli (molto diversi sia nelle forme che nella posizione) che consegnano al santo la palma e la corona del martirio, ovvero i segni che spettano ai martiri della fede, mentre più in alto alcuni cherubini sormontati da altri, reggono l’iscrizione “Domine suscipe me pendentem in patibulo”, che manca invece in quello dell’artista di Taverna. Il santo, è naturalmente caratterizzato in tutte e due le opere dal volto severo e barbato (rappresentazione giunta nella nostra penisola con l’egemonia bizantina tra il VI e l’VIII sec.), legato e con le braccia e le gambe allargate su una croce ad “X” (cioè la croce di Sant’Andrea decussata che la tradizione vuole essere stata prescelta da Andrea stesso per una maggiore agonia).
Due sono le tradizioni iconografiche, entrambe di origine greca sul martirio del santo: quello della croce latina e quella della croce ad X. Il primo tipo lo si ritrova soprattutto nelle chiese bizantine poiché appunto gli sono propri gli attributi della croce latina e del libro.
Di una croce biforcuta invece si comincia a parlare nella narrazione di S. Pietro Crisologo. Tale tradizione si afferma soprattutto in occidente, a partire dal quattrocento in avanti, specie nell’Europa Centrale a causa dell’affermarsi della dinastia burgunda (antico popolo germanico) che, come proprio emblema, ebbe infatti la croce di S. Andrea. A questa tradizione aderirono, in Italia, proprio il Preti ed anche il pittore Guido Reni.
Quali siano stati i motivi che hanno spinto il Colletta ad ispirarsi a quest’opera del Cavalier Calabrese non lo sappiamo. Non si può escludere comunque che tale raffigurazione, peraltro perfettamente riuscita dal punto di vista pittorico ed artistico, gli sia stata imposta o consigliata dal parroco di allora, forse rimasto favorevolmente conquistato dalla bravura e dalla capacità con cui egli aveva saputo fedelmente riprodurre molti anni prima, come si è visto, il quadro della Madonna della visitazione di Salice Salentino.
In “Il Salice”, quaderno della Biblioteca Comunale di Salice Salentino, Dicembre 2001 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 211-214, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici essenziali
Biblioteca Sanctorum, Roma 1961, vol. I (Istituto Giovanni XXIII nella Pontificia Università Lateranense). II santo sulla croce decussata appare su un sigillo recante la scritta “Parrocchialis Ecclesiae Terrae Santae Mariae de Novis (antico nome di Novoli)” apposto su due documenti inediti del settembre 1748 (collezione privata).
F. Colletta, Un nostro artista dimenticato, in “Salento Nord”, I, 5, Campi S. Ottobre 1982.
Id., Vittorio Colletta un pittore dimenticato, in “Quaderno di Ricerca”, Salice S. Aprile 1987. Molto significativo è quanto riporta il pronipote sulla vita del pittore salicese. In particolare si evidenzia come “… ancora molto giovane, insieme al fratello Francesco, iniziò ad affrescare con mirabili composizioni di figure di santi, decorazioni e paesaggi, le chiese madri e le dimore dei nobili e dei ricchi proprietari terrieri dell’antica ed estesa terra del Salento. Ammirevoli e durevoli segni del loro operare si trovano nei comuni di Novoli, Mesagne, Campi Salentina, Guagnano, Veglie, nel Convento dei frati in Salice e nelle sontuose dimore dei D’Agostino, dei Leone e dei De Castris. Molto amico del senatore De Castris, ne affrescò la cappella patrizia dipingendo le quattro figure degli evangelisti: lavori che conservano tuttora intatta l’antica bellezza”. A Vittorio Colletta pertanto, a nostro avviso, possono attribuirsi con una certa fondatezza, gli affreschi andati perduti e che qui si pubblicano in foto. Gli affreschi erano presenti nel palazzo padronale della “famiglia Russo” con prospetto su Via Pendino e oggi sede di uffici comunali. Il palazzo fu fatto costruire da Samuele Russo (per molti anni Sindaco di Novoli e precisamente dal 1846 al 1852 e dal 1855 al 1858) su progetto proprio dell’Ing. Francesco Parlangeli alla fine dell’Ottocento – inizi del Novecento. Il figlio di Samuele, Tommaso, gli costruirà accanto il complesso destinato poi a diventare sede “dell’Asilo Russo”.
C. De Carlo, In morte dell’ingegnere Francesco Parlangeli, Lecce 1916.
M. De Marco, La chiesa matrice di S.Andrea Apostolo, in “Camminiamo Insieme”, a. III, n. 2, Giugno 1989, pp. 6-12.
F. De Tommasi, Irestauri della chiesa matrice, in “La voce del pastore”, III, Lecce Settembre-Ottobre 1960.
Id., Nella ricorrenza della festa di S. Andrea Apostolo, in “La voce del pastore”, XXIV, Novoli Ottobre-Novembre 1984.
Dizionario Enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani dell’XI al XX secolo, Vol. IX, Torino 1975.
A. Politi, Delle Famiglie Novolesi: I Russo, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, n.u., a. XXV, 17 gennaio 2001, pp. 9-10 (con albero genealogico).
Scheda Bio-Bibliografica (a cura di R. Faggiano) della mostra fotografica delle opere di Vittorio Colletta realizzata nel 1982. Tale scheda, è stata redatta in base a testimonianze e ricordi acquisiti dai familiari, in particolare dalla nipote Leda Toma.
Sebaste F. – Spagnolo G., Un’intervista affettuosa e sincera, in Un seme sulla buona terra, a cura dell’Associazione Artigiani di Novoli, Novoli 1984.
Spagnolo G., Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, Novoli 1987.
Curiosità, storia ed approfondimenti sul ciclo allegorico delle Virtù e delle Stagioni del pittore Liborio Riccio
di Santo Venerdì Patella
Gennaio 1884 Maglie. Ci troviamo nel palazzo del senatore comm. Achille Tamborino insieme al prof. Cosimo De’ Giorgi che riferisce di aver visto in questa sontuosa dimora alcune tele del pittore murese Liborio Riccio.
Ora, visto che i Tamborino all’epoca della realizzazione delle tele non erano ancora nessuno, ci si pone una domanda istintiva: cosa ci fanno, e più ancora da dove provengono, le tele del sacerdote don Liborio nel palazzo del Tamborino.
Occorre ritornare a ritroso nel tempo di esattamente 110 anni.
Siamo nell’Anno del Signore 1774, muore senza eredi l’ultimo dei Protonobilissimo, il principe di Muro Giovan Battista IV, tra il gaudio dei muresi per i motivi che verrò esponendo. Sconsolata invece la moglie Irene Pignatelli, non sappiamo se più per la morte del marito o perché, non avendo eredi diretti, il feudo fu devoluto al demanio regio quello stesso anno.
Per ben 80 anni il simbolo stesso dei principi, il Palazzo posto nella principale piazza del paese, quasi a ricordare con la sua mole la presenza costante della loro influenza sui popolani del tempo, rimase vuoto e forse di tanto in tanto visitato dai Governatori regi e principeschi o da loro fiduciari (c’è da precisare che il 3/10/1797 Ferdinando IV donò il feudo al principe Antonio Maria Pignatelli di Belmonte).
Donna Francesca Paolina Pignatelli, ultima erede dei Principi della terra di Muro, ed i suoi avi, non erano mai venuti a visitare Muro, poiché era solo un piccolo possedimento di cotanta proprietà di cui essi erano dotati. Infatti, differenza abissale tra i Protonobilissimo e i Pignatelli di Belmonte, era che i primi, a differenza dei secondi, amministravano i loro feudi da Muro, quasi fosse la piccola capitale del loro Principato.
Nell’anno 1854, parola di Luigi Maggiulli, il Cav. Achille Tamborino acquista Palazzo Protonobilissimo da Donna Francesca.
Inizio a sbrogliare la matassa creatasi con la domanda fatta innanzi.
Il Tamborino, facente parte di quella borghesia arricchita di metà Ottocento, che era disponibile ad accaparrarsi quanto il mercato gli offriva, acquistando, spesso vuoi da una nobiltà decadente, vuoi beni dei soppressi ordini religiosi, cercando con ciò d’elevarsi di rango tramite questa nuova forma di “Collezionismo di Rappresentanza”, non divenne solo proprietario della dimora principesca, ma di sicuro anche dei principeschi arredi e delle tele sopra mentovate.
A trattare di queste tele ritroviamo Antonio Antonaci (cfr. L’Arte e Storia a Muro Leccese, Edit. Salentina – Galatina 1974), ma senza però provarne concretamente la provenienza, con la menzione di quattro dipinti delle Stagioni e delle Virtù: Giustizia, Carità, Pace, Abbondanza, conservate in casa Tamborino a Maglie. In realtà le “Virtù” che l’Antonaci menziona sono tre, non quattro, e di queste, l’Amore verso Dio è confusa con la Pace (tra l’altro la tela raffigurante l’Amore verso Dio e presente anche nella chiesa matrice di Muro con gli stessi attributi iconografici). L’ultima, l’Abbondanza, non credo possa essere annoverata assolutamente tra le virtù.
Rettificato ciò, del ciclo delle stagioni invece voglio rendervi partecipi di una particolarità.
L’Inverno, a mio avviso, è stato pensato con una certa originalità. Si differenzia da tutte le altre tele non tanto per la postura, dove è stato utilizzato lo stesso disegno preparatorio del dipinto del profeta Isaia eseguito tra il 1759 e il 1760 sito nella zona presbiterale della chiesa della Purità di Gallipoli, quanto per l’utilizzo della figura d’una vecchia, che sembra esserne la sorella gemella, dall’uso cromatico di toni cupi e da un tratto pittorico più duro, appunto per significare l’austerità di tale stagione (vedi foto in basso).
Comunque sia teniamo conto della formidabile idea di utilizzare a mo’ di attributi iconografici gli scaldini, o come si chiamavano a Muro “li scarfalettu”, posti: uno tra le gambe, quella visibile con la calza cadente, come era d’uso e l’altro tra le mani, occupa esattamente il posto del libro del profeta Isaia.
Cerchiamo ora di dipanare interamente la matassa e di approfondire l’argomento con deduzioni verosimili. Proprio per i motivi che prima ho descritto la nobil donna, estranea all’ambiente murese, vendette oltre al palazzo anche annessi e connessi.
Il segno, che può fornire una risposta definitiva al quesito prima sollevato e che mi fa pensare che il ciclo allegorico Riccesco provenga sicuramente da Muro e sia una precisa commissione del principe al pittore, non sono tanto le Stagioni, che hanno un chiaro intento decorativo, quanto le Virtù.
Il ciclo, probabilmente realizzato verso la fine degli anni Sessanta del Settecento, si inserisce nella consuetudine, diffusa tra le famiglie nobili, di rinnovare le proprie dimore per ragioni di prestigio. Lo si può immaginare collocato nel grande salone di rappresentanza, al piano nobile del palazzo, circondato da arredi altrettanto sontuosi che non sfiguravano certo accanto alle tele. In questo scenario, il principe accoglieva i suoi illustri ospiti, celebrando il fasto e il potere della propria casata.
Le Virtù, rappresentate nelle opere, possono essere interpretate come un’allegoria dei Frutti del Buon Governo, simbolo dei benefici che il principe, con il suo operato, era in grado di offrire ai propri sudditi. Non era affatto raro, infatti, che uomini di potere commissionassero cicli allegorici di questo tipo per esaltare la propria autorità e il loro ideale di governo.
Descrivo l’allegoria per come l’ho potuta sciogliere ad interpretare:
– Cominciamo con la Giustizia: è d’origine naturale, viene acquisita dalla persona e fa parte delle virtù di governo.
– La Carità verso il prossimo: è d’origine sovrannaturale, e fa parte delle virtù pubbliche.
– L’Amore verso Dio: deve prevalere sull’amore concupiscente e sugli interessi propri.
– Per concludere con l’Abbondanza, vale a dire i frutti del buon governo: che può manifestarsi se le tre virtù sono state attuate degnamente.
Ahilui queste virtù il Protonobilissimo, a quanto pare, non le ebbe mai, tanto che Re Ferdinando IV lo fece chiamare a Napoli, per giusto reclamo d’abusi che l’Università murese aveva presentato al monarca.
Stessa sorte capitò al ben più ampio e maestoso ciclo della “Gerusalemme Liberata” del Finoglio (1590-1645), appartenuto agli Acquaviva d’Aragona di Conversano. Venduto intorno agli anni ‘30 del ‘900, dopo non poche vicissitudini riacquistato dal Comune di Conversano nel 1974, ora fa bella mostra nel castello di quella città per la quale era stato realizzato.
Speriamo che almeno il ciclo allegorico delle “Virtù e delle Stagioni” del Riccio, (pensare anche al resto degli arredi credo sia quasi utopico) abbia la stesa sorte di quello di Conversano e ritorni al Palazzo Protonobilissimo, ora di proprietà comunale.
(Rivisitazione di quanto pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 2, dicembre 2003)
P.s. Liborio Riccio, esponente locale dello stile rococò, si ispirava frequentemente ai suoi artisti “preferiti”, le cui influenze si ritrovano chiaramente nelle sue opere. Primo tra tutti il suo maestro, Corrado Giaquinto (1703-1766), di cui aveva avuto accesso diretto a cartoni e bozzetti. Tuttavia, Riccio non disdegnava di trarre spunto anche da altri pittori, come Francesco De Mura (1696-1782), Francesco Solimena (1657-1747) e Luca Giordano (1634-1705), arricchendo così il proprio linguaggio artistico con suggestioni provenienti da diverse personalità del panorama pittorico napoletano e non solo.
3) ERMANNO AAR1 , Gli studi storici in Terra d’Otranto, in Archivio storico italiano, Nuva serie, tomo II, anno 1878, Viesseux, Firenze, 1878, p. 475 [in una sezione dedicata alla correzione (!) di toponimi].
A appare evidente come ad otto anni dal mansio del Profilo l’Aar gli abbia reso onore italianizzando il suo accusativo (mansionem) con Mansione, a correzione di Masina, ma soprattutto, dell’orribile Massenza. È la prima volta che incontro l’emendamento di un toponimo ispirato da esigenze estetiche, senza, peraltro, ombra di giustificazione fonetica. Ma il danno era già stato fatto dal Profilo.
4) Bollettino della Società geografica italiana, Civelli, Firenze, 1901, v. 2 , p. 305
… del casale di Mansione, distrutto nel medio evo …
Bisogna attendere quasi un secolo per reincontrare Masina sottoposta ad ogni genere di visita ma totalmente trascurata nell’etimo dopo quello profiliano.
5) LUIGI SCODITTI2, Le note storiche sulle contraderurali, in Studi storici su Mesagne e il suo territorio, a cura di Domenico Urgesi, Studi e ricerche della biblioteca comunale” U. Granafei”/2, p. 403
La prima fonte citata è un atto del 1260 presente nel C.D.B. (Codice diplomatico brindisino4). Molto lungo, reca il titolo di Adnotatio bonorum omnim et reddituum ecclesiae Brundusinae facta per Forensem Ruinosum et Iordanum De Pironto de Brundusio statutos per Manfridum Regen administratores eiusdem ecclesiae cum inserta forma Regiarum litterarum (Nota di tutti i beni e redditi della chiesa brindisina fatta da Forese Ruginoso e Giordano De Pironto di Brindisi posti dal re Manfrdi come amministratori della medesima chiesa con la forma inserita delle lettere regie)
Ne riporto il dettaglio.
(Dalla chiesa di S. Nicola di Masina fuori Brindisi una libbra di cera5)
Oltre a questo documento per completezza (o per complicare ulteriormente le cose …) forse va preso in considerazione un altro, anteriore sia pur di pochi anni, sempre riportato dal C. D. B. (nell’edizione citata è il n. 52 a p. 83 del secondo volume). È un atto del 1239 recante il titolo Legatum Presbyteri Sellicti tarenorum auri quatuor quolibet anno solvendorum Capitulo Brundusino (Legato del presbitero Sellitto di quattro tareni d’oro da versare ogni anno al Capitolo brindisino). Ne riporto il dettaglio dal manoscritto (c. 173).
… habeat a Iacono Nicola filio quondam6 presbiteri Leonis de Masine greci7 sacerdotis nepote meo …
(… abbia da Iacono Nicola figlio del fu presbitero Leone di Masine sacerdote greco mio nipote …)
Al di là della mano che appare chiaramente diversa e della ulteriore conferma della presenza del rito greco, appare quasi impossibile attribuire a Masine una valenza patronimica oppure toponomastica.
La seconda fonte citata (M., 1. I, C 19) è un’opera del mesagnese Epifanio Ferdinando8 e fa parte di quelle, numerosissime, a tutt’oggi inedite . Una copia fatta da Ortensio De Leo nel 1752 (a c. 2r si legge: Hortensii de Leo 1752) è conservata nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi (ms. D/13) e reca il titolo di Antiqua Messapografia9.
La c. 3r col titolo mostra in alto a destra 1630, che non può essere che la data di composizione dell’opera presunta, non è dato sapere in base a quali elementi, dal De Leo o, più probabilmente, copiata anch’essa. A c. 64r si legge: Manca il resto nel presente codice lacerato. Troppo poco per capire se si trattasse o meno dell’autografo. Ad ogni buon conto la copia brindisina è l’unica tuttora conosciuta (non esiste traccia dell’autografo), il che mi fa presumere che lo Scoditti faccia riferimento proprio ad essa. D’altra parte, se fosse esistita altra copia, indipendentemente dalla volontà di collazione, sempre daIla brindisina sarebbe partito per la sua vicinanza fisica.
Il secondo controllo ha dato un esito molto simile al primo sulla citazione del Mazzella da parte del Profilo. Ancora una volta lo provo col dettaglio del manoscritto (c. 144r) di seguito riprodotto, appartenente alla sezione intitolata De veteris vicis vulgo casalibus urbi Messapiae subuectus.
Turboli et Masione olim casalia, nunc feuda unum versus Brundusium id est10 feudum Masinae, et aliud versus Uriam in territorio ambo Messapiae, et extat privilegium Regis Ferdinandi fol(ium) 98 in anno 1483 registratum in Cancellaria fol(io) 60, et feudatarii sunt Fornarii, et Baro Turris S(anctae) Susannae.
(Turboli e Masione un tempo casali, ora feudi, uno verso Brindisi cioè feudo di Masina e l’altro verso Oria, entrambi nel territorio di Messapia e resta un privilegio del re Ferdinando, foglio 98 nell’anno 1483 registrato in cancelleria fohlio 60 e sono feudatari i Fornari11 e il barone di Torre S. Susanna.
Dunque il toponimo, come mostra inequivocabilmente l’ingrandimento che segue, non è Mansione ma Masione e non si comprende, oltretutto, come lo Scoditti instauri una parentela strettissima con Masina sulla base di una semplice assonanza e sulle ali dell’eco di statio di profiliana congettura.
L’ingrandimento della parola evidenziata con la sottolineatura nell’immagine precedente fa leggere, inequivocabilmente, Masione (con -a) e non Mansione ( con –ã-).
Prima di procedere debbo soffermarmi un attimo, come avevo promesso in nota, sul punto interrogativo presente nella trascrizione dell’originale e, com’era naturale, nella traduzione.
Il segno evidenziato non è una nota a margine, peraltro mancante, ma un’abbreviazione per id est, secondo l’uso cinquecentesco presente anche nei testi a stampa.
Il passo appena riportato, poi, appare importante anche ai fini della individuazione della posizione di Masione. Le coordinate fornite non lasciano dubbi: ia differenza di Turboli che è verso Brindisi (dunque tra Mesagne e Brindisi), esso è verso Oria (dunque tra Mesagne e Oria), il che escluderebbe la sua identificazione con Masina, indipendentemente dal significato storico di feudo, sia che esso sia riferibile a tempi anteriori (olim) al Ferdinando o a lui contemporanei (nunc).
Nella mappa che segue ho sintetizzato quanto appena detto con l’aggiunta di M1 per Torboli e di M2 per Masione.
Lo Scoditti, poi, al quale va, comunque, riconosciuto il merito di essere stato il primo a ricordare le due e uniche fonti, per corroborare la sua tesi, cita Carabellesi12, il quale, a sua volta, si rifà, senza citarlo, a quanto si legge nel Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange, Favre, Niort, t. V, ai lemmi mansio, mansus e massa13.
Nell’ultimo capoverso, infine, Nel Duecento ritira in ballo lo stesso dello stesso documento citato all’inizio.
6) DOMENICO NOVEMBRE, Ricerche sul popolamento antico nel Salento con particolare riguardo a quello messapico, Milella, Lecce, 1971, p. 108
… tutti gli insediamenti rurali purtroppo in gran parte ignoti, anche se molti sono dimostrati dalla toponomastica prediale o da ritrovamenti archeologici; così, oltre a quello che possono suggerire i topmimi (tra Mesagne e Brindisi si conosce l’esistenza del casale di Mansione, impressa nel toponimo mass Masina) …
7) CESARE MARANGIO, La romanizzazione dell’ager Brundusinus, in Ricerche e studi 8, s. n., Brindisi, 1975, p. 117
… Più fitto appare il popolamento a sud dell’Appia; procedendo sempre da Brindisisiincontrano tracce di villae, principalmente di età imperiale a Masina (II-V sec d. C.; N. 11) ..
Riproduco di seguito dal testo la fig. 1, dove ho evidenziato con l’ellisse la posizione di Masseria Masina.
8) MARIA APROSIO, Archeologia dei paesaggi a Brindisi: dalla romanizzazione al Medioevo, SEU, Pisa, 2005, p. 220
Masseria Masina.La località è citata da un documento del 1200 a proposito della chiesa di San Nicola di Masina (CDB vol 1, n.78 ) . Il toponimo moderno secondo L. Scoditti deriva dal Casale di Mansione noto da un documento del 1487, che sarebbe da mettere in relazione con la presenza di una mansio. Secondo C. Marangio a Masseria Masina c’era una villa di età imperiale nel II-IV14 d. C. da identificare con le UT 180-189.
Dopo tre anni in Archeologia dei paesaggi a Brindisi: dalla romanizzazione al Medioevo, Edipuglia, Bari, 2008, p. 199
… casale di Mansione citato in un diploma di Ferdinando I del 1487. Questo toponimo richiama la presenza di una mansio la cui esistenza era già stata ipotizzata per l’insediamento romano situato a metà strada tra Mesagne e Brindisi. …
L’autrice nella prima pubblicazione elimina opportunamente la ripetizione presente nello Scoditti (e che poteva ingenerare confusione con altro documento esistente e genericamente indicato), ma nella secondo la data del diploma è passata al
1487 da quella corretta, 1483, tramandataci, come ho prima riportato, dal Ferdinando.
9) STEFANIA PESCE,La viaabilità romna nel Salento: una rilettura alla luce dei più recenti progressi nel campo della ricerca archeologica, in Spring Archaeology, Atti del Convegno, Siena 27-29 ottobre 2022, Archaeopress, Oxford, 2024, p. 120.
… a metà strasa tra Masseria San Giorgio e Masseria Masina. L’area, oggetto di scavo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha restituito una serie di ambienti con funzioni diverse gravitanti attorno ad una cisterna per la raccolta dell’acqua, poi destinata a magazzino per cereali (Volpi 1944: 69-80). In base alle caratteristiche strutturali e vicinanza all’asse viario, p stato identificato come un vicus di età tardo romana (III-IV secolo) all’interno del quale vi era una stazione di sosta per i viandanti che si dirigevano a Brindisi (Figura 7). La sopravvivenza del toponimo nella vicina Masseria Masina, nei pressi della quale bel Quattrocento è citato un casale denominato ‘di Masione’, farebbe pensare all’effettiva presenza in passato di una mansio lungo percorso della via Appia (Scoditti 1961: 40)
A parte il fatto che nello Scoditti (vedi n. 6) si legge un casale di nome Mansione, qui è diventato denominato “di Mansione” (su richiesta spiegherò la differenza a chi ritiene equivalenti le due locuzioni), evito di riprodurre la citata Figura 7 (oltretutto poco chiara) dopo quell’altra, meno pulita, rimediata ad Oxford, sempre che almeno lì non si siano abituati ad accettare come oro colato un altro ferro ancora più arrugginito (dopo tanti anni è normale) di quello profiliano.
Resto con un’angosciosa domanda: il passaggio dal Masenza del Profilo al Massenza dell’Aar è da attribuire ad un aumento della piovosità tra il 1870 e il 1878, con conseguente ingrossamento del fiume, prima di passare ad essere, spero per sempre …, il macilento Masina? Se qualche esperto pluviologo senza dati storici alla mano mi può aiutare …
P. S. (pure questo! …) Ulteriori risultanze archeologiche potrebbero integrare i dati acquisiti a riprova della bontà di un’ipotesi induttiva piuttosto scontata (statio nei pressi della via Appia e di un corso d’acqua). Nel contempo, non escludendo a priori l’origine prediale, andrebbe operata una ricerca mirata sugli atti notarili15). Per quanto può valere il mio giudizio, tuttavia, per me nulla cambierebbe (In fondo, se qualche volta pure un mago l’indovinano, perché non dovrebbe capitare ad un Peofilo di turno?) in permanenza del machiavellico principio che conta il merito (cioè il risultato, anche se frutto di pura, fortuita e fortunata combinazione) indipendentemente dal metodo. E quella merce astratta, che si chiama acribia e che è figlia della competenza sempre assistita dall’onestà intellettuale, già rara in passato e non parca nell’uso di avverbi come forse, probabilmente e, per quanto riguarda i verbi, del modo condizionale, rischia, paradossalmente, di annegare proprio a causa di quegli strumenti, oggi soprattutto informatici, che consentono una diffusione rapida ed agevole della conoscenza, quella sorretta almeno da serietà d’intenti.
1 Pseudonimo di Luigi Giuseppe De Simone (1835-1902), magistrato leccese.
2 (1896-1973)
3 Il saggio è reperibile integralmente in rete, ma in esso non compare la data di pubblicazione, anche se nella presentazione si legge che, fino allora inedito, era pronto nel 1961. Sul sito della biblioteca (https://www2.comune.mesagne.br.it/libri/biblioteca_comunale.htm), poi, il pulsante CATALOGO BIBLIOTECA porta ad una pagina che, se fosse stata trattata col latte di calce, sarebbe meno bianca.
4 Il manoscritto originale, del XVIII secolo, custodito nella biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi, consta di quattro volumi (mss. B57, B58 e B59). In essi sono raccolte copie di documenti antichi riguardanti Brindisi; in particolare quelli del primo volume vanno dal 492 al 1299, quelli del secondo dal 1304 al 1397 e quelli del terzo dal 1406 al 1499. Fu pubblicato a cura di Giovanni Maria Monti il primo volume, di Michela Pastore Doria il secondo e di Angela Frascadore il terzo per i tipi di Vecchi & C. a Trani nel 1940; ristampa fotolitica nel 1977; successivamente a tale data i volumi tranesi sono stati ripubblicati singolarmente con l’aggiunta della nota introduttiva degli ulteriori curatori. Nell’edizione del 1977 il documento in questione è il n. 78 e a p. 142 del primo volume.
5 La più frequente tra le pene pene comminate dal vescovo (Nei casi più gravi erano previsti il carcere e la scomunica) c’ersa anche la fornitura di una certa quantità dI CEera.
6 Del quondam qui appare solo la q iniziale perché la digitalizzazione perfetta avrebbe compromesso l’integrità della carta.
7 Di greci è visibile solo la g iniziale per la stessa ragione addotta nella nota precedente.
8 (1569-1638). Opere edite : Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611; De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Muzio, Napoli, 1612; Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni, Venezia, 1621; Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626).
9 Nessun riferimento al nostro toponimo è in Messapographia sive historia Messapiae di Digo Ferdinando (1611-1662), figlio di Epifanio . A differenza dell’opera del padre, rimasta inedita, l’autografo di Didaco (Diego), che feca la data 1655, è stato pubblicato da Domenico Urgesi, suo scopritore, col titolo Messapografia, ovvero Historia di Mesagne (1655), Società storica di Terra d’Otranto , Lecce, 2020. Nulla pure in Profilo historico dell’antichità di Mesagne, opera manoscritta del 1760 di Serafino Profilo, custodita nell’ Arrchivio della pa55occhia matrice di Mesagne.
10 A questo punto del manoscritto si legge una lettera preceduta e seguita da un puntino in posizionec entale. Su questo dettaglio vedi più avanti.
11 Su questa nobile famiglia brindisina di lontane origini genovesi vedi, per l’anno 1240, Pietro Vincenti, Teatro de gli huomini illustri che furono Protonotarii nel Regno di Napoli, Sottile, Napoli, 1607, p. 48-51 e Giambattista Lezzi, Ferdinando Forbari di Bribdisi , in Biografia degli uomimi illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1816,. t. III, s. p.
12 Senza il nome secondo un vezzo confidenziale ormai consolidato (pure di Einstein probabilmente, esisterà qualcuno con lo stesso cognome, anche se meno famoso di Albert, il quale, peraltro,potrebbe essere non a tutti noto …) la voglia di un controllo. Poi arriva un oscuro ex insegnate di latino e greco mezzo rincoglionito dall’età Sospetto, però, che sia un tacito accordo per scoraggiare, stavo per dire impedirere , ai non addetto ai lavori (gli addetti si guardano bene dalla reciproca invasione degli orticelli …) un controllo sulla scorta di dati bibliografici completi. Comunque, per tornare a Carabellesi, si tratta di Francesco, ma debbo notsare che, come già per il Ferdinando, l’indicazionEnon è preciso nemmeno il titolo dell’opera che è L’Apulia ed il suo comune nell’alto Medioevo, 1960, La citazione è tratta da p. 26.
13 Ne approfitto per ricordare che tutti e tre i lemmi sono connessi al latino mansus (participio passato di manère=restare) secondo una collaudata tecnica si formazione (p. e.: tèndere>tensus>tensio>italiano tensione; prèmere>pressus>pressio>italiano pressione, etc. etc.; in particolare mansio ha dato vita, attraverso il francese maison, all’italiano magione.
14 II-V si legge nel testo del Marangio.
15 Se di prediale si tratta, infatti, la sua origine dovrebbe essere relativamente recente e non riguarderebbe la centuriazione romana, data l’assenza del quasi canonico suffisso in –ano, nonostante una gens Masina sia attestata nelle antiche Dacia e Pannonia (CIL 03, 10765; CIL 03, 07644 e CIL 03, 10765)..
Distante all’incirca due stadi dal centro abitato di Monteroni, fu eretta nel 1729, nel pieno periodo dell’incremento del culto di Sant’Oronzo, da Nicola Franco nel suo vigneto in località Le Vetrite a Monteroni.
“Essa era dotata di un altare di pietra (…), di un dipinto di S. Oronzo, dei simulacri lapidei dei Santi Fortunato, Giusto e Irene”. A. Putignano afferma che l’edificio era “lungo 26 palmi e largo 19” ed accogliente, con chianche in pietra calcarea, tre finestre, una sola porta ed un campaniletto ad arco. La struttura era coperta a volta. Inoltre, “un legato vi era stato fondato dal Franco il 2 settembre 1729”.
Nella breve ma esaustiva descrizione effettuata dal Putignano, si evince come fosse importante il culto di Sant’Oronzo in Terra d’Otranto: la cappella, pur non essendo sempre in ottime condizioni strutturali, era sempre provvista di arredi sacri e di campana. Oltre a questo, la cappella fu restaurata e dotata di catene di sostegno dalla famiglia Spedicati nel XIX secolo.
Una breve analisi ricostruttiva
Sarebbe difficile risalire alla localizzazione della cappella senza avere un campo più o meno circoscritto; fortunatamente il Putignano non solo ci fornisce la denominazione storica della zona, come già anticipato denominata le Vetrite e situata presso il feudo disabitato di Malcandrino, ma testimonia precisamente come l’edificio fosse collocato lungo la strada retrostante Villa Bruni, tutt’ora intitolata a S. Oronzo.
La storia della chiesetta cessò a causa di un cedimento della struttura, già da tempo fatiscente nonostante le cure dei proprietari. Dal crollo si salvò soltanto la tela raffigurante il santo titolare, oggi custodita presso la chiesa di Maria SS. Ausiliatrice.
Le misure fornite nella descrizione, convertite in metri, corrisponderebbero a una lunghezza di circa sei metri e a una larghezza di poco meno di cinque metri. Dimensioni simili ho osservato in uno spiazzo situato lungo la stradina che ospitava la cappella: sulla destra di quest’ultima si trova anche un pilastro a base quadrata, che conserva i resti di quella che sembra essere stata la base di una volta. Che possa trattarsi di un pilastro portante dell’antica cappella di S. Oronzo?
La colonna votiva, dedicata a S. Andrea Apostolo, si trova nella piazza antistante la parrocchiale, in uno degli angoli più belli del paese.
Nel Salento questa tipologia di monumenti è assai diffusa. Celebre è la colonna di S. Oronzo del capoluogo, ma in quasi tutti i centri ne esistono o ne esistevano diversi esempi.
La diffusione delle colonne votive conosce grande fortuna nel periodo barocco, anche se è un fenomeno che comincia già nel Medioevo, con gli Osanna e le pietre fitte. Esse derivano direttamente dagli apparati effimeri (installazioni temporanee, in legno, cartapesta, stoffa o ghirlande vegetali) realizzati in occasioni di feste (mondane o religiose), processioni, funerali, ecc. Questi apparati, diffusissimi in epoca barocca, spesso progettati da illustri artisti (sono documentati apparati progettati anche dal Bernini), non di rado vengono tradotti in pietra, legno o stucco, decorando in modo permanente facciate e altari e, spesso, veicolati da bozzetti o incisioni, giungono anche nei piccoli centri.
A Presicce erano presenti diverse colonne votive. Nella piazza antistante la chiesa del Carmine, ad esempio, esisteva una colonna sormontata dalla statua lapidea della Vergine, oggi scomparsa, eppure sul finire del XIX sec. «diruta ma sistente»[1].
Ancora, vi era quella di S. Vincenzo Ferreri, collocata lungo la strada che conduceva ad Acquarica – l’attuale via Gramsci – poi distrutta per l’apertura di via della Repubblica nel ‘900. Oggi, la scultura lapidea del santo domenicano, orribilmente imbrattata, è custodita in un’edicola votiva di una privata abitazione.
Un’altra colonna votiva, tuttora esistente, è quella del Padre Eterno, che sorge nell’omonima piazzetta. In questo caso si tratta del riutilizzo di un’antica pietrafitta, probabilmente sormontata in origine da una croce: queste strutture, nate nel medioevo, prendono il nome di Osanna, per il fatto che la Domenica delle Palme erano il punto di ritrovo del corteo che con i ramoscelli benedetti intonava la celebre antifona.
Quando nel Settecento fu demolita l’antica parrocchiale per far posto all’attuale chiesa, gli antichi altari vennero smembrati e dispersi e la seicentesca statua lapidea raffigurante il Padre Eterno venne collocata sull’antica stele in quel rione.
La più importante colonna votiva è però quella dedicata a S. Andrea. Essa ha una genesi solo all’apparenza meno complessa: l’imponente monumento è dedicato al santo patrono; è uno dei più alti esempi di barocco leccese e venne fatto realizzare nel XVII secolo dalla nobile famiglia Bartirotti Piccolomini d’Aragona, principi di Presicce.
Diversi sono i racconti legati al motivo per cui il feudatario abbia commissionato l’opera: secondo quanto riportato da Carmelo Sigliuzzo (del quale però non ho trovato riscontri negli archivi parrocchiali), Gianfilippo Bartirotti, principe di Castellaneta, dopo il matrimonio contratto con D. Maria Cyto Moles – baronessa di Presicce, Salve e Pozzomauro, nel 1613 prese dimora nel castello di Presicce con la moglie e il figlio primogenito Andrea.
Sempre secondo il Sigliuzzo, all’età di quattro anni morì il piccolo Andrea, evento che indusse il principe a far erigere una colonna votiva a S. Andrea Apostolo in memoria del compianto figlioletto[2]. Tuttavia, l’analisi artistica del monumento ci porta a far slittare la sua costruzione alla metà del XVII secolo (pur considerando le preesistenze) e, mancando altri riscontri storici, è difficile collegare l’erezione del monumento all’ipotesi proposta dal Sigliuzzo.
Si tratta di un basamento ornato da fregi e mascheroni, sormontato da una balaustra, con agli angoli quattro putti in rilievo. Il lato sud reca lo stemma araldico dei Bartirotti, il lato nord reca uno stemma di difficile interpretazione, in quanto fortemente eroso.
I lati est e ovest recano rispettivamente un cartiglio ormai illeggibile. Sulla balaustra, ai quattro lati, quattro figure, probabili virtù, tre delle quali acefale, sovrastano dei pilastri recanti dei putti a rilievo.
All’interno della balaustra vi è un poderoso plinto che sorregge quattro figure leonine e due cherubini (disposti sui lati est ed ovest, mancanti nei lati nord e sud); da essi si sviluppa una massiccia colonna e un ricco capitello corinzio che sorregge una base decorata, sormontata dalla statua del Santo pescatore.
Sul plinto, sui lati nord e sud sono disposte rispettivamente due epigrafi, ormai illeggibili. Il fusto, il plinto e lo zoccolo sono in carparo, mentre le figure, il capitello, la balaustra e i bassorilievi, sono in pietra leccese.
La differenza tra le due tipologie di pietra, necessaria per ottenere dettagli nel modellato, era attenuata da finiture cromatiche che interessavano, come consuetudine, le superfici lapidee. Dalle indagini eseguite sul monumento, infatti, è emerso che i conci di carparo erano trattati con una scialbatura, al fine di uniformarli alle porzioni in pietra leccese.
Il Santo è raffigurato con la convenzionale iconografia che lo presenta vecchio, con una folta barba riccioluta, abbigliato all’antica; la mano destra regge un lembo del panneggio, mentre la sinistra reca il libro, attributo degli Apostoli, e un grosso pesce, emblema iconografico del Santo. Sulle spalle, poi, sono visibili i resti della croce decussata, mentre un dettaglio assai particolare è rappresentato dal piede destro, che calpesta un libro. Questo singolare particolare apre a diverse ipotesi di lettura: la mia idea è che rappresenti l’eresia calpestata dalla vera fede, personificata dall’apostolo.
Interessante notare come vi siano altre raffigurazioni coeve in cui in Santo è presentato nell’inconsueta raffigurazione del libro calpestato: il riferimento è ad un S. Paolo della chiesa di S. Francesco di Paola di Gagliano del Capo. Peraltro, sia la scultura gaglianese, sia il nostro S. Andrea sono da ricondursi al celebre scultore Placido Buffelli (1635-1693), uno dei protagonisti della stagione del barocco in Terra d’Otranto.
Interessanti, quanto insoliti, sono alcuni particolari del capitello corinzio: ai quattro lati le volute prendono la forma di quattro ippocampi, la cui testa sbuca dal ricco fogliame (la presenza dei cavalli marini potrebbe essere un rimando al santo pescatore); al centro del capitello il fiore dell’abaco è sostituito dalla figura di un aquilotto svolazzante, probabile riferimento al salmo (Sazia di beni la tua vecchiaia, come aquila si rinnova la tua giovinezza. Sal. 103).
Come già accennato, tra le quattro figure leonine alla base della colonna, sul lato est e sul lato ovest vi sono le figure di due cherubini, mentre i lati nord e sud presentano uno spazio vuoto. Eppure in una foto degli inizi del secolo scorso è visibile uno scudo araldico con lo stemma del feudatario, ma di questo particolare andato perduto non abbiamo più notizie, come anche delle tre teste mancanti delle figure dei quattro angoli della balaustra, per quanto alcune ricerche hanno evidenziato che agli inizi del ‘900 le due figure del lato sud presentavano entrambe la testa. Con molta probabilità le tre teste mancanti, le mani e gli attributi iconografici, delle figure sono andate perdute nel tempo, essendo facilmente accessibili e decisamente minuti e fragili.
Sui lati nord e sud del poderoso plinto sono visibili delle lastre aggettanti, ciò che resta di alcune epigrafi rese illeggibili da segni di scalfiture. La presenza di questi elementi all’interno della balaustra suggerisce che c’è stato un tempo in cui il plinto era sprovvisto di quest’ultima e questo consentiva la lettura del testo delle epigrafi.
Durante i lavori di consolidamento degli anni ‘80 del ‘900 vennero smontati il basamento e la balaustra: quest’apertura rivelò che il plinto è precedente e prosegue con una modanatura all’interno della struttura. Questo aspetto apre diversi interrogativi: personalmente, credo che l’attuale colonna, opera del Buffelli (statue, capitello, leoni, balaustra e cornici), inglobi i resti di un monumento preesistente, con ogni probabilità il basamento di una precedente colonna votiva, sostituita nella seconda metà del XVII sec. con l’attuale.
Il 30 novembre del 2022 le intense piogge e le forti raffiche di scirocco causarono il distacco e la rovinosa caduta della raggiera del santo, che si frantumò al suolo. L’episodio, letto dal popolo come infausto presagio, dato che avvenne nella mattinata del giorno della festa del santo, in realtà ha un ché di miracoloso, dato che non ci furono incidenti (basti pensare che nella serata precedente la piazza era gremita di gente, accorsa per l’uscita della processione e che solitamente, il giorno della festa questo luogo è sempre affollato).
Le precarie condizioni conservative del monumento e, nello specifico, le fessurazioni che interessavano la raggiera erano state più volte evidenziate, ma questo non sortì grandi attenzioni, e, come spesso accade, si finisce a lavorare solo nell’emergenza, così è stato necessario uno sprone dall’alto per sollecitare un restauro.
Ora la raggiera frantumata in diversi pezzi è conservata in una teca nella parrocchiale e sulla statua è visibile il grosso perno metallico che la assicurava ad essa.
Premesso che non è più possibile (per ovvi motivi tecnici) ricollocare la vecchia raggiera, lo stato di fatto ci pone davanti a un interrogativo, che deve trovare la risposta nella duplice funzionalità del restauro (conservativa da un lato, denotativa e connotativa dall’altro). Infatti il restauratore, quando esegue un intervento di conservazione (pulitura, consolidamenti, ecc.), è chiamato ad affrontare l’altrettanto delicato (quanto rischioso) lavoro di perpetuazione dell’opera e della sua leggibilità, attraverso risarcimenti e integrazioni plastiche e cromatiche che restituiscano al manufatto, per quanto possibile, la lettura e il recupero dei suoi valori formali.
Nel monumento vi sono diverse porzioni di modellato mancanti e numerose erano le lacune, grandi o piccole. Con il recente restauro, le piccole lacune e le stilature dei giunti sono state risarcite mediante nuove stuccature, mentre le porzioni più voluminose e soprattutto gli elementi irriproducibili, perché unici (le teste e le mani delle tre figure acefale, gli stemmi araldici mancanti, le porzioni del panneggio e della croce del santo, ecc.), non sono stati ricostruiti, seguendo la logica del “minimo intervento” e della irriproducibilità dell’ornato.
Per quanto i due concetti di “minimo intervento” e di “fruizione e lettura” sembrino contrapposti fra loro, in realtà essi sono complementari. Gli attuali orientamenti concettuali della disciplina, infatti, si muovono in prevalenza nella direzione della conservazione, vista quale unica garanzia di salvaguardia di tutta la “materia originaria” e, con essa, dei valori storici e documentari dell’opera. In altre parole, la scelta è di privilegiare una sola delle due istanze brandiane – quella storica – negando una serie di opportunità, come, appunto, la possibilità di agire per la corretta lettura dell’opera. L’appiattimento su una sola istanza rischia, quindi, di negare all’opera il recupero dei suoi requisiti formali (e simbolici) necessari per una corretta lettura e comprensione, riducendo l’opera d’arte a reperto archeologico.
Dopo anni di attività nell’ambito della conservazione dei beni culturali, alla questione fra conservazione e minimo intervento e recupero funzionale dei valori formali dell’opera, posso affermare con convinzione che non esiste una verità assoluta ma una risposta che viene di volta in volta suggerita dall’opera stessa, dalla sua storia e dalla sua fruizione (destinazione d’uso).
Nel restauro non esistono regole assolute dalle quali dedurre risposte automatiche, poiché ogni intervento rappresenta un caso a sé. Il caso del monumento di Presicce ne è un esempio emblematico: la ricostruzione della raggiera divide le opinioni, ma permetterebbe alla figura del santo di recuperare l’originario equilibrio compositivo oltre che iconografico.
Nello specifico, non esiste il rischio di “falso storico”: da un lato, infatti, vi è abbondante documentazione fotografica ed esiste ancora, se pur ridotta in frammenti, l’originale, e dall’altro, disponendo oggi di numerosi materiali e tecnologie che consentirebbero di realizzare una copia dell’originale raggiera, l’intervento obbedirebbe ai due concetti di riconoscibilità e reversibilità dell’integrazione.
Note
[1] Vito Stendardo, La Chiesa ed il convento dei Carmelitani di Presicce, ed.Leucasia, 2007.
[2]I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di RUPPI F., vol. I, ed. Grifo, 2010.
Ci lasciamo alle spalle la campagna immota e vasta che fa silente mostra di sé dalle parti di “Sant’Antonio alla macchia”, a Nord-Ovest di San Pancrazio Salentino.
Sotto un sole di primavera che riscalda più del dovuto, ferme stanno le chiome dei pini che, a punti, si aggrumano boscosi conferendo amenità al paesaggio della Piana Messapica, che qui risplende alla grande. Fa apertamente trasparire la bellezza sua la terra lavorata intensamente. Calore raggiante si leva dai campi: per fortuna non vediamo i danni della Xylella, il fastidiosissimo batterio che sta colpendo il Salento intero.
Inoltrandosi nelle contrade olivate, o condotte a seminativo, l’energia che trasmettono non ci lascia indifferenti. Entrati a “Carcarone”, l’area il cui nome rimanda alla fornace da calce, un’occhiata alla carta dei beni archeologici ci segnala la presenza di una specchia, scoperta in séguito a saggi di scavo di una costruzione a pianta circolare in conci di tufo. Il luogo viene appellato “Sant’Angelo”. Superatolo, prendendo sentieri appena tracciati, ci dirigiamo verso la nostra meta, individuata per le sue emergenze culturali.
La masseria “Santoria”, quella vecchia (la nuova le sta non lontano, in agro di Mesagne, e ha tracce di una villa di età imperiale o tardo-antica), si fa notare per l’imponenza del fabbricato e per i recenti interventi di ampliamento a scopo agrituristico e ludico-ricreativo (“Castell Favorito”).
La struttura, completamente ammodernata, ricade nel feudo di Torre Santa Susanna, ma alcuni fondi debordano nel contermine sanpancraziese. Per una inezia, infatti, la cappella è fuori confine.
Colpisce per la scenografia che le è stata assegnata. La coppia di campaniletti, uno cieco l’altro con squilla d’ordinanza, fa teatro di rurale compagnia. L’affiancamento, nel racchiuso sagrato, dei parallelepipedi lapidei di apiario (qui spostati per far ambientazione rusticana), rende bene l’idea di voler ricreare una certa atmosfera. Il tronco di una autentica colonna romana, appoggiato sul muro di recinto che indulge a balaustra (c’è la chiesa, no?), conferisce dignità d’antico al sito, che trasmette un’aria classicheggiante che non guasta, anzi accresce il coinvolgimento.
Mettendo piede nell’auletta delle evaporate liturgie (cattolico-apostoliche, ovviamente) la sensazione di raccoglimento ti prende.
L’inginocchiatoio, il quadro di Maria Vergine (anche se non è l’originale, trafugato a suo tempo), l’altare tozzo, le pareti tufagne, la volta a botte: tutto rientra nel canone delle vecchie orazioni di masseria. Il tocco artistico del contemporaneo regista della rinascita del tempietto è lì a dirci che c’è ancora chi vuole a tutti i costi preservare (reinterpretandola) l’anima del luogo.
Far rivivere, con le esigenze proprie dell’oggi, quel passato devozionale dunque è lecito, basta intendersi che è una operazione di carattere culturale, benedetta sempre.
La stessa volontà di preservare i segni della fede, questa volta davvero remoti, a “Santoria” l’abbiamo evidente e “raddoppiata”.
La pulizia effettuata, il conseguente risanamento della cavità (artificiale) in campo magnificamente racchiuso, cesellato in pietre a secco, ha reso possibile di tenere lontano da manomissioni l’ambiente della cripta, che ha subito nella sua lunga durata improprie utilizzazioni. Per accedervi si passa sotto la porta architettata a monumento.
L’ingresso nella calcarenite è favorito da praticabile scalinata. Vagamente rettangolare è lo spazio abitabile, bipartito da pilastri quadrangolari su cui si intravedono lacerti anneriti di pitture. Le incrostazioni sono troppo pesanti.
Non potendo più ammirare le figure ieratiche di san Giovanni (il Battista), benedicente alla greca, e di san Leonardo (l’eremita del Limosino francese), effigiato con libro e catena (essendo il protettore dei carcerati), dobbiamo accontentarci delle fotografie dei testi di studio. Solo così ammireremo l’affresco del Cristo che instrada l’orante: “Ego sum via et veritas“.
Le parole in latino del Signore pongono l’utilizzo dell’incavo nella fase più tarda del trogloditismo rupestre. Peccato che dell’Evangelio dei monaci sia rimasta incisa solo una croce assalita dal verde.
La “buona novella” l’annuncia ugualmente quel simbolo indistruttibile di incarnata pietà, di vicinanza del Figlio dell’Uomo crocifisso per noi.
La storia che mi accingo a documentare di quella che per me rischia seriamente di essere una favoletta, è comunque emblematica di come il campanilismo esasperato, spesso ispirato da inconfessabili interessi, generi non solo i simpatici aneddoti con cui popolazioni vicine celebrano reciprocamente la loro presunta intelligenza, più spesso furbizia, contrapposta alla dabbenaggine altrui, ma induca in irresistibile tentazione pure gli storici di professione o, almeno, come tali riconosciuti.
Il fenomeno per motivi facilmente immaginabili è ravvisabile soprattutto tra gli storici locali e, sotto questo punto di vista, Nardò può vantare il suo più famigerato che famoso campione in Giovanni Bernardino Tafuri. Ma, se Nardò piange, Mesagne non ride …
Di seguito la cronotassi degli studi che si sono occupati dell’argomento sintetizzato nel titolo. Volta per volta aggiungerò le mie osservazioni e credo che il lettore comprenderà subito i miei continui rimbalzi, degni di una pallina da flipper, da un autore all’altro e dall’altro all’uno. I numeri che precedono ognuna delle tappe hanno il compito di agevolarlo in questa sorta di spola.
1) FRANCESCO MARIA PRATILLI1, Della via Appia da Roma a Brindisi, Napoli 1745, p. 493
2) ANTONIO PROFILO2, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, Tipografia editrice salentina, Lecce, 18703.
Siccome è proprio di questo autore la mistificazione più clamorosamente palese, ho ritenuto opportuno riprodurrei in formato immagine i dettagli dei brani coinvolti, nei quali. come in tutti quelli nei quali ho ritenuto opportuno seguire tale procedura, le evidenziature hanno lo scopo di rendere immediatamente visibile al lettore l’elemento principale. A p. 113 del primo volume, dopo aver riportato in sunto il Pratilli (vedi n. 1) con citazione corretta4 degli estremi bibliografici nella nota n. 12, di seguito scrive la parte che ho evidenziato col suo tratto finale (a partire da Masenza virgolettato).
Anche qui gli estremi bibliografici sono correttamente indicati nella nota n. 13:
In virtù delle virgolette di cui sopra chiunque si sarebbe atteso una citazione fedele.
E, invece, nel testo del Mazzella (lo riporto da Descrittione del Regno di Napoli, Cappelli, Napoli, 1586, p. 117, ma in tutte le altre edizioni il testo non cambia di una virgola; oltretutto bella nota il n. di p. 191 è in realtà il 186 dell’edizione sempre Cappelli, ma del 1601) si legge:
La cosa più grave, però, peccato mortale rispetto a quello veniale di gioventù che tempo fa ho stigmatizzato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/10/28/mesagne-laccademia-degli-affumicati-antonio-profilo-e-il-suo-quasi-plagio-nascosto-nel-poliorama-pittoresco/), è che la lettura fasulla fu perpetrata consapevolmente per confortare truffaldinamente un’ipotesi di lavoro, attribuendo ad un autore cosa da lui mai scritta; il tutto fidando nell’assenza di un increscioso controllo, peraltro, ai suoi tempi, non certo agevole materialmente pur in presenza di adeguata competenza. Poteva il Profilo immaginare che un anonimo (nel senso di sconosciuto, visto che firmando questo post, mi sono assunto tutte le responsabilità del caso) col supporto della rete ed in particolare del suo patrimonio di libri, e non solo, digitalizzato avrebbe un giorno neppure tanto lontano stigmatizzato una congettura che sarebbe più consono definire confettura adulterata, vale a dire frutto di una malafede che la scienza, direi per genetica avversione, dovrebbe aborrire? Certamente no, visto che anche autori del nostro tempo incorrono nello stesso peccato. per non parlare dei sedicenti divulgatori ed esperti imperversanti in tv, accattoni e piazzisti orgogliosi di sventolare il loro ultimo (purtroppo non nel senso che intendo io …) capolavoro.
