Nessuna delle due immagini di testa, nemmeno la prima, è frutto di un fotomontaggio o parto … spiritoso di un’intelligenza artificiale ancora ingenua ma non per questo innocua. Il loro accoppiamento, allora, vuole alludere al disperato tentativo di sottrarre le memorie del passato alle ingiurie del tempo e degli uomini, quale può essere quello di far rivivere, senza cambiarne l’antico nome, una masseria fortificata ridotta ad un rudere in un resort di livello internazionale o, più modestamente, di affidare ad un nome comune dialettale il compito di veicolare l’attenzione del consumatore verso un prodotto che con quella parola ha una stretta connessione? I dubbi generano dubbi e, in un caso e nell’altro, c’è da chiedersi se l’intento pubblicitario, col fine legittimo del giusto profitto, alla fine soffochi ogni, sacrosanta quando c’è, aspirazione di promozione culturale non schiava di un rozzo consumismo. La stessa accoppiata proposta proprio all’inizio va interpretata esclusivamente come un furbesco espediente per suscitare curiosità nel potenziale lettore? E il testo che segue sarà in grado di fungere da commento alla seconda delle due immagini? Se le domande resteranno senza risposta (comunque particolarmente gradite saranno quelle a mio sfavore, purché non genericamente motivati), il post sarà stato come una bottiglia consumata tanto distrattamente da non rendersi conto di aver magari bevuto vino di pessima qualità e pagare il conto senza protestare. Unica differenza è che qui la consumazione non sarà costata nulla, se non una perdita di tempo, per la quale mi scuso, in caso di mia colpa provata, fin da adesso.
Il qualu del titolo è la varante neritina tra le numerose in uso in Salento e che hanno l’esatto corrispondente italiano in boccale, il cui albero genealogico appare ricostruito in tabella.
Come vedremo, non tutte le varianti salentine hanno subito quest’incrocio, ma, in compenso, sono state interessate da altri fenomeni, dei quali si rende conto dettagliatamente e con un ordine che anche visivamente dà l’idea del percorso più o meno lungo seguito da ogni singola variante, partendo, come scienza vuole, da baucalem, accusativo di baucalis.
VARIANTI CON INCROCIO
vuccale (Castrignano dei Greci, Galatina). Trafila: baucalem>*baucale>*bucale>*buccale>vuccale (normale passaggio b->v– ed altrettanto normale passaggio –em>-e. L’incrocio con bocca è tradito da –cc-.
vuccala (Galatina). Stessi fenomeni del precedente, ad eccezione di –em passato ad –e per regolarizzazione della desinenza al femminile.
uccali(Lizzano). Incrocio con ucca che, rispetto a bocca (che è dal latino buccam) mostra normalissima aferesi di b– attraverso un *vucca
VARIANTI SENZA INCROCIO
ucala (Parabita e Avetrana). Aferesi di b– e regolariizzazione della desinenza al femminile attraverso un *vucali
ucalu (Castro, Taurisano). Come il precedente, ma con regolarizzazione della desinenza al maschile.
uquala (Vernole). Come in ucala, ma con esito –ca->-qua–
qualu (Galatone, Nardò, Otranto, Seclì). Rispetto alle quattro varianti precedenti l’aferesi appare più imponente avendo interessato non un solo fonema ma l’intera sillaba. Due appaiono le trafile possibili: 1 baucalem>*bucale>*vucale>*vuquale>>*vuqualu qualu; 2) baucalem>*bucale>*bucalu>*vucalu>*vuqualu>*uqualu>l’uqualu>*lu qualu (errata discrezione dell’articolo indotta dalla pronuncia simile a quella del nesso precedente)>qualu. In più è da notare l’esito –ca->-qua-, come in: latino tardo caldària (attraverso un *calidària, a sua volta dal classico càlidus=caldo)>italiano caldaia>salentino quatàra.
calu (Otranto). Vale quanto detto per qualu, a parte la conservazione di –ca-.
Se le varianti salentine non incrociatesi con bocca mostrano maggiore fedeltà alla voce più antica, greca o latina che sia, ucala ha avuto l’onore di essere registrata da Antonio Casetti e Vittorio Imbriani in Canti popolari delle provincie meridionali, Loescher, Roma Torino Firenze, 1872, v. II, pp. 209 e 350, con tre canti d’amore raccolti il primo a Morciano, il secondo (variante del primo) e il terzo a Lecce e a Cavallino. Ne riporta il testo, corredandolo di note laddove mi è sembrato opportuno farlo.
Ohi, aceddhuzzua de la tramuntana,
‘nnucimene novab de ninella mia!
Li dici ca sto ‘mmienzu ‘na funtana,
sto ‘mmenzu l’acqua, e mme moru de site;
li dici mme nde manda ‘na vucala,
ca sulu l’acqua soa stuta la sitec.La pruvò puru ‘na vecchia macarad,
turnau de quindici anni caruseddhae.
________
a uccellino
b recami notizia
c perché solo l’acqua sua smorza la sete
d strega. La voce è forma aggettivale sostantivata da maga.
e giovinatta
M’aggiu partutu ‘mposta de Putenza
pe’ visitare tie, cara speranza;
de l’angeli de celu nd’hai la scenza,
de Marta e Madalena nd’hai la stampaa.
Tie sinti ‘na ucala de Faenza,
fore stangatab e dintru la sustanza;
tie parli a tutti, a mmie nu’ mme dai ‘denziac,
beddha, nu’ mme levare la speranza.
________
a l’aspetto simile
b alla lettera stagnata, cioè smaltata, lucente
c udienza, ascolto
Lu bene mmiu, sta mete alla funtana,
stae intru l’acquaa e more de la site.
Dinni ca nni nde mandu ‘na ‘ucala,
de quist’acqua la mmia cci stuta siteb.
Ca ci nde bie ‘nu malatu, sana
e ci nde bie ‘nu mutu, nde faeddhac;
e ci nde bie ‘na vecchia masciarad,
‘ddentae de quindici anni caruseddha;
e si nde bie quiddha giojuzza cara,
nde tornaf li surdati de la ‘uerra.
______
a La punteggiatura va corretta così: Lu bene mmiu sta mete, alla funtana
stae intru l’acqua (Il mio bene sta mietendi, sta alla fontana dentro l’acqua)
b con quest’acqua ci smorza la mia sete
c favella, parla
d strega.La voce è forma aggettivale sostantivata da mascìa=magia
e diventa
f ne fa tornare
Di più fresca, anche se non durevole, memoria è forse il proverbio che recita: Tantu vae e bbene l’ucala ti intra ‘llu puzzu, ca ‘nci lassa l’àsula (Tanto sale e scende il secchio dentro al pozzo, che ci lascia il manico). Da notare l’adattamento metaforico di ucala per secchio e di àsula1 per manico). Tale uso metaforico, però, non appare esclusivo del Salento, come mostra lu calu (tal quale la variante prima registrata per Otranto) di una poesia di Giovanni Meli (1740-1815), che di seguito trascrivo (da Opere, Di Marzo, Palermo, 1857, p. 282) con l’aggiunta, anche qui, di qualche nota.
L’Ingratitudine, o la Vecchia e lu Porcu
‘Na vecchia, chi tiratu
si avia da un puzzu l’acqua,
nni sdivacavaalu calu
‘ntra un lemmub, e poi si sciacqua.
Un Porcu arsu di siti,
vidennu l’acqua scappa,
e senza offerti, o inviti,
arriva e si l’appappa.
Nun pensa farci mali
la vicchiaredda piac,
e godi ca dd’armali
si sazia e si arricriad.
Vivennu quantu pòe,
lu Porcu poi nun lassa
fari da pari sòf;
lu lemmu cci fracassa.
La Vecchia a sta vindittag
si pilah e si contorci,
dicennu mesta e afflitta:
Faciti beni a Puerci!
____________
a svuotava. Sdivacare, in uso pure a Brindisi, è dal latino vacuare con prostesi di ben due preposizioni (ex e de) con la funzione di amplificare il concetto di base. A Nardò la variante sdiacare mostra la sincope di v intervocalica.
b catino di terracotta. Nel Salento è limmu (a Nardò la variante con dissimilazione limbu) parallelo al femminile limma (con differenza solo dimensionale), che è dal greco λίμνη (leggi limne)=palude, stagno, lago; da notare la poetica trasposizione metaforica che fa del catino uno stagno in miniatura.
c generosa, caritatevole.
d e ha piacere che quell’animale si sazi e si ristori.
e può.
f non smette di comportarsi da pari suo.
g offesa.
h letteralmente: si strappa i peli, metaforicamente: se ne duole grandemente.
Non posso fare a meno di chiudere con un’ ulteriore nota a conferma dell’antico gemellaggio tra la Sicilia e il Salento. L’immagine del porco che fracassa il lemmu dopo essersi dissetato è parallelo a Lu puercu ‘bbinchiatuota lapila capusotta (il porco dopo essersi saziato capovolge il trugolo) e l’amara conclusione del verso finale (estratta dal detto Fai beni a porci e ‘limosina ai parrini=Fare bene a porci e elemosina a preti) trova il suo gemello salentibo Fa’ bbene a ppuerci! (Fa’ bene a porci!).
p. s. (pure questo! …)
Un neritino che ben conosco e che vuole mantenere l’anonimato, nonostante egli affermi di non cercare visibilità, sfruttando la mia al momento solo planetaria, mi ha passato la poesia che allego, con preghiera di inserirla nel post, nella tracotante certezza della pubblicazione di quest’ultimo. Ho colto nella sua preghiera una sfumatura di disperato ricatto e, comunque andrà, nessuno mi potrà accusare di istigazione al suicidio …
LU QUALU
di Anonimo neritino
Lu bbicchieri no’ mmi serve, so’ ssinceru,
no’ sta bbi parlu ti acqua ma ti mieru,
e ggh’è ssicuru ca an cielu mi ‘ndi salu,
quandu mi lu bbeu t’intra a ‘nnu qualu.
Iò cu llu mieru no’ ffazzu lu razzista
basta iddhu cu bbessa sempre in vista;
poi, cu bbessa gnorumaru o primatiu,
sulu quandu mi manca iò quasi mi cciu.
Ma, quandu nc’è, lu qualu m’aggiu inchire;
già lu tissi, bbi l’aggiu rripitire?
Brindamu allora alla salute noscia: qualu, tu faci la vita menu moscia!
_____________
1 Come l’italiano àsola, è dal latino tardo ànsula(m), a sua volta diminutivo di ansa (da cui la voce italiana)=manico, occhiello delle scarpe, arpione, appiglio e, in senso figurato, opportunità; evidente la connessione col verbo àngere=stringere, a sua volta connesso col greco ἄγχω (leggi ancho) con lo stesso significato. Alla radice, molto prolifica, appartengono anche angina, angolo, angoscia, angusto e angustia e ansia.
Ipazio: il restauro delle due sculture lignee di Tiggiano
“Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento
dell’opera d’arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetica e storica,
in vista della sua trasmissione nel futuro.”
(Cesare Brandi)
Il termine restauro ha assunto nel corso dei secoli numerosi significati, a volte contrastanti fra di loro, in relazione alla cultura del periodo e al rapporto di questa con la storia, sicché è difficile darne una definizione univoca.
Certamente é condivisa la visione del restauro come attività volta alla manutenzione, al recupero, al ripristino e alla conservazione di manufatti storici, quali ad esempio un’architettura, un dipinto, una scultura.
Questo “momento metodologico” si inserisce nella storia naturale di un manufatto o bene culturale, che sin dalla sua genesi è sottoposto, come ogni materia, ad un graduale e lento processo evolutivo, che comporta necessariamente un degrado della materia di cui esso stesso è composto. Il manufatto, perciò, progettato e creato dall’artista, nato per assolvere un preciso compito, è inserito nell’ambiente che lo rende funzionale.
Ed é proprio il rapporto con il suo ambiente che influenza e accelera i processi di invecchiamento (alterazione) e in tale ambiente il bene può ricevere danneggiamenti diretti o indiretti. A grandi linee, i fattori di questo deterioramento possono essere distinti in: fattori fisici, chimici e biologici.
Il degrado comporta una difficile e spesso disturbata lettura del manufatto, che perde la sua funzionalità, cioè perde la sua capacità di comunicare, di educare, di portare alla fede, di affascinare, di testimoniare un momento importante della storia di una comunità, con il grave pericolo di “estinguersi”. È proprio di fronte a queste difficoltà oggettive che si rende necessaria un’azione che possa recuperare e riattivare un bene: e l’intervento di conservazione e restauro ha proprio il compito di adempiere a tali necessità.
Cosa significa, perciò, nel concreto conservare e restaurare?
Certamente il restauro non è portare agli “antichi splendori” un manufatto: non sarebbe possibile farlo, la sua materia è segnata da una storia, che non si può cancellare. Il restauro non è neppure ridare una forma ed una “veste cromatica” nuova al manufatto: negli anni passati, invece, era un’azione frequente quella del ricostruire o ridipingere statue, altari, affreschi, proprio perché era questa la concezione che si aveva di restauro e ancora oggi le nostre chiese e i nostri palazzi ne danno testimonianza.
Con questa premessa vorrei condividere il restauro di due preziose sculture che, pur raffigurando lo stesso personaggio, il santo vescovo Ipazio, presentano evidenti differenze tecniche ed estetiche.
Per la vivace comunità di Tiggiano il 19 gennaio è una data solenne. Si festeggia infatti il santo patrono, S. Ipazio. L’unica parrocchia in occidente ad aver eletto proprio protettore il santo vescovo di Gangra, il cui culto è diffusissimo in oriente.
Questa data, ogni anno, mi riporta inevitabilmente alla memoria i lavori di restauro eseguiti sui due preziosi simulacri del Santo: la grande scultura barocca, che mostra il santo a figura intera, con abiti vescovili, mentre calpesta un drago ed il busto di “Santu Pati Vecchiu”, la vecchia statua del santo, utilizzata fino al ‘700, quando fu soppiantata dalla nuova.
Le sculture si presentavano in precarie condizioni conservative e completamente ridipinte.
La grande statua settecentesca è collocata in una nicchia del transetto sinistro della parrocchiale. Realizzata in legno di tiglio, molto probabilmente a Napoli, raffigura il santo vescovo che calpesta il maligno, incarnato dal drago. Ai suoi piedi vi è, inoltre, un angelo che gli regge la mitra, che sovrasta un libro (elemento che era stato sottratto; individuato in alcune foto degli inizi del’900, è stato poi recuperato e ricollocato al suo posto). Il santo con la destra regge il pastorale e con la sinistra indica, come se volesse più ammonire che benedire; il moto della figura è accentuato dalle plastiche pieghe del piviale che svolazza in avanti.
La statua reca in testa una mitra di stoffa, sicuramente non originale e appostale durante la solennità, poiché S. Ipazio solitamente viene raffigurato sprovvisto di tale paramento che gli viene porto dagli angeli.
La vecchia statua, invece, raffigura il Santo a “mezza figura”, quel tipo di raffigurazione definita busto, generalmente riservata ai busti reliquiari o ai santi patroni.
Molto probabilmente, fu sostituito nel Settecento dalla nuova statua.
Prima del restauro, la statua era relegata nella cappella di S. Lucia (nello stesso comune) e conservata in una scarabattola. Il manufatto era assai degradato e svilito da una grossolana ridipintura. Il simulacro propone il Santo Vescovo, ieratico, con lo sguardo fisso, la mano destra benedicente, mentre nella sinistra reca il pastorale; è abbigliato con piviale, stola e una mitria orlati da un gallone a rilievo. La veste è modellata con sottili pieghe verticali, inoltre indossa delle chiroteche. Lo scudo del piviale presentava una ridipintura con lo stemma della famiglia Serafini-Sauli, feudatari di Tiggiano, ma si trattava di un’aggiunta posticcia, pertanto è stato rimosso con le operazioni di pulitura, che hanno rivelato una preziosa policromia con lamine d’argento meccato.
L’opera, realizzata in ambito locale nel XVI sec., è in legno di noce ed è probabilmente uno dei più antichi simulacri lignei della diocesi di Ugento.
Il lungo intervento di conservazione e restauro delle due sculture è stato preceduto da analisi e studi preliminari delle opere e dei materiali che le compongono, operazioni necessarie a redigere con la competente Soprintendenza il progetto stesso di restauro, che è consistito in un’operazione di disinfestazione dagli attacchi degli insetti xilofagi, pulitura delle superfici (con la rimozione dei numerosi strati di ridipinture sovrapposte),consolidamento e reintegrazione delle lacune e ricostruzione di piccoli particolari mancanti.
L’inesorabile azione del tempo, l’incuria ed i cambiamenti di gusto, hanno ridotto considerevolmente il nostro patrimonio storico artistico e quel che oggi ammiriamo sono solo i “resti”, testimonianze di un passato, sopravvissuto, a volte fortunosamente, ai mutamenti storici.
È un impegno comune riappropriarsi della memoria storica, conoscendo, tutelando e conservando quest’eredità, per poterla trasmettere alle generazioni future.
Religiosità e devozione. Antonio abate il santo “dels tres tombs”
Ho cominciato ad apprezzare “i Santini” allorquando ebbi il piacere di visitare a Tuglie una pregevole mostra nell’aprile del 1990. Questa mostra (una tra le “tantissime che ormai si fanno in ogni parte d’Italia”) era tra l’altro documentata da un ottimo catalogo arricchito da ben 60 di queste immaginette (alcune rarissime e molto antiche) e da una lunga nota introduttiva ed esplicativa di Cosimo Pagliara.
Com’è noto gli ultimi anni hanno registrato un interesse sempre maggiore per questo “itinerario della memoria” di cui è certamente utile approfondirne i valori e i significati. Un documentato saggio di Adriano Boncompagni, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Abstracta” (a. 5, n. 49, giugno 1990) intitolato “ISantini: dalla salvezza individuale al collezionismo” ci è da guida per capire meglio questo “particolare genere di immagini sacre (che) sta riscuotendo nuova attenzione come oggetto di collezionismo nei negozi di antiquariato e sui cataloghi di mostre ed esposizioni” (ivi).
I più antichi prototipi di tali testimonianze della religiosità popolare scrive il Boncompagni furono le figure con cui i Benedettini illustrarono i testi sacri nel secolo XI e fino al XIII, nel Beneventano, i “rotoli liturgici” per la recitazione dell’exultet nella notte di Pasqua, il cui uso si diffuse in tutta l’Italia Meridionale, rotoli che univano al testo, illustrazioni a colori.
Assieme a questi vanno considerati anche gli ex voto che “raffiguravano un avvenimento taumaturgico e/o miracoloso accaduto con, in genere, l’aggiunta didascalica dell’azione del Santo intercessore e che sono espressioni, anch’esse di autentica devozione popolare” (ivi).
Le immaginette sacre cominciarono poi ad essere prodotte in serie con l’invenzione della stampa. Alla loro diffusione e incisione su pietra, su legno, su lastre di rame, provvidero i Remondini di Bassano del Grappa (dal 1650 al 1860), i Discepoli di Verona, i Bresciano ad Assisi e Perugia, i Bonfadino a Venezia ed altri.
Il Santino come iconografia più a noi familiare nasce ai primi dell’Ottocento sostituendosi alle incisioni (la casa editrice Letaille e Boumard di Parigi editori pontifici, li produrrà merlettati a punta di forbici, una serie considerata la più famosa e più riuscita) e semplificandosi ulteriormente (sparisce il bordo trinato) fino ai nostri giorni.
La nascita e la diffusione di questa forma di iconografia e di devozione popolare ha un’ispirazione profondamente cristiana. Rifacendosi a San Tommaso che riteneva le immagini sacre utile strumento per incrementare la pietà, il Boncompagni scrive che la “effigiata figura di un santo ha lo scopo di insinuare nel fedele una disposizione, un atteggiamento di pietà. Proporsi in via devota l’immagine di un Santo significa dunque modellare la propria vita secondo un esempio, concreto, la vita del santo appunto: la sua immagine propone un modo preciso di intendere la grazia abituale. Lo studio della vita e delle virtù di un santo contribuisce alla determinazione del proprio rapporto religioso in sé e nelle sue implicazioni morali e spirituali. A ciò inevitabilmente si aggiunge il tutto umano desiderio di richiedere vari motivi di protezione e sicurezza. Ed è qui che si innesta, anche a livello ecclesiastico, la necessità di dover riconoscere l’esistenza di quello che i sociologi della religione chiamano “religioso implicito come insieme di simboli, pulsioni e pratiche che travalicano l’ambito delle convenzionali distinzioni tra sacro e profano” (ivi).
Il Santino acquisisce così “una virtus protettiva e taumaturgica da ricondurre alla carenza di prospettiva istituzionalmente orientata per fronteggiare i momenti critici dell’esistenza” (ivi).
Per quanto riguarda la tecnica di realizzazione secondo un puntuale ed utile studio di Sebastiano Lo Iacono, i Santini si possono suddividere in tre grandi settori: “quelli realizzati con tecnica manuale, tra i quali ci sono quelli a “canivets” su pergamena, nonché quelli fatti con ricami su tessuto o su vestiti. Appartengono a questo gruppo di santini fatti a mano quelli a collage, acquerellati e puntinati e quelli detti a vestito. Nel gruppo dei santini realizzati con stampa meccanica ci sono quelli merlettati, traforati, a rilievo, nonché i santini realizzati con le tecniche dell’incisione, litografia, cromolitografia, oleografia, fotolitografia, per finire con quelli scritti (che contengono testo a stampa tra cui preghiere) e i veri e propri santini manoscritti.
Nel terzo gruppo vanno invece annoverate le immaginette speciali: a teatrino, apribili a libro, a sorpresa, fustellati, gli ex voto e quelli contenenti reliquie più omeno autentiche.
In sostanza i santini, le immaginette religiose sono “un segno”, sono “documento e testimonianza di fede” e la loro storia “coincide con la storia dell’arte della stampa” (ivi).
Sono a migliaia e disparati i Santi stampati e invocati. Oggi come si è detto all’inizio, dopo aver cominciato a perdere dagli anni ‘60 questa funzione, tale “espressione dell’arte cristiana” viene collezionata o messa in mostra.
Il collezionismo dei Santini è comunque un fenomeno recente e poiché è anche legato ad un bisogno di spiritualità “collezionismo e devozionismo popolare spesso coincidono”.
Questo è quanto più o meno è accaduto durante la mia esperienza professionale d’insegnamento a Barcellona dove, nell’arco dei due anni trascorsi, ho potuto realizzare una piccola (ma credo interessante) raccolta (più che collezione) di immaginette che qui si propongono e che raffigurano S.Antonio abate.
Va detto che nella città catalana (ma anche in tutta la Spagna) il culto di sant’Antonio Abate è molto diffuso e sentito. Qui, dove secondo la tradizione, sant’Antonio Abate vi giunse rispondendo alla chiamata del governatore della città, del quale, con la sua benedizione, ne guarì la figlia colpita da un male misterioso, in occasione della sua festività si svolge “La cavalcata Dels Tres Tombs” (dei tre giri) in cui appunto, secondo un’antica tradizione che richiama quanto già detto innanzi, per ben tre volte, devoti, animali e carri fanno il giro della chiesa di S. Antonio Abate.
Alla fine della “cavalcata” il parroco benedice tutti gli animali presenti e la bandiera conservata nella chiesa di Sant’Antonio.
Alla città di Barcellona è legato un miracolo del santo narrato nelle Marche e conosciuto anche dal popolo novolese grazie a Fernando Sebaste che lo descrisse in “Piccola Miscellanea” pubblicata sulle “Fasciddre te la Focara” del 1970. Inoltre, nella sua splendida cattedrale vi è una pregevole statua lignea dell’anacoreta.
Tutti i santini risalgono ad un periodo compreso indicativamente tra i primi del 1900 e il 1950. Quasi tutti sono colorati col procedimento cromolitografico, sono realizzati su carta pesante e alcuni sono merlettati.
Una sessantina circa in tutto furono acquistati in blocco da una “vecchietta” nel suo grazioso negozietto di rigattiere su Passeig de Gràcia, una delle vie più importanti di Barcellona. Col tempo si è poi arricchita con numerosi esemplari realizzati con altre tecniche (splendido ad esempio un santino acquerellato e fatto a mano seicentesco).
Queste immaginette propongono un repertorio del nostro protettore nella sua iconografia più diffusa, ovvero come il Santo del Fuoco per eccellenza, l’anacoreta e il protettore di tutti gli animali da stalla e da cortile e con la simbologia che lo contraddistingue: il fuoco appunto, il campanello, la T (Tau) sul mantello, il bastone, il porcellino, la lunga barba che ne indica l’anzianità, il libro aperto della regola.
In alcuni è presente anche il crocifisso con il quale scaccia il demonio tentatore. Uno si distingue su tutti perché non è un santino vero e proprio, ma una cartolina postale con la sua immagine spedita da Seulo (Cagliari) il 28 luglio 1925 al “Laboratorio Arte sacra Arturo Zecca Via Delfino n. 36 bis di Lecce”, capitata chissà come nel gruppo delle immaginette.
Molti, infine, portano stampate sul retro significative e toccanti preghiere che ne esaltano le virtù e ne invocano la protezione. Sono una testimonianza perciò da conservare gelosamente, per me anche un significativo ricordo, un’emozione…
In L’orazione e l’Immagine. Sant’Antonio Abate nelle immaginette devozionali, a cura di Mario Rossi, Il Parametro Editore, Galatina 2014 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 427-432, Novoli 2024.
Bibliografia minima e letture consigliate
Aa.Vv., Santi e Santini. Iconografia popolare sacra europea dal XVI al XX secolo, Edit. Libreria Guida, Napoli 1985;
C. Angiolino, Le immaginette sacre, Universal Roma, 1980;
A. Boncompagni, I Santini: dalla “salvezza” individualeal collezionismo, in “Abstracta”, Curiosità della Cultura e Cultura della Curiosità, a. V, n. 49, Stile Regina Editrice, Roma, giugno 1990;
C. Biasini, Quando le immaginette venivano date “sottobanco” intervista a Eva Charvàtova, in “Santini et Similia”. Iconografia – Devozione – Collezionismo di Immaginette Sacre, A. I, n. 2, Barbieri Editore, Manduria settembre 1995 (preziosa e fondamentale rivista su questo genere di collezionismo);
A. M. Di Nola, Le immagini sacre, in Angiolino Di Gennaro (a cura di), Santi e Santini: iconografia popolare sacra europea dal sedicesimo al ventesimo secolo, Istituto Francese di Napoli, Guida Editori, Napoli 1985;
P. Eliseo Lilliu, Arte e Religione. L’immagine nella tradizione popolare, Litotipografia Trais, Cagliari 1991;
G. Gualtieri, I Santini come veicolo di pubblicità, in “Santini et Similia”. Iconografia – Devozione – Collezionismo di Immaginette Sacre, A. I, n. 1, Barbieri Editore, Manduria maggio 1995.