Ormai lanciato sulla scia di questo Masenza, figlio degenere dell’incolpevole originale ma senza, lo storico mesagnese così prosegue (qui basta e avanza la trascrizione): Non essendoci notizie più precise intorno à questo fiume, noi congetturiamo che questo dovette negli antichi tempi avere la sua sorgente verso Torre S. Susanna percorrendo le campagne di S. Pancrazio e di Cellino, e di qui traversando quelle di Mesagne e Brindisi costeggiava il distrutto casale di Mansione (oggi masseria Masina) che in origine fu una delle fermate (mansio) lungo la via Appia mediterranea. Nel Medio Evo questo fiume essendosi nella massima parte esiccato cominciò ad appellarsi torrente di Masina, e canale del cefalo in questa parte verso Brindisi; e verso Cellino e Torre S. Susanna il predetto Corcia vuole si fosse appellato Canale del terzo, ed altri scrittori Cava. In verità dalle assunte informazioni questi due ultimi nomi s’ignorano affatto dagli abitanti di quei luoghi; epperò o non mai esistettero ovvero si sono convertiti in altri. Cero è però che percorrendo oggidì le campagne per dove si distendeva questo fiume, evidentemente si osserva il suo antico letto.
Dopo essersi affaticato col fonte, diventato la fonte di questo fantomatico Masenza, il Profilo diagnostica un dimagrimento del fiume (nella massima parte esiccato) responsabile di quello successivo del nome. A questo punto non si capisce se l’autore si riferisca ad un presunto passaggio Masenza>Masina o Mansione (da mansionem, accusativo del nominato mansio)>Masina. Se quest’ultimo passaggio fosse stato ispirato dalla contrapposizione, immaginata ma filologicamente inesistente, tra un presunto suffisso accrescitivo ed uno, altrettanto presunto, più che di paretimologia si tratterebbe di un errore ancor più clamoroso di quello, strumentale, di lettura da cui tutto è partito.
La solfa continua nel secondo volume, dove a p. 26 si legge: I Mansione(oggi Masseria Masina) e nella pagina successiva I Mansione. Del villaggio di Mansione sulla via che da Mesagne conduce a Brindisi avemmo l’opportunità di dare antiche notizie a noi pervenute. Impiantato ad oriente di Mesagne distava circa otto chilometri, a cavaliere del fiume Pactius, indi torrente di Massenza o Masina. Conservasi un privilegio di Ferdinando I d’Aragona, ricordato pure da Diego Ferdinando (2)5 e spedito nel castello nuovo di Napoli ai 10 ottobre 1487, per lo quale si concedeva al nobile Giovanni Greco di Ugento, pei servigi da lui prestati alla reale Corona, il villaggio appellato Mansione, e l’altro di cui parleremo di qui a poco, appellato Surbole6 … Infine il medesimo Ferdinando (3)7 riferisce, che ai tempi suoi questo feudo si possedeva dalla famiglia Pornerio8.
(2) Messapogr. tom. 2, lib. 2, cap. 2
La nota (2) fa riferimento alla Messapographia sive histotia Messapiae di Diego Ferdinando (1611-1662), rimasta a lungo manoscritta e pubblicata pochissimi anni fa9. Ne riporto il passo, in vista di un ulteriore confronto che farò più avanti, riprodotto dalla copia custodita nella Biblioteca “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/14).
Eadem Regina 10 Serenissimi Ferdinandi Regis Uxor concessit nobili Francisco11 Greco de Ogento duo feuda sita et posita in pertinentiis Messapiae, quorum alter12vulgariter dicitur Lo Survole apud viam, qua itur ad Uriam et alterum nominatur Mansione versus viam qua itur ad Brundusium ab eiusdem Serenissimae Reginae Curia devoluta ob rebillionem, et defetionem Salvatoris Zulli salvis fidelitate, feudali servitio et adhoa; cui etiam Ferdinandus Rex iuxta dictam Reginae concessionem privilegium et confirmationem fecit data in Castello Novo Neapoli X Octobris 1487 et registratus13 invenitur in privilegiorum primo f. 98 et reperitur in libro privilegiorum Messapiae fol. 60. Circa Ferdinandi Regis tempora plura notata digna ad Messapiae urbis dignitatem contigisse legimus. Nam anno 1467 pestis in ea ut per totum regnum …
(La medesima regina moglie del serenissimo re Ferdinando concesse al nobile Francesco Greco di Ugento due feudi siti e posti nelle pertinenze di Mesagne, dei quali l’uno è chiamato Lo Survole presso la via perla quale si va ad Oria e l’altro chiamato Mansione verso la via per la quale si va a Brindisi, devoluti dalla curia della medesima regina per la ribellione e la defezione di Salvatore Zullo fatti salvi la fedeltà, il servizio feudale e la adhoa14; a lui pure il re Ferdinando conformemente alla detta concessione della istituì il privilegio e la conferma emessi nel Castello Nuovo a Napoli il 10 ottobre 1487 e si trova registrato nel primo dei privilegi foglio 98 ed è reperibile nel libro dei privilegi di Mesagne foglio 60. Intorno ai tempi di re Ferdinando ho letto molte notizie degne ad onore della città di Mesagne. Infatti nell’ano 1467 in essa come per tutto il regno la peste …)
Per ora mi limito a dire che è singolare che il Profilo citi Diego Ferdinando piuttosto che suo padre Epifanio, che l’aveva preceduto nel trattare lo stesso argomento.15 Sulle discrepanze tra queste due fonti, che sono oltretutto le più antiche16 relativamente al dettaglio che ci interessa vedi il n. 5 nella prossima seconda ed ultima parte. Siccome è assurdo credere che il Profilo ignorasse l’opera di Epifanio, che era molto più famoso del figlio17, tanto più che, addirittura, afferma, non è dato sapere in base a che cosa, che essa fu portata a termine nel penultimo anno di sua vita18 sarò troppo malizioso a pensare che abbia deliberatamente omesso Ferdinando per corroborare la sua ipotesi e il connesso campanilismo? Dopo il caso del Mazzella sarebbe la seconda, anche se più nascosta, prova di una malafede sulla quale tornerò alla fine. Per ora vado avanti col repertorio cronologico.
Premesso che la trascrizione appena fatta è perfettamente coincidente, virgole incluse, con quella dell’autografo pubblicato nel 2024, faccio notare come il Masionem del padre è diventato Masione nel figlio, passo obbligato, ma falso …, per passare alla capra (Masina) salvando il cavolo (il latino mansio). (CONTINUA)
2 (1839-1901), avvocato mesagnese, fu autore pure di Vie, piazze, vichi e corti di Mesagne. Ragione della nuova loro denominazione, Tamborrino, Ostuni, 1894.
3 È il primo dei tre libri di cui si compone l’opera, pubblicato nel v XV della collana Scrittori di Terra d’Otranto diretta da Salvatore Grande; seguirono l’anno successivo gli altri due libri; infine col titolo di Memorie storiche di Mesagne per i tipi di Atesa a Bologna nel 1980.
4 Anche se, cosa allora abituale, mancano editore, luogo, data di pubblicazione.
5 Testo della nota: Messapogr. tom. 2 lib.u2 cap. 2
6 Torboli, invece, si legge nell’opera che sullo stesso tema aveva scritto Epifanio, suo padre, e della quale si dirà più avanti (vedi n. 3).,
8 Fornari, invece, si legge nell’opera che sullo stesso tema aveva scritto Epifanio, suo padre, e della quale si dirà più avanti (vedi n. 3).
9 Diego Ferdinando, Messapografia ovvero historia di Mesagne, a cura di Domenico Urgesi con la collaborazione di Francesco Scalera, Società storica di Terra d’Otranto, Lecce, 2020.
10 La concessione fu fatta dal re in Profilo.
11 Giovanni in Profilo, ma ancor più chiaro del Francisci del testo è il Franciscus della nota nel margine destro.
12 Col suo unum … alterum suo padre Epifanio sembra meno in difficoltà con il latino e le sue concordanze …
13 Registratus invece di registratum, in Diego altro problema di concordanza, anche se nella trascrizione del manoscritto edito da D. Urgesi si legge registratum.
14 Imposta dovuta al sovrano in base alla superficie o al reddito del feudo.
15 Si giustifica solo parzialmente con il fatto che il Profilo fu probabilmente il possessore del manoscritto edito da D. Urgesi, il quale afferma di averlo avuto in dono da Maria Profilo, nipote di Antonio.
16 Ai fini di questa indagine inutile è risultata la lettura di Messapografia del letterato salentino Epifanio Ferdinando accresciuta e tradotta da Antonio Mavaro, manoscritto inedito custodito anch’esso nella Biblioterca A. De Leo” di Brindisi ” (ms. D/4). Quella del Mavaro (1725-1812) più che una traduzione è un compendio e del testo originale in latino di Epifanio è riportato solo il primo capitolo del primo libro. Lo stesso è valso per Il profilo historico dell’antichità di Mesagne raccolto dal reverendo padre F. Serafino Profilo di Mesagne lettore theologo dei Minori Osservanti Riformati di S. Francesco della provincia di S. Nicola di Bari: e dedicato à Mesagne sua padria, inedito manoscritto custodito nell’archivio della parrocchia matrice di Mesagne. La cosa curiosa è che proprio Antonio Profilo nella sua opera messa in ballo al n, 2 (pp. V-VI) così si espresse nei confronti dell’autore e della sua opera databile verso la metà del secolo XVIII: Fortemente accecato da interesse municipale si studiò con sforzi degni dimigliore proposito a combattere gli scrittori patri delle città limitrofe evitando le gloriose loro tradizioni con la speranza d’innalxare in questo modo la patria sua. Perlocché spessissimo interpreta a sui particolare criterio gli antichi scrittori e sconvolse ka storia generale. Nonché renderci più spedita la via, questi la rese pià faticosa. Se anche lui fosse stato frate, chi o che cosa mi avrebbe trattenuto dal dire: Da quale pulpito viene la predica!” … . :
Pietro Marti nel Polesine con il suo giornale “Il Lavoro”
di Ermanno Inguscio
Nel panorama culturale delle esperienze fatte dal giovane professore-giornalista Pietro Marti in giro per la Penisola, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, il libro e il giornale costituivano due strumenti potenti per l’acculturazione delle masse e l’elevazione sociale di tutti i ceti popolari.
Di tanto fu convinto assertore l’intellettuale salentino se, a Comacchio, sul suo giornale “Il Lavoro”[1], tra le brume delle paludi del Po, non mancava di fare spesso riferimento ai libri e ai giornali. Questi erano strumenti formidabili per favorire l’istruzione delle giovani generazioni nel contesto di un’Italia post-unitaria alle prese con i primi grandi tentativi di sviluppo economico e d’integrazione tra popolazioni con bagagli di storie diverse.
Egli aveva accumulato esperienze di diversa natura sia in campo scolastico sia in campo giornalistico. E i riconoscimenti non erano mancati, se, uno per tutti, si era scomodato in suo favore, lo stesso “vate”, Giosué Carducci, che aveva portato lustro al “giovane e valoroso autore”[2].
Il Polesine gli fece conoscere un contesto assai diverso da quello delle sue origini, lui venuto al mondo sulle colline delle “serre” tra i mari dello Jonio e dell’Adriatico, a Ruffano. Si era così dovuto accostare al mondo dei pescatori di anguille, dei coltivatori di canapa e si era immerso, a livello scolastico, nel labirinto del difficile ambito linguistico (quattro varianti dei dialetti presenti, tutti del gruppo gallico italico) dei suoi alunni provenienti da centri abitati del ferrarese. Egli continuava, così, a dare alle stampe il suo foglio bisettimanale, “Il Lavoro” al tempo in cui la scuola pubblica, a Comacchio, era affidata al direttore didattico Cesare Fagli e le coeve scuole tecniche facevano sforzi considerevoli per contrastare le critiche di molti che ventilavano la creazione di un più prestigioso corso di Ginnasio-liceo[3].
Proprio in quel periodo, a Comacchio, in Corso Garibaldi, la sua “piccola Venezia”, egli aveva avuto la gioia di una figlia, Elia Emma Matilde, dalla moglie Erminia Casavola. Ma oltre alla figlia e alla sua “cattedra”, Marti spesso pensava ai contenuti urgenti da travasare nella sua “altra” creatura, il bisettimanale “Il Lavoro”. Al ruolo di puntuale divulgatore culturale sul territorio non disdegnava di accomunare l’opera del fratello Raffaele, come nel caso della pubblicazione dal titolo “ I Golfi di Taranto e Napoli e le Valli di Comacchio”[4].
Cultura e giornalismo per il professore salentino costituirono sempre un binomio ferreo per la sua attività culturale. Coeva de” Il Lavoro” fu un’altra pubblicazione, stampata a Lecce, “La modellatura della carta”. Trasferitosi a Taranto, dal 1897 al 1901, pubblicò nella città ionica L’Avvenire, L’Indipendente e La Palestra. Ma nella frenetica attività di docente sul campo e ancor più di giornalista Marti ebbe sempre presente la sua aurea concezione della funzione dei libri e quella insostituibile dei giornali per l’elevazione della cultura del popolo. Proprio sul suo foglio “Il Lavoro”, scritto spesso nottetempo sui canali di corso Garibaldi, a Comacchio, e dato alle stampe in terra estense, ribadiva il suo “credo”, a proposito di libri e di giornali.
Rimase sempre forte nel docente-giornalista Marti l’idea di una società civile da rendere sempre più evoluta con lo strumento delle scuole, pubbliche e private, a supporto di tutti gli strati popolari da riscattare dall’ignoranza e dalla povertà, con il concorso imprescindibile delle risorse dello Stato e l’abbattimento completo delle sacche di analfabetismo e di miseria umana. Aggiunse poi, in chiave molto moderna, la necessità di un’altra agenzia educativa sul territorio, fatta dai giornali e dalla comunicazione puntuale, magari giornaliera, caratteristica che a lui sarebbe tanto piaciuto, e che lo avrebbe tanto gratificato.
Così, proprio dalle colonne del suo giornale “Il Lavoro”, negli anni del suo soggiorno d’insegnamento a Comacchio, così definiva la sua idea di istruzione scolastica: “Un’istruzione orale, facile, piana e popolare, pochi libri, ma chiari, ponderati e ben composti…alcuni giornali rispettabili e rispettati, liberi da influenze estranee e corruttrici. Questa istruzione, questi libri, questi giornali, giungeranno anche a togliere dall’indifferentismo molti della classe dirigente e studiosa, che oggi si lasciano prendere la mano dagli agitatori ambiziosi e dal volgo artigiano, indotto e corrotto.[5] E lapidariamente così si esprimeva ai lettori e a tutte le persone di buon senso: “Noi crediamo che il libro e il giornale abbiano l’obbligo in questi tempi di accettare la discussione offerta, chiarire le nuove dottrine al popolo, quasi a solo scopo d’istruzione “. Che significava, che ai libri e ai giornali, spettava sempre l’insostituibile compito di fare “istruzione” al di fuori delle stesse aule scolastiche.
Note
[1]Nella Biblioteca “Ariostea” di Ferrara sono conservate centinaia di numeri del foglio bisettimanale di Marti “Il Lavoro”, a testimonianza dell’importante ruolo giornalistico svolto dal salentino in terra veneta. Si confronti pure di L. NAGLIATI, Repertorio bibliografico di cultura ferrarese dai periodici locali 1886-2003, Ferrara, Litografia Tosi, 2004.
[2] Al Carducci non sfuggì il valore del giovane autore pugliese, specie in concomitanza della pubblicazione dell’opera Origine e fortuna della Coltura salentina, pubblicata a Lecce nel 1893 dentro cui si potevano individuare in un intellettuale del Sud una grande padronanza della lingua italiana scritta.
[3] Su “La Gazzetta Ferrarese” del 18 settembre 1895, era stata riportata una petizione popolare, proposta da Giovanni Patrignani, che mirava alla istituzione in città di un Corso di Ginnasio-Liceo. E all’idea, in verità, non era neanche estraneo lo stesso Marti. Egli, com’è noto, era stato fondatore a Lecce di un Ginnasio-Liceo, gestito con alcuni dei suoi numerosi fratelli.
[4] R. Marti, I Golfi di Taranto e Napoli e le Valli di Comacchio, Lazzaretti Ed., Lecce 1896.
[5] P. MARTI, L’insegnamento e il patriottismo, istruzione socialistica, in “Il Lavoro –L’Indipendente”, 27 giugno 1896, p. 3.
Crapintare è la variante neritina di una parola che, come vedremo, non è di uso esclusivamente salentino. Con essa faremo una galoppata (datti tu all’ippica!, mi pare di sentire …) tra manoscritti e testi a stampa, saltando dalle religione alla medicina. Preliminarmente osservo che essa è parente strettissima, direi figlia di crièttu, parola della quale mi sono già occupato in un contributo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/10/11/dialetti-salentini-criettu/) del quale questo costituisce la naturale integrazione. Di seguito le varianti registrate dal Rohlfs nel suo vocabolario. Le riporto in formato immagine per fare più presto, ma soprattutto per evitare da parte mia errori di trascrizione, se non di lettura …
Al lemma crepentare, per quanto riguarda l’etimo, si legge dal latino *crepentare, derivato da crepare. L’asterisco, come ben sanno gli addetti ai lavori, sta ad indicare che si tratta di una voce ricostruita, cioè non attestata. Ma, se appartiene al latino parlato, non essendoci alcuna registrazione analogica e tanto meno digitale e no comparendo, neppure, almeno per ora, nel più scolorito dei graffiti pompeiani, mi chiedo quale potrebbe essere la trafila della sua formazione. Troppo comodo sarebbe liquidare crepentare come forma frequentativa di crèpere, pure esso attestato dal Rohlfs.
Questo crèpere, anche se il Rohlfs non lo dice, suppone un latino *crèpere che presenta un passaggio alla terza coniugazione dalla prima del classico crepare.
Il participio presente di quest’ultimo è crepans/crepantis (tema crepant-), quello di *crèpere sarebbe stato crepens/crepentis (tema crepent-). Il lettore noterà che alle due ultime non ho premesso l’asterisco, perché ho trovato, grazie alla rete e ai suoi testi antichi digitalizzati, la loro attestazione, quanto meno nel latino medioevale. Se il Rohlfs avesse avuto a disposizione i moderni sistemi informatici e, magari, anche un pizzico di intelligenza artificiale, sempre sotto il controllo della sua …, chissà dove sarebbe arrivato! A proposito di intelligenza artificiale trovo insulso il dibattito in corso sui rischi che essa comporterà e ridicola la pretesa di porre ad essi un freno. Dopo la bomba atomica e la plastica c’è poco da fidarsi, sicché da un lato quest’ultima diavoleria potrà aggiornare la data di nascita di una parola, finora provvisoriamente basata quasi esclusivamente su testi a stampa, utilizzando i dati emersi anche da manoscritti che essa stessa avrà provveduto a leggere ed a registrare nel suo archivio aggiornabile faxilmente e in continuazione, dall’altro, per quanto riguarda il settore qui coinvolto, dall’altro consentirà al solito disonesto di confezionare manoscritti, magari pure di spacciarli per antichi e di opere finora considerate perdute, addirittura metterne in vendita in rete l’immagine digitalizzata e per i più ingenui anche l’oggetto fisico. Anche per questo, visto che i tempi sospetti inesorabilmente si avvicinano, il lettore troverà soprattutto nell’appendice documentaria le immagini originali delle fonti utilizzate, il che è anche un furbesco espediente per evitare da parte mia errori, se non di lettura …, almeno di trascrizione.
Le osservazioni da me fatte poco fa sul participio presente sono strumentali, nel senso che esse hanno la funzione di aiutare il lettore non addetto ai lavori a comprendere meglio crèpitus, crepentes e crèperent, crepentium, los crepentes e losd no crepentes, crepentum (tutte forme, meno la prima, del participio presente di crèpere), per cui vedi in appendice, rispettivamente i bb, 1, 2, 3, 4 e 5.
Se i docunenti appena citati mostrano il perdurare delle forme latine nella letteratura dotta, per quelle in volgare la consacrazione letteraria avviene nella produzione in dialetto napoletano a partire dalla seconda metà del XVI secolo con Giulio Cesare Cortese e nel successivo con Giambattusta Basile e Gabrieke Fasano (vedi in appendice, rispettivamente, i nn. 6, 7 e 8).
A conferma, infine, della diffusione della voce nell’area meridionale vanno ricordati: 1) il siciliano schipintari, che, a seconda del luogo può significare spremere una pustola per estrarre la materia infetta oppure ridurre in poltiglia oppure, per finire in bellezza il senso traslato di mettere in campo un argomento dolente per saggiare la reazione dell’interlocutore nella locuzione schipintàrici ‘u canfùgghiu (alla lettera spremerci unforuncolo); 2) il calabrese crapentare, sinonimo di sbudellare.
APPENDICE DOCUMENTARIA
1
(si tratta di una inquisitio, cioè indagine o processo istruttorio dell’anno 1270 pubblicato da Antonio Muratori in Antiquitates Italicaemedi aevii, Ex typographia societatis Palatinae. Mediolani, tomo V, colonna 102)
(Nel giorno di sabato 17 gennaio Bennato de Portu di Francolino, della diocesi di Ferrara, davanti al predetto signor vescovo e a gran numero di persone giurò di dire la verità sull’infermità e guarigione di suo figlio Benvenuto di due anni d’età, ivi presente. E su giuramento disse che detto suo figlio era crepitus (**) e rimase affetto da quell’infermità, così aspramente che a stento si poteva muovere, per lo spazio di sei mesi e più, fino a pochi giorni dopo la morte del beato Armanno. E, quando egli sentì dire che Dio faceva miracoli per merito del beato Armanno, consacrò il figlio al predetto Dio e al beato Armanno promettendo che, se il suo bambino fosse stato guarito, egli gli avrebbe offerto una statua di cera con le sue sembianze
(**) era crepitus: cioè crepato, vocabolo del quale noi italiani siamo soliti servirci per indicare un enterocelico o sofferente di ernia)
Ricordo, anche per maggiore precisione, che enterocelicus nel latino classico è l’affetto da ernia intestinale) .A conferma di quanto specificato nella nota, ma pure come documentazione dei significati assunti da parole derivate dalla stessa radice, ecco quanto si legge nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che pià si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1789:
2
Johannes a Leydis (XV secolo), Chronicon Belgicum (edito nel 1854 da F. Sweeertius in Rerum Belgicarum annales, per l’anno 1374 si legge (l’immagine è tratta da Corpus documentorum inquisitionis haereticae pravitatis Neerlandicae, J. Vuylsteke ; ‘S Gravenhage, M. Nijhoff, Gent, 1896, p. 144):
(Pure nel medesimo anno [1374] una sorprendente ed inaudita calamità si manifestò ad Aquisgrana, a Colonia e nelle città intotno al Reno. Si mostrarono certi corizantia, persone di sesso promiscuo, cioè uomini e donne, così detti dai loro balli, che come i corizantia danzavano e alla fine cadevano a terra. Questi infatti vennero dapprima per la dedica in Aquisgrana della chiesa di Nostra Signora, dove saltavano davanti all’altare, alcuni fino alla sua altezza. Poi stando sulle sedie continuarono queste danze e queste cadute per lungo tempo, così che alcuni scoppiando morirono, altri pure perché non scoppiassero si cingevano strettamente intorni al ventre con delle fasce. E vennero al tratto superiore [del Reno]b ed a Leida e in altre città e, scoprto il capo, portavano certe corone e danzavano, più spesso animandosi col dire: Frijsch, Frijsc. E senza aggiungere altro andavano in chiesa vicino agli altari e davanti alle immagini della Beata Vergine Maria lì così danzado e molti e molte guardandoli si associavano e subito erano gravati dal medesimo turbamento. Alla fine da chi ne sapeva venne scoperto che costoro erano stati assediati o rapiti dal demonio e molti di loro furono guariti dagli esorcisti con giuramenti e preghiere e col vangelo di S. Giovannim circa tremila in diversi luoghi, alcuni più facilmente, altri meno e così poi quella pestifera piaga venne meno. Quando poi il demonio saliva nelle loro gambe, allora non potevano trattenersi dalla danza. Quando pveniva nel ventre, erano tormentati ferocemente ed assumevano allora un orribile aspetto. Talvolta uno o una di loro salì sulle spalle di un altro e disse di vedere in aria cose mirabili. Molti tali di primo mattino prima della festa di Ognissanti riuniti insieme nel loro consiglio decisero che nel giorno di Ognissanti che tutti insieme venissero nella chiesa di S. Lambeto a Leida e che lì uccidessero tutti i presbiteri. Ma Dio dispone soavemente tutto lo impedì. Anche uno di quei demoni, scongiurato di dire perché entrassero nei corpi di tali poveri e non ricchi o presniteri, rispose: chierici e presbiteri dico ogni giorno tante sante e belle parole ad ogni ora a noi contrarie e noiose che raramente entriamo nei loro corpi. Ma per fortuna dopo un mese saremmo entrati nei corpi dei ricchi ed avremmo mandato in rovina l’intero clero)
Nelle forme qui presenti (crepentes e creperent) crèpere è usato nel senso nativo di scoppiare. Quella sorta di cinti erniari, poi, è in collegamento semantico con la parte finale del documento 2.
3
Nell’immagine che segue il colophon di un manoscritto del XV secolo custodito nell’università di Innsbruck.
GaetanI de Thienis Vincentini philosophi preclarissimi metheororum Aristotelis libros expositioni ex originali excerpti finis impositus est per me Petrus Mauer norman(n)um Rothomagensem civem in preclaro studio Patavino die 6a augusti 1476
(La fine all’esposizione di Gaetano de Thienia illustrissimo filosofo vicentinob filosofo sui libri delle meteore di Aristotele dall’originale di un estratto è stata posta da me Pietro Mauerc normanno cittadino di Rotomagod nel famosissimo studio di Padova il 6 agosto 1476)
_____
a (1387-1465)
b In realtà nacque a Gaeta ed insegnò a Padova.
c (1400-1494)
d Rothomahus era il nome romano dell”attuale Rouen.
Questo il passo che ci interessa:
… simili modo fit lignorum viridium in ugne crepentium …
(In simile modo è il risultato dei legni verdi crepitanti nel fuoco)
Crepetium è il genitivo plurale di crèpere. La desinenza in -ium èin linea col suo valore aggettivale (sarebbe stato crescentum con un valore sostantivato).
4
Pedro Diaz, Proverbios y sentencias de L. A. Seneca, Steelsio, Anversa, 1552, p. 20:
Ebbene, il fuoco che il nostro Salvatore venne a mettere era un fuoco di amore e carità, o vuile sigbificare che si separerebbero e migliorerebbero i buoni e i pentiti dai cattivi e dai non pentiti.
Crepentes (dal latino nominativo plurale del participio presente di crèpere qui sta nel significato tralato di penitenti, pentiti).
5
Caecilii Cyprjani Carthaginiensis episcopi opera, Nivellio, Parigi, 1574, p. 162. Nel commento di Iacopo Pamelio alla lettera XXXII di Cipriano al suo clero:
(E invero non mi sfugge l’altro significato di questa voce in Prudenzio per gli stessi strumenti di tortura, mentre nell’inno sulla corona dice: dopo la violenza delle frustate crepitanti, dopo le cataste di fuco …).
Crepentum è il genitivo plurale del participio presente di crèpere. Dalla radice crepent– con l’aggiunta della desinenza dei verbi della prima coniugazione nasce, dunque, crepentare, mentre per la variante crapantarte (vedi primo dettaglio dal Rohlfs) si potrebbe ipotizzare una derivazione dal tema crepant- e, perciò, una maggiore fedeltà al classico crepare.
Questo parto di un verbo che dal suo participio presente ne genera un altro è un fenomeno abbastanza ricorrente già nel latino tardo; fra i tanti:
praesens/praesentis (participio presente di praeesse)>praesentare> italiano presentare; absens/absentis (participio presente di abesse>absentare>italiano assentare.
Per analogia, poi, in tempi più recenrti sono nati, fra i tanti:
contingens/contingentis (participio presente di contìngere)>contingentare; bulliens/bullientis (participio presente di bullire)>bollente>sbollentare e il più recente brillantare (da brillante, participio presente di brillare, che è forse dal latino beryllus).
6
Giulio Cesare Cortese (c.1570-1622), All’unico schiammeggiante, che pò’ rompere no becchiero co le Muse, De Bonis, Napoli, 1666, p. 91: … moro, arraggio, schiatto, e crepanto pe tene …
7
Giambattista Basile (1583-1632). Cito da Le Muse napolitane, egloghe di Gian Alessio Abbattutis, Macarano, Napoli, 1637.
Da Talia overo lo cerriglio egroca terza, p. 45: E che n’hà mmidia ne pozza crepantare
Melpomene overo le fonnacchere egroca quarta, p. 52: Schiatta, crepanta, sfonnola
e da Lo cunto de li cunti, I, 8, Muzio, Napoli, 1728, p. 88: … la quale visto quella bruta caira pelosa, happe acrepantare de spasemo …
8
Gabriele Fasano (1645-dopo il 1692): Lo Tasso napoletano zoe La Giorosalemme libberata de lo sio Torquato Tasso votata a llengua nosta da Grabiele Fasano, Raillard, Napoli, 1689, p. 351.
(XVIII, 99) Ma Rinaldo venire nforeatoa/vede, ed ognuno fuieb da lo bravazzo./Mo che ffarraggioc(disse)s’ostenato/songo so’ mmuprto,e mmuortod da no pazzo./E penzando a cchiù cose crepentato/diee lo passo a Ggoffredo lo Canazzo:/che lo secuta ammenaccianno, e fficca/la bannera a lo muro bella, e rricca.
__________
a infuriato
b fugge
c farò
d fatto morire
e diede
Di seguito la corrispondente ottava del Tasso, il cui cedea libero il passo il Fasano traduce con crepentato dielo passo, in cui crepentato sta nel significato di contrariato, risentito. Ma venirne Rinaldo in volto orrendo/e fuggirne ciascun vedea lontano:/ “Or che farò? Se qui la vita spendo,/la spando” disse “e la disperdo invano”./E in sé nove difese anco volgendo,/cedea libero il passo al capitano,/che minacciando il segue e de la santa/Croce il vessillo in su le mura pianta.
Il significato particolare (ma perfettamente in linea col nucleo concettuale) che crepentato assume nei versi del Fasano è confermato dalla definizione che accompagna il primo dei tre lemmi, tutti imparentati tra loro, registrati nel Vocabolario del dialetto napoletano … (vedi la parte finale del documento 1).
Sembra paradossale che in una terra ricchissima di tradizioni scrittorie e di famosi copisti i cui prodotti rappresentano i fondi manoscritti più prestigiosi delle più importanti biblioteche europee, l’introduzione della stampa sia avvenuta obiettivamente tardi. E questo nonostante un fervore culturale di respiro internazionale come nelle opere del francescano Pietro Galatino – il suo De Arcanis (1518) fu uno dei testi più letti dell’epoca e frequentemente ristampato – o in quella di Antonio de Ferraris detto il Galateo (De Situ Japigiae, Basilea 1558). Un altro salentino di Lecce, Scipione Ammirato che diventerà celeberrimo nella corte medicea di Firenze, stampò a Napoli nel 1562 Il Rota overo delle imprese – la sua prima opera a stampa – per quanto fosse stata composta a Lecce. Alle stamperie veneziane affidava le sue opere pubblicate, a partire dal 1505, l’averroista galatinese Marco Antonio Zimara. Gli esempi si potrebbero moltiplicare ma i letterati salentini continuarono a stampare da Napoli in su. E non soltanto i letterati. Il celebre umanista Belisario Acquaviva d’Aragona, duca di Nardò, fece stampare nel 1519 i suoi quattro trattatelli (De istituendis liberis principum; Paraphrasis in economica Aristotelis; De venatione et de aucupis; De re militari) da Joan Pasquet di Salò, operante con propria officina a Napoli.
È un fenomeno che non è stato mai indagato ma varrebbe la pena di chiarirlo anche perché Lecce, dalla metà del ’500, era pur sempre considerata la “secondogenita del Regno” e l’opera che con vigore argomentativo celebrava tale primazia, ossia l’Apologia Paradossica di Jacopo Antonio Ferraris composta tra il 1576 e il 1586, rimase stranamente manoscritta – ma citatissima e continuamente ricopiata – fino al 1707 (Lecce, Mazzei), l’anno della sua prima edizione a stampa: uno dei tanti misteri della stampa salentina.
Non è misteriosa, invece, l’introduzione della stampa in Puglia, certamente tardiva, ove si pensi che a Napoli si stampò a partire dal 1470-71, a Cosenza dal 1478 e a l’Aquila dal 1482. Il primo libro stampato in Puglia sono le Operette di N.A. Carmignano a Bari, del 1535, da parte di un tipografo ambulante, il francese Nehau. Ma la prima vera tipografia fissa pugliese è quella del copertinese G.B. Desa, la cui prima opera a stampa è i Successi dell’armata turchesca nella città di Otranto nell’anno 1480 del 1583, già ritenuta opera del Galateo.
L’ultima opera del Desa dovrebbe essere le Ordinationi per la chiesa et diocesi di Nardò del 1591: in poche parole l’attività di questo stampatore coincide quasi esattamente con l’episcopato del vescovo neretino Fabio Fornari. Da un punto di vista strettamente tecnico sappiamo che il Desa acquistò i caratteri e i fregi della sua tipografia da Venezia mentre il suo apprendistato fu romano. Né poteva essere, come abbiamo visto, altrimenti.
Si chiude così il ’500 tipografico pugliese ed è appena il caso di ricordare, tuttavia, che a Taranto il 1567 fu stampata la Divina predestinatione, opera di un cappuccino calabrese, Girolamo Dinami, composta appunto dal tipografo “Quintiliano Campo nel primo del mese di marzo 1567”: ma anche in questo caso siamo di fronte ad una stamperia ambulante.
Anche per G.C. Ventura che a Bari tra il 1603 e il 1607 stampò solo due opere, siamo di fronte ad un fenomeno del genere.
La prima vera tipografia pugliese del XVII secolo è quella importata a Trani dal romano Lorenzo Valeri che nella città adriatica giunse il 1619 e vi stampò il primo libro nel 1622. Nel 1627 si allontanò una prima volta da Trani per raggiungere Brindisi dove l’arcivescovo Falces gli commissionò un’opera di carattere ecclesiastico.
Da Brindisi il Valeri acquistò diverse casse di caratteri e fregi tipografici appartenuti alla dismessa tipografia copertinese del Desa. Nella bottega del Valeri, attiva fino al 1656, continuata poi dai suoi eredi, si fermarono e lavorarono numerosi giovani e tipografi. Qui – a Trani – era giunto già dal 1621 il borgognone Pietro Micheli che subito entra in contatto con il Valeri. Nel 1627 acquista caratteri a stampa, vuole, cioè, mettersi in proprio e, infatti, lo stesso anno si trasferisce a Bari dove si impianta un torchio tipografico secondo un contratto che va dall’agosto del 1629 allo stesso mese dell’anno successivo. A Bari si mette in società col tipografo bresciano Giacomo Gaidone col quale costituisce una società nel giugno del 1630 sciolta, tuttavia, appena un anno dopo (14 marzo 1631).
Col Gaidone il Micheli stampa alcune opere tra cui il Teatro morale e politico sopra le opere di P. Virgilio Marone (1630): poche opere, comunque, perché il Micheli pensava ad una piazza vergine dove poter operare in regime di monopolio e, finalmente, da solo. Comunque sia il Micheli, al quale si deve l’introduzione nel 1631 della stampa a Lecce, non si mosse da Bari fino a quando l’autorità ecclesiastica non concesse l’imprimatur per la stampa del celeberrimo Tancredi il “poema heroico” di Giulio Cesare Grandi i cui preparativi per la stampa risalivano almeno al 1628. La pubblicazione, laboriosissima, di quest’opera fu anticipata da una piccola opera i Carmina di Filippo Formoso dedicata ad Antonio Albrizzi Farnese, principe di Avetrana, marchese di Salice e signore di Torre S. Susanna patria del Formoso. Il dovizioso principe, in quegli anni, risiedeva a Lecce nella bella villa extraurbana già appartenuta al nobile Fulgenzio della Monica.
A parte l’ambiente leccese dove il Micheli ritrovò non pochi connazionali, fu la locale Universitas che, agendo sullo strumento fiscale, agevolò la sistemazione in città dello stampatore. Come ha documentato N. Vacca in un fondamentale saggio del 1965, a costui, annualmente, si concedeva un’abitazione e la franchigia della gabella “delle cose commestibili”, estesa a tutta la sua famiglia e questo “per avere introdotta la stampa in essa città”. Da quel 1631 il Micheli stampa ininterrottamente fino al 1688 quando, insieme al figlio Giacomo, testa, e del testamento in questione è possibile individuare casa e bottega che doveva essere quella accanto alla cappella di S. Leucio all’attuale via F. A. D’Amelio, ai civici 5-7 (proprio la casa dove abitò il grande poeta dialettale F.A. d’Amelio).
Ad assistere amorevolmente, padre e figlio ammalati, fu la loro serva Caterina de Palese di Salve che, riconoscenti “dei meriti acquisiti nella lunga milizia in casa Micheli”, è istituita erede universale (nello stesso notaio si trova anche la forma Caterina de Polaci).
Pienamente inserito nella realtà socio-economica della Lecce seicentesca, l’officina di Pietro fu continuata dagli eredi fino al 1696, secondo gli Annali pubblicati da G. Scrimieri nel 1976. Tale circostanza è stata confermata dal ritrovamento (G. Spagnolo) di un’opera sconosciuta, “ex officina haeredum Petri Michaelis”, datata appunto 1696 e che può essere considerata l’ultimo esemplare a stampa della gloriosa tipografia, attiva per poco meno di settant’anni, in assoluto la più longeva stamperia dell’arte tipografica leccese e, da un punto di vista contenutistico, senz’altro la più importante.
L’affermazione del Micheli fu impressionante e in parte fu dovuta al Tancredi, l’opera del Grandi già citata, probabilmente uno degli esiti provinciali più significativi di quel vastissimo movimento culturale, vivissimo specialmente nel Viceregno, che partiva dalla Gerusalemme del Tasso per caratterizzare la propria ispirazione letteraria: e Terra d’Otranto anche prima del Micheli, era stata quasi la patria delle celebrazioni provinciali del grande poeta. Non è un caso che il 1636 il tipografo fu costretto a pubblicarne una seconda edizione, circostanza rara a quei tempi.
Lo Scrimieri (Annali cit.) ha censito 234 opere a stampa del Micheli (alcune non ritrovate); successivi approfondimenti hanno permesso di aggiungere a quel catalogo qualche decina di edizioni sconosciute – per esempio Le Costituzioni del Conservatorio di S.Anna del 1685 (G. Spagnolo), Delle Orazioni, e Sermoni con le quattro domeniche dell’avvento di autore non identificato (G. Spagnolo), Mundus Traditus (F. Quarto), Il trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (G. Spagnolo), Una nuova edizione di Pietro Micheli: La Regola di Santa Chiara per le suore Cappuccine di Napoli e Lecce 1664 (G. Spagnolo) portando a circa 250 le opere complessivamente stampate dai Micheli dal 1631 al 1696. Che significò nell’ambiente cittadino questa vera e propria valanga libraria?
Sicuramente un aumento della predisposizione a leggere e a scrivere e quindi una maggiore alfabetizzazione.
Una maggiore circolazione del libro a stampa perché la tipografia locale abbatteva i costi: un libro espressamente richiesto a Venezia, per fare un esempio, doveva costare assai di più. Un libro stampato a Lecce costava meno, per ovvie ragioni, di un libro stampato a Napoli: c’era convenienza economica accompagnata ad una maggiore rapidità di stampa. Se nel 1634 il Micheli stampò cinque opere, l’anno successivo il livello era già giunto a otto – uno dei più alti di tutta la sua lunga attività, a dieci nel 1659: con il passare degli anni questo ritmo decrebbe notevolmente e, per fare qualche esempio, nel 1686 furono stampate solo quattro opere, nessuna nel 1687, una nel 1688, nessuna nel 1689 e due nel 1691: la crisi del ‘600 influì pure sul mercato librario.
Questi pochi dati sottolineano l’enorme favore che godette il Micheli nei primi anni di attività. Finalmente nelle biblioteche degli aristocratici locali comparirono le edizioni leccesi i cui autori furono, dunque, per questi, una vera e propria novità. Possediamo un elenco del 1663 della biblioteca privata dei Castromediano de Lymburg, marchesi di Cavallino e operosi committenti di opere stampate dal Micheli: le Orazioni funerali stampate il 1637 in occasione della morte di Beatrice Acquaviva d’Aragona “marchesa di Cavallino”; il Trionfo di Morte stampato lo stesso anno e per la medesima occasione come il Ragionamento del domenicano Basilio Pandolfi. Di particolare interesse tipografico è la Descrizione delle pompe funerali, sempre per la scomparsa dell’Acquaviva, stampate nel 1638. Il rapporto tra questa famiglia feudataria e il Micheli continua nel tempo e il 1660 A. Fusco stampa la Cronologia nobilissimae familiae de Castromediano; del 1676 è una specie di allegazione giuridica per sostenere le ragioni di Giusto Castromediano nei confronti dell’Ordine di Malta del quale voleva far parte. Si può pertanto affermare che i Castromediano furono i più illustri committenti della tipografia leccese del borgognone. E non finisce qui, il rapporto è tanto stretto che, come abbiamo anticipato, ed è noto da circa vent’anni, la biblioteca di famiglia possedeva un consistente numero delle edizioni del Micheli, quest’elenco è tratto dall’inventario del 1663: Lecce Sacra dell’Infantino (1634); Funerali della Marchesa di Caballino (1638); Vita di Tommaso Perrone (1641); Vergine desponsata del Grandi (1639-40); Lecce rosata (1656); il Tancredi e le Imprese del Grandi (1648); i Fasti Sacri di A. Grandi; l’opera poetica di G. Cicala, Cicada sive Carmina (1648-49). Sicuramente nella biblioteca esistevano altre opere del Micheli perché è stata conservata un’opera, attualmente nella Biblioteca Provinciale di Lecce, con un ex libris e lo stemma dei Castromediano sulla coperta che non compare nell’elenco del 1663: si tratta di un’opera di teologia tomistica di padre Dionisio Leone stampata il 1651 (sul frontespizio: ex bibliotecae marchionalis Caballini).
Si potrebbero aggiungere tante altre osservazioni come per esempio, il rapporto privilegiato dei Castromediano con i due fratelli Grandi, Ascanio e Giulio Cesare, ma è tempo di vedere cosa succede a Lecce quando anche gli “eredi Micheli” il 1696 chiudono definitivamente la loro gloriosa stamperia creando improvvisamente un vuoto che all’inizio del secolo successivo sarà in parte colmato dal chierico coniugato Tommaso Mazzei che acquista proprio dai Micheli l’attrezzatura tipografica, nel 1699, dimostrando che già a quella data aveva maturato un interesse reale nei confronti del settore, probabilmente proprio quando i Micheli cessarono di stampare.
Il Mazzei cominciò a stampare nel 1700: a questa data risalgono, infatti, due opere, le Cronache del Coniger, stampate, però, nella stamperia arcivescovile di Brindisi e il Quaresimale di M. Capuano, ristampato due anni dopo. Ma l’opera forse più importante del Mazzei è l’Apologia Paradossica del Ferrari, stampata la prima volta nel 1707 (la seconda nel 1728), operazione sostenuta da Giusto Palma “Principe dell’accademia degli Spioni”, sodalizio all’interno del quale era nata l’idea di dare finalmente alle stampe quella che veniva considerata una delle fonti principali degli studi storici locali.
Attento alla storia di Lecce, specialmente a quella sacra, nel 1714 dà alle stampe due opere, entrambe dedicate “all’illustrissima città di Lecce”, la Storia di S. Irene del Beatillo (stampata la prima volta a Napoli nel 1609), e I primi martiri di Lecce. Giusto Oronzio e Fortunato di C. Bozzi (l’opera era stata pubblicata per la prima volta dal Micheli nel 1672). Le due pregevoli edizioni sono accompagnate da altrettante incisioni dedicate ai protettori leccesi inquadrate da carnosi motivi floreali tenuti insieme in alto, come festoni, dalla valva di una conchiglia proprio come nelle architetture di Mauro Manieri: costui infatti disegnò e incise queste immagini che contengono vedute di Lecce. Tommaso stampa fino al 1719. L’opera fu continuata per un certo tempo dal nipote Francesco Egidio Mazzei che chiude definitivamente con la stampa, con la vendita della tipografia il 1740, dandosi al commercio librario in quel di Alessano.
Chi acquista è don Mauro Chiriatti, parente di Oronzo Chiriatti che il 1714 aveva iniziato una intensa ma breve attività culminato il 1723-24 con la pubblicazione delle due parti della Cronica de’ Minori osservanti riformati di P. Bonaventura da Lama e, il 1727, con il De Situ Japygiae del Galateo, prima edizione leccese, curata da Giovan Bernardino Tafuri. Ben più lunga e importante fu quella dell’erede del Chiriatti, ossia Domenico Viverito che quel 1740 ne aveva, attraverso lo zio don Mauro, acquisito torchi, caratteri e fregi.
Il Viverito era tuttavia in attività già dal 1731 con la stampa delle Quatuor centum laudes di Bonaventura da Lama. Dieci anni dopo stampa un libro capitale nel dibattito, diventato ormai europeo, sul fenomeno del tarantolismo, il De tarantulae anatome et morsu del medico campiota Nicola Caputo. Vent’anni dopo, in piena attività il Viverito stampa le Riflessioni su «lo spirito delle leggi» del Montesquieu, composte da Ermenegildo Personé, giurista, filosofo e polemista. Domenico scomparve nel 1777 ma da alcuni anni versava in difficili condizioni finanziarie.
I figli suoi, Pasquale e Giuseppe, continuarono l’attività paterna fino alla fine del secolo. Questo periodo si sovrappose, almeno dal 1795, all’attività di un altro significativo tipografo leccese, Vincenzo Marino che si associò con i fratelli compromettendo la già traballante situazione dei Mazzei, giungiamo, così, nel XIX secolo: ma è un periodo, questo, poco o nulla studiato. Vincenzo Marino, sciolta la società con i fratelli, continuò a stampare e nel 1824 pubblicò un’opera di carattere scientifico – i tempi erano veramente cambiati – l’Analisi chimica e medico pratica di un’acqua sulfurea in provincia di Lecce, di M. Micheli. Il Marino scomparve intorno al 1840, lo stesso anno della ristampa di un’opera agiografica di Oronzo Morelli su S. Oronzo (già pubblicata, sempre dal Marino, a Lecce nel 1796). Gli “eredi Marino” continuarono a stampare almeno fino al 1845. Ma negli stessi decenni della prima metà del secolo a Lecce erano sorte le seguenti tipografie: Agianese (nel 1814 stampa le Opere di F.B. Cicala); la Tipografia dell’Intendenza che nel 1832 stampa le celebri Puesei del D’Amelio (la stessa tipografia sarà denominata, più tardi, “Tipografia dell’Ospizio di S. Ferdinando nel palazzo dell’Intendenza” attiva, ovviamente, non dopo il 1859).
A queste, poco prima del 1843, si aggiunge la tipografia di Nicola del Vecchio i cui eredi stamparono, almeno, fino al 1878. In periodo borbonico nacque pure la tipografia di Alessandro Simone – 1850 – che diventò, dopo l’unificazione nazionale, la gloriosa tipografia Garibaldi presso “l’Ospizio Garibaldi alla strada S. Angelo” e poi “Tipografia Garibaldi Flascassovitti e Simone” così denominata almeno fino al 1868.
Ma dopo il fatidico 1860 il nuovo clima politico, economico e sociale della città porta in pochi decenni ad una vera e propria esplosione dell’attività tipografica che, per la prima volta, diventò uno dei principali settori dell’economia cittadina e anche questo è un fenomeno poco studiato della storia di Lecce da mettere in relazione con l’altrettanta impetuosa crescita dei periodici locali (alcuni esempi: Il cittadino leccese, dal 1861; Corriere Meridionale, dal 1890; La Gazzetta delle Puglie, dal 1881) senza contare la pubblicistica satirica e quella più specificatamente politica.
Nel ventennio successivo all’Unità d’Italia a Lecce operavano le seguenti tipografie: Simone-Garibaldi; Tip. Ed. Salentina (circa dal 1869); del Vecchio; Campanella, Lazzaretti; Scipione Ammirato e altre di minore importanza. Fino allo scoppio della prima guerra mondiale a quelle già enumerate si aggiunsero: Tip. Cooperativa; Tip. del giornale “La provincia di Lecce”; Tip. Sociale; Tip. Giurdignano; Dante Alighieri; Bortone; Masciullo; Bortone e Miccoli; Tip. del Popolo; Tip. dell’Azione Pugliese.
Al 1934 le imprese tipografiche operanti a Lecce erano queste: Buttazzo; Gallucci e Scorrano; O. Guido; Martano e Marasco; Madonna; Roberti e Mucciato; V. Conte; Cafaro; Buttazzo e Madonna; f.lli Guido; «La Celere»; l’Editrice del cav. Mannarini Sambuchi; Garrisi; G. Guido; F. Scorrano; Tip. Salentina: 17 stabilimenti che sicuramente davano lavoro a qualche centinaio di lavoratori e quindi era un settore trainante dell’economia cittadina che non conosceva, ancora, momenti di crisi in virtù del fatto che aziende del genere erano collocate, le più vicine, a Maglie, Gallipoli e Galatina e quindi la tipografia leccese aveva un bacino di potenziali clienti di quasi mezza Provincia e comunque, una capacità tecnica insuperabile. Bisogna aspettare infine gli anni sessanta del secolo perché si affermino le prime, vere, aziende editoriali con una fisionomia completamente diversa dalle tradizionali tipografie.
In Rotary Club Lecce. 60 anni di “service”. Omaggio alle Eccellenze Salentine, Congedo Editore, Galatina 2013 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 575-582, Novoli 2024.
Bibliografia essenziale
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M, Cazzato, La galleria celeste, Astrologia e Arte alla corte dei Castromediano di Lymburgh nel castello di Cavallino, Galatina, Mario Congedo Editore, 2016;
Idem, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “galleria”: per una storia del collezionismo aristocratico in Terra d’Otranto, in Residenze nobiliari. Italia Meridionale, a cura di M. Fagiolo, Roma 2010;
A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal cinquecento alla metà dell’ottocento, Lecce, Milella 2006;
R. Jurlaro, Nota sulla protostampa salentina dei Desa a Copertino tra il 1580 e il 1597, in Copertino: storia e cultura dalle origini al settecento, a cura di M. Greco, Lecce, Edizioni Grifo 2013;
A. Laporta, Settecento tipografico leccese (Note per la storia dell’arte della stampa a Lecce nel ‘700), estratto da Momenti e figure di storia pugliese. Studi in memoria di Michele Viterbo (Peucezio), vol. II, Galatina, Mario Congedo Editore 1981;
Idem, Saggi di Storia del libro, Lecce, Edizioni Grifo, 1994;
E. Panarese (a cura di), Una ricerca nella scuola dell’obbligo (Visita alla Biblioteca Piccino di Maglie), Maglie, Erreci Edizioni 1990;
E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi orientamenti”, XX, marzo-giugno 1989;
F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus Traditus. Bottega di Pietro Micheli 1686, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011;
G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Galatina, Editrice Salentina, 1976;
G. Spagnolo, Una sconosciuta edizione leccese (1664) del tipografo Pietro Micheli, in “Lu Lampiune”, X, 3, dicembre 1994;
Idem, Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, in “Il Bardo”, XXI, 1, luglio 2011;
Idem, Per la storia dell’Editoria Salentina del ‘600. “Dell’Orazioni e Sermoni con le quattro domeniche dell’Avvento” del tipografo Pietro Micheli, in Studia Humanitatis Scritti in onore di Elio Dimitri, a cura di Dino Levante, Manduria, Barbieri Selvaggi Editori 2010; Il contributo pubblicato nel 1994 su “Lu Lampiune” fu determinato dal rinvenimento di una edizione sconosciuta del Micheli del 1664 mutila del frontespizio e di alcune pagine iniziali ma dotata del Colophon. La ricerca recente di F. Quarto indicata innanzi ha permesso di individuarne un esemplare completo presso la Biblioteca della Società napoletana di storia patria di Napoli. L’edizione è la seguente: Regola di Santa Chiara confermata da Papa Urbano IIII con le constituzioni, che si osservano nel Monastero di San Francesco delle Cappuccine di Napoli e si osserveranno dalle monache del nouo Monastero erigendo delle Cappuccine della città di Lecce, in vigore della Bolla di Nostro Signore Papa Alessandro settimo, spedita alli 17 di Dicembre 1663: In Lecce, appresso Pietro Micheli, 1664;
Idem, Per la storia dell’editoria salentina del ‘600: l’ultimo Micheli?, in “Il Bardo”, XV, 3, dicembre 2005;
Idem, Edizioni di Pietro Micheli nella “Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in “Il Bardo”, XXIV, 1, Marzo 2015;
Idem, Un’opera dispersa di Pietro Micheli: Il Trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (1653), in “Il Bardo”, XXV, 2, Maggio 2015;
Idem, S. Francesco e “Il miracolo del pane” in un’edizione leccese (1754) del tipografo Domenico Viverito, in “Lu Lampiune”, XI, 1, 1995/1996;
Idem, Una scheda per gli annali tipografici di Domenico Viverito, in “Il Bardo”, XIX, 1, Giugno 2009;
Idem, I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario, estratto da Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (secc. XV-XVIII), Lecce, Edizioni Grifo, 2016;
Idem, Storie di libri. Una nuova edizione di Pietro Micheli: la Regola di Santa Chiara per le suore Cappuccine di Napoli e Lecce (1664), in “Humaniora”. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta, Ed. Grifo, Lecce 2020, pp. 389-403;
Idem, Contributo alla storia della stampa leccese nell’Ottocento. Edizioni dai torchi Marino e Agianese, in “Rassegna Storica del mezzogiorno”, n. 5, Tipografia CMYK, Alezio 2021, pp. 307-346;
P. Sisto, Il Torchio e le lettere, Bari, Progedit 2016;
M.R. Tamblé, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011.