S. Lo Iacono, Santi e Santini. Fenomenologia e semantica delle immaginette sacre tra collezionismo e devozionismo popolare, Mistrettanews 2009;
E. Pagliara, Iconografia Sacra in Piccolo Formato. Immaginette Italiane e Straniere dal 1700 ad oggi, Catalogo della mostra allestita presso la Biblioteca Comunale di Tuglie nel marzo 1990, Tip. Corsano, Alezio 1990;
F. Sebaste, Piccola Miscellanea, in “Le Fasciddre te la focara”, a. VIII, Novoli 17 gennaio 1970. Così Fernando Sebaste narrava il “miracolo” operato dal Santo a Barcellona: «Il glorioso S. Antonio abate, avendo resistito a tutte le tentazioni del demonio, fu colmato di favori celesti ed ebbe il dono dei miracoli e delle profezie. La fama della sua pietà e delle sue virtù giunse all’orecchio di un re di Catalogna; questi aveva la moglie posseduta dal demonio. Il re, che non sapeva più a che santo votarsi, avendo sentito parlare di Antonio Abate e delle sue vittorie sul maligno, mandò un corriere a cercarlo pregandolo di liberare la regina dal demonio che aveva in corpo.
S. Antonio, sempre buono e caritatevole, fu felice che gli si presentasse ancora l’occasione di cacciare colui che lo aveva tormentato diverse volte. Perciò lasciò la grotta e il deserto e si avviò verso la Spagna. Dopo qualche settimana giunse alla corte di Barcellona. Senza tanti preamboli, senza osservare le formule del protocollo, si informò della salute dell’illustre inferma, spiò il diabolico persecutore, si inginocchiò, e in breve istante il demonio fu esorcizzato. Dopo di che la consorte del re venne restituita alla bontà e alla dolcezza di prima. Mentre il miracolo avveniva, apparve nella stanza del re un maiale femmina, giunto non si sa da dove, che, avvicinandosi al trono, posò fra il re e il Santo uno dei suoi piccoli nato senza occhi e senza zampe. La madre, lanciando gridi acuti e tirando il santo per il saio, sembrava chiedergli di guarire il piccolo deforme. Il santo operò il miracolo e il tenero porcellino, divenuto normale, si mise a correre per la sala del trono, testimoniando la sua gratitudine al benefattore. Da quel giorno lo seguì nel remotaggio, tenendogli compagnia per tutta la vita».
G. Spagnolo, Il fuoco sacro. Tradizione e culto di Sant’Antonio Abate a Novoli e nel Salento, introduzione di Mario Cazzato e con un contributo di Elio Pendinelli, Tip. Corsano, Alezio 1998 (I Edizione realizzata per conto della Regione Puglia Ass.to AA.GG. Settore P.I. – C.R.S.E.C. Le/37 Campi Salentina).
In Spagna, dove il culto di S. Antonio Abate è molto diffuso, sono molto frequenti le benedizioni degli animali domestici e le riapparizioni di arcaiche cerimonie di falò (hogueras) e travestimenti (disfraces). La benedizione degli animali, abbellita da usanze locali, si mantiene molto viva in numerose regioni. Il culto del fuoco che anche s’incorpora a tale festività può trovare senza dubbio una propria connotazione in stimoli purificatori. Le hogueras (falò) occupano, effettivamente, un ampio spazio nella notte di Sant’Antonio. In Alpena (Albacete), il giorno della vigilia, si pubblica un bando di questo tenore: “Chiunque esce per strada a partire dalle otto corre il rischio di essere bruciato”. Falò e travestimenti contraddistinguono il culto di Sant’Antonio in Spagna. Ad esempio in Villanueva de Alcolea (Castellòn) o in Navalvillar de Pela (Badajoz) intervengono cavalieri che saltano o schivano le fiamme; giorni dopo incendiano in Siguenza (Guadalajara) un grande falò davanti la Casa del Doncel per festeggiare San Vincenzo patrono della città. In Mallorca ci sono anche foguerons (grandi falò) e travestimenti (mascaras) di demoni per Sant’Antonio, così come in Arquillons (Jaén), dove in mancanza di falò, si esibisce per le strade “el pelotero”, una specie di diavolo che perseguita i disavveduti. La «Santantonà» di alcuni paesi del Maestrazgo – Mirambel, Forcal, La Mata, Todolella, Villafranca, consiste nella rappresentazione di episodi della vita del Santo e l’incendio di un’enorme baracca fatta con rami di pino. Sono anche molto spettacolari, tra le processioni di Sant’Antonio, quella di Trigueros (Huelva), dove lanciano al passo del santo denaro, pane, frutta e finanche prosciutto; quella di Balsa de Ves (Albacete), con le sue fila di bambini che portano cestini di pane benedetto, o quella di Mas de Las Matas (Ternel) accompagnata da una mascherata che va rappresentando, provocatoriamente, gli errori della vita locale (per tutte queste notizie fare riferimento, anche più estesamente, alla bellissima monografia di C. Garcia Rodero e J.M. Caballero Bonald, Espanã Fiestas y Ritos, Lungwerg Editores, Barcellona, 1992, p. 34);
C. Turrisi, Il lungo Viaggio. Santi e Santini, Barbieri Editore, Manduria 1995.
E una grande emozione e tanti commoventi ricordi destano in me anche i santini della piccola raccolta realizzata durante i mesi passati a Lima, nel Perù, nell’anno 1991-1992 dove appunto non è difficile reperirli ogni tanto sulle bancarelle di improvvisati antiquari e rigattieri “all’aperto”. Tutti i Santini risalgono a un periodo compreso tra i primi del 1900 e il 1950, ad eccezione di uno che nella parte posteriore riporta la data autografa “25 giugno 1898” (in quella anteriore è rappresentata la Vergine con il Bambino). L’iconografia, molto varia e di buona fattura (ve ne sono alcuni stampati in Italia ma anche in Germania e in Francia), riflette il culto verso i Santi più “popolari” e di cui si è particolarmente devoti.
Alcuni, da noi, sono quasi completamente sconosciuti come S. Rosa da Lima, San Martin de Porres e la “Prestigiosa immagine del Señor de los Milagros que se venera en el altar Mayor del Tempio de Nazarenas”, o la “Portentosa Imagen del Señor de Huamàn que se venera en la iglesia del pueblo”.
Molte di queste immaginette illustrano anche episodi del Vangelo o della vita di Gesù; quasi tutti sono stati stampati in occasione di ricorrenze particolari come “Recuerdo del Bautizo de la Ninita”, “Recuerdo de la Bendiciòn del local en que funciona la Sociedad Catòlica de San José”, “Recuerdo de mi Primera Comunion” (sono tante), “Recuerdo de la Primera Misa”, “Recuerdo de la solenne fiesta in honor del maestro Patriarca San José”, “Grato Recuerdo de las Bodas de Oro” (nozze), “Recuerdo de la toma de habito de la Senorita ecc.”, “Recuerdo de la Ordenacion Sacerdotal y primera misa” e così via.
Uno, forse, costituisce un’eccezione perché riporta l’immagine (molto bella) di Santa Cecilia Vergine e Martire Romana, patrona “de los Musicos” e sul retro (invece di un’orazione) la pubblicità delle “Pildoras de Vida del Dr. Ross”, il cui uso consentiva “una buena digestion un sano apetito y una salud envidiabile”. Un altro, ricorda il “Flor de Maria Donayrey Barrio”, avvenuto nella “cappella” de Santa Maria dei Fiori del Collegio Italiano Antonio Raimondi di Lima il 1 ottobre del 1933. Molto raro, infine, è il “Santino-Francobollo” (qui sono molto ricercati) stampato però negli Stati Uniti come è riportato in margine (in Italia, che io sappia, non tanto facilmente s’incontra questa particolare tipologia) e che raffigura il “Buon Pastore che ritrova la sua pecorella smarrita”.
Tradizioni figuline Novolesi: Lu cuccu te Sant’Antoni
Immaginette, medaglie, statuine, un tempo in terracotta o cartapesta ed oggi di misera plastica, sono state sempre alcune testimonianze, certamente significative, del culto e della devozione dei Novolesi verso il protettore Sant’Antonio Abate. Capita spesso però di trovare nelle loro case, un recipiente molto caratteristico e singolare, “una bottiglia votiva”, conosciuta con il nome de “lu cuccu te Sant’Antoni”, definita da Giuseppe Palumbo “una bottiglia a carattere agiografico che ho visto a Novoli, comune a pochi chilometri dal capoluogo provinciale e sede di una figulina ormai scomparsa. Quivi però le antiche tradizioni artigiane sopravvivono al sentito culto a Sant’Antonio Abate patrono del fuoco e nell’immenso falò di sermenti (sic) che in suo onore si accende la sera del 16 gennaio. Chi la possiede ne fa bella mostra e la custodisce gelosamente, senza a volte sapere di che cosa si tratti. Basta però l’immagine del Santo scolpita su una delle facce per farne di essa anche una sorta di amuleto in grado di assicurare assistenza e protezione. ‘Lu cuccu’, il cui termine indica un recipiente che contiene del vino, ha suscitato sempre una certa curiosità, per cui ritengo sia utile fornire alcune notizie su questo oggetto in cui intelligentemente sono estrinsecate i concetti del culto a S. Antonio del fuoco, delle vecchie tradizioni figuline e della rinomanza del prodotto vinario della zona”.
L’idea di questa singolare bottiglia votiva fu, è bene sottolinearlo, del cavaliere Donato Romano, scomparso l’8 dicembre del 1980, un uomo di cultura oltre che valente professionista che amava raccogliere testimonianze delle origini del suo paese e delle relative vicende storiche. Nel suo studio infatti sono ancora raccolte tante belle opere, pitture, sculture, cimeli dell’antichità, rari libri antichi ed altro. Era anche amico dei migliori artisti del tempo, che lo stimavano per le sue competenze in ogni forma, manifestazione e venerazione per «il guardiano del fuoco», sentimenti che aveva ereditato dallo stesso padre e che esternava con grande religiosità. Alcuni episodi infatti contraddistinguono questa sua devozione.
Il padre che era stato sfortunatamente sorteggiato per andare in guerra, fu l’unico a salvarsi (fra tutti i suoi compagni) invocando S. Antonio, dallo scoppio di una mina sul campo di battaglia. Il fratello più grande che si chiamava Fiorino, riuscì per lo stesso motivo a salvarsi da un naufragio mentre faceva il marinaio durante la grande guerra (il Cavaliere ricordò infatti questo episodio con un suo personale disegno che si conserva ancora nel suo studio).
Ma il Romano era anche uno sfegatato tifoso della banda “te lu cuccu”, che all’epoca suonava in concorrenza con quella “te lu sangunazzu”.Quando aveva l’età di sette anni, il cavaliere fu catturato da alcuni tifosi “te lu sangunazzu” e portato nell’ex “locanda della Cavallerizza” (attualmente i locali occupati dalla Pizzeria Nenè e dalla tabaccheria Ingrosso, accanto alla Società Operaia) dove fu spogliato e lasciato nudo per essersi impunemente rifiutato di passare dall’altra parte, ovvero di tifare per la banda “te lu sangunazzu”, così chiamata perché il capobanda Angelo Zecca aveva ereditato il soprannome “sangunazzu” dal padre, che esercitava appunto il mestiere di macellaio. Crescendo, egli rimase comunque sempre e ugualmente tifoso di quella banda. E così, dopo le guerre, nel 1946, quando Giuseppe Natale suo cognato, fu eletto Presidente del Comitato della festa di S. Antonio, si ricordò della Banda e di quell’episodio e simbolicamente la immortalò creando “Lu cuccu”.
Il Cavaliere pensò bene anche di scolpire (era un bravo scalpellino) le effigi del Santo e lo stemma civico, ovvero i simboli della devozione della sua famiglia e dei Novolesi verso il Santo del Fuoco e dell’eccellente vino che si ottiene dalle uve “del suo ubertoso territorio”. Il cavaliere Enzo Natale e Tonino Parlangeli, soprannominato “l’Americano”, “re delle feste” per il Santo del fuoco, che facevano parte del comitato ordinarono i cucchi a Grottaglie, presso un vecchio fìgulo che disponeva di un malmesso tornio a pedali. Dopo pochi giorni, la boccetta commissionata in un numero non rilevante di esemplari, era già pronta per essere esposta, distribuita in omaggio e piena di vino a tutti i Novolesi, sulle bancarelle predisposte in via S. Antonio, sotto il palazzo di Tonino Parlangeli o vicino a casa Graziuso.
Giuseppe Palumbo, nel suo saggio la “Figulina vinaria nel Leccese” così la descrive: “Ha la forma ovoide con le due facce opposte spianate ed angolismussati, base raccorciata con bordino, collo corto con lieve slabbratura, turacciolo a pannello pure di creta. È alta 24 centimetri, capacità di un litro; non ha asole. Presenta colorazione in verde-scuro ottenuta con pigmento ad olio di lino e biacca e reca in rilievo sulla faccia esteriore la effigie in stampo del mite anacoreta della Tebaide contornata dalla seguente iscrizione: ‘A devozione di S. Antonio Abate’,e sulla faccia posteriore, pure in rilievo, l’emblema civico di Novoli (scudo con tralcio di vite carico di tre grappoli sormontato dalla corona comunale) con la scritta ‘Omaggio’ al di sotto della ulteriore scritta ‘Novoli’.Per una maggiore dignità del pezzo la figura è colorata d’argento, mentre lo stemma e le iscrizioni sono dipinte con vernice dorata. La bottiglia, oltre che nel 1947 (fu ideata invece nel 1946), venne distribuita piena del buon vino locale ai più generosi ed autorevoli olatori, a viemmeglio richiamare su di essi i favori del venerato ‘Taumaturgo’ anche nel 1950. L’unico inconveniente che si presentò fu che il vino, poiché i cucchi non erano stati interamente smaltati, tendeva purtroppo a inacidirsi”.
Fu comunque veramente una grande festa quella “te lu cuccu”, ed oltre ad un grande falò costruito innanzi al santuario e spettacolari gare pirotecniche, i Novolesi in quel 1947, ebbero anche il piacere di osservare sulla sua loggia, un bellissimo quadro raffigurante il Santo del noto pittore Amerigo Buscicchio, intimo amico del cavaliere Romano, un quadro che l’artista ebbe cura di dipingere nello stabilimento vinicolo della famiglia e che dopo alcuni giorni il vento, purtroppo, strappò irrimediabilmente.
Amerigo Buscicchio (Lecce 1921-2001) fu un pittore figurativo di una certa importanza, fortemente legato alla tradizione accademica napoletana e con influenze degli impressionisti francesi. Particolarmente abile nella tecnica del pastello si applicò in particolare nella realizzazione di figure, paesaggi e nature morte. Qualche anno fa infine, lu cuccu fu opportunamente riproposto dalla Fondazione Focara di Novoli (presidente il sindaco di allora Oscar Marzo Vetrugno) tra gli eventi culturali collaterali dei festeggiamenti del 2012. La bottiglia votiva, identica nella sua forma originaria, fu riprodotta, con le effigi in rilievo sulle due facce del santo e dello stemma civico, dalle rinomate Maioliche e Terrecotte “Colì” di Cutrofiano. Gli esemplari grezzi vennero artisticamente personalizzati dagli studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce (direttore il noto scultore salentino Salvatore Spedicato) e da alcuni rinomati artisti salentini (sul palazzo municipale i cucchi sono conservati ed esposti in un’apposita teca).
In “Spazioapertosalento”, 14 Gennaio 2022 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 413-418, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici essenziali
N. Vacca, Memorie Metalliche Salentine, Napoli 1961, estratto dal “Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano”, aa. XLIV-XLV (1959-60), pp. 218 e 220. Vengono pubblicate (dalla collezione di N. Vacca) la medaglia coniata dal Wirz di Napoli in ricordo delle feste centenarie del Patronato di S. Antonio Abate (855-1955/1705-1955) e la medaglia con entrambi i protettori di Novoli ovvero la Madonna del Pane e S. Antonio Abate. Raffaele Wirz era genero e successore di Giuseppe Olivieri che dal 1860 fino a circa il 1922, tenne officina in Napoli alla Cisterna dell’olio e poi ai Miracoli. Il Wirz aveva l’officina operante a Napoli in Via delle Fate 16 (Ivi,p. 169 e alla nota 8).
G. Palumbo, Figulina Vinaria nel Leccese,estratto da “La Ceramica”, n. 9, Milano settembre 1953, p. 3.
Sulla figura e l’opera del cavaliere Donato Romano si veda G. Spagnolo, Un antico insediamento rurale novolese: “La Masseria della Corte o del Signore”, in “Lu Lampiune”, a. V, dicembre 1989, pp. 75-88. Il Cavaliere Donato Romano acquistò la Masseria della Corte nell’ottobre del 1946 dal Conte Giovanni Balsamo, masseria che intendeva valorizzare come luogo per il tempo libero e il turismo agricolo (progetto che purtroppo non fu mai realizzato nonostante il suo impegno). Come già esplicitato nel testo, il Cavaliere Romano (Novoli 1899-1980) era un uomo di cultura oltre che valente professionista ed amava raccogliere testimonianze delle origini del suo paese e delle sue vicende storiche (“La mia passione per l’arte e la inveterata abitudine di scrutare nel passato”,così dichiarava egli stesso in una sua relazione autografa sulla masseria”). Nel gennaio del 1977, desiderando “riportare sulla carta”quanto di più antico era rimasto a Novoli realizzò presso la Tenuta la Corte una mostra di 54 schizzi, accompagnata da un catalogo con brevi cenni storici “e come testimonianza e valido ricordo per le generazioni future”. Il Cavaliere Donato Romano, “amico e fervido sostenitore dell’arte e degli artisti”, era titolare di una affermatissima ed omonima impresa edilizia e fu meritatamente insignito dalla Camera di Commercio, Industria ed Agricoltura di Lecce, del diploma e medaglia d’oro al merito per la “Fedeltà al Lavoro e del Profitto economico”. La sua fu un’attività multiforme ed ereditò dal padre la professione imprenditoriale. Per conto di enti e privati costruì opere di carattere sacro come chiese, asili (costruì anche la scuola elementare di Via dei Caduti di Novoli), tombe gentilizie e simili, profondendo sempre gratuitamente la sua opera di eccezionale valore artistico e tecnico. Con macchine che lui stesso ideò sfruttò le cave tufacee scoprendo nella Masseria la Corte “La Grotta Lago”,un fenomeno pseudo-carsico di un certo rilievo, visitata il 5 settembre del 1950 anche dal professore Franco Anelli già direttore delle grotte di Postumia e poi di Castellana, da lui stesso scoperte.
V. Terragno, Artisti salentini tra ‘800 e ‘900. Biografia – Bibliografia – Quotazioni di mercato, Ed. Salentina, Galatina 2019, p. 30 (profilo di Amerigo Buscicchio).
Sulle bande “te lu Cuccu” e “te lu Sangunazzu”, si veda G. Spagnolo, Memorie Municipali Ottocentesche: Guardie Urbane e Musicanti a Novoli nel XIX secolo, in “Lu Lampiune”, a. XIV, n. 1, aprile 1998, pp. 123-133.
Fino al 1949 la Focara venne costruita innanzi al Santuario, poi nella vicina piazza G. Brunetti (dove attualmente è presente la bellissima statua realizzata dall’Artista novolese Sergio Sebaste) e, successivamente, per decisione del commissario prefettizio Nicola Prete e per ragioni di sicurezza, dal 1997 in piazza Tito Schipa. Per le stesse ragioni, ultimamente, la Focara non è stata più costruita al centro della piazza ma su un vicino terreno laterale sopraelevato. In tempo di “pandemia”, lo scorso anno invece la Focara è stata ricollocata di fronte al santuario, dopo essere stata costruita in dimensioni assai ridotte in periferia e trasportata sulla piazza con un camion (un piccolo e simbolico falò). Quest’anno è ritornata nuovamente in dimensioni ridotte rispetto al passato in piazza Tito Schipa, anche se in una posizione decentrata (spostata verso il basso sulla destra della piazza sempre per ragioni di sicurezza, a forma piramidale, a base quadrata e su due piani, alta circa 15 metri). Allo stato della ricerca, il documento più antico relativo alla Focara, rimane sempre quello risalente al 1893, ovvero un articolo apparso sulla testata locale la Gazzetta delle Puglie, e che fu rintracciato da Alfredo Mangeli (il D’Elia che scrive il suo saggio nel 1912 definisce comunque la Focara “come un rito antichissimo”) (Cfr., A. Mangeli, Sant’Antonio Abate e Maria SS. Del Pane Patroni di Novoli, Biblioteca Minima, Novoli (Lecce) 2001, p. 8; G. Spagnolo, Il Fuoco Sacro. Tradizione e culto di S. Antonio Abate a Novoli e nel Salento, Fondazione Focara Lecce 2017, pp. 50 -57).
“Lu cuccu” fu immortalato nel film del regista Giuliano Capani intitolato Il giorno del fuoco girato in superotto nel 1979 sulla festa di quell’anno, trasmesso da Raitre (primo film girato sull’evento). L’iniziativa fu promossa dal Comitato Feste 1979, dal Gruppo Teatrale novolese La Focara e dall’ARCI. Le ricerche furono effettuate da Cosimo Caputo e Gioele Manca. Il film durava 35’ (E. Imbriani, Una maschera del grano. Il falò di Sant’Antonio a Novoli e nel Salento, in “Archivio di Etnografia”,a. I, n. 2,1999, p. 13).
Anticipo qui, in parziale e pure sintetico estratto da un lavoro ben più ampio, articolato e complesso, attualmente in fase di rifinitura, un tentativo di fare almeno chiarezza su un problema in cui le velleità di soluzione definitiva hanno propiziato una congerie confusa di congetture sovente campate in aria e di vere e proprie gratuite invenzioni che nulla hanno da spartire con la vera conoscenza e che non sembrano indenni da vera e propria malafede. L’ampio corredo di immagini ha il compito di documentare senza rischio di errori, magari solo di trascrizione. Insomma, ho fatto metterci la faccia col ritratto e, laddove questo non era disponibile, col frontespizio e il ritaglio dal libro, a gran parte degli autori citati, prima che l’intelligenza artificiale si scateni a mettere in circolo falsi, anche manoscritti, così ben confezionati da ingannare critici molto meno ingenui e troppo frettolosi di quelli che, ad esempio, nel 1984 rimasero beffati dalle false teste di Modigliani.
Preliminarmente, intanto, va detto come tutte le fonti antiche, sia latine che greche (l’ordine è cronologico e ne darò conto nel lavoro completo), registrano non il coronimo, ma solo l’etnonimo (o etnico), cioè Sallentini o Salentini le latine, Σαλλεντῖνοι (leggi Sallentìnoi) o Σαλεντῖνοι (leggi Salentìnoi) le greche. In teoria analogica, aprioristicamente si dovrebbe supporre che il nostro etnico col suffisso sia derivato di un toponimo piuttosto che di un coronimo, per cui padre dell’etnico latino sarebbe un *Salentum o un *Sallentum (come per Tarentini da Tarentum) e di quello greco un *Σαλλέντoν (leggi Sallènton) o *Σαλέντoν (leggi Salènton). La voce latina, pur congetturale, ha avuto fortuna da quando illegittimamente è nata, fino ai nostri giorni, come proverò, partemdo proprio da questi, con quanto segue.
Sallentum è stato dal 1977 il titolo di una rivista quadrimestrale di cultura e civiltà salentina.
E, via via, ancor più suggestivo per chi non conosce il latino, poteva mancare come titolo in quella produzione in cui è difficile dire se prevalga l’intento divulgativo-artistico o quello commerciale, anche se opposto è il parere espresso da Marco Albano nell’ultimo dei suoi recentissimi e competenti commenti ad un mio post abbastanza datato1.
E poteva Salentum non essere sfruttato da una linea di profumi? E bisogna pure ringraziare chi ha avuto l’idea e rinunziato, forse appena appena in tempo, a fare concorrenza all’Acqua di Colonia con la sua Water of Salentum, con tutti i rischi che l’ignoranza, questa volta del latino, faccia prevalere il significato metaforico di water su quello letterale …
Ancor più sorprende, perciò, incontrarlo accoppiato con un nesso, questo sì attestato dalle fonti antiche in riferimento all’etnico2, in una pubblicazione di taglio, almeno si presume, scientifico.
Tuttavia nella scelta di far comparire in bella vista Salentum probabilmente avrà influito la testimonianza di Antonio De Ferrariis alias il Galateo (1444-1517), nel cui De situ Iapygiae, Perna, Basilea, 1558 (pubblicazione postuma di un’opera già terminata nel 1511), Salentum ricorre tre volte, e precisamente alle pp. 13, 94 e 126: Inde Iapygium promontorium, quod alii Salentinum, alii Salentum, Graeci Acram Iapygiam appellant (Poi il promontorio iapigio, che alcuni chiamano salentino, altri salento. i Greci punta Iapigia)
Hinc ad XII millia passuum Soletum, alii Salentum dicunt. (Da qui [Gallipoli] a 12 miglia Soleto, altri la chiamano Salento); Soletum, quod veteres Graeci Salentum vocant (Soleto, che gli antichi Greci chiamano Salento).
Dalla prima citazione si evince che già ai tempi del Galateo Salentum era usato come forma aggettivale alternativa a Salentinum, e non sostantivata ad indicare l’attuale estensione, essendo sia Salentinum che Salentum riferiti inequivocabilmente da promontorium (la penisola è altra cosa), che ha il suo esatto corrispondente nel greco ἄκρα (leggi acra).
Nella seconda ricorrenza Salentum è sinonimo, anzi variante, di Soletum e non ha nulla da spartire col precedente, riferendosi inequivocabilmente all’attuale Soleto, il che vale pure per la terza citazione. Inoltre, per quanto riguarda la prima attestazione, è da escludere che ai tempi del Galateo Salentum designasse estensivamente la penisola e non il Capo di S. Maria di Leuca, perché un letterato del suo calibro l’avrebbe senz’altro precisato.