Le illustrazioni a corredo del saggio sono tutte tratte da “esemplari” appartenenti a Biblioteca privata. Il testo “Propositiones Geometricae”, considerato l’anno tipografico riportato sul frontespizio, è probabilmente la prima opera stampata da Vincenzo Marino e fratelli (“Typis novissimis”).
Molto probabilmente anche il vino, come la penicillina, è frutto di una scoperta casuale, ma questo strano gemellaggio non si ferma qui, perché, insieme con gli effetti benefici legati al loro uso sensato, vanno registrati anche quelli negativi, per non dire nefasti, quali, rispettivamente, l’alcolismo e la resistenza dei batteri. Un alimento siffatto non poteva bon trovare ospitalità in molti proverbi di diffusione nazionale, a partire da Nel vino la verità (traduZione del latino In vino veritas, a sua volta dal greco Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια) e continuare con Bacco, tabacco e Venere riduconol’uomo in cenere, Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, Nella botte piccola c’è il vino buono ed altri, in cui l’intento moralistico è una costante, come nelle due tavole che seguono.
Vi si legge uno degli Adagia (VII, 10) di Erasmo da Rotterdam (1466 c.-1536):
Plato, temulentiae deditis suadebat ut poti ad apeculum sese contemplarentur, ita fore ut ab eo vitio recederent, conspecta foeditate (Platone consigliava a quelli dediti all’ubriachezza di guardarsi allo specchio dopo aver bevuto, (diceva) che sarebbe sarebbe accaduto che, visto quello schifo, avrebbero abbandonato quel vizio)
SCORTATIO ET VINUM ENERVANT COR HOMINIS (Il libertinaggio e il vino snervano il cuore dell’uomo). Scortatio è da scortum=prostituta. In calce i due esametri Balnea, vina, Venus iuvenilia corpora sternunt./Exemplum tibi praebet in hoc audax Holofernes (I bagni, i vini, l’amore giovanile prostrano i corpi. In questo ti offre un esempio l’audace Oloferne). Qui auax ha una calenza se non sarcastica, almeno ironica perché a quanto si legge nella Bibbia, Oloferne fu decapitato da Giuditta dopo essere stato da lei ubriacato.
Olio e vino sono stati da sempre i prodotti di punta dell’agricoltura e se il primo sta ancora pagando lo scotto ad un batterio contro il quale non è stato ancora scoperto l’antibiotico efficace, il vino ha assunto una salda notorietà ed un indiscusso gradimento internazionale. I proverbi dialettali, non fosse altro che per riconoscenza, non potevano certo trattarlo col registro delle tavole appena viste. La dimostrazione è in questa piccola antologia.
Buon S. Martino a tutti e, se volete unirvi al nostro coro, cliccate sull’icona finale …
1) ALLU MALATU: BROTU TI IADDHINA/E SSCIROPPU TI CANTINA
Al malato: brodo di gallina e sciroppo di cantina (vino
2) BBUENU MIERU1 FINU A FFEZZA,/BBONA FEMMINA FINU A BBICCHEZZA
Buon vino fino alla feccia, donna buona fino a vecchiaia
3) BBUENU MIÈRU SINU A FFEZZA,/BBUENU PANNU SINU A PPEZZA
Buon vino fino alla feccia, buono panno fino a pezza
Ancora una similitudine forse meno galante di altri, ma, in fondo, pure il vino era ed è rimasto (almeno lui …) uno dei prodotti fondamentali della nostra terra.
4) CINCA2 ‘EVE MIERU PRIMA TI LA MINESSCIA,/SALUTA LU MIÈTICU TI LA FINESSCIA
Chiunque beve vino prima della minestra, saluta il medico dalla finestra
5) CI ‘OLE BBÌSCIA LU ‘MBRIACU VERU,/SUSU LU DOCE CU BBIA MIERU
Chi vuole vedere il vero ubriaco, che beva vino sul dolce
6) LA ‘OTTE TAE LU MIERU CA TENE
La botte dà il vino che tiene (contiene)
Vale, fra l’altro, per l’educazione (il fallimento non è imputabile all’allievo ) e per la politica (se un governo fallisce, la colpa è di chi lo ha formato).
7) LA SANITATE TI L’OMU GGH’È3 LA ‘UZZEDDHA4
La salute dell’uomo è la piccola boccia
Il diminutivo (uzzeddha) ridimensiona quello che poteva sembrare un inno all’alcolismo e che, al contrario, è un invito a bere, sia pur moderatamente il vino, le cui proprietà benefiche, se così consumato, sono state confermate scientificamente.
8) LU MIERU SI CHIAMA CARUSU5:/PRIMA SCENDE SOTTA E PPOI SALE SUSU6
Il vino si chiama caruso: prima scende sotto e poi sale su
9) MIERU ‘ÈCCHIU E UÈGGHIU NUEU
Vino vecchio e olio nuovo
10) QUANTI BICCHIERI TI MIERU MI BBEU,/TANTI PINSIERI TI CAPU MI LLEU
Quanti bicchieri di vino mi bevo, tanti pensieri dal capo mi levo.
La cura, però, ha effetti collaterali disastrosi quando i pensieri sono più di uno …
11) PICCA PANE E PPICCA VINU,/PICCA ZZAPPA LU MARTINU
Poco pane e poco vino, Martino zappa poco
12) SANTU MARTINU TI ROMA INÌA/CIRCAVA ‘LLOGGIU E NO ND’ABBÌA./SOBBRA PAGGHIA E SSOTTA SARMENTE,/FAMME PASSARE ‘STA TOGGHIA TI ‘ENTRE
Martino veniva da Roma, cercava alloggio e non ce n’era. Sopra paglia e sotto sarmenti, fammi passare questa doglia di ventre
Più che un proverbio (a mo’ di quest’ultimo sono risultati più spesso usati i due versi finali) appare come l’esito del progressivo dimagrimento di una historiola abbastanza diffusa, in cui il protagonista (a seconda dei territori, è ora Cristo, ora s. Martino, entrambi plausibili pensando a sarmente, sinonimo metaforico di vino). Nel corso di un viaggio è in una casa ospite, gradito per il marito, meno dalla moglie, che per punizione è colta da mal di pancia. Tuttavia l’ospite la libererà dal malessere per riconoscenza verso il marito. Questa trama si ricava dalla versione più estesa, che è quella di Stigliano (provincia di Matera). La riportiamo da Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959: Sante Martine de Roma venia/tutte mpusse ca forte chiuvia/sceve dicenne./Arrivate a na casa nova,/’o marite vulia, a mugghiere non volia./Pesce cutte se mangiai./’Nzott’acqua, sopa sarmente/fa passà stu dolore de ventre. (San Martino veniva da Roma, tutto bagnato perché pioveva forte. Andava dicendo l’Ave Maria. Arrivato a una casa sconosciuta, il marito voleva, la moglie non voleva. Si mangiò pesce cotto. Sotto acqua, sopra sarmenti fa’ passare il mal di ventre)
13) TICE FRIBBARU: “FRATE MARZU, FRATE MARZU, ‘MPRÈSTAME TTRE GGIURNI CA ‘ITI A ‘STA ‘ÈCCHIA CCE LLI FAZZU,/CA CI LI GGIURNI MIA L’ABBÌA TUTTI,/FACÌA QQUAGGHIARE LU MIERU INTRA ‘LLI ‘UTTI”
Dice febbraio: “Fratello marzo, fratello marzo, prestami tre giorni così vedi a questa vecchia che le faccio, che, se i miei giorni l’avessi tutti, farei cagliare il vino nelle botti”
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1 Dal latino merum=puro, quasi per sottolineare la differenza rispetto ai progenitori che di norma lo annacquavano.
2 Come l’italiano chiunque, dal latino quicumque.
3 Da egli per aferesi e passaggio –gl->-gh– come in ‘ccugghire” rispetto a cogliere.
4 Diminutivo di ozza (grande vaso di creta per conservare il vino), che ha il suo corrispondente italiano boccia, di etimo oscuro.
5 Carusu, che significa ragazzo, è voce siciliana di etimo incerto; il sua uso generico qui è in funzione della rima, probabilmente per la difficoltà a trovare un nome di persona terminante in -usu.
Per quanto esso possa valere, questo stesso post ne tradisce la sostanza, essendo io uno che non perde il suo tempo a fare recensioni solo benevoli. Quel suo scritto ha avuto uno sfortunato destino, perché, dopo aver trovato un editore coraggioso che lo pubblicasse senza che il suo autore sborsasse un solo euro, tutto è finito, con le bozze già pronte, con l’improvvisa dipartita di chi gli avrebbe assicurato una più o meno ampia conoscenza.
Lucio non ha mai nutrito sogni di gloria e, nonostante fosse stimato nel suo ambito di lavoro, non ha mai sgomitato e per questo avrebbe senz’altro, a mio parere, meritato molto di più. Per la mancata pubblicazione di quello che considerava una pausa diversiva già messa in soffitta, non se ne è mai fatto un cruccio.
Due anni fa, nel corso di una delle sue telefonate mensili, la cui durata era direttamente proporzionale alla innata sua piacevolezza ed al mio gradimento, mi mise al corrente, con quella monchalance che è invidiabile solo se è sincera, che un male, domato da decenni, aveva ripreso il sopravvento. Le telefonate successive non mi inducevano all’ottimismo, anche se i residui delle sue forze non gli stavano impedendo di preparare una sorta di versione molto personale di quello scritto. È quasi regola che l’autore di un’opera in prosa o in poesia sia il meno adatto a leggerla, ma chi poteva farlo meglio di Lucio col suo vissuto di sceneggiatore, regista e doppiatore? Mi accorgo di aver usato troppi tempi del passato per non tradire la consapevolezza che il forse del titolo non mette certamente in dubbio doveroso ma serve solo ad ammantare ricordo di una disperata speranza.
L’unica cosa che mi rimprovero è che un po’ per la vista precaria, un po’ per la mia scarsa per non dire nulla, pratica delle funzioni più semplici del cellulare, può sembrare impossibile ma è così, in dieci anni non ho memorizzato il suo numero e non conosco un solo amico comune. Da due mesi la rete quasi giornalmente mi dava di Lucio notizie già note, finché oggi ho appreso che il suo Un cammello a tre gobbe può deliziare altre persone diverse dal sottoscritto e da chi, magari per un motivo fortuito e fortunato com’è capitato a me, abbia avuto l’occasione di leggerlo.
Fino a qualche anno fa sulla vita di Geronimo Marciano, autore della celebre Descrizione di Terra d’Otranto, si conosceva poco o nulla; ora, grazie alle ricerche di Giovanni Cosi1, ai numerosi ed inediti documenti da lui rintracciati nell’Archivio di Stato di Lecce e in quelli parrocchiali di Copertino, Leverano, Veglie, Maruggio, Novoli molti dubbi sono stati chiariti e si ha certamente un quadro più chiaro e più completo della sua vita, delle sue peregrinazioni, delle diverse tappe della sua professione di speziale o di medico condotto (in precedenza solo M. Cazzato e D. Novembre2 avevano fornito notizie inedite ed esatte).
Le vicende storiche, umane e, soprattutto, “letterarie” del Marciano, o meglio dei Marciano (come vedremo), si arricchiscono oggi di un altro inedito documento, rintracciato presso l’Archivio di Stato di Lecce, ritengo, di grande utilità per un ulteriore sviluppo del discorso e non certamente privo di stimolanti riflessioni. Prima di parlarne, è opportuno però fare, anzitutto, qualche precisazione di carattere familiare. Sappiamo (attraverso le minuziose e puntuali ricerche del Cosi) che negli anni in cui Geronimo Marciano visse a Copertino, si sposò due volte ed esercitò l’arte dell’aromatario. Oltre alla figlia “Maximilla” avuta dalla prima moglie “Mita Pascalis” (o “Margaritae Paschalis”), ebbe altri cinque figli (quelli accertati attraverso i documenti ritrovati, ma non si esclude che possa averne avuti altri) dalla seconda moglie Diamante Miccoli di Copertino, sposata molto giovane. Essi rispondevano ai nomi di Luca Giovanni (nato a Copertino il 9 settembre 1588), Laura (tenuta a battesimo il 22 marzo 1600 a Veglie), Giovanni Francesco (15 giugno 1601 sempre a Veglie), Giulio Cesare (18 dicembre 1604 a Veglie) e ancora un Giulio Cesare (che ricorda il precedente defunto, sempre a Veglie il 21 gennaio 1607)3.
Per quanto riguarda Luca Giovanni Marciano (la cui nascita, come già detto avvenne il 9 settembre 1588), anche lui sulle orme paterne scelse il mestiere di medico (Artium et Medicinae Doctoris, come si diceva allora)4, cosa che non impedì – come non era stato d’impedimento al padre – di coltivare, in privato, altri “interessi” come dimostra l’inedito documento di seguito riportato.
Era il 19 giugno 1612, e di fronte al notaio Pietro Fulino di Copertino5 si presentano, per una Declaratio, il Sindaco (Silvestro Pala), gli Ordinati e gli Eletti che costituivano il Publico Regimento dell’Università di Leverano. Costoro, “in vulgari lingua” affermano “come è loro pervenuto ad orecchio la notizia esser stato Luca Giovanni Marciano AMD cittadino e padrizio dell’istessa loro padria per conto di certi versi che quello avesse fatti per burla, e che si pretende esser stato fatto citare in nome d’essa Università di Leverano (senza saputa d’essi Sindaco et ordinati), che però hoggi predetto giorno spontaneamente” – continuano nel dichiarare – “che né loro né alcuno di loro… hanno fatto istanza a nissuno tribunale contro del detto medico loro cittadino né sanno cosa alcuna di detta citazione, né mai hanno fatto procura né persona di nissuno per simile occasione”.
Quindi i “versi burleschi” del Marciano, a quanto sembra, non avevano procurato le ire dell’Università. In realtà, affermano, i dichiaranti, essi hanno “fatto procura in nome della di loro Università per la causa ch’essa tiene con il conte di Palmariggi (…) sopra alcune differenze civili e criminali et alle occorrenze d’essa Università e non per causa che si dia fastidio alcuno al detto medico” perché non “hanno havuto mai intenzione noiarli”. Purtroppo, non sappiamo – forse non lo sapremo mai – i contenuti dei versi burleschi del Marciano. Né sappiamo il motivo del contendere le differenze che vedevano antagonisti la povera Università di Leverano e il ricco, colto e “illuminato” conte di Palmariggi, ovvero Alessandro Mattei II che lo stesso Geronimo Marciano, padre di Luca Giovanni, ricorda nella sua Descrizione come “uomo di singolar dottrina, versato in tutte le scienze, nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e prudentissimo principe”, uomo con cui comunicò e discorse molte cose della sua Descrizione (anche se non è da escludere, dalle notizie che abbiamo su Alessandro Mattei II, risulta difficile pensare a un episodio di sopraffazione feudale)6.
Rileggendo più attentamente la “dichiarazione”, si ha però l’impressione che la questione doveva essere diventata abbastanza complessa, all’epoca, tanto da ingenerare grande confusione e pettegolezzi (“pervenuto ad orecchio”), se i dichiaranti sentono appunto la necessità di presentarsi spontaneamente da un notaio per chiarire il malinteso a beneficio dello stesso Luca Giovanni Marciano che aveva allora l’età di 25 anni.
Di versi, anche se non burleschi, ma certamente molto più famosi, sentiremo comunque parlare ancora, in seguito, per merito (seppur indiretto) del suddetto Luca Giovanni che arricchì l’albero genealogico della sua stessa famiglia con un’altra celebrità. Egli, come il padre (faccio ancora riferimento al saggio di Cosi), si sposò per ben due volte: il 10 febbraio 1613, a Maruggio, dove esercitava la professione di medico, sposò Silvia Palmarici di Mario e di Rebecca Sicardo da cui ebbe i figli Maddalena (7 gennaio 1614) e Geronimo (15 febbraio 1615). Successivamente, il 2 marzo 1631, sposò a Salice, Isabella Mavaro in quest’atto di matrimonio si precisa che è vedovo)7. Da questo secondo matrimonio (secondo quanto scrivono G. De Nisi e L. Quarta), sarebbe nato un altro Geronimo (dopo la morte del primo nato a Maruggio)8.
Quest’ultimo Geronimo, poi futuro parroco di Guagnano, soprannominato “Lu Mommu de Salice”, si distinse per averci lasciato quello che è considerato il più antico testo poetico dialettale salentino, ovvero “Viaggio de Leuche a lengua de Lecce compostu dallu Mommu de Salice, ed ultimamente dallu medesimu, rinuato mpiersu lu scegnu de Casaleneu deddicatu allu marchese d’Oria D. Michele Imperiale”. Michele Greco, bibliotecario della Gattiana di Manduria, lo ritrovò in un volume che faceva parte della raccolta di manoscritti messi insieme dal coltissimo e geniale geografo, storico e poligrafo mandurino Giuseppe Pacelli, raccolti indefessamente e pazientemente sin dalla sua prima gioventù. Questo volume fu donato in seguito da Giuseppe Gigli, poeta mandurino, nel 1897 al sac. Leonardo Tarentini, scrittore di storia mandurina e da questo affidato alla bilioteca Gattiana9. Lo stesso Greco successivamente, come scrive Enzo Panareo che del “bellissimo e vago componimentoeroico in lingua leccese” s’interessò in un suo pregevole saggio, “la pubblicò sia pure mutila per esagerati scrupoli relativi alla decenza – manifestandosi, pertanto, meno spregiudicato del Pacelli,vissuto circa un secolo prima – e non eccessivamente fedele all’originale, pose inrilievo, fornendo in tal modo una suggestiva ipotesi di lavoro, che si trattava del più antico testo poetico in dialetto salentino che finora si sia rinvenuto”10. Nel concludere, alla luce anche del documento, in precedenza segnalato e di quanto si sia sinteticamente esposto, non si può non constatare, a mio avviso, che risulta pienamente realizzata e tramandata, tra i Marciano, una significativa e indubbia eredità culturale, eredità che caratterizzerà e lascerà un’impronta tanto profonda quanto duratura sia nel campo della descrizione storica e geografica che in quello della dinamica letteraria.
Appare chiaro altresì (e questo può essere un’ulteriore suggestiva ipotesi di lavoro) che un eventuale e fortunato ritrovamento dei versi burleschi di Luca Giovanni Marciano (nel caso fossero stati scritti in dialetto e non in “vulgari lingua” – ipotesi più che possibile considerata la ragione per cui erano stati concepiti – e rivelassero una certa dignità letteraria) farebbe spostare di molti anni il momento della nascita della letteratura salentina in dialetto, collocato, com’è noto (in relazione al poemetto de “Lu mommu de Salice”) tra l’ultimo decennio del Seicento e il primo decennio circa del Settecento, cioè facendo riferimento alla cronologia dei personaggi illustri citati nel testo – Donna Teresa Erriquez sposa di Don Giovanni Filomarino, e Michele III Imperiali, Marchesi di Oria –, tra gli anni 1692 e 1714. Diversamente, avremmo invece un raro e simpatico esempio di satira seicentesca, quella satira che ancora oggi, è tanto e largamente utilizzata nei “numeri unici” che vengono pubblicati in occasione delle nostre feste patronali, dove i principali “satireggiati”, guarda caso, sono proprio i politici, gli uomini pubblici o i gruppi di potere.
In “Il Salice – Quaderno della Biblioteca Comunale”, Salice Dicembre 1998, pp. 43-48 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 47-52, Novoli 2024.
Note
1 G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in “Contributi”, a. IV, n. 4, dicembre 1985, pp. 33 e sgg. (studio fondamentale sui Marciano in Terra d’Otranto). A questo saggio si rimanda, per un quadro più completo, anche per le indicazioni bibliografiche degli altri studi sul Marciano dei vari Cazzato, Novembre, Zacchino, De Giorgi, Laporta, Catamo e Zecca.
2 D. Novembre, Geronimo Marciano, corografo di Terra d’Otranto nel primo seicento, estratto dal fasc. XLIII-XLIV di “Studi Salentini” Lecce 1973.
3 G. Cosi, Nuovi documenti ecc. cit., p. 34, 36, 38, 40, 41.
4 I documenti che si riferiscono a Luca Giovanni Marciano sono quelli classificati con i numeri 8-10 (da questo risulta che viene cresimato in Leverano il 12 maggio 1593 – padrino don Donato Paladini) e 17 – G. Cosi, Nuovi documenti ecc. cit., p. 38, 39, 41.
5 Archivio di Stato di Lecce, Protocollinotaio Pietro Fulino di Copertino, 29/4, a. 1612, cc. 123v-125v.
6 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della provincia di Terra d’Otranto, Napoli 1855, p. 472 (ristampato nel 1996 dall’ed. Congedo con introduzione di D. Novembre). Sulla figura e l’opera di Alessandro Mattei II consultare di chi scrive Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Lecce 1990; Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di S. Maria de Nove, Lecce 1992; Il Principe Perfetto: Giovanni Antonio Albricci III (Testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri, illustre letterato salentino, in “Quaderno di Ricerca”, Salice S. Ottobre 1989, rispettivamente alle pp. 36-47 e pp. 48-49; e infine il recente M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, in “Camminiamo insieme”, a. XII, n.1, Novoli gennaio 1998, pp. 16-17.
7 G. Cosi, Nuovi documenti ecc. cit., p. 46.
8 G. De Nisi, Salice, Terrae Hidrunti, Ostia MCMLXVIII. Dalla nota n. 142 di pag. 97 di questo contributo si ricavano le seguenti notizie (non si dà però la fonte delle informazioni) su “Lu Mommu de Salice”: Si presume sia nato a Maruggio nel 1632, dove il padre, Luca Giovanni, esercitava la professione medica. Rimasta vedova, la madre Isabella Manaro (G. Cosi la riporta invece come Mavaro), si trasferì con i figli a Salice, che era il suo paese d’origine. Qui Geronimo intraprese, ad un certo momento, la carriera ecclesiastica. Dal 1669 al 1676 Geronimo fu arciprete di Guagnano. Ma per le condizioni di salute della madre, poi defunta nel 1677, Geronimo rinunziò all’arcipretura e rientrò nel Capitolo di Salice. Nel 1695, con atto del notaio Scipione Forte, Geronimo Marciano donò tutti i suoi beni ai nipoti, i quali risiedevano a Manduria. Qui si trasferì, infine, nel 1700 andando ad abitare con Marco Domenico Alemmo. Morì il 28 febbraio del 1714 e fu seppellito nella Chiesa Collegiata di Manduria”. Secondo il Quarta, il Marciano (“Lu Mommu”) nel 1666-1667 fece rappresentare in Salice, all’aperto, a spese del Capitolo, una “Passione di Cristo”, in versi, il cui manoscritto era conservato dall’Arciprete Gravili (Cfr. G.L. Quarta, Salice Salentino dalle origini al trionfo della Giovane Italia 1001-1860, Galatina, giugno 1989).
9 M. Greco, Lu Mommu de Salice e il suo“Viaggio de Leuche” a lengua noscia de Rusce, in “Rinascenza Salentina”, a. III, dic. 1935-XII, n. 5-6, pp. 253-266. Viene pubblicato il poemetto del Marciano e lo stesso Greco dà notizia del rinvenimento nell’Archivio Parrocchiale di Manduria (Necrolog. vol. I, C. 40) del suo atto di morte e con il luogo della sepoltura (“1714… Geronimo Marciano di Salice 28 Febraro in Ch. Colleg.”). O. Parlangeli lo ripropose poi in “Raccolta di testi dialettali salentini, in “Ottocento poetico dialettale salentino”, I vol., a cura di Ribelle Roberti, Galatina s.a. (ma 1954), pp. 229-251 (il testo è utile non solo per i componimenti in dialetto salentino successivi, ma anche per qualche testimonianza precedente il componimento del Marciano: Nniccu Furcedda, La Juneide, sedici sonetti inediti del ‘700 in dialetto leccese scoperti nel Museo Britannico di Londra scritti da un anonimo e pubblicati da Nicola Bernardini.
10 E. Panareo, Geronimo Marciano e la poesia dialettale salentina, estratto da “Quaderno di ricerca”, Salice S., Marzo 1986 (importante per una valutazione critica e letteraria dell’opera in cui scrive, il Panareo “… il dialetto del Marciano è tale da far pensare che la lingua del Salento può promuovere la realizzazione di una fascia di poesia” pp. 38-46. Uno studio aggiornato e ben documentato del “Viaggio” del Marciano con relativa traduzione in lingua italiana è stata fatta qualche tempo fa, da M. Marti prima con Il più antico testo letterario in dialetto salentino: il “Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano, in “Omaggio a Gianfranco Falena”, Padova 1993, pp. 1241-1264 e poi con “Il Viaggio de Leuche” di Geronimo Marciano”, in “Letteratura Dialettale Salentina – Il Settecento”, Galatina 1994, pp. 25-53. Utili altresì, per avere un quadro più completo sulla letteratura dialettale salentina, possono essere infine, i contributi di E. Pindinelli, Settecento Tipografico Leccese (19 schede per un repertorio delle edizioni), in “Nuovi Orientamenti”, a. XVII, n. 98, sett-ott. 1986, pp. 12-13 (per il sonetto di Oronzo Procacci, primo testo in dialetto pubblicato per le stampe – 1757 – tra i più antichi conosciuti) e di chi scrive il recente Settecento poetico inedito: un manoscritto e due sonetti “alla leccese”, in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, n. 8, Galatina 1998, pp. 243-245 (con la pubblicazione di un sonetto dialettale completamente inedito risalente al 1783).
Chi si approccia al fenomeno del tarantismo, non può non prendere in considerazione la figura di De Raho, ”medico dei tarantati” della prima metà del secolo scorso.
Francesco De Raho studia presso l’Università di Roma; nel 1906 consegue la laurea in Medicina e Chirurgia. Rientra, quindi, a Lecce, città natale, per esercitare la professione medica.
Si trova ad affrontare, così, la sintomatologia clinica del tarantati, presenti nel contesto salentino. Ne approfondisce gli aspetti biologici e ambientali. In verità al tema del tarantismo s’era appassionato già nel corso degli studi, tanto da farne argomento della tesi di laurea.
De Raho sostiene che il fenomeno, una reazione devastante con scosse e tremori del corpo dovuta secondo la tradizione popolare al morso del ragno, vada inquadrato “nell’isteria in senso lato”.
È un’impostazione che incontra l’interesse del mondo accademico romano, e non solo. Anche a livello internazionale gli studi di medicina si mostrano particolarmente attenti al tema della “Isteria”. Una scelta decisamente vincente: la sua tesi, verrà successivamente pubblicata con il titolo “Il tarantolismo nella superstizione e nella scienza”. Il saggio assumerà una rilevanza fondamentale per l’interpretazione del fenomeno: ancora oggi viene citato dagli studiosi della materia.
Francesco De Raho non si limita, tuttavia, ad esercitare con passione la professione medica. Appartiene a una famiglia di facoltosi proprietari terrieri, i baroni De Raho. Ragioni patrimoniali lo indurranno a intraprendere l’attività imprenditoriale nel settore agricolo, a cui finirà per dedicarsi in modo prevalente.
La conoscenza delle condizioni di vita del mondo rurale lo indurranno ad affrontare le relative problematiche secondo un punto di vista che va oltre l’aspetto prettamente clinico del fenomeno.
Per De Raho le radici del tarantismo vanno ricercate nel vissuto esistenziale e nel contesto sociale ed economico del tarantato. Un’espressione adottata dalla tradizione e dalla cultura salentina per risolvere situazioni di criticità emergente. Si tratta di un’intuizione che in qualche modo anticipa l’interpretazione del fenomeno come “sistema simbolico”, con cui più tardi si definirà la questione del tarantismo. L’obiettivo dichiarato da De Raho è rimuovere le implicazioni che il fenomeno ha assunto con la magia, la superstizione o le false credenze religiose, che condannano il tarantato all’emarginazione sociale e alla sofferenza fisica.
In sintonia con lo spirito illuminista e il pensiero positivista dominante, al medico preme formulare un giudizio sul tarantismo, libero da “credenze superstiziose” e in tal modo emancipare i tarantati da una condizione che interferisce in maniera negativa sulla condizione di salute. Per tanto s’impegna a fornire elementi di rigore scientifico alla sua trattazione: cita fonti autorevoli a sostegno della sua tesi, allega la descrizione di una serie di casi clinici direttamente osservati.
Infine esegue una vera e propria sperimentazione, facendo “mordere dalle tarantole raccolte molte cavie”. Il riscontro che gli animali “nulla presentavano degno di nota”, è riportato come prova a sostegno della sua tesi: l’azione tossica del morso del ragno non può essere ritenuta responsabile della sintomatologia del tarantismo.
De Raho intende, così, porre fine alla “ciarlataneria” sulla tossicosi da morso di ragno e alle tesi “assurde, per cui si scorgeva sempre nell’insorgere e nella natura dei fenomeni morbosi, l’influenza di forze occulte anzi addirittura diaboliche”. Il medico lamenta che “ molti giudicarono per induzioni vaghe su poche osservazioni altrui, in parte erronee ed esagerate, ed immaginarono, poiché la nevrosi per se stessa ne dà agio, cose ancora più favolose e più sorprendenti”. In sintesi, si propone di “razionalizzare” l’approccio al tarantismo. Classificato tra le Nevrosi, il tarantismo può ottenere il riconoscimento da parte della medicina ufficiale.
Ragione, Progresso e Scienza avrebbero sottratto i tarantati dal retaggio delle epidemie morali del medioevo, dalla stregoneria, dalla superstizione e dalla false credenze religiose.( cfr F. De Raho, Il tarantolismo nella superstizione e nella scienza, Besa ed.)
Lo stesso De Martino gli riconosce il merito di aver messo a profitto dei tarantati il sapere appreso sui libri di Charcot, di Gilles de la Tourette e di Pierre Janet” (cfr E. De Martino, La terra del rimorso). Un riconoscimento, che probabilmente ha contribuito alla maggiore notorietà di De Raho rispetto a quella di altri medici salentini che pure hanno mostrato interesse e dedizione per i tarantati. Al contempo, però, De Raho avverte anche il pericolo che inquadrare il fenomeno come isteria, poteva essere soggetto a trattamenti terapeutici anche severi, basti pensare all’uso delle “cure elettriche”. Una certa critica, infatti, ritiene che tale impostazione abbia favorito un’eccessiva medicalizzazione del fenomeno.
Le doti umanitarie, l’empatia verso la sofferenza e la formazione classica di Francesco De Raho rientrano nella figura del “medico umanista”, a lungo presente nella tradizione meridionale.
Un clinico e un intellettuale radicato nel territorio salentino, ma aperto e sensibile al clima culturale dell’epoca. Un testimone del tarantismo del primo Novecento, quando il fenomeno è ancora pienamente attuale e conserva buona parte delle caratteristiche della tradizione popolare originale, ma comincia a risentire del contraccolpo della cultura razionalista, che scardinerà le radici magiche e popolari, preparandone il suo epilogo.
Nota. Il tema del presente contributo è trattato dall’autore R. Lupo in Tarantismo senza tarantati, Musicaos Ed.: tutti i diritti di copyright sono riservati.
Non dista molto la cappella di “Sant’Antonio” da Torre Santa Susanna. Il paese è lì, a pochi passi, con le sue ultime case cresciute a vista d’occhio negli anni dell’espansione urbana. Un chilometro o poco più separa l’abitato dal tempietto eretto per devozione al grande taumaturgo patavino nel 1940.
Sulla strada per San Pancrazio Salentino, che fila dritta dritta in un mare di campagne, all’altezza di “Casa Vazia”, Giuseppe Pinto pose la prima pietra sciogliendo in tal modo il voto per la grazia ricevuta: la vita salva al figlio sedicenne che contrasse il tetano. L’uomo, un contadino che si dava da fare nella negoziazione dei prodotti della terra (comprando e vendendo anche animali alle fiere), da solerte padre di numerosa famiglia (come le più allora) si spese per ringraziare a dovere il santo che “aveva sulla testa del letto”, in figura domestica sempre pregata.
“Sippuddu” (così era conosciuto da tutti, per via della sua bassa statura), aggrappandosi alle corde della fede, implorò l’intervento del dispensatore delle 13 grazie. La credenza popolare si rivelò d’aiuto, per il suo ragazzo che stava più di là che di qua.
La messa di ringraziamento, la prima, fu sentitissima ma non bastava: bisognava andare oltre; pertanto, il papà, non pago, attaccando l’asino al carretto (quello delle mercanzie), si portò a Lecce: una distanza che richiedeva il viaggio di un’intera notte. La meta era la bottega del cartapestaio, che lo accontentò vendendogli una statua di sant’Antonio non troppo costosa, di media grandezza. Andava bene, faceva al caso.
L’intenzione di onorare il miracoloso fraticello fu presto cosa fatta; pagato il dovuto, con il simulacro imballato (con le buche in agguato non si scherzava!) fece ritorno a casa (pregustando la contentezza dei familiari). L’opera di fine artigianato, dal formato abbordabile, rimase nello stanzone giusto il tempo necessario per porla in piedistallo d’altare, nell’aula liturgica che stava venendo su, bella e delicata, nel campo acquistato coi sudori d’una vita.
Fece la sua figura (eccome se la fece) quel manufatto apprestato da un nome di grido (esposto in vetrina di città blasonata), che per sentito dire aveva fama che travalicava i confini di provincia. Quale miglior “biglietto da visita” per i fedeli che, a partire dai tempi di guerra, ogni 13 di giugno (ricorrenza di calendario del Doctor evangelicus, divenuto tale per proclamazione di Pio XII nel 1946), processionalmente si portavano alla chiesetta extraurbana.
Oggi, però, che l’originale del santo non è più al suo posto (lo rubarono, i maledetti), la copia comunque sopperisce alla bisogna. La custodiscono i discendenti del devoto; la ricollocano nel dì della festa, lasciandola giusto per le ore dell’adorazione di coloro che non dimenticano l’appuntamento antoniano.
Sullo spiazzo, che funge da sagrato (tenuto a meraviglia, con l’erba rasata e gli alberi d’ombra che fanno cornice), il prete celebra ora come allora. Certo, non è facile reclutarlo per la funzione, ma alla fine la benedizione si fa, la si impartisce con grande soddisfazione dei parenti di Giuseppe Pinto. Essi, come insegnato dal loro indimenticato congiunto, offrono ai presenti il pane di sant’Antonio, che non è più quello dei poveri, ma è apprezzato lo stesso (anche dai ricchi) per il suo significato profondo, di attaccamento alla tradizione, che si tiene viva lasciando giorno e notte la porta aperta della chiesina, amorevolmente ripresa nelle sue linee architettoniche.
Si respira – verrebbe da dire – una sorta di seraficità tanto nel dentro quanto nel fuori del luogo sacro.
Condividere la preghiera facendo gioiosa comunità (popolo di Dio “in trasferta” dal paese) con un panetto sbocconcellato per rispetto del posto (gli altri pezzi si incartano per casa…), non credete possa essere un viatico per affrontare una camminata che alfine fa bene anche allo spirito? Provare non è una penitenza!
Attraversando le esposizioni del Museo Archeologico Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce si possono scoprire alcuni peculiari reperti antichi che stupiscono e incuriosiscono anche il visitatore non appassionato di archeologia. Mi viene subito in mente lo splendido disco aureo proveniente dagli scavi di Roca (età del Bronzo Finale, XII/XI secolo a.C.), che fa bella mostra di sé in una delle sale principali del museo, oppure le famose Veneri di Parabita che, dopo millenni, restituiscono ancora il senso di quella che fu la religiosità delle genti salentine di epoca neolitica.
Tuttavia ci sono certi reperti che restano più nascosti, magari nell’angolo di una teca poco illuminata, ma non per questo sono da considerare meno importanti dal punto di vista storico e, soprattutto, meno affascinanti. Così, se si ha la pazienza di osservare con attenzione le decine di vetrine espositive del museo leccese, una volta arrivati alla sezione dedicata agli scavi di Vereto, s’incontra una vera rarità archeologica.
Si tratta di un piccolo manufatto di epoca romana, uno scheletro in bronzo alto appena una decina di centimetri, monco e un po’ deforme, che desta quasi il ghigno di scherno dell’osservatore. In realtà questo bronzetto è uno dei pochi esemplari esistenti al mondo di larva convivialis (se ne contano solo 10 esemplari sparsi tra Europa e Stati Uniti1), un oggetto che costituisce, a mio avviso, una chiara testimonianza di quanto la comunità veretina, una volta entrata nell’orbita romana, si fosse pienamente integrata nel sistema socio-culturale dell’Urbe. Inoltre questo strano reperto, all’apparenza poco significativo, offre l’opportunità di far luce, in modo parziale e non definitivo come spesso accade nella ricerca storica, su un periodo fondamentale della storia del Capo di Leuca: l’epoca della romanizzazione e della latinizzazione della penisola salentina.
Innanzi tutto occorre partire dall’uso e dal significato che a tali oggetti veniva attribuito nell’antica Roma; è noto che le larvae conviviales, o scheletri da banchetto, erano delle marionette snodabili in metallo, in genere argento o bronzo; esse rappresentavano degli oggetti di prestigio, infatti venivano usate esclusivamente sulle tavole delle classi più agiate durante i ricchi banchetti che caratterizzavano la vita sociale delle élites cittadine. Erano utilizzate in un particolare gioco di carattere conviviale e servivano per ricordare ai convitati la caducità della vita e, quindi, per esortali a godere a pieno dei suoi piaceri e dei suoi momenti lieti. Questo rituale, che a noi può apparire un po’ macabro, viene puntualmente descritto da Petronio nel Satyricon, nel famoso racconto della cena di Trimalcione, ricchissimo liberto romano, la cui mensa diventa teatro di scene comiche e grottesche che offrono uno spaccato unico della società dell’epoca. In uno dei suoi passi si legge:
“[…] Subito furono portate delle anfore di cristallo accuratamente sigillate al cui collo erano appese delle etichette con questa scritta: FALERNO OPIMIANO DI CENTO ANNI. Mentre noi leggevamo attentamente l’etichetta, Trimalcione batté le mani e disse: << Ahimè! Dunque il vino vive più a lungo dell’omuncolo! Ma allora non indugiamo a scolarcelo! Il vino è vita. […]>>. Mentre noi tracanniamo e osserviamo attoniti tutto quel ben di dio, arriva un servo con uno scheletro d’argento costruito in maniera tale che le giunture delle articolazioni e delle vertebre permettevano qualunque tipo di movimento. Dopo averlo buttato a più riprese sul tavolo facendogli assumere varie posizioni grazie alla sua struttura mobile, Trimalcione aggiunge: <<Ahimè, miseri noi, che cosa da nulla è un pover uomo. Noi tutti saremo così quando l’Orco (nda: divinità degli inferi) ci prende. Ma allora viviamo, finché possiamo stare bene>>2.
Questo brano ci da una visione realistica di quello che era il senso della vita e della morte presso una parte della società romana, l’alta borghesia nello specifico. Una società in cui, a partire del I secolo a.C., si diffonde il topos letterario della brevità dell’esistenza umana, tema centrale della filosofia epicurea.
Da Lucrezio al carpe diem di Orazio, nella letteratura latina vi è un susseguirsi di inviti a godersi la vita, di esortazioni a essere consapevoli che nulla dura in eterno e a cogliere l’attimo. In questo contesto filosofico-culturale s’inserisce il gioco dello scheletro da banchetto, un rito “di moda” nelle mense delle classi più agiate che serviva da monito, memento mori, e da incitamento a partecipare consapevolmente alle cose belle della vita3.
Dunque la larva convivialis di Vereto si colloca in un preciso contesto culturale di stampo prettamente latino. Essa proviene da una tomba scoperta nel 1961 nel territorio di Patù, in località Mariane, manca del braccio destro e della parte inferiore delle gambe4; dando per buona la datazione di I secolo d.C.5 che le attribuisce la Garcia Barraco, allora appare più chiaro come anche nell’estremo lembo sud-orientale della Penisola le élites locali, una volta passate sotto il giogo romano, si fossero precocemente latinizzate assumendo gli usi e i costumi dei conquistatori, ricalcandone i modi di pensare e, probabilmente, abbandonando l’uso della lingua messapica a favore del latino.
La penetrazione romana del Salento meridionale iniziò già nel III secolo a.C. (al 280 a.C. risale l’iscrizione della vittoria su Tarentini, Sanniti e Sallentini, al 267 a.C. quella sui soli Sallentini, al 266 a.C. quella del trionfo su Sallentini e Messapi), ma si trattò di un’occupazione piuttosto precaria tanto che le guerre annibaliche portarono diverse defezioni nel campo degli alleati di Roma: alcune città messapiche passarono presto con il condottiero africano, altre invece, rimaste fedeli, vennero assediate e distrutte dalle truppe puniche (in questo contesto si colloca la distruzione di Castro-Castrum Minervae e probabilmente anche del centro fortificato messapico di Montesardo). Tuttavia dopo le guerre sociali dell’inizio del I secolo a.C. l’antica Messapia sembra integrarsi nel sistema economico di Roma, infatti, con il passaggio dalla Repubblica all’Impero, cominciò a prendere forma, attraverso la colonizzazione agraria, il modello di organizzazione territoriale che caratterizzerà il Capo di Leuca per diversi secoli.
Nel Liber Coloniarum appaiono due notizie relative alla limitazione agraria del Salento: la prima senza data ma che in genere si colloca in età augustea, mentre la seconda è riferibile con certezza all’epoca di Vespasiano (69-79 d.C.) e menziona esplicitamente il territorio di Veretum6. Probabilmente proprio in questo momento la città più meridionale della regio secunda Apulia et Calabria (quest’ultimo era il nome con cui i Romani definivano il Salento, solo in epoca bizantina, alla fine del VII secolo d.C., esso andò a designare l’odierna Calabria7) diventava municipium8.
Dunque in epoca imperiale la città veretina, chiamata da Strabone Ouerhton policnh (oppidum Veretini), sembra integrata in modo completo nel sistema romano sia dal punto di vista politico, sia da quello economico come pure da quello culturale. Ne possiamo ricavare l’immagine di un piccolo centro attivo e vivace alla periferia dell’Impero, municipio sicuramente periferico rispetto a Roma ma ancora centrale nell’ambito dei commerci mediterranei, nello specifico per i collegamenti tra Grecia e Sicilia (funzione fondamentale che gli scali salentini, in particolare Otranto, conserveranno fino alla conquista araba di Siracusa 878 d.C.9), per questo aveva a disposizione due porti: quello di S. Gregorio e quello di Leuca con la grotta santuario della Porcinara10.
I collegamenti terrestri le erano garantiti da una strada para litoranea che collegava i principali centri della Calabria romana: attraverso la “via Salentina” si risaliva la costa ionica verso Uzentum fino a Tarentum, mentre a nord-est, verso Castrum Minervae e Hydruntum, portava quella che dai moderni viene chiamata ” via Traiana Calabra”11.
Da tutto ciò risulta chiaro che l’antica città messapica si era ben inserita nel sistema politico ed economico romano ed in questo contesto la nostra larva convivialis diviene una spia evidente di quanto, in epoca imperiale, la società veretina si fosse profondamente romanizzata accogliendo quei rituali di convivialità, dunque modi di pensare e di espressione attraverso i simboli, propri della civiltà romana. Si aggiunga inoltre che, come ci testimoniano le iscrizioni ritrovate nel territorio di Patù, sotto l’Impero era esclusivo l’uso della lingua latina indice che probabilmente il messapico non si parlava più12 sostituito dall’idioma dei conquistatori.
Già sotto i primi imperatori di Roma, Vereto era ormai un tipico municipium di stampo latino e i suoi abitanti erano diventati dei perfetti cittadini romani, avendone adottato le idee e i rituali nonché la lingua. E’ da supporre che tale profonda romanizzazione non fu una caratteristica del solo centro cittadino e delle classi più agiate ma, con ogni probabilità, essa coinvolse tutto l’ager Veretinus e la sua popolazione rurale. Un altro reperto proveniente da Patù e la toponomastica del Capo di Leuca ci autorizzano a formulare un’ipotesi del genere.
Nella chiesa di S. Giovanni Battista presso la Centopietre si trova ancora oggi un cippo romano che reca scolpita un’iscrizione latina databile al I/II secolo d.C., già pubblicata dal Mommsen nell’Ottocento. Oltre a documentare l’istituzione della municipalità veretina, infatti viene citata la magistratura del decurionato, essa fornisce lo spunto per fare ulteriori riflessioni. Riporto di seguito l’iscrizione come viene trascritta dal Daquino:
M.FADIO M.F.
VALERINO
POST MORTEM
FADIUS VALERIANO PATER
ET MINA VALERIANA MATER
D. D. D. (Locum Decreto Decurionis Dant)13
L’elemento per noi di maggiore interesse è il gentilizio Fadius. Questo nomen, che si ritrova anche in un’iscrizione proveniente da Rudiae, pare essersi conservato nel circondario come toponimo prediale, nella tipica forma terminante in -ana/-ano. Infatti, a pochi chilometri da Patù, in agro di Alessano, ritroviamo il nome “Faggiana-Fasciana” (Masseria Faggiana sulla cartografia IGM, località Fasciana/Fascianella negli atti notarili del Seicento, Fasciana nella parlata locale) che pare derivare da un fundum/predium Fadianum (= fondo, terreno, proprietà di Fadius14). Quindi si tratterebbe di un classico toponimo prediale cioè derivante dal nome personale o di famiglia del proprietario del terreno agricolo nei pressi del quale si è sviluppato, in seguito, un piccolo abitato.
Nello specifico, in antico il predium latino aveva il significato originario di “bene di garanzia” ma ben presto assunse comunemente quello di “possedimento terriero”, sinonimo di fundum. Si possono fare due ipotesi circa il nome all’origine del prediale: potrebbe essere quello del primo colono romano che ebbe in concessione il terreno che era stato strappato ai precedenti possessori attraverso la conquista militare oppure, più probabilmente, quello del proprietario che lo deteneva verso la fine dell’età imperiale, quando si formarono grandi latifondi gestiti da manodopera libera e servile.
Durante il Tardo Antico e l’alto Medioevo su questi latifondi crebbe il numero dei servi i quali, organizzandosi intorno ad un nucleo di case e capanne, diedero vita a delle comunità rurali autonome, i casali15. Questi piccoli nuclei abitati conservarono il nome del predium sul quale erano sorti ma a causa delle invasioni barbariche (prima la guerra greco-gotica, poi i Longobardi e infine gli Arabi furono la causa delle ripetute devastazioni che funestarono le campagne salentine) molti di essi scomparvero.
Una volta superata quest’epoca difficile, nel basso Medioevo, i nomi dei casali sopravvissuti vennero registrati e conservati nei documenti che sono giunti fino a noi. Dunque mi pare corretto affermare che i toponimi prediali sono delle vere e proprie “epigrafi incise nel suolo” capaci di testimoniare il grado di romanizzazione di un territorio.
Una volta appurato il significato di questa particolare categoria di toponimi, ritorniamo ad occuparci del circondario veretino facendo un elenco dei possibili prediali che si sono conservati intorno al territorio di Patù:
*Alessano: da un predium Alexianum, dal nome di origine greca Alexios, Alexis da cui il latino Alexianus e Alexionus attestati a Lupiae e Rudiae16.
*Arigliano: forse da Arellius o Aurelius, non documentato nelle iscrizioni latine del Salento17; il dialettale Trijanu invece presuppone un predium Atrilianum dal nome Atrilius18. In provincia ritroviamo sia una masseria Arigliani (nel territorio di Lecce) sia la località Trojano (Cavallino)19.
*Barbarano: dal cognomenBarbarus, poco attestato nell’antica Calabira ma molto comune a Roma e in Africa20.
*Bolano: contrada tra Corsano e Tiggiano, come l’omonima località ligure potrebbe derivare dal nomen Bolanus21 o da Volius.
*Cagniano/Cagnianello: località compresa nel feudo di Montesardo (strada vicinale Cagnani) ed attestata nel Seicento22, come Cagnano presso Porto Cesareo, pare derivare dal nomen Canius o Caninius23.
*Castrignano: dal nomen Castrinius non attestato nelle iscrizioni salentine24.
*Corsano: dal nomen Curtius che compare sia nel Salento (Rudiae) sia in Puglia. A Poggiardo troviamo la contrada Cursane25.
*Cosensano: località presso Salignano citata negli atti notarili seicenteschi26.
*Gagliano: deriva dal nomen Gallius abbastanza comune localmente27.
*Giuliano: dal nomen Iulius o dal cognomen Iulianus molto diffusi in tutte i municipia salentini: Rudiae, Valesium, Lupiae, Hydruntum, Callipolis, Neretum e Uzentum28. Si tratta di uno dei rarissimi gentilizi imperiali (membri della gens Iulia furono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone) presenti nella provincia.
*Macurano: forse dal nomen Magurius o dal cognomen Maioranus29 o dal gentilizio Maculus30. L’insediamento rupestre che porta ancora questo nome risulta frequentato da epoca bizantina31 ed è stato un casale durante il Medioevo.
*Malianu: contrada nel feudo di Tiggiano, vi si trovava un casale medievale attestato nelle fonti angioine (XIII-XIV secolo d.C.) con diversi nomi: Mamillani, Mammillani, Mammillari, Manimillani, Millani; nel Cinquecento si trasformò in Movigliano32 o Manigliano33. Il toponimo Magliano è frequente in tutta Italia34 e pare derivare da Malius/Mallius o Manlius35 oppure dal gentilizio Aemilius attestato a Vaste. In questa località si trova un’ampia area di frammenti fittili di età imperiale (II-V secolo d.C.) riconducibile ad un piccolo insediamento di carattere agricolo.
*Mardano: altra contrada tiggianese menzionata sulla cartografia IGM, il prediale deriverebbe dal nomen Martius attestato in Puglia ma non nel Salento36.
*Misciano: casale scomparso nel feudo di Gagliano37. Il toponimo Miggiano è assai diffuso in tutta la penisola salentina, deriverebbe da un nomen Maedius/Medium attestato in Puglia; tra l’altro nel 1310, le Rationes Decimarum della diocesi di Otranto citano Meyanum38.
*Morciano: potrebbe venire dal gentilizio Marcius39.
*Morsanu Ranne: come Masseria Moresano, nei pressi di Gemini, parrebbe un prediale che viene dal cognomen Mauricius/Maurisius/Mauritius40; nei testamenti del Seicento viene indicata semplicemente come Morsano41. Una ricognizione di superficie della zona, che si trova tra Montesardo e S. Dana lungo un asse viario antico, ha messo in luce un piccolo insediamento romano di carattere agricolo (sono stati rinvenuti abbondanti frammenti fittili databili tra l’età repubblicana e il V secolo d.C. e una moneta in bronzo dell’imperatore Costanzo II del 350-51 d.C.) e uno di età medievale (ceramica del XII-XIII d.C.).
*Porcigliano: contrada di Alessano come attestano i documenti del Seicento42, similmente agli omonimi casali che si trovavano in agro di Ostuni e di Lecce , pare derivare dal cognomenPorcilius43.
*Provigliano: casale medievale (nel XIII-XIV secolo viene indicato con il nome Priviliani) in territorio di Alessano, conserva i resti (frammenti di anfore e di ceramica da cucina) di una piccola fattoria romana di epoca imperiale44. Potrebbe derivare da Privius/Provius che però non mi risulta attestato nell’onomastica latina.
*Pulsano: la località, indicata col dialettale Prusano, si trova a Gagliano nei pressi della chiesa di S. Francesco, ha restituito ceramica romana databile tra il I secolo a.C. e il IV d.C. e una moneta di Costantino. Fu casale durante il Medioevo45. Potrebbe derivare dal cognomen Publicius attestato di frequente nelle iscrizioni salentine46.
*Ruggiano: dal nomen Rusius/Rudius, che a sua volta deriva dalla citta di Rudiae47, attestato nelle iscrizioni brindisine48.
*Salignano: dal gentilizio Salonius49 o Salinius50.
*Spiggiano: masseria sita tra Presicce e Ruggiano, fu casale tra il XII e il XIV secolo d.C.51.
Deriva dal nomen Spedius attestato da un’iscrizione brindisina52.
*Tiggiano: forse da Attidius che non risulta attestato nelle iscrizioni latine53 o dal gentilizio Tidius54.
*Tigliano: località di Patù55, forse da un Attilius.
*Turtigliano: contrada del feudo di Patù citata nei testamenti del Seicento56, potrebbe derivare da Rutilius o Tutilius.
*Vagliano: masseria in territorio di Alessano, fu casale, conosciuto con il nome di Baliano/Valiano, abbandonato alla fine del Cinquecento. Nei suoi dintorni rimangono le tracce di un insediamento romano, probabilmente una piccola fattoria databile tra il II e il V secolo d.C.57, e di una successiva presenza bizantina. Potrebbe derivare da un fundum Valianum dal nomen Vallius58.
Se ne ricava che dei 27 possibili prediali elencati almeno 5 (Malianu, Morsanu, Provigliano, Pulsano e Valiano) hanno conservano ancora sul loro territorio le evidenze archeologiche di piccoli insediamenti rurali di epoca romana, in genere databili tra II e V secolo d.C., nonché le prove di una successiva frequentazione in età medievale. Alla luce di questo, credo di poter affermare, con la dovuta cautela, che la maggior parte di questi toponimi trae origine da un praedium.
Ne consegue che in epoca romana l’area in questione, la parte centro-orientale dell’estremo Capo di Leuca, è stata sottoposta ad un’organizzazione agraria profonda e capillare, con latifondi appartenenti a famiglie che in genere risiedevano a Brindisi e a Roma, ed affidati in gestione a contadini di stato servile59.
Le tracce archeologiche di questo sistema agrario sono ancora ben evidenti sul territorio, infatti numerosi sono i siti che conservano i resti (frammenti fittili) di piccole villae romane ed ancora visibili sul terreno sono i segni della centuriazione antica. Tale sistema di sfruttamento dello spazio agricolo durò per diversi secoli tanto da lasciare evidenti tracce nella toponomastica locale. Esso influenzò anche il successivo popolamento del Capo di Leuca, visto che le popolazioni rurali aggregandosi intorno alle fattorie romane diedero vita ai villaggi del primo Medioevo, i casali.
In conclusione mi sembra che i dati fin qui messi in luce permettano di fare alcune considerazioni. Prima di tutto bisogna sottolineare ancora una volta che la romanizzazione dell’antica Calabria fu profonda e duratura, essa coinvolse non solo le élites cittadine ma anche la popolazione rurale. Occorre inoltre ribadire che il latino era la lingua che si parlava in modo corrente anche tra i ceti sociali più modesti infatti “[…] nessuna regione come il Salento ha oggi restituito un numero così elevato ed impressionante di iscrizioni servili e delle classi sociali inferiori, tutte incise sulla tenerissima pietra locale e con una scrittura assai sciatta, incline alle forme corsive, e con evidenti influssi dialettali: tutto questo dimostra che anche i ceti più bassi avevano imparato ad esprimersi in latino […]”60.
Da ciò ne consegue che l’ellenizzazione delle nostre contrade fu un fatto essenzialmente di epoca bizantina al quale ha contribuito non poco il monachesimo greco61. Rimane da approfondire questa fase di passaggio dalla lingua latina a quella greca che si dovette compiere in un lasso di tempo compreso tra la guerra greco-gotica (metà del VI secolo d.C.) e la seconda conquista bizantina (fine del IX secolo d.C.). Purtroppo le iscrizioni salentine di questo periodo sono scarsissime e non ci permettono di fare ulteriori valutazioni in merito62.
Il secondo punto che intendo evidenziare è la continuità tra gli insediamenti rurali di epoca romana e i villaggi medievali; credo infatti che, in quest’area del Salento meridionale in modo particolare, la maggior parte dei casali che ritroviamo nelle fonti angioine siano sorti in prossimità di un predium. La toponomastica, supportata dalle evidenze archeologiche, mi pare ci possa condurre ragionevolmente a questa conclusione, anche se rimane ancora da chiarire cosa avvenne in età bizantina. Di sicuro la metà del VI secolo d.C. rappresenta un momento di cesura in cui numerosi siti romani furono abbandonati. Altri invece sopravvissero e diventarono dei veri e propri centri abitati ancora esistenti.
Resta da fare un’indagine sul campo per ciascuna località per verificare caso per caso questa continuità insediativa63 in modo da comprendere meglio i motivi per i quali alcuni insediamenti ebbero maggior fortuna rispetto ad altri destinati a scomparire.
La visita al museo leccese e la “scoperta” della larva convivialis di Vereto mi ha offerto lo spunto per fare questo breve excursus sulla romanizzazione del Capo di Leuca e mi concede l’opportunità di fare un’ulteriore riflessione: un tempo essa ricordava agli antichi veretini che nulla è eterno e gli invitava a godere delle cose belle della vita, mentre oggi il piccolo scheletro da banchetto rammenta a noi moderni quanto il nostro territorio sia ancora ricco di importanti testimonianze storiche e ci esorta a prendercene cura e a valorizzarle prima che esse scompaiano. Penso che la vocazione turistica del Capo di Leuca sia innegabile ma l’offerta culturale proposta al visitatore troppo povera e legata ai soliti stereotipi salentini.
Allora perché non creare un piccolo spazio espositivo dove raccogliere i reperti di Vereto, sparsi chissà tra quanti musei, oppure quelli degli scavi di Leuca, Salve, Montesardo? Di certo servirebbe ad ampliare la proposta culturale del nostro territorio e permetterebbe di presentarci al visitatore in un modo un po’ diverso rispetto al solito “mare, sole e musica popolare”. E forse potrebbe anche servire a renderci consapevoli di quanto sia culturalmente stratificato e ricco di storia il luogo in cui viviamo, con l’auspicio che ci insegni a prendercene cura e a godere delle sue bellezze prima che esse vengano cancellate dell’ineluttabile scorrere del tempo.
Note
1M. E. Garcia Barraco, Larvae conviviales. Gli scheletri da banchetto dell’antica Roma, Roma 2020, pp.54-65.
2Petronio, Satyricon, XXXIV, 8 (traduzione in M. E. Garcia Barraco, op. cit., p.27).
3M. E. Garcia Barraco, op. cit., pp.9-34.
4C. Daquino, I Messapi e Vereto, Manduria (Ta) 1991, p.231.
5La datazione del manufatto rimane controversa: sul cartiglio del museo il corredo funebre viene datato agli inizi del IV secolo a.C., il Daquino definisce la tomba come messapica, De Mitri la colloca nel II secolo a.C. (cfr. C. De Mitri, Inanissima pars Italiae. Dinamiche insediative nella penisola salentina in età romana, Oxford, 2010, p.100) mentre Garcia Barrano data l’opera al I secolo d.C.
6A. Marinelli, Contributo alla storia della romanizzazione del Salento, in Ricerche e Studi VIII, Quaderno n.8 del Museo Archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, Brindisi 1975, pp.135-136. Le due differenti opere di limitatio sono state evidenziate anche dalla moderna ricerca archeologica, infatti si riconoscono due aree di centuriazione: una sulla costa adriatica da Acaya fino a Tricase (ma molto probabilmente giungeva fino ad Alessano), l’altra sul versante ionico nel territorio compreso tra Gallipoli e Castrignano del Capo (cfr. G. A. Neglia, Il paesaggio del Salento leccese. Struttura naturale e forme di antropizzazione, in Messapia. Forma del territorio e delle città del Salento meridionale, a cura di F. Defilippis e M. Montemurro, Modugno (Ba) 2006, pp.3-7.
7V. von Falkenhausen, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, in Studi sull’Italia bizantina, a cura di M. Di Branco e L. Farina, Roma 2022, pp.146-147.
8Un’iscrizione di epoca imperiale, proveniente da Patù, attestata l’esistenza di un Venerius servus Rei Publicae Berentinorum (cfr. Daquino, op. cit., pp.232-233; C. De Mitri, op.cit., p.25).
9V. von Falkenhausen, op. cit., pp.139-151.
10C. Daquino, op. cit., pp.131-150.
11G. Mastrocinque, Le città della Calabria tra l’età repubblicana e la prima età imperiale: aggiornamenti per uno sguardo d’insieme, in Annales de arqueologia cordobesa numero 30, Cordoba 2019, pp.79-80.
12“A quanto pare le guerre annibaliche che hanno interessato la Puglia […], con le conseguenze di recessione economica e sociale che ne sono conseguite, hanno sancito al contempo anche un progressivo declino della cultura scritta locale, che venne nel corso del II e I secolo rimpiazzata da quella latina nel processo di romanizzazione (cfr. S. Marchesini, Epigrafi messapiche del Salento, in Idomeneo, n. 19, 69-78, Lecce 2015, p.72). Già Ennio, padre della letteratura latina ma nativo di Rudiae, si vantava di parlare tre lingue: il greco, l’osco e il latino tacendo dell’idioma natio (cfr. C. Daquino, op. cit., p.66).
13C. Daquino, op. cit., pp.217-218.
14A. Marinelli, op. cit., p.150; circa i processi linguistici che da Fadius portano a Fasciana/Fascianu cfr. G. Alessio, Problemi di toponomastica pugliese, in Archivio Storico Pugliese, 1953, pp.240-242.
15M.G. Valogiorgi I toponimi di origine prediale nella geografia della Toscana, in Rivista di Storia dell’Agricoltura, anno XXII, n.1, Firenze 1982, pp.161-162.
16A. Marinelli, op. cit., p.142.
17G. Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Bologna 1962, p.203.
18G. Rohlfs, Dizionario toponomastico del Salento, Ravenna 1986, p.126.
19P.Salamac, Toponomastica rurale del territorio leccese, Lecce 1993, pp.14 e 101.
22A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce 1994, pp.73 e 112.
23A. Marinelli, op. cit., p.146.
24A. Marinelli, op. cit., p.148.
25A. Marinelli, op. cit., p.149.
26A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.107.
27A. Marinelli, op. cit., pp.151-152.
28A. Marinelli, op. cit., pp.153-154.
29A. Marinelli, op. cit., pp.155-156.
30D.Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di AlessanoI.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno academico 2005-2006, p.14. Tuttavia sembra più convincente l’ipotesi che ricollega il toponimo al latino mucro/mucronis, punta, estremità aguzza, strapiombo sul mare, dunque un toponimo che deriva dalla morfologia del territorio e non un prediale.
31S.Calò, Paesaggio di pietra. Gli insediamenti rupestri delle Serre Salentine, Roma 2015, pp.101-108.
32S. Musio, Casali e Feudatari del territorio di Tricase. La dominazione angioina (Secoli XIII-XV), Tricase (Le) 2007, p.23 e nota 37.
33A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.69.
34G. Rohlfs, op. cit., p.83.
35A. Marinelli, op. cit., pp.156.
36A. Marinelli, op. cit., p.157.
37M.Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le) 2004, pp.9-11.
38A. Marinelli, op. cit., p.155.
39G. Susini, op. cit., p.204.
40A. Marinelli, op. cit., p.157.
41A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.98.
42A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.121.
43G. Rohlfs, op. cit., p.103; G. Colella, Toponomastica pugliese dalle origini alla fine del Medioevo, Trani 1941, p.307.
44 P. Cazzato, L’area archeologica di Provigliano e l’antico popolamento sulla Serra dei Cianci, in Controcanto, anno XIX, numero 1, Alessano (Le) 2023, pp.3-10.
45M.Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le) 2004, pp.7-9.
46A. Marinelli, op. cit., pp.160-161.
47A. Marinelli, op. cit., p.161.
48G. Rohlfs, op. cit., p.107.
49A. Marinelli, op. cit., p.162.
50G. Susini, op. cit., p.205.
51I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di F. Ruppi, Lecce 2010, pp.274-279.
52A. Marinelli, op. cit., p.163.
53G. Susini, op. cit., p.206.
54G. Rohlfs, op. cit., p.124.
55G. Rohlfs, op. cit., p.124.
56A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.61.
57P. Cazzato, Valiano. Dalle origini alla scomparsa di un casale del Capo di Leuca, in Controcanto, anno XVIII, numero 3, Alessano (Le) 2022, pp.3-12.
58G. Susini, op. cit., p.206.
59A. Marinelli, op. cit., p.138. “Dall’epigrafia abbiamo così, per la regione apula e salentina, una migliore conoscenza della compagine sociale dell’età imperiale romana […]; infatti moltissime sono le attestazioni di servi […] (il che) fa pensare che si trattasse di schiavi impiegati con diverse mansioni, nell’ambito di un’organizzazione prediale tanto sviluppata tecnicamente quanto socialmente conservativa.” G. Susini, Problematica dell’epigrafia classica nella regione apula e salentina, in Atti del I Convegno Associazione Comuni Messapici, Peucezi e Dauni, Bari 1969, p.48.
60G. Susini, Note di storia antica ed epigrafia salentina, in Studi Salentini XVIII, Lecce 1964, p.235.
61P. Stomeo, Lingua e cultura greca nel Salento (tradizioni e ipotesi), in Studi Salentini LV-LVI, Lecce 1979, p.14.
62Secondo il Panarese “i cognomi greci, le strutture morfo-sintattiche greco-bizantine amalgamate con quelle preesistenti romanze che attestano, nell’area magliese, una lunga fase di bilinguismo, in cui il romanzo alla fine riuscì a prevalere sul griko” (cfr. E. Panarese, Il toponimo “Maglie” e l’oronimia salentina, in Contributi. Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Maglie, Anno I, n.2, Galatina (Le) 1982, p.14).
63Ad esempio sia il centro di Alessano sia quello di Corsano appaiono strettamente legati con la viabilità in uso in epoca imperiale, ciò avvalora l’ipotesi che ambedue i paesi siano sorti da un precedente abitato romano.
Il titolo può sembrare una pazza ammucchiata ma in realtà è solo la citazione in ordine cronologico dei protagonisti di questo post.
Sorvolando per ovvi motivi su Mesagne, va detto che dell’accademia in epigrafe mi sono occupato tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/) e ripeto qui che nulla ne sapremmo se non ce ne avesse lasciato memoria Antonio Mavaro (1725-1812) in un manoscritto integralmente trascritto e ampiamente commentato nel lavoro del link appena segnalato.
Nell’anno 1858 Antonio Profilo (1839-1901) pubblicava sul Poliorama pittoresco (n. 27, pp. 213-215), un contributo dal titolo Sull’Accademia degli Affumicati di Mesagne, ai miei giovanetti concittadini, che di seguito riproduco.
Per quanto riguarda la parte testuale il Profilo trae a piene mani dal Mavaro e il lettore che ne abbia interesse potrà rendersene conto, come ho fatto io, con con la collazione tra le due fonti. Per quanto riguarda la parte grafica le immagini dell’insegna dell’accademia e degli emblemi dei suoi soci non potevano essere a distanza di quasi un secolo quelle del Mavaro, non perché graficamente rozze e poco suggestive ma perché avrebbero tradito immediatamente il plagio. Così ad un lettore poco attento (magari anche allo studioso di storia locale che per un motivo qualsiasi non conoscesse il manoscritto del Mavaro) con questa sostituzione, con qualche rimescolamento nell’ordine di presentazione dei soci (vedi di seguito le tabelle comparative alla fine), e indirizzando ai giovani, dopo le avvisaglie del titolo, un’ulteriore spruzzatina di sacro patriottismo con riferimento alla gloria antica di Mesagne e senza mai citare la fonte che l’aveva dissetato, era sicuro di farla franca.
Non poteva certo immaginare che la rete (e che altro, sennò?) avrebbe permesso ad uno qualsiasi, come il sottoscritto, di smascherarlo? Questa sorta di copia-incolla ante litteram, che può essere come un peccato di gioventù, è però nulla rispetto a quello mortale di dodici anni dopo, cioè alla mistificazione (ora conoscete il nome del mistificatore) alla quale avevo accennato qualche settimana fa (questa volta non riporto il link per non essere tacciato, giustamente, di eccessiva autoreferenzialità) e che avrei già reso pubblica se nel rifinirla non mi fossi imbattuto casualmente in quel numero del periodico napoletano. So di non essere in grado di suscitare spasmodiche attese, ancor meno di soddisfarle, ma chi è curioso di conoscere un altro esempio di basso … profilo non resterà deluso .
Una ricerca storica sulla fondazione del ritiro dei Padri Passionisti a Novoli, condotta da Carmelo Turrisi e da Mario De Marco e pubblicata nel 1987 per conto del Parametro Editore, permise all’epoca di conoscere, attraverso un avvenimento celebrativo centenario, non solo “Una comunità Religiosa nella storia di un paese alla fine dell’800”, ma anche l’eccezionale collezione di “santi in cartapesta”che la stessa chiesa dei Passionisti orgogliosamente conserva.
Chi ha il piacere di visitare questa chiesa si accorgerà che essa “è totalmente illustrata da statue e rilievi in cartapesta realizzati da Giuseppe Manzo, uno dei più rinomati artisti salentini, la cui produzione sacra raggiunse vette di alto prestigio fatto, questo, veramente unico e che spinge a considerare tale chiesa, come ha giustamente rilevato il De Marco, “a livello di pregevole museo, che nessuna istituzione civile è riuscita a realizzare, nonostante tanto blaterare sulla cartapesta di cui puntualmente si celebra il de profundis. La pietà e l’amore dei Padri Passionisti non solo ci hanno tramandato pregevoli opere d’arte e, di culto, ma offrono pure al pubblico questo volume, anch’esso memoria storica dell’arte dei Santi di carta”.
Questo singolare museo si è ulteriormente arricchito di un’altra preziosa testimonianza della pietà popolare, una nuova perla incastonata nella “ieraticaatmosfera” dominata da questo patrimonio di “santi di carta”e che vale certamente la pena di segnalare e particolarmente descrivere. Ci si trova di fronte ad una rarissima rappresentazione conosciuta comunemente come “Presepio della Passione”.Di questa particolare tipologia presepiale ne fu esposto un esemplare di “AnonimoLeccese”,realizzato in cartapesta e terracotta, alla “IVRassegna Internazionale del Presepe nell’arte e nella tradizione”,organizzata a Brindisi in occasione del Natale 1989, dall’Associazione Italiana Amici del Presepio e dall’Associazione Amici della Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” (una foto di tale esemplare fu pubblicata nel relativo catalogo).
Conosciamo il presepio come “la rappresentazione scenica della nascita del Messia”,immagine che deve la sua divulgazione a San Francesco d’Assisi che alla Vigilia di Natale del 1233, in una grotta posta in cima alla collina di Greccio, con l’aiuto delle genti del luogo creò il primo esempio di Presepio Vivente della storia. Presepio è dunque (si legge nel dizionario) “la ricostruzione di scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi, eseguita nelle chiese e nelle case in occasione delle feste natalizie”. Nel caso invece dei due presepi suddetti vengono invece realizzate scene o episodi riguardanti la “passione”di Gesù Cristo che, in un discorso più strettamente tipologico, non trovano facile giustificazione in una ben definita tradizione “iconografica”come per la nascita del Messia, con la grotta, la stella cometa, i pastori, il bue, l’asinello, la Vergine, San Giuseppe, i Magi, tradizione che è andata man mano evolvendosi nel corso dei secoli.
Si tratta quindi di “unicum” che esaltano, comunque, le ultime e drammatiche fasi della vita del Messia pur provocando, indubbiamente, suggestioni ed emozioni diverse. Allo stato attuale non abbiamo individuato altri esemplari simili. Abbiamo però fortunatamente rintracciato un accurato studio sull’argomento e che, con ricchezza di particolari, racconta la storia di questo tipo di presepe. Il testo è quello di Paolo Izzo dal titolo “Presepe di Pasqua.Simboli e presenze di una tradizione dimenticata”,finito di stampare nel mese di marzo 2010 per conto della Stamperia del Valentino di Napoli; libro in cui si evidenzia che “quel mercato che oggi vediamo cannibalizzato da raffigurazioni del Mistero Natalizio, un tempo aveva anche altro genere di frequentatori: le statuine destinate al Presepe di Pasqua, o Sepolcro a Personaggi, come lo avrebbero definito un Salvatore Di Giacomo o un Fausto Nicolini”.
In buona sostanza questa tipologia presepiale è l’alter ego speculare al presepe della natività, tradizione molto viva e presente a Napoli sicuramente, scrive Izzo, già prima del XVI secolo e diffusa anche nel resto del sud Italia. Il “Presepe di Pasqua” si concretizza in una vera e propria struttura presepiale con autonome regole compositive che narrano l’avventura del Redentore oltre l’evento tanto celebrato dell’incarnazione. Una serie di motivi (si legge ancora nel testo di Izzo) “spinsero la Controriforma a valorizzare maggiormente la rappresentazione della Natività relegando così quel fenomeno ad una dimensione dimessa, destinata a sopravvivere principalmente all’interno dei monasteri dove, accanto alla classica struttura presepiale, lo “scoglio” figurava anche l’altro, ovvero quello della Passione”.
Una differenza fondamentale con quello della Natività è che l’impianto di tale tipologia era strutturato in tante scene o quadri che potevano comprendere ad esempio l’Annunciazione, il Censimento, la visita a Santa Elisabetta, la Nascita, l’Ultima Cena, Gesù nell’orto del Getsemani, Cristo giudicato da Pilato, la Veronica, Gesù che cade, la Crocifissione, la Deposizione, il Sepolcro e la Resurrezione (come nel Presepe di “San Nicola alla Carità” di Napoli curato dall’anziano artigiano Giuseppe Russo). Ma anche altri quadri sono possibili come Barabba, i soldati giudei che arrestano Gesù, il Sepolcro violato, l’Assunzione al cielo.
Il Presepe di Pasqua, come già detto, consumò la sua funzione devozionale principalmente in luoghi chiusi al pubblico, ovvero principalmente all’interno dei monasteri femminili. Il Sepolcro casalingo, al pari del Presepe, era invece collocato sotto la classica campana di vetro o, addirittura, in bottiglia con una varietà e diversità di materie utilizzate (legno, strutture in avorio, cera, terracotta) “che erano preposte non semplicemente alla soddisfazione di un senso estetico ma rispondevano appunto ad una precisa e più profonda pulsione devozionale, pur mediata dal valore artistico dell’oggetto”.In definitiva un Presepe, ormai, in realtà “perduto”e una grande e preziosa testimonianza di tradizione popolare molto antica e dimenticata che ha accompagnato per secoli, con i suoi simboli e le sue presenze, la celebrazione cristiana della Pasqua.
Riguardo all’esemplare custodito nella splendida chiesa dei Padri Passionisti a Novoli, poche sono le notizie che consentono una sua attribuzione e una sicura datazione. Posto in una teca di vetro rettangolare, realizzato in cartapesta e terracotta, sappiamo solo che fu donato tra il 1964 e il 1965 dalla nobile famiglia Palmieri di Monopoli al padre Pietro Paolo dell’Immacolata (Saverio Scuccimarri) che, successivamente, nel 1990, lo portò con sé a Novoli, dopo la chiusura del convento in quella città e di cui era superiore.
Ben più complesso e più ricco di personaggi dell’esemplare dell’Anonimo Leccese, esso propone i momenti più significativi della “passione”, attenendosi il più possibile alle affermazioni dei Vangeli. Sono cinque le scene, sapientemente disposte su due piani, che l’anonimo artista ha realizzato con indubbia bravura e realismo e che vanno dalla “Passioneinteriore” vissuta da Gesù nell’Orto degli Ulivi (nel Getsemani) fino alla sua“deposizione”.Più in particolare, nel primo riquadro si vede Gesù che prega intensamente accanto ad alcuni alberi (il volto richiama con grande drammaticità anche il momento in cui entrerà in agonia “…e ilsuo sudore divenne come gocce di sangue che scendevano giù sulla terra”),mentre due apostoli (in basso a destra) riposano. Poiché nel Getsemani, Gesù, secondo i Vangeli, vi si recò assieme agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni (quest’ultimi figli di Zebedeo), è evidente che la statuina raffigurante il terzo apostolo mancante sia andata, purtroppo, perduta e non sia invece dovuta (tale mancanza) ad una dimenticanza dell’artista, data la ricchezza di particolari e la fedeltà ai testi evangelici che la composizione iconografica (cm. 100×50) denota, scindendosi nei due piani.
A poca distanza dagli apostoli dormienti, un “gallo”ricorda le parole con cui il Messia profetizzò il tradimento di Pietro: “Inverità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”.E Pietro gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”.Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli” (Vangelo secondo Matteo).
Sul piano superiore sono rappresentate le fasi più tragiche e più dolorose della “passione”: Gesù nel Pretorio, la Flagellazione, la Via crucis. La prima scena richiama certamente il momento in cui “… i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e intrecciata una corona di spine,gliela posero sulcapo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: Salve, re dei Giudei! E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo”(Vangelo secondo Matteo).
La parte centrale è dominata dalla flagellazione verso un Cristo particolarmente vivo e fortemente espressivo. Nei testi evangelici la flagellazione segue al rilascio di Barabba e precede il dileggio dei soldati (precedentemente descritto). L’anonimo artista invece, come si può notare osservando il relativo fotogramma, ha invertito, crediamo volutamente, la successione degli eventi (guardando da sinistra verso destra, dove c’è la costruzione che simboleggia il pretorio) volendo fare di questa immagine (considerate soprattutto le dimensioni fisiche del Messia che qui appaiono sproporzionate rispetto a tutti gli altri gruppi di figure) la scena simbolo, certamente la più emozionante e la più significativa.
Nell’ultima, Gesù è ai piedi del Calvario, tragicamente schiacciato dal peso della croce. A poca distanza, sono rappresentati Simone di Cirene (che fu costretto a prendere la croce), due figure femminili da identificarsi probabilmente in sua madre e nella sorella di sua madre, e infine Giovanni il discepolo che amava (“… Donna, ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco la tua madre. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” – Vangelo secondo Giovanni).
Le diverse fasi del racconto evangelico si chiudono infine con la “deposizione”,rappresentata al piano inferiore, sulla sinistra, accanto alla scena del Getsemani. La Madonna è vestita di lutto e indossa un abito particolare che, probabilmente, si richiama ai costumi del tempo in cui il presepio fu realizzato. Il corpo senza vita del Messia è stato straordinariamente modellato, nelle sue fattezze fisiche e dolorose ai piedi della madre “pietosa”, dall’anonimo artista che dimostra indubbiamente una buona mano e un indubbio talento.
Oltre al gruppo di angeli, in primo piano, due soldati romani simboleggiano sicuramente l’ordine di Pilato dato dopo che i sommi sacerdoti gli avevano manifestato le loro paure (“…Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò”– Vangelo secondo Matteo) e cioè quello di sigillare la pietra del sepolcro e di mettervi la guardia.
Il presepio è opera forse di un’artista locale ed è da collocare, presumibilmente a nostro avviso, tra la fine del 1700 e la prima metà dell’800. Su interessamento del compianto Padre Salvatore Semeraro, nel 1966-1967 il Presepe è stato restaurato dal cartapestaio Cosimo Casarano e, dopo diversi anni di permanenza nel coro e nella biblioteca, oggi può essere ammirato nel corridoio del ritiro di Novoli.
Un’ultima personale considerazione. In questa particolare e rara tipologia presepiale pare non essere estranea un’influenza della dominazione Spagnola (infatti in Spagna e, pure nell’America Latina e nelle Filippine, le manifestazioni pasquali sono sentite e si esprimono al Massimo). Lo testimonia, ad esempio, il vestito nella scena della “deposizione”, dell’Addolorata che tanto richiama con i suoi orpelli barocchi quello indossato dalla “Virgen de la Macarena” e dalle donne di Siviglia (in Andalusia) durante la processione della famosissima “Semana Santa” che comincia la Domenica delle Palme e finisce il Venerdì Santo e che si celebra sin dal secolo XVI.
Alcuni anni fa, infine, mi capitò di vedere e fotografare, visitando “Il Museo de Osma” durante la mia esperienza lavorativa in America Latina, in Lima (Perù), nell’antico distretto di Barranco, un Presepe simile a quelli appena descritti. Si tratta di una “Caja – baùl” (così viene denominata) che rappresenta nello stesso spazio urbano (come si può vedere nella foto) una piazza chiusa in cui sono rappresentate, con ricchezza di particolari e personaggi, le seguenti scene policrome che rappresentano i più significativi momenti dell’Infanzia di Gesù: Il Paradiso, l’Annunciazione, la Natività, il Battesimo, la fuga in Egitto, la Strage degli Innocenti, la presentazione nel Tempio, la Circoncisione.
In info@spazioapertosalento.it (sito di Rosario Faggiano con finestra news), 2 aprile 2021 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 531-536, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici essenziali
Aa. Vv., Catalogo della IV Rassegna Internazionale del Presepe nell’Arte e nella tradizione, Brindisi 1989.
M. De Marco, Il Presepe nella storia e nell’Arte,Lecce 1985.
M. De Marco – C. Turrisi, I Passionisti a Novoli (1887-1987),Galatina 1988.
P. Izzo, Presepe di Pasqua. Simboli e Presenze di una tradizione dimenticata, Stamperia del Valentino, Napoli 2010.
Il presente contributo completa le ricerche sul Presepio della Passione di Novoli già avviate e pubblicate sulla rivista “Lu Lampiune”, VII, n.1, Lecce, Aprile 1991 e su “Nord-Salento. Nuovi quaderni di Trepuzzi, Surbo, Squinzano, Campi S., Guagnano, Salice Salentino, Novoli”, n. 5, Dicembre 2002, LiberArs Editrice Multimedia.
Iniziative di promozione di questa antica tradizione popolare, nella nostra terra recentemente sono state promosse nelle cittadine di Mesagne e di Oria. A Mesagne (cittadina in cui la sera del Venerdì Santo si tiene la storica Processione dei Sacri Misteri della passione di Gesù che risale al XV secolo e organizzata dall’associazione SS. Crocefisso) nello scorso anno è stato realizzato (ma non presentato al pubblico a causa dell’epidemia) un Presepio della Passione dai maestri artigiani “Borgo dei Presepi” Damiano Magrì, Antonio Danisi e Giuliano Radaelli, sotto la direzione artistica di Maurizio Piro. Nel Presepe sono state rappresentate tutte le tappe della vita di Gesù. Stesso discorso vale per la cittadina di Oria che, grazie al “Gruppo di promozione umana”, dal 2016 organizza e promuove la mostra “Diorami di Pasqua o Presepi Pasquali” come evento associato alla rappresentazione della passione. In Puglia, va menzionata anche la cittadina di Canosa dove l’Associazione Italiana Amici del Presepio realizza I Diorami Pasquali (e relativo concorso fotografico) che mettono in scena appunto i vari momenti della Santa Pasqua: dal processo di Gesù alla salita al Golgota, all’incontro con la Veronica e con il Cireneo che lo aiuta a portare la croce, fino alla crocefissione vera e propria tra i due ladroni, alla deposizione, alla sepoltura e alla Resurrezione della Domenica (in numerose famiglie vige anche l’abitudine di fare l’albero anche a Pasqua con colorati ovetti di cioccolato).
Rosario Jurlaro è nato a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, il 23 marzo 1930.
Ha iniziato precocemente a pubblicare su riviste e quotidiani. Poco più che ventenne intraprende l’attività giornalistica a Roma, scrivendo articoli di cultura per “Il Tempo” e soprattutto per “L’Osservatore Romano”. Nella Capitale si specializza in paleografia e archivistica, punto di partenza del suo diuturno impegno di studioso di manoscritti e di bibliotecario.
Nel 1957 assume l’incarico di direttore della biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi, che ha guidato fino al 1993, trasformandola nel più attivo e prestigioso polo culturale della città, punto di riferimento non solo per studenti universitari, ma anche di numerosi ricercatori e studiosi italiani e stranieri. Sotto la sua direzione il patrimonio librario è passato da 15.000 a oltre 65.000 tra volumi e opuscoli, a cui vanno ad aggiungersi 11 incunaboli e 130 manoscritti. Jurlaro ha favorito, inoltre, numerose donazioni di collezioni private, anche di una certa importanza e di interesse bibliografico, a dimostrazione del rapporto fiduciario che è riuscito a conquistarsi nel tempo. Al fondo librario della biblioteca ha affiancato una cospicua fototeca storica, una preziosa emeroteca che raccoglie la stampa periodica locale e una notevole pinacoteca.
Nel 1958 dà vita all’Associazione Amici della “A. De Leo”, che nel giro di poco tempo registra numerose adesioni da parte di appassionati cultori delle patrie lettere e di storia e cultura locale. Tra i soci onorari vanno annoverati Dennis E. Rhodes della British Library di Londra, Paul Oscar Kristeller della Columbia University di New York, Gerhard Rholfs dell’Università di Tubinga.
Sotto la sua direzione la biblioteca si apre alla città accogliendo eventi pubblici di rilevanza scientifica e culturale: conferenze periodiche, convegni di studi, mostre fotografiche, pittoriche, di manoscritti e libri antichi, che vedono il coinvolgimento di specialisti di tutta Italia e di docenti universitari, soprattutto degli atenei pugliesi, con cui Jurlaro ha continuato a mantenere ottimi rapporti di scambi e collaborazione.
Alle attività dell’Associazione affianca le “Edizioni degli Amici della De Leo”, fondando e dirigendo collane di studi specialistici e di opere letterarie.
Nel 1969 fonda la rivista di studi storico-artistici “Brundisii Res”, da lui diretta fino al 1999, accolta con molto interesse dalla comunità scientifica nazionale. Nel 2002 fonda e dirige la rivista semestrale “Alba pratalia. Semenzaio delle memorie. Storia: Lettere – Arti – Scienze”, in seguito pubblicata dall’editore Forni di Sala Bolognese fino al n. 28 del giugno 2016. La rivista coagula intorno a sé studiosi e scrittori di tutta la penisola.
Di formazione storicistica e di ispirazione cattolico-liberale di matrice manzoniana, Rosario Jurlaro ha fornito contributi scientifici e letterari di notevole rilevanza in ampi settori di studi di area pugliese-salentina e mediterranea, che spaziano dalla storia all’arte, dall’archeologia alla numismatica, dalla religione all’antiquaria, dall’antropologia culturale alla letteratura. Si segnalano, in particolare, i suoi contributi sull’arte paleocristiana, sui Messapi e sui dialetti salentini, ampiamente presenti nei repertori bibliografici.
Ha curato la ristampa di opere rare, tra cui quella di G. Bax, Nniccu Furcedda. Farsa pastorale del XVIII secolo in vernacolo salentino (Firenze, Olschki, 1964); di A. Della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi (Bologna, Forni, 1967); di A. De Leo, Dell’origine del rito greco nella Chiesa di Brindisi (Brindisi, Edizioni Amici della “A. De Leo”, 1974); di P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana (Bologna, Forni, 1974); di G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva (Bologna, Forni, 1996), Il regno di Napoli nel 1799. Due fonti si rivoluzione repubblicana e controrivoluzione: “Le memorie” di Bartolomeo Cardini, il “Diario” di Vincenzo Durante (Bologna, Forni, 1999); di T.N. D’Aquino, Delle delizie tarantine (Bologna, Forni, 2008).
Rosario Jurlaro continua a contribuire attivamente a numerose associazioni di ricerca e studi: è stato vice presidente del Comitato scientifico del Centro Studi Salentini, socio onorario del Centro studi per la storia della ceramica meridionale, consigliere centrale della Società di Storia Patria per la Puglia dal 1974 al 2003.
Ha curato, tra l’altro, alcune voci del Dizionario biografico degli italiani dell’Istituto Italiano dell’Enciclopedia Treccani e ha collaborato con la Bibliotheca Sanctorum.
Autore di oltre 600 pubblicazioni, gran parte della sua produzione scientifica è apparsa su riviste specializzate, tra cui: “Archivio storico Pugliese” (Bari), “L’Arte” (Milano), “Arte Cristiana” (Roma), “Bollettino della Badia Greca” (Grottaferrata), “Faenza” (Faenza), “Historia” (Milano), “Jesus” (Alba), “Mediterranean” (Roma-Brindisi), “Miscellanea Francescana” (Roma), “Miscellanea Franciscana salentina” (Lecce), “Onomata” (Atene), “Rivista di archeologia cristiana” (Città del Vaticano), “Rocca” (Assisi), “Sefei Yuhasin” (Cassano Murge), “Studi Salentini” (Lecce), “Vetera Christianorum” (Bari), “La Zagaglia” (Lecce).
Jurlaro è anche autore di opere creative, ma non di pura immaginazione, in cui interseca felicemente la dimensione documentaria e quella narrativa, entro un impianto storicista e meridionalista e una visione autenticamente cristiana: L’utile canna. Diario intimo della gente del sud (Galatina, Congedo, 1975); La festa cresta. Dalle Palme al Sabato Santo con la gente del Sud (Ravenna, Longo, 1983); Fame e famiglia. Fami e famigghia. Mezzogiorno rurale: anni Cinquanta (Ravenna, Longo, 1986); Continente masseria. Alle radici del Sud Mediterraneo (Ravenna, Longo, 1995).
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti vanno ricordati in particolare il “Premio Piero Gobetti. L’editore ideale” conseguito nel 1978 e il “Premio Umanesimo della Pietra per la storia” nel 2003.
Uno degli impegni più recenti dell’illustre e apprezzato studioso è il saggio storico che introduce il volume Francavilla Fontana, pubblicato nel 2007 nella prestigiosa collana delle “Guide Artistiche Electa” della Mondadori.
Ancora attivo alla veneranda età di 87 anni, è quotidianamente impegnato negli studi, nella ricerca, nelle presentazioni di libri e mostre d’arte, nelle conferenze, così come continua a tenere relazioni nei convegni scientifici e a scrivere articoli e saggi per le riviste a cui continua a collaborare con lo stesso entusiasmo e la stessa passione degli esordi.
In occasione del suo ottuagenario, gli è stata dedicata la miscellanea di studi Tra Letteratura e Storia (Galatina, EdiPan, 2008), curata da Mario Spedicato, con i contributi, tra gli altri, di Giancarlo Vallone, Mario Marti, Alessandro Laporta, Dennis E. Rhodes, Gianfranco Liberati, Ettore Catalano, Antonio Lucio Giannone, Antonio Mangione.
(profilo diffuso dalla Società di Storia Patria per la Puglia)
Le pavimentazioni interne degli edifici rispecchiavano le capacità economiche dei proprietari. si passava così dai pavimenti in “chianche” di pietra di Cursi ai lastrici di calce, ai pavimenti in mosaico, alle pavimentazioni in lastre di marmo o in piastrelle di cotto maiolicato.
Il pavimento di notevole pregio più diffuso specialmente nelle unità immobiliari di tipo signorile era il
– lastrico di calce
Dopo aver preparato il letto di posa, sommariamente spianato con detriti tufacei adeguatamente costipati, si metteva in opera un massetto dello spessore di 7-8 cm. costituito da un impasto di malta grossa di calce, tufina setacciata con la rezza e cocciopesto ottenuto dalla frantumazione di embrici di terracotta.
Subito dopo si stendeva uno strato di intonaco di malta di calce e tufina finemente setacciata che veniva sottoposto in continuità, giorno e notte per qualche giorno di seguito, a lisciature con la cazzuola (non esisteva il fratazzo di acciaio) e battiture con l’uso di un attrezzo, il maglio di legno, mutuato dall’agricoltura dove veniva usato per stritolare le spighe di grano o i baccelli secchi di legumi per estrarne il frutto. La continua battitura e successiva lisciatura probabilmente serviva ad allontanare meccanicamente l’acqua in esubero che non partecipava così al processo di carbonatazione della calce e ad addensare le particelle con riduzione della naturale microporosità dovuta alla emissione dell’anidride carbonica sempre come effetto della carbonatazione della calce ed al ritiro naturale in fase di indurimento.
Per aumentare la durezza superficiale, a volte, si aggiungeva nella malta polvere di marmo oppure, per aumentare la brillantezza, si operavano le ultime mani di lisciatura con l’aggiunta di albume d’uovo. Anche se, in tutte queste operazioni, c’era la massima cura ed applicazione, non mancavano esiti negativi, a volte inspiegabili, come la formazione di bolle in un singolo vano di un complesso di quattro o cinque stanze che erano state pavimentate contemporaneamente, questo probabilmente o per l’accidentale impiego di qualche calderina di calce spenta male o per la presenza di correnti d’aria (la messa in opera del pavimento avveniva quando non erano stati ancora montati gli infissi) che avevano accelerato la fase di indurimento.
Un altro difetto ricorrente era causato dalle fessurazioni che si verificavano specialmente ai piani superiori sia per probabili cedimenti dei riempimenti delle volte murarie poco costipati che per probabili assestamenti strutturali delle masse murarie.
– lastricato solare
La pavimentazione dell’estradosso delle coperture dell’ultimo piano dell’edificio veniva realizzata con un lastricato di “chianche” di pietra di Cursi.
Le lastre (“chianche”) venivano ricavate tagliando a fette conci di pietra di Cursi, cavati nelle dimensioni di m. 0,63×0,40×0,32, per cui ogni lastra, dello spessore di circa cm. 5, aveva le dimensioni di m. 0,63×0,40. Le due lastre terminali (la prima e l’ultima) avevano una faccia perfettamente piana corrispondente all’azione della sega mentre l’altra faccia corrispondente alla originaria conformazione del concio di partenza, come proveniente dalla cavatura, era alquanto irregolare. Per questo motivo si sceglievano prima le lastre intermedie, a spessore costante (serratizze), per adoperarle nel rivestimento superiore dei muri d’attico o parapetti (livellini).
Le altre lastre adoperate per la pavimentazione solare venivano squadrate per regolarizzarne i bordi e per selezionarle in base alla larghezza variabile da cm. 37 a cm. 40. Questa operazione veniva eseguita con l’uso di una pialla (chianula), con coltello finemente dentellato, diverso da quello tagliente continuo che si usava nella finitura superficiale della faccia dei conci di pietra leccese nella muratura “a vista”. E’ da notare che tutti gli arnesi usati dagli scalpellini per la lavorazione della pietra leccese erano analoghi e, a volte, simili a quelli usati dai falegnami nella lavorazione del legno.
– la posa in opera
Sull’estradosso della volta muraria, per regolarizzare la superficie, si effettuava il riempimento utilizzando gli scarti di conci e detriti di tufo di varia pezzatura (ascuni, asche, fricciame, ecc.) fino alla quota dell’estradosso delle formate; quindi si procedeva a definire le pendenze dei compluvi (circa 1%) partendo dallo scarico al pluviale, con materiale via via più sottile fino alla tufina setacciata con la rezza che costituiva il letto di posa.
Le chianche venivano disposte sul letto di tutina in file regolari, ciascuna di larghezza costante (variabile da cm. 37 a cm. 40), con l’uso di una corda tesa (firazzulu) che definiva l’allineamento ed il piano di ciascuna fila. i giunti trasversali delle file contermini erano rigorosamente sfalsati. L’interstizio intercorrente tra le file e tra due lastre della stessa fila (comento dial. chiamientu) era della larghezza di circa cm. 1,5, ben più largo dei 7-8 mm. di norma prima dell’impiego del cemento.
Generalmente, la parte centrale della volta, la calotta (cueppu) fuoriusciva rispetto al piano del resto della pavimentazione di circa cm. 50 . Il lastricato di questa parte altimetricamente sporgente, veniva realizzato sempre a file regolari con raccordi perimetrali inclinati (anche di 30-40°) rispetto alla verticale, che facevano assumere al tutto, la forma di un tronco di piramide dove le lastre degli spigoli avevano il lato dello spessore, per poter combaciare, lavorato e tagliato a “cartabuono” per cui nella terminologia dialettale, i pezzi d’angolo venivano denominati “cartaponi”.
Terminata la messa in opera delle chianche, nei giunti aperti veniva colata una malta povera, di calce e tutina grossolana, molto fluida (beverone), versandola direttamente sulla pavimentazione e dirigendola nei giunti aperti con l’uso della cazzuola.
Successivamente, dopo circa un giorno, la malta rappresa presente nei giunti veniva costipata a forza, battendola con la mannaia per poi procedere al riempimento dei giunti in tre fasi:
a – si colava nei giunti una malta fluida cementizia che si lasciava indurire per qualche ora;
b – si costipava con le stesse modalità del beverone;
c – si stuccava il giunto con malta cementizia fine (sabbia calcarea finemente setacciata e cemento) per garantirne la tenuta a stagnezza.
Prima dell’impiego della malta cementizia, i giunti erano molto più stretti e, per la sigillatura, al posto della malta cementizia, si usava una malta avente caratteristiche idrauliche, costituita da calce e cocciopesto (embrici frantumati – pizzulame)
Tra le varie pratiche sperimentate per migliorare l’impermeabilizzazione dei lastrici solari c’era quella abbastanza efficace che consisteva nello strofinare sulla superficie dei cipolloni selvatici (cipuddhazzi). Successivamente, per spiegare questo effetto, si è scoperto che quei vegetali contengono acido ossalico che, combinandosi con il carbonato di calcio contenuto nelle chianche, forma ossalato di calcio che ha proprietà idrorepellenti.
Su Epifanio Ferdinando (1569-1638) il lettore che lo desidera potrà trovare un’ampia messe di contributi, digitando nome e cognome nell’apposita casella di ricerca. Oggi aggiungo un piccolo tassello nato, come spesso succede, per puro caso o, se si preferisce, per ispirazione indiretta.
Nel corso di una ricerca sull’etimo di un toponimo brindisino, che a breve renderò pubblica, se il titolare di questo blog vorrà non tener conto degli epiteti da me usati nei confronti di chi se ne è occupato dal 1745 fino all’anno in corso …, era fatale che, partendo inevitabilmente dalla fonte più antica, la Antiqua Messaprographia del nostro, tuttora rimasta manoscritta, il confronto si estendesse alla Messapographia sive historia Messapiae del figlio Diego (1611-1662), pubblica nel 20201.
Non potevo neppure trascurare la lettura della traduzione, anch’essa tuttora inedita, che dell’opera di Epifanio fece, integrandola con le sue aggiunte, Antonio Mavaro (1725-1812).
Probabilmente il Mavaro aveva intenzione di pubblicare la sua opera che, almeno strutturalmente, appare pronta. Essa, infatti, come nella migliore tradizione di quell’epoca, si apre ospitando due componimenti encomiastici, un epigramma in latino in distici elegiaci ed un sonetto, dedicati ad Epifanio dal canonico mesagnese Francesco Roma. Riproduco la carta originale, aggiungendo la trascrizione, la traduzione a fronte dell’epigramma e qualche nota esplicativa.
Rimane da spiegare l’occasione sprecata del titolo. Essa è strettamente legata alla ricerca etimo-toponomastica della quale ho detto all’inizio. Se il Mavaro avesse riportato integralmente il testo originale in latino di Epifanio (lo fa solo per il primo capitolo; per il resto la sua traduzione è in realtà un compendio), avrei potuto fare la collazione con l’unica copia finora nota dell’opera del Ferdinando. Ma, per comprendere l’importanza vitale di questo passaggio, fondamentale non solo quando la fonte è manoscritta …, bisognerà leggere il prossimo contributo, sempre se sarà qui ospitato …
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1 Diego Ferdinando, Messapografia ovvero historia di Mesagne, a cura di Domenico Urgesi con la collaborazione di Francesco Scalera, Società storica di Terra d’Otranto, Lecce, 2020.
Ricordare e onorare personaggi rappresentativi di rilevanti percorsi culturali che hanno lasciato un segno indelebile non solo nei luoghi stessi della memoria, ma anche del sentimento e dell’affetto, certamente significa contribuire in maniera molto significativa alla conoscenza e alla valorizzazione della ricerca e della stessa dimensione culturale. Ne è un esempio eccellente, l’iniziativa della Società di Storia Patria per la Puglia (sez. di Bari, presidente Pasquale Corsi) che recentemente ha promosso, nella collana “Memorie”, la pubblicazione di un nuovo testo intitolato Giuseppe Petraglione. Scritti Pugliesi (1894 – 1945), a cura di Giuseppe Trincucci, con un Ricordo del nipote Giuseppe Attimonelli Petraglione, prefazione di Pasquale Corsi, introduzione di Giuseppe Trincucci (Bari, Pressup. 2022, pp. 371).
Il testo è infatti una raccolta di scritti di Giuseppe Petraglione (alcuni anche dispersi in pubblicazioni difficilmente rintracciabili) dedicati alla Puglia nel senso più ampio del termine, raccolta selezionata ed organizzata da Giuseppe Trincucci, presidente della sezione di Lucera della Società (nella sua introduzione ne delinea anche il profilo come studioso) e che ne testimonia il suo grande e non comune impegno culturale e umano.
Giuseppe Petraglione (Lecce 13 luglio 1872 – Bari 4 giugno 1947), insegnante ed educatore nella scuola di intere generazioni (fece parte anche del Consiglio superiore della Pubblica istruzione e condusse “memorabili battaglie per lo sviluppo della scuola”) è stato soprattutto un raffinato letterato e ricercatore di notevole valore, perché ha dato un contributo di alto livello scientifico per circa cinquant’anni alla cultura non solo pugliese, ma anche in generale italiana. Insegnante e ricercatore storico, come si rileva dal profilo del Trincucci, fu infatti autore (in particolare e in sintesi) di importanti studi demo-antropologici della sua terra d’origine, il Salento, e come bibliofilo, fu anche molto attento ai problemi relativi alla nascita della stampa nella sua provincia, dibattuti con altri studiosi salentini (come Bernardini e Foscarini). Fondò con Michele Gervasio la rivista Japigia, curando per anni la preziosa rubrica Bollettino Bibliografico dedicato alla Puglia. Nel 1943, dopo la morte di Gennaro Maria Monti (altro importante studioso) divenne poi presidente della Deputazione di Storia Patria per le Puglie.
“La morte lo colse (scrive Trincucci nell’introduzione) il 4 giugno 1947 dopo aver concluso la sua intensa vita, dedicata alla scuola e alla cultura italiana. Continuò fino alla fine il suo lavoro di studioso, conservando l’impegno per la salvaguardia dell’identità della Deputazione per la Storia Patria per le Puglie. La morte non poteva coglierlo in ozio stupido”.
Un personaggio straordinario, dunque, al quale la Puglia deve indubbiamente molto, e questo libro ne rappresenta certamente “il recupero più completo della sua personalità” (Pasquale Corsi). Il testo, come si può notare, è molto importante per diverse ragioni; una in particolare, in questa sede, ci interessa più di tutte e la sottoponiamo ai nostri.
Va detto anzitutto che nell’unitarietà della raccolta una “cospicua percentuale di questi suoi scritti si inserisce nel filone delle tradizioni popolari del Salento”. Questi studi iniziano con un articolo sugli Usi Nuziali nella Terra d’Otranto e precisamente con un lavoro relativo alla comunità di Salice Salentino.
L’articolo fu accolto nel 1900 nel prestigioso Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (Palermo, maggio 1900) fondato dopo il 1880 ad opera di Giuseppe Pitrè e da lui diretto assieme a Salvatore Salomone Marino (1882-1909).
Un articolo perciò quasi impossibile da trovare in originale, ma che i cittadini di Salice, e in generale gli studiosi del Salento, hanno già avuto la possibilità di leggere perché nel 1985 fu riproposto integralmente a cura di Enzo Panareo nel “Quaderno di Ricerca – Costumi e Storia del Salento”1.
Lo studioso Petraglione, in questo suo lavoro, descrive con prosa asciutta ed incisiva e con ricchezza di particolari usi nuziali e tradizioni che ormai sicuramente non esistono più (e che anche i più anziani difficilmente potranno ricordare), beneficiando dell’ospitalità del sacerdote Federico De Nisi, forse un parente di quel Giovanni De Nisi autore di Salice Terrae Idrunti (Storia aneddotica dal X al XX secolo) pubblicato nel 1968 a Ostia.
Tante cose da allora sono scomparse o cambiate e “gli usi nuziali” sono stati sostituiti da altre “modalità” molto più appariscenti caratterizzate certamente dall’aumentato benessere economico.
La domanda che comunque sorge spontanea è perché nella vasta Terra d’Otranto proprio a Salice il Petraglione comincia, come dichiara lui stesso, a esplorare gli usi e i costumi del popolo salentino, recandosi sul luogo di persona, forse invitato dallo stesso sacerdote Federico de Nisi con cui probabilmente aveva un rapporto di amicizia. Un settore questo ancora “incontaminato” dalla ricerca e che gli studiosi locali avevano trascurato, dedicandovi scarsa attenzione.
Prezioso è l’ampio campionario dei termini dialettali (oggi quasi del tutto scomparsi) che si susseguono nella narrazione dei particolari e molteplici usi (parlamentu, zzita, puddhica, quartuddhu, schizzu, tota, cannillini, ecc.).