Per la precisione, però, debbo dire che il primo Salentum del Galateo è anticipato cronologicamente da due fasulle ricorrenze antiche che, sopravvissute per alcuni decenni nelle edizioni dei relativi autori, sono definitivamente fuori gioco3.
Mi pare doveroso, per quanto dispersivo, dopo le immagini precedenti, soprattutto quelle di … balocchi e profumi, dedicarne due all’umanista salentino.
Le sue orme, passo dopo passo, quasi a testimonianza del prestigio di cui godeva il letterato di Galatone, sono ricalcate in Nomenclator omnium refum propria nomina variis linguis explicata indicans di Adriaen de Jonghe (1511-1575), latinizzato in Hadrianus Iunius, italianizzato in Adriano Giunio. L’opera fu pubblicata per la prima volta per i tipi di Christophe Plantin ad Anversa nel 1567 e il suo prestigio è testimoniato dalle numerosissime ristampe che seguirono, anche per i tipi di altri editori.
Adriano Giunio in un’incisione del coevo Theodor de Bry. Nella cornice Hadrianus Iunius Hornanus (dalla città tedesca di Hoorn, dov’era nato) Medicus. In calce un distico elegiaco, nella cui teascrizuiione ho aggiunto la virgola mancante dopo probitate.
Invidiam vincis studio, probitate, labore./Gratia nunc meritis reddita digna tuis.
(Vinci l’invidia con l’applicazione, con l’onestà, con la fatica. Ora è reso ringraziamento degno dei tuoi meriti)
Nel Nomenclator a p. 395 si legge: Salentinum, Apul(iae) prom(ontorium) quod et Iapygium, et Salentum. ἄκρα Ἰαπυγία. Capo de S. Maria
(Salentino, promontorio dell’Apulia che [è detto] anche Iapigio e Salento. Promontorio iapigio. Capo di s. Maria)
La trascrizione che ho fatto non è funzionale solo al banale scioglimento delle due abbreviazioni ma alla formulazione di qualche dubbio legato proprio alla scrittura di alcune voci. Premesso che nei testi in latino è ancora oggi in vigore l’uso dell’iniziale maiuscola per tutte quelle parole (anche avverbi) che derivano da nomi propri) noto che l’unica parola di tale tipo che non rispetta la regola è ἰαπυγία (leggi iapiughìa), ma ci può pure stare per la indisponibilità tipografica delle maiuscole greche, come mostra ἄκρα (leggi acra) che è preceduto dal punto.
Pone, invece, problemi d’interpretazione grammaticale proprio Salentum: infatti se è indiscutibile il valore aggettivale di Salentinum e Iapygium, attributo di promontorium, quell’et, congiunzione coordinante, unisce a Salentum ai precedenti aggettivi (per cui assume un valore aggettivale, oppure ha già assunto un valore sostantivato?
Molto probabilmente proprio il ricordo del Galateo di un duplice Salentum (uno promontorio, l’altro la città di Soleto) ha propiziato la contaminazione con la più tarda fonte antica, cioè Stefano di Bisanzio (VI secolo). Nel suo Ἐθνικά leggi Ethnicà) si legge: Σαλλεντία, πόλις Μεσσαπίων. Τὸ ἐθνικὸν Σαλλεντῖνος (Sallentìa, citta dei Messapi. L’etnico è Sallentino). Proprio quello che io ho tradotto con Sallentìa (trascrizione fonetica di Σαλλεντία) fu alla base dell’invenzione della città di Sallènzia, che, come vedremo, avrà una fortuna strepitosa. come si sia passati dal greco Σαλλεντία (leggi, conformemente alla precedente trascrizione fonetica, Sallentia) a Sallènzia è presto detto.
Il suo inventore, del quale fra poco conosceremo l’identità, non lo ha spiegato ma ha seguito un procedimento che suppone un intermediario latino, che nella fattispecie sarebbe (uso il condizionale perché è parola non attestata) Sallèntia, con sistole (accento ritratto risetto alla pronunzia della parola greca nel pieno rispetto della prosodia latina).
Dal questo presunto latino Sallèntia così pronunciato secondo la lettura scientifica e Sallènzia secondo quella ecclesiastica il passaggio a Sallenzia. Qualcuno mi potrebbe chiedere come mai Sallènzia e non Sallenza, visto che il latino patièntia ha dato pazienza e non pazienzia. La risposta è facile: pazienza, prima di diventare pazienza, era stata pazienzia4 e in base a questo è nata Sallènzia.
Se il suo processo di formazione basato sull’analogia è semplice da ricostruire, risulta più complicato individuare l’inventore di Sallenzia.
Questo toponimo, infatti, ricorre la prima volta in Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto, il cui manoscritto originale, posseduto da Michele Tafuri, fu pubblicato per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.
L’opera, come si legge nel frontespizio, è di Girolamo Marciano (1571-1628) con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (1620-16859). A p. 68:
Lascio giudicare al lettore quanto valore abbia la contaminazione arbitraria, confusa e probabilmente, nemmeno fatta in buonafede (rispettoso di essa non è nemmeno il frutto di un cieco amore per una terra che non ha certo bisogno di nobilitare con favolette le sue origini) tra Idomeneo (l’attore del brano) e la testimonianza di Stefano. Fosse solo questo il problema, perché questa invenzione, portato di una cultura umanistica un po’ piena di sé (fenomeno non raro, e non solamente nei secoli XVI-XVII) ha dato vita fino ai nostri giorni ad una serie di superfetazioni nell’affannoso tentativo di identificare la fantomatica città di Sallènzia con una attuale, per lo più sulla scorta esclusiva di assonanze e consonanze fonetiche, metodo consigliabile a chiunque sia disposto a correre il rischio di scrivere fesserie. Non posso, però, sorvolare sul coinvolgimento del nome di Servio inserito in un contesto così tortuoso da farlo sembrare aver detto il mai detto.
Ecco gli estremi dell’imbroglio: Servio (IV-V secolo d. XC.) nel suo commento ai verso 400 del libro III dell’Eneide di Virgilio (I secolo a. C.) et Sallentinos obsedit milite campos (e assedia con i soldati le campagne salentine) così si esprime: Omnis Italia coacta in angustias scinditur in duo promontoria, Bruttium et Sallentinum (Tutta l’Italia sviluppata strettamente si divide in due promontori, il bruzio e il salentino).
Se la manipolazione ad uso personale del frammento sallustiano, vera e propria levatrice di Sallenzia, appare antipaticamente criminale, la situazione si allenta. per così dire, nel tragicomico pensando a quanto si legge poco prima a p. 63:
Quel certo scrittore moderno, contro il quale non è dato sapere se dal Marciano o dzll’Albanese vengono lanciati dardi velenosi è Cristoforo Scanello alias il Cieco da Forlì (XVI secolo), autore, fra l’altro, di Chronicha universale della fidelissima, et antiqua regione di Magna Grecia, overo Giapigia divisa in tre parti cioe di Terra di Otranto, terra di Bari, et Puglia piana, s. n., Venezia, 1575.
Le pagine non sono numerate e riproduco passim i dettagli bersaglio delle frecce di cui sopra.
Con un troppo facile gioco di parole, peccato che il peccatore, del quale era stata ricordata la colpa ma non citato il nome, non poteva neppure replicare con un appropriato da quale pulpito viene la predica!, essendo morto da tempo. Do appuntamento a chi fosse interessato ad altre amenità del genere col lavoro completo del quale ho detto all’inizio, ma, per fornire un’idea di come talora anche l’autorevolezza metta a repentaglio un riconosciuto prestigio, non posso fare a meno di riportare quanto si legge in Isaac Voss (1618.1689), Observationes ad Pompeum Melam de situ orbis, Vlacq, Hagæ-Comitis, 1658.
A p. 166:
(Le campagne salentine e i lidi salentini: sembra che i campi salentini l’abbia preso da Marone e pure assedia con l’esercito le campagne salentine. Ma invero talvolta è accettato il nome tanto di Calabri quanto di Salentini. E così anche non inopportunamente qui ha imitato Virgilio, i cui campi salentini distano lungamente da qui; oppure, se si è espresso correttamente, bisogna dire che queste parole di Pomponio vanno riferite alla campagna salentina propriamente detta in cui ci fu la città di Salento o Salenzia. Per altri questa città si chiama Soleto o Solento, ma di uso indubbiamente corrotto da Salento. Per il grammatico è Σαλλεντία (leggi Sallentìa) forma senz’altro romana. sembra che per i Greci sia stata Σαλόεις (Leggi Salòeis). Come Υδρόεις (leggi Iudròeis) Hydrentum, così da Σαλόεις Salentum. E così i grammatici antichi affermano correttamente che i salentini sono così chiamati dal mare, poiché la loro penisola è bagnata da tanti mari).
Sostanzialmente il Voss contamina i dati di Varrone e di Verrio Flacco, facendo diplomaticamente valere la sola motivazione geografica, che in Verrio si era estesa, anche se non distintamente, a quella commerciale o politica.
Al funambolismo fonetico prima stigmatizzato appartiene, poi, la trafila Υδρόεις>Hydrentum, già difettosa in partenza. Υδρόεις, aggettivo che significa ricco d’acqua, il cui accusativo è ὑδρόεντα (leggi iudròenta), la cui forma contratta ὑδροῦντα (leggi iudrùnta) è derivato il latino Hydruntum=Otranto, non Hydrentum, che non è attestato nemmeno nel più scalcinato dei manoscritti. Su questa trafila per analogia è stata ricostruita l’altrettanto fasulla Σαλόεις (presunta forma aggettivale dal già citato σάλος)> σαλοῦντα (leggi salunta), che in latino avrebbe dato Saluntum e non Salentum).
Dopo il famoso capitano Salento del Cieco da Forlì. rimane da individuare la prima attestazione dell’omonimo coronimo, tenendo conto che la sua origine senz’altro dotta, dovrebbe teoricamente aver rallentato il passaggio dal latino Salentum alla forma volgare.
Stando a quanto emerso, mi pare di poter concludere che Salentum è un’invenzione dotta rinascimentale (se non presente in precedenti glossari o in manoscritti) passata poi al volgare Salento. Di quest’ultimo le prime attestazioni finora rinvenuto risalgono al XVII secolo, entrambe in testi del 1621 in onore dello stesso personaggio.
I loro titoli sono tanto lunghi che, per fare più presto, ne riproduco, affiancati, i frontespizi.
Da p. 117 del primo il dettaglio che ci riguarda:
Da p. 31 del secondo un sonetto di Cesare di Leone:
E da p. 37 un altro sonetto, di Giulio Cesare Guarino:
Una successiva attestazione in poesia è in un brano in prosa, la prima in versi è in Varia diversorum opera latina in morte Illutrissimae Dominae Beatricis de Aquaviva Aragonia.
In calce mancano editore, luogo e data e pure il colophon è assente. Presumibilmente la stampa avvenne nel 1637, anno della morte di Beatrice.
La raccolta, altro dettaglio insolito, si apre nello stesso frontespizio con un componimento di Francesco Antonio Belli, rettore del collegio dei Gesuiti di Lecce, autore di una delle quattro apologie per il poema eroico del Grandi apologie (le altre furono di dall’arcidiacono Giovanni Camillo Palma, dal chierico teatino Tommaso Del Bene e da Giovanni Pietro D’Alessandro), tutti protagonisti della cultura salentina di quegli anni.
A p. 24 uno dei parecchi sonetti del dottor Carlo Schito:
Altre testimonianze poetiche, più di peso per il nome dell’autore, sono contenute nell’ottava 41 del poema eroico Il Tancredi del leccese Ascanio Grandi pubblicato per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1632 e nell’ottava 58 del quarto canto del poema sacro La Vergine desponsata dello stesso autore uscito sempre per i tipi dello stesso editore a Lecce nel 1639.
Salento è ancora nella tragedia La Hidrunte espugnata da Turchi nell’anno 1480 di Girolamo Pipini, Pietro Micheli, Lecce, 1646.
Dal primo atto:
Non riuscendo a resistere ad un attacco di campanilismo acuto, chiudo la carrellata col neritino Antonio Caraccio (1630-1702) e le ottave 27 del canto XII e 23 del XIII de L’imperio vendicato, Tinassi, Roma, 1690.
Mi pare che quanto finora prodotto mi autorizzi a concludere che il coronimo Salento nacque nell’ambiente dei letterati salentini citati a proposito dell’opuscoletto, tra i quali sembrerebbe ergersi, al di là di una strettissima cronologia, quell’Ascanio Grandi che nell’ottava prima riportata e che replico colloca, credo non a caso, in testa Salento e in coda Idume, del quale, come ho avuto occasione di sostenere5, era stato molto probabilmente il padre.
Mi piace chiudere con gli attributi che il coronimo si è visto aggiungere nel tempo.
Cominciarono nel 1621 i già citati Cesare Di Leone e Giulio Cesare Guarino con il bel Salento, poi fu la volta del Grandi con il gentil Salento6 e il bel Salento7, riciclati nel secolo successivo dalle due accademie leccesi, quella degli Speculatori (o degli Spioni) e quella dei Trasformati, in persona, per la prima, col gentil Salento, di Giusto Palma8, che di quell’accademia era il principe, col bel Salento in persona di Francesco Longo9 e di Francesco Errico Viva9; per la seconda, sempre col bel Salento, in persona di Antonio Cini10.
Da allora è sopravvissuto solo il bel Salento, cui si è affiancato in tempi recenti GrandeSalento, presagente la Regione Salento, emula ritardataria della Padania ed espressione di velleitaria e squallida aspirazione a nuove poltrone più che di nobile spirito di servizio. Non ci sarebbe da meravigliarsi, perciò, se la sua realizzazione comportasse l’accelerazione, anziché , quanto meno, il rallentamento, di quel processo già in atto e che ci sta portando a giocarci non solo il bel Salento ma anche lo slogan ecologicamente turistico Salentu, lu sule, lu mare, lu ientu, con una terra destinata a vedere immolata al neocolonialismo con la sua bellezza specchiata nei pannelli solari, il suo mare stuprato dalle trivelle, il suo vento accoltellato dalle pale eoliche, pronto ad accollarsi, grazie ad illuminati contratti segreti, le spese di smaltimento dei pannelli quando in breve saranno diventati obsoleti e, a conferma della nostra ospitalità, ad accogliere le scorie nucleari, nostre e altrui. E magari i responsabili di tanto sfacelo, in un gemellaggio con chi da opposto punto cardinale ha a cuore l’economia differenziata mentre culla un sogno pontificale, passeranno alla storia. Quale? Sempre la stessa, altro che la ciceroniana magistra vitae, specialmente in tempi, come i nostri, in cui il suo studio è considerato una perdita di tempo e si fagocitano le fesserie di sedicenti esperti e intellettuali, sponsorizzandole col passaparola, ad infettare cervelli sempre più restii a pensare, sia pure con la parziale autonomia che la vita sociale richiede. E un parruccone incipriato, nonché personaggetto (vedi link iniziale) sconterà nell’Inferno le sue colpe secondo la legge del contrappasso e in ossequio ai sacro canone turistico che privilegia non la cultura, ma la culinaria. Tanto, sempre per cul iniziano …
2 Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.), in un frammento citato da Probo (I-II secolo d. C.), In Vergilii Bucolica, VI, 3: Salentini dicti quod in salo amicitiamfecerint (chiamati Salentini perché avrebbero fatto amicizia in mare); VERRIO FLACCO (I secolo a. C.-I secolo d. C.) autore del De verborum significationenm opera della quale ci resta l’epitone di Paolo Diacono (VIII secolo): Salentinos a salo sunt appellati (Salentini così sono chiamati dal mare). Per fortuna il codice Farn. LVII ci ha conservato un frammento (QU. XV, 137) che con ogni probabilità riporta il testo originale: Salentinos a sale dictos, Cretas, et Illyricos, quicum Locrensibus navigantes societatem fecerint, eius regionis Italiae, quam d[icuntab eis] (Chiamati Salentini dal mare i Cretesi e gli Illirici che navigando avrebbero fatto un accordo con i Locresi, di quella regione d’Italia, che [chiamano da loro]. Purtroppo nel frammento la lacuna coinvolge proprio il dettaglio che ci interessa e l’integrazione generalmente proposta di certo non li risolve.
3 Cito le due più datate. In un incunabolo del 1470 contenente l’epistolario di Cicerone (data ricavata dalle righe iniziali, nome dell’editore e stampa non ricavabili nemmeno dal colophon pressoché illegibile, nel testo di una delle lettere ad Attico si legge: Quis Salentum leges Locris scripsisse non dixit? (Chi non ha detto che Salento scrisse le leggi a Locri?). Quel Salentum per Zaleucum (questa la lezione corretta) dà un’idea dei rischi dai quali non sono immuni nemmeno i testi a stampa e potrebbe essere un indizio, anche se qui è un onomastico e non un toponimo, che il volgare Salento fosse già da tempo in circolazione ed avesse suggestionato il copista del manoscritto al quale si era rifatto il libro a stampa.
Stessa genesi ha il presunto Salentum di Tito Livio che ai legge in Titi Livii Patavini historici clarissimi quae extant Decades cum Epitome, In aedibus Ascensianis in illustri Parrhisiorum Academia, impensis Ioannis Parvi et ipsius Ascensii, 1510, s. p.): Romani victores ad vicum Maronitarum Salentum appellatum posuerunt castra (I Romani vincitori posero l’accampamento presso un villaggio chiamato Salento).
Il brano, però, riguarda un episodio della guerra contro Antioco III e la lega etolica, per cui questo Salentum è solo un evidentissimo caso di omonimia. Inoltre, pur essendo il commento (e, si presume, la scelta del testo) di Marco Antonio Sabellico, uno dei letterati più famosi di quel tempo, il Salentum (non è dato sapere da quale codice fu letto) già a partire da un’edizione, ancora parigina, del 1543 (Titi Livii Patavini scriptoris clarissimi ex XIIII decadibus historiae Romanae ab Urbe condita, Ex officina Michaelis Vascosani, 1543) risulta emendato nella lezione definitiva, cioè Salen.
4 Un esempio illustre limitatamente al periodo qui coinvolto. Da Giorgio Vasari, Le vite de più eccellenti architetti , pittori, et scultori italiani, s.n., Firenze, 1550, p. 16:
6 Il Tancredi, ottava 71 del canto VI, 30 del IX, 29 del X; I Fasti, ottava 6 del canto VIII; La Vergine desponsata, ottava 58 del canto IV.
7 Al primo verso di un suo sonetto in Pompa accademica celebrata nel dì primo d’ottobre natale dell’Augustissimo Imperadore Carlo VI Re di Spagna per l’anno MDCCXXI nella sala del castello di Lecce …, Mazzei, Lecce, 1721, p. 51.
8 Al verso 12 di un suo sonetto in Componimenti vari degli Accademici Speculatori di Leccein rendimento di graziealla Maestà di Ferdinando IV Re delle due Sicilie per la concessione della Sua Real Protezione e del Giglio d’Oro, s. n., s. l., 1777 (data desunta dall’Avviso iniziale), p. 95.
9 In Raccolta di componimenti in lode di Sua Eminenza il Cardinale D. Arrigo Erriquez …, Viverito, Lecce, 1754, s. p.; ad un suo epigramma in distico elegiaco (Salentum puerum; Juvenemque;Hispania; Fratrem/Roma videt nunc pro tempore; at inde Patrem) fa seguire questa versione: Te vide Arrigo il bel Salento, e poi la Spagna al sen ti accolse,/quello t’ebbe fanciullo/questa adulto nel fior degli anni tuoi./Roma or Fratello d’alti Eroi t’ammira,/indi a chiamarti Sommo Padre aspira.
10 In una sua canzone dedicata a Fulgenzio Gemme in Meditazioni sopra i principali articoli della nostrafede, Micheli, Lecce, 1667, s. p.
Il libro che avete tra le mani ha avuto una travagliata gestazione. Nato per essere pubblicato quando l’autore era ancora in vita, ha subito una serie di rallentamenti dovuti soprattutto alle precarie condizioni di salute dell’autore stesso. Il libro inoltre doveva improrogabilmente essere firmato “Mesciu Masi”, questo lo pseudonimo scelto da Aldo D’Antico per non meglio precisate ragioni; vano ogni tentativo di conoscerle da parte di chi scrive quando Aldo mi chiese di confezionare una prefazione che accompagnasse la silloge poetica.
Oggi il libro vede la luce grazie all’interessamento della benemerita associazione Progetto Parabita, in abbinamento con la rivista NuovAlba, proprio quella rivista che ha visto tante volte comparire sulle proprie pagine la firma dell’autore. Ci sono anche più chiare le ragioni della bizzarra decisione di nascondere la propria identità dietro uno pseudonimo: la prima va ricercata in una sorta di malcelato pudore da parte di Aldo a mostrarsi poeta, lui che era conosciuto più come storico ed infaticabile promotore culturale che come versificatore; la seconda ragione consiste certamente nel timore di potere oscurare in qualche modo il nome dei tanti poeti che come editore aveva pubblicato nelle sue collane, specie perché il libriccino sarebbe stato pubblicato dalla medesima casa editrice, ovvero Il Laboratorio. Ma oggi, con questa pubblicazione, sono venute meno le remore di Aldo e noi possiamo far leggere ad un pubblico ampio le sue perle poetiche, anche grazie al beneplacito della famiglia.
D’Antico, studioso di lungo corso, cultore della storia, della letteratura e delle tradizioni popolari, proveniva, come il suo alter ego Mesciu Masi, da una terra, Parabita, che ha dato moltissimi poeti rimarchevoli quali, per citare solo i più recenti, Rocco Cataldi, Tommaso Ravenna, Giuseppe Greco, Antonio Colizzi, Mario Cala.
Scercule, per definizione dello stesso autore, sono queste poesie dialettali, ossia schegge, tranche de vie, bozzetti, episodi minimi di vita popolare. Si tratta però di un dialetto d’antan, ovvero il dialetto stratificato dall’uso dei parlanti nati a metà del secolo Novecento, come il nostro autore, e nasce da una esigenza interiore, come dice nella programmatica lirica Tialettu, di scrivere “quattru parole te na fiata cuntandu ne la lingua te li siri”. Questo “tialettu” è quindi poco o punto corrispondente a quello parlato dalle nuove generazioni. D’altro canto, la sociolinguistica ci insegna che la lingua non è una struttura fissa e immutabile, bensì un organismo vivo destinato a cambiare perché soggetto a diverse variabili, non solo quelle diacronica e diatopica, ossia in rapporto al tempo e allo spazio, ma anche quella diamesica, dipendente cioè dal mezzo utilizzato (il dialetto usato in versi è diverso da quello in prosa, ancor più da quello parlato), quella diastratica, che dipende dallo stato sociale dei parlanti, e quella diafasica, che si colloca in funzione del messaggio che si vuol dare e dei destinatari dello stesso, diremmo della fruizione della lingua. L’autore ha scelto di cantare nella “lingua te lu tata” sentimenti, gioie e dolori, sorrisi e indignazione, attraverso una versificazione sciolta, diretta e immediata, vicina al naif, lontana da esercizi di stile e intellettualistici estetismi, perché invece diretta ai suoi simili, ai braccianti, agli operai, i poveri cristi che lavoravano “te sule a sule” (e vengono in mente certe stupende immagini di Enzo Fasano, conterraneo maestro della tarsia lignea, che raffigurano con crudo realismo la vita dei contadini e dei cavamonti di un tempo), alle umili donne del popolo: “piju la pinna, quattru-cinque carte e scriu li versi pe’ la gente mia”, afferma.
Il tono è in bilico fra il serio e il faceto. Certamente la lingua sciolta conferisce un valore icastico ai versi. Il poeta tradisce in via liminare la sua matrice proletaria, egli viene dal popolo e al popolo restituisce genuinamente toni, accenti, odori e colori che promanano dalla sua formazione, radicata nella terra e nel mondo degli umili, in quel Salento contadino per cui si fa latamente laudator temporis acti.
Troviamo allora il lamento dell’esule nella lirica Parabbita, in cui si esprime la nostalgia di chi è lontano dalla propria dimora e anela al ritorno. Nella lirica Osci nu’ bbegnu si rivolge ai suoi genitori nel giorno dei defunti scusandosi perché in quel giorno non andrà a trovarli poiché il cimitero sarà invaso dai visitatori che si ricordano dei propri defunti solo nella ricorrenza del due novembre mentre il poeta si reca al camposanto quasi tutti i gironi quando, favorito dalla pace e dal raccoglimento, può avere un dialogo più intimo con i propri congiunti. Il poeta ha in uggia il culto dell’apparire, l’etichetta e il blasone, gli effimeri simboli di un notabilato provinciale vuoto e parassitario. È lo stesso poeta che sollecita la moglie, la quale dopo molti anni di matrimonio si è lasciata andare ad una grigia monotonia che si riflette nell’aspetto dimesso, a ravvivare il suo spento splendore, quello della ragazza di cui un tempo si è innamorato. Anche in questo modo, attraverso la cura del proprio corpo, una donna del popolo può prendere una rivalsa nei confronti dei propri natali e del destino che l’ha confinata all’ultimo piano della scala sociale. E se il destino non può cambiare, perché “a qquai stamu nui, a ddhrai l’addhri a qquai li poareddhri, a ddhrai li ricchi”, dice, “te ci mundu è mundu e nu cangia mai “, tuttavia nessuno impedirà ai poveri di amare e sognare un futuro migliore; per questo, il poeta si rivolge alla propria compagna: “me sentu pizzacare ‘ntra ‘llu core ogni fiata ca pensu all’ occhi tua”. L’amore di un tempo cioè è sempre vivo e più forte che mai.