La narrazione del Petraglione, divisa in sei parti, inizia infatti con lu Parlamentu ovvero con il giorno in cui le famiglie degli sposi concordano la data del matrimonio, e nello stesso tempo definiscono i propri impegni e interessi. È questo un momento determinante in quanto in tale occasione lo sposo deve fare un regalo “di valore” alla futura sposa che a sua volta ricambia sempre con una camicia di tela piegolinata.
Qualora si verifichi che tra il giorno della richiesta e quello del matrimonio cada la Quaresima, Lu zzitu (ovvero il fidanzato) nella Domenica delle Palme deve offrire alla futura sposa una palma benedetta “finemente lavorata, dalla quale pende un nastrino di color vivace, che reca agli estremi un anello d’oro”. La zzita (la fidanzata) a sua volta deve ricambiare con una puddhica (caratteristica forma di pane casalingo che veniva preparata solo in ricorrenza della Pasqua) portata in un cestino di paglia quartuddhu che deve contenere necessariamente 21 uova (un preciso valore numerico che però simbolicamente il Petraglione non riesce a spiegare).
“I capitoli matrimoniali” vengono definiti dalle famiglie, senza affidarsi ad un notaio, ma semplicemente a un loro conoscente “che sappia scrivere e far di conto” e in grado perciò di fare l’inventario (lu schizzu) della dote (tota).
Il Petraglione elenca i seguenti oggetti e beni che porta in dote la sposa: il corredo personale, il letto, il cassettone, la cassapanca, due tavole una per uso quotidiano e l’altra per cumparsa, sei sedie, la madia (la mattra), la tavola a madia (la mattrabanca) e gli arredi di metallo per la cucina (ferramenti e rami) cioè: una casseruola (puzzunettu), una padella (fersura), una gratella (riticula), 2 treppiedi (trapieti e triangulu), la catena del fuoco (camastra), la caldaia, la grattugia e un ramajolo (cucchiara per li maccarruni).
Lo sposo invece ha una parte non meno importante perché deve provvedere alle stoviglie, a tre crivelli (sittazzu, ranaru e marcaturu), a ornare il cassettone (nubilire lu cumbò) con chicchere e altri gingilli, agli abiti e agli ori della futura sua moglie. Se lo sposo infine non è un contadino ma è un piccolo proprietario (razzàle) deve obbligatoriamente provvedere alla provvista del grano, dei legumi (cucinato), dell’olio, dei fichi secchi e quant’altro può arricchire la nuova coppia.
Quando le famiglie dei futuri sposi scelgono la data del matrimonio, essa deve essere individuata in autunno dopo la raccolta delle olive. Sprunare lu votu è la cerimonia della promessa nuziale e nella vigilia del giorno in cui deve farsi l’ultima pubblicazione, si svolge la parte più importante del rito ovvero lu ttaccare te la catina (il legare della catena), una cerimonia, come lo stesso Petraglione afferma, molto diffusa (e ancora oggi infatti lo si usa dire) nel territorio circostante. Narra il Petraglione (descrivendo le fasi della cerimonia che in questa parte definirei “regali” nel loro insieme) che “la sposa in abito modesto, siede in mezzo alla casa circondata dai parenti e dagli amici che sfilano uno per uno innanzi a lei.
Prima fra tutti viene la madre dello sposo, e cinge al collo della nuora la catina che ha nel mezzo cinque nodi d’oro e a’ lati due nastrini di velluto nero. Se lo sposo è razzàle il nodo mediano è arricchito da un ciondolo. Alla suocera seguono i parenti e gli amici d’ambo le parti i quali depongono in grembo alla sposa i propri regali, e la baciano in viso.
Col passare del tempo questa grazia primitiva va scomparendo, e al bacio sono ammesse solo le donne. I parenti offrono tutti quanti indistintamente un anello; gli amici un fazzoletto di seta o di cotone secondo i maggiori o minori obblighi che hanno verso le famiglie degli sposi. Lu zzitu regala egli pure alla fidanzata un fazzoletto, e le dà sulla guancia il primo bacio ufficiale”.
Lu ttaccare la catina dura 8 giorni e il matrimonio avviene di sabato. Gli sposi però ancora non si uniscono e a volte accade di rimandarlo anche alla domenica. Gli sposi comunque fanno la loro cumparsa (apparizione) nelle ore antimeridiane della domenica e questa è la parte più importante di tutta la celebrazione.
Scrive infatti il Petraglione: “Nel giorno della cumparsa, un gruppetto di signori del paese (non meno di tre né più di cinque) espressamente invitati si portano a rilevare la sposa che è già bella e vestita in mezzo a una schiera di parenti e di amici. Ella indossa un abito di seta vivacemente colorato e ha le dita addirittura coperte dagli anelli ricevuti in dono. Sul capo reca la tradizionale ghirlanda di fiori d’arancio e, qualche volta, un velo bianco (pettinatura).
La sposa si distingue per la sola pettinatura dalle paraninfe, le quali vestono anch’esse come nel giorno in cui andarono a nozze (nell’antico cerimoniale greco delle nozze, erano le persone che accompagnavano la coppia nuziale alla casa dello sposo). Fra i signori invitati colui che ha relazioni più vicine con la famiglia dello sposo (patrunu o cumpare) è destinato ad accompagnare la sposa. Questa gli offre un mazzetto di fiori e ne viene subito ricambiata. Gli altri signori danno il braccio alle paraninfe, e le coppie cominciano a ordinarsi per la cumparsa.
Nel momento di abbandonare il tetto paterno la fanciulla bacia le mani a’ genitori, che piangenti se la stringono al seno. Non appena la calma rientra negli animi, il corteo esce tra il rumore degli spari e il moltiplicarsi degli auguri.
Le coppie marciano in fila: va innanzi il patrunu con la sposa, seguono poi gli altri signori con le paraninfe, disposte, quanto alla precedenza, in ragione di grado di parentela. In ultimo viene lo sposo, confuso nel resto della folla. Procedendo così, si giunge presso la chiesa, s’entra per la porta maggiore, e i signori offrono alle donne l’acqua benedetta,
A messa finita comincia il periodo più caratteristico della cumparsa: il corteo, ricompostosi, s’avvia verso la casa dello sposo tra lo scoppio assordante degli spari e una fitta pioggia di confetti (cannillini) che persegue le coppie durante tutto il tragitto. Spesso qualche parente, per nutrire meglio la scarica dei proiettili, lancia un pugno di soldi alla folla, e le comari aumentano la confusione gettando manate di fiori. Fiori, e talvolta noci, getta pure la suocera aspettante prima di aprire le braccia alla nuova figliuola che le sta per entrare in casa. Appena giunti, la sposa siede in mezzo alle paraninfe, le persone di famiglia servono caffè e liquori, e finalmente il patrunu e i suoi colleghi, accettata qualche cosa, sono messi in libertà”.
Il rito finalmente si è compiuto ed è giunto il momento di festeggiare con la caulata (cavolata), il banchetto al quale devono partecipare tutti i parenti fino all’ultimo grado e che consiste in una semplice minestra di cavoli come primo piatto (e che dà il nome al banchetto stesso) poi maccheroni, polpette, e il tutto innaffiato con buon vino paesano. Il banchetto si svolge mentre ancora “il rumoreggiare secco degli spari” si sentono pienamente. Il mattino seguente la suocera va a svegliare gli sposi (essi per 8 giorni non devono uscire) e offre loro una frittata, cibo fatto con le uova e che il Petraglione, in nota segnala infine come afrodisiache.
In conclusione, dalla descrizione fatta dal Petraglione, ne esce per Salice un mirabile affresco di vita degli inizi del ‘900. Sono pagine bellissime che nel loro ricordo ci frastornano e ci disorientano, e di cui oggi forse resta qualcosa. Ma è come se fosse una semplice ruga riconoscibile in una fisionomia mutata, in contesti fortemente trasformati e in cui i particolari sono stati sostituiti. Forse provocano rimpianto o una sana nostalgia per come eravamo noi e non siamo. Ma ora non lo possiamo essere più.
In “spazioapertosalento.it”, 2 ottobre 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 531-536, Novoli 2024.
Note
1 Nel febbraio del 1985, il Centro Regionale di Salice Salentino e Guagnano (CRSEC) pubblicò integralmente il saggio del Petraglione sul primo numero della rivista “Quaderno di ricerca Costumi e Storia del Salento”, (Grafiche Panico di Galatina, pp. 5-12). Il saggio del Petraglione fu introdotto sulla rivista, con alcune notizie biografiche, da Enzo Panareo con il titolo Usi nuziali in Terra d’Otranto-Salice Salentino-di Giuseppe Petraglione. Il Panareo già allora, metteva in risalto l’importanza di questo contributo scrivendo: “Un discorso – tenuto sul filo d’un metodo moderno, fondato sulla investigazione diretta, sul dato reperito alla fonte – con il quale Petraglione getta uno sguardo sulla cultura delle classi popolari e ricavandone un granello di saggezza lo sparge, come il seminatore paziente, al vento perché scenda sul fecondo terreno della cultura”.
La “Casa rossa”, fuori San Pancrazio Salentino, accoglie Nostra Signora di Lourdes, e la memoria va alla tradizione
di Michele Mainardi
La strada statale “7ter” da Guagnano dritta dritta ci porta a San Pancrazio Salentino. La vecchia via consolare Lecce-Taranto taglia il paese per tutta la sua lunghezza, ma noi ci arrestiamo un chilometro prima di entrare nell’abitato.
Siamo colpiti dalla figura tozza, terragnola, di quello che da lontano parrebbe un comune, piccolo fabbricato rurale. Avvicinandoci emerge la sua natura: è la chiesetta della “Madonna della Casa rossa”.
Il cartello segnalatore, posto a lato d’ingresso spartano, ce lo dice a chiare lettere, e ci aggiunge non l’anno, ma il secolo della costruzione: il diciannovesimo. Null’altro è dato sapere. Nell’assenza di spiegazioni entriamo, nel vano che offre spazio a sufficienza per starci in tanti.
La cappella, nel dentro, dà segni di ripresa della devozione: a Nostra Signora di Lourdes, la cui statuina, nuova d’acquisto di grandi magazzini, l’hanno collocata sopra il tabernacolo. L’altare è rifatto e rispecchia in pieno il sentire semplice della gente di campagna: un gradino di pietra leccese, il blocco compatto del paliotto di identica materia e la mensa eucaristica è bell’e pronta per il sacrificio della messa rusticana, sempre valida per l’oblazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo.
I fedeli dei nostri giorni continuano ad onorare la Santa Vergine, l’Immacolata Concezione che si rivelò a Bernadette Soubirous (la figlia del povero mugnaio), mettendosi d’impegno per non farle mancare i fiori, o meglio le piante che con due lumini ravvivano lo specifico culto mariano. La “bianca e celeste figurina” della Madre del Salvatore rivede così la luce di un tempo andato, di quando, dopo un periodo di sospensione delle liturgie, alla venuta del nuovo parroco, nel 1951, fu ripreso l’uso di celebrare in campo aperto, e precisamente in contrada “Inverno”.
Si deve quindi a don Luigi Spagnolo il ritorno della comunitaria condivisione del Pane e del Vino e del rito della processione, dalla cappella alla chiesa matrice, portando in spalla il simulacro di Maria. Recitando preghiere, innalzando canti ( “Va un dì Bernadetta fuscelli a cercar con due bambinette che il gel fa tremar”), la gente, a maggio inoltrato (sùbito dopo la festa solenne del venerato patrono Pancrazio, che cade il 12), completava il percorso devozionale accompagnando in religiosa fila la bella Madonnina di fuori le mura.
In testa, in coda, era tutto un litaniare, un tono monocorde di latinorum che saliva biascicante nell’alto dei cieli, nei profumati meriggi di avanzata primavera delle rose: Foederisarca, Turriseburnea, Stella matutina.
Facevano a gara, le pie donne, a prenotare la presenza della statua della Corredentrice nelle loro case. Dopo un giorno e una notte di orante sosta domestica si passava all’abitazione accanto, e così via via, addobbando le pareti degli edifici intercorrenti tra una fermata e l’altra.
La funzione all’aperto, celebrata dal prete organizzatore, col tempo buono maggiaiolo (ma niente maggiolate, per carità di Dio!), riusciva alla grande: l’ideale per mettersi il cuore in pace, facendo contenta tutta la famiglia, che si spendeva per non essere da meno. Le vicine, specie quelle del parentado, non lesinavano su niente. Ricamate lenzuola e preziose coperte venivano stese lungo il percorso, da porta in porta.
Poi, a conclusione del giro, si riaccompagnava, sempre processionalmente, a “Casa rossa”, la Madre Santa, che ivi stazionava, paziente, un anno intero, prima di riprendere il penitenziale cammino sanpancraziese.
Andava avanti in tal maniera, supplicante e dignitosa, la tradizione che si è persa, evaporata per consunzione di partecipanti. Ci resta però la vecchia foto della festicciola, più esattamente un intrattenimento agreste, che si teneva alla partenza, nello spazio di terra appena battuta facente sagrato contadino. Si vede il gruppo dei devoti, mamme papà e figlioletti al séguito, che fa goloso capannello intorno al carretto del gelataio, il popolare “Zzappettinu”, l’ambulante simpatico che dispensava felicità a buon mercato a grandi e piccini con la sua specialità: il cono al limone, una delizia da dieci lire.
Ad avvio dei Cinquanta, quando ancora da noi latitavano i frigoriferi (men che meno i portatili: roba americana), ci pensava il sorbettiere in triciclo, che tutti apprezzavano in paese, a vendere brividi di cremose dolcezze: davvero inarrivabili. Aveva sul fianco del suo prezioso, ghiacciato trabiccolo attaccata la striscia con stampato il saluto benaugurante alla giornata attesissima, che lo avrebbe reso conteso e consacrato protagonista. “Salve Regina!”, nostra zuccherosa dispensatrice di freddissime golosità.
“Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati”. Ci vollero 19 lunghi, lunghissimi anni prima che Battisti incidesse “I giardini di marzo”.
E a San Pancrazio, a maggio del ’53, già all’uscita dalla cappellina di zona “Inverno” (niente a che fare con la brutta stagione) ci si deliziava con la gelateria “a tre ruote” di Giuseppe Zattini. Brrr.
Ricercare l’etimo di una parola obsoleta è come effettuare un’autopsia. La parola di oggi, però, è ancora di uso frequente ma è il suo significato che mi ha ispirato la macabra similitudine. Essa, infatti è sinonimo di morto e, pur usata prevalentemente in riferimento ad un animale, può vantare (!) una traslazione nell’umano, dove, come di regola succede con le metafore di origine bestiale, assume una sfumatura di disprezzo, al pari dell’italiano crepato, riservato, come sinonimo di lesionato, ad una terracotta o, come sinonimo di morto, ad un essere umano la cui fine provoca a volte se non una soddisfazione, almeno un dispiacere maggiore rispetto ad un oggetto cui eravamo legati. In un colpo solo, insomma, riusciamo a mancare di rispetto a coloro che passano, per chi ci crede, a miglior vita non solo tra le cosiddette bestie ma anche tra gli altri animali cosiddetti umani.
Le guerre chirurgiche in atto, con l’esplosione delle bombe intelligenti (due metafore inventata da qualche ipocrita e psicopatico che ben sapeva che non sarebbero state in grado di risolvere cinicamente nemmeno il problema della sovrappopolazione del pianeta …) mi forniscono, purtroppo, l’ispirazione per spiegare l’etimo della parola di oggi.
Il creepitiodelle armi è musica per le orecchie dei guerrafondai di ogni latitudine e una radice, probabilmente anch’essa onomatopeica come quella di bombam di scoppio e di boato, unisce crepitio alla madre crepitare, come balbettio a balbettare, ronzio a ronzare, mormorio a mormorare, calpestio a calpestare, e simili.
Crepitare è, tal quale, dalla voce latina, a sua volta frequentativo di crepare (da cui la voce italiana). Le forme frequentativo seguono un processo di formazione molto semplice, aggiungendo un suffisso al supino del verbo madre. Così crepitare nasce da crèpitum, supino di crepare, come captare nasce da captum supino di càpere (che in latino significa prendere e in italiano ha dato capire).
Il nostro crièttu non è altro che il crèpitum latino di cui poco prima, attraverso la trafila: crèpitum>creptum (sincope, cioè caduta di –i– atona)>crettum (assimilazione –pt->tt-)>crièttu (dittongazione di –e– in –ie– , come in merun=puro>mièru, sinonimo dialettale di vino).
Ma ora debbo lasciarvi perché sono stato appena invitato per telefono da qualcuno che mi è parso parlasse a nome di un’istituzione pubblica. Sarà sicuramente qualche ministero con l’intenzione di supplicarmi di accettare un contratto di consulenza. In che cosa? Ma se so di tutto! Se, poi, dovesse finire come ho immaginato nella vignetta, che riproduce un incubo della scorsa notte, vuol dire che brinderò alla salute di chi mi ha letto e particolarmente, come da prassi social, di chi vorrà onorarmi del suo commento, naturalmente favorevole …
Una regola non scritta ma valida fino a pochi decenni fa considerava rilevante, sotto il profilo economico-sociale, quella comunità che nel corso dell’anno godeva del privilegio di celebrare più fiere e mercati. Oggi, questo modello non regge più e, nell’era dell’e-commerce e dei grandi centri commerciali, le rassegne espositive di stampo tradizionale hanno subìto un forte ridimensionamento, tant’è che molte sono definitivamente scomparse. D’altro canto, il termine “fiera”, derivando dal latino fera che significa animale, bestia, indica quella rassegna mercatale in cui l’aspetto preponderante è il commercio di bestiame, impiegato in agricoltura o allevato per consumo alimentare. Le restrittive norme, attualmente in vigore, che includono motivazioni di carattere igienico-sanitario e istanze dei gruppi animalisti, ne limitano la vendita o addirittura lo vietano. Mancando dell’elemento della commercializzazione degli armenti, non si potrebbe parlare di fiera ma semplicemente di mercato.
Delle sei fiere che si tenevano a Casarano ne sono rimaste soltanto due, quella di San Giovanni Elemosiniere, a maggio, e del SS. Crocifisso, ad ottobre, entrambe collegate a due festività religiose molto sentite dalla comunità cittadina.
Il loro contributo allo sviluppo economico del paese è stato così incisivo che Cosimo De Giorgi (1842-1922) il grande ricercatore salentino, nei suoi “Bozzetti” (1) così ne parla:
”…Casarano è uno dei più importanti e dei più civili paesi del Capo di Leuca. Ha il suo mercato settimanale ogni martedì e le sue fiere sono tra le più notevoli del circondario di Gallipoli…”.
Gli fa eco lo storico Giacomo Arditi (1815-1891), in “Corografia di Terra d’Otranto” (2) affermando che i mercati di Casarano sono i migliori del Salento.
Tale propensione commerciale aveva rappresentato, nel 1863, una valida motivazione per inoltrare, presso il Ministero di Grazia e Giustizia, una petizione a firma degli amministratori comunali al fine di scongiurare la soppressione del Mandamento di Casarano in quanto si celebrano:
“…5 fiere annuali di grandissima importanza per l’immenso concorso di negozianti di altre provincie…”.(3)
Oltre a quelle già citate, le altre fiere erano quelle della Madonna della Campana ad aprile, di Sant’Antonio a luglio, Santa Filomena ad agosto e Santa Lucia a dicembre.
Quella del SS. Crocifisso è sicuramente la più sentita dalla popolazione locale. Istituita intorno alla seconda metà del Seicento per commemorare i numerosi miracoli operati da un affresco raffigurante la Crocifissione, (www.fondazioneterradotranto.it/2023/10/10/i-miracoli-operati-dal-crocifisso-di-casarano-in-un-libretto-del-1688/) (foto 2) la manifestazione fieristica, fino al 1812, veniva svolta il 14 settembre, in occasione della festa dell’Esaltazione della S. Croce. Da quell’anno in poi, un decreto del Re di Napoli Gioacchino Murat stabilì che la fiera fosse spostata alla seconda domenica di ottobre per farla coincidere con le volontà testamentarie di Don Daniele Calò (1626-1705), arciprete di Casarano e testimone oculare dei miracoli del Ss. Crocifisso, il quale aveva disposto un cospicuo lascito in denaro per la celebrazione di una serie di messe solenni in quella data.
Lo spostamento si rivelò più che azzeccato perché, ponendo la fiera all’inizio dell’autunno, essa rappresentava una vera opportunità per gli abitanti del Circondario di rifornirsi di provviste e viveri per il lungo inverno. Inoltre veniva considerata come atto di ringraziamento per i raccolti compiuti nei mesi primaverili ed estivi.
Uno dei primi accenni alla fiera del Crocifisso lo si deve al notaio casaranese Santo Riccio (1651-1726) che, tra l’altro, è l’autore di un dettagliato opuscoletto descrivente i miracoli compiuti dalla miracolosa immagine dal 27 gennaio all’8 febbraio 1688. In un passaggio della sua cronistoria, così parla citando la fiera:
“Nella prima festività si fece con mostra del Santiss.mo Crocifisso che necessitava certa farina per fare colla per collare Carte che servevano per le muraglie della Città…mai detta farina Mancò…” (4)
Il passaggio non è un capolavoro di lingua né di stile. D’altra parte il livello culturale di un notaio dell’epoca non era quello che si esige ai nostri giorni. A noi interessa sapere che, in occasione del primo anniversario della scoperta dell’affresco miracoloso, si tenne una “mostra” ossia una fiera(5).
La fiera, per moltissimo tempo, ha rappresentato una delle manifestazioni commerciali più popolari del mese di ottobre insieme a quelle di Miggiano (III domenica) e Ortelle (IV domenica).
Abbinato a questa ricorrenza, un tipico piatto della cucina salentina, le cicureddhre a minescia, che riscuote ancora oggi molta popolarità fra i casaranesi. Si tratta di cuocere in brodo le cicorie selvatiche, raccolte nei giorni precedenti la fiera, le quali, una volta cotte, si sposano armoniosamente con la carne di maiale, specialmente con “u camusceddhru”, la pancetta tagliata in spessi tocchi. (foto 5)
Probabilmente l’epiteto legato a questa festività, ossia “Curgifissu te lu citu”, oggi completamente rimosso dalla memoria collettiva, potrebbe trovare l’origine nel greco antico “Kytos” che significa pelle, cuoio, e nel tardo latino “cùtica” ossia pelle o cotica di maiale. Quindi Curgifissu te lu citu indicherebbe il “Crocifisso della cotica”, nel cui giorno si consuma la carne di maiale. L’accostamento potrebbe risultare poco rispettoso ma necessario per distinguere questo culto da altri come il Crocifisso “te le feu” di Gallipoli, quello “te la macchia” a Ruffano, e “te lu Panieri” di Galatone.
Note
1) Cosimo De Giorgi, La Provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Editore Giuseppe Spacciante, Lecce, 1882.
2) Giacomo Arditi, Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Editore Leonardo Cisaria, 1879.
3) Archivio comunale di Casarano, Memoria diretta ai Ministri di Grazia e Giustizia e delle Finanze del 15 luglio 1863.
4) Cfr.: Antonio Chetry, Spigolature Casaranesi, II Quaderno, pag. 34.
5) Non è nota la data esatta dei festeggiamenti per gli anni successivi. Si propende per il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della S. Croce.
Usciamo da San Pancrazio Salentino prendendo la strada provinciale “65”, stretta e non trafficata arteria che si innesta sulla via che va, a destra, a Erchie e, a sinistra, ad Avetrana. Poco dopo l’abitato, superata la statale “7 ter”, avvistiamo la nostra meta, che è a portata di sguardo: ci è facile raggiungere “Masseria Torre Vecchia”, una struttura agrituristica immersa nel verde; ma noi non siamo qui per un soggiorno, un ristoro in ameno ambiente; ci ha spinto il desiderio di visitare il gioiello storico-artistico inglobato nel perimetro del complesso extralberghiero.
La grotta “dell’Angelo” si presenta ai nostri occhi in tutto il suo (residuo) splendore. Anche se molto col tempo è andato perduto dei suoi affreschi parietali, che ne fecero una cripta (da antro probabilmente utilizzato come tomba a camera in età messapica: l’interrogativo è d’obbligo), resta intatto il fascino del luogo sacro. Scopriamone il perché.
Si accede alla cavità, approfondita nel tufo, mediante scalini ormai consumati. Sùbito ci appare una colonna, un grosso pilastro che sostiene la volta, in parte già crollata. La copertura in PVC, messa a protezione, di certo è un freno all’ulteriore degrado chimico-fisico del terreno.
Entriamo nel dettaglio dello spazio che funse da aula di liturgie per religiosi di vita eremitica. Ha due entrate: a tramontana e a scirocco. La larghezza, occhio e croce, è di cinque metri per cinque; l’altezza è a sufficienza per starci senza problemi: giusto per le dimensioni di una persona. La forma tende al circolare; nel pavimento, in posizione centrale, spicca il vuoto di un pozzetto interrato. L’acqua necessitava per chi nello speco trovava rifugio, in anima e corpo, vivendoci notte e giorno.
Venendo alle tracce di pittura degli effigiati se ne possono individuare forse una decina. Si tratta di santi con vesti panneggiate all’orientale: ampi mantelli di non si sa quali aureolati. La figura del Signore parrebbe la sua; l’indizio iconografico è tale da non esserne sicuri, ma ci sta: come non potrebbe presidiare la chiesa rupestre il Salvatore, il Cristo Pantocratore? L’Onnipotente è dunque presente anche se i secoli ne hanno appannato il volto.
Ben visibile invece è quello di san Vito, che ha pure il corpo integro e gli attributi suoi: il cane col pane gli è devotamente ai piedi, pronto per soccorrerlo al bisogno. Per fortuna il plausibile titolare di oratorio incavato resta il testimone indiscusso del passato: lui, il martirizzato, l’adottato, nel culto, dagli anacoreti venuti da Oriente, dall’Egeo periglioso, e stabilitisi nella Piana Messapica, e in gran parte del Salento, negli anfratti di gravine e di serre (intese nell’accezione di deboli alture).
Prima di uscire “allo scoperto”, dalla grotta delle evaporate preghiere, un’occhiata al soffitto va obbligatoriamente data: il cielo stellato e fiorito (con rosette), è vero, è un po’ offuscato, ma le croci sparse ci dicono che l’Empireo, nei tempi andati, i monaci solitari dovettero alfine scorgerlo; bastava alzare il capo in atto di ringraziamento al buon Dio, che da quaggiù lo stesso lo si vedeva assiso in trono tra i cherubini, in tutta la sua maestà, potenza e sacralità: e la beata visione al calar delle tenebre confermava nella fede.
Ali angeliche sostenevano battiti di profonda spiritualità tra gli oranti di sottoterra…
L’elemento fondamentale per la vita non poteva certo mancare nella vastissima antologia di saggezza che nel tempo soprattutto la cultura popolare ha compilato con locuzioni brevi, espressivamente efficaci e foneticamente accattivanti grazie alla rima ed all’assonanza (segnalate da una barra), quali i proverbi ed i detti, con riferimento ai campi più disparati, dalla medicina alla meteorologia, dall’economia alla religione. Se ne dà qui, senza la pretesa che essa sia esaustiva, una raccolta, senza distinzione tra detti e proverbi per rispettare l’ordine alfabetico, ma, laddove si è ritenuto opportuno, con un breve commento e con note esplicative che ne aiutino l’inquadramento nell’una o nell’altra categoria.
1 ACQUA E SSCELU NO PPÒTINU STARE AN CIELU
Acqua e gelo non possono stare in cielo
Ai fenomeni atmosferici non ci si può sottrarre; solo che il cambiamento climatico li ha resi più devastanti, nonostante la loro prevedibilità grazie agli strumenti tecnologici oggi disponibili, i satelliti anzitutto.
Uno dei si sintomi di malattie, anche molto gravi, dell’apparato uro-genitale.
4 ACQUA TI SCIUGNU, PÌSCIU TI TIÀULU
Acqua di di giugno, piscio di diavolo
La pioggia di giugno non sarà dannosa per tutte le colture, ma ha effetti micidiali su quella che un tempo era il fiore all’occhiello della nostra economia agricola: il grano. La pioggia era la benvenuta in aprile (vedi il n. 18).
5 ‘ALE CCHIÙ ‘NN’ACQUA TI ‘BBRILE/CCA ‘NNU CARRU CU TTOTTE LI TIRE
Vale più una pioggia d’aprile che un carro con l’animale che lo tira
Lapidaria considerazione sulla rilevanza economica di un buon raccolto, grazie al quale, fra l’altro, è possibile, magari, pensare pure ad un carro nuovo. La pioggia d’aprile è preziosa per il fatto che dopo essa scarseggiava, come si rileva dal n. 27.
6 AN TERRA TI PICCATURI L’ACQUA QUANDU MÈTINU LI LÀURI
In terra di peccatori la pioggia quando mietono i lauri
Non pioverà mai perché gli allori, tutt’al più, si potano, non si mietono; non escluderemmo, però, un significato più profondo legato al valore metaforico di mètinu (danno un taglio secco) e làuri (vanagloria). Potrebbe sembrare strana, perché fenomeno tutt’altro che raro nel dialetto, la mancata diastole in làuri: laùri avrebbe fatto rima perfetta con ‘turi; non è avvenuto perché laùru era il nome di un folletto che faceva dispetti di notte e non a caso è (ne sopravvive solo l’etimo …) dalla seguente, sofferta trafila: l’augurio>l’aùriu>l‘aùru>laùru (per agglutinazione dell’articolo).
La pazienza del cacciatore come metafora della perseveranza di chi vuol raggiungere il suo scopo.
12 CI VUEI ACQUA CERCA ‘IÈNTU
Se vuoi acqua (pioggia), cerca (chiedi) vento
Difficile dire se il riferimento è alla frequente associazione dei due fenomeni o ad un espediente per ingannare i capricci del tempo che spesso è il contrario di quello che vorremmo.
13 CO’ TI SEPPE CÈFALU E PPALUMBU, CUSÌ TI SAPE[3] L’ACQUA TI LU FUNDU
Come per te ebbe sapore (ti sembrarono saporiti) cefalo e colombo, così (ora) ha per te sapore l’acqua del fondo
Si è sempre a rischio di cadere dalle stelle (cefalu e palumbu, cioè pesce e carne, nelle faniglie contadine consumati solo nelle grandi occasioni, o quasi) alle stalle (acqua ti lu fundu, quella più ricca di deposito, simbolo della fine delle risorse).
14 CU’ LLA GGELATA/L’ACQUA È PPRIPARATA
Con la gelata l’acqua (la pioggia) è preparata.
15 É SCURUTU LU CARNIALE/CU PPURPETTE E MMACCARRUNI./MO ‘NDI TOCCA ACQUA E SSALE[4]/E QUATTRU, CINQUE LAMPASCIUNI
Si è oscurato (è passato) il Carnevale con polpette e maccheroni. Ora ci tocca acqua e sale e quattro, cinque lampascioni.
Metaforicamente in linea con lasciar cuocere uno nel proprio brodo.
22 LU SANGU NO SSI FACE MAI ACQUA
Il sangue non si fa (diventa) mai acqua.
23 MINTI LI MANU INTR’ALL’ACQUA FRESCA!
Metti le mani nell’acqua fresca!
Invito rivolto a chi si mostra troppo nervoso e il raffreddamento conviene che cominci dal dettaglio anatomico nella fattispecie immortalato dalle locuzioni venire alle mani, mettere le mani addosso a qualcuno e simili.
24 ‘NN’ACQUA QUANDU NASCU E ‘NN’ACQUA QUANDU FIURU, CI VUEI ‘RRICCHESSCE LU PATRUNU
(Un po’ di) acqua quando nasco e (un po’ d’)acqua quando fiorisco, se vuoi che il padrone arricchisca.
25 QUANDU LU SOLE PONGE, L’ACQUA È BBICINA
Quando il sole punge, l’acqua (la pioggia) è vicina.
26 QUANDU SI GGNÒRICA LA MATONNA TI L’ADDU, L’ACQUA È BBICINA
Quando annerisce la Madonna dell’alto[8] (la parte di cielo che la sovrasta), l’acqua (la pioggia) è vicina.
27 TI LA TROU IO’ L’ACQUA!
Te la trovo io l’acqua!
Minaccia rivolta soprattutto a bambini particolarmente turbolenti o ribelli. Non è facile individuare lo slittamento metaforico subito da acqua, che assume il significato di rimedio per calmarti. Può darsi che ci sia un collegamento con il n. 21 e, meno labile, col n. 23. Non è da escludere, però, ancora un riferimento, dopo il purpu del n. 21, al mondo animale, partendo dalla constatazione che per separare due cani in lotta può essere efficace una secchiata; senza scomodare gli animali ma peccando di anacronismo, vengono in mente gli idranti usati dalle forze dell’ordine per sedare un tumulto.
[2] Da egli per aferesi e passaggio –gl->-gh– come in ‘ccugghire rispetto a cogliere.
[3] Più vicino al latino sapit di quanto non sia l’italiano sa (sapit>sape>save>sae>sa)
[4] Forse il piatto più povero della cucina pugliese.
[5] Da ‘nfitiscire, che è forma incoativa dal latino foetère=puzzare, con prostesi della preposizione in.
[6] Da inchire che, come l’italiano empire, è dal latino implere.
[7] Da scautare, che, come l’italiano scaldare, è da un latino *excalidare, composto dalla preposizione ex con valore intensivo e *calidare, dal classico càlidus, da cui l’taliano caldo. Va notato che scautare è usato nel senso di scottare, mentre in quello di scaldare è usato scarfare, da excalefàcere, composto dallo stesso ex di prima+calidum (=caldo)+fàcere (=fare). In scautare l’esito –al->-au– fa pensare ad un intermediario francese (chaud) già presente in càutu (=caldo), come haut per àutu=alto e aitre per àutru (=altro).
[8] Località presso la marina di S. Caterina nel territorio di Nardò, caratterizzata dalle omonime chiesa e torre costiera.
[9] Secondo il Rohlfs dal greco βομβύλιον (leggi bombiùlion), di genere neutro, con lo stesso significato; risulta attestato, però, solo quello che sembra il suo maschile, cioè βομβύλιος (leggi bombiùlios), che significa calabrone. A parte l’iniziale difficoltà di catattere semantico superanile se si pensa non tanto all’analogia di forma tra il recipiente e l’insetto, ma al rumore che fa il liquido contenuto al momento della sua fuoriuscita [(βομβύλιος è chiaramente da βὸμβος (leggi bombos), voce onomatopeica che indica un rumore sordo, da cui l’italiano bomba e suoi derivati)], sul piano fonetico risulta complicato disegnare la trafila che dal presunto βομβύλιον e dall’attestato βομβύλιος avrebbe portato a ‘mbile. L’una e l’altra difficoltà appaiono inequivocabilmente e definitivamente superate mettendo in campo la variante βομβύλη (leggi bombiùle) attestata dai glossari. Ecco come la voce è trattata in H. Stefano, Thesaurus Graecae linguae, Londra, Valpiani, 1821-1822, v. III, colonna 2273: βομβύλη, ή. Apis qoddam genus magis obstreperae, quam sint ceterae, ut quidam tradunt. Item poculum quoddam angusti oris (Una specie di ape più rumorosa di quanto siano le altre, come alcuni affermano. Parimenti un bicchiere di bocca stretta). Ulteriore contributo è data da un altro glossario (Περὶ τὸ ἰδιωτικοῦβίουτῶνἀρχαίωνἘλλήνων, N. Filadelfo, Atene, 1873, pp. 18-19: Ὁβομβύλιος ή βομβύλη ᾗν δὲ τοῦτο ποτήριον λίαν στενόστομον. Δι’αὐτοῦ τὸ ὕδωρ κατὰ μικρὸν ἐξερχόμενον ἐποίει βόμβον, ἐξ οὗ καὶ βομβύλη τὸ ἀγγεῖον ὠνομάσθην. Ὠμοίαζε δὲ ή βομβύλη πρὸς τὴν νῦνἐν χρήσει παρ’ἅπασι βοτὑλιαν, ἧς τινος τὸ ὄνομα πιθανῶς ἐγένετο ἐκ τ ῆς βομβύλης κατὰ μετάπτωσιν τῶν γραμάτων. (Il βομβύλιος o la βομβύλη: era questo era un bicchiere dalla bocca mpòto stretta. Con questo l’acqua passando poca per volta produceva un runore sordo, dal quale pure βομβύλη fu chiamato un vaso. La βομβύλη infatti somigliava alla βοτὑλια ora in uso, il cui nome venne verosimilmente da βομβύλη attraverso una deformazione delle lettere).
Ecco, dunque, la trafila: βομβύλη>*bombile>*>‘mbible (aferesi); nel territorio di Taranto è in uso la variante con assimilazione ‘mmile. Per completezza, infine va detto che l’italiano bòmbola non deriva direttamente dalla voce greca (attraverso un intermediario latino *bòmbula) ma è un diminutivo, per dir così, autoctono di bomba.
In Puglia, l’alta densità di piccoli centri urbani è una caratteristica peculiare della provincia di Lecce. Soprattutto nella sua porzione meridionale, paesi e frazioni sorgono a breve distanza tra loro tanto che alcuni di essi formano, ormai, un unico agglomerato urbano (vedi il caso di Acquarica del Capo e Presicce). Nel Basso Medioevo la densità degli insediamenti umani, come ci testimoniano le fonti documentarie angioine e aragonesi e l’odierna toponomastica, era notevolmente maggiore, infatti esistevano numerosi piccoli e piccolissimi villaggi che furono abbandonati a causa di diversi fattori. Uno di questi casali medievali era Provigliano, un piccolo abitato aperto che si trovava sulla Serra dei Cianci, a circa 1,3 Km a sud-ovest rispetto all’antico centro di Alessano, l’odierna piazza O. G. Costa, in un territorio di antica frequentazione umana (fig. 1).
Fonti storiche
La certa identificazione del casale di Provigliano nei documenti della Cancelleria Angioina ancora disponibili risulta alquanto problematica. Nella Cedularia Terrae Idronti (1378) viene citato due volte il toponimo Priviliani: Riccardo di Petravalda veniva tassato per certe parti dei casali di Pomarici (Basilicata), Pistici (probabilmente è da leggere pristicij=Presicce) Sorbo (vicino Salve) e Priviliani1, mentre Nicolò figlio del fu Aimoncito di Sangiorgio, doveva pagare una certa somma per alcuni beni feudali posseduti nei casali di Barbarano, Presicce, Bergiano(?) e Priviliani2. Per il Sigliuzzo questo toponimo si riferisce al casale scomparso di Principano (nel territorio di Tricase); infatti secondo la sua ipotesi, esso era il nome originario di un feudo nei pressi di Depressa la cui denominazione in seguito cambiò in Principani, come si evincerebbe dalla documentazione angioina del XIV secolo. Nello specifico, agli inizi del Trecento, lo studioso di Presicce identifica quattro famiglie che hanno possedimenti nel suddetto feudo: i Teotino che vengono citati come possessori, già nel 1301, dei casali di Specla de’ Presbiteri (Specchia), Teotini (Tutino) e Principani (successivamente, nel 1332, a Giovannuzzo Teotini vennero confermati i possessi, che erano stati del padre morto nel 1307, di 1/3 dei casali di Teotini e Priviliani e 1/5 di Specla de’ Presbiteri); i Pedravalda che nel 1316, con Riccardo de Petravalda (omonimo del personaggio incontrato nella Cedularia, probabilmente si tratta di nonno e nipote), possedevano quote feudali di Pompiniani (vicino Gemini), Presicij, Surbi (dintorni di Salve) e Priviliani; i Sangiorgio che nel 1326, con Guitzardo Sangiorgio, detenevano quote di Barbarano e Presicij, con vassalli in Rugiani, Priviliani e Salve mentre suo fratello Nicolò (lo stesso della Cedularia o parente omonimo), nel 1336, aveva vassalli in Corsano, Presicij, Priviliani e Rogiani; i de Bellante che tra il 1316 e il 1338, con Giovanni II de Bellante, erano possessori della quarta parte dei casali di Corsano, Gagliano e Priviliano3.
L’errata identificazione del Sigliuzzo deriva, a nostro parere, da un errore di trascrizione di un toponimo dalla grafia poco chiara, infatti, confrontando le vicende feudali dei Teotino da lui riportate con quelle che ci fornisce il Musio, il sospetto sorge legittimo perché l’autore tricasino, citando la notizia che nel 1318 Joanne Theodino pagava 15 tareni pro tertia parte Casalis Tutini certa parte Specle de Presbiteris ex casalis Plumiliani, ci fornisce una differente versione del nome4. Tra l’altro, il Vallone, che ricostruisce in modo approfondito le vicende della casata dei Teotino, non cita mai il casale di Principano, ma anzi ci riporta l’interessante notizia che nel 1335 avvenne uno scontro tra le famiglie dei Petravalda e dei Teotino nei feudi di Specchia e Montesardo, proprio il territorio su cui insisteva il feudo di Provigliano5.
Dunque è nostra opinione che il toponimo in questione si riferisca alla contrada alessanese e a sostegno di questa ipotesi si può notare che la maggior parte dei casali sin qui citati si trovano sul versante occidentale della Serra dei Cianci, con alcuni di essi molto prossimi alla zona di nostro interesse. Inoltre, in seguito, il toponimo Priviliani, o una sua corruzione, non verrà mai più utilizzato per indicare una parte del feudo di Depressa. Dello stesso parere è il Montefusco, per il quale il feudo di Provignano nel 1378 apparteneva al solito Riccardo di Petravalda, poi fu concesso, da Ladislao d’Angiò-Durazzo, alla famiglia Monforte che lo detenne per tutto il Quattrocento. Infine, nel 1564, Ettore Monforte lo vendette a Valente Grassi6.
Nel XVI secolo esso era ormai diventato un feudo rustico appartenente a Benedetto Grasso di Nardò7. Per il secolo successivo si ricavano altre informazioni da alcuni atti notarili, donazioni e testamenti, rogati in Alessano: nel primo, datato 26 ottobre 1679, Paolo Romano dona al capitolo di Alessano “una possessione di olive e seminativa con pagliaio, calcara e cisterna, sita nel feudo di Alessano in località Provigliano“8; nel secondo l’abate Pietro Ventruto lascia in eredità alla nipote Franceschina Marco una “possessione seminativa e di olive, sita […] in località Provigliano“9.
Un documento tardo fornisce un quadro parzialmente diverso delle successioni feudali: si tratta del manoscritto Breve Istoria della Famiglia delli Grassi di Martano, cittadini di Alessano (dal tardo medioevo al sec. XVIII) pubblicato dal compianto Antonio Caloro10. Ne è autore, nel 1881, il padre gesuita Antonio Grassi che redige la storia della sua casata utilizzando le “antichissime memorie esistenti nella casa dei Signori Grassi“. Nel tracciare la discendenza dei Grassi “Patritij di Alessano” si fa riferimento ad un documento del Duecento dove si legge: “Guillelmus Grassus sicut ipse dixit tenet in Alexano feudum trium militum et augmento obtulit milites sex“11 [trad. “Guglielmo Grasso, come egli stesso ha dichiarato, ha in Alessano un feudo (che comporta il servizio) di tre militi e con l’aumento (per la mobilitazione generale) ha portato sei militi”], per poi aggiungere: “Il feudo che possedeva Guglielmo Grassi dicon alcuni che fusse stato Provigliano, che perché distrutto trecento anni sono dalli Turchi in una scorreria, secondo che attesta in un antichissimo manoscritto la buon’anima del mio Avo, si ritirarono in tutto e per tutto in Alessano che poco era distante dall’accennato feudo, senza però defraudare della solita coltura i campi feudali, delli quali fino a questi ultimi tempi furono padroni“. Nella stessa opera viene riportata la notizia che nel Cinquecento le sorelle Aurelia e Marina Grassi ricevettero in dote ” alcune possessioncelle rimaste là in Provigliano […] che furono picciol’avanzo di un gran patrimonio…“12.
Toponomastica
Nel corso dei secoli il nome è stato scritto attraverso l’uso di diverse grafie (o trascritto secondo differenti interpretazioni):
XIV secolo: Priviliano, Principano?, Plumiliano?
XVI secolo: Provignano
XVII secolo: Provigliano
Il toponimo Provigliano, seppur leggermente modificato, si conserva ancora oggi sia nella denominazione della strada rurale Rovigliane-Lacco13, sia nel termine Pruvuliane che identifica un fondo agricolo ubicato sulla via che dal Calvario di Alessano porta alla chiesa di S. Marina a Ruggiano14. Esso pare di chiara origine prediale, fatto assai comune in tutto il Capo di Leuca, e potrebbe derivare da un cognomenPrivius/Provius che però non ci risulta attestato nell’onomastica latina.
Evidenze archeologiche
Alcune ricerche, condotte dallo scrivente nei mesi di settembre e ottobre del 2022, hanno permesso di localizzare, con una certa precisione, l’area interessata dall’insediamento medievale all’incrocio della strada comunale Donniche con le vie Mortiti e Donniche-Chiuse (Fig.2).
Una prima ricognizione di superficie ha permesso di individuare un’ampia area di frammenti fittili, di circa 130×130 m, che interessa un terreno seminativo e parte di un uliveto confinante. Nello specifico si tratta di: alcuni frammenti databili tra I secolo a.C. e I secolo d.C. (due pareti di ceramica ad impasto grigio, di cui uno presenta tracce di vernice nera, ed una parete d’impasto rosso dipinta di nero, alcuni frammenti di terra sigillata italica); abbondante ceramica di epoca Imperiale e Tardoantica (tre orli di pentole “tipo San Foca” e altre pareti con lo stesso tipo d’impasto, pareti e orli di terra sigillata chiara non meglio identificabile, fondi e pareti di ceramica africana da cucina, un puntale di anfora ad impasto rosso, tre pareti di Late Roman Amphora) e scarsi resti ceramici medievali (alcuni frammenti di ceramica acroma, uno di RMR e uno d’invetriata verde) e post-medievali. Diversi sono i resti di anfore e di ceramica da cucina che non sono stati identificati. Tutto il terreno, inoltre è disseminato di innumerevoli lacerti di tegole di varia fattura e di moltissime scorie di fusione di diversa dimensione. I resti rinvenuti in quest’area fanno ipotizzare l’esistenza di un piccolo insediamento agricolo romano (fattoria) databile tra la fine dell’età repubblicana e il V secolo d.C.
Durante una seconda ricognizione, effettuata nei terreni confinanti a nord-ovest del podere oggetto della prima indagine, è stata individuata un’ulteriore area (circa 250 m2) di concentrazione di frammenti ceramici riferibili, nella gran parte, al XIII/XIV secolo d.C. L’uliveto in questione, attualmente incolto, ricoperto da una fitta vegetazione e in condizioni di scarsa visibilità, ha restituito: molti resti di ceramica invetriata (tra cui un orlo di piatto di ceramica RMR, invetriata policroma e monocroma verde e vari altri frammenti molto consunti non meglio identificabili), pareti di piccole anfore sia acrome sia dipinte a fasce strette (su una di esse è ben riconoscibile la decorazione a spirale), ceramica da cucina e resti di tegole con impasto chiaro. Pochi sono i rinvenimenti, tra cui due frammenti di pipa fittile, attribuibile all’età moderna; sporadico il ritrovamento di un grattatoio in selce chiara databile all’età preistorica. Tutti i dati raccolti ci indicano che su questa zona sorgeva il villaggio medievale di Provigliano, o quantomeno una parte di esso.
Una terza indagine è stata eseguita nel febbraio 2023 e ha consentito di localizzare una nuova area di interesse archeologico a circa 50 metri a nord dalle precedenti. In un terreno con numerosi banchi rocciosi affioranti è stata rinvenuta una piccola costruzione in pietra, in parte ricoperta da arbusti e rovi, con la copertura crollata: in apparenza una tipica costruzione contadina salentina (pajara) realizzata a secco con pietre locali di medie e piccole dimensioni che ad un esame più attento rivela degli elementi del tutto peculiari. Infatti nella parte anteriore della pajara (l’entrata è rivolta verso sud-ovest) si nota la presenza di grandi blocchi di calcare tenero (pietra calcarenitica che chiaramente non è stata cavata in loco) ben lavorati e squadrati (dimensioni: 135x68x40 cm; 60x50x40 cm; 75x60x50 cm).
L’ingresso è scandito da un corridoio (costituito da una specie di dromos, lungo circa due metri e largo 105 cm, a cui segue un ambiente più piccolo, 80×105 cm,) ed una porta, con la sua volta in precario equilibrio, che sono stati realizzati con la messa in opera di grossi blocchi tufacei fissati con zeppe di pietra. Entrando, ai lati della porta, si notano due croci incise (una per stipite). L’ambiente interno, che misura circa 310×290 cm, è parzialmente ingombro di terra e pietrisco ma si distinguono ancora bene le nicchie che si trovano sulle pareti: su quella destra vi è una nicchia voltata, sul fondo se ne apre un’altra con architrave, mentre sulla parete sinistra ci sono due nicchie architravate sovrapposte. Esaminando la costruzione dall’interno si possono distinguere tre diverse tecniche di costruzione: nella parte inferiore (si vede bene sulla parete anteriore) sono stati messi in opera solo grossi blocchi tufacei con l’ausilio di zeppe litiche; la parte intermedia è stata realizzata con tufi teneri e calcari duri locali di medie dimensioni legati con bolo; infine la parte superiore e la copertura parzialmente crollata é stata costruita a secco utilizzando le piccole pietre appiattite (chiancareddhe) che si trovano in abbondanza nella zona. Sembra evidente che i grandi blocchi di calcarenite appartenessero ad un edificio antico, probabilmente romano. Qui si ipotizza essi che siano stati riutilizzati in età medievale per realizzare un edificio di culto, o una struttura per accogliere i pellegrini, i cui miseri resti sono stati inglobati, in epoca moderna, nella costruzione della pajara ancora in piedi. La spoliazione di edifici antichi per la costruzione di luoghi di culto medievali, d’altra parte, e già ampiamente documentata nel Capo di Leuca. Ne troviamo esempio sia nella chiesa di S. Giovanni Battista a Patù e sia in quella di di S. Pietro a Giuliano, nella cui prima fase di costruzione, databile alla seconda metà del X secolo, sono stati riutilizzati materiali provenienti da un edificio di culto o una tomba monumentale di epoca romana, messi in opera con una tecnica simile a quella utilizzata nella piccola costruzione di Provigliano15.
Quadro ambientale e sintesi storica
Facendo una sintesi dei dati sin qui raccolti, si può tentare di ricostruire il contesto storico-ambientale che vide la nascita, l’effimero sviluppo e l’abbandono del casale di Provigliano. Esso sorgeva nel pieno della Serra dei Cianci, ad un’altitudine di circa 160 s.l.m., su di un terreno roccioso (calcari di Altamura) e pietroso, non particolarmente adatto alla coltivazione dei cereali. Come spesso accade nel Salento, l’abitato medievale si trovava in prossimità di un precedente sito di epoca romana, databile tra la fine dell’età repubblicana e il V secolo d.C., che era posto in prossimità del tracciato della via Salentina, che l’Uggeri colloca poco lontano a est, in contrada “i Turchi”16. Probabilmente si trattava di un piccolo insediamento stabile di carattere agricolo, una villa rustica dedicata allo sfruttamento delle risorse agro-pastorali della zona.
Sula genesi del casale medievale poco si può dire, certo è che i dati archeologici, confortati dalle fonti scritte, ci indicano che già nel XIII secolo era un centro attivo. Prestando fede alle memorie della famiglia Grassi, già all’epoca di Guglielmo il Buono, esso era inserito nel sistema feudale normanno costituendo probabilmente un suffeudo di Alessano17. Era un piccolissimo abitato aperto (senza mura), probabilmente a carattere sparso e con abitazioni distanti tra loro, come altri che si trovavano nella zona. Esso tuttavia possedeva un luogo di culto che costituiva il punto di aggregazione della sua popolazione e il centro della vita comunitaria. Il piccolo villaggio contava pochi abitanti e, vista la povertà del suolo, l’economia doveva essere di tipo misto: la produzione dei cereali era limitata e i terreni rocciosi circostanti erano probabilmente coltivati ad uliveto e vigneto; inoltre dovevano essere importanti le attività pastorali e di sfruttamento delle risorse silvestri. Nel XIV secolo i registri angioini documentano la sua parcellizzazione feudale, infatti il suo territorio era diviso tra diverse famiglie (Teotino, Petravalda, Sangiorgio, de Bellante) che detenevano quote del feudo. Il casale ebbe vita breve visto che per tutto il XV secolo non sono state rintracciate testimonianze scritte, e quando, nel Cinquecento, ricompare nelle fonti risulta essere già un “feudo rustico”, quindi non abitato permanentemente. La ceramica suggerisce che fu probabilmente abbandonato tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Circa le cause del suo abbandono nulla si può affermare con certezza se non che, ancora oggi, la contrada a est di Provigliano porta il nome de “i Turchi”.