Come si diceva, il tragico e il comico si fondono in questa raccolta. Essendo l’autore un appassionato difensore dell’eredità della Magna Grecia, si potrebbe paragonare la sua arguzia stilistica a quella di un Rintone di Siracusa (323 a.C. – 285 a.C.), “piccolo usignolo delle muse”, come lo definì la poetessa Nosside di Locri Epizefiri, e che fu il fondatore di quella che i latini proprio dal suo nome chiamarono fabula rhintonica, ossia una parodia dei grandi miti che per contrasto rispetto ai toni enfatici e altisonanti delle tragedie, faceva ridere di gusto gli spettatori. E proprio dalla Magna Grecia veniva il genere della farsa fliacica. Oppure ancora a quel Leonida di Taranto (330 a.C.- 260 a. C. circa), non solo per il crudo realismo dei suoi epigrammi, che descrivevano un mondo di umili e pitocchi di cui il poeta stesso faceva parte, ma soprattutto per quei toni sorridenti ed amari delle sue liriche. L’autore può aver maturato dalla satira latina quell’italumacetum, ossia quella arguzia tutta osca, che rendeva sapide le poesie di Orazio, di Giovenale, di Marziale. Un sermo plebeius, il suo, sempre per dirla con i latini, certo molto lontano dal sermo doctus. Egli non ama le storture del mondo, le sue corruzioni e infamità (“ci rubba, ci ccite, ci se ‘mbriaca: la storria sa utata sutta susu”), vedi il duro atto d’accusa alla Politica e ai suoi personaggi, gli ‘mbroia ‘mbroia”, e il suo disprezzo per la tigna, ovvero la tabe che come un sangue putrefatto si raggruma e guasta certi ambienti altolocati. E si fa anche fustigatore di costumi, come in A pizzoca, contro la religiosità di certe donne del popolo, troppo ostentata per non essere falsa, o contro il parvenu, in Cicciu bardatu, ossia colui che, pezzente arricchito, si dà arie da gran signore e parla con la erre moscia come i muscadins, quei giovani francesi del Settecento che si vestivano in maniera alquanto ricercata e per snobismo si comportavano in siffatto modo, tanto che venivano messi in burla; oppure ancora, in Camasci, contro quei perdigiorno che trascorrono le giornate nell’osteria ad ubriacarsi e spettegolare; contro i politici di paese, pronti solo a fottere e a raggirare la legge, oppure contro il monaco corrotto che gozzoviglia e fornica tutto il giorno prima di tornare in convento: a tutti questi tipi da commedia umana va il suo detto: “li ‘ntichi ine ragione, nu ‘nc’ é santi: quandu lu patucchiu se vitte ‘nthra farina se critiu ca è diventatu mulinaru.”
Emerge la forte passione civile dell’autore, filtrata attraverso l’arma spuntata dell’ironia, quest’ultima più di tutto soppanna gli umori della piccola raccolta, ne sostiene l’impalcatura versificatoria, fornisce humus alla poderosa concrezione creativa elaborata dal nostro parabitano aedo.
Egli insomma è lontano dall’ipocrisia e dai compromessi che richiede la moderna vita sociale, si sente vicino agli ultimi, alla semplicità quasi evangelica; la sua adesione personale e letteraria va ai “poviri furesi ca cercane cu tirane la vita”, al simpatico Mesciu Strozzula, “mesciu te palore e de titterri te pruverbi, giraotule e culacchi te ‘ngiurrie, pijangiro e de carcasse”; la condizione delle classi subalterne, le contraddizioni sociali stuzzicano la ribellione del satirico, che si stempera in una dimensione ludica; infatti sempre è il sorriso all’angolo della bocca, come un moderno Marziale (38- 104 d. C.), che attacca il vizio ma in fondo se ne compiace perché sa egli stesso di non esserne immune. Si pensi alla poesia Carne te la carne, in cui la vox populi attesta che lu ‘Ngiccu è figlio del parroco, frutto di una notte d’amore con la bella Lucia, ma interviene l’indulgenza del poeta che assolve il prelato perché “cci bbo faci, puru lu prete è ommu”. E proprio come Marziale, descrive situazioni, personaggi, ambienti fortemente realistici, vicende e dialoghi tolti alla vita di tutti i giorni. Tocca accenti di accorata umanità quando piange la morte dell’umile vicina di casa, la Tunata, presagendo l’ineluttabile destino comune, oppure nella fierezza del campagnolo che sa disdegnare gli agi e i grandi vantaggi della vita dei ricchi, preferendo la vita semplice e genuina e il calore del suo focolare domestico, e sembra riecheggiare il grande Orazio (65 a.C.- 8 d. C.) che, di fronte alle allettanti offerte di Mecenate di trasferirsi in città per diventare poeta di corte dell’Imperatore Augusto, seppe rifiutare, preferendo restare nella serena pace della campagna Sabina, nella sua umile abitazione, parva sed apta mihi. Al poeta poco cale di terreni e investimenti, immobili e lucrosi affari, “nu’ mme ‘nde futtu te le proprietà”, egli ama solo la propria libertà e sa bene che può morire in qualsiasi momento senza darsi pena per quello che potrebbe lasciare ad avidi eredi. Una prece alla Madonna della Coltura, adorata patrona della città di Parabita, alla quale l’autore riserva un sentimento di filiale devozione e la invoca a salvamento dagli squilibri e dalle storture che angosciano i suoi consimili.
Sono solo parole, infine, questi versi, “Erva te jentu”, come nella poesia che dà il titolo alla silloge, “fiatu te tiaulu”, ma per Aldo – Mesciu Masi queste parole hanno più valore dei beni materiali e pur nella semplicità formale hanno vigore, potenza espressiva, restano incise come uno sfraghìs, il sigillo con cui i poeti greci firmavano con il proprio nome i componimenti. Insomma, c’è molto da leggere e meditare.
Novoli e il culto di Sant’Antonio Abate: le origini e la Focara
Ammetto che esplorare la storia e la cultura novolese mi ha sempre affascinato; in particolare mi ha attratto, e per certi versi commosso ed emozionato (tanto da realizzarne un libro giunto alla terza edizione e dal titolo “Il fuoco Sacro. Il culto di Sant’Antonio Abate a Novoli e nel Salento”), l’indissolubile legame che stringe Novoli al suo patrono S. Antonio Abate, quell’Antonio, che per quanto egiziano ed eremita, nel nostro comune del Nord Salento, sembra quasi abitarci vivendo accanto alle ormai infinite generazioni dei suoi figli che lo riconoscono e lo amano davvero come un padre.
La venerazione di Sant’Antonio eremita a Novoli, come nell’intera Puglia, ha senza dubbio radici profonde e può essere ricondotta all’influenza bizantina nel Mezzogiorno italiano. E come è, appunto, tipicamente bizantina la devozione a S. Antonio Abate, bizantine sono anche quelle per San Nicola, San Biagio, Santo Stefano e Sant’Andrea, santi ai quali i Novolesi hanno dedicato delle chiese.
Testimonianza di questa antica venerazione è certamente infatti “il capitello dell’Hosanna” (risalente probabilmente al 1692) che si trova vicino al tempio del Santo e su cui sono scolpiti nei rispettivi lati non solo gli stemmi del Comune e dei Mattei (antichi signori di Novoli) ma anche le effigi dei protettori Novolesi e cioè la Madonna di Costantinopoli (di cui si conserva anche un pregevole affresco collocato cronologicamente nei primi decenni del secolo XIV nella chiesa dell’Immacolata in cui si nota una componente bizantina sia nell’impostazione che nella figurazione) e S. Antonio Abate.
Ovviamente il culto non si estinse con la fine della dominazione greca ma si mantenne sempre vivissimo come provano le molteplici testimonianze iconografiche sul Santo sparse per le nostre contrade. Una delle più belle ed antiche è quella ammirabile ancora oggi, nella basilica galatinese di Santa Caterina d’Alessandria. Nel 1432 proprio all’interno della splendida basilica Orsiniana, Sant’Antonio veniva raffigurato da Franciscus de Arecio. Ai piedi del Santo compare, forse per la prima volta nel ‘400 salentino, un nero maialino (è questa la prima raffigurazione datata e firmata in Terra d’Otranto; inoltre altre due raffigurazioni sempre del Santo arricchiscono gli affreschi della basilica).
Dai documenti conservati presso la Curia Arcivescovile di Lecce (rintracciati da Pietro De Leo) si evince che a Novoli, già agli albori del Seicento, esisteva un “sacellum”, cioè un tempietto dedicato al santo proprio lì dove oggi sorge il santuario. Questo piccolo luogo di culto iniziò ad essere ampliato a partire dal 1640 (I visita pastorale di monsignor Luigi Pappacoda del 18 maggio di quell’anno) sino a quando, nel 1664, rispettivamente il 20 e il 22 gennaio, il clero e l’Università, elessero in maniera ufficiale l’anacoreta copto come proprio patrono. Val la pena citare il passo più importante di tale documento perché in esso sono indicate le motivazioni di tale scelta: “Ill. mo e Rev. mo Signore, l’Università e Clero della Terra di S. Maria de Nove humilmente espone a V. S. Ill. ma, come dentro detta Terra v’è la Chiesa di Santo Antonio Abate dall’intercessione del quale Santo tutta la detta Terra ne riceve gratie infinite, particolarmente in occasione di molte case incendiate, con la sola invocatione del detto Santo detta Terra n’ha esperimentato effetti meravigliosi con essere subito cessati l’incendij, che potrebbero evidentemente far danno di molta consideratione così anco in molte occasioni d’infermità gravissime e d’armature di foco, che nel giorno della festa di detto Santo da molte persone devote di detta Terra si sono sparate e crepate in mano di quelli senza ricevere nocumento alcuno essendosi visto il pericolo evidente di restarne offesi et essendo tanta la devozione del popolo di detta Terra e di concorso ogni giorno di tutti li luochi convicini in detta Chiesa, e per le tante obbligazioni che si devono da detta Terra a detto Santo; ha concluso detta Università unitamente al Clero, come dalle preinserte conclusioni si può vedere che si pigli detto Santo Antonio Abate per particolare Padrone, Protettore ed Avvocato di detta terra con quelle solennità che si ricercano in simili occasioni che si pigliano dall’Università o luochi, o popoli per pubblico Protettore di qualche luoco o terra città qualche santo particolare tanto maggiormente che detta terra non ha altro santo per Protettore…”.
La ratifica da parte della Sacra Congregazione dei riti giunse però (non sappiamo per quali ragioni) solo il 23 agosto del 1737, dopo essersi accertato che Novoli non aveva altri protettori, attraverso le testimonianze di D. Francesco Giampietro e D. Francesco Russo. Da allora il 17 gennaio a Novoli diventò giorno festivo a tutti gli effetti e pertanto valido per le pubblicazioni matrimoniali. Alcune fonti ci descrivono anche nei particolari, le diverse manifestazioni religiose, ormai scomparse, in cui si esprimeva la devozione verso il protettore sulle giornate di festa. In passato, ad esempio, avveniva la cosiddetta “nturciata” che vedeva i fedeli partecipare portando dei pesanti fusti di cera ardente. Oppure “la strascina”, una batteria pirotecnica che accompagnava il tragitto compiuto dal simulacro del Santo, dal santuario alla chiesa madre.
Protagonista dei festeggiamenti era poi “lu Ntunieddru”, un maialino che veniva lasciato libero di scorazzare per le vie del paese. Se l’ufficializzazione del culto, come si è visto, appartiene a tempi abbastanza remoti, l’acquisizione invece della “reliquia” del Santo che nei giorni di festa viene esposta e venerata, è abbastanza recente. Grazie all’interessamento dei sacerdoti Don Carlo Pellegrino e Don Giovanni Madaro, rettore del santuario, essa giunse a Novoli da Tricarico, paese in provincia di Matera, precisamente il 27 luglio del 1924. Tale avvenimento, segnò indubbiamente una bella pagina della storia di Novoli e una solenne manifestazione dell’amore di ogni Novolese per il “Guardiano del fuoco”.
Oronzo Madaro narra che nell’inverno del 1924 don Carlo Pellegrino si era recato a Tricarico, con altri sacerdoti per una sacra missione. Dopo qualche giorno, il Pellegrino scrisse una lettera annunziando che nella Cattedrale di Tricarico vi erano dunque due urne ricchissime di argento, dono di un cardinale, con reliquie in una di S. Polito martire, patrono di Tricarico, e, nell’altra di S. Antonio Abate. La notizia fece fremere di gioia i Novolesi e subito fu formulata una supplica per il Vescovo di Tricarico in cui lo si pregava, insieme al Capitolo di quella cattedrale, di concedere a Novoli una reliquia di S. Antonio Abate. Alla supplica, avvalorata dalla commendatizia di Mons. G. Trama, seguì una risposta affermativa e così, verso la fine di febbraio, Don Carlo Pellegrino e Don Giovanni Madaro, rettore del santuario, si recarono a Tricarico per ricevere la reliquia in consegna.
L’urna preziosa fu immediatamente prelevata dal tesoro della Cattedrale per essere esposta nella cappella privata del Vescovo “che dissuggellò l’urna, ne trasse la reliquia, la collocò in un cofanetto di cristallo con il documento di autenticità firmato e suggellato”. Quando la reliquia giunse a Lecce, fu posta nell’attuale e ricchissimo reliquiario d’argento di stile gotico; autenticata ancora dal sigillo di Mons. Trama, essa rimase nell’Oratorio del Palazzo Vescovile di Lecce sino al 27 luglio, quarta domenica, ovvero giorno fissato per la solenne traslazione che fu effettuata con un treno speciale. Oronzo Madaro ricorda che sul piazzale della stazione Mons. Francesco Greco dette un caloroso saluto a nome di tutto il popolo Novolese; quindi si svolse la processione solenne alla quale parteciparono i due Vescovi Mons. Trama e Mons. Delle Nocche, Vescovo di Tricarico, un numeroso gruppo di canonici, di Parroci e di Sacerdoti della diocesi, il Clero Novolese, i PP. Passionisti, tutte le Confraternite, il Consiglio comunale al gran completo con il sindaco Tarantini, tutte le autorità civili e militari, le associazioni con labari e bandiere. Furono percorse le vie fra i canti e gli applausi del popolo novolese e dei forestieri che facevano ala al passaggio”.
La reliquia fu posata su un altare su cui si contemplava il simulacro del Santo Patrono, sovrastato da un grande baldacchino eretto sul sacrato della chiesa. Poiché il santuario era incapace a contenere il popolo, mons. G. Trama celebrò la messa all’aperto e tenne anche la Sacra Ordinazione di alcuni seminaristi Novolesi. La S. Reliquia fu poi esposta sull’altare maggiore e la festa religiosa continuò ancora per tre giorni.
Vi furono così numerosi pellegrinaggi, ricevuti col suono delle campane e con il saluto di alcuni sacerdoti novolesi, dai paesi vicini. Questi ebbero inizio nel pomeriggio della stessa domenica con Carmiano, Magliano e Trepuzzi, mentre negli altri giorni, sino a giovedì, si successero quelli di Campi, Squinzano, Salice, Veglie, Arnesano e Monteroni, tutti guidati dai rispettivi parroci. Dopo queste giornate di preghiera e di festa, la S. Reliquia fu custodita nel cappellone del Santo, nella bella nicchia di marmo che tuttora si ammira. Contemporaneamente nella chiesa fu murata una lapide marmorea con parole dettate dallo stesso Madaro, che ricordavano l’avvenimento e i nomi del Vescovo di Tricarico donatore della reliquia e quello di Mons. Trama che si era prodigato per ottenerla e che era stato presente alla solenne celebrazione.
La Fòcara
Per i Novolesi, fondamentalmente, Sant’Antonio è il Santo del Fuoco e la Fòcara è il simbolo esclusivo, impareggiabile, della nostra antica devozione. Ma ci si chiede: è possibile analizzare, dal punto di vista storico, la tradizione del falò che si costruisce con particolari tecniche e soprattutto con “un’arte” che i padri tramandano ai figli? Il Santo fu proclamato patrono del paese principalmente, come si è visto, “perché custodisse le case dal fuoco che distrugge e le persone dal fuoco d’artificio che lacera le carni”.
Volendo essere sinceri perciò le origini della Fòcara restano ancora piuttosto oscure. Non è possibile dunque affermare con certezza quando ebbe inizio la consuetudine di onorare il Santo dando fuoco ad una grande pira. Allo stato attuale delle ricerche, il più antico documento che attesta l’esistenza del falò è un articolo apparso nel 1893 su una testata locale, la Gazzetta delle Puglie. Il documento venne rintracciato dallo studioso Alfredo Mangeli. Si tratta di un semplice pezzo cronachistico che ci informa come in quell’anno vi furono notevoli difficoltà ad accendere la Fòcara.
È invece del 1909 una delle più remote testimonianze fotografiche datate dell’evento. Ai primi decenni del XX sec. Risalgono gli scritti dello storico Pietro Palumbo (1938), dello studioso di tradizioni popolari Francesco D’Elia (1912) e di Mons. Oronzo Madaro (che descrive la “festa del 1900”), le testimonianze del Bertacchi (1926) e dello Sbavaglia (1928). Nelle loro pagine, tali autori sono concordi nel definire la costruzione e l’accensione della Focara “un rito antichissimo”.
Una fonte eccezionale è tuttavia quella rinvenuta alcuni anni fa presso l’Archivio di Stato di Napoli, dalla studiosa Giuliana Petracca. È una sorta di quaderno, datato 1462, in cui vengono registrati i nomi dei carbonai autorizzati a rifornire la Zecca di Lecce. In moltissimi sono originari del casale di Santa Maria de Novis, cioè di Novoli, che all’epoca poteva contare poco più di un centinaio di abitanti. Questo significa non solo che la produzione del carbone era l’attività lavorativa più diffusa tra i nostri antenati ma anche che, è innegabile, la familiarità dei Novolesi con il fuoco parte davvero da molto lontano (il Quaderno, dal punto di vista onomastico, è per Novoli, nel contempo il più antico e originale documento in cui si registrano i cognomi delle prime famiglie novolesi).
Ad ogni modo, al di là delle diverse interpretazioni e ipotesi che si possono elaborare, resta principalmente il fatto che la Fòcara, con il suo crepitio dei “sarmenti” (tralci di vite) recuperati dalla rimonda dei vigneti, è, come ebbe a scrivere Don Oronzo Mazzotta, “come un canto d’arpa a mille corde per ringraziare il Signore che ci dà frate foco che illumina e riscalda, ma principalmente è un cero votivo che si alza al cielo per ringraziare il Protettore” (non a caso, fino al 1949, la pira si costruiva sulla piazza davanti al Santuario).
“Sappiate, homini da bene e fratelli miei cari, come in detto loco v’è la Chiesa del glorioso Santo Antonio del foco, per la cui intercessione n’havemo, ogni giorno, mille gratie e favori, sarà bene che lo pigliassimo per nostro Avocato e Protettore, qual proposta, appena intesa, fù da tutti, concluso unanimiter, nemine paenitus discrepante…”. Così parlava, infatti, il sindaco Andrea di Marso Ricciato il 20 gennaio 1664 al Parlamento riunito con il consenso del Luogotenente, Domenico Saracino, invitando i Novolesi a scegliere il Santo della Tebaide. Da allora ebbe inizio un lungo cammino di devozione e di fede che caratterizzerà, per sempre, la nostra Comunità.
In www.spazioapertosalento.it, 15 gennaio 2021.
Riferimenti bibliografici essenziali
De Leo P., S. Antonio eremita protettore di Novoli, note e documenti, Galatina 1971.
Mangeli A., Sant’Antonio Abate e Maria SS. Del Pane Patroni di Novoli, Novoli 2001, p. 8.
Mazzotta O., NOVOLI Ritorno alle radici Alla ricerca di una identità perduta, Novoli 2012, p. 30.
Petracca G., Quaterno de spese et pagamenti fatti in la cecca de Leze (1461-1462), Istituto storico Italiano per il Medioevo, Centro di studi Orsiniani, Fonti II, Roma 2010.
Spagnolo G., Il fuoco sacro, tradizione e culto di S. Antonio Abate a Novoli e nel Salento, con introduzione di Mario Cazzato, III Edizione, Lecce 2018.
Vetrugno P.A., Osservazioni su alcuni aspetti della civiltà artistica medioevale nel Salento, in “Ricerche e Studi in Terra d’Otranto”, Cellino S. Marco 1987, pp. 248-253.
Aldo D’Antico era uno dei miei più grandi amici. Gli devo molto. Quando ho iniziato a scrivere e pubblicare è stato uno dei primi a credere in me e ad incoraggiarmi. Nutrivo per lui una stima immensa ed un affetto che credo di poter dire fosse del tutto ricambiato.
“Paulucciu!” mi chiamava, con la sua voce squillante, rispondendo al telefono o nei nostri incontri, con un misto di tenerezza e sfottò. La nostra frequentazione era assidua, tanti i progetti realizzati insieme, tanti ancora quelli da realizzare e che ormai non troveranno compimento. È triste per me sapere che non è più. Nel 2007, dopo qualche anno di scritture in cui mi ero occupato prevalentemente di cronache culturali parabitane, decidemmo di realizzare un volume che raccogliesse quei miei scritti, perché non andassero perduti, e fu così pubblicato dal Laboratorio editore, Di Parabita e di Parabitani.
Il libro si focalizzava sulla città e sulla sua storia, sui personaggi illustri, sugli studiosi parabitani, fra cui Aldo de Bernart, Ortensio Seclì, Mario Cala, dei quali tracciavo un esaustivo (per quel momento) profilo bio-bibliografico, e poi sui poeti, saggisti, artisti. Il libro era arricchito da una nota finale di Aldo D’Antico e una Postfazione di Aldo de Bernart.
Al momento della scomparsa di D’Antico, fra la commozione e lo scoramento generale, subito con gli amici e i collaboratori più stretti ci si è chiesto cosa si potesse fare per Aldo, per onorare la sua memoria, per valorizzare il suo lascito morale, dare continuità al suo operare cultura e insieme tributare a lui un omaggio.
Da parte mia, ho subito coinvolto la Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce – il più importante sodalizio culturale salentino, del quale mi onoro di far parte come socio ordinario-, ed il suo Presidente, prof. Mario Spedicato. Ciò perché sentivo di dover dare una solida base scientifica all’operazione che nella mia mente si andava delineando. Insieme ai famigliari, spontaneamente ci si è ritrovati nella casa di Ortensio Seclì, che è divenuta la sede operativa dei nostri incontri. Con gli amici Guido Pisanello, Ortensio ed Elvira Seclì, Piero Buffo, Fiorentino Seclì, Anna Piccinno, Alessandro Cavalera, le decisioni da prendere si sono rivelate facili ed immediate.
È comune volontà dedicare ad Aldo un libro che raccolga buona parte dei suoi scritti che sono sempre stati sparsi in riviste e su fogli extravaganti e che rischiano di essere sommersi dall’oblio. Ciò per dare una visione d’insieme ed una struttura organica, quella del volume monografico, alla sua vasta ma pure rapsodica produzione letteraria, che si è esplicata nei decenni attraverso saggi, articoli, note brevi e brevissime sugli argomenti più disparati. In un secondo momento poi è nostra intenzione pubblicare un altro volume, sotto gli auspici della SSPP di Lecce, nella prestigiosa collana “I quaderni dell’Idomeneo”, che renda omaggio ad Aldo attraverso le testimonianze di quanti, e sono davvero tantissimi, lo hanno conosciuto ed apprezzato.
Questo libro si caratterizzerà altresì come un volume di studi in sua memoria che nella seconda sezione conterrà saggi di storia del territorio, chiamando a raccolta i principali studiosi accademici ed extra accademici, salentini e non solo, perché si possa realizzare un prodotto editoriale all’altezza delle aspettative. Dare spessore, rigore metodologico ed una accurata curatela a questa operazione, credo sia il miglior modo per celebrare Aldo D’Antico per la sua straordinaria figura di studioso, editore e promotore culturale. Gli amici si sono costituiti in un comitato che affronterà le spese e seguirà concretamente le varie fasi di raccolta degli scritti e pubblicazione dei libri.
“Per Aldo”: non poteva che essere questo il nome del Comitato, come quello del gruppo whatsapp da subito creato da Guido Pisanello per comunicare fra di noi. I firmatari sono: Franca Capoti, Ortensio Seclì, Elvira Monaco, Guido Pisanello, Paolo Vincenti, Fiorentino Seclì, Anna Piccinno, Alessandro Cavalera, ma il gruppo è aperto ad altre adesioni e siamo sicuri che tanti si uniranno nelle prossime settimane. Riporto l’art. 2 dello Statuto, che così recita:
“Il Comitato non ha fini di lucro e il suo scopo è quello di divulgare la conoscenza del pensiero e la memoria del Maestro ALDO D’ANTICO attraverso la pubblicazione di n° 2 volumi ad esso ed alla sua cultura storica e civica dedicati; nonché alla promozione culturale dei volumi, quando pubblicati. Il Comitato si prefigge, altresì, la realizzazione di attività e manifestazioni collaterali, culturali o di spettacolo, o di quanto altro fosse ritenuto utile per la migliore realizzazione della propria finalità. Per il raggiungimento dei propri scopi il Comitato potrà organizzare occasionalmente raccolte pubbliche di fondi, in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze, campagne di sensibilizzazione e quant’altro possa essere di aiuto al Comitato; il tutto nei limiti previsti dalle disposizioni di Legge e dal presente Statuto”.
Il nostro impegno sarà massimo, affinché una buona semina possa dare un’ottima raccolta.
Voglio ringraziare la redazione di NuovAlba che dedica questo numero interamente ad Aldo D’Antico e che nell’attenzione che riserva a famigliari, amici e collaboratori di Aldo, dimostra attaccamento e sensibilità non comuni.
La grande notizia non è passata proprio sottobanco, a causa delle trascorse vigilie, cenoni e quant’altro dovuti alle festività natalizie. La grande gioia infatti è caduta esattamente nel cuore di tutti i parrocchiani, alcuni dei quali visibilmente commossi dalla notizia ricevuta dallo stesso don Filippo Urso, parroco di Carosino, nel corso della Santa Veglia e Messa di Natale. Carosino è finalmente Civitas Mariae.
Il decreto di nomina impartito direttamente dall’Arcivescovo Metropolita di Taranto S.E. Ciro Miniero, porta una data inscordabile per la popolazione Carosinese, quella cioè dell’8 dicembre 2024, festa della Madonna Immacolata Concezione.
Lo si è sempre saputo ma ci voleva l’ufficialità di questa nomina. A ben vedere difatti è stato relativamente breve l’iter procedurale che ha sancito ufficialmente questa vera e propria appartenenza del popolo di Carosino alla Vergine Maria, a seguito dell’istanza popolare del 28 dicembre 2023, avanzata dopo la presentazione del libro postumo di A. Cinque (La Chiesa dei Miracoli di Carosino). Evidentemente anche la magnanima sensibilità della stessa guida pastorale della diocesi jonica Mons. Miniero, è riuscita a porre un sigillo autorevole, sopra un’iniziativa popolare che esprime bene la devozione e l’affetto della cittadina carosinese e dei suoi abitanti tutti verso la Vergine Ss.ma.
Sono stati sicuramene questi i sentimenti che lungo i secoli hanno sostenuto la fede e la vita cristiana della gente di questa località. Basti pensare che la cittadina di Carosino oltre ad avere una copatrona in Santa Maria delle Grazie, annovera addirittura una personalissima festa religiosa dedicata proprio alla venerata Madonna di Carosino, che si celebra il 17 febbraio di ogni anno. E qui la fede di questi cittadini e proprio grazie al decreto di Civitas Mariae, potrebbe riportarci persino ai tempi andati, arrivando addirittura a ricordarci l’inizio del culto mariano in loco risalente all’incirca al XIII secolo.
Ma c’è molto di più. Basta rammentare anche tutti i successivi miracoli che la Madonna operò ai molti pellegrini che visitarono la cappella-chiesa carosinese in quel periodo storico, come riportato dalle preziose formelle dei mirali incastonate nel frontale dell’altare maggiore della locale Chiesa Madre. Carosino infatti e tutti i pellegrini già a quei secoli erano nel cuore della Madonna stessa e nelle grazie da Lei elargite con tanto vigore, da far divenire l’allora piccolo casale jonico e la stessa minuta cappella, un importante quanto conosciuto santuario mariano. Quindi oggigiorno non siamo più nella leggenda o nelle narrazioni religiose di alcuni visionari (come alcuni hanno supposto) ma siamo in presenza di riconoscimenti religiosi di un certo livello, il cui amore verso la Madonna dei Carosinesi potrebbe essere anche documentato da studi approfonditi.
A questo proposito già iniziò la ricerca il compianto prof. Antonio Cinque e attualmente gli studi ancora più approfonditi del nuovo storico locale l’arch. Angelo Campo. Ma essere Civitas Mariae oltre alla indiscussa prerogativa mariana, comporta anche una (ri)valorizzazione del territorio, a cui l’Amministrazione comunale carosinese col Sindaco Onofrio Di Cillo in testa, sta sicuramente già lavorando.
Territorio, Comunità e Tradizioni religiose quindi, possono anche rappresentare una triade che sviluppa strumenti di formazione diffusa anche al di là della venerazione mariana. Non bisogna allora coltivare un bieco devozionismo fine a se stesso e spettacolare, è necessario invece che ognuno si faccia veramente consapevole di quell’inestimabile patrimonio religioso e anche caratteristico che si possiede, strutturando meglio le sinergie nella cittadina e tra le città dello stesso comprensorio pugliese che hanno ottenuto la proclamazione di Civitas Mariae.
Forza allora Carosino, il primo passo col decreto di Città Mariana è stato fatto, adesso si attende la (ri)proclamazione ufficiale di Carosino come Santuario della Vergine Maria.
A questo proposito piace ricordare le parole dello stesso Papa Francesco nel lontano 2018, quando parlando proprio di “santuario”, ebbe tra l’altro a dire che è una:”…. porta aperta per la nuova evangelizzazione.” Chissà allora che il Santo Padre non prenda a cuore questo altro riconoscimento di santuario mariano a Carosino, proprio in questo Anno Giubilare.
La Porta del Castello e la statua di San Giuseppe posta sulla sua sommità saranno al centro di un convegno organizzato l’11 gennaio 2025 dall’APS Laboratorio di Idee Vico Serpe in collaborazione con la Direzione del Castello di Copertino, presso la Sala Angioina del maniero.
L’evento vedrà impegnati come relatori l’architetto Fabrizio Suppressa, l’astrofisico prestato alla storia Davide Elia e il medico Giuseppe Trono, che tratteggeranno la storia delle mura e delle porte cittadine e della statua del Santo protettore, dalla prima settecentesca a quella attualmente posizionata sulla sommità della porta del Castello, per la quale ricorre il 60° anniversario della realizzazione.
Modererà gli interventi il Prof. Cosimo Esposito, concluderà i lavori il Cav. Angelo Vogna, presidente di Vico Serpe.
A complemento del convegno sarà inaugurata una ricca mostra fotografica con immagini storiche della porta e della statua e documenti inediti, relativi all’inaugurazione della statua di san Giuseppe collocata nella posizione attuale l’11 luglio 1965. Sarà anche presentato un volume a firma dei relatori con la prefazione dello storico copertinese Giovanni Greco.
Nelle intenzioni degli organizzatori l’evento mira a richiamare l’attenzione su numerosi particolari, poco noti o del tutto inediti, della storia della porta cittadina e della statua di san Giuseppe, ma anche e soprattutto a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni precarie in cui versa l’importante monumento, tanto caro ai copertinesi.
Le donne rappresentate dal cinema al teatro. Due spunti da un film e da un lavoro teatrale
Ultima notte dell’anno 2024, una cena semplice e rapida ma gustosa, e poi niente folla, niente televisione, niente botti: si va in una sala cinematografica a vedere l’ultimo film di Ferzan Ozpetek: “Diamanti”.
Un film toccante, davvero bello, che parla di una comunità di donne, un atelier per costumi di film e teatro, che non è solo un’equipe di lavoro, ma una comunità solidale, di quella solidarietà più frequente nelle donne.
Sono donne, ognuna con la propria storia, che nel vivere quotidiano, che sia lavoro, ménage familiare, ricordi dolorosi o relazioni interpersonali, riescono a dimostrare la loro peculiarità, il loro prezioso valore, proprio come diamanti.
Un film da vedere e da gustare che avrà il giusto successo che merita e, come il film della Cortellesi “C’è ancora domani”, andrebbe proposto nelle scuole di questo Paese dove sono ancora troppi coloro che pensano alla donna come a un bene proprio, un oggetto di cui disporre e non a una creatura meravigliosa, una compagna di vita, con pregi, difetti, desideri, progetti, capacità e risorse…
Il film mi ha ricordato un’esperienza teatrale bellissima e pregnante, fatta a fine novembre a Spongano per caso, ma che mi ha colpito profondamente. Ve ne parlo di seguito.
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Ci sono luoghi che vivono una vita ordinaria e aspettano una sorte migliore.
I luoghi, però, sono inerti e per farli vivere, per farli palpitare occorrono donne e uomini che, con la loro opera, la loro laboriosità e la loro passione, li rendano vivi e prima di tutto questo ci deve essere una mente che dalle rovine sappia vedere quello che, anche dopo anni e anni, di bello si può realizzare.
Questo pensavo mentre mi trovavo nell’ipogeo Bacile e vedevo l’ultimo lavoro, proposto dalla “Compagnia Salvatore Della Villa” per la regia dello stesso Della Villa, tornato “a casa” in quell’ipogeo che lo ha visto fare le prime stagioni di teatro a Spongano.
Il lavoro, che si intitolava “– ”, era molto stimolante e l’ambientazione nell’antico frantoio ipogeo lo ha reso unico.
Lo spettacolo, proposto in occasione della la giornata contro la violenza sulle donne, era come itinerante e il pubblico passava da un luogo all’altro dell’ipogeo con una sorta di “Beatrice” (Serena Serra) che con una lanterna e canti delicati (quando gitani, quando salentini…) invitava con garbo il pubblico ad alzarsi e a seguirla mentre lei, con passo elegante e sicuro, incedeva in quella antica casa di duro lavoro.
Così, con questo viaggiare, abbiamo conosciuto donne, note e meno note, che si sono raccontate e la passione e l’arte delle attrici ce le ha fatte vivere come se fossero loro stesse a parlarci della loro vita, dei loro sentimenti, delle loro paure… insomma del loro essere donna.
Vale per Clara Immerwhar, chimica, che muore per “umanità” intesa come amore per il genere umano e avversione per tutto quello che può arrecargli danno, Svetlana Kana Radević, architetta visionaria, ma capace di realizzare quelle visioni, o Oriana Fallaci, madre che parla al suo bambino, poi mai nato, ma vale anche per Santa Teresa d’Avila, grande mistica, o per Aung San Suu Kyi, o Frida Kalo, donne che abbiamo conosciuto e apprezzato per la sensibilità spirituale, politica (nel senso più alto di amore per la propria terra e per i propri simili) e artistica.
Queste donne, anche se note, qui sono sembrate diverse, perché ci hanno palesato una intimità che le ha rese umane, degne… donne quasi titaniche, pur nel loro esprimersi con un lessico familiare, normale.
Per me è stata una scoperta la Chimica Clara Immerwhar (Monia Politi), eroina oscurata che si suicida per protestare contro un potere che usa la chimica, che dovrebbe aiutarci a vivere meglio, per uccidere proditoriamente chi da un nemico invisibile non si può difendere e muore invano, perché quello stesso potere nasconderà il fatto e occulterà i messaggi che lei aveva scritto per spiegare il suo gesto.
Allo stesso modo una scoperta è stata Kana Radević (Tamara Brajovic) che nasce in una terra martoriata dalla guerra e con la sua genialità non si ferma davanti al pregiudizio e sa immaginare cose mirabili e le realizza nonostante preconcetti, preclusioni e ostacoli.
Anche le altre, che pure conoscevo, l’appassionata recitazione delle attrici, ce le ha rese vive, ma soprattutto ci ha fatto conoscere di loro sentimenti, passioni, idee… che l’arida biografia non sempre riesce a rendere.
Così per Aung San Suu Kyi (Elisabetta Tucci) che ci racconta la sua storia politica che parte da una vita piuttosto tranquilla in Inghilterra, ritorna nel suo martoriato paese e viene individuata dagli studenti che lottano contro la barbarie della dittatura come riferimento per un progetto di libertà. Lo accetta e ci parla del bene più caro per l’umanità, la libertà, dalla cella di un carcere fatiscente.
Lo stesso vale per Teresa D’Avila (Maria Rosaria Rossetti), mistica spagnola, carmelitana e santa, che, per sapienza, virtù e scritti, viene nominata Dottore della Chiesa e che da una cella di convento ci parla di Gesù, amore per tutti, e lo fa in maniera contagiosa.
E poi Oriana Fallaci (Chiara Serena Brunetta) che parla al bambino che porta in grembo (che poi non nascerà) con un amore materno, una vicinanza, una complicità e una intimità davvero intensi.
Orrenda la storia di Suad (Stefania Bove), una giovane donna araba che si innamora dell’uomo sbagliato e resta incinta. Un altro uomo, suo zio, che avrebbe dovuto amarla e proteggerla, per cancellare la vergogna che si è abbattuta sulla famiglia la cosparge di combustibile e le dà fuoco. Trascorrerà mesi in ospedale, partorirà e le sarà tolto il suo bambino, ma alla fine lo ritroverà.
Davvero affascinante poi la storia di Frida Kalo (Serena Serra) nota per la sua arte, ma meno nota per la sua tragica, unica ed esaltante storia sia per l’arte, sia per le vicissitudini umane. Con problemi fisici e di salute, con una storia d’amore per lei esaltante, ma anche complicata da una passione intensa, da tradimenti da parte di lui, da sofferenze da parte di lei, per un amore che, alla fine, resta indissolubile. E dietro tutto questo si percepisce un amore per la vita, per l’arte, per l’amore stesso che riesce ad esprimere con i suoi quadri con colori, figure, forza creativa…
Davvero appassionante!
Il girovagare nell’ipogeo ci faceva sentire pellegrini che nel viaggio (anche fisico) incontravano queste donne mirabili, eccezionali, rese come vive e presenti, che nella loro eccezione declinavano il paradigma di tutte le donne con la loro forza, la loro sensibilità, il loro ingegno nel risolvere i problemi…: Diamanti, insomma, come le definisce Ozpetek.
Un’ultima notazione occorre e riguarda il commento musicale con la chitarra di Franco Chirivì, bello e puntuale, è il tappeto di suoni in sottofondo che ha accompagnato la serata, ma molto gradevoli e suggestivi sono stati anche i canti che ci hanno accompagnato da una storia all’altra e quelli incastonati da Serena Serra nella performance su Frida.
Un’esperienza bellissima che ci ha fatto conoscere donne ignote e ci ha messo in sintonia con donne note, ma conosciute per il loro aspetto pubblico che qui hanno messo a nudo la loro intimità come parlando a un amico.
Davvero complimenti alla Compagnia Della Villa che da quest’anno non sarà più di casa a Galatone. Infatti, un sistema di gare ha preferito un’altra compagnia ritenuta più valida.
Speriamo, per i Galatei, che lo sia. La Compagnia Della Villa ha saputo in questi anni rendere vivo il teatro a Galatone, svolgendo un ruolo di programmazione organica e, direi, di rilievo, di didattica e anche di divulgazione culturale e scientifica. Non so se prima di Salvatore Della Villa a Galatone ci fosse una stagione teatrale così interessante come quella degli ultimi anni. Mi auguro, di cuore, che i Galatei abbiano trovato di meglio.
La Compagnia Salvatore Della Villa troverà, comunque, presto il posto che saprà accoglierla.
Le foto sono tratte dalla pagina fb della Compagnia Della Villa
Che incantevole paese, la Svizzera. Un paese quasi interamente ricoperto di montagne, con poche risorse naturali ma ricchissimo, in rapporto al numero di abitanti. “Con chi confina la Svizzera?”, ci chiedevano a scuola. E noi: “la Svizzera confina a sud con l’Italia, ad ovest con la Francia, ad est con l’Austria e a nord con la Germania”, anzi dicevamo “con la Repubblica Federale Tedesca”, cioè la Germania dell’ovest, perchè all’epoca la Germania era ancora divisa in due distinte nazioni, con la Repubblica Democratica Tedesca ad est. La popolazione della Svizzera si ripartisce in quattro gruppi etnici: tedesco, francese, italiano e ladino.
È divisa in ventisei cantoni. Procedendo da sud ovest a sud est, incontriamo: il cantone Vallese, uno dei più estesi, con città come Sion e Briga; i cantoni di Ginevra e Vaud, dove c’è il lago di Ginevra, con città come Ginevra e Losanna; il cantone di Friburgo, con la città omonima; il cantone di Neuchatel, con il famoso lago di Neuchatel e la città omonima; il cantone del Giura, con capitale Delémont; il cantone di Solothurn; il cantone di Berna, dove si trova la capitale della Svizzera, una delle città più belle e pittoresche del paese; il canton Ticino, con il lago di Lugano e città importanti come la stessa Lugano, Bellinzona, Locarno; il cantone di Unterwalden; il cantone di Lucerna, con la omonima città; il cantone di Zurigo, con la città più importante e nota della Svizzera, cioè Zurigo, e Winterthur; il cantone di Basilea città, dove è la seconda città per importanza dopo Zurigo, e Basilea campagna; il cantone Obwald con la città di Sarnen; il cantone Nidwald con Stans;il cantone Schwitz; il cantone di Zug; il cantiere dei Grigioni, il più esteso, con le celebri località di Saint Moritz, Bernina, Davos; il cantone di Url, con Reuss; il cantone Glarona, con città come Glarona; il cantone San Gallo con San Gallo; il cantone Appenzeil con la città omonima, interno ed esterno; il cantone di Turgovia, con Frauenfeld; il cantone di Sciaffusa, con l’omonima città. Li avete contati tutti? Sono ventisei?
Per gli italiani del nord, soprattutto i lombardi, la Svizzera è una tappa obbligata, anche per un semplice week end, data la estrema vicinanza. Abbandonare lo smog delle città e ritemprarsi nella fresca temperatura delle valli alpine è irrinunciabile. Pur essendo un paese altamente industrializzato e un importante snodo finanziario, la Svizzera ci trasmette un’idea di calma e tranquillità. Sarà per la bellezza dei suoi paesaggi, sarà per la sua proverbiale neutralità. Questa neutralità ha permesso alla nazione di restare estranea alle guerre ed ha permesso inoltre che diventasse meta dei rifugiati politici dalle altre nazioni europee. Le sue montagne l’hanno tenuta al riparo dalle invasioni e il popolo svizzero si è caratterizzato come un popolo pacifico, tanto pacifico che Aldo Giovanni e Giacomo, alcuni anni fa, ne fecero una esilarante parodia, nella trasmissione Mai dire goal, puntando sul paradosso, con i personaggi di Rezzonico e Gervasoni, nel cantone dei Grigioni, e del poliziotto Uber che spara agli inermi passanti che calpestano le aiuole o parcheggiano la macchina in divieto di sosta (che ridere!).
La Svizzera per quelli della mia generazione era sinonimo di immigrazione, lavoro, cioccolate, orologi, tutte cose collegate fra loro. L’immigrazione era quella dei nostri genitori e parenti che per mancanza di lavoro nel Meridione d’Italia si spostavano nella confederazione elvetica dove trovavano impiego nelle grandi fabbriche di elettronica o alimentari.
Ogni famiglia salentina negli anni Settanta e Ottanta aveva almeno un fratello, un cugino, uno zio, insomma un parente emigrato in Svizzera. Questi lavoratori, che conoscevano la fame e le privazioni, con sacrificio lasciavano tutto e si mettevano in viaggio; giunti in Svizzera si facevano rispettare per il senso del dovere e l’abnegazione. Essi ripagavano con la puntualità e l’impegno il paese che gli aveva offerto una così preziosa opportunità lavorativa. Certo, era triste lasciare la casa, il paesello, la fidanzata, i propri affetti, per trasferirsi in una nazione straniera che non sapevano come li avrebbe accolti. Per loro, Metternich al contrario, la Svizzera era poco più che un’espressione geografica. Si trattava di povera gente, contadini, allevatori, piccoli artigiani, non erano mica abituati a viaggiare, non conoscevano il mondo, il loro orizzonte fino a quel momento era stato angusto: la campagna, il trattore, l’apecar, la gita al mare, la corriera, al massimo il treno. L’aereo (l’apparecchiu, si diceva in dialetto) lo avevano visto solo in foto o in televisione.
La Svizzera è delimitata ad ovest e ad est dai due importanti laghi di Ginevra e di Costanza, condiviso con la Germania. Ma esistono anche il lago di Neuchatel, il lago dei Quattro Cantoni e nella regione prealpina il lago di Lugano e una piccola parte del Lago Maggiore. I fiumi più importanti sono il Rodano, che nasce sul monte San Gottardo e poi entra in Francia, per sfociare nel Mar Mediterraneo, il Reno che, nato nel cantone dei Grigioni, segna il confine con la Germania, dove prosegue; il fiume Inn che nasce sul monte Bernina ed entra in Austria, dove confluisce nel Danubio, e il fiume Ticino, nell’omonimo cantone, che prosegue in Italia dove si butta nel Po.
“Vincenti, qual è l’ordinamento politico della Svizzera?”, chiedeva il professore in seconda media. “La Svizzera”, rispondevo prontamente, “è una confederazione repubblicana di stati che mantengono ciascuno la propria autonomia amministrativa. Allo stato centrale spettano il potere legislativo, esercitato dal Parlamento, ed il potere esecutivo, esercitato dal Consiglio Federale, cioè il Governo, a capo del quale è il Presidente della Confederazione”. “E qual è la capitale?”. “La capitale della Svizzera è Berna” (che mi faceva pensare ai cartoni di Flo, la piccola Robinson, che proprio da Berna parte con la sua famiglia per il lungo viaggio alla volta dell’Australia). La difesa è competenza dell’autorità centrale ma non si capisce che spese militari possa avere un paese come la Svizzera. Ma se diciamo difesa, il pensiero va subito alle guardie svizzere, che noi conosciamo più che altro come la difesa personale del Papa, ma che hanno una storia ben più articolata che sarebbe impossibile qui sintetizzare.
Chissà lo stato d’animo con cui i nostri parti si mettevano in viaggio, le ansie, i timori, le speranze. Poi a Natale e d’estate tornavano a casa per le meritate ferie ed era tutta un’altra storia. Le migliorate condizioni economiche, un senso di rivalsa e in fondo l’orgoglio di chi ce l’ha fatta ad affrancarsi da una condizione di svantaggio, forse l’aria buona dei monti e delle valli svizzere, conferivano loro un’espressione mista fra l’altero e il bonario, che non saprei come definire. I salentini elveticizzati diventavano per noi spesso e volentieri oggetto di derisione, persino di dileggio, e nella vulgata erano chiamati “svizzerotti”.
Li vedevamo in giro per i nostri paesi, guidare assorti le loro macchine di grossa cilindrata bardate con le tappezzerie più stravaganti, ci trasmettevano la falsa percezione di persone beote (imbecilli e poco lungimiranti erano considerati gli abitanti dell’antica Beozia nella Grecia classica), forse per quell’aria allegra sui loro volti che non cambiava mai. In realtà, le facce apparentemente inespressive di quei campagnoli inurbati nascondevano e dissimulavano un sentimento profondo, un misto di presunzione e risentimento: boria, determinata dal senso di rivalsa per avercela fatta, acrimonia, nei confronti di un Paese ingrato che non li aveva saputi trattenere offrendogli un’occasione, una nazione matrigna che li aveva lasciati andar via. Nei confronti di questa nazione nasceva in loro irrefrenabile una forma di auto-razzismo: “in Italia è uno schifo, va tutto male, vergogna, dovreste imparare dalla Svizzera”.
Essi non erano affatto tardi di ingegno, al contrario, vivendo all’estero e facendo esperienza del mondo e della gente, erano diventati più scafati di chi era rimasto qua. E tuttavia gli svizzerotti rimanevano per noi sinonimo di kitsh, cattivo gusto, forse per via delle loro macchine rosse, gialle, melanzana, sempre un po’ più colorate delle nostre, come le loro case, con gli immancabili nani da giardino sul prato e le statue litiche a forma di leone o aquila a sormontare le colonne d’ingresso. Chissà se la loro predilezione per i nani da giardino derivasse dalla passione infantile per la favola di Biancaneve oppure da un inconscio omaggio al loro paese adottivo, dove appunto col termine “gnomi” sono indicati i grandi banchieri i quali, proprio come i nani che nel folto dei boschi custodiscono misteriosi tesori, sono i depositari di enormi ricchezze tenute sotto chiave nei loro blindati istituti di credito.
Le banche svizzere hanno creato la loro grande fortuna proprio garantendo ai correntisti il segreto bancario. Ma i nani si vedono ancora oggi in molte case salentine. Esiste anche un fronte di liberazione nani da giardino, un movimento di ispirazione goliardica nato in Francia che ha lo scopo di liberare i nani da giardino dai prati delle case per portarli nei boschi, restituendoli così al loro habitat naturale, nella credenza che in cambio essi libereranno l’anima dei loro salvatori.
Oltre al potere economico delle banche, la principale ricchezza del paese è data dal turismo. La Svizzera gode di un’organizzazione alberghiera fra le più efficienti al mondo. E se non sono organizzati gli svizzeri …! I trasporti costituiscono uno dei punti di forza e con una freddura si potrebbe dire che i treni e gli aerei sono puntuali come un orologio svizzero. Un paese montuoso, si diceva, da sud a nord. Al confine meridionale con l’Italia, nelle Alpi Pennine, troviamo il Monte Rosa (4634 metri) e il Cervino (4478 metri), il Monte San Bernardo (2469 metri), col Passo del Gran San Bernardo, che mette in comunicazione le due nazioni, il Sempione (2005 metri) con il relativo Passo; quindi nelle Alpi Lepontine, troviamo il monte San Gottardo (2112 metri) con il Passo che collega le due nazioni, e il Passo dello Spluga; procedendo verso est le Alpi Retiche, nelle quali è il Monte Bernina (4052 metri). I monti della Svizzera continuano all’interno con le Alpi Bernesi con i monti Finsteraarhorn (4272 metri) e Jungfrau (4166 metri).
La Svizzera era per noi anche sinonimo di emmenthal e gruyère (il gruviera tanto amato da Topo Gigio), formaggi noti in tutto il mondo. Ed era sinonimo di Lindt. Anch’io da bambino avevo parenti che vivevano e lavoravano in Svizzera. Quando tornavano in estate mi riempivano di cioccolate. Ero un ragazzo paffutello e quel sovrappiù di dolci non faceva bene al mio fisico già provato da lunghe maratone dolciarie. Ma quelli erano i tempi della cioccolata e delle tv private, e allora sotto con Cailler e Lady Oscar, Toblerone e Mazinga zeta.
Tutti i paesi salentini furono coinvolti dal fenomeno dell’emigrazione, quale più quale meno. Fra i comuni maggiormente interessati dal fenomeno, era Taurisano, distante poche miglia da Ruffano. I taurisanesi sono stati per decenni tutt’uno con l’emigrazione e quindi con la Svizzera, col Belgio, con la Germania. “Taurisanese” nell’immaginario collettivo in quegli anni faceva rima con emigrante. Tutte le caratteristiche degli svizzerotti sopra descritte erano plasticamente concentrate nel taurisanese tipo. Lunghe basette e baffoni, occhiali affumicati, collane e bracciali d’oro al petto e ai polsi, pupazzetti delle forme più varie appesi allo specchietto retrovisore dell’auto e cani pupazzo semoventi sul pannello posteriore, rivestimenti del cambio, del volante e dell’intero cruscotto in velluto o lana merinos, tendine parasole con disegni di tigri, leoni, serpenti o donne seminude, finestrini rigorosamente abbassati anche a gennaio, volume dello stereo a palla, abiti dai colori sgargianti, corredo di nani portafortuna e amuleti scacciaiella. Il tipo umano testé descritto incarnava perfettamente quella che oggi chiameremmo tamarreide (il tamarro in dialetto salentino è mazzaro o nzallo), ma ai tempi era solo svizzerottaggine o al massimo (o al minimo), taurisanesità. Il maranza o zarro, come dicono a Milano, con la camicia aperta sul petto, le scarpe col tacco alto e la sua vistosa chincaglieria, era entrato nel costume di quegli anni, era divenuto per noi un incontro abituale ma non per questo immune dal sarcasmo. I fendenti indirizzati agli svizzerotti dall’ironia popolare, se da parte dei ragazzi erano armi spuntate, nelle mani degli adulti potevano diventare armi al calor bianco, letali, specie nelle liti famigliari se si trattava di questioni di interessi economici o di eredità.