Allargando l’indagine al territorio circostante, si può parzialmente ricostruire il tessuto insediativo che caratterizzava Alessano verso la fine del Medioevo (all’incirca tra XIII e XV secolo). Oltre alla citta sede vescovile e la terra di Montesardo, una serie di casali si disponevano intorno alla fertile piana di Macurano (Macurano, Corsano, Tiggiano, Mamillano/Meliano, S. Dana e Valiano, quasi tutti attestati dalle fonti angioine). Tuttavia esistevano altri abitati di cui non possediamo notizie documentarie18 ma che hanno lasciato tracce sul terreno: nella periferia settentrionale di Alessano, in via Vigna la Corte, un sito, purtroppo sconvolto da scavi, ha restituito ceramica databile tra VI e XII sec.; a est di Montesardo, località Mercanti, invece è stata individuata una concentrazione di abbondante materiale ceramico di XII-XV secolo, nei pressi della quale si trova un banco roccioso con buche di palo ancora evidenti19. Se ne ricava un paesaggio fittamente abitato, con un’alta densità di insediamenti umani, piccoli e piccolissimi villaggi che hanno attraversato i secoli dell’epoca di mezzo con alterne fortune (fig.3). Si può mettere ora a confronto il sistema insediativo basso medievale con l’organizzazione del territorio di epoca romana e tardo antica (IV/VI secolo)20. Salta subito all’occhio come alcuni abitati medievali siano sorti in prossimità di un precedente sito romano. Ma ancora più manifesto è il fatto che essi si trovino tutti lungo le strade in uso in età tardoantica.
Conclusioni
L’analisi sin qui condotta offre la possibilità di proporre alcune ipotesi interpretative circa il popolamento del Capo di Leuca in età medievale. Prima di tutto qui si vuole porre l’attenzione sulla densità degli insediamenti umani nel territorio preso in esame: osservando la distribuzione dei casali nel Salento (circa 360 tra XII e XIII secolo) si nota come essi si concentrassero nella parte sud-orientale della penisola, in particolare tra Otranto e Leuca; in questa specifica zona gli abitati umani, spesso di piccolissime dimensioni, si trovavano a poca distanza l’uno dall’altro e il territorio a loro disposizione era esiguo. Di certo, questo stato di cose fu determinato dalla morfologia del territorio fatto di piccole pianure, con suoli profondi e facilmente arabili (i più adatti alla cerealicoltura), incastonate tra le serre; con uno spazio così limitato da dedicare alla coltura estensiva dei cereali, l’agricoltura, per forza di cose, era di tipo intensivo e un ruolo molto importante dovevano rivestire la vite e l’ulivo21, coltivazioni che richiedevano un’abbondante manodopera (soprattutto la vite) e un grosso investimento iniziale. Quindi solo un sistema insediativo fatto di piccoli casali sparsi in modo capillare garantiva la presenza in tutta l’area della forza lavoro necessaria a questo tipo di economia rurale.
Secondo la nostra ipotesi, questo tessuto insediativo medievale ricalca in parte il precedente sistema di insediamenti rurali tardo-romani, come testimoniato dalle evidenze archeologiche e dall’abbondante toponomastica prediale ancora viva in età normanna, e molti villaggi appaiono in qualche modo legati alla vicinanza delle vie di comunicazione di epoca precedente e “devono al maggiore o minore uso di esse la loro nascita, il loro sviluppo, il loro abbandono e la loro rinascita“22. Ciò sembra manifesto nel caso di Provigliano, nato accanto ad una villa rustica romana, in prossimità dell’asse viario che collegava Vereto a Castro ed Otranto. Per esso, non si può certo parlare di una continuità insediativa visto che mancano totalmente le evidenze archeologiche per il periodo che va dal VI all’XI secolo, tuttavia non si deve escludere a priori una frequentazione di tipo temporaneo con un riuso, anche parziale, delle strutture romane abbandonate in quest’epoca buia23. Pare evidente che la viabilità antica e probabilmente anche ciò che rimaneva delle strutture romane, con la disponibilità del loro materiale da costruzione da reimpiegare, abbiano costituito un fattore d’attrazione per i primi abitanti di Provigliano.
Allo stato attuale delle conoscenze, non si può determinare con precisione quando sorse Provigliano ma queste strutture preesistenti, in particolare la strada romana, appaiono determinanti nella scelta del luogo su cui impiantare il casale, più della disponibilità di risorse ambientali circostanti. Nel Medioevo, inoltre, a questo antico asse viario, che da nord-est portava verso sud-ovest, se ne aggiunse un secondo, con andamento trasversale rispetto al precedente, da nord-ovest verso sud-est24. Era il collegamento che dal Salento centrale faceva giungere i pellegrini a Leuca ed era nota come “la via misteriosa” (perché i viandanti che la percorrevano recitavano i Santi Misteri ma anche perché nascosta tra la boscaglia dell’antico bosco del Belvedere e delle serre ancora coperte da una fitta vegetazione). Il suo percorso si ricostruisce in questo modo: il punto di raccolta era presso S. Pietro in Galatina, da qui ci si dirigeva verso il casale di Sombrino per poi salire alla chiesa rupestre della Coelimanna di Supersano, si attraversava la Serra di Ruffano per giungere alla chiesa di S. M. della Serra e al cenobio del SS. Crocefisso proseguendo verso S. M. della Strada di Taurisano (l’Odigitria, colei che indica ai pellegrini la via, per proseguire verso Leuca); l’ultimo tratto passava da Cardigliano, dalla Serra dei Peccatori a quella dei Cianci per arrivare alla Madonna della Scala, da qui portava a Montesardo, per poi scendere verso l’insediamento in rupe di Macurano e arrivare alla cripta di S. Apollonia (S. Dana); infine si percorreva l’ultimo crinale della serra per poi scendere verso il casale di Prusano (Convento dei Minimi di Gagliano) e finalmente giungere a S.M. di Leuca25. Nel tratto tra la Madonna della Scala e Montesardo, presumibilmente, l’itinerario dei pellegrini attraversava il territorio di Provigliano. In questo contesto si può provare a collocare il piccolo edificio di culto che abbiamo individuato in quest’area; infatti dal Catasto Onciario (1744) si evince che nel feudo di Alessano esisteva una zona denominata “S. Maria del Mortito”26 ed ancora oggi la strada rurale che viene da nord-ovest porta il nome di “Mortiti”. Ci sembra dunque logico ipotizzare che i resti architettonici rinvenuti nelle nostre ricognizioni appartenessero ad una chiesa dedicata al culto mariano collocata lungo il percorso devozionale che si snodava sulla serra in epoca medievale.
Proprio facendo riferimento all’antica via di pellegrinaggio si può cercare di far luce circa l’origine del nostro casale. Il Sigliuzzo ritiene che la chiesa di S. Maria della Scala, che si trova a circa 1,8 km a nord-ovest di Provigliano, fu la prima emanazione della grancia di S. Eustachio di Alessano27 e fu costituita intorno al X o XI secolo. La sua più antica attestazione risale al 1218, quando papa Innocenzo III riconobbe all’abbazia di Casole il possesso di alcune chiese tra cui quella di S. Maria di Alessano (la denominazione “della Scala” compare solo nei documenti notarili del tardo XVI secolo28). Questa notizia, dunque, attesterebbe una “colonizzazione” di una parte della serra alessanese avvenuta in età bizantina (X/XI secolo?). Non crediamo di essere lontani dal vero immaginando che anche Provigliano si sia formato in quest’epoca, nell’ambito dei dissodamenti agricoli che furono caratteristici del periodo successivo alla riconquista bizantina operata da Basilio il Macedone (867-886). Età di pace e di relativa stabilità politica per tutto il Salento che conobbe una “forte espansione economica, commerciale e demografica“29 e che vide la colonizzazione e messa a coltura di terreni mai prima coltivati o abbandonati.
Con la consapevolezza che solo nuovi dati provenienti dalla ricerca documentaria, toponomastica e archeologica potranno avvalorare o meno quest’ultima ipotesi, il nostro auspicio è che il lavoro qui portato a termine susciti l’interesse degli specialisti e degli appassionati di storia locale diventando il punto di partenza per nuove e più approfondite indagini storiche sul territorio di Provigliano.
Ringraziamenti
La stesura di questo scritto è stato possibile grazie all’aiuto e alla disponibilità di Antonio Ippazio Piscopello, lo ringrazio per l’enorme mole di notizie che conserva, forse un po’ troppo disordinatamente, e per la non meno grande pazienza nel metterle a disposizione degli altri. Inoltre ringrazio Raimondo Massaro, con le preziose notizie su S. Maria del Mortito, e Vincenzo Verardi, con le informazioni di carattere geologico, per il supporto che mi hanno fornito.
Note
1 “Riccardus de Petrovaldus pro certis partibus casalium pumarici, pisticii, sublii et priviliani” (cfr. P. Coco, Cedularia Terrae Idronti, Taranto, 1915, p. 21).
2 “Nicolaus filius quondam Aymonciti de Sancto Giorgio pro certi bonis phendalibus (sic!) in casalibus Barbarani Pristicii Bergiani et Priviliani” (cfr. P. Coco, ibidem, pp. 25-29).
3I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo. Volume I, a cura di F. Ruppi, Lecce, 2010, pp. 258-259. Per i de Bellante vedi anche: R. Spaventa, Fragmenta Corsani. Parcellizzazione feudale di Corsano (Lecce) tra XIII e XVII secolo, in “Il delfino e la mezzaluna”, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno II n°1, Nardò (Le), 2013, p. 9.
4 S. Musio, Casali e Feudatari del territorio di Tricase. La dominazione angioina(secoli XIII – XV), Tricase (Le), 2007, p. 85.
5 G. Vallone, Terra e potere nel Capo di Leuca, in I segni del tempo, a cura di M. Spedicato, Galatina (Le), 2008, pp. 70-78.
6 L. A. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto, Novoli (Le), 1994, pp. 385-387. Secondo l’autore le vicende feudali di Provignano sono sempre legate a quelle del feudo di Laurito.
7 M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 262. Nel testo viene citato come ” feudo di Provignano (Alessano)”., purtroppo non viene indicata la fonte.
8 A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce, 1994, p. 80.
9Ibidem, pp. 145-146.
10 A. Caloro, F. De Paola, Alessano tra Storia e Storiografia, tomo II, Trepuzzi (Le), 2013, pp. 114-189.
11 Il documento in questione, che si trova nel Catalogus Baronum, in realtà venne redatto nel 1181 sotto Guglielmo il Buono (1153-1189). Vedi: Catalogus Baronum, a cura di E. Jamison, Roma, 1972, p. 31.
12 A. Caloro, F.De Paola, op.cit., p. 136.
13 La strada porta dalla SP79 (Gallipoli-Alessano) al feudo di Presicce; cfr. A. I. Piscopello, Toponomastica rurale di Alessano e Montesardo, in Controcanto, anno XIII n°2, Alessano (Le), 2017, p. 5.
14 A. Massaro, La scomparsa del casale “Provigliano”, in Controcanto, anno II n°1, Alessano (Le), 2006, p. 13.
15 Per S. Giovanni Battista cfr. C. Daquino, I Messapi e Vereto, Manduria (Ta) 1991, p. 231; per S. Pietro cfr. M. Leo Imperiale, M. Limoncelli, M. De Giorgi, Due chiese bizantine nel Basso Salento: archeologia dell’architettura e decorazione pittorica, in Atti del IV Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, a cura di R. Francovich e M. Valenti, Firenze, 2006, p. 618).
16 L’autore ricostruisce il tratto di strada romana che da Vereto passa da Alessano e giunge alla Madonna del Gonfalone in questo modo: “la strada doveva […] fiancheggiare da est Ruggiano attraverso la serra della Calla, che sembra conservare il toponimo callis in ricordo della strada antica. In questo modo doveva convergere con l’andamento dell’odierna strada campestre dei Turchi per scendere ad Alessano…“. cfr. G.Uggeri, La viabilità romana nel Salento, Mesagne (Br), 1983, p. 304.
17 A. Caloro, Provigliano: un casale scomparso, Archivio Caloro, busta XXV, fasc. 874.
18 Il Caloro, per esempio, cita i casali di Boceto e Armino che si trovavano nel territorio di Alessano (cfr. A. Caloro, op. cit.).
19 In un articolo di prossima pubblicazione, abbiamo proposto di identificare questo sito con il casale scomparso di Marsanello.
20 In tutti i siti romani riportati in fig.3 la ceramica romana ritrovata non va oltre il VI sec., gli unici che hanno restituito materiali che indicano una continuità di frequentazione tra Tardoantico e Basso Medioevo sono Valiano e quello di Alessano in via Vigna la Corte. Per quanto riguarda la viabilità, la via Salentina è stata ricostruita secondo l’ipotesi dell’Uggeri (cfr. supra, nota 13) mentre per i tracciati secondari ci si è avvalsi della tesi di D. Ammassari (cfr. D. Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di AlessanoI.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno academico 2005-2006, pp. 26-32), della cartografia IGM del 1874 e di indagini sul terreno.
21 P. Arthur, Economic expansion in Byzantine Apulia, in Histoire et culture dans l’Italie byzantine. Acquis et nouvelles recherches, Ecole française de Rome, 2006, p. 390.
22 C. D. Poso, Il Salento normanno. Territorio, istituzioni, società, Galatina (Le), 1988, p. 196.
23 La cosiddetta squatter occupation, vedi P. Arthur, Villages, communities, landscapes in the byzantine and medieval Salento, in Paesaggi, comunità, villaggi medievali, Atti del Convegno internazionale di studio, Bologna 14-16 gennaio 2010, p. 548.
24 Prima della costruzione dell’attuale strada provinciale, anche la vecchia via che collegava Alessano a Presicce passava esattamente in questa zona.
25 P. Arthur, G. Gravili, M. Limoncelli, B. Bruno, M. Leo Imperiale, C. Portulano, E. Lapadula, G. Sarcinelli, La chiesa di Santa Maria della Strada, Taurisano (Le). Scavi 2004, in “Archeologia Medievale”, vol.XXXII, 2005, pp. 176-177; C. Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel basso Salento, in Nuovo Annuario di Terra D’Otranto, vol.I, Galatina (Le), 1957, pp .73-76; A. De Bernart, La chiesa do S. Maria della Strada a Taurisano e i pellegrinaggi nel Basso Salento, in S. Maria della Strada. Sulle tracce della memoria: rito, credenze e tradizione, a cura di A. Ciurlia, Taurisano (Le), 2000, pp. 31-38.
26 La notizia si trova in: F. Ruppi, S. Romano, I segni della Misericordia: percorsi mariani e antiche strutture di accoglienza nel Salento leccese, in Le vie della Misericordia. Arte, cultura e percorsi mariani tra Oriente e Occidente, a cura di M. S. Calò Mariani e A. Trono, Galatina (Le), 2017, p. 573.
27 La grancia di Sant’Eustachio, insieme a quella di Santa Maria del Casale (Corsano) e di San Tommaso d’Aquino (tra Salve e Morciano), nel 1639 faceva parte dei beni dell’Abbazia di Santa Maria de Lomito. Essa è da identificare con il complesso rupestre, localizzato sul versante orientale della serra dei Cianci, attualmente denominato “grotta della Principessa” (vedi R. Massaro, La chiesa di Santa Maria della Scala di Alessano, in Controcanto, anno XVII n° 3, Alessano (Le), 2021, p. 13).
28 C. Sigliuzzo, Cripte inedite e ricordi bizantini in Terra d’Otranto, in Nuovo Annuario di Terra D’Otranto, vol. I, Galatina (Le), 1957, p. 86.
29 P.Arthur, Verso un modellamento del paesaggio rurale dopo il mille nella Puglia meridionale, in Archeologia Medievale vol. XXXVII, 2010, p. 218.
Masseria “Salamina”, oggi relais “Villa Cenci”, è una fastosa casa padronale originariamente residenza di nobili proprietari, che ora offre ospitalità di charme in un contesto di verde curato immerso nell’oliveto, nella dolce campagna di Pezze di Greco.
Ristrutturata a castello, seguendo la tendenza del tardo Ottocento di riportare in vita lo stile architettonico gotico, ha nel coronamento merlato della torre e delle ampie terrazze il suo tratto distintivo.
La vedi, la traguardi, e non puoi non indugiare sulle sue linee medievaleggianti, sulla bifora del centrale corpo turrito che dà un tocco di Dugento. Se inquadri la splendida dimora ponendoti di fronte alla sua faccia, con la coppia delle palme svettanti che fanno Oriente, molle Levante mediterraneo, la cornice da fiaba è sotto gli occhi: sorpresi per l’imprevista immersione in uno scenario di incantesimo (ri)costruito ad arte.
Ti seduce la figurazione, il composto equilibrato del disegno, che apprezzi specie di sera quando dal parterre, dal vialetto misto-esotico, vedi le luci accendersi. Il gioco del chiaroscuro invita a sognare, a lasciarsi andare alle fantasticherie che pure i grandi hanno il diritto di esplorare di tanto in tanto. E l’immaginazione si trasforma in realtà, almeno per questa occasione.
Comunque non c’è mistero nei saloni del maniero. Tutto appare in superficie; le tenebre si sono dissolte, meno una: quella che sta dietro alla presenza (in nicchia di altare) del titolare della cappella, che sorge scenografica distaccata dall’edificio.
Non essendoci tela sopra la mensa eucaristica, a quale santo o madonna votarsi? Devono essersela portata via, o messa al sicuro, in sala, l’immagine a cui i committenti, nel lontano 1792 (l’anno è scolpito nel cartiglio in pietra, incastonato superiormente all’architrave della facciata, che vede la scritta “Charitas” a chiare lettere primeggiare), diedero assoluto valore di devozione.
Chissà, forse in qualche riga di visita pastorale, di monsignore assistito dal cancelliere di curia monopolitana, potrebbe esserci il riferimento alla figura in effigie: ma ci andarono mai i presuli in terrà così distante dall’Episcopio, appartata, confinata in agro fasanese?
Non potendo darci una risposta conviene limitarsi a ciò che appare: di bello, di armonioso, nelle fattezze del luogo di culto.
Cominciamo dall’esterno, che merita.
L’ampio, il veramente spazioso – quasi esagerato – affaccio del tempietto è esaltato dall’artistico puteale che si dispone poco a lato dello slargo che fa da sagrato dilatato. La vera del pozzo, del parapetto conformato a geometria di poligono, assume veste di lapidea sartoria, che maggiormente risalta grazie ai tre gradini di impostazione.
Dialoga alla perfezione con l’oratorio l’architettato manufatto di idrico umore. Sembra collocato apposta, messo in sintonia espressiva con il fabbricato sacro, quasi a voler combinare una corrispondenza di salutari sguardi, fatti anche di sensi, di intese. Un sorso d’acqua prima di entrare, perché no? Fa bene sempre rigenerarsi avanti il prendere la santa comunione. Depurarsi dai peccati, mondarsi dalle colpe, dopo aver tirato il secchio: una pratica che aiuta, che dovette essere benedetta dal prete, celebrante ebdomadario.
Forse esageriamo nella ricostruzione dei tempi andati, allorquando, nel giorno del Signore, la chiesetta veniva aperta per accogliere i fedeli, per la messa, col sacerdote ivi giunto dopo esser stato prelevato dalla sacrestia di concattedrale, e poi riaccompagnato a benedizione impartita, con il calesse del proprietario della masseria. La remunerazione del presbitero il padrone l’avrebbe corrisposta ad assoluzione impartita. .
Non c’è niente di strano a riannodare i fili della memoria eideticamente sollecitata, di stagioni che non abbiamo potuto vivere per questioni di anagrafe.
Viene quindi di getto stendere una cronachetta sulla (piccola) assemblea liturgica, nel periodo in cui “Salamina” non era castellata dimora, ma compiuto organismo nobile-residenziale con gli annessi e i connessi agricoli.
In quel raccolto vano di sacello (voltato a botte: a stella nel quadrangolo del presbiterio) si stava ognuno al proprio posto. Le sedie migliori spettavano ai familiari del proprietario, le panche ai servitori, ai coloni e alla loro prole. Ma dall’altare fiorito di riccioli (in pulita pietra locale) la Parola di Dio giungeva diretta al cuore di tutti: ricchi o bisognevoli di lavoro che fossero. Peccatori senza distinzioni.
L’intestatario del privato oratorio – che non era il possessore della tenuta cui si doveva l’obbligatorio rispetto – in dipinto, dal vertice dell’ara, nutriva per chiunque fosse lì a pregare un grande affetto, ricambiato dai penitenti. L’aureolato aveva – vien da credere – un occhio di riguardo per i più poveri (come da Discorso della Montagna). Pensiamo a san Francesco da Paola, l’eremita calabrese, in quanto lo scudo posto in capo di prospetto è quello voluto dal fondatore dei Minimi. Glielo porse l’arcangelo Michele, raccomandandogli di farne lo stemma del suo Ordine: un sole splendente, caritativamente dispensato, specie ai più miseri.
In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio (28 e 29 settembre ’24) (European Heritage Days), la più estesa e partecipata manifestazione culturale d’Europa, il 28 settembre 2024 alle ore 18:00 si inaugura presso il MUSA -Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento la mostra: “Li Schiavoni (Nardò, Lecce), un abitato messapico fortificato. Ricerca, didattica, valorizzazione”.
La mostra, curata da Giovanna Cera, direttrice scientifica del progetto di ricerca presso la località Li Schiavoni (Nardò, Le), e da Grazia Maria Signore, direttrice del MUSA, presenta per la prima volta al vasto pubblico i risultati delle ricerche condotte, a partire dal 2016, nel sito archeologico grazie ai proficui rapporti di collaborazione istituiti tra il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi e Lecce e il Comune di Nardò. L’esposizione propone i momenti più salienti della storia de Li Schiavoni, piccolo insediamento messapico fortificato, e, al contempo offre una panoramica delle attività didattiche e di valorizzazione messe in atto nel corso di questi anni.
La stretta relazione con il territorio è una costante all’interno dell’allestimento ed emerge dalla lettura e interpretazione delle tracce archeologiche individuate a Li Schiavoni, proposte nei pannelli didattici, dove si sottolinea il ruolo strategico del sito in rapporto con la viabilità e le rotte marittime che interessavano la vicina costa ionica del Salento. Arricchiscono il percorso audiodescrizioni e ricostruzioni virtuali di contesti e oggetti, realizzate da studenti e ricercatori del Laboratorio AVR Lab del Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione, diretto da Lucio Tommaso De Paolis. Si espongono infine gli oggetti del corredo funerario di una bambina rinvenuto nel corso degli scavi.
All’inaugurazione interverranno il Magnifico Rettore Fabio Pollice, Serena Strafella funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi e Lecce, Girolamo Fiorentino direttore del Dipartimento di Beni Culturali, il Sindaco di Nardò Giuseppe Mellone e le curatrici della mostra.
La mostra itinerante rimarrà aperta presso il MUSA fino al 15 gennaio 2025 per poi approdare il 18 gennaio presso il Museo della Preistoria di Nardò, grazie alla sinergia con la direttrice dott.ssa Filomena Ranaldo e con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Nardò.
A partire dal 30 settembre, la mostra sarà visitabile negli orari di apertura al pubblico del museo (lunedì-venerdì dalle 9:00 alle 13:30 e martedì, mercoledì e giovedì dalle 15:00 alle 18:00).
Il catalogo della mostra è edito da Edizioni Esperidi.
Piccoli sussulti insoliti arrivano a sgorgare, aventi al centro una donna, ancora nella stagione bella della vita coi suoi quaranta, amorevolmente contenta e in certo qual modo, se non specialmente, appagata – in armonia con i cieli, le costellazioni, i sentimenti e le usanze all’epoca dominanti – per via d’una squadra di sei figli partoriti in casa.
Carattere buono, mite, generoso, disponibile, giammai una parola di troppo o cenni di insofferenza, che madre, che dolcezza di madre!
Porte di casa sbarrate ai malanni, solo qualche dolore di schiena e, a tratti, fastidiose irritazioni alle mani a causa dei tanti bucati, piccoli e grandi, fra sapone, lisciva e cenere per naturalissimi detergenti e sbiancanti, con l’ausilio di capienti tinozze fumanti d’acqua bollente e, poi, di braccia e di gomiti protesi su lignei “lavaturi“, nella pila lapidea appoggiata al muro del cortile.
Una mattina, all’improvviso, durante una breve pausa di solitaria tranquillità domestica, ella si trovò inopinatamente ad avvertire che qualcosa l’aveva aggredita, come se un subdolo mostro senza volto le fosse penetrato dentro.
In quei tempi lontani, quando l’esistenza era vestita di semplicità, i drammi, soprattutto se imprevisti, assumevano le sembianze di autentiche calamità, lasciando attoniti gli animi di quanti rimanevano coinvolti o sfiorati.
E però, da subito, nella donna, prevalse, o per lo meno si palesò in prima linea, la serenità, l’accettazione del fatto nuovo, dell’incognito.
Fu l’occasione per l’ingresso, prima volta, nel presidio ospedaliero della zona, ai fini, diciamo così, d’un sopralluogo, d’una prima ricognizione sul corpo.
In tale luogo di cura, prestava da poco servizio un giovane infermiere, conosciuto di vista giacché originario di Castro, il quale, accanto alle capacità professionali, sembrava sprigionare una spiccata, evidentemente innata, disponibilità.
Trascorse poche ore, il ritorno a casa, l’attesa.
Di lì a poco, dovette purtroppo seguire un altro lungo tragitto d’incertezza e insieme di speranza, avente per oggetto l’espletamento di più cospicue attività di cura, finalizzate a porre rimedio al “brutto incontro” col mostro.
L’epilogo della vicenda occorsa alla giovane donna nell’estate della propria vita è stato, purtroppo, triste. Difatti, sono quasi cinquant’anni che ella se n’è andata, sebbene, a dire il vero, per qualcuno, sia ancora vicina e presente.
Così che, il di lei viso affettuoso s’affaccia discreto e sorridente anche in ogni circostanza di incontro, per strada, lungo la litoranea, di fronte al mare azzurro, con il giovane infermiere di tanto tempo fa, il quale ormai veleggia oltre gli ottanta e, tuttavia, appare sempre fresco, disponibile e generoso d’animo: spontanea, la reazione di indirizzargli un rosario di “grazie”.
… e chi ci distingue da’ Salvaggi, e da’ Barbari, se non che la disciplina e la Scuola?
Gio. Angiolo Duca
Le brevi note di questo contributo continuano una personale ricerca, iniziata qualche anno fa, su una particolare fonte documentaria per la Storia di Terra d’Otranto, con la segnalazione di numerose e inedite “allegazioni giuridiche” (databili in massima parte al secolo XVIII, a firma di importanti autori come il Rogadeo, il D’Afflitto, il Tommaseo e riferite a numerosi centri di Terra d’Otranto)1, fonti di inestimabile valore perché (come è già stato ampiamente scritto) “spesso costituiscono imateriali più antichi dell’informazione bibliografica” che impegnavano operatori del diritto dell’epoca per risolvere lunghe controversie familiari e feudali2. La loro importanza è stata già opportunamente messa in evidenza dagli studi del Volpicella3, del Chiarelli4, e soprattutto dal De Capua5 e dal Paone6. Il primo (il De Capua) con la registrazione di ben 1873 anonime allegazioni forensi della Biblioteca Comunale di Bitonto e che, legate con altre 944 anonime allegazioni in 141 volumi erano forse appartenute alla privata libreria di Giandomenico Rogadeo7; il secondo con la catalogazione delle allegazioni forensi conservate nella Biblioteca Provinciale di Lecce facenti riferimento a ben quarantacinque centri salentini8. Ancor più recentemente con Giancarlo Vallone che, attraverso di esse (allegazioni rarissime di illustri e meno illustri giuristi della fine del Seicento e gli inizi del Settecento) ha ricostruito minuziosamente “la vicenda del casale di S. Pietro in Lama” oggetto “di una secolare contesa tra il vescovo di Lecce e i civili del paese, o l’Amministrazione Civile di Lecce”9.
D’altra parte, le antiche allegazioni (è bene sottolinearlo) erano veri e specifici studi preparatori su materiale documentario fornito dai nobili e feudatari solo a questi giuristi che avevano appunto libero accesso ai vari archivi, dai quali invece restavano esclusi “gli antiquari, gli storici, gli storiografi e gli eruditi”10.
L’acquisizione di una sconosciuta e molto rara allegazione settecentesca (periodo, questo, di maggiore fortuna di tale genere di pubblicazioni) permette di ricostruire in quest’ottica, le fasi salienti di un conflitto giuridico di una certa importanza (considerato anche e, soprattutto, il motivo del contendere ovvero “L’educazione e la Scuola”, nonché i documenti, a volte antichissimi, e le testimonianze prodotte per l’occasione) che vede coinvolte l’Università di Alessano (difesa dall’avvocato D. Gio Angiolo Duca) per la restituzione dei beni appartenenti al “Monistero della Congregazione Celestina, divisato sotto il titolo di S. Angiolo” e conseguente aggregazione a quella di “S. Maria in Bethlehem intra oppidum” della stessa congregazione posto nella terra di Mesagne.
L’allegazione in questione, ricordata dal Moschettini nel suo scritto Della Brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto11, fu data alle stampe a Napoli il 6 novembre del 1788 dall’avvocato Gio Angiolo Duca12.
La lunga e intricata vicenda che emerge dettagliatamente dalle sue pagine, ebbe inizio nel 1616, allorquando il Monastero di Alessano sotto il titolo di S.Angelo13, assieme ai monasteri di S. Pietro d’Ugento, S. Arcangelo di Brindisi, S.Bartolomeo di mesagne extra oppidum, in forza delle bolle di Papa Paolo V e di Urbano VIII, fu aggregato a quello di S. Maria in Bethlehem intra oppidum della stessa congregazione posto nella terra di Mesagne14.
Esistendo in Alessano tale monastero, i Religiosi Celestini, che vi dimoravano, educavano la gioventù nella Religione, nelle lettere, e nello stesso tempo erano “coadjutori del Parroco”. Nello stesso tempo i Padri Celestini avevano l’obbligo di mantenere la chiesa ornata decentemente con altari, colle lampade accese e di farvi, quotidianamente celebrare una messa per l’anima dei benefattori “ed altre in soddisfazione de’ legati e specialmente di quello istituito e fondato da Isabella Legari; che per tradizione sapevasi, che il detto monistero aveva anche quivi l’obbligo di fare assistere dai suoi PP. moribondi e d’insegnar la grammatica, e la morale: che poi tal monistero si ridusse in Grancia…”.
Nel 1750 il monastero di Mesagne ottenne la facoltà da Roma con breve Ponteficio di vendere i beni dell’abolito monastero che erano in Alessano. Cosa che avvenne infatti nel 1759, ovvero con la vendita di una porzione per 37555 ducati e grana 25, mentre l’altra rimase invenduta per mancanza di compratori.
Intanto, di quegli anni si sa che la campana era stata trasportata in altro luogo, che la chiesa era dismessa “dismessi gli altari, e i sacri Arredi, con rimaner quella Chiesa a guisa di spelonca, e profanata: che n’erano caduti a terra infraciditi, e lacerati i quadri: che si erano alla chiesa medesima, occupati i lumi ingredienti colle fabbriche de’ particolari: e che il Vescovo l’aveva interdetto”.
La soppressione del Monastero privò inevitabilmente “de’ benefizj spirituali e morali” dei religiosi, la popolazione di Alessano che rivolse di conseguenza la sua supplica al re Ferdinando IV per chiedere che “i beni dell’abolito Monistero, insieme co’ frutti percepiti di poi da essi P.P. Celestini, dovessero convertirsi in fondo di una casa di educazione, e di scuole, da istituirsi in quella città”.
La stessa Università di Alessano fece intendere che la controversia poteva essere risolta e compromessa, qualora i PP. Celestini avessero prestato “l’opera delle Scuole Normali in detta città; e quindi implorò d’insinuarsi alla Religione Celestina, che dovendo la medesima essere riconoscente verso di quella città per li beni alienati del soppresso Monistero e per le rendite, percepite, e che tuttavia percepisce da’ beni rimasti, fosse pronta a destinare due, o più soggetti per erigere colà le Scuole Normali”15.
La supplica dell’Università di Alessano fu subito trasmessa alla Regia Udienza di Lecce, la quale, a sua volta, dopo averne essa Udienza “preso diligente informo” fece apposita relazione che con “Regal Dispaccio del 6 novembre” rimise al parere della “Regal Camera” di S. Chiara. In quell’occasione, l’avvocato Angiolo Duca difese già allora con apposita allegazione data alle stampe il 31 dicembre dello stesso anno (ma non ritrovata), l’Università di Alessano, fondando la sua difesa sulle ragioni “della Regalia, della ragion sacra, sulla pubblica ragione”.
Il Sacro Regio Consiglio, nominato commissario il Caporuota Paoletti, fece notificare ai Celestini la richiesta dell’Università di Alessano, i quali immediatamente si opposero costringendo il Paoletti a congelare la causa e a non prendere alcun provvedimento; fino all’anno 1783, allorquando, l’Università di Alessano ricorse nuovamente al Sacro Regio Consiglio.
Rimessa questa nuova supplica con Reale Dispaccio del 13 marzo 1787 al Presidente D. Francesco Peccheneda16 (delegato delle scuole normali), per un necessario parere, quest’ultimo sentite le ragioni di entrambi i contendenti e il parere dello stesso avvocato delle scuole normali D. Francesco Azzariti17, a seguito del rifiuto dei Celestini di accogliere quanto proposto dall’Università di Alessano, informò immediatamente il Re al fine “di prendere dalla M.S. le convenienti sue sovrane deliberazioni”18.
Intanto era morto il Paoletti e il nuovo commissario Marchese Patrizj aveva rimesso gli atti all’avvocato della corona D. Diodato Targiani il quale fece istanza che la causa, data l’importanza per la Regalia e per “li pubblici diritti”, fosse al più presto esaminata. In tale occasione, lo stesso avvocato Angiolo Duca fece una nuova “erudita, e fatigata allegazione” che assieme ad una “introduzione” e alla copia della relazione fatta sulla causa stessa dal Presidente D. Francesco Peccheneda, Delegato delle Scuole Normali, a S.E. il Marchese Caracciolo Segretario di Stato19, costituisce lo scritto complessivo oggetto del presente lavoro.
Le ragioni esposte dall’avvocato Angiolo Duca a sostegno dell’Università di Alessano sono anzitutto introdotte da un prezioso e importante capitolo sulla “Necessità della Pubblica Educazione”, utilissimo per capire, in età illuministica, la sostanza ideologica e pedagogica dell’epoca e che il Duca scrive, con una ricchezza documentaria e bibliografica, per dimostrare “quanti e quali ottimi vantaggi apportino le pubbliche scuole” e come in ogni tempo (a partire da Carlo Magno) sia costantemente riconosciuta “l’obbligazione degli Ecclesiastici tutti a mantenere le scuole pubbliche, per ammaestrarvi la Gioventù nella religione e nelle lettere e nel costume civile’’20. Esse vertono quasi esclusivamente sul tema giurisdizionale e sono tese a sostenere, in maniera direi “appassionata”, quattro nodi fondamentali:
1) L’unione del monastero di Alessano a quello di Mesagne fu fatta senza il Regio Assenso ovvero senza l’assenso indispensabile del sovrano; né tantomeno con il consenso della popolazione che si ritrovò anzi profondamente danneggiata dalla perdita degli “importanti benefici morali, ai quali eran tenuti i Celestini e quella Popolazione avea giusto dritto: onde manifestatamente sì fu lesiva quella unione, e recò un segnalato danno”21; 2) tale unione, eseguita irregolarmente e mancante di Regio Assenso comprometteva la Regalia22; 3) la popolazione di Alessano conservava intatto ogni suo diritto sull’abolito monastero e sui suoi beni al fine di istituirne una pubblica scuola, in quanto essendo ignota la fondazione spettavano al pubblico di Alessano i diritti che competono ai fondatori “poiché i Monasterj per lo più si fondano o da qualche particolare, o dal pubblico; e l’oggetto, per lo quale si fondano, non è altro, se non quello di beneficiare la cittadinanza del luogo, in cui viene fondato. Sicché mancando il Fondatore, succede al padronato il Pubblico del Luogo, ove il Monistero è posto; e perciò egli ne diviene il Fondatore”23; 4) infine, osserva Angiolo Duca, se l’unione fu nulla, perché irregolare ed ingiusta; insufficiente perché pregiudicò la Regalia; se il padrone del Monastero abolito è lo stesso popolo di Alessano, “ed i beni, da che cessò il Monistero, ne sono divenuti di quel Pubblico, per impiegarne ifrutti in pubbliche opere di pietà”, ne consegue che i Padri celestini dovevano rilasciare tali beni e restituire tutti i vantaggi maturatisi dal giorno in cui avvenne la stessa unione24.
Sul fronte dei Celestini (la parte avversa), si sostenevano, invece, rivendicando anch’essi tramite il loro avvocato (il cui nome non è ricordato) con una “memoria manoscritta” le proprie ragioni all’interno soprattutto di un discorso giuridico, i seguenti punti che controbattevano quelli pocanzi delineati dell’avvocato Angiolo Duca e cioè: 1) il pubblico di Alessano poteva vantare diritti sull’abolito monastero soltanto se fosse stato fondato realmente dall’Università o dai Cittadini o se, si fosse assunto realmente “il peso dell’istruzione della gioventù” (cosa questa che non si rilevava da alcuna documentazione); 2) l’unione dei quattro monasteri fu “canonica e regolare” e tale fu riconosciuta dagli stessi Alessanesi con il “silenzio di tanti anni” (e a testimonianza vengono citate altre unioni di Monasteri della stessa Religione Celestina eseguite sempre in virtù delle bolle di Paolo V e di Urbano VIII; 3) essendosi interposto l’exequatur alle Bolle di Roma per l’alienazione dei beni, vi era concorso di conseguenza, del Regio Assenso; 4) infine, le ricchezze dell’abolito monastero così come sono state indicate dall’Università di Alessano e di quello di Mesagne, erano “esagerate” ed ammontavano (a detta dei Celestini) realmente a circa 700 ducati annui25.
Lo stato del conflitto giurisdizionale s’interrompe in questo documento legale con il parere del delegato delle Scuole Normali D. Francesco Peccheneda fatto a conclusione della sua relazione al Segretario di Stato Caracciolo, datata 16 luglio 178826. Il Peccheneda sollecita una tempestiva decisione della real Camera trattandosi “di una causa della massima importanza per la Regalia non meno che per li pubblici diritti”, con l’ascoltare in tale Tribunale l’avvocato della Corona consigliere Caporuota D. Didato Targiani, e l’avvocato delle scuole normali D. Francesco Azzariti e invitando a fare gli stessi. “Le parti convenienti in detta Real Camera in difesa della Corona, e dell’opera delle Scuole”.
E poiché l’Università di Alessano nella sua seconda supplica implorava “che all’istituzione delle Scuole Normali provvedessero non solo i Celestini ma anche gli altri Ordini Religiosi presenti in Alessano ovvero i Conventuali e i Cappuccini”27, il Peccheneda perorandone apertamente la causa e credendo pienamente nelle loro ragioni così chiudeva “con rispettoso sentimento” il suo scritto diretto al segretario di Stato Marchese Caracciolo: “… inclinerei nel rispettoso sentimento, che siccome per la Terra di Arienzo S.M. ha voluto che gli Agostiniani, ed i Domenicani, obbligati col dispaccio del 1778 a tener le scuole pubbliche, le tengano Normali, e che vi concorrino ancora i Verginiani, prestandosi a ciò fare i loro Religiosi, così si degni di prescriverlo per Alessano; ordinando Sovranamente, che que’ PP. Conventuali, e Cappuccini, compresi anche nel Dispaccio del 1778, mandino subito dopo la mutazione in questa città due soggetti de’ migliori per convento, per istruirsi nel Metodo delle Scuole Normali, perché possano indi, precedente l’approvazione sovrana, metter queste in piedi ne’ rispettivi chiostri, seguendo le istruzioni, e gli Ordini, che dalla Delegazione di esse Scuole verranno loro dati: coll’espressa dichiarazione, che que’ Religiosi, i quali saranno impiegati in queste Scuole, non debbano esser affatto pregiudicati in tutti quelli ascensi, ed onorificenze, che riceverebbero, se continuassero a servire la propria Religione anzi debbano agli altri essere preferiti, come coloro, i quali si consacrano ad un’opera pubblica, e di vantaggio della nostra Sacrosanta Religione, e dello Stato”28.
Non sappiamo, non disponendo al momento di altri documenti oltre alla memoria di Angiolo Duca, quali furono le “giuste” deliberazioni del Tribunale e del sovrano; ma vogliamo presumere (e nello stesso tempo augurarci) che la lunga e coraggiosa lotta dell’Università di Alessano, fatta in nome dell’educazione e dell’Istruzione, avesse ottenuto le scuole e quegli “indubbi benefici morali e sociali” richiesti, nonché quanto le era stato ingiustamente tolto, nel suo camino contro gli abusi di quei secoli e verso la conquista della libertà.
In “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 9, Congedo Editore, Galatina 1999 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 547-555, Novoli 2024.
Note
1 G. Spagnolo, Fonti bibliografiche per la storia di Terra d’Otranto: memorie legali dei secoli XVIII e XIX (Con un’appendice su altri luoghi pugliesi), in “Lu lampiune”, IX, n. 3, 1993, pp. 5-12; Id., Vicende Salentine in due sconosciute memorie legali del secolo XVIII, in “Lu Lampiune”, XIII, n. 2, 1997, pp. 79-83; Id., Fonti bibliografiche per la storia di Terra d’Otranto: memorie legali dei secc. XVIII e XIX (Campi, Squinzano, Galatina, Gallipoli, Lequile, Francavilla), in “Lu Lampiune”, XV, n. 2, 1999, pp. 183-187.
2 M. Paone, Memorie legali Salentine, in “Brundisii Res”, XIII, Brindisi 1981, p. 91.
3 L. Volpicella, Bibliografia storica della Provincia di Terra di Bari, Napoli 1884-87 (in cui vengono riportate numerose allegazioni giuridiche riferite ai centri della provincia barese).
4 G. Chiarelli, Abusi feudali e un processo per magia nella “Franca Martina” del secolo XVIII, in Studi di Storia Pugliese in onore di Nicola Vacca, Galatina 1971, pp. 27-44 (grazie ad una coppia di memorie legali ad opera di Ascanio Centomani, l’autore rese noto un importante episodio della storia della sua città).
5 D.A. De Capua, Fonti per la storia di Puglia: le memorie legali della Biblioteca Comunale di Bitonto, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, V, Galatina 1980, pp. 67-119 (con un’introduzione di Michele Paone che all’epoca aveva scelto, delle 1873 allegazioni registrate dallo scomparso De Capua, quelle relative alla Puglia). Questo tipo di ricerca mi ha consentito, ad esempio, di rintracciare un’importante fonte documentaria su Racale, ovvero l’Apprezzo del Regio Tabulario Gennaro Pinto del 10 dicembre 1682 (in corso di stampa).
6 M. Paone, Memorie legali salentine cit., pp. 91-109.
7 D.A. De Capua, Fonti per la storia della Puglia, cit., p. 68.
8 M. Paone, Memorie legali salentine, cit., p. 91.
9 G. Vallone, Conflitti giurisdizionali nel Salento, in San Pietro in Lama. Storia, società, territorio e religiosità di un feudo del Vescovo, Galatina 1998, pp. 291-331 (studio fondamentale per l’impostazione data allo stesso saggio e per le riflessioni preminentemente di natura “antiquaria” e “giuridica” sulle memorie legali).
10 D.A. De Capua, Fonti per la storia di Puglia, cit., p. 71 (dall’introduzione di M. Paone).
11 C. Moschettini, Della Brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto. Sua natura, cagioni, effetti. Dissertazione, Napoli MDCCLXXXIX, presso Vincenzo Mazzola-Vocola (2° edizione), p. 8 alla nota 2. Il Moschettini cita la nostra allegazione e in particolare il cap. III per evidenziare come “il detto Autore da buon Cittadino dimostra colla ragion pubblica, dedotta dagli stessi Ecclesiastici, Regolari Istituti, l’obbligo de’ Preti, Frati, e Monaci a mantener pubbliche Scuole”. Per cui l’autore salentino si chiede “Perché non si potrebbero dunque anch’essi applicare all’Agricoltura con insegnarla, ed esercitarla? Non è certamente loro disdicevole l’accoppiar l’orazione alle fatiche manuali, come prescrissero, ed essi medesimi praticarono, S. Girolamo, S. Agostino, S. Benedetto ecc.”.
12 La memoria legale reca l’intestazione: “Per la città di Alessano nella causa co’ PP. Celestini di Mesagne sulla Pubblica Educazione e Su’ doveri degli Ecclesiastici sì Regolari che Secolari A TENER PUBBLICHE SCUOLE NON CHE Sulla precisa obbligazione de’padri suddetti ad aprire in Alessano le Scuole Normali, in Real Camera di S. Chiara 1788. È posseduta da una Biblioteca privata. La copia esaminata si compone di 96 pagine numerate con una introduzione, sette capitoli (di cui il primo, ritengo per svista tipografica, mutilo delle pagine 17-18-19-20 e 33-34-35-36) e la trascrizione integrale dell’importante relazione fatta sulla stessa causa dal delegato delle Scuole Normali D. Francesco Peccheneda. Ad esse si riferiscono le citazioni riportate nel testo, quando non vi è altra indicazione.
13 Alla fine del ‘500, il monastero di S. Angelo aveva due soli monaci e agli inizi del ‘600 i vescovi alessanesi già precisavano che il monastero era piuttosto “un ospizio” (Cfr. S. Palese, Alessano e la sua chiesa maggiore, Galatina 1975, pp. 49-50, con riferimenti alla Relazione del vescovo Nicola Antonio Spinelli, datata Alessano 13 aprile 1613).
14 Di tale aggregazione si ha comunque menzione nel testo di A. Profilo, Vie, Piazze. Vichi e Corti di Mesagne, ragione della nuova loro denominazione, ristampa anastatica, con introduzione, appendice, indici e tavole di Domenico Urgesi, Fasano 1993, p. 187. Scrive ancora il Palese che morto l’unico monaco celestino che per anni aveva abitato presso il monastero di S. Angelo, finì la presenza di quest’antica famiglia religiosa nella diocesi (Palese, Alessano, cit., p. 50, con riferimento alla relazione ad limina del vescovo Placido Padiglia datata Roma 6 dicembre 1639).
15 Angiolo Duca al Capitolo VII ricorda che il Monastero della città di Alessano aveva “duc. 5000 in beni stabili, com’essi PP. hanno asserito; e ne han i medesimi introitato l’annua rendita di duc. 250. Si ha il Monistero di Mesagne appropriato questi frutti fin dall’anno 1626, allorché seguì la descritta Unione; onde già sommano duc. 405.000”.
Dal Profilo sappiamo ancora che il monastero di Mesagne con l’aumento delle rendite dei soppressi monasteri e con i legati e donazioni di cittadini mesagnesi, il 19 maggio 1634, grazie al suo fondatore mesagnese e abate celestino D. Pietro Paolo Leopardi, fu dichiarato abaziale per “beneplacito del fastoso Cardinale Maurizio di Savoia protettore dell’Ordine” (Profilo, Vie, Piazze, cit., p. 187).
16 Angiolo Duca nella sua introduzione sottolinea così i meriti del Peccheneda; “Questo dotto Magistrato, ch’è il Delegato delle Scuole Normali, nelle molte cariche, delle quali è stato, ed è onorato dal Re N.S., ha sempre appalesato, ed inalterabilmente dimostra, la più esatta giustizia, ed il più sincero zelo per lo pubblico bene “ (p. 8). Elogi al Peccheneda sono rivolti inoltre dal già citato Moschettini nelle sue considerazioni per un più ampio sviluppo dell’agricoltura del Regno: “e se la utilissima istituzione delle Scuole Normali si renderà generale per tutto il Regno, com’è da sperarsi dall’anima beneficentissima del nostro Re, sempre intento a promuovere tutto ciò, che può influire alla felicità della Nazione, si aveva da per tutto la istruzione pubblica dell’agricoltura per li giovanetti in forma di Catechismo, che di già sento di starsi componendo in Napoli, per ordine del Caporuota D. Francesco Peccheneda, Delegato zelantissimo delle dette Scuole Normali” (Moschettini, Della Brusca malattia degli ulivi di Terra d’Otranto, pp. 10-11 alla nota 3). La Biblioteca Provinciale di Lecce, di Francesco Peccheneda conserva due memorie legali riguardanti controversie giuridiche che interessano i centri di Gallipoli e Martina Franca. Il Peccheneda è autore anche di un’ampia dissertazione storico-giuridica in difesa dei diritti del governo della città di Sansevero sull’amministrazione e i beni del famoso monastero benedettino di S. Lorenzo: Ragioni della Città di Sansevero sul Monistero di donne monache sotto il titolo di S. Lorenzo della medesima Città contro alle pretensioni della Curia Vescovile, Napoli 1764, pp. LXXXIII (dal catalogo n. 4/1998 della Libreria Antiquaria Bruno Pucci di Napoli).
17 “Questi animato del medesimo zelo, non trascura fatica, ed attenzione, per istabilirsi la utilissima opera delle dette scuole” (Gio Angiolo Duca, 8, alla nota 2). All’Azzariti era sembrata “molto chiara la ragione dell’Università, e giusta, e discreta la domanda dalla medesima ora fatta al trono, di voler, cioè che i PP. Celestini di Mesagne in controcambio de’ beni del soppresso Monistero appropriatisi, mettessero in piedi, e mantenessero in Alessano le Scuole Normali per l’educazione della gioventù” (92).
18 Angiolo Duca non perde occasione, per dare maggiore credito alle sue tesi, di esaltare e di lodare il suo amabilissimo re Ferdinando IV, “beneficentissimo Sovrano”, particolarmente sensibile al problema dell’educazione e dell’istruzione nel Regno tanto che (come scrive lo stesso Duca) “dopo aver fatto istruire in Rovereto due Religiosi Celestini (P. Alessandro de’ Conti Gentile e D. Lodovico Vuolo) dell’ultimo Metodo Normale, è tutto clementissimamente intento ad istituire le scuole in amendue le Sicilie, per esservi istruiti i suoi popoli; e in S. Leuce, luogo di Regali delizie, le ha aperte per quella delizia maggiore, che il suo pietoso animo percepisce nel profittevole ammaestramento della Gioventù, e nel pubblico bene”. D’altra parte, sotto le spinte illuministiche dell’epoca che riproponevano un conflitto fra i due poteri politico e religioso nel campo dell’educazione, tale sovrano si distingueva “avendo nell’anno 1768 espulsi da’ suoi Dominj li PP. della di poi estinta Compagnia di Gesù, Clementissimamente si degnò di far impiegar le rendite de’ beni di detta Compagnia nel mantenimento delle Scuole, che fece aprire in quei luogji, dove esistevano Case di detti PP.” (Angiolo Duca, 82). Per avere un’idea sullo stato dell’istruzione nel Regno di Napoli nel periodo di tale conflitto tra l’Università di Alessano e i Celestini di Mesagne si veda A. Zazo, L’Istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767-1860), in SOLCO II, (1927). Preziosi e più ampi riferimenti possono ritrovarsi inoltre nel recente studio di L. Ingrosso, L’istruzione a Campi nel sec. XVII. I Padri Scolopi, in “Lu Lampiune” XV, n. 2, 1999, pp. 23-36. Per avere un’idea quantomeno analitica, dell’Educazione e dell’istruzione nel Settecento, si veda M.A. Manacorda, Storia dell’Educazione, Roma 1997. Lo stesso Manacorda rileva infatti che la soppressione dei Gesuiti stimola l’iniziativa statale. A Napoli, già nel 1768, Ferdinando IV su ispirazione del ministro Tanucci, dichiara che “fra le cure principali della sovranità, importantissima è quella che riguarda l’educazione della gioventù e la direzione degli studi” e obbliga i conventi ad aprire le loro scuole ai laici (p. 62).
19 “Questo Ministro di Stato ha sommamente a cuore la buona educazione Nazionale, per quella cultura di spirito, della quale è doviziosamente provveduto” (Angiolo Duca, 96).
20 Notevole, questa dissertazione, per abilità dialettica e copiosità di dottrina, per gli ampi riferimenti di carattere pedagogico, storico (in particolare sulla nascita delle scuole e sulla loro evoluzione), letterari, giuridici e di varia erudizione (costituisce il capitolo I dell’allegazione e va da pag. 12 a pag. 52.
21 Ampie e numerose le “prove” del Duca a dimostrazione che nella fondazione dei Benefici, dei Monasteri e delle chiese era indispensabile il consenso del Sovrano. In questo capitolo (ma anche nei successivi), per usare un’espressione di G. Vallone, “l’argomento antiquario e quello giuridico sono sviluppati in parallelo e con uguale profondità” (Vallone, Conflitti giurisdizionali nel Salento, p. 303).
22 Angiolo Duca sosteneva in particolare per questa ragione che il monastero di Alessano “non erasi un Beneficio semplice; ed i Monaci Celestini, che lo possedevano, avevan l’obbligo d’istruire il popolo nella santa Religione, di ammaestrar la gioventù nelle lettere, e di esser coadjutori del Parroco.
Con quale dunque giusta facoltà lo abolirono, con unirlo al Monastero di Mesagne? E questa ingiusta unione, contraria a’ Canoni, ed allo Spirito della Chiesa, può mai più sussistere, senza rimanerne pregiudicati i dritti del Re, ch’è il protettor de’ Canoni, e della Chiesa? (72).
23 Angiolo Duca cita a questo proposito gli esempi di Gregorio X che estinse le ‘Religioni de’ Mendicanti, con riserbarne i beni in sussidio della Terra Santa, o de’ poveri, o in altri pii usi ne’ rispettivi luoghi”; di Clemente V che abolì l’ordine dei FF. Umiliati distribuendone i loro beni per “più usi”; di Urbano VIII che abolì la congregazione dei PP. Berettanti e la Religione de’ FF. de’ SS. Barnaba, ed Ambrosio, e riserbò i di loro beni all’amministrazione, e disposizione degli Ordinarj, per applicarne le rendite ad altri pii luoghi situati nella medesima Città, ove esistevano detti beni, e Conventi; di Innocenzo X che abolì la Religione delle Scuole Pie, di S. Basilio degli Armeni, dei Chierici Regolari del Buon Gesù di Ravenna, la Congregazione de’ Canonici Regolari di S. Gregorio in Alga, beneficiando dei loro beni i luoghi stessi dove erano situati (80).
24 Lo stato dei beni del Monastero di Alessano è già ricordato alla nota 15 di questo stesso contributo.
25 Tali ragioni difensive dei Celestini di Mesagne sono sinteticamente espresse nella relazione di Francesco Peccheneda (90-91).
26 Occupa le pagine 87-96. Del Caracciolo, ministro di stato, il Duca ricorda che “ha sommamente a cuore la buona educazione Nazionale, per quella cultura di spirito, della quale è doviziosamente provveduto” (96).
27 Cfr. S. Palese, Alessano e la sua chiesa maggiore, 49-55; Id., Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa ad Alessano tra XVIII e XIX secolo, estratto da Oronzo Gabriele Costa e la tradizione scientifica meridionale nell’Ottocento, II, Alessano alla fine dell’antico regime, Galatina 1993, pp. 54-55.
28 Pp. 94-95 della memoria di Angiolo Duca.
29 Trovo solo che nell’aprile 1797 lo stesso convento dei celestini di Mesagne ospitò il re Ferdinando IV e il suo seguito, ovvero il Generale Acton segretario di Stato e suo primo ministro (Cfr. Profilo, Vie, Piazze, cit., p. 187, che, comunque, non spiega la ragione della visita del Sovrano). Il monastero dei Celestini di Mesagne, soppresso il 13 febbraio 1807, fu adibito a sede della Sottointendenza e delle scuole (Cfr. O. Mazzotta, IConventi soppressi in Terra d’Otranto nel decennio francese (1806-1815), Bari 1996, p. 133; ma anche A. Profilo, Vie, Piazze cit., p. 188). Nonostante le ricerche fatte, nessuna notizia bibliografica si è riusciti a rintracciare invece su Angiolo Duca e né il Giustiniani lo ricorda nelle sue Memorie Degli Scrittori Legali del Regno di Napoli.
La voce, che significa bocconcino prelibato, è registrata nel vocabolario del Rohlfs
Come si vede, non c’è proposta etimologica per nessuna delle due varianti. Non ho la presunzione di risolvere l’arcano, ma solo quella, più modesta, di formulare un’ipotesi che abbia un minimo di plausibilità e che, magari, propizi la discussione con altri contributi, in particolare dei lettori brindisini, visto che gli altri tre lemmi che metterò in campo riguardano esclusivamente l’ambiente brindisino.
Mi immagino quante notti insonni il maestro tedesco sicuramente avrà trascorso e quante ipotesi avrà messo in campo, scartandole tutte, compresa quella alla quale l’onestà intellettuale ha negato la presenza, pur in forma dubitativa, nel suoi vocabolario.
Come faccio a non credere che, scarnificando nniculecchia della geminazione espressiva di n e di quella parte che sembra essere un doppio suffisso diminutivo, non abbia pensato alle tre voci precedenti che di seguito riporto?
Anche qui la sua onestà intellettuale lo ha obbligato, nel dubbio, a cogliere, ma non a registrare, la comune origine, pur diluita nel tempo, dei tre lemmi. Facile, anche se pericoloso, in linguistica instaurare rapporti tra lemmi somiglianti o, addirittura, identici, come nel nostro caso. Nonostante questo rischio, come negare quello che sembra un evidentissimo legame semantico tra il secondo e il terzo? Nessuno a questo punto mi contesterà l’osservazione, dal momento che il porco è stato eletto da noi umani a simbolo della golosità, e non solo in ambito alimentare …
Ma con Niccu come la mettiamo? Spesso le nostre metafore animalesche (e pensare che siamo noi la peggiore realtà animale …) si ritorcono contro di noi. Non sono rari i casi In cui nomi propri hanno dato vita a nomi comuni1 , per motivi spesso non chiare, come per esempio checca, vezzeggiativo (può essere questo un chiaro motivo?) di Francesca, come sinonimo di omosessuale. La situazione appare ancor più complicata per la nostra triade: qualcuno avrà chiamato Nniccu il suo maiale o un Nniccu si sarà distinto tanto che il suo nome ha fatto la fine di Cicerone>cicerone e di Mecenate>mecena, solo per ricordarne due tra i più famosi?
Per sintetizzare, la trafila potrebbe essere: Niccu/niccu (o viceversa)>*nnìcculu>nnicculecchia, come per spina>spìngula (dal latino tardo spìnula, diminutivo di spina, dal quale, attraverso *spinla è nato spilla)>spingulecchia=piccolo spillo.
Poteva il Rohlfs riportare tutto questo, anzi certamente di più, a corredo di un lemma? A qualcuno queste poche righe potranno sembrare, bene che mi vada, come una sorta di dissacrante processo alle intenzioni.. Io non ho colpa se quel qualcuno non può capire che il mio è un atto di rispettoso amore.
La conflittualità e la violenza che caratterizzavano la società del Salento tardomedievale, a cui abbiamo accennato trattando della terra de Galliano, trovano una più ampia e chiara documentazione in un registro quattrocentesco di area salentina conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli: il Quaderno della capitania di Nardò1.
Il documento, trascritto e pubblicato più di trent’anni fa da Santa Sidoti Olivo, ci offre “una vivace rappresentazione della società (anzi, di alcuni gruppi sociali), nelle sue manifestazioni quotidiane, e precisamente nei rapporti interpersonali, fatti anche di litigi, di ribellioni, di beghe, di furti, di ingiurie e bestemmie”2 del Salento di fine Medioevo.
Il registro riguarda l’anno 1490-91, è stato redatto dal notaio Giampaolo de Nestore trascrivendo quanto contenuto in due distinti quinterni, uno quello dell’erario Ragucio de Vito e l’altro del mastrodatti Pando de Pandis, entrambi appartenenti all’ufficio del capitano neretino, magnifico misser Locchino Caytano de Neapoli.
Nella prima parte del manoscritto, vengono elencati 608 procedimenti giudiziari, per ognuno di essi viene riportato il nome dell’accusato e dell’accusatore, spesso anche con la provenienza e la professione, la tipologia del reato commesso e la pena comminata, sempre di carattere pecuniario.
Ci troviamo di fronte ad uno spaccato di vita reale “che fotografa vicende personali e parentali, dinamiche relazionali, luoghi, momenti e contesti di esperienze vissute, ma anche precise identità sociali, etniche e culturali”3, imprescindibile se si vuole ricostruire la storia della mentalità e del costume delle società salentina tardomedievale. In aggiunta, essendo scritto in volgare, esso riporta una quantità di espressioni che erano di uso quotidiano tra la gente dell’epoca e che, in parte, si sono conservate nei moderni dialetti salentini.
Diamo ora uno sguardo più da vicino al documento neretino confrontandolo, per quanto possibile, con le notizie contenute nel Quaderno della bagliva di Alessano, di cui ci siamo già occupati.
I reati
Innanzitutto bisogna premettere che nei due registri si prendevano in esame solo di casi di giustizia civile; tutto ciò che riguardava l’amministrazione della giustizia criminale, cioè i casi più gravi che prevedevano la pena di morte, l’esilio, la mutilazione o un’ammenda pecuniaria superiore ad un augustale, non erano di competenza dell’ufficio della bagliva o della capitania.
Per semplificare il minuzioso elenco d’infrazioni registrate nel Quaderno di Nardò, si possono classificare i reati commessi in quattro categorie, secondo la suddivisione operata da Luciana Petracca4:
reati contro lo stato (evasione fiscale e violazione delle norme vigenti) o contro l’ordine pubblico (sedizione e ribellione);
reati contro la persona (ingiurie e minacce verbali, aggressioni fisiche e tentativi di omicidio);
reati a sfondo sessuale (adulterio, maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale):
reati contro il patrimonio (furto e danneggiamento, appropriazione indebita e mancati pagamenti).
Oltre la metà dei reati era di natura pubblica; molti i casi di evasione fiscale: frodi sul dazio del pane (li fraudao lo dacio de lo pane; pillao lo pane de lo furno sensa cartolina; la mulliere de Petro de Micheli incusata per lo dacieri che non li volce dire quanto pane ha facto; uxor Angeli de Stiacio incusata per notaro Bernardino, dacieri de lo pane, perché lu gabao), sui prodotti agricoli (non li feche noticia delle follie che vendio o de la bambace o de li fructi), sul vino (perché vendero vino musto sencza licencia) e sul pescato (portò pesse e non feche noticia al capitaneo; non portao pesse prima allo capitanio e vendiolo ad altri); comuni erano anche le contravvenzioni alle norme di igiene pubblica (gectao l’acqua bructa alla strata; iectao lo romato allo loco de Santo Martino), la violazione dell’obbligo di riposo durante i giorni festivi (intrao con lo caballo bardato de festa; trasio con la iumenta bardata la festa; intrao de festa dentro la terra con lo carro) ed altri reati minori (portava li bovi sensa campana; portao lu pullitro sensa spurtello5). Numerose infrazioni riguardavano l’ordine pubblico: il gioco d’azzardo (iucao alli dadi, ad carte, alli arunghi/runghi6), la renitenza al servizio di guardia (non andao alla guardia), la frequentazione notturna dei luoghi pubblici (andao da po la tercia hora sencza foco), il disturbo della quiete pubblica (per certo rumore feche in piacza; perché feche certo tumulto), l’entrata o l’uscita dalle mura cittadine senza permesso (trasio de sopta la porta; ensio de lo paraporto; perché foi trovato per lo capitanio de nocte che ensio de la porta), la caccia di frodo (Antoni de Cupertino, perché venne noticia alla corte, che pillava li palumbi), il porto d’armi (Dimitri Albanese, accusato per Cola serviente, perché lo trovao cu l’arme prohibita; che lo trovao cu l’arme depo la tercia) e la bestemmia (perché dixe yo incaco quillo chi stai in cielo; biastemao Santo Eloi; biastemò Santo Francesco). Non mancano neppure gli episodi di ribellione (inobediencia; feche desistencia alla corte), resistenza a pubblico ufficiale (per resistencia facta allo mastro iurato; Czachulli de lo Vecco iudio, incusato per lo masto iurato, perché non volce obedire et che li dede certi colpi) e i disordini di piazza (perché foi trovato chi facia rumore cu l’arme; per certo insulto et rumore facto alla piacza).
Passando alla sfera privata, i reati contro la persona erano costituiti in prevalenza da minacce verbali ed ingiurie che il nostro registro riporta fedelmente, in quanto oggetto del procedimento giudiziario, restituendoci così un vasto campionario di epiteti e di espressioni diffamatorie, specchio della mentalità e del contesto culturale salentino dell’epoca. L’espressione ingiuriosa poteva riguardare l’aspetto psico-fisico della persona (orbo, inbriaco, torto, paczo), l’onorabilità della famiglia (tu non fosti fillio de soroma; sorota non mi foi mulliere) o l’infedeltà coniugale (cornuto; perché li dixe ca Filippo de Pisani have havuta essa et la soro; perché li dixe ca li fili soi sono bastardi et sono fili de Gabrieli Spinello). La calunnia poteva fare anche riferimento a pesanti accuse come la menzogna e lo spergiuro (tu menti per la gula; tu hai facto iuramento falso), il tradimento (asino traitore; bructo traytore), il furto (latro tu meriti la furca; latro sassino menegodo), la prostituzione (puctana; rofiana puctana; marituma ti vede li homini chi tieni avanti la porta; puctana frustata tu teni cento innamorati) e la sodomia (Cola Fuecu, denunciato per Serafino Pictivino, perché li dixe le cose minime non le pilli perché pilli le cose grandi). Spesso si ricorreva all’insulto (cane filio de cane; ribalda gallioffa; pidocchioso), usando volgari espressioni di disprezzo (perché li dixe yo trovai le terre allo culo de mammata; tu mi li sconciasti), a volte accompagnate da gesti di scherno (li dixe, mostrandoli lo digito, ficcate quisto in culo; li mostrao le fiche) e versi offensivi (li feche un mugito in modo de beffa). Altrettanto ampio e colorito era il catalogo delle minacce: yo te vollio castigare; tu divi essere squartato; yo te derò tanti pughi in facie finchè te fazo cadere; che te spaccherò lo capo; tu vorria pistata; yo te vollio cachiare l’occhi; yo te derò più bastonate che te agio date; tu non ay una dia de vita; yo vollio talliare la fache a te e a molliereta. Accanto alle violenze verbali, nel registro vengono riportati frequenti casi di aggressioni fisiche: scaramucce e risse (minao le petre; fechero a punghi; lu pillao per petto), percosse (lu bactio; lo pillao per capilli et gectaolo in terra; li dè una piactonata; li dette certi calczi), liti familiari (Mactheo de Colella, denunciato per Alexandro de Colella, suo frate, perché li roppe la facie; Giorgio Albanese, denunciato per Marco Albanese perché, irato animo, li bactio la matre), inseguimenti (lo sequitao con arme; lo sequitao ad petre; lo sequitao con lo cortello), aggressioni a mano armata (li andò sopra con uno squartituro; li cagiao lu cortello), agguati premeditati (Czota, Serafino e Cola Albanese, accusati per Salamoncello iudio che lo asaltaro allo puczo de Santa Lucia; che lo andò adsaltare in mare; li andao adsaltare in casa con la lancza), regolamenti di conti (Silvestro Bontempo et Antonello Corteyse accusati che fecere ad cortellate da fore et non se ferero). Le conseguenze di queste azioni, a volte, potevano essere serie e le ferite non erano certo di poco conto: lu bactio e folli sango; li dede un pungho et fecheli sango, li roppe lo capo, lo assaltao con la spata et feriolo, lo ferio alla cosa, li roppe la testa.
Meno frequenti i reati a sfondo sessuale registrati nel manoscritto di Nardò, si possono contare con certezza solo due episodi: Fortuna Albanese che denunciò Antonio Presta perché le mise li mano violente addosso e Vucicco Schiavone molestato da Chicco de Crassono che prima lu tocao sconczamente e poi gli diede un pugno. Si registra anche un caso di violenza domestica: Ursino di Aradeo venne condannato, dopo un’indagine della curia, perché roppe la testa alla molliere con lo rocco7.
Per quanto riguarda i reati contro la proprietà le denunce per furto la facevano da padrona, i casi vanno dai piccoli furti (li livao la gunnella; li pillao la carne de lo furno; li livao la pallia; li livao l’uva de le vinghe; pillao certe chanche de lo palmento) ad episodi ben più gravi (li pillao lu cavallo dentro la chesura; li vendio uno bove e poi lu levao de facto). I danneggiamenti erano provocati per lo più in modo accidentale dalle bestie lasciate senza controllo (li magiaro l’orgio con li bovi; li magiaro l’olive ensete con li bovi; li porci soi li mangiaro la czafarana; li mangiò l’uva con li cani; li bebe l’acqua de la cisterna con li bovi), tuttavia non mancano alcuni episodi di natura dolosa (li petrigiao8 la casa; li talliao uno ramo de oliva). Il dolo, invece, era all’origine di tutti i fatti di appropriazione indebita (perché li arao la terra sua; perché li zappao le vinche soi ipso non visto), di mancato pagamento (accataro una pecora e denegariano de pagare) o di truffa (li dede parte ad uno crapecto et gabaolo; perrchè scanciao con ipso et po’ lu gabao).
A confronto con la città di Neritonio, le notizie in merito alla tipologia dei reati commessi nella civitas Alexani sono scarne e assai meno esplicite, disponiamo comunque di una lista di 12 persone denunciate per iniuriis e di 35 casi di uomini chiamati a pagare una multa per i danni provocati dalle loro bestie (soprattutto bovini ed equini) sulle proprietà altrui.
Le pene
Come detto, le pene erano sempre di carattere pecuniario. Per i reati minori, a Nardò, le multe non erano troppo elevate e, in genere, si attestavano tra i 5 e i 10 grani9. Così accadeva, per esempio, per l’evasione del dazio, per i piccoli furti, le ingiurie, il divieto di dispersione delle acque sporche ecc. Anche i giocatori d’azzardo di solito venivano multati con 5/10 grani, però in un’occasione le multe furono maggiori (1 tarì e 10 grani) e Calulli iudio fu condannato a pagare addirittura 1 ducato perché imprestao la casa ad questi che iucara. Allo stesso modo pure le pene per le aggressioni fisiche potevano variare di molto, dai 5 grani fino a 3 ducati, in base alla gravità. Le contravvenzioni per i danni contro la proprietà arrivavano ad un massimo di 4 tarì, per i mancati pagamenti ad 1 tarì, per i reati sessuali ad 1 tarì e 10 grana. Più gravi, ossia puniti con multe maggiori, erano i reati che riguardavano la ribellione e la sedizione, le condanne potevano arrivare ad oltre un ducato ma nel caso di Federico de Sambiaso, che fece resistenza nel consegnare le armi al capitano Lucchino Caytano e pilliaose ad pecto con ipso, fu addirittura di 6 ducati.
Ad Alessano, invece, le ingiurie venivano punite con multe variabili tra i 3 grani e i 3 tarì, quelle che riguardano i danneggiamenti sono mediamente più elevate tanto da raggiungere una cifra massima di 9 tarì.
Accusati e accusatori
I 608 procedimenti giudiziari, su una popolazione di circa 600 fuochi fiscali10, sono la testimonianza più esplicita del clima di illegalità e violenza che caratterizzava la comunità neretina di fine Quattrocento: signori e contadini, locali e forestieri, funzionari e religiosi, uomini e donne, tutti sembrano esserne coinvolti tanto che nessun gruppo sociale sfuggiva alle strette maglie della giustizia dell’epoca o era immune a comportamenti brutali. Insomma si può senz’altro affermare che tutti gli strati sociali, dal domno alla meretrice, trovano rappresentazione tra le pagine del registro di Nardò, ed in parte anche in quello di Alessano.
Le classi più elevate erano spesso coinvolte in liti ed episodi di violenza spicciola, si fa menzione, per esempio, di misser Giovanni Francigina che si azzuffò con alcuni ebrei: fu condannato perché straczao la camisa ad un certo Calullo ma, allo stesso tempo, denunciò Jaco de Churi per ingiuria11. Accadeva anche che fossero o vittime di violenze fisiche, come domno Domenico che denunciò Antonio di Santo Donato perché lu pilliao per carina, oppure artefici di prepotenze, sull’esempio di misser Vincenzo de Mico che entrò auctoritate propria in casa di Filippo Barberi che per questo motivo lo denunciò. Più di frequente gli aristocratici erano coinvolti in questioni di carattere economico, infatti misser Cesare de Noha12 risulta esser stato denunciato dal castellano Iacobo de Capua perché non pagò la somma di 25 tarì, mentre Federico de Carignano e Guglielmo della Porta, utili signori de lo feudo de Flangiano, accusarono il notaio Nicola di Corigliano per il mancato versamento della decima del vino. Diverso pare il caso di Alessano dove il nobile calza sempre le vesti dell’accusatore, di colui che chiama in giudizio qualcuno oppure lo denuncia per i danni subiti, per esempio: domno Stefano Ceso che citò in giudizio il magister Nucio o domno Melchione Caballero che denunciò Cristoforo Cannabono per ingiurie e diversi altri uomini che gli avevano arrecato danni coi loro animali.
Una categoria che compariva spesso sui nostri registri era quella dei funzionari e degli impiegati pubblici che, essendo tenuti a far rispettare le leggi e a mantenere l’ordine, erano quasi sempre citati tra gli accusatori, il che causava loro non pochi inconvenienti. A Nardò, per esempio, accadeva che fossero vittime di minacce, come successe al serviente Cola Lillo o al dacieri de lo pane Silvestro Bontempo, o di violenze, come il serviente Geronimo. A volte, però, erano essi stessi ad essere denunciati per poco zelo, come ad esempio il portararo Meo Caballo multato perché fece uscire un forestiero sencza bullecta. Lo stesso si può dire dei funzionari alessanesi; infatti i baiuli, che avevano il compito di sorvegliare le proprietà della curia, denunciavano coloro che erano sorpresi con le loro bestie in vineis … et aliis possessionibus della civitas (come avvenne nel caso di Nicolao Ventruto multato per la sue tre scrofe trovate nel fossato maiorj della città o del contestabili di Tutino il cui bove fece danni in territorio Alexani). Tuttavia i funzionari pubblici di Alessano furono coinvolti in vertenze di carattere privato in almeno due episodi: sia l’erario Francesco Strella (Storella)13, sia il notaio Giovanni de Gorgono14 denunciarono alcuni uomini per i danni subiti nelle loro vigne.
Nemmeno i membri della chiesa erano estranei al clima di violenza che caratterizzava la società salentina dell’epoca, ne abbiamo una plastica, e colorita, rappresentazione nel documento neretino: Matteo de Colella fu denunciato dall’abbate Francesco Funiati perché lu pilliao per pecto et dixili o male previte. Conferma si trova anche nel quaderno alessanese dove si fa menzione di un fratre Angelo che chiamò in giudizio Antonio Carroppa.
Le minoranze etniche sono chiaramente rappresentate in modo sproporzionato all’interno del registro di Nardò, tanto che tra i condannati il numero dei cittadini di origine straniera (ebrei, albanesi, greci e slavi) risulta superiore a quello degli autoctoni. Pare per questo condivisibile l’affermazione di Luciana Petracca secondo la quale “le minoranze etniche e religiose erano sottoposte a un più attento e serrato controllo da parte delle autorità locali, preoccupate di garantire l’ordine pubblico, la sicurezza e la pace sociale”15. Questo controllo si traduceva in un’ampia serie di denunce per tutti i tipi di reato, sia di carattere pubblico che privato. Così troviamo: albanesi ed ebrei multati per aver gettato l’acqua bructa per strada, slavi condannati per rissa, ancora ebrei accusati di frode o greci per aggressione. Ribellione e resistenza a pubblico ufficiale, ingiurie e minacce, nonché le violenze fisiche, sembrano esser state le infrazioni più frequentemente commesse da questi gruppi sociali. Omologa la situazione di Alessano: più del 20% (10 su 49) delle persone chiamate in giudizio appartenevano a minoranze etniche, si sale ad oltre il 40% (5 su 12) prendendo in esame le denunce per ingiurie16.
Larga rappresentazione, nel registro neretino, hanno le donne, sia nel ruolo di accusatrici che di accusate. Come abbiamo già visto, erano spesso vittime di ingiurie, che per lo più toccavano la loro onorabilità, minacce, violenze domestiche e aggressioni fisiche; ma tra gli abusi che subivano bisogna menzionare anche quelli contro i loro beni, “soprattutto quando la loro condizione vedovile le rendeva socialmente più deboli e indifese”17. Così accadde, ad esempio, alla vedova di Battista delo Prothomastro che venne privata delle sue terre da Filippo de Barbieri. Tra i reati commessi dalle donne, invece, la frode sul dazio del pane era quello maggiormente frequente, ma non mancano casi di insolvenza dei debiti, resistenza a pubblico ufficiale e violenze verbali e fisiche contro altre donne. Sul registro di Alessano le menzioni di donne in ambito giudiziario si contano sul palmo di una mano: Mita Mangiona che citò in giudizio il magistrum Battista, una certa Bellissimam portata in giudizio da Geronimo Blanco, Rada Sclaua (Slava) che denunciò Angelo Marsilio per ingiurie e Paciencia Perocta multata per lo stesso motivo.
I moventi.
Prendiamo ora in esame il contesto socio-economico salentino dell’epoca cercando di formulare alcune ipotesi circa le cause di questo alto tasso di conflittualità. Come detto, ci troviamo di fronte ad una società in fase di espansione demografica ed, in una certa misura, di crescita economica, infatti sotto il governo di Giovan Antonio Orsini del Balzo, si realizzò una buona integrazione tra economia feudale ed economia mercantile, il che permise la crescita degli scambi commerciali dando così la possibilità ai prodotti agricoli in eccesso di trovare sbocco sia nel mercato interno sia all’estero. Lo sviluppo economico portò ad un mutamento anche sociale, un nuovo ceto “borghese” emerse nei piccoli e grandi centri di Terra d’Otranto: i funzionari dell’amministrazione orsiniana, in particolare i notai. Questi uomini, che avevano un adeguato grado istruzione (sapevano leggere e scrivere in latino, far di conto, avevano delle nozioni di diritto civile e conoscevano le consuetudini locali), godevano di una certa ricchezza e prestigio sociale in virtù dell’ufficio che ricoprivano, tanto da poter ascendere ai gradi della feudalità minore18.
Dunque, all’interno di un contesto di crescita economica e di mobilità sociale, ci pare logico ricondurre la maggior parte delle liti e delle violenze, poc’anzi descritte, a cause di natura economica e, usando le parole della Petracca, affermare che “dietro le aggressioni e le denunce, dietro le minacce e i tentativi di omicidio si potevano, sì, celare banali antipatie, invidie, gelosie e inimicizie, ma avranno senz’altro rappresentato un più forte pungolo le ragioni di carattere economico, l’ambizione alla ricchezza, l’incremento patrimoniale, e quelle di ordine sociale”19.
Prova ne sia il fatto che nel registro di Nardò sono numerose le dispute che riguardano i confini o i titoli di possesso di terreni agricoli, i casi di truffa e di mancato pagamento, i furti e i danneggiamenti sulle proprietà private (particolarmente evidenti anche nel registro alessanese), tutti episodi che di sicuro avranno costituito la causa delle denunce e delle liti di cui ci sfuggono i moventi.
In una società rurale e patriarcale, come quella dei piccoli centri salentini, un altro frequente motivo di litigio era costituito dalle questioni di onore familiare, in primis l’onorabilità della donna, come tipico delle civiltà contadine. La bona fama della famiglia era assicurata dal controllo e la tutela delle donne di casa, spose o figlie, e qualsiasi offesa contro di loro scatenava risentimenti e conflitti che si protraevano nel tempo20.
Abbiamo già messo in evidenza come, sia nel registro neretino sia in quello alessanese, le minoranze etnico-religiose siano rappresentate in modo sproporzionato rispetto agli autoctoni. La causa principale è da ricercare nel maggior controllo a cui erano sottoposte le comunità allogene, ma è altresì palese che le differenze di carattere etnico e religioso costituivano motivo di continue tensioni e risentimenti che spesso sfociavano in violenza verbale e/o fisica. Insomma, in una società multietnica, la diffidenza verso lo straniero o verso colui che praticava un culto diverso rendevano difficile, ieri come oggi, la convivenza tra le diverse comunità, autoctoni, ebrei, slavi, greci e albanesi.
Particolarmente scomoda doveva essere la condizione degli ebrei (basti pensare che da lì a pochi anni saranno cacciati da tutto il regno aragonese) e ciò traspare in modo chiaro specialmente nel registro neretino.
A titolo di esempio riportiamo l’episodio che coinvolse Cale iudio de Imbeni il quale, sol perché aveva osato affermare una verità lapalissiana (che tuttavia pareva inaccettabile nel mondo cristiano di fine Medioevo) dicendo che “Christo fo trentatre anni iudio”, venne multato per un tarì (stessa ammenda che fu comminata a Valentino Serrato, un cattolico, che invece pronunciò una frase altamente blasfema: “Yo incaco chillo chi stai in cielo”). D’altro canto non bisogna nascondere il fatto che molto spesso liti e violenze vedevano coinvolte persone che facevano parte dello stesso gruppo etnico, ma la comune appartenenza non impediva che gli scontri fossero particolarmente accesi e si trasformassero in vere e proprie faide. Ci pare opportuno citare ancora un episodio tratto dal quaderno di Nardò: l’acceso litigio che vide Abracha Perdici de Corfo infierire ripetutamente contro Sabbatai de Corfo. Si tratta con tutta evidenza di due ebrei dalla comune origine, l’isola greca di Corfù, nonostante ciò il primo personaggio si accanisce sul secondo prima dicendogli “yo te ferò portare adtacato ad Lecche”, in più li mostrò le fiche21, poi gli disse alla barba sua e gli entrò in casa a rubargli degli anelli, infine, non contento, lo minacciò pesantemente “yo vollio talliare la fache ad te et ad molliereta”.
La lingua
La lingua utilizzata nel Quaderno del capitano di Nardò, come detto, è il volgare salentino tardomedievale. Il principale motivo d’interesse, sotto l’aspetto linguistico, risiede nel fatto che il documento riporti ingiurie e minacce fedelmente trascritte che, a distanza di oltre cinque secoli, ci restituiscono frammenti del parlato quotidiano nel Salento di fine Medioevo. Per lo studio linguistico del testo rimandiamo al recente ed esaustivo articolo di Vito Luigi Castrignanò22; in questa sede ci limitiamo a segnalare alcune espressioni volgari e modi di dire gergali che si sono conservati nel dialetto moderno.
Particolarmente colorite sono le minacce yo te vollio cachiare l’entrame, “io ti voglio sventrare”, dove l’entrame sono gli intestini, e yo te vollio cachiare l’occhi, “io ti voglio cavare gli occhi”, conservatesi nel moderne espressioni te ne cacciu le ntrame/l’occhi, usate per lo più in tono goliardico. Un’altra minaccia molto singolare è yo te trovarò l’acqua, “ti darò una lezione”, “ti sistemerò per le feste”; anche questo modo di dire è usato ancora oggi: te trovu l’acqua, “ti rimetto in riga”, conserva ancora il suo significato di avvertimento e di velata minaccia.
Risulta più complicato determinare l’esatto significato della frase questa fantasia te l’achio de caciare, forse da interpretare come “devo soddisfare questa tua voglia”, nel senso di “ti darò ciò che ti meriti”; lo stesso tipo di costruzione si ritrova nel dialetto moderno: sta curiosità me l’aggiu cacciare, “devo sapere questa notizia” (letteralmente “devo soddisfare la mia voglia di sapere questo pettegolezzo”). Infine pare istruttivo riportare la maledizione che l’ebreo Bracha lancia contro Sabbatai Greco (dal nome parrebbe un altro ebreo, di origine ellenica): malanno habia ipso et l’anima de suisa et lo parentato sua, tipica ingiuria che colpisce tutta la parentela dell’avversario come, ancora spesso, capita di ascoltare nelle accese discussioni di paese.
Alcuni casi paradigmatici
Alla fine di questo nostro excursus attraverso i registri giudiziari di Alessano e Nardò, vogliamo ora portare all’attenzione del lettore alcuni personaggi citati ripetutamente dalle nostre fonti, le cui vicende, a nostro parere, possono chiarire meglio alcuni aspetti dei costumi e della mentalità del tempo.
Partiamo da due alessanesi: Angelo Grasso e Antonio Carroppa. Il primo apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà23 che, nel Quattrocento, pare aver perso parte del suo vecchio prestigio; infatti, nei nostri documenti, nessun titolo nobiliare veniva attribuito agli uomini di questa casata anche se un Giovanni Grasso viene indicato come notaio e scrivano, dunque un appartenente al ceto notarile. Angelo Grasso, che possiamo allora annoverare tra i notabili del paese, viene menzionato ben 10 volte nel registro della bagliva alessanese: egli citò in giudizio otto persone (gli ebrei Yasca, Matthia e Samuy, Giovannuccio Giaccari, Nicola Ventruto, Giovannuccio Quattropani -2 volte- e Stefano de Cuniano), a sua volta venne chiamato in causa da Antonio Giaccari e infine denunciò l’ebreo Yose de Chully per ingiurie. Sembra quasi, che con tutte le sue denunce, il Grasso tenti di proteggere il suo status economico e conservare il prestigio sociale della sua famiglia all’interno della civitas. Antonio Carroppa, invece, era probabilmente un allevatore di cavalli che godeva di una certa disponibilità economica. Su di lui troviamo addirittura 16 menzioni in ambito giudiziario: per 3 volte egli viene citato in giudizio, da Nicola Gatto di Corsano, da Matafone e da fra’ Angelo; gli episodi rimanenti riguardano i danni provocati dalle sue bestie. Il nostro Antonio sembra esser stato un recidivo impenitente, infatti con i suoi cavalli e cavalle arrecò, in un anno, danneggiamenti su dieci proprietà diverse, accumulando multe per un totale di 23 tarì e 12 grana (pari a circa 60 giornate lavorative di un bracciante agricolo). Tra tutti i suoi guai giudiziari, particolarmente grave e prolungata fu la “faida” che ebbe con Giovanni Buffello: infatti per ben 5 volte, con i suoi cavalli, distrusse le coltivazioni di Giovanni, il quale, forse per vendetta, si rifece ingiuriandolo (e per questo fu condannato a pagare una multa di 3 tarì, la più alta tra quelle comminate per ingiurie) e facendo pascolare, in due differenti occasioni, i suoi buoi sulle terre di Antonio. Alla fine, pare che questa lite si fosse in un certo modo ricomposta visto che i due contendenti ricevettero la grazia dalla principessa Anna Colonna (domnam principissam), moglie di Giovan Antonio Orsini del Balzo, che condonò loro parte delle multe ricevute. Non stupisce che, in un contesto rurale come quello alessanese, tra i principali motivi di discordia ci fossero gli sconfinamenti nelle proprietà altrui e che gli scontri tra allevatori e agricoltori si verificassero con grande frequenza.
Passando al quaderno di Nardò, uno dei personaggi che compare più spesso risulta essere l’ebreo Calullo. Le sue vicissitudini giudiziarie si snodano lungo tutto l’anno indizionale 1490-91 e ci paiono paradigmatiche del rigido controllo a cui erano sottoposte le minoranze etniche, ma anche dell’alto tasso di illegalità e di violenza che le caratterizzava. Ripercorriamo, in ordine cronologico, tutti i guai che Calullo ebbe con la legge: dapprima, come già visto, fu vittima della protervia del nobile Giovanni Francigina che denunciò; poi fu multato perché in casa sua si giocava d’azzardo; ricevette un’altra condanna per certo rumore che fece con Guglielmo Morra; in seguito fu denunciato per diffamazione; poi multato per aver gettato acqua sporca sulla pubblica strada; lo ritroviamo ancora protagonista di una lite con l’ebreo Cullo de Inbeni, ma questa volta vestì i panni del denunciante; per finire litigò aspramente con Benedetto Tiso, i due si minacciarono e denunciarono reciprocamente e furono condannati, inoltre due ulteriori denunce sporte dal Tiso, per minacce e diffamazione, erano ancora in attesa di una sentenza. Il totale delle ammende accumulate da Calullo fu di 1 ducato, 2 tarì e 10 grana, pari a circa 70 giornate di lavoro di un bracciante agricolo, il che ci suggerisce che le sue disponibilità economiche fossero buone. Quindi Calullo era un ebreo benestante (mercante?, artigiano?) e, seppur appartenente ad una minoranza religiosa spesso vessata sia dal potere pubblico che dai privati cittadini, non esitava a litigare violentemente con esponenti dell’aristocrazia (misser Francigina) e del notabilato locale (come pare essere il Tiso) o a commettere reati di natura pubblica. Il carattere del nostro Calullo doveva essere particolarmente fumantino tanto che non gli erano nemmeno estranei i diverbi con membri della sua stessa comunità etnica.
Conclusioni
Spesso la nostra percezione del presente influenza l’idea che ci facciamo del passato. Così, per esempio, chi è convinto della decadenza della società contemporanea tende ad idealizzare le civiltà antiche. Lo stesso schema mentale si ripropone quando, davanti a casi di efferata violenza a cui non si riesce a dare una logica, sentiamo affermare con sicurezza che in passato tali episodi non accadevano, che la vita delle comunità salentine dei secoli passati, fondata sui valori tipici della civiltà contadina (la famiglia, la Chiesa, ecc..) e su forti legami di solidarietà sociale, era più pacifica e meno soggetta ad atti di violenza. L’idea che ci siamo fatti, leggendo i registri di Nardò e Alessano, è totalmente opposta. Verso la fine del Medioevo, nei piccoli e grandi paesi del Salento regnava un clima tutt’altro che tranquillo, i salentini dell’epoca non solo erano esposti alla violenza delle ripetute guerre e ai pericoli delle frequenti epidemie, ma dovevano anche guardarsi dai propri concittadini. Era normale andare in giro armati ed usare le armi di fronte ad un’offesa o per far valere le proprie ragioni, la vendetta era prassi comune, come pure farsi giustizia da soli, e si poteva facilmente venire alle mani per questioni economiche o di prestigio sociale. In definitiva, tutti gli elementi analizzati ci portano a ritenere che la società dell’epoca fosse caratterizzata da un elevato tasso di conflittualità e da un’asprezza di costumi che non trova paragoni in quella contemporanea.
Tutto ciò ci ricorda ancora una volta l’importanza delle fonti e ci stimola a continuare lo studio di questi registri quattrocenteschi che, a prima vista, potrebbero apparire come degli sterili elenchi di nomi e di cifre ma, ad una più attenta analisi, si rivelano una miniera inesauribile d’informazioni che interessano la storia istituzionale e del diritto, l’evoluzione della mentalità, del costume e della lingua, la struttura sociale ed economica, le relazioni di genere e i rapporti tra i diversi gruppi etnici.
Note
1 ASNA (Archivio di Stato di Napoli), Sommaria, Relevi ed Informazioni, Libro Singolare 242, ms., cc. 207r – 227v. Cfr. L. Petracca, Giustizia e società nel Meridione d’Italia: prime indagini alla luce di un registro giudiziario di area salentina (XV sec), in Itinerari di ricerca storica, a. XXXV, 2021 n°1 (nuova serie), pp. 75-94; S. Sidoti Olivo, Per il “Libro dei baroni ribelli”. Informazioni da Nardò. I. Testi, in Bollettino Storico di Terra d’Otranto, 2 (1992), pp. 137-174.
2 S. Sidoti Olivo, op. cit., p. 138.
3 L. Petracca, op. cit., 2021, p .80.
4 L. Petracca, ibidem, p. 80.
5 Nel primo caso ci si riferisce all’obbligo di munire di campane tutti i buoi al pascolo, nel secondo a quello di legare con un sacco, lo spurtello, la bocca dei cavalli durante la trebbiatura (il dialetto di Salve conserva il termine spurtiddu, sacco con cui si lega la bocca al bue nel lavoro della trebbiatura; cfr. G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Martina Franca (Ta), 2007, p. 686).
6 L’arunghio, aliosso in italiano, runchiu in salentino, è un osso animale (l’astragalo della zampa posteriore degli ovini) che in antico veniva usato come pedina o dado in diversi tipi di gioco.
7Roccu, strumento munito di uncini che serviva a ripescare un secchio dal pozzo; gancio utilizzato per abbassare i rami (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 554).
8 Salentino petrisciare, prendere a sassate, lapidare (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 487).
9 Si tenga conto che la giornata di lavoro di un bracciante agricolo veniva pagata in media 8/10 grani.
10 Nel 1508 a Nardò furono censiti 602 fuochi fiscali (cfr. M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 84).
11 In questo caso è curioso notare la differenza delle ammende comminate: il signore, per un atto di violenza, venne condannato a pagare 11 grani; mentre l’ebreo, solo per aver pronunciato le parole “yo faczo stima de te como de questa terra” (ingiuria che a noi moderni appare davvero di poco peso), pagò quasi il doppio, 1 tarì (corrispondente a 20 grani).
12 L’antica casata dei De Noha risulta attestata nel Salento già nel XIII secolo; signori feudali dell’omonimo casale, nel Quattrocento, la loro signoria comprendeva Merine, Francavilla, Padulano e Giurdignano (cfr. L. Petracca, op. cit., 2021, p. 87).
13 Omonimo e probabilmente avo del filosofo Francesco Storella (Alessano 1525? – Napoli 1575).
14 Il notaio Giovanni de Gorgono fu capitano di Roca e di Castro nel 1446 e poi, per ben due volte (nel 1456 e nel 1458) tesoriere della città di Lecce; suo figlio Nicola de Gorgono fu anch’egli notaio e, come il padre, ricoprì diversi incarichi: tesoriere di Brindisi nel 1458, erario generale del principe per la circoscrizione compresa tra Lecce e Taranto nel 1460-61 (cfr. L. Petracca, Il ceto notarile in una provincia del Mezzogiorno d’Italia (sec. XV). Formazione, carriere e mobilità sociale, in Stud. hist., H.a mediev., 41(1), Salamanca, 2023, pp. 165-186). Era una delle famiglie più importanti di Alessano e probabilmente tra le più ricche visto che Giovanni possedeva una giovane vigna (pastano) e il figlio un palmento.
15 L. Petracca, op. cit., 2021, pp. 80-81. In cui si afferma anche: “E’ noto tra l’altro, che nel Mezzogiorno la condizione degli ebrei non fosse sempre facile a causa dei ripetuti episodi di intolleranza, anche da parte degli ufficiali regi, e soprattutto nei momenti di più acuta crisi economica e/o politica”.
16 Nel primo caso si trattava di nove ebrei ed uno slavo, nel secondo erano quattro ebrei ed uno slavo. Se consideriamo invece gli accusatori, le percentuali scendono nel primo caso al 10% (5/49), nel secondo al 16% (2/12). Gli ebrei residenti ad Alessano che vengono citati nel quaderno della bagliva sono 15 (famiglie: Arris, de Arpa, de Chully, de Helia, de Nachaniully, Paparo), verosimilmente i membri della comunità giudaica alessanese dovevano avvicinarsi alle 50 unità, circa i 10% della popolazione totale della città.
17 L. Petracca, op. cit., 2021, p. 92.
18 L. Petracca, op. cit., 2023, pp. 172-179.
19 L. Petracca, op. cit., 2021, p. 89.
20 D’altra parte ogni tentativo da parte della donna di sfuggire al destino che le era stato assegnato, di sposa fedele e madre feconda, veniva immediatamente stigmatizzato, e la figura femminile veniva bollata come puctana o isterica.
21 Il gesto richiama alla memoria il dantesco “le mani alzò con amendue le fiche” (Inf. 25.2).
22 V. L. Castrignanò, Ingiurie e minacce in un registro giudiziario salentino del tardo Quattrocento, in Medioevo Letterario d’Italia, 13, 2016, pp. 97-113.
23 Un Guglielmo Grasso è citato come feudatario di Alessano già nel Catalogus Baronum (seconda metà del XII secolo), nel XVI secolo i Grasso saranno ancora possessori del feudo rustico di Provigliano, nei dintorni di Alessano.
Il presente scritto è da intendersi come l’appendice all’articolo “La terra de Galliano all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo” apparso nel precedente numero di Controcanto e su questo sito:
Non è difficile arrivare a “Montalbano Vecchio”, l’antica masseria-villaggio riconvertita a location per matrimoni, che rimangono impressi per la dispensata arte dell’accoglienza, palpabile in ogni suo aspetto di charme.
Usciti da Ostuni per la strada statale “16”, quella che ci conduce a Fasano, percorsi all’incirca nove chilometri si giunge a destinazione: svoltando a sinistra, immettendosi in una via che poi si dirama nelle contrade “Scategna” e “Canemazzo”.
Non ci dilunghiamo sulla consistenza fascinosa della struttura di ricevimenti, sulla magia della scenografia nell’aperto della corte curata fin nel dettaglio: di verde, di luci, di arredi. Basta scorrere la galleria delle immagini postate sul sito per restare ammaliati dall’avvolgente disporsi degli elementi, dai tavoli alle casette dei contadini divenute ambienti di ospitalità coccolante.
Ci siamo sin qui portati per una ragione che non ha niente a che vedere con il godere di una giornata spesa per immergersi nel luxury di una cerimonia nuziale: è la chiesa della masseria, d’un tempo ormai remoto, la nostra meta. E che meta!
Non perdiamoci in preamboli, dobbiamo restringere il campo: c’è troppa materia figurativa da esaminare. La sintesi è quindi necessaria. Cominciamo come d’uso dall’esterno.
Si accede al tempio salendo i sette gradini della scalinata, che è rientranza di abitazioni coloniche disposte ai lati dell’ampio spazio lastricato destinato alla vita comunitaria dell’altroieri: oggi qui si banchetta.
La facciata della cappella è linda, di bianco-calce spalmata. Il portale è inscritto in piatta cornice di pietra viva. L’architrave ha in rilievo tre rosette: su di esso si erge il timpano scolpito a elementi vegetali. Alleggerisce il prospetto il grande oculo, ora schermato con un giro di luminarie, che serve per dare multicolore alle serate delle nozze al chiaro di luna. Ad apice si eleva il campanile a vela con squilla d’ordinanza. Chissà se i rintocchi scandiscono i momenti clou della celebrazione gourmande, del mangiare e del bere fragorosamente per tutta la notte.
Entriamo nell’aula liturgica lasciando la risposta all’indefinito dell’interrogativo. Di certo, qui dentro, è affermativo il silenzio, che si spande e ti prende. L’alto volume del fuori, del sonoro gridato delle musiche, al prete (che è figura di un lontano ricordo) di sicuro non sarebbe stato gradito.
Avrebbe storto il naso pure il committente dei nuovi affreschi (eseguiti nel 1904 dal pittore Giuseppe Montrone), il facoltoso signore Giovanni Tanzarella-Soleti, il cui altolocato nome di casata – con stemmi riprodotti e accoppiati – è a chiare lettere impresso sopra la porta d’ingresso, in controfacciata. Il suo patronato andrebbe silentemente rispettato, avendone sacrosanto diritto di ascendenza.
Si resta ammutoliti sotto il cielo della volta, che è a botte, unghiata nella sezione presbiteriale. In alto si rincorrono i santi. Nel catino poligonale della terminazione star dietro alle figure è un problema. Nell’azzurro stellato, tra schiere di angeli riconosciamo Leonardo e Caterina, Giovanni e Teresa, Vincenzo (Ferrer) e Chiara e ancora Rita: degli altri aureolati abbiamo perso il conto. Nei medaglioni della navata ci sono poi i volti ispirati dei Padri della Chiesa, quattro per la precisione: Agostino, Ambrogio, Girolamo e Tommaso (l’Aquinate). Limpidi nel tratto, delineato con maestria, li riconosciamo dai loro attributi iconografici. I colori accesi rendono luminosi i lineamenti, come quelli dell’Eterno Padre assiso tra i serafini, i più vicini al trono di Yahweh. Ma si farebbe torto agli apostoli, a Pietro e a Paolo, ritratti ai lati dell’altare maggiore, se non li si citasse, vista la posizione primaziale che assumono anche nella parete di fondo.
E che dire ancora della titolare della cappella, la Beata Vergine del Rosario, a cui rimanda la corale pittura della battaglia di Lepanto, che giganteggia su una parte della struttura della copertura? La sua statua in cartapesta è in teca, a esaltazione del tabernacolo. La veste che la adorna è immacolata: celeste-avorio, trapuntata in pizzo; il panneggio è ricercato. Non sfigura di certo se messa a confronto con l’ornato raffinato del paliotto, in cui sfolgoreggia lo stemma marmoreo di Giulio II Acquaviva d’Aragona, quattordicesimo conte di Conversano. A lui, grande feudatario, si devono i lavori di ricostruzione dell’edificio sacro, approntati a chiusura del XVII secolo.
Quante attenzioni si sono riversate nel corso degli anni per rendere onore alla folla degli eletti, ai nimbati, che si incasellano in pitture e simulacri; anche se è al Signore, al Crocifisso, pianto dalle tre Marie, nella nicchia dell’altare laterale destro, che va la massima considerazione di fine arte devozionale. E sant’Antonio di Padova, con il Bambino, lui non merita il suo cantuccio privilegiato, da grande taumaturgo qual è? Indubbiamente. Nessuno osa scansarlo dalla vetrinetta della terza ara, disposta entrando a sinistra. Griderebbe allo scandalo il presbitero che volesse dal pulpito in legno policromo lanciare l’ammonimento ai malintenzionati!
La “Madonna del Buontempo” la invocano nella chiesa della omonima masseria, nella campagna di Francavilla Fontana
di Michele Mainardi
Andiamo a “Buontempo”, masseria il cui nome dice tutto. Prendiamo la strada provinciale “26”, che da Francavilla Fontana va a Ceglie Messapica. Usciti dallo svincolo della Via Appia, la statale “7”, dopo poco siamo a destinazione. Percorrendo stradelle carreggiabili, quella per la contrada benaugurante ci porta senza problemi nel luogo che definiamo della distensione. Eh, sì, è questa la sensazione che si prova entrando nella tenuta, verdeggiante e ben curata.
Si allenta ogni agitazione: lo stato di riposo lo avverti appena fai due passi; percepisci di colpo la quiete del posto. L’armonia del costruito ti si para davanti: dialoga benissimo con gli spazi arborei circostanti. Il giardino chiuso e i coltivi senza accanto i vialetti delle amene passeggiate non sarebbero quello che sono: il frutto di anni e anni di sapiente lavoro.
La sontuosa villa Carissimo domina la scena dell’architettato quadro delle colture: è il cuore che governa lo spazio progettato a regola d’arte. Rimirando la magione senti un impulso: una spinta di sereno coinvolgimento estetico, che si spande e ti prende.
Solida nella struttura, senza appesantimenti di fronzoli nella facciata (giusto l’essenziale per far neoclassicismo), con il suo impianto razionale di fine Ottocento-inizi Novecento, è capace di farti rilassare. Solo a guardarla dal portale di accesso all’acciottolato spiazzo ti resta impressa. Lo stile dell’architettura – è vero – edifica bellezza, che poi contagia l’animo predisposto ad ascoltare l’eufonia dell’intorno. Si diffonde allora la gentilezza del segno, che invita a proseguire nella strada maestra del fare (agricoltura, allevamento).
La lietezza del tratto, dell’abitare, la vediamo riverberata nel campo.
Fu attivo villaggio rurale “Buontempo”, e dei suoi elementi costitutivi se ne legge la sostanza. La vecchia masseria, appartenuta alla facoltosa schiatta dei Bottari (e poi dai Margarita trasmessa per eredità agli attuali proprietari), accolse l’imponente dimora che oggi vediamo brillare. E al fervore delle lavorazioni cerealicole, viticole, oleicole e di stalla si aggiunse il piacere del vivere in signorile residenza. A contatto diretto con le produzioni, i padroni ne trassero ulteriori giovamenti (meglio controllando i raccolti).
Gli affari però non erano tutto. Bisognava sostenerli, dunque accompagnarli con i ringraziamenti verso Colei che, invocata dai possidenti e dai loro fittavoli e mezzadri (e da tutta la servitù), non mancava di provvedere dal Cielo.
La “Madonna del Buontempo”, ospitata in simulacro nella annessa cappella, veniva processionalmente portata nei fondi per preservarli dallo spagliarsi delle acque del Canale Reale. Alle piene rovinose si assommavano altre calamità naturali. L’impeto dei venti iemali (la micidiale tramontana) bruciando le gemme vanificava le rese. L’intervento della Beata Vergine richiedeva incessanti preghiere. Ieri come oggi è alla intercessione mariana che ci si affida: con cuore devoto e disposizione alla penitenza.
Lo sapeva benissimo Giovanni Filippo Bottari, che nel 1767 avanzò formale richiesta alla Curia vescovile oritana di poter riedificare nella sua masseria un acconcio oratorio in luogo dell’antica chiesa, per comodo delle genti che a lui sottoposte prestavano servizio.
Ebbene, a distanza di tanti anni (e a interventi non lontani di restauro) percepiamo ancora l’afflato dei fedeli verso la loro bella “Madre contadina”, soccorritrice alla bisogna. Quando la sferza delle intemperie arriva inattesa, è sempre a Lei che ci si raccomanda: “apri il tuo manto Madonna del Buontempo, ripara il coltivo dal nostro pianto”.
Sta scritta a chiare lettere, incorniciate in quadretto, l’invocazione. La supplica è a disposizione di chiunque entri nel tempio per impetrare l’aiuto risolutivo.
Avviciniamoci dunque all’altare (marmoreamente configurato) ponendo la dovuta attenzione alla statua in cartapesta della titolare; rimarremo colpiti da ciò che ha in pugno: la spiga di grano e il grappolo d’uva. Anche il Bambino (incoronato come la Genitrice, che è quindi regina del Cielo) ha nella manina il simbolo della vita dei contadini di quaggiù: il ramoscello d’olivo, frutto da preservare per continuare a sperare.