Quando scompariva un genitore e si apriva il testamento, erano dolori. Da parte dei congiunti salentini non si tollerava che il de cuius avesse stabilito parità di trattamento con i famigliari emigrati in Svizzera per cui spesso si impugnavano le volontà testamentarie o si impugnavano i coltelli: “comu, nui ne l’imu sucatu tutta la vita, ha tuccatu cu llu ssistimu finu all’urtimu e ui addhu stivive? Cciti fattu ui pe llu tata? Mo ve ne viniti cazzu cazzu e uliti cu spartimu a metà? Enno! Viti fatti fiacchi i cunti, beddhi mei!”. Spesso, le faide famigliari si protraevano per tutta la vita per cui gli svizzerotti, una volta tornati nel Salento per godersi la pensione, stabilitisi nella casa che negli anni si erano costruita, trascorrevano quel torno di tempo fra il malanimo e il rancore, senza rivolgere la parola ai parenti con cui erano in lite. Che tristezza, a pensarci bene. Decontestualizzati nel paese dopo decenni di trasferta estera, come pesci fuor d’acqua, senza i vecchi amici ormai andati, i figli restati in Svizzera e per giunta in lite coi parenti più prossimi. Ancor peggio se le case erano confinanti. E via ad alzare muri e barriere che potessero impedire anche la vista dell’inviso parentame.
Gli svizzeri salentini venivano a sapere della dipartita dei loro odiati dai manifesti funebri o da qualche amico comune ma non osavano presentarsi a casa dello scomparso o della scomparsa nemmeno per l’ultimo saluto. Neppure la morte poteva comporre la lite, nel finto stupore dei compaesani i quali non aspettavano altro che far pettegolezzo e scambiare due chiacchiere malevole con i compari convenuti al funerale: “ma u frate (o a soru) nunn’è binutu allu mortu? None, stiane mari. Naa, e comu ete? Erane fattu parole pe ll’eredità”.
Passati molti anni dacché erano esulati, alternavano nel parlato tedesco e italiano, francese e dialetto salentino, e questa commistione creava un curioso effetto nell’ascoltatore. Transfughi e “civilizzati”, ma pur sempre ruffanesi o casaranesi o tugliesi. Insomma, si è capito, da ragazzo ero affascinato dagli svizzeri salentini, colpito dal loro diverso modo di atteggiarsi rispetto alla gente del posto e anche dall’atmosfera dell’Elvetia, che di riflesso respiravamo noi salentini. Poi sono passati gli anni ed oggi di svizzerotti non si sente quasi più parlare.
La cappella votiva di padre Pio nella campagna di “Case Bianche” a Trepuzzi
Dista un soffio da Trepuzzi la masseria “Case Bianche”, che con la sua chiesetta langue, consumata dall’abbandono. La raggiungiamo facilmente: la strada provinciale “246”, quella che si innesta sulla Surbo-Casalabate, la sfiora sul ciglio, e non è un bel vedere; ma non è sullo sconquasso del fabbricato e dell’oratorio, depredato e “visitato” da impropri esploratori, che vogliamo intrattenerci. Assistere alla scena della vandalizzazione dell’aula liturgica fa male.
Il nostro cammino è indirizzato ad una sosta di religiosità popolare di nuovo conio: la cappella votiva di san Pio da Pietrelcina, che sorge nell’areale della vecchia tenuta di “Case Bianche”. Essendo ben curata e onorata, stride il confronto con la precedente (eretta 97 anni prima, nel 1909).
L’hanno voluta Raffaele Renna e Francesco Conte, devoti del santo con le stimmate.
La scelta del sito su cui costruire il tempietto (benedetto il 19 marzo 2006, festa di san Giuseppe) è ricaduta in un luogo portato ad amenità: la pinetina che, sfilacciandosi, si distende in territorio di Trepuzzi, proprio sul limitare di quello di Lecce.
L’atmosfera di quiete, si sa, è maggiore se tutt’intorno il verde fa corona. La protezione degli alberi aiuta eccome il dialogo interiore.
Il posticino, difatti, asseconda il silenzio che si ricerca. Stare a pregare, o a raccogliere i propri pensieri, nello spazio ristretto della cappellina, viene di getto: l’ambiente dice molto; per il resto tocca alla buona intenzione di chi, anche per caso, vi si imbatte, dopo un giretto per campagne (a dir il vero piuttosto malandate).
Presi dalla particolarità del costruito, non possiamo indugiare nel restare fuori, magari seduti in panchina (ve ne sono quattro appoggiate al muro di recinzione, armonizzato in pietre di tipo a secco): anche se è dallo slargo viario che la figura tozzetta del rifugio spirituale fa scena di micropaesaggio. La porticina (che ha in architrave riassunto l’intero messaggio di identificazione del sacello) invita a entrare: non c’è lucchetto nella chiusura. D’altronde, perché serrare l’uscio? Che senso avrebbe? L’intento è quello di dare piena ospitalità ad ogni viandante: quindi libertà di accesso. I malintenzionati, al cospetto della selva di simulacri e quadretti, disposti a semicerchio di parete, dovrebbero indietreggiare: questo non è posto per loro. Padre Pio, dall’altarino rasoterra, li fulminerebbe con lo sguardo: i suoi occhi penetranti, la statuina li ha messi in evidenza, fedeli all’originale. Al titolare della cappelluccia non mancano di certo i mezzi per farsi rispettare, né di altro per chiamare a sé chiunque desideri avvicinarsi con cuore puro.
Nessuno si azzarderebbe a toccare niente del sovrabbondante che arreda l’aulettina. Ne siamo sicuri.
E, allora, stiamoci un pochino a meditare. Credenti e non credenti, cercando la pace, resteranno colpiti dalla situazione raccolta che qui si tocca con mano. Sulla rustica panca si sta divinamente, da soli (non più di quattro persone ci entrano “comode”, fronteggiandosi in coppia), a riflettere, a ragionare sui passi da fare, piccoli o grandi che siano.
Usciamo sollevati dall’angusto luogo di spiritualità. Prima di andarcene però traguardiamo, dal lato posteriore, il minuscolo tempio del frate cappuccino: la squilla del campaniletto è in linea con la crocetta del coronamento terragnolo. Padre Pio, issato sul picco della torretta che a stenti si vede, è visibile di suo. Non ha bisogno di piedistallo.
Il vertice (della fede incarnata) si riverbera pure a tre metri (e mezzo?) dal suolo: centimetro più, centimetro meno…
L’immagine d’esordio si riferisce ad un pane di quasi duemila anni fa rinvenuto nel 1748 ad Ercolano nella Casa dei Cervi ed attualmente custodito nel Museo Archeologico Nazioanale di Napoli. Sullo spicchio centrale di sinistra si legge su due righe, impresso con un signaculum (timbro) CELERIS ˑ Q(UINTI) ˑ CRANI/VERI ˑ SER(VI)=Di Celere schiavo di Quinto Cranio Vero. Si suppone che il timbro avesse la funzione di evitare la confusione con gli altri pani portati per la cottura in un forno comune, pratica abituale fino agli ultimi decenni del secolo scorso, quando il pane veniva preparato in casa. Dopo questo primo riferimento al passato, tocca farne un secondo mediante i proverbi, depositari un tempo della saggezza popolare e che oggi, agli occhi di chi se ne occupa, sembrano aver fatto la fine dei nobili decaduti. Ma, fedeli anche alla sequenza del titolo, cominciamo col pane.
L’importanza di una parola si misura anche dai significati metaforici dei quali essa nel tempo si arricchisce. Così, dall’uomo non più semplice raccoglitore ma agricoltore, è entrata, oltre che nei proverbi, in locuzioni come tenere a pane e acqua, buono come il pane, dire pane al pane e vino al vino, non è pane per i tuoi denti, non si vive di solo pane, per un tozzo di pane, mangiare pane a sbafo, panem et circenses per mantenere il potere ed altre, senza dimenticare la prima parte della sentenza biblica che ha posto le basi del maschilismo e delle future rivendicazioni femministe, il tu, uomo, guadagnerai il pane col sudore della fronte (vedi n. 13). Ancora qualche anno, forse mese, e il pane, con cura sapientemente amorosa tramandata prer millenni da una generazione all’altra impastato, modellato e cotto, sarà con meccanico disprezzo sputato (per rispetto del lettore non usiamo un termine più volgare …) da una stampante 3D, asettica come sicuramente l’UE si sarà precipitata a stabilire con una delle sue strampalate direttive.
E così sarà anacronistica solo nella forma, purtroppo, la tavola di Francesco Gonin a corredo dell’edizione del 1840 del romanzo manzoniano, con la rappresentazione dell’assalto al forno delle Grucce. L’obsolescenza farà piazza pulita forse delle locuzioni prima ricordate (vi aggiungiamo la dialettale stamu ancora a ppane e ggranu, cioè siamo appena all’inizio) ma i certamente dei proverbi, in primis i dialettali, che qui poniamo a futura memoria. Ciò a qualcuno apparirà come il parto di cervello con neuroni fuori controllo o manifestazione di una personalità perversa e pervertita. Forse per questo non siamo riusciti a resistere alla tentazione di comparare il tempo che è con quello che fu, consapevoli di passare come i soliti laudatores temporis acti, volgarmente detti nostalgici brontoloni. Questo vale, per ragioni anagrafiche, soprattutto per uno dei due autori, ma entrambi sarebbero felici se altri, magari solo un pizzico meno perversi di loro …, integrassero questa piccola e inevitabilmente incompleta antologia con qualche proverbio che sicuramente ci sarà sfuggito o, cosa ancor più gradita, con osservazioni, soprattutto critiche, nel senso immeritatamente dispregiativo a priori che questa parola ormai ha assunto. E un’ultima immagine valga non solo ad esorcizzare il pessimismo ispirato dalla tavola del Gonin ma anche a dimostrazione che non siamo patetici brontoloni e barbosi parrucconi privi d’ironia, anche perché dalla serietà alla seriosità il passo è breve …
Le barre presenti nei proverbi in rima, hanno la funzione di separare i singoli versi.
1) CI FACE PANE E CCÒFANE1, ‘NDI2 SBAGLIA; CI PORTA CARROZZE PURU ‘NDI BBOCCA
Chi fa il pane e il bucato, ne sbaglia; pure chi guida le carrozze ne fa ribaltare
Nessuno è indenne dal commettere errori.
2) CI L’HA DDITTA CA LU PANE GGH’È3 MMODDHE? LU PANE È SSEMPRE TUESTU PI CCI FATÌA
Chi l’ha detto che il pane è molle (morbido)?Il pane è sempre duro per chi fatica (lavora)
3) CI MANGIA PANE E TTARICE4/LI SECRETI TI CASA NO LLI TICE
Chi mangia pane eravanello, i segreti di casa non li dice
La dignitosa riservatezza del povero, cui fa da contraltare, soprattutto nei nostri giorni, la esibizionistica pubblicizzazione della beneficenza (quando c’è …) del ricco.
4) CI MANGIA PANE ‘MPRUSCINUTU5 CACCIA LI TIENTI TI ORU
A chi mangia pane ammuffito spuntano i denti di oro
E i ragazzini di una volta ci credevano …
5) CI MI TAE PANE CHIAMU TATA6
Chiamo padre chi mi dà pane
6) CI NO CCÀMBARA7 TI NATALE O GGH’È8 TTURCU O GGH’È CCANE/O GGH’È MMOTU PUIRIEDDHU O NO TTENE MANCU PANE
Chi non mangia carne a Natale, o è turco o è cane, o è molto poverello o non ha neppure pane
Il cane che non mangia carne a Natale è un’invenzione ispirata da esigenze di rima.
7) CI TENE CORNE TENE PANE,/ CI TENE FIGGHE FEMMINE CU NNO DICA PUTTANE,/CI TENE FILI MÀSCULI CU NNO DDICA LATRI
Chi ha le corna ha pane, chi ha figlie femmine non dica puttane, chi ha figli mashi non dica ladri
A parte le corna, Il resto è un invito a non dare giudizi aprioristici.
8) CI TENE PANE CU SSI LU MANGIA/E CCI TENE PENE CU SSI LI CHIANGA
Chi ha pane, che se lo mangi e, chi ha pene, che se le pianga
Tutto articolato sul gioco di assonanza (pane/pene; mangia/chianga)..
9) CI VUEI CU CCANUSI L’AMICU FIDELE, HA MMANGIARE PANE TI SETTE FURNI
Se vuoi conoscere l’amico fedele devi mangiare pane di sette forni
Con una metafora, per così dire, cannibalesca si afferma che è necessario mettere alla prova parecchie persone per saggiarne prima l’amicizia e poi la fedeltà.
10) FURNU, SCIARDINU E MMASSARIA:/TRE MIGGHIA LUNTANA LA CARISTIA
Forno, giardino9e masseria: tre miglia lontana la carestia
Un distico di endecasillabi perfetti, in cui metonimicamente e in un climax ascendente sono celebrati i cardini fondamentali di una sana alimentazione: il pane, la verdura, mentre la masseria li riassume con l’aggiunta della carne. È un inno, se si vuole alla dieta mediterranea ma anche ad un mondo non travagliato, come il nostro, da ben altri appetiti. Queste considerazioni salutistiche, però, sarebbero state banali in passato, quando l’ambiente era meno malato e l’agricoltura era l’attività, se non unica, primaria. Oggi, comunque, possiamo sollazzarci con antiche masserie convertite in agriturismo o in alberghi pià o meno di lusso e, per quanto riguarda il pane, di prodotti in cui la farina forse non può essere osservata nemmeno con un microscopio di ultima generazione.
11) L’ARCU TI SERA:/O CHIOE O ‘NCERA:/L’ARCU TI MATINA:/PÌGHIA LU PANE E CCAMINA
L’arco (arcobaleno) di sera: o piove o incera (il cielo avrà il colore della cera)/: l’arco (l’arcobaleno) di mattina: prendi il pane e mettiti in cammino.
12) LI MARITI SO’ PANETTI ‘N PRIESTU
I mariti sono panetti in prestito
Potrebbe sembrare un’affermazione sprezzante, quasi come una sorta di rassegnazione al tradimento maschile (senza escludere lo scambismo, che forse a torto consideriamo un fenomeno recente) ma più probabilmente il riferimento, di natura tutt’altro che laica e materialistica, è alla parabola (Vangelo secondo Luca, 11) che recita: Poi aggiunse: – Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: – Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti – e se quegli dall’interno gli risponde: – Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli -, vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza. La parabola vuol sottolineare l’importanza della preghiera a Dio (l’amico), che prima o poi, se rinnovata (insistenza), sarà esaudita. rimane inquietante il dettaglio del prestito, che lì per lì farebbe pensare non tanto ad un’impraticabile anticipazione della figura dell’uomo-oggetto quanto all’aleatorietà della vita, ma, non essendo la premorienza del marito cosa scontata, quello che è un prestito diventa un dono grazia dio somma bontà.
13) LI PENE CU LLU PANE S’IMPASTANU
Le pene al pari del pane si impastano
Rassegnata accettazione della vita con la similitudine in funzione lenitiva. Il proverbio, comunque, appare ispirato da In sudore vultus tui vesceris pane (Genesi, III, 19)=Nel sudore del tuo volto ti nutrirai di pane.
14) LU CIRIEDDHU TI CAMPA,/CA LU PANE TANTU TI BBÈNCHIA10
Il cervello ti campa (fa vivere), che il pane intanto ti sazia
Elogio dell’intelligenza (ti campa), ma va anche considerato che il cervello funziona solo se adeguatamente irrorato, il che dipende, arteriosclerosi a parte, dall’alimentazione, cioè dalla soddisfazione della fame (ti bbènchia). Vale la pena ricordare, in ordine cronologico, Esse oportet, ut vivas, edere, non vivere, ut edas (Cicerone, Rhetorica ad Erennium, IV, 28)=È necessario che tu mangi per vivere, non che viva per mangiare, Non di solo pane vivrà l’uomo (Luca, 4, 4) e Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza (Dante, Inferno, XXVI, 119).
15) LU PANE CCATTATU11 NO TTI BBÈNCHIA12
Il pane comprato non ti sazia
Se ci si dovesse attenere al significato letterale, oggi tutti saremmo morti da un pezzo. Purtroppo è moribondo, se non già morto da tempo, il sentimento di intima soddisfazione nel creare, pur col sacrificio, qualcosa di nostro, il che è quello che metaforicamente il proverbio vuole esprimere. E poi, tra suggestioni pubblicitarie e additivi di ogni tipo, pure le papille gustative hanno perso la loro capacità critica e fra poco la perderanno anche i nostri amici animali con gradevolissime crocchette a caro prezzo a base di polvere lunare …
16) LU PANE NO CCALA TI CIELU
Il pane non cala dal cielo
Oggi, con il prevalere nella coscienza collettiva del diritto sul dovere (compreso lo sfruttamento folle delle risorse del pianeta in nome di un discutibile progresso asservito al consumismo, all’apparire e al profitto), dal cielo cominciano già a calare bombe d’acqua e simili …
17) LU PANE TI L’ADDHI TI ‘NDORA
Il pane degli altri ti odora (profuma)
In apparente contrasto con il n. 15, riguarda gli incontentabili ma ancor più i parassiti.
18) MACARI CA MANGI PERE E GGIRASE13;/MAR’A LLA ‘ENTRE CA PANE NO TTRASE14
Magari che mangi pere e ciliege, (è) ) amaro (guai) al ventre che (in cui) non entra pane
Ma allora non c’erano i McDonald’s …
19) MAI PANE A FFIGGHI TI ADDHI HA DDARE,/MAI SECRETI ALLA MUGGHIERE15 HA DDIRE,/MAI PATRUNU CU LLU CORE HA SSIRVIRE
Mai pane a figli d’altri devi dare, mai segreti alla moglie devi confidare, mai pasdrone devi servire col cuore
Sorprendente trilogia dell’indifferenza, della sfiducia e della mancanza di devozione, per quanto laica, in tutto, magari, in netto contrasto con quanto predicato dalla religione formalmente professata e praticata.
20) MAZZA E PPANELLA/FACE LA FIGGHIA BELLA,/PANE SENZA MAZZA/FACE LA FIGGHIA PAZZA
Mazza e pane fanno la figlia bella, pane senza mazza fa la figlia pazza
Una volta tanto, al bando alla solita similitudine animalesca, che rimane in il bastone e la carota. Il maschilismo, poi, insito in figghia potrebbe da qualcuno essere furbescamente giustificato da esigenze di rima (panella/bella, mazza/pazza).
21) MEGGHIU GGNORU PANE CCA GGNORA FAME
Meglio nero pane che nera fame
La filosofia della rassegnazione e dell’essere soddisfatti di quello che si ha, pensando che poteva andar peggio. È doveroso, però ricordare che quella filosofia consolatoria è stata vergognosamente sfruttata per secoli, mentre oggi, e non è certo un grande passo in avanti, prevale quella populistica del tutto è dovuto, ope legis.
22) PANE CU LL’UÈCCHI E CCASU SENZA UÈCCHI
Pane con gli occhi (fresco, ben lievitato)e cacio senza occhi (senza bolle d’aria, ma anche ben stagionato)
Se emmental non fosse stata una parola sconosciuta al tempo della nascita de detto, l’avremmo interpretato come una dichiarazione di guerra al formaggio svizzero..
23) PANE E ULÌE/MANGI PI TTRE DDIE16
Pane e olive: magi per tre giorni
Esaltazione del potere energetico dei due alimenti; il contrario di lu risu/’nn’ora ti mantene tisu (il riso un’ora ti mantiene in piedi)
24) QUANDU CATE TI SABBATU LU NATALE, INDI LA CAPPA E CCATTA17 PANE
Quando Natale cade di sabato, vendi la cappa (il mantello) e compra pane
La vendita del mantello per acquistare pane probabilmente allude al pericolo di carestia, ma non si comprende la connessione di questa con il Natale che cade di sabatom anche perché lo stesso invito rivolgono simili proverbi non salentini: per esempio, i toscani: Quando Natale viene in domenica, vendi la tonica per comprar la melica18 e Natale in venerdì vale due poderi; se viene in domenica, vendi i bovi e compra la melica.
25) QUANDU LA ZZÌNGARA FACE LU PANE,/TOTTE LI ZZÌNGARE MANDA A CCHIAMARE,/CU LLA ‘IÙTANU A LLU SCANARE19, LU TIMPIRARE E LLU ‘NFURNARE
Quando la zingara fa il pane, manda a chiamare tutte le zingare, perché l’aiutino a spianare (la pasta), a temperarla (lavorarla) e a infornare
26) SI ‘NDI VONU PRIMA LI CUDDHURE20 TI LI PANETTI
Se ne vanno (si consumano) prima le ciambelle dei panetti
27) TI SANTA LUCIA A NNATALE/QUANTU ‘NCUÈFANI21 E FFACI LU PANE
Da santa Lucia a Natale (dal 13 al 25 dicembre) quanto (è il lasso di tempo sufficiente) perché faccia il bucato e il pane
28) TUMENICA SO’ LLI PARME/E ALL’ADDHA PANE E CCARNE
Domenica è la festa delle Palme e nella successiva (si potranno consumare) pane e carne
Abbandonato da tempo, il digiuno alimentare religioso sarebbe il tempo di farlo con gli altri laici, letterale e non …
29) LA SCIURNATA CCHIÙ LLONGA È QUEDDHA SENZA PANE
La giornata più lunga è quella senza pane
30) PICCA PANE E PPICCA PATERNOSCI
Poco pane e pochi Paternoster
Concezione utilitaristica della religione. Il retaggio è antico, perché nei èpemi omerici, per dare un esempio, si rimprovera spesso al dio di turno di non essere venuto in aiuto nono stante le preghiere rivolte e, soprattutto, le offerte fatte. Si tratta della versione abbreviata e resa anonima anche ad uso laico interpersonale diSantu Nicola, ci no mmi pruìti, Paternosci ti me no ‘ndi ‘iti
San Nicola, se non mi provvedi, Paternoster (preghiere) da me non ne vedi
31) PICCA PANE E PPICCA VINU,/PICCA ZZAPPA LU MARTINU
Poco pane e poco vino, Martino zappa poco
Giusta rivendicazione salariale ante litteram.
32 MAI CANIGGHIA22 HA FFATTU PANE
Mai crusca ha fatto pane
Tanto per restare al significato letterale, magari intervenisse solo la crusca (con le sue benefiche
fibre) nelle moderne sofisticazioni!
33) ‘NU GGIURNU A SCATTA23 PANZA E DDECE A PPANE E CRITENZA
Un giorno a scoppia-pancia e dieci a pane e credito
34) PANE CU NC’ESSA ALLU CUMIENTU, CA LI MÒNACI VONU E BBÈNINU
Che ci sia pane al convento, perché i monaci vanno e vengono
La convivenza sociale dovrebbe essere basata, purtroppo non lo è, sull’impegno e la collaborazione dei singoli.
35) SOTT’ALLA NEE PANE,/SOTT’ALLU SCELU FAME
Sotto la neve pane, sotto il gelo fame
36) LU SIGNORE TAE LU PANE A CCI NO TTENE TIENTI
Il Signore dà il pane a chi non ha denti
Spesso il bene tocca a chi non sa o non è in grado di apprezzarlo.
Una variante, in cui però friseddhe per la loro durezza rispetto al pane ha il significato metaforico di difficoltà, è Lu Patreternu tae li friseddhe a ccinca24no lli rròsica (Il Padreterno dà le friselle a chiunqu non le rosicchiaa).
1 Come l’italiano còfano, è dal latino còphinu(m)=cesta, a sua volta dal greco κόϕινος (leggi còfinos)], dal nome del grande contenitore di creta utilizzato per quello che era quasi un rito, con la collaborazione di tutti i membri della famiglia.
2 Più vicino al latino inde=di lì, rispetto all’italiano ne, che ha la stessa origine.
3 Da egliè (latino ille est) per aferesi e passaggio –gl->-gh– come in ‘ccugghire” rispetto a cogliere.
4 Da radice per metatesi a distanza.
5 Da ‘mpruscinire. La voce per il Rholfs deriva da in+fuliggine, come per ‘mpiddhuscinare. Se fuliggine va bene per quest’ultimo , appare evidente
la sua incongruenza fonetica con ‘mpruscinire, per il quale proponiamo lo stesso etimo di ‘mpuragnire (l’infettarsi di una ferita o piaga) e che ha alla base puro: ‘mpuragnire da in (privativo, non locativo come quello del Rohfs) + *puraneare e ‘mpruscinire da in (sempre privativo)+ *puriginire, dal classico purigare=purificare, pulire.
6 Dal latino tata=babbo, a sua volta dal greco τάτα (leggi tata) o τατᾶ (leggi tatà) o τέττα (leggi tetta), tutti con lo stesso significato.
7 Ccambaràre è per il Rohlfs (I° volume, lemma cammeràre, pag. 98) dal greco dialettale γαμαρίζω (leggi gamarìzo). Osserviamo che esso potrebbe essere connesso con il classico γαμηλία (leggi gamelìa)= banchetto nuziale; senonchè nel III° volume (pag. 906) alla voce cammeràre si legge: L’etimo proposto, cioè il neogreco dialettale γαμαρίζω, appartiene ai dialetti di Creta e dell’Asia Minore, mentre la formamagarìzo ‘io mangio di grasso’ è di più larga diffusione; si confronti ancora il latino tardo camaràre ‘sporcare’. Di questo verbo, però, non ci risulta nessuna attestazione, se non il camaràre (variante di cameràre) di Plinio (Naturalishistoria, X, 33) col significato inequivocabile di proteggere con qualcosa a forma di volta e che, in tutta evidenza, nulla ha a che fare col significato di sporcare.
8 Vedi la nota 2.
9 Sciardene erano detti i terreni a coltivazione orticole, senza per questo escludere la presenza di alberi.
10 Da bbinchiare, dal latino inflare=soffiare dentro, gonfiare, con prostesi della preposizione ab (=da); trafila: *abinflare>bbinflare (aferesi e geminazione di compenso)>*bbinplare>bbinchiare (usuale passaggio –pla->-chia-. Bbinchiare è usato anche nel significato di percuotere, connesso sempre con l’idea del gonfiare, prima conseguenza del pestaggio.
11 ‘Ccattare, come l’italiano accattare, è dal latino medioevale accaptare, a sua volta dal classico ad+captare (quest’ultimo intensivo di càpere=prendere). Stesso etimo hanno il francese acheter e il normanno acater.
12 Vedi la nota 8.
13 Ggirasa è dal latino medioevale cerasea(m).
14 Da trasire, che è dal latino transire, composto da trans=oltre+ire=andare.
15 Dal latimo muliere(m)=donna.
16 Plurale di dia, più fedele dell’italiano dì al latino die(m).
17 Vedi la nota 11.
18 Altro nome del sorgo; forma aggettivale dal latino milium=miglio.
19 Dal latino explanare, con esito –pla->-ca– (come per –cla– i n scamare, per cui vedi la nota al n. 393) invece del più regolare –pla->-chia-, che si è conservato, invece, in chianu (=piano) da planu(m).
20 Dal greco κολλύρα (leggi colliùra)=pagnotta.
21 Da ‘ncufanare, formato dalla preposizione in e da un denominale da còfanu, per il quale vedi la nota al n. 137.
22 Dal latino canìia (=cose, cibo per cani), aggettivo neutro plurale sostantivato da canis=cane.
23 Da scattare, che, come la voce italiana, è da un latino *excaptare, dal classico ex (con valore privativo) e captare (=tentare di afferrarere), conativo di càpere (=prendere); la voce salentina, oltre ad essere sinonimo di scoppiare, conserva pure il significato conserva nell’uso pure quello dell’italiana.
24 Come l’italiano chiunque, dal latino quicumque.
Un violinista novolese del ‘700, Pasquale Andrioli
La storia di Novoli, mai definitivamente scritta (nonostante i numerosi contributi e le più svariate ricerche di questi ultimi anni)1, riserva infatti sempre delle “sorprese” ed ora si arricchisce di una nuova importante figura. Agli illustri nomi che nei vari secoli ne hanno caratterizzato particolarmente le umane vicende storiche, culturali, religiose, politiche ed economiche, quali ad esempio (tanto per citarne alcuni tra i più importanti che si conoscono) Alessandro Mattei II, Francesco Guerrieri, Frate Lorenzo, Benedetto Mazzotta, Nicola Mazzotta, Pietro Mazzotta, Pasquale Francioso, Pietro Longo, Vincenzo Tarantini, i fratelli Ferruccio, Giovanni ed Eugenio Guerrieri, Luigi Madaro, Oronzo Parlangeli e tanti altri2, va ad aggiungersi quello del “violinista” Pasquale Andrioli, divenuto protagonista di spicco della vita musicale salentina tra la prima e la seconda metà del XVIII secolo.
Le “polverose carte” lo restituiscono a noi (in maniera da poterlo giustamente ricordare) grazie alle preziose ricerche che l’attenta studiosa Luisa Cosi (a cui va il mio più sincero ringraziamento per la cortese disponibilità) conduce da diversi anni (con notevoli risultati) per una completa e approfondita storia musicale salentina.
Alcune fonti archivistiche rintracciate da tale studiosa3 e l’ulteriore documentazione individuata recentemente da chi scrive, consentono ora di delinearne un breve profilo biografico che se anche, ovviamente non ancora completo, consente tuttavia di dare concrete e consistenti spiegazioni alla “passione” profonda e sincera che i Novolesi (d’ogni età e di tutti i ceti) hanno sempre avuto per la musica e per il teatro4.
Per capire meglio la figura dell’Andrioli non possiamo non ricordare, a tal proposito, la fonte “orale” raccolta e trascritta dal De Simone nella sua Vita della Terra d’Otranto allorquando soffermandosi sul “ballo della Taranta” riporta testualmente quanto riferito da uno “dei due più celebri musicisti della taranta né nostri contorni” di allora, ovvero il cieco Francesco Mazzotta da Novoli (“il violino” attivo insieme a Donata dell’Anna di Arnesano “il Tamburieddhu”) il quale (all’epoca seconda metà dell’800 – contava già trent’anni della sua professione) afferma che “i temi ei muedi ha appreso dai vecchi violinisti del suo villaggio che gli avevano imparati da’ più vecchi di loro, per modo che la sua musica immemorabile è arrivata a lui per tradizione o per scrivere la sua frase per filios filioru (filios filiorum). Egli dice che a Novoli è la “vera pianta della Taranta” e che per ciò sempre vi sono stati “fabbricanti di violini” (così dicendo mostravami il suo, costruito da uno “Stradivario” di Novoli).
Un passo certamente sorprendente (fatto questo che già sottolineammo in un precedente articolo su questo stesso giornale)5 che con la scoperta di Pasquale Andrioli assume indubbiamente notevole significato e veridicità, aprendo orizzonti di ricerca e di studio che certamente potranno ulteriormente arricchire e qualificare la storia del nostro paese.
L’Andrioli, il cui vero nome (come si è potuto accertare nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice) era Pasquale Domenico Felice, era nato in S.Maria de Novis da Liberato (di Oronzo Andrioli) e da Teresa (di Giuseppe Scardia) “circa hora 10ma” del 12 agosto 1716 e fu battezzato nello stesso giorno nella chiesa matrice dall’Arciprete Angelo Antonio Taurino, alla presenza dei padrini Pietro Mazzotta (notaio) e di sua figlia Marianna6. Pasquale era inoltre il secondo di ben 10 figli, rispondenti ai nomi di Carmelo Leonardo Felice, Maria Donata Filippina, Anna Lucia, Oronza Francesca Saveria, Antonia Catarina, Celestina degna emerita Terziaria Carmelitana, Giuseppe Mariano Carlo, Carmine Rosario, Giovacchino Giovanni Stefano (tra i quali, ben quattro di essi morirono appena nati).
Dallo stesso documento conservato presso l’archivio parrocchiale7 e dal Catasto Onciario di Lecce del 1755, risulta che si sposò con Elisabetta di Domenico Mariani di Lecce. Da quest’ultimo documento sappiamo ancora che già nel 1755 si era trasferito nel capoluogo salentino dove coabitava con il suocero Domenico “in una casa sita dentro Lecce, nel Portaggio di San Giusto, isola del Forno di San Giovanni, che si possiede dal m(agnific)o Duca Carignani, e ne paga di sua pozione d’affitto annui docati sette”, insieme alla moglie molto giovane (aveva 22 anni) e alla figlia (di anni quattro) di nome Anna Maria8 (l’isola, proprio vicino al Teatro Nuovo di cui parleremo appresso, era quella che prendeva il nome dal celebre monastero delle monache Benedettine di S. Giovanni Evangelista, nel territorio parrocchiale della “Madonna della Porta”, vicino a Porta Napoli).
Questi gli unici dati che, fortunatamente, si è potuto al momento rintracciare, sufficienti comunque per dare una prima, preziosa connotazione biografica di tale personaggio. Le numerose fonti archivistiche segnalate da Luisa Cosi nelle sue ricerche attinenti la storia del “Teatro Nuovo” di Lecce e ancora l’attività musicale in Santa Croce nei secoli XVII e XVIII, (per Novoli abbiamo anche, addirittura già nel 1600, la presenza, ancora tutta da approfondire), del clerico, nonché “musico” di professione Tommaso Longo, allievo del maestro di cappella in S. Croce Carlo Fiorentino) ci consentono invece di capire come l’Andrioli fosse diventato, per le sue notevoli doti professionali, un fondamentale punto di riferimento nella vita musicale di quegli anni a Lecce e provincia.
Pasquale Andrioli risulta infatti musicista stabile a Lecce almeno già dal 1749. In un contratto stipulato il 24 marzo del 1749 alla presenza del notaio N. Taurisano (con scadenza nel 1752), i nuovi maestri di cappella di Santa Croce D. Gaspare Caselli e Fortunato Fumeca insieme ai cugini Francesco e Giuseppe Imbò (anch’essi maestri di cappella) istituiscono “una società et unione della musica che si haverà fare in questa suddetta città” sia che si trattasse di musica sacra da sonare “nelle chiese e cappelle”, sia che fosse musica profana “occorrendo in Lecce qualche carro, frottola, e commedia, seu opera”, in nome della quale si dichiarano pronti a mettere in comune quasi tutti i loro guadagni di musicisti.
In conseguenza di ciò (di fatto, come riporta L. Cosi, viene istituita infatti “la formazione di una privilegiata e ristretta lobby musicale “che doveva servire a controllare l’ingerenza di altri professionisti”) “Pasquale Andriolo de Musicatori”, in caso si fosse trovato a suonare in chiesa in quegli anni (1749-1752) con i quattro autorevoli maestri leccesi, si sarebbe dovuto accontentare di “prendere l’ultimo luogo seu paga che l’aspetta senza che ciascuno di essi costituiti (Fumeca, Casilli e Imbò) permettesse che si facesse il contrario”9.
Nell’agosto degli anni 1751 e 1753, l’Andrioli presta la sua opera nella chiesa del convento delle clarisse di Nardò, per la festività della Santa Madre Chiara, insieme all’altro violino Felice Pagliara di Campi, a Crisostomo Estrafallaces (oboe), don Giuseppe Massa e don Angelo Muja (quest’ultimo violino di San Pietro in Galatina)10. Che “l’artista” novolese avesse ormai acquisito notevole fama “singulariter” ed esclusivamente come primo violino con la sua piccola orchestra, tanto da essere richiestissimo in tutte le manifestazioni musicali (melodrammi, carri carnevaleschi, oratori, cantate sacre e profane) che si trovavano a Lecce e Provincia, sono due atti notarili del 1762 e del 1765 riguardanti la nascita e i primi anni di attività del “Teatro Nuovo” di Lecce, volgarmente detto di San Giusto, il più antico teatro pubblico di Lecce finanziato e costruito (inaugurato nel 1759) dai patrizi leccesi Gaetano Mancarella e Francesco Antonio Bernardini11.
Nel rogito del 13 maggio 1762, alla presenza del notaio Giovanni Battista Rebecco, i due proprietari del Teatro Nuovo scritturano Pasquale Andrioli come primo violino di tutte le opere, repliche, intermezzi da effettuarsi nel suddetto teatro. Questi, in particolare, i punti salienti dell’interessante “Conventio et obligatio”: “Costituiti nella presenza nostra l’illustrisimi Signori D. Gaetano Mancarella e D. Francescantonio Bernardini Patrizi di questa città di Lecce, Compadroni del Nuovo Teatro eretto nella medesima Città, li quali appono ed intervengono alle cose infrascritte per se stessi insieme loro eredi e successori da una parte ed il Signor Pasquale Andrioli della Terra di Novoli in questa sudetta Città di Lecce commorante ed accasato, il quale parimente agge ed interviene, alle medesime cose infrascritte per se stesso, suoi eredi e successori dall’altra parte. Le dette parti non per forza o dolo ma spontaneamente con giuramento avanti di noi, sono tra di loro venute a Convenzione mediante la quale il sudetto Signore Pasquale Andrioli promette e s’obliga ad ogni richiesta ed ordine di detti Signori Gaetano Mancarella ed Francescantonio Bernardini o della persona da essi loro destinanda Impressario, Sonare da primo violino in tutte quelle opere in Musica, che li sudetti Signori Mancarella e Bernardini, a la detta persona da essi destinanda, faranno rappresentare in detto Teatro nel presente mese di maggio del Corrente anno 1762, e per tutto l’ultimo di Carnevale venturo dell’anno andante 1763, obligandosi detto signor Pasquale di sonare di primo violino nell’opere sudette, ed assistere ne’ concerti, che per le medesime occorreranno farsi di giorno, e di notte in Teatro, ed in altro Luogo, che piacerà a detti Signori D. Gaetano e D. Francescantonio, o a detta persona da essi loro destinanda e Sonare in tutte le Serate l’opere, ed anche di giorno se occorresse, senza limitazione di numero e delle Cose predette. S’obliga non mancare per qualsiasi causa e cosa, eccetto il caso di sua indisposizione, Iddio non voglia, nel qualcaso debbono detti Signori D. Gaetano e D. Francescantonio el’Impresario pazientarlo per giorni otto, quali elassi, e non trovandosi ristabilito in salute, sia lecito alli medesimi prendere altro Professore in suo luogo, e pagarli le sue fatighe fatte tantuni pro rata dell’infrascritto suo onorario: All’incontro li sudettiSignori D. Francescantonio e D. Gaetano promettono ed insieme s’obligano dare e pagare a detto Signor Pasquale per onorario delle sudette ed infradescritte sue fatighe faciende, sino a detto d’ultimo di Carnevale di detto entrante anno 1763: docati quaranta moneta Napolitana da pagarli detti Signori D. Gaetano e D. Francescantonio insieme al sudetto Signor Pasquale Andrioli presente, in quattro paghe ratizatande cioè la quarta parte di essi a Levata di Cartello della prima opera; altra quarta parte a Levata di Cartello della seconda, altra quarta parte a levata di cartello della terza, el’altra quarta parte a levata di cartello della quarta opera, e da detti pagamenti insieme s’obligano detti Signori Mancarella e Bernardini non mancare per qualsiasi Caosa eccetto il caso di divieto di dette comedie per fato divino o di Principe, nel qual caso sopra l’onorario sudetto detta farsi in beneficio delli detti Signori D. Gaetano e D. Francescantonio il difalco pro hora del tempo di detto divieto, sicche il presente instrumento per la consecuzione di detto onorario, si possi per detto Signor Pasquale, contro detti Signori Gaetano e D. Francescantonio, o di ciascheduno di essi insieme incusare in ogni Tribunale e Foro, e dove occorrerà con ottenere la pronta parata ed espedita esecuzione reale e personale denunciando: Fu convenuto parimente tra esse parti che per la pronta e parata consecuzione di docati quaranta di onorario intersupra detti Signori D. Gaetano e D. Francescantonio glieli assegnano sopra l’affitto faciendo del Palchetto del Signor Duca D. Giovanni Carignani ita che la speciale oblazione, non deroghi la generale, né per contrario…”.
Secondo tale convenzione inoltre i due proprietari del teatro potevano esigere in qualunque momento la replica “di qualche opera di quelle che avrà già sonate” nonché di farsi rappresentare “intermezzi musicali”12. La convenzione infine consentiva all’Andrioli, previo permesso dei proprietari, di potersi “portare fuori qualche volta a fare musiche” per impegni diversi da quelli teatrali13.
Il rogito notarile del 28 marzo 1765 del notaio Giovanni Battista Rebecco è una “convenzione” invece con Girolamo De Curtis “della Città di Siena, in Lecce commorante nuovo affittatore del teatro di questa città”, con il quale quest’ultimo si assicurava i servigi di Pasquale Andrioli ovvero “sonare da primo violino in tutte quelle opere in musica che il suddetto Sig. Girolamo De Curtis o la persona da esso destinanda faranno rappresentare in detto Teatro nel venturo mese di maggio del corente anno 1765 e per tutto l’ultimo di Carnevale venturo dell’anno entrante 1766 […vengono pattuite le stesse prestazioni dell’atto del 1762 con Mancarella e Bernardini] per le sue fatighe faciende docati 40 moneta napolitana in quattro paghe ratiatamente[ovvero] 10 docati ad ogni levata di cartello delle quattro opere faciende” (seguono infine i tipici obblighi già evidenziati nell’atto precedente, ovvero di partecipare a concerti o prove, repliche nonché intermezzi e la possibilità di esibirsi anche fuori Lecce e nei paesi della Provincia)14.
Queste, in conclusione, le prime informazioni su tale illustre e dimenticato Novolese che non sfigura, indubbiamente, accanto ai nomi all’inizio citati. Anzi, considerato ciò che al momento è stato documentato, un’indagine più approfondita (che altri studiosi potranno certamente continuare) potrà apportare nuove importanti rivelazioni sulla sua attività artistica, sulla sua vita e, di riflesso, su quella (in senso molto più ampio) della nostra comunità e la sua (a quanto pare particolarmente ricca e molto lontana nel tempo) “tradizione musicale”15.
In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. V, 19 luglio 1998, pp. 18-21 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 315-320, Novoli 2024.
Note
1 Si vedano, ad esempio, in particolare i seguenti contributi monografici: Gruppo di Studi Alessandro Mattei (a cura di), Novoli di Lecce, Novoli 1977; M. De Marco, Storia di Novoli, Roma 1980; O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Novoli 1986; Id., Novoli (1806-1931), Novoli 1990; Id., I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), Novoli 1989; G. Spagnolo, Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, Novoli 1987; Id., Storia di Novoli, Note ed Approfondimenti, Lecce 1990; Id., Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di Santa Maria de Nove (introduzione di M. Cazzato), Lecce 1992; A. Politi, Timme ci su statu (Dimmi chi ero), Novoli 1991.
2 Si veda di chi scrive: Il Principe Perfetto Giovanni Antonio Albricci Terzo (testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri, illustre letterato salentino), in “Quaderno di Ricerca”, Salice Salentino, ottobre 1989; Sul Gesuita novolese Nicola Mazzotta e il suo Trattato Teologico Morale, in “Spazio C.R.S.E.C.”, Novoli, giugno 1985; Benedetto Mazzotta l’Aristotelico, in “Spazio C.R.S.E.C.”, Novoli, dicembre 1985; Eugenio Guerrieri il Galilei Novolese, in “Spazio C.R.S.E.C.”, Novoli, dicembre 1984; Pietro Mazzotta Accademico Spione, in “LiberArs”, a. I, n. 1, Trepuzzi 1996; E ballanu e ballanu. Il Tarantolismo in uno studio del Novolese F. Ferruccio Guerrieri, in “Lu Lampiune”, a. XII, n. 2, Lecce, 1996; Francesco Guerrieri e Prospero Rendella giureconsulto e storiografo monopolitano, in “Annuario di Studi e Ricerche”, a. I, Novoli 1993; Bernardino Realino, il Santo di tutte le virtù (Brevi note sulla deposizione del P. Francesco Guerrieri al Processo Remissoriale di Lecce negli anni 1623-1624), in “Lu Lampiune”, a. IV, n. 2, agosto 1980; si veda ancora M. Cazzato-G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, in “Camminiamo Insieme”. A. XII, n. 1, Novoli, gennaio 1998; F. Gloria, Sulla Theologia Moralis di Nicola Mazzotta (tesi di laurea in storia della filosofia).
3 Cfr. L. Cosi, I primi dieci anni di attività del Teatro Nuovo di Lecce (1759-1769) attraverso le fonti archivistiche, in “Recercare” Lucca, Lib. Mus. Ed. 1990, a. I, n. 2, pp. 35-69; Id., Seicento Musicale leccese, in “Studi Storici Meridionali”, Cavallino, Capone Ed., a. VIII, n. 2, 1988, pp. 195 e seg.; Idem, Musici di voce e di instrumenti e Maestri di Cappella in S. Croce nei secoli XVII e XVIII, in Santa Croce a Lecce Storia e Restauri, a cura di A. Cassiano e V. Cazzato, Galatina, Congedo Ed. 1997, pp. 135-158; Id., Sorella Musica. I sacri Concerti di Santa Chiara di Nardò nella tradizione musicale delle clarisse di terra d’Otranto (sec. XVII-XIX), in L. De Santis (a cura di), Per Benigno Perrone da Salice, storico francescano (1914-1995), Lecce, Ed. Orantes 1997, pp. 179-232; Id., Sorella Musica. Sinfonie e Concerti sacri in S. Chiara di Nardò dal XVII al XIX secolo, in S. Bove Balestra, M. Gaballo (a cura di), Il Monastero di S. Chiara in Nardò, Galatina, Ed. Panico 1998, pp. 179-204.
4 Cfr. di chi scrive Memorie Municipali ottocentesche. Guardie Urbane e Musicanti a Novoli nel XIX secolo, in “Lu Lampiune”, a. XIV, n. 1, Lecce, 1998, pp. 123-133; Domenico M. Toraldo, Il teatro Comunale di Novoli: un secolo di storia, Novoli, 1988. Novoli è l’unico paese che dal primo ottocento ad oggi ha avuto sempre un concerto musicale o addirittura due. Una prima banda musicale infatti nacque nel 1827 per merito del maestro Salvatore Castorino di Messina, domiciliato a S. Pietro Vernotico che si trasferì a Novoli per istruire i giovani cominciando appunto dall’alfabeto Musicale (cfr. O. Mazzotta, Novoli (1806-1931), cit. p. 92.
5 G. Spagnolo, Novoli nell’800. “Per Filios Filioru”. Tra fabbricanti di violini e balli della Taranta, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. III, Novoli, 21 luglio 1996, p. 20; La Vita della Terra d’Otranto è stata totalmente e recentemente pubblicata dalle Edizioni del Grifo, Manduria 1996 (con una premessa di M. Paone ed introduzione di E. Imbriani). Lo stesso Imbriani l’ha riproposta basandosi sul testo edito nel 1876 (tre fascicoli della “Rivista Europea” in quattro parti) integrata da due capitoli inediti che costituiscono con ogni probabilità la quinta puntata destinata alla stessa rivista e da aggiunte ed appendici appartenenti ad un manoscritto del 1893 (cfr. L. De Simone, La Vita della Terra d’Otranto con capitoli inediti, a cura di E. Imbriani, Ed. Del Grifo, Manduria 1997. Testimonianza della lunga “tradizione musicale novolese” è, addirittura già nel 1600, la figura (ancora tutta da approfondire) del clerico, nonché “musico” di professione Tommaso Longo, allievo del maestro di cappella in S. Croce, Carlo Fiorentino (1610-1670 ca.). In uno dei “processetti” di sacre ordinazioni del tempo conservati nell’Archivio della Curia di Lecce e rintracciati da L. Cosi, il Fiorentino così dichiara testualmente nel 1666: “Fidem facio ego D. Carolus Fiorentino sacerdos Cathedralis ecclesiae civitatis Litii, Magister musicae et instrumentalis ac cantui gregoriani, cl. Tomasus Longo [n. 1640] de S. Maria de Novis duobus ab hinc annis quotidie apud me in ista professione frequentare, multum profecisse etiam attestor” (processetti n. 2846, cfr. L. Cosi, Appunti sul seicento musicale leccese, cit., p. 201.
6 Archivio Parrocchiale Chiesa Matrice Novoli, Libri baptizatorum, voll. 14, 6 gennaio 1571-21 maggio 1820, vol. 8 (5 agosto 1709-4 gennaio 1731), c. 52.
7 Archivio Parrocchiale Chiesa Matrice Novoli, Uccetti – Matrimoni 1571-1820, voll. 2, vol. I, atto n. CXXXI.
8 Archivio di Stato di Lecce, Catasto Onciario di Lecce, voll. 6, 1755, vol V “Forastieri abitanti”, p. 497. Fino agli ultimi anni del 1700 e agli inizi dell’800, Lecce, come le altre città meridionali, non aveva denominazioni viarie. I cittadini le sapevano a memoria e si intendevano riferirsi al rione o Pettaci o all’isola che per lo più prendeva nome da una chiesa che in essa era incorporata o dal palazzo del proprietario più noto o più cospicuo. La città era armonicamente divisa, sin dal 1400 in quattro Portaggi o Pettaci dal greco che vuol dire rione. I portaggi erano denominati sant’Oronzo o di Rusce, San Biasi o San Biagio, San Martino e, appunto, San Giusto. I portaggi corrispondevano alle porte omonime e alle quattro parrocchie rispettivamente del Duomo, di Santa Maria della Luce, di Santa Maria delle Grazie e di Santa Maria della Porta. Ogni Portaggio era diviso in isole. Ciascuna isola aveva uno o più nomi del proprietario più noto di un palazzo di essa o da una chiesa o di un convento o da un pubblico edificio incorporato nell’isola. “L’insula Furni S. Ioannis Evangelistae”, dal celebre monastero delle monache Benedettine di S. Giovanni Evangelista fondato dal Conte Accardo nel 1133, era una delle tante isole che formavano il territorio parrocchiale della “Madonna della Porta”, inoltre il Portaggio di San Giusto, isola appunto di San Giovanni era proprio vicino al Teatro Nuovo (cfr. N. Vacca, Lecce nota ed ignota; l’isola del Pollicastro, in “Rinascenza Salentina”, a. 2, Lecce, luglio-agosto 1934, p. 206; P. De Leo, Uno sconosciuto stato delle anime della città di Lecce del 1631, in “Almanacco Salentino” 1968-69, a cura di M. Congedo, V. Zacchino), Cutrofiano, 1968, pp. 62-63, nota 60 e 65.
9 Archivio di Stato di Lecce, sez. prot. N. Taurisano, 46/82, a. 1749, cc. 13v, 17v. Il contratto è stato pubblicato integralmente da L. Cosi in appendice al suo studio Musici di voce e di Instrumenti… cit., pp. 150-151.
10 Cfr. L. Cosi, Sorella musica…, in Per Benigno Perrone da Salice cit., pp. 216-217 e in Il Monastero di S. Chiara in Nardò cit., pp. 199-200 (Canti del Venerabile Monastero di S. Chiara [dal 1751] fino al 1755): …all’Andrioli di Lecce altro violino 1.50…”.
11 Cfr. L. Cosi, I primi dieci anni… cit., pp. 35-40.
12 Archivio di Stato di Lecce, sez. prot. 46/97 notaio Giovanni Battista Rebecco, Conventio et Obligatio inter ill.dom d. Caietanum Mancarella et d. Franciscum Antonium Bernardini et dom Paschalem Andrioli Licis commorantem 13 Maggio 1762, c. 92v 95v.
13Ivi, cc. 94r-95v.
14 Archivio di Stato di Lecce, sez. prot. 46/97, notaio Giovanni Batista Rebecco, Conventio et Obligatio inter dominos Paschalem Andrioli de Terra s. Maria de Novis Licis commorantem et Vincentium Roncella in dicta civitate commor. Misum et internuncium ut dixit ill. Hjeronimum de Curtis de Civitate Sienae, 28 marzo 1765 e Ratificatio facta per dom Hjerimum de Curtis 13 luglio 1765, cc. 111v-114r. Il “Duca D. Giovanni Carignani”, citato nel rogito era figlio di Francesco Carignani e fratello di Giovan Battista e Giulio Cesare (primogenito). Quest’ultimo aveva sposato la bolognese Ippolita Malvezzi, ma il loro matrimonio fu annullato dalla S. Sede a causa dell’impotenza di lui secondo quanto afferma il cronista Francesco Antonio Piccinni. Ottenuto l’annullamento la Malvezzi sposò Giovanni che sempre secondo lo stesso cronista “…era debole” come il primo (cfr. A. Laporta (a cura di), Cronache di Lecce, Ed. del Grifo, Lecce 1991, p. 146 (“Fatto curiosissimo”); R. Franchini, Inediti di Pasquale Francioso, in “La cucchiara”, a. I, n. 4, Novoli, novembre 1963; O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, cit., p. 28). Il Carignani aveva inoltre acquistato assieme ad altri nobili locali quali erano Personè, Rollo, Ricci, Viva, il barone di Cursano il palchetto del Teatro nel 1760 come risulta da un rogito del notaio Giuseppe Nicola Baccone, Conventio et cautela inter ill. dom. d. Franciscum Antonium Bernardini et d. Gaetanum Mancarella patritios lycensis cum ill. dom d. Ermenegildo Personè, d. Christophoro Rollo d. Gasparo Ricci, d. Ignatio duca Favilla, 19 settembre 1760, c. 163v-166r (Archivio di Stato di Lecce, sez. prot. 46/104). Il Carignani, infine, era il proprietario della casa nel Portaggio di S. Giusto, dove lo stesso Andrioli abitava. Non è da escludere perciò che l’Andrioli avesse avuto come alto protettore e dunque “mecenate” lo stesso Duca Carignani.
15 Da notare che a proporre l’erezione del Teatro Comunale di Novoli in data 15 agosto 1881 “nel luogo Pioppi in faccia al muro del giardino della Signora Plantera” fu proprio un Andrioli, esattamente il notaio Celestino Andrioli consigliere comunale, nato a Novoli il 1 ottobre 1839 dal notaio Antonio Andrioli e da M. Giovanna Miglietta (cfr. Domenico M. Toraldo, Il teatro Comunale di Novoli… cit., p. 20). Recentemente Piergiuseppe De Matteis, a nome dell’Associazione Culturale “Il Pozzo” in una lettera all’Amministrazione Comunale (“Camminiamo Insieme”, a. XII, n. 1 gennaio 1998, p. 8) ha chiesto che, se si dovesse procedere ad intestare nuove vie nella nostra cittadina, queste fossero, giustamente, intitolate a quelle persone (e, come abbiamo indicato, sono tante) che hanno dato lustro alla nostra Novoli. Sarebbe anche auspicabile, quando “i lavori di restauro” del teatro Comunale saranno “finalmente” terminati intitolarlo al nostro musicista Pasquale Andrioli.
Riferimenti bibliografici essenziali
Archivio Parrocchiale Chiesa Matrice Novoli, Uccetti – Matrimoni 1571-1820, voll. 2, vol. I, atto n. CXXXI;
Ivi, Libri baptizatorum, voll.14, 6 gennaio 1571 – 21 maggio 1820, vol. 8 (5 agosto 1709-4 gennaio 1731) c. 52;
Archivio di Stato di Lecce, Catasto Onciario di Lecce, voll. 6, 1755, vol. 5 “Forestieri abitanti”, p. 497;
Ivi, sez. prot. not. N. Taurisano, 46/82, a. 1749, Societas inter etc., cc. 13v-17v;
Ivi, sez. prot. not. G.B.Rebecco, 46/97, a. 1765, Conventio et obligatio etc, cc. 111v-114r.;
L. Cosi, I primi dieci anni di attività del Teatro Nuovo di Lecce (1759-1769) attraverso le fonti archivistiche, in “Recercare”, a. I, n. 2, Lib Mus. Ed., Lucca 1990, pp. 35-69;
Id., Seicento Musicale leccese, in “Studi Storici Meridionali”, a.VIII, n.2, Capone Ed., Cavallino 1988, pp. 195 e ss.
Id., Musici di voce e di instrumenti e Maestri di cappella in S.Croce nei secoli XVII e XVIII, in Santa Croce a Lecce. Storia e Restauri (a cura di A. Cassiano e V. Cazzato), Congedo Ed., Galatina 1997, pp. 135-158;
Id., Sorella Musica. I sacri Concerti di Santa Chiara di Nardò nella tradizione musicale delle clarisse di Terra d’Otranto (sec XVII-XIX), in L. De Santis (a cura di), Per Benigno Perrone da Salice, storico francescano (1914-1995), Ed. Orantes, Lecce 1997, pp. 179-232;
Id., Sorella Musica. Sinfonie e Concerti sacri in S.Chiara di Nardò dal XVII al XIX secolo, in S. Bove Balestra – M. Gaballo (a cura di), Il Monastero di S. Chiara in Nardò, Ed. Panico, Galatina 1998, pp. 179-204;
P. De Leo, Uno sconosciuto stato delle anime della città di Lecce del 1631, in Almanacco Salentino 1968-69 (a cura di M. Congedo – V. Zacchino), Cutrofiano 1968, pp. 62-63, note 60 e 65;
G. Spagnolo, Novoli nell’800 “Per filios Filioru”. Tra fabbricanti di violini e balli della Taranta, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. III, Novoli 21 luglio 1996, p. 20;
Id., Memorie Municipali Ottocentesche. Guardie Urbane e Musicanti a Novoli nel XIX secolo, in “Lu Lampiune”, a. XIV, n. 1, Lecce 1998, pp. 123-133;
D.M. Toraldo, Il Teatro Comunale di Novoli: un secolo di storia, Novoli 1988.
Alcune note sulla cappella di San Vito a Monteroni di Lecce
Situata dentro l’abitato, essa aveva un altare mediocremente ornato, sul quale si poteva ammirare un affresco con l’immagine della Madonna delle Grazie. Così A. Putignano ci introduce alla descrizione della cappella di San Vito, larga circa 15 palmi e lunga circa 26, e dell’avvicendarsi di situazioni di degrado e di ricchezza e prosperità. Dalle stesse descrizioni del Putignano evinciamo come, in più Visite Pastorali, la cappella si rivelò angusta ed in condizioni non idonee al culto; così fu realizzato un primo restauro nel 1646 da parte di Angelo Pinto, che si curò di reintonacare le mura dell’edificio, rimpiazzare il tetto in canne con uno in travi di legno, provvederlo di adeguati paramenti, sostituire la pavimentazione ed affrescare la chiesetta con nuove immagini di santi, tra cui quella del titolare Vito.
Appena qualche anno dopo, però, mons. Luigi Pappacoda dovette constatare (…). A mons. Pappacoda non rimase che porre la drastica alternativa: o il definitivo restauro o l’immediata demolizione. Nonostante ciò la struttura rimase inalterata e non fu demolita, fino a quando non si provvide ai necessari restauri, tra cui il Pappacoda aveva sottolineato in particolar modo l’aggiunta di finestre per ovviare alla scarsa luminosità dell’ambiente.
Inizialmente nella cappella di San Vito si tenevano Messe aliquando ex devotione populi e ogni anno in occasione della festa del santo si teneva una processione. Il culto di San Vito andò progressivamente perdendosi in favore di quello della Madonna delle Grazie, il cui quadro era sull’unico altare esistente.
Nel ‘700, poi, nessuno si curò che la chiesa fosse in condizioni decorose; l’unica preoccupazione era ovviamente che nessun laico potesse svolgervi attività non consone alla fede. Nello stesso periodo la cappella risultava dotata del singolo altare con il quadro della Madonna delle Grazie, dell’affresco seicentesco di San Vito, di un tetto in canne sorrette da travi e di tre finestre. Fu questo, nonostante la noncuranza delle sue condizioni, il periodo di maggiore splendore per la chiesetta, tanto da indurre i prelati che la visitavano ad esprimere la loro piena soddisfazione.
Nel secolo successivo iniziò per la cappella di San Vito un periodo di irreversibile degrado: dapprima risultò scarsa in quanto ad arredi sacri, per poi arrivare a difettare di attenzioni anche da parte del Clero del paese. Nei primi del ‘900 era comunque ancora efficiente per il culto, ma poco tempo dopo fu trovata in pessimo stato, utilizzata come “deposito” di cadaveri. Così mons. Gennaro Trama ben pensò di vendere l’edificio e utilizzare i ricavati di tale vendita nel finanziamento delle costruzioni della nuova parrocchiale della SS. Ausiliatrice. Fu così che terminò la storia della cappella di San Vito, annoverata da G. Chirizzi tra gli edifici religiosi più antichi di Monteroni, demolita subito dopo la vendita.
Per l’identificazione del casale di Marsanello, nel Capo di Leuca
Scorrendo le fonti documentarie angioine e aragonesi che riguardano la Terra d’Otranto, capita spesso di trovare la menzione del casale di Marsanello/Marzanello; l’abitato, oggi scomparso, viene citato da diversi autori ma manca ancora di una sicura individuazione e di una precisa localizzazione.
Carmela Massaro ha proposto di identificare questo casale con Marzano, altro toponimo che compare spesso nelle fonti medievali, il quale era collocato “iuxta territorium Minervini, iuxta casale Murtule” (tra il territorio di Minervino e il casale di Murtule, nei dintorni di Castro)1.
A nostro parere, invece, esistevano due centri abitati distinti: Marzano/Marzanello era una casale dell’entroterra idruntino, mentre un altro Marsanello si trovava nell’attuale territorio di Alessano, precisamente sul versante sud-orientale della serra di Montesardo, in una zona, denominata “Mercanti” sulla cartografia IGM (fig.1), che ha restituito ceramica di epoca basso medievale. Di seguito, attraverso l’analisi dei dati storici ed archeologici e grazie all’ausilio della toponomastica, cercheremo di dimostrare la fondatezza di tale ipotesi.
Fonti storiche
Le più antiche notizie scritte, che abbiamo a disposizione su Marsanello, risalgono all’inizio del Trecento. Alcune informazioni si trovano nell’opera di Scipione Ammirato Storia della famiglia dell’Antoglietta la quale riporta un paio di cenni tratti dall’archivio angioino: nel 1301 Enrico dell’Antoglietta fu signore di “molte Castella e Feudi“, tra i quali “San Dano, Pulsanello, Giuliano, Marsanello, […] e Baliano”, ancora nel 1333, suo figlio Nicolò possedeva i casali di “Pulsanello, Marzanello, Iuscianello, Baliano, Barbarano, Santo Dano, Boniliano e Pulsano“2. Da altra fonte, i Notamenta del De Lellis, abbiamo conferma che nel 1303 ad Enrico fu concessa “pars casalium Pulsanelli, Iuvanelli, Mansanelli, Baliani, Barbarani, Sanctae Danae, Doriliani, Pulsani, in Idronti“, possesso confermato nel 1304 per i centri di “Ariliani, Baliani, Sancti Donati (S. Dana), Pulsanelli et Marsanelli“3.
Tra le località infeudate ai dell’Antoglietta, quelle che si possono identificare con certezza si trovano tutte in un’area geografica ben definita, a sud del territorio di Alessano: S. Dana, Giuliano, Baliano-Valiano, Barbarano, Pulsano (nei dintorni di Gagliano) e Arigliano. Pare plausibile, quindi, che anche gli altri villaggi, incluso Marsanello, ricadessero nella stessa zona a formare un feudo territorialmente coeso.
Indizi in tal senso si ritrovano anche nel XV secolo, infatti tra i beni feudali concessi a Jacobo de Lantolio (dell’Antoglietta) nell’anno 1494 c’erano: “certa parte casalis Juliani; casale vulgariter dicto Marsanello; pro vaxallis habitantibus in Specla, in casali Pati, in Gagliano ed in casali Baliani; Arignani et Gagliani; orti tre nominati Santo Nicola in Casali Arigliani; territorio nominato Campo del Guiczano in pertinenze Gagliani; et pro territorio Baliani pro tiraggio; territorio in pertinenza Santo Dana, pheudo inabitato in Palaczano; pheudo sito in tenimento Santi Prancatii; casali Rofiani, Salve et tabola lomabardello; pheudo de Regiano; pheudo inabitato di S. Andrea in pertinentis Neretoni“4.
Dopo quasi due secoli, la maggior parte dei possessi appartenenti ai dell’Antoglietta, incluso il nostro casale di Marsanello, si concentrava ancora nella parte più meridionale del Capo di Leuca. D’altra parte il casale di Marzano/Marzanello, citato dalla Massaro, pare abbia avuto una storia feudale diversa. Esso faceva parte dei possessi dei de Cerasolo già dal XIII secolo, come apprendiamo da un regesto dei registri angioini datato 1284 in cui Roberto de Cerasolo, in seguito alla morte del padre Guglielmo, ebbe l’assicurazione dei vassalli di “Chardiniani (Castrignano dei Greci), Salparicii, Morigini, Marzanelli, Michanelli (Miggianello), Turchareoli, Griptalis et S. Donati“5. Nel 1329 Roberto de Sambiase ereditò dalla madre Filippa de Cerasolo parte di questi beni inclusi vassalli in Marzano e in Marzanello. Nel 1462 una parte del casale di Marzano apparteneva a Roberto Ventura, barone di Palmariggi6.
Ulteriori prove a favore della nostra ipotesi si possono trovare nei manoscritti facenti parte dell’archivio del Principato di Taranto. Grazie ad alcuni registri di natura fiscale, sappiamo che nel 1458 il casale di Marsanello era tassato per dieci fuochi e l’anno seguente solo per tre7; ma il documento per noi più interessante è senza dubbio il quaternus di Nucio Marinacio, erario del principe Giovan Antonio Orsini del Balzo per il territorio che andava da Lecce a S. Maria di Leuca, redatto nel 1462. Il testo, pubblicato integralmente da Serena Morelli8, riporta le tasse pagate del piccolo centro nell’anno della decima indizione (1461-1462):
Marsanelli pro focularibus tribus extaliate de summa foculariorum decem ad ducatum auri unum per foculare: tr XVI gr X
pro ipsis focularibus tribus ad tarenum unum, grana quatuor pro foculare: tr III gr XII
pro precio salis thomulorum quinque ad racionem predictam: tr X
pro cedulis et apodixis extaliate: tr II
unc I tr II gr II9.
Dunque il casale era tassato per 3 fuochi, su un totale di 10, e pagava all’erario una somma totale di 1 oncia, 2 tarì e 2 grani. Il fatto che sette fuochi non fossero tassati era dovuto o alla estrema povertà di questi contribuenti (che li faceva ricadere tra i nullatenenti, perciò esenti da tasse), o perché erano tassati nei feudi vicini.
Quest’ultimo caso era molto frequente nei centri del Capo di Leuca, ad esempio il paese di Giuliano venivano conteggiati 38 fuochi, ma solo 19 erano annoverati tra coloro che versavano le imposte nel suddetto casale, mentre l’altra metà degli abitanti proveniva dai paesi circostanti in cui continuava ad essere tassata: “duo sunt Montisardii, duo Pati, duo Arelliani, unum Barbarani, sex Cursani, tria Galliani et tria Marsanelli“10.
Questo tipo di mobilità della popolazione era molto comune nell’estremo sud della penisola salentina e riguardava diverse località, tutte pertinenti ad un ristretto ambito territoriale: Arigliano, Barbarano, Castrignano del Capo, Corsano, Gagliano, Giuliano, Meliano (Maliano nei pressi di Tiggiano), Montesardo, Morciano, Patù, Presicce, Pozzo Mauro (nei dintorni di Presicce), Ruggiano, Salignano, Salve, S. Dana11. Si trattava, con tutta evidenza, di spostamenti a corto raggio, che interessavano casali confinanti o vicini, legati probabilmente a motivi di natura economica. Da ciò si può ragionevolmente dedurre che anche il feudo di Marsanello, più volte citato nei registri fiscali del Principato di Taranto, era ubicato nel Capo di Leuca e non nell’entroterra idruntino.
Nel Cinquecento il nostro casale scompare dalle fonti e fu probabilmente all’inizio di questo secolo che esso venne abbandonato. Alla fine del XVII secolo il toponimo ricompare nei documenti, per la precisione in un atto notarile del 1688 in cui Stefano Farati dona al fratello una vigna in località di Morsano, sita nel feudo di Montesardo12.
Toponomastica
Tracciamo l’evoluzione del toponimo secondo le fonti fin qui esaminate: XIV sec. Marsanello, Marzanello, Mansanello (probabile errore di trascrizione); XV sec. Marsanello; XVII sec. Morsano. Quest’ultimo nome, probabile corruzione di epoca tarda di quello originario, si è conservato ed è in uso ancora oggi, infatti, ai piedi della serra di Montesardo, lungo il tragitto di un’antica carraia che da Macurano portava a S. Dana, esiste un vasto terreno seminativo denominato in dialetto locale Morsanu Piccinnu (Morsano Piccolo) e, poco più avanti, un altro denominato Morsano Ranne (Morsano Grande)13. Il primo termine appare un toponimo di origine prediale e un piccolo insediamento rurale di epoca romana, che si trova poco distante e di cui ci occuperemo più avanti, confermerebbe tale ipotesi; le qualifiche di “grande” e “piccolo” possono far pensare a due centri abitati contigui ma distinti come avveniva di frequente nel Salento medievale, per esempio citiamo i casi di Casaranum Magnum-Casaranum Parvum, Matinum Magnum-Matinum Parvum oppure Miggiano-Miggianello, Tabelle-Tabelluccio, Pulsano-Pulsanello14.
Nel Basso Salento ritroviamo lo stesso toponimo a Gemini: “Masseria Moresano”, da far risalire al cognomen latino Mauricius/Maurisius/Mauritius15.
I resti archeologici
Come già in precedenza accennato, sul versante orientale della serra di Montesardo, lungo un antico asse viario che collegava Macurano e S. Dana, in località Morsanu Piccinnu (località “Mercanti” sulla cartografia IGM), è stato individuato un piccolo uliveto, 30 m x 10 m circa, che ha restituito abbondanti resti ceramici e vitrei risalenti al Basso Medioevo (fig.2).
Quasi tutti i reperti, seppur raccolti in superfice, si presentano in buono stato di conservazione, è probabile che essi siano rimasti sotto terra fino a pochi anni a dietro e poi riemersi solo con l’impianto dell’uliveto (che potrebbe avere circa 30 anni). Si tratta di alcune antiche fosse di rifiuti come chiaramente si legge sul terreno, infatti in mezzo alla caratteristica terra rossa si distinguono due zone di terreno più chiare in cui è concentrata la maggior parte dei frammenti fittili.
Una ricognizione condotta nel marzo 2020 ha permesso di riconoscere i seguenti reperti: abbondanti resti di tegole ad impasto chiaro; numerosi orli, pareti ed anse riferibili ad anfore acrome o dipinte a bande strette (decorazioni a fasce semplici, motivi a spirale e “a uccelli” dipinte in nero, bruno e arancio); due orli di bacino dipinto a bande strette; alcuni fondi di ciotole di ceramica invetriata policroma (RMR); frammenti di tazze e ciotole in invetriata monocroma (verde); un frammento di piatto in ceramica graffita; diversi fondi di coppe in maiolica o protomaiolica; abbondanti resti di ceramica da fuoco invetriata e non; tre fornelli di pipa fittile; diversi frammenti in vetro; un chiodo in ferro; resti faunistici. La maggior parte dei reperti si colloca tra la fine del XII e il XVI secolo.
Inoltre, in prossimità della discarica antica, su di un banco di roccia affiorante, si distinguono almeno 7 buche di palo di varie dimensioni, le più grandi misurano circa 30-35 cm di diametro. In base ai rinvenimenti si può ipotizzare l’esistenza di strutture abitative pertinenti ad un piccolo insediamento di età basso medievale.
A circa 200 m, in direzione nord-est, dal sito medievale, è stata rinvenuta un’altra zona di interesse archeologico; grazie all’indagine condotta da Danilo Ammassari una ventina di anni fa, è stata riconosciuta un’area, 160 m x 90 m circa, che ha restituito vari frammenti fittili di epoca romana (sigillata African red slip, ceramica da fuoco, ceramica a pasta grigia sovra dipinta di nero) che farebbero pensare alla presenza, in antico, di un’abitazione tardo romana di V-VI secolo16.
Ulteriori ricerche sono state condotte dallo scrivente nel 2021, in questa occasione sono stati rinvenuti: una selce; pochi frammenti di ceramica sovra dipinta di nero; numerosi orli e pareti di ceramica da cucina del tipo Illyrian cooking ware; abbondante ceramica sigillata; una decina di pareti di Late Roman Amphora; una moneta in bronzo dell’imperatore Costanzo II (emissione del 350-51 d.C.)17; poche pareti di ceramica da cucina di età bizantina “tipo Apigliano”; rari frammenti ceramici di età medievale (ceramica acroma, dipinta a bande, RMR) e post-medievale. Attraverso l’analisi dei nuovi rinvenimenti è possibile ampliare le conclusioni dell’Ammassari; di sicuro la piccola fattoria di epoca romana, probabilmente sorta già tra il II e il III secolo d.C., mostra tracce di frequentazione che vanno oltre il VI secolo, il che porta a supporre che il piccolo insediamento continuò ad essere abitato anche nella prima età bizantina.
Bisogna aggiungere che tutta l’area circostante presenta tracce di ceramica basso medievale; vi sono inoltre, inseriti in diversi muretti a secco, grandi blocchi squadrati in calcare locale di varie dimensioni, sicuramente cavati in antico. Ben evidenti sono i segni della carraia che giungeva da nord-ovest (da Macurano) e portava verso sud. Purtroppo la costruzione della linea ferrata, con il suo terrapieno, ha sconvolto parzialmente la topografia della zona e rende difficile la corretta interpretazione di tutti i dati rilevati.
Conclusioni
Tutti gli elementi fin qui raccolti dimostrano con chiarezza come, sul versante orientale della Serra di Montesardo, sia esistito un piccolo villaggio di epoca basso medievale e come esso sia da identificare con il casale vulgariter dicto Marsanello, più volte menzionato dalle fonti documentarie a partire dall’età angioina. L’abitato sorse nei pressi di un precedente insediamento rurale romano che continuò ad essere frequentato almeno fino al VII secolo.
Il periodo della sua formazione appare incerto, i resti ceramici più antichi risalgono all’epoca sveva ma è probabile che il villaggio medievale si sia formato precedentemente; rimane dubbio se ci sia stata un’effettiva continuità d’insediamento tra l’epoca tardoantica e il Basso Medioevo. All’inizio del XIV secolo esso era incluso stabilmente tra i possedimenti feudali della famiglia dell’Antoglietta e nel secolo successivo faceva parte del Principato di Taranto. Si trattava di un piccolissimo casale con meno di 50 abitanti, un micro-villaggio come molti che all’epoca punteggiavano tutto il Capo di Leuca. Plausibilmente esso fu abbandonato tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Se, accanto a Marsanello, sia esistito anche il casale di “Marsano Grande” resta una questione aperta che necessita di ulteriori indagini.
Alcune considerazioni aggiuntive
Proviamo ora ad inserire il piccolo casale di Marsanello nel contesto geografico del Capo di Leuca di fine Medioevo. Dalle fonti, sappiamo che sotto gli Angioini esistevano, in questa parte estrema della penisola salentina18, almeno 14 centri abitati: una metà di questi ha avuto vita ininterrotta fino ai giorni nostri (la civitas di Alessano, le terre di Gagliano e Montesardo, i casali aperti di Arigliano, Corsano, S. Dana e Tiggiano), all’altra, invece, è toccata una sorte differente ed è scomparsa nell’arco di poco meno di due secoli.
Di questi sette insediamenti non più esistenti, tre vennero abbandonati tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento (si tratta Mesano e Pulesano, nel feudo gaglianese, e Provigliano, sulla serra dei Cianci), mentre i restanti risultano ancora attestati in alcuni registri fiscali prodotti dalla burocrazia orsiniana databili alla metà del XV secolo; infatti, negli anni 1450/1460, oltre a Marsanello, erano ancora esistenti ed abitati i centri di Macurano (ai piedi della collina di Montesardo), di Meliano (Tiggiano, località Matine) e di Valiano (tra Corsano e Gagliano). Ad eccezione di quest’ultimo che sarà abbandonato solo intorno al 1580, questi insediamenti non sono più attestati o risultano disabitati già nel Cinquecento, perciò il loro abbandono è da collocare tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Per riepilogare:
Risulta evidente come, in un lasso di tempo relativamente breve (il secolo e mezzo circa che corre tra la fine del Trecento e l’inizio del Cinquecento), quasi la metà dei centri abitati della parte orientale del Capo di Leuca rimase disabitata, ma quali furono le cause che determinarono la fine di così tanti piccoli casali, nell’ultimo scorcio del Medioevo, rimane una questione aperta.
Spesso si è fatto riferimento alle virulente epidemie che colpirono la zona o alle incursioni dei Turchi divenute più frequenti dopo la presa di Costantinopoli (1452) per spiegare lo spopolamento di tante località e non c’è dubbio che la grande crisi del XIV secolo contribuì notevolmente al rimodellamento del paesaggio agricolo e insediativo di queste contrade.
Di sicuro sappiamo che le grandi carestie del primo Trecento e la peste nera degli anni 1348-50 provocarono un pesante crollo demografico anche in Terra d’Otranto. Alla crisi seguì una stagnazione demografica, almeno fino alla metà del XV secolo, con una riduzione dei villaggi abitati e della terra coltivata, ma allo stesso tempo lo spopolamento portò ad una maggiore disponibilità di risorse pro capite e quindi ad un miglioramento delle condizioni materiali della popolazione sopravvissuta, che a sua volta comportò una lenta ma costante ripresa economica. All’abbandono di casali aperti corrispose anche la redistribuzione del popolamento in centri ripianificati, protetti da mura e fossati, le cosiddette terre.
La popolazione salentina, che durante il Medioevo aveva risieduto sul terreno che coltivava, venne spostata all’interno dei borghi murati per agevolare lo sviluppo delle monoculture, molti feudi così spopolati si trasformarono in latifondi in mano alla nobiltà locale. La nascita degli insediamenti fortificati sicuramente rispondeva a delle questioni di carattere difensivo ma, allo stesso tempo, era funzionale ad un nuovo tipo di organizzazione del territorio agricolo che puntava sulla specializzazione colturale (l’olivo) e sulla messa in pratica di economie di scala19.
Si può dunque ipotizzare che anche i centri qui presi in esame, nella seconda metà del Trecento, siano andati incontro ad una forte ridimensionamento, ed è probabile che la prima fase di abbandoni sia da ricollegare ai processi sopra descritti. E’ noto, per esempio, che Gagliano venne munita di mura proprio all’inizio del Quattrocento.
Probabilmente, dopo la scomparsa dei casali di Mesano e Pulesano, i cui territori vennero inglobati nel feudo gaglianese, la terra de Galliano accolse nuovi abitanti (provenienti dai villaggi abbandonati) aumentando la propria consistenza demica e divenendo uno dei centri più importanti dell’estremo Capo di Leuca. Fu in questo periodo, inoltre, che, nel territorio da noi esaminato, si affermò la coltivazione massiccia dell’olivo, probabilmente a discapito della vite, che in poco tempo s’impose come monocultura. Ne troviamo traccia nel “Quaderno della bagliva di Alessano”20, registro fiscale dell’anno indizionale 1462-63, dove viene rendicontato tutto l’olio esportato annualmente dalla civitas Alexani, il quale ammontava a 1406 staia e mezzo. Si trattava di un notevole surplus destinato al mercato estero e al commercio in tutto il Mediterraneo se è vero che, già nel 1425, Durante, ebreo alessanese, era coinvolto nella vendita di 1200 staia d’olio sulla piazza di Alessandria