La devozione verso la Corredentrice, che benigna soccorre negli accidenti dell’anno agrario, trova aggiuntiva visibile conferma nei tre inquadrettati dipinti a olio che la vedono parte preminente nel figurato ispirato. Sono appesi a destra e a sinistra della mensa eucaristica.
Ritraggono la Madre ora inginocchiata accanto al Figlio, che aiuta Giuseppe, ripreso nei lavori di falegname; ora nelle vesti di Immacolata, con le mani giunte al petto, il mantello azzurro e la luna crescente: ai piedi schiaccia la testa del serpente. I tratti canonici li ritroviamo pure nella terza pittura, quella dell’Annunciazione. Bellezza, grazia, proporzione in piccolo si distinguono. La scena sembra pervasa da un clima di familiarità, che si rispecchia nella relazione dei due raffigurati: Maria e Gabriele. Tutto merito del pittore a noi ignoto.
Per chi studia la storia medievale del Capo di Leuca un annoso problema è costituito dalla ridotta documentazione superstite. I documenti scritti per quest’epoca sono assai scarsi, infatti fino alla fine del XIII secolo disponiamo di pochissime fonti e solo a partire dal XIV la documentazione diventa più consistente. Tuttavia la mole dei manoscritti aumenta in modo evidente solo nel Quattrocento soprattutto grazie ad alcuni documenti provenienti dall’Archivio del Principato di Taranto che riguardano diversi centri del Salento meridionale. Si tratta di registri di carattere fiscale, redatti da funzionari locali, che ci permettono di dare uno sguardo ravvicinato alla vita che conducevano gli uomini del Capo di Leuca alla metà del XV secolo.
In questo articolo ci occuperemo nello specifico di Gagliano del Capo attraverso l’analisi di due di questi registri fiscali: il Quaternus declaracionum principalis curie e il Quaderno della bagliva di Alessano.
Il Quaternus declaracionum principalis curie1.
Si tratta del registro dei conti di vari funzionari della Contea di Lecce per l’anno fiscale che va dal settembre 1445 all’agosto 1446 (secondo l’uso bizantino, poi continuato dalla burocrazia normanno-sveva, angioina e aragonese), tra cui troviamo quelli che riguardano Gallianum. Infatti il 2 dicembre del 1446 davanti al notarium Iohem Iudicis domno de Liccio si presenta l’erarius2 Angelus Pischiullus dittus villanus de Galliano che, prestando giuramento sul Vangelo (prestito sibi ad santa dey evangelia iuramento), riferisce fedelmente circa le entrate e le uscite dell’università gaglianese. Attraverso questa relazione veniamo a conoscenza di diverse interessanti notizie, qui cerchiamo di esporre in maniera schematica alcune di esse:
NOTA: 1 oncia = 30 tarì, 1 tarì = 20 grana;
1 tomolo = 8 stoppelli corrispondenti a 55 litri.
La curia aveva diversi vassalli nel territorio di Gagliano da cui aveva riscosso differenti somme; per esempio da ciascuno dei diciotto vassalli de tabula aymonis habitantibus partim in terra Galliani et partim in casali Morciani l’erario aveva ricevuto 3 tarì e mezzo, altri quattro vassalli de dicta tabola aymonis versarono 10 grana a testa, mentre alcuni 1 tarì; i vassalli quj intitulantur Simonis Gottofredi pagarono 4 grana mentre quelli qui dicuntur Collitti 6 grana, invece i tre vassalli qui fuerunt Iacobi dommi Nardelli versarono all’erario 15 grana ciascuno. Particolare era il caso dei vassalli che erano tenuti a pagare 1 tarì se in possesso di un aratro trainato da una coppia di buoi (cum pariculo3), solo 10 grana se avevano un solo bue oppure se non possedevano l’aratro ma solo la vanga (cum medio pariculo aut zappatori).
Dall’Universitate et hominibus de terre Ballianiper manus Petri Bactisindaci aveva ricevuto 3 once pro iure concordie taberne.
Diversi terreni appartenenti alla Curia erano stati dati in affitto: Iohanne Carlecta pagò 1 tarì e 16 grana per l’orto nomato de Cellaro, Elia de Gargasulo per orto quj dicitur de lo Singhior 12 tarì e Nicolo boniurono per l’orto nomato de Fecuczuna 4 tarì e mezzo. Anche una casa di proprietà della curia era stata data in locazione a Iohannucio de Ragona al prezzo di 2 tarì.
Gli esattori delle gabelle nell’anno precedente erano stati Elia de Gargasulo et Angelo Grosio, mentre Iohanne Nigro viene citato come ultimo emptore gabelle baiulacionis casalis Pati.
Dall’affitto di certarium piscarium la Curia aveva ricevuto 26 tarì e 6 grana.
L’erario aveva ottenuto da Nicolao Fresino la sesta parte del vino mosto (vinimusti) prodotto nelle vigne denominate chesura grande dalla cui vendita ottenne 2 tarì e 8 grana.
Su coloro che lavoravano il lino (curantibus linum) nei palmenti di Gagliano gravava una tassa, da essa la Curia ricavò 7 grana.
L’erario aveva incamerato un tomolo e sei stoppelli di sale che aveva venduto per 2 tarì e 3,5 grana. Incamerò anche uno staio d’olio da Loysio Sensi emptore fructium olivarum curie.
Il capitano4 della terra de Galliano era Marco de Frisis, la cui giurisdizione si estendeva sia sul territorio di Gagliano sia sui piccoli casali circostanti, infatti egli aveva ricevuto una somma di 3 once e 17 tarì dagli uomini di terre Ballianj et aliorum Casaliumipsius Iurisdicionis in seguito ad una denuncia presentata al capitano stesso e trascritta sull’apposito registro (quaterno denunciaciorum Curie).
Dalla precedente amministrazione (nel 1444-45 la carica di erario era stata ricoperta da Loysio de Sergio mentre Petro Gacto era il sindaco) Angelo Pischiullo aveva ereditato diversi beni (traversiam unam, tabulas duas de abiete, trabes duos de rugolo, plancas quadraginta lapideas, centronos novem, item centronos alias fracta tres, item agutos triginta quatuor et anulos duos de ferro) che aveva in parte venduto. Ad esempio delle quaranta “chianche” in pietra ereditate, venti erano state vendute a Iohannucio de Bisancio, altre tre invece erano state utilizzate per la construcionem stalle Universitate.
Nell’anno fiscale 1445-46 tutte le entrate dell’erario ammontarono a 27 once, 24 tarì e 3 grana (più di metà della somma, 15 once, 21 tarì e 2 grana, fu versata al notaio Tommaso Ranche principalis thesaurario della contea di Lecce) oltre a uno staio d’olio e diverso materiale da costruzione.
Tra le spese dell’erario vengono elencate: lo stipendio del capitano (pari a 7 once l’anno) e quello dello scrivano Iohannucio de Bisantys (12 tarì e 19 grana), i compensi per gli esattori delle gabelle, quattordici plancas utilizzate nella pavimentazione (ad plancandum) dei magazzini della Curia, uno staio d’olio data all’erario di Morciano Michele Peregrino, alcune expensibus extraordinarijs legate al trasporto di materiale lapideo e alijs expensibus minutis. Il totale delle uscite fu di 24 once, 7 tarì e 7 grana, in cassa rimasero 3 once, 16 tarì e 16 grana.
Oltre ai conti dell’ufficio erariale il documento in questione ci consente di prendere in esame anche quelli dei due granetterij et conservatores vittualium Curie5 di Gagliano. Si tratta della dichiarazione giurata di Nicolaus de Bisancio et Franciscus Cutroni (anche se è Angelo Pippus de Galliano a reggere la carica a nome di quest’ultimo) resa davanti al solito notaio Iohem Iudicis di Lecce il 5 dicembre del 1446. I due funzionari gaglianesi, riportando con cura tutte le entrate e le uscite del loro ufficio, ci offrono una serie di informazioni:
I granettieri avevano raccolto durante tutto l’anno vari beni in natura dalle diverse terre di pertinenza della Curia in virtù di differenti tipi di concessione: frumento e orzo erano stati incamerati da cinque vassalli non meglio qualificati, solo frumento ex terris Meianey concesse ad alcuni uomini ad laborandum, orzo ex territorio Corigiarum partim dato ad laborandum sub certa parte et partim ad pastuandum, ancora frumento e una modica quantità di fave pro servitute territorij de Campana. Circa un quarto del frumento e dell’orzo incamerato pervenne invece da terreni concessi sub iure census, mentre dall’affitto di certarum clausorium Curie poco meno della metà di tutto l’orzo riscosso. Dall’affitto di due fosse granarie (fovearum) si ricavò il quantitativo di 2 tomoli e 2 stoppelli di frumento.
Il totale del frumento incamerato fu più di 46 tomoli e rimase quasi tutto “in cassa”. Della grande quantità di orzo raccolto (oltre 240 tomoli), invece, la quasi totalità venne versata a Angelo Villio principali granetterio in Liccio e lo stesso accadde per l’esigua quantità di fave (2 tomoli e 2 stoppelli).
Un’altra uscita dell’ufficio dei granetteri gaglianesi era costituita dalla decima dovuta all’abate Marino Cantori maioris ecclesie Alexanij gravante sulle terre di Mesiani e su quelle que dicuntur de le corrige.
I precedenti granetteri di Gagliano erano stati Nicolaus Marcoaldi e Angelo de Putrunello.
Persone citate nel documento
Petrus
Bactio
sindaco di Valiano
Nicolaus
Boniurono/Bongiurno
abbate
Marinus
Cantoro
maioris della chiesa di Alessano
Iohannes
Carlecta
vassalli
Collitti
vassallo
Marcus
Cucunitzo
Iohannes
Curchio
Franciscus
Cutroni
granetterio di Gagliano
Iohannucio
de Bisancio/Bisantijs
scrivano
Nicolaus
de Bisancio
granetterio di Gagliano
Marcus
de Frisis
capitano
Elia
de Gargasulo
esattore gabelle di Gagliano
Angelus
de Putrimello
granetterio* di Gagliano
Antonius
de Ragone
de Galliano
Iohannucius
de Ragona
Nicolaus
de Ragona
Thomasius
de Ragona
Loysius
de Sergio
erario* di Gagliano
vassallo
Donadeo
Iohannes
Fenesy
Nicolaus
Fresino
Petrus
Gacto
sindaco di Gagliano
Simonus
Gottofredo
Angelus
Grosio
esattore gabelle di Gagliano
notaio
Iohannes
Iudicis
de Liccio
Nicolaus
Marcoaldi
granetterio* di Gagliano
Murine
de Pato
domno
Iacobus
Nardello
Iohannes
Nigro
esattore gabelle di Patù
domno
Michael
Peregrino
erario di Morciano
villano
Angelus
Pischiullus
de Galliano
erario di Gagliano
Angelus
Pippus
granetterio di Gagliano
Prothopapa
notaio
Thomasius
Ranche
principalis thesaurario contea di Lecce
Bartholomeus
Restori
Nicolaus
Rogerio
Paulus
Rogerio
Loysius
Scusi
esattore fructium olivarum di Gagliano
Elia
Trane
Angelus
Villio
principalis granettero di Lecce
fattore
Arcangelus
*in carica nell’anno 1444-45
Toponimi citati nel documento
Chesura grande (vigne “clausorie”)
Cupone
Orti de Rusiano
Orto de Cellaro
Orto de Fecuczana
Orto de lo Singhior
Tabula Aymonis
Terrae de Lombardello
Terrae Meianey/Mesiani
Terrae Ortalium
Terrae de le Corrige/Territorio Corigiarum
Territorio de Campana
Il Quaderno della bagliva di Alessano6.
Nel documento, redatto dai sei baiuli7 della città di Alessano (civitatis Alexani) nell’anno fiscale 1462-63, erano annotate le entrate e le uscite della bagliva alessanese. La prima parte del manoscritto è quella che maggiormente ci interessa, infatti vi si trova il minuzioso elenco di tutte le entrate della bagliva riscosse dal 1 settembre 1462 al 31 agosto 1463: il diritto di piazza (platea), l‘honoratico, la tassa sul controllo dei pesi e delle misure (pro iure mensure), la tassa sulla macellazione degli animali, sulla panificazione e sul carbone, il pedaggio che pagavano i forestieri (scamastratura currum), le pene pecuniarie per i danni alle proprietà private. In tal modo questo registro fiscale ci offre un’immagine unica ed inedita della città di Alessano della fine del Medioevo; immagine che, per alcuni versi, può darci un’idea anche della vita che si conduceva nella coeva terra di Gagliano.
Per esempio possiamo ricavarne l’elenco di beni che i forestieri compravano e vendevano sulla piazza alessanese e sui quali veniva riscossa la platea emptionis o venditionis: cereali (frumenti), vino, frutta e ortaggi (cerasis, melonu, cocumerum), animali (bovium, bacca, mule, equi, capretti, duorum porcorum), carni e pelli, prodotti caseari (casej recocti, lattis et ricotti), vari prodotti ittici (piscium, vopillis, piscium minutorum, sardellarum), attrezzi per l’agricoltura (aratrj, vomeris, forcam, zappe, zappe stricte, petre mularis, farnarios, utrium, barilium, mattrilis et pile reponendis olej), strumenti vari (corde canabe, tabula, ferri, caldararum), tessuti (pannij coloris bleuis, pannij terzaroli coloris rubey, pannore) e fibre tessili (nucley bombicium = bozzoli del baco da seta), lo zafferano (zafaranum) usato per tingere i tessuti o in medicina e le ghiande (valanide) probabilmente usate nella concia delle pelli.
Inoltre tra i frequentatori del mercato alessanese possiamo riconoscere alcuni uomini de Galliano, per l’esattezza nel documento vengono citati: un venditore di pesce, otto che vendono sardelle, uno cocomeri ed infine uno che compra tigillos.
Persone de Galliano citate nel documento
Nicolaus Bisanti
Iohanne Ianucus
Nicolaus Madio
Iohanne Marchia
Nicolaus Marino
Iohanne Monaco
Pastore
Nicolaus Trane
filius Angelacchj
Helia
Sclavo
Il sistema amministrativo e socio-economico di Gagliano in epoca orsiniana.
Attraverso le preziose informazioni estrapolate dai due registri si può ricostruire parzialmente quella che fu la vita di una piccola terra del Basso Salento sotto il governo di Giovan Antonio Orsini del Balzo (1420-1463), principe di Taranto. All’epoca la Terra d’Otranto era la vera roccaforte del potere orsiniano, infatti nella penisola salentina il figlio di Maria d’Enghien possedeva 155 terre per un totale di 10.300 fuochi fiscali, corrispondenti a circa 46.000 persone. I suoi possedimenti erano costituiti dalla Contea di Lecce e da quella di Soleto ereditate dalla madre e dalle terre ereditate dal padre Raimondello8.
Nel 1446 Gagliano era una delle 22 università che facevano parte della Contea di Lecce9; dal Liber focorum Regni Neapolis sappiamo che nel 1443 era stata censita per 71 fuochi fiscali dunque la sua popolazione ammontava a circa 300 persone rendendolo uno dei centri più popolosi della contea10. Negli anni 1459-63 tuttavia le vennero attribuiti 91 fuochi di cui 71 de corpore e 25 sparsi nelle università vicine (Giuliano, Patù, Castrignano, Salignano, San Dana) indice che i confini tra i casali della zona erano ancora fluidi e non ben definiti11.
Ciò risulta evidente anche nel primo dei documenti esaminati quando vengono citati i vassalli di Tabula Aymonis che abitano in parte a Gagliano e in parte a Morciano ma pagano i censi esclusivamente all’erario gaglianese. Dall’inizio del XV secolo l’abitato era fortificato12, veniva qualificato come Terra e la sua giurisdizione si estendeva su di una serie di casali vicini; era sede di un capitano, Marco de Frisis13, che amministrava la giustizia all’interno di un piccolo districtus che comprendeva diverse università (sicuramente Acquarica, Morciano, Salve e altri centri minori tra cui Valiano). L’importanza che Gagliano aveva assunto in questo periodo è testimoniata dal fatto che in tutta la Contea di Lecce vi erano solo cinque capitani, inoltre era anche sede di un distaccamento del fondaco di Gallipoli14. Questo fu probabilmente un periodo di relativa prosperità per la terra de Galliano, infatti nella seconda metà del secolo, quando il centro perse la sede capitaniale, la sua giurisdizione fu notevolmente ridimensionata tanto che l’università gaglianese avanzò diverse richieste al sovrano aragonese (la prima nel 1463, poi nel 1491 e nel 1493) affinché fossero ripristinati i privilegi esistenti ab antiquo ed usurpati dal conte di Alessano15.
Alla metà del Quattrocento, dunque, Gagliano era un centro abbastanza fiorente che contendeva l’egemonia sul territorio circostante ad Alessano, unica città (civitas) del Capo di Leuca in quanto sede vescovile. La sua struttura amministrativa prevedeva una serie di funzionari: un capitano, che era sempre un forestiero di nomina regia (dell’ufficio capitaniale facevano parte anche un giudice e un mastrodatti nominati dall’università), un erario, due granettieri, un emptore fructium olivarum, un sindaco, un baiulo o emptore gabelle baiulacionis e uno scrivano.
Se si esclude il capitano, il resto di questi ufficiali percepiva uno stipendio assai modesto, al di sotto delle possibilità di sussistenza16, quindi non di trattava di funzionari specializzati bensì di uomini del luogo, o di casali vicini, che avevano altre entrate economiche che permettevano loro una vita dignitosa. Questi personaggi godevano di un certo prestigio e potere, conoscevano bene il territorio e i suoi abitanti ed avevano alcune nozioni di scrittura in quanto tutti erano tenuti a redigere un registro; eppure nelle fonti non vengono mai qualificati con il termine onorifico di domno (da cui viene il don che era frequentemente usato nei paesi salentini fino al secolo scorso), il che ci fa pensare che fossero tutti di estrazione popolare benché costituissero la parte più attiva ed intraprendente della società gaglianese; in particolare i baiuli, che prendevano in appalto annuale la carica, dovevano avere una certa disponibilità economica.
Non si può dire la stessa cosa della maggior parte della popolazione di Gagliano formata da contadini che lavoravano terre soggette alla Curia in cambio di un censo in denaro o in natura; dal Quaternus declaracionum principalis curie, apprendiamo che vi erano ben 193 vassalli sui circa 400 abitanti totali dell’università, dunque possiamo immaginare che gran parte del territorio di Gagliano appartenesse al demanio feudale sul quale il principe esercitava l’utile dominio; diviso in appezzamenti di differente estensione, esso era concesso, per consuetudine, agli abitanti dietro l’obbligo di un pagamento di diversa entità. Quelli che pagavano un censo in denaro erano definiti semplicemente vassalli, solo per quattro di essi si faceva una distinzione tra coloro che avevano a disposizione un aratro trainato da una pariglia di buoi (pariculo) e quelli che possedevano un solo animale al giogo (medio pariculo) o semplicemente la zappa (zappatori). Tra coloro che dovevano un pagamento in derrate agricole le distinzioni sono più varie: alcune terre erano date ad extaleum (antico istituto giuridico per il quale il contadino si metteva sotto la protezione di qualcuno in grado di concedergli una terra da lavorare ), altre ad laborandum ad certas partes (si potrebbe trattare di contratti assimilabili alla mezzadria), altre ancora ad pastuandum17 (contratti di lunga durata che prevedevano la concessioni di terreni affinché vi fosse impiantato il vigneto) o pro servitute, inoltre vi erano alcuni uomini che detenevano terre sub iure census. Un’ulteriore forma di fiscalità sui terreni agricoli era la decima che gravava sulle località de le Corrige e di Mesiani dovuta all’abbate della chiesa di Alessano.
Questo sistema di imposizione fiscale sulla terra appare a prima vista ridondante ed oppressivo, tuttavia i censi pagati erano abbastanza modesti18 soprattutto se messi in relazione alla fase di espansione economica che caratterizzò il regno di Giovan Antonio Orsini del Balzo. Infatti il Principe di Taranto fu in grado di realizzare una “sorprendente combinazione tra economia feudale ed economia mercantile […] e il suo operare determinò sicuramente, in un contesto congiunturale positivo, una dinamica economica diffusa sul territorio”19 che garantiva sufficienti livelli di sussistenza anche alla gran massa dei contadini del Capo di Leuca20.
Oltre a questi terreni, la Curia aveva altri possedimenti che dava in affitto: delle clausure (terreni recintati da muretti a secco), alcuni piccoli orti che si trovavano all’interno del centro abitato, una casa e due fosse per la conservazione dei cereali. Nel feudo gaglianese erano sicuramente presenti anche le terre di proprietà privata, dette allodiali, ma purtroppo i nostri documenti sono avari d’informazioni in merito.
Da quanto sopra esposto, risulta evidente l’importanza che all’epoca rivestiva il possesso della terra, difatti l’economia di Gallianum si basava essenzialmente sull’agricoltura. Dalla dichiarazione dell’erario Angelo Pischiullo sappiamo che la produzione agricola era costituita principalmente da cereali: orzo e frumento (i prodotti alla base dell’alimentazione medievale nell’Italia meridionale); si producevano anche fave, vino ed olio. La viticultura era molto diffusa, nel documento si fa riferimento a vigneti recintati (vineis clausorij), all’impianto di nuove vigne e alla produzione di vino (vinimusti), tuttavia è ipotizzabile che si trattasse di una piccola produzione destinata all’autoconsumo o al mercato locale come accadeva in altri centri salentini21. Esisteva, probabilmente, qualche limitazione che colpiva il commercio del vino, si sa per certo che l’università di Valiano pagava una tassa per poterlo vendere al minuto (pro iure concordie taberne).
Importante doveva essere l’olivicoltura, non ne abbiamo testimonianza diretta ma nel Quaderno della bagliva di Alessano è evidente che una consistente parte della produzione olearia alessanese era destinata all’esportazione e la stessa situazione si può ragionevolmente immaginare riguardasse tutto il Capo di Leuca compresa la terra de Galliano.
Per quanto concerne le attività artigianali poche sono le notizie disponibili, si fa solo cenno alla lavorazione del lino che si praticava nei palmenti gaglianesi22. Di più si può dire sulla attività legate al mare, che sicuramente rivestivano un ruolo di un certo rilievo: innanzitutto vi erano sia delle saline e sia delle peschiere che la curia dava in locazione a diversi uomini e pescatori; il pescato (le sardelle) non era destinato solo al mercato interno visto che sulla piazza di Alessano erano presenti numerosi “pescivendoli” provenienti da Gagliano23. Facendo ancora riferimento al quaderno dei baiuli alessanesi, si può avere un’idea anche delle attività commerciali e mercantili che si svolgevano nel Capo di Leuca alla metà del XV secolo. Il mercato della civitas Alexani era frequentato da molte persone provenienti dai centri vicini24, non mancano tuttavia mercanti che venivano dalle città più importanti della provincia (Gallipulo, Licio, Neritonio, Santo Petro-Galatina, Ydronto) o da più lontano, come Antonello de Tricarico e un uomo di Matera, che risultano tra coloro che erano coinvolti nel commercio dell’olio alessanese, oppure Salvagio de Matera che vendeva bestiame. Molto attivi sulla piazza di Alessano erano gli ebrei che commerciavano soprattutto olio, tessuti e pelli25.
A conferma di questi consistenti scambi commerciali, non solo di carattere locale, c’è da segnalare che sia nello scalo marittimo di Alessano (Novaglie) e sia in quello di Gagliano (il Ciolo) esisteva un distaccamento del fondaco di Gallipoli26. Tutto ci fa pensare che una fitta e consolidata rete di scambi, per via di terra e di mare, si estendesse su tutta la zona del Capo e in particolare che Alessano e Gagliano fossero dei poli mercantili di un certo rilievo.
Un altro interessante aspetto che emerge dall’esame delle fonti orsiniane è chiaramente l’alto tasso di conflittualità che caratterizzava la società salentina della fine del Medioevo. Ciò si evince soprattutto dal Quaternus dei baiuli alessanesi che erano tenuti a trascrivere sul loro registro tutte le denunce che ricevevano ed incassare la tassa di mezzo grana per ogni citazione in giudizio; per esempio: a magistro Antonio de Blasio pro citacione facta contra Meli iudeum grana 1/2 oppure a Geronimo Blanco pro citacione facta contra Gaspare Torsellum et a Gaspare Torsello pro citacione facta contra Angelum Marsilium et a Pione iudeo pro citacione facta contra Petrum Colinum grana 1 1/2.
Annotazioni di questo genere si ripetono con frequenza nel registro di Alessano, se ne contano oltre 50 che vanno dal settembre 1461 all’agosto 1462. In aggiunta, nel documento si trova anche una lista di 12 uomini denunciatis […] pro iniuris che sono costretti a pagare una multa (es. Angelo Marsilio denunciato per Radam Sclauam tarì 1). Inoltre un costante fattore di conflitto sembra fosse costituito dagli animali al pascolo, infatti vengono riportati circa una quarantina di casi di persone multate per i danni causati (dampnum inferctum) dalle loro bestie sui coltivi della curia o di privati cittadini (es. Antonio Carroppa pro capra una denunciata per Leonardum Tufum).
Se consideriamo il fatto che i baiuli erano responsabili solo della giustizia civile27, e quindi sul loro registro non erano riportati i casi giudiziari più gravi, è palese quanto gli episodi di conflitto e di violenza fossero frequenti nella società alessanese dell’epoca. Tuttavia questa situazione era comune in molti centri salentini (vedi Appendice) e Gagliano e i gli altri villaggi del Capo non dovevano fare eccezione. Una prova di questa diffusa conflittualità, che non riguardava solo i privati cittadini, si trova proprio nel registro gaglianese dove si riporta che il capitano Marco de Frisis fu costretto a ricomporre una lite tra l’università di Valiano e i casali vicini.
Conclusioni.
I documenti dell’Archivio del Principato di Taranto fin qui esaminati ci restituiscono un quadro parziale, ma ancora inedito, della Gagliano di metà Quattrocento, una terra, in fase di espansione economica e demografica, che esercitava la sua influenza sul territorio circostante. A conferma di ciò possiamo notare che, nonostante guerre, malattie e calamità naturali che flagellarono il Salento per tutto il XV secolo, tra il 1447 e il 1545 la sua popolazione triplicò passando da 71 a 223 fuochi28. A questo incremento demografico corrispose un certo progresso economico e sociale. Dalle nostre carte, s’intravede una comunità rurale che viveva di agricoltura ma che era attiva anche nella pesca e nelle attività commerciali; una società che era costituita essenzialmente da contadini legati alla terra del signore (vassallis) ma nella quale cominciava ad emergere un certo numero di personaggi, i funzionari locali, che paiono differenziarsi per competenze (sapevano scrivere e tener di conto) e disponibilità economica29. Insomma si ha la nitida impressione di trovarsi di fronte ad una società dinamica ed in fase di sviluppo, operosa ed economicamente attiva, in cui non mancavano i contrasti ed un elevato tasso di violenza.
In conclusione, si può ragionevolmente ipotizzare che l’età orsiniana fu per la terra de Galliano un periodo di prosperità durante il quale il piccolo centro si sviluppò fino a diventare un punto di riferimento per tutto il Capo di Leuca e a rivaleggiare con la civitas Alexani per l’egemonia sul territorio leucadense. L’ipotesi pare credibile e andrebbe confermata, o meno, attraverso lo studio degli altri documenti appartenenti all’Archivio del Principato di Taranto che contengono notizie su Gagliano30.
Ringraziamenti.
Un dovuto riconoscimento va ad Antonio Ippazio Piscopello che mi ha fatto conoscere, e procurato, i manoscritti orsiniani; senza la sua proverbiale curiosità e i suoi stimoli questo breve lavoro non sarebbe stato nemmeno ipotizzabile.
Note
1 ASNA, Sommaria, Diversi, n°170, cc. 207v-212, 226. Cfr.: L. Petracca, L’archivio del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo, in La signoria rurale nell’Italia del Tardo Medioevo 2 Archivi e poteri feudali nel Mezzogiorno (secoli XIV-XVI), a cura di F. Senatore, Firenze 2021, pp. 400 e 406; L’archivio del principato di Taranto conservato nella regia camera della Sommaria. Inventario e riordinamento, a cura di S. Morelli, Napoli 2019, pp. 38-43.
2 L’erario di un casale era, nell’ambito del sistema amministrativo del Principato di Taranto, un funzionario di grado minore che incamerava e rendicontava su un apposito registro le entrate fiscali dirette riscosse dai vari funzionari che operavano nel feudo di sua competenza, allo stesso modo egli annotava gli stipendi pagati e le spese sostenute. Egli gestiva anche i beni mobili e immobili appartenenti alla curia.
3 Il temine si è conservato nel salentino paricchiu, coppia di animali, pariglia; è attestato anche nel dialetto di Salve (cfr. G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Martina Franca (Ta), 2007, p. 453).
4 All’interno dell’amministrazione locale, il capitano era il funzionario di grado più alto, era l’uomo di fiducia del principe che controllava l’operato degli altri funzionari e che amministrava la giustizia penale avendo anche compiti di polizia. Solo i centri maggiori avevano un capitano che era sempre un forestiero.
5 Anche in questo caso si tratta di funzionari locali di grado inferiore addetti ad incamerare i diritti in natura e a conservare le derrate alimentari appartenenti alla Curia.
6 ASNA, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1. Cfr.: L. Petracca, op. cit., pp. 394 e 415; S. Morelli, op. cit., p. 116; V. Rivera Magos, I conti erariali di feudi nella I serie delle Dipendenze della Sommaria dell’Archivio di Stato di Napoli (XV secolo): per un nuovo inventario ragionato, in La signoria rurale nell’Italia del Tardo Medioevo 2 Archivi e poteri feudali nel Mezzogiorno (secoli XIV-XVI), a cura di F. Senatore, Firenze 2021, p. 359.
7 Anche in questo caso si tratta di funzionari di grado inferiore che prendevano in appalto l’ufficio della bagliva per la durata di un anno.
8 Esse includevano la terra di Montesardo, i casali di Montesano, Melissano e parte di Cerfignano, i castelli di Tutino e Neviano, il casale di Pozzo Mauro, il territorio del Fano, la terra di Specchia de Praesbiteris con i casali di Tiggiano e Caprarica del Capo (cfr.: S. Morelli, Tra continuità e trasformazioni: su alcuni aspetti del Principato di Taranto alla metà del XV secolo, distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”, 1996, p. 5; L. Petracca, Politica regia, geografia feudale e quadri territoriali in una provincia del Quattrocento meridionale, in Itinerari di ricerca storica, a. XXXIII – 2019, numero 2, pp. 121-122).
9 Nel 1446 essa comprendeva, oltre a Lecce: Arnesano, Carmiano, Martignano, Magliano, Erchie, Roca, Borgagne e Fasolo, Corigliano, Melpignano, Mesagne, Marti, Gagliano, Carovigno, Castro, Marittima, Celsignano, Cerfignano, Morciano, Salve, Acquarica de Lama, Mottola. D’altra parte il casale di Gagliano faceva parte del Principato di Taranto già dal 1294 (cfr.: M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le), 2004, pp. 29-30).
10 F. Cozzetto, Mezzogiorno e demografia nel XV secolo, Soveria Mannelli (CZ), 1986, p. 137. Per fare un paragone con i centri vicini, dallo stesso documento apprendiamo che Specchia contava 112 fuochi, Alessano 92, Tricase 72, Montesardo 55, mentre tutti gli altri casali della zona erano inferiori ai 40 fuochi.
11 C. Massaro, Potere politico e comunità locali nella Puglia tardomedievale, Galatina (Le), 2004, pp. 102-104.
12 M. Ciardo, op. cit., pp. 43-44.
13 I de Frisis sono attestati come feudatari in Terra d’Otranto già nel secolo precedente, infatti nel 1377-78 Marco de Frisis era feudatario di Cutrignano, S.Marco e Giuliano (cfr. M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 196).
14 S. Morelli, op. cit., 1996, p. 9.
15 C. Massaro, op. cit., pp. 102-105. Nel 1463 “l’università di Gagliano avanzò due richieste, alle quali il sovrano non esitò ad apporre il suo placet: <<che tenga et posseda tucti li vassalli ha havuti a li casali et altri lochi>> così come li ha <<tenuti et posseduti>> al tempo di Maria d’Enghien e del principe Giovanni Antonio; e che i suoi ufficiali mantenessero la giurisdizione sullo stesso districtus di casali, sul quale era stata esercitata in passato e come di recente doveva essere stato ribadito con una publica sententia” (p. 102).
16 S. Morelli, op. cit., 1996, p. 11.
17 Da cui l’italiano pastino ed il salentino pastanu, vigna giovane (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 457).
18 I capitani avevano uno stipendio di 36/30 once l’anno pari a circa 8 grana al giorno che era paragonabile a quello di un bracciante agricolo pagato 8/10 grana per giornata (per arare con la zappa o con l’aratro 10 grana al giorno, per mondare gli ulivi 13 grana, per spaccare la legna 5 grana, per raccogliere legna 6 grana, per roncare la terra 5 grana, per potare la vigna 10 grana, per il maestro fabricatorum 13 grana). Irrisorio era invece lo stipendio di 6 grana al mese di erari, scrittori e fundicari (cfr. S. Morelli, op. cit., 1996, p. 11).
19 C. Massaro, op. cit., p. 69.
20 Le condizioni di vita durante il Quattrocento erano sicuramente migliori rispetto al secolo precedente (basti pensare alla peste del 1349-51 e alla grande crisi del Trecento) e a quello successivo in cui si verificò un aggravio della pressione fiscale che ridusse il quantitativo di prodotti agricoli destinati al consumo o al mercato (cfr. L. Petracca, Geografia feudale e poteri signorili nel Salento tardomedievale, in Eunomia IX, n.s. 2020, n°2, pp. 196-197).
21 C. Massaro, op. cit., pp. 32-33.
22 Le piante di lino venivano lasciate a macerare nelle grandi vasche presenti nei palmenti in modo da poterne estrarre la fibra tessile.
23 Il commercio del pesce nel mercato alessanese sembra essere monopolio degli uomini di Corsano, Gagliano e Tiggiano.
24 Si trovano uomini di Acquarica, Arilliano, Barbarano, Castiglione, Castriniano, Castro, Craparica, Cuniano (Lucugnano), Cursano, Galliano, Iuliano, Macurano, Montesardo, Morchiano, Pato, Presicio, Rufiano, Rugiano, Salve, Scurrano, Sepleczano, Specla (Specchia), Tigiano, Tricasio, Turri (Torrepaduli).
25 All’epoca numerose comunità ebraiche erano presenti sul suolo salentino: Lecce, Nardò, Copertino, Gallipoli, Otranto. Dal documento della bagliva di Alessano apprendiamo che vi era circa una dozzina di iudeis habitantis in dicta civitatis Alexani et reputatis pro exteris dediti al commercio di olio ed altre merci; una comunità israelitica esisteva anche a Specchia (Yarode iudio de Specla).
26 Nel 1458-59 il fondaco di Gagliano sembra esser stato molto più attivo e trafficato rispetto a quello alessanese, infatti i proventi del primo corrispondevano a 16 once e 18 tarì mentre del secondo erano solo 3 once e 6 tarì (cfr. S. Morelli, op. cit., 1996, p. 9).
27 Essi non potevano giudicare le cause in criminalibus (che prevedevano la pena di morte, l’esilio o la mutilazione) o la cui ammenda era eccedente il valore di un augustale, questi reati più gravi erano di competenza del capitano.
28 L’incremento demografico fu meno accentuato nei maggiori centri del Capo di Leuca, infatti nello stesso periodo Alessano passò da 92 a 120 fuochi, Montesardo da 55 a 93, Specchia da 112 a 157, Tricase da 74 a 157 (cfr.: M. A. Visceglia, op. cit., p. 89).
29 Una caso dell’emergere di un ceto di amministratori locali si ravvisa con la famiglia de Sergio: Loisio era stato erario di Gagliano nel 1444-45, mentre nel 1461/62 l’erario di Otranto risulta esser stato il notaio Giacomo de Sergio di Gagliano (cfr. L. Petracca, Il ceto notarile in una provincia del Mezzogiorno d’Italia (sec. XV). Formazione, carriere e mobilità sociale, in Stud. hist., H. a mediev. 41 (1), Salamanca, 2023, p. 175).
30 Notizie su Gagliano sono contenute in: il Quaderno della bagliva di Gagliano (1457-58), ASNA, Sala Inventari, n°314, 653 VIII/2; i Conti degli ufficiali che operavano nelle università di Terra d’Otranto, ASNA, Sommaria, Diversi, II Numerazione, n°247, cc. 133-143 e cc.146-147; il Quaderno di Nucio Marinacio, ASNA, Sommaria, Diversi, I numerazione, n°131.
L’articolo è stato pubblicato su Controcanto, anno XX, numero 1, Alessano, 2024.
La non casualità, almeno nelle mie intenzioni, dell’associazione tra le due figure di testa sarà chiara solo alla fine e non è un espediente-ricatto per impegnare il lettore fino all’ultima parola: semplicemente non sapevo quale fosse il punto migliore dove piazzarle.
Dell’ istituzione neritina nominata nel titolo, della cui produzione nulla è sopravvissuto, mi ero già occupato1, giungendo alla conclusione, dopo aver motivato le mie perplessità, che quasi sicuramente la notizia della sua esistenza era un’invenzione del Tafuri, ispirata, come le altre poi definitivamente smascherate, dall’intento apparentemente nobile (come lo era il titolo di conte che poteva vantare il personaggio che fra poco conosceremo …) ma in realtà offensivo della storia e, in genere, della cultura, di nobilitare le memorie cittadine. Quanto ora mostrerò mi ha fatto sobbalzare sulla mia amica sedia a rotelle e credo che a tutti sembrerà, ad una prima lettura, la classica pistola ancora fumante dopo aver sforacchiato la mia maliziosa ipotesi ed aver restituito al Tafuri parte della verginità perduta.
Passo al concreto e ligio alla civiltà dell’immagine (e, purtroppo, dell’apparenza, ma non in questo caso), al documenti ancora una volta giunto sotto i miei occhi per puro caso e che ritengo finora sconosciuti, riservandomi di tornare alle parole per commentarlo. Esso è in inglese, lingua che non conosco, e sarei grato a quel lettore che notificasse la presenza di qualche errore nella mia traduzione, perché in questi casi anche un’imprecisione può essere devastante.
Catalogo della straordinaria collezione di splendidi manoscritti principalmente su pergamena in varie lingue d’Europa e d’Oriente, formata dal signor Guglielmo Libri, l’eminente collezionista, che è obbligato a lasciare Londra in conseguenza della cattiva salute, e per questa ragione a mettere in vendita questo tesoro letterario. Tra questi mille manoscritti si possono trovare: BIBBIA LATINA, secolo XI, con miniature; I QUATTRO VANGELI, in greco, secoli X-XI, alcune copie de GLI EVANGELISTI, in latino, del secolo IX con miniature in stile bizantino; vari LEZIONARI del IX e X secolo , con miniature: un ampio numero di PADRI DELLA CHIESA, incluso S. Gregorio di Nissa, in greco, secolo IX, S. Giovanni Crisostomo, in greco, secolo X, etc; due importanti manoscritti di S. CIPRIANO, uno dell’ VIIl, l’altro del IX secolo, differenti lavori di S. AGOSTINO, S. GIROLAMO, S. GREGORIO IL GRANDE, S. ISIDORO, etc. etc., tutti dell’VIII, IX, X e XI secolo; BEDA CONTRO MARCO, secolo VIII, contemporaneo con l’autore; la STORIA DEGLI ANGLI di Beda, secolo XI, VITE DI SANTI, secoli IX, X e XI, con antichi disegni o miniature di scuola anglo-sassone; alcune collezioni di LITURGIE, in greco o in latino, con la musica antica scrittabet secoli IX, X e XI; il NUOVO DIGESTO DI GIUSTINIANO, secolo XI-XII, GRAMMATICI (secolo X). Molti degli scrittori greci e quasi tutti i latini classici, inclusi LUCREZIO (secolo XIV), LUCANO (secolo XIII), CLAUDIANO (secolo XII), VEGEZIO (secolo XI), CENSORINO, PRUDENZIO (secolo X), DONATO (secolo IX), PRISCIANO (secolo XI), BOEZIO (secolo XI), CASSIODORO (secolo IX), etc. etc.
Lavori di matematici, medici e altri scienziati, compreso il primo manoscritto esistente, contengono moderne figure numeriche.
Antichi poeti e prosatori italiani; lavori in dialetto limosino; portolani e antiche derragliate mappe; poeti in francese antico, i romanzi inediti di Chibalrg, poesia in inglese antico; un’ampia collezione di lavori orientali, ORE ed altri libri devozionali, con magnifiche miniature di varie scuole, maniscritti autografi di TASSO, GALILEO, KEPLERO, LEIBNITZ, etc., la quale collezione sarà venduta all’asta dagli incaricati Samurl Leigh Sotheby & John Winkilson banditori di proprietà letteraria e lavori che spiegano le arti fini presso la loro casa in Wellington Street, 3, Strand, lunedì 28 marzo 1859, e (eccetto domenica) all’unana precisa ogni giorno. Può essere visualizzata tre giorni prima e cataloghi alla mano.
Stampato da F. Davy e Bons, 197, Long Aurd, Londra
Il frontespizio di questo catalogo, al di là di un pizzico di enfasi pubblicitaria, fa comprendere anche ad un profano il valore della collezione messa all’asta, per la quale oggi, solo per assicurarla, bisognerebbe sborsare milioni di euro. E solo quella che ancora oggi è forse la più importante e famosa casa d’aste del mondo, cioè Sotheby, poteva gestire l’operazione. Famigerato invece è, più che famoso, il nome dell’eminente collezionista, il fiorentino Guglielmo Libri (1802-1869) nella forma più breve, Guglielmo Bruto Icilio Timoleone Libri-Carrucci nella più estesa.
Probabilmente chissà quante volte il suo cognome avrà evocato il detto latino nominaomina (i nomi sono presagi) a causa di un amore forse eccessivo e non proprio disinteressato per i libri. Le sue avventure giudiziarie iniziarono precocemente , quando nel 1826, fu accusato quanto meno di scarsa vigilanza, la quale aveva reso possibile la sparizione di alcuni preziosi libri dalla biblioteca dell’Accademia dei Georgofili, della quale per pochi mesi era stato il direttore. Considerando il numero e il valore delle opere citate nel catalogo, chiunque, credo, sulla scorta di questa impresa iniziale si lancerebbe in facili illazioni , ma va detto che il Libri, studioso validissimo di matematica e fisica ed autore di parecchie pubblicazioni soprattutto sulla prima, con la concretezza dei numeri aveva dimestichezza e, dopo che il primo processo si concluse con un nulla di fatto perché si preferì evitare lo scandalo, non perse mai il vizietto ed anche in Francia, dove si era trasferito, subì denunzie, archiviazioni, confisca dei libri sicuramente sottratti e di quelli contraffatti.
Tale inarrestabile (non lui che poteva contare su protettori forse pure conniventi, se non complici) esercitò poi in Inghilterra, dove si era rifugiato, fino alla condanna, almeno morale, definitiva, che però giunse post mortem. Il documento che ho presentato è uno dei numerosissimi cataloghi da lui stesso curati per una delle numerose aste che tenne in Francia prima ed in Inghilterra poi dal 1847 al 1865. Sfogliandolo, a p. 180 s’incontra la scheda n. 811.
POESIE E PROSE ITALIANE, del Cinque-Cento, la maggior Parte INEDITE folio, SAEC. XV ON PAPER
Una raccolta di poesie inedite negli autografi degli autori, principalmente di, o indirizzate a Giovanni Geronimo Acquaviva, duca d’Atri, poeta egli stesso di non cattiva fama. Tra questi versi figurano i poemi originali di “El Capitan Poeta Marcantonio, Bernardino Rota, Giovanni della Casa, Coppetta, Scipione Ammirato, Eusebio Statiera, Muscettola” (che, da una delle poesie, risulta essere stato il segretario dell’Accademia del Lauro), Cambi e diversi altri tra i più celebri poeti italiani del Cinquecento. Tiraboschi e Mazzuchelli parlano a lungo del merito letterario di alcuni membri dell’illustre famiglia napoletana degli Acquaviva, e della protezione da loro data agli uomini più dotti del Cinquecento. Belisario Acquaviva fondò a Nardo, città di provincia del regno di Napoli, un’Accademia detta del Lauro, la quale fu celebrata dal Sannazzaro, e questo volume contiene una grande varietà di composizioni indirizzate alla stessa Accademia, al tempo di Giovanni Geronimo Acquaviva (Duca d’Atri) nipote del fondatore. Il volume contiene anche numerosi saggi in prosa di argomento scientifico e storico scritti dallo stesso Duca, letti senza dubbio alle riunioni dell’Accademia. I nomi dei diversi autori, quando non sono scritti dall’autore stesso in calce alla carta, sono spesso scritti di mano contemporanea, probabilmente dal Segretario dell’Accademia. Dalle notizie risulta che molte di queste poesie sono autografe di Bernardo Tasso, padre del grande Torquato, e poeta egli stesso di grande celebrità. Questi scritti originali, scritti da uomini illustri appartenenti ad un’Accademia estinta da quasi tre secoli, sono molto interessanti.
Proprio questa scheda è stata la causa prima (perché al frontespizio sono arrivato dopo) dei ripetuti sobbalzi di cui ho detto. Parole grosse come autografi (!), nome e cognome del segretario dell’Accademia e degli autori, loro firma in calce o, in alternativa, annotazione del segretario; nemmeno gli archivi dell’Arcadia, che pure pubblicò a più riprese i lavori dei suoi soci, possono vantare un simile documento.
L’entusiasmo e l’eccitazione hanno così ben presto ceduto il posto alla necessità di riflettere e controllare, perché, in ogni caso, non è bene fidarsi ciecamente.
Senza soffermarmi sul Mazzuchelli (1707-1765) e sul Tiraboschi (1731-1794), che, con una metodologia che eredita l’ipse dixit del passato e anticipa il copia-incolla del futuro, seguono il Tafuri (1695-1760), noto che gli accademici citati non sono cronologicamente compatibili con Belisario (1464-1528)3, ma lo sono perfettamente col dedicatario, il nipote alias il Guercio di Puglia (1600-1665), per cui è da pensare, in base a questo documento, che l’accademia si sarebbe estinta con lui4.
Il catalogo alla fine contiene una serie di tavole riproducenti i frontespizi delle opere più significative. Purtroppo la scheda 811 è tra quelle mancanti di tale prezioso complemento che sarebbe stato di grandissima importanza e ciò appare strano in chi sa vendere bene il suo prodotto, dopo il notevole spazio riservato alla scheda e le parole conclusive che ne sottolineano il rilevantissimo interesse non solo antiquario ma anche per la storia della letteratura che definire, in questo caso locale, sarebbe riduttivo.
Appare evidente che Poesie e prose italiane è il titolo dato dal collezionista all’insieme delle scritture, autografe o meno che siano, prese chissà quando e chissà dove. Moltissime opere messe all’asta nei vari cataloghi sono raccolte di fogli manoscritti o, addirittura, di loro frammenti5, messe su dal Libri con lo stesso criterio. Alcune, addirittura, mancano del titolo (probabilmente perché non ancora pronte ad essere immesse sul mercato): è, per esempio, il caso di Fragmenta manuscriptorum6 , di seguito riprodotto, titolo datole nel 1888, come si legge in calce, data in cui avvenne il recupero di cui dico in nota 7.
Se in una illusoria vita precedente fossi venuto a conoscenza dell’asta di quel fatidico lunedì 28 marzo 1859, avrei mobilitato, insieme con i pochi perversi come me che ancora nutrono questi futili interessi, tutta Nardò per raccogliere i fondi necessari per partecipare all’asta con qualche speranza di aggiudicarci l’oscuro oggetto del desiderio, pur col rischio, sempre in agguato, di portare a casa una patacca…
Invece, non so neppure se il manoscritto fu aggiudicato, tanto meno a chi, e se l’archivio della Sotheby ne conservi o meno memoria. La rete riserva sempre inaspettate e inimmaginabili sorprese e non è detto che qualcuno, magari dalla Cina, punto d’arrivo del precedente percorso Italia (se non Salento)>Inghilterra, non ci faccia sapere di essere il fortunato attuale proprietario del manoscritto.7
In conclusione: essendo quanto meno improbabile e in tempi brevi il suo ritrovamento col conseguente studio meticoloso per stabilirne l’autenticità, non escludo che esso sia il frutto di un abile ma truffaldino confezionamento (non dico di chi, dovendo essere arcinota la favoletta del contadino che per attirare l’attenzione e darsi importanza gridava al lupoal lupo! quando il lupo non c’era e poi, a differenza delle prime volte, nessuno venne in suo aiuto quando il lupo c’era veramente).
Se il mio sospetto, poi, dovesse rivelarsi infondato, non potendomi cospargere il capo di cenere, magari con quella di un albero di alloro, sarebbe giusto, qualora fossi cremato, che le mie ceneri fossero disperse sulla la chioma di un albero, naturalmente e sempre, di alloro…
Nel frattempo, però, spero di non restare vittima di questo ricorrente incubo ad occhi aperti…
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1 Armando Polito, Giovanni Bernardino Tafurie la cinquecentesca Accademia del lauro di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2022, n. 302 della collana Sallentina fragmenta.
2 Catalogue of the extraordinary collection of splendid manuscripts,
3 Giovanni della Casa (1503-1556), Bernardino Rota (1509-1574), Scipione Ammirato (1531-1601), Antonio Muscettola (1628-1679); nulla son riuscito a reperire su Eusebio Statiera e Cambi, nonostante il fatto che per quest’ultimo la citazione del solo nome faccia pensare, come nel caso del Muscettola, ad una acquisita notorietà.
4 Fra l’altro questa ricostruzione storica, che mi appare strumentale a fini commerciali, contrasta, anche nell’onomastica, con quella più ampia fatta (ma, anche in questo caso le fonti non sono citate…) da Camillo Minieri Riccio in Notizie delle Accademie istituite nel Regno di Napoli, in Archivio storico per le province napoletane, anno. III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, nella sezione dedicata a Nardò a p. 294, dove si legge: Nell’aprile dell’anno 1577 essendo stato creato vescovo di Nardò Cesare Bovio, diede subito commessione a Scipione Puzzovivo di restaurare l’estinta Accademia dell’Alloro, di fatti in breve fu istituita l’Accademia che prese il nome degli INFIMI, e vi furono ascritti socii il detto Puzzovivo, Bartolommeo e Bonaventura Tafuri fratelli, Paolo Manzo, Girolamo Gaudioso e Tommaso Colucci, Girolamo de Franchis vescovo di Nardò e poi Colonio Ciaia, che nell’anno 1652 successo al de Franchis, si adoperarono sempre al lustro di questa Accademia, alla quale appartennero pure il P. Tommaso Pinto carmelitano… Nell’anno 1660 allorché andò vescovo a Nardò Girolamo de Coris l’Accademia fu messa in più lustro, avendo disposto che oltre alle lettere ed alle scienze si trattassero pure il dritto civile ed il canonico, e costituendosi egli Principe di quel consesso, e nuovi socii vennero ammessi, fra quali Giacinto Zuccaro, Gio. Bernardino Manieri, Gio. Lorenzo Cristiano carmelitano, Giulio Cesare Caballone, e Giuseppe Piccione. Alla fine decadendo di anno in anno, questa Accademia si estinse sullo scorcio del secolo XVII
5 Appropriarsi indebitamente, cioè rubare, un libro, magari per venderlo, è di per sé odioso; strappare le pagine di alcuni e unirle come trofeo è ancor più criminale. Di questa attività il Libri resterà per sempre l’indiscusso campione mondiale e un emulo in miniatura (…) appare al confronto Marino Massimo De Caro, condannato in via definitiva nel 2015 per lo scandalo relativo alla gestione della Biblioteca dei Girolamini, della quale era stato nominato, pur non avendo titolo, direttore dall’allora ministro dei beni culturali Giancarlo Galan (condannato pire lui in via definitiva nel 2014 per lo scandalo del MOSE), del quale fino al momento della nomina era stato consulente (!).
6 La raccolta, ma non è la sola, è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia col titolo Recueil factice composé de 6 manuscrits ou fragments de manuscrits différents (segnatura: Département des Manuscrits. NAL 1629).
7 Purtroppo, considerando l’anno in cui l’asta si svolse, il manoscritto non faceva sicuramente parte di quelli venduti nel 1847 dal Libri a Lord Bertram, quarto conte di Ashburnham, dai cui eredi lo stato italiano ne acquistò una parte nel 1884 depositandoli presso a Firenze nella Biblioteca Medicea Laurenziana, mentre la restante parte fu acquistata quattro anni dopo dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Del manoscritto non v’è traccia neppure in Inventario delli beni remasti nell’heredità del quondam eccellentissimo signor don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragonia conte di Conversano, Congedo, Galatina, 1983.
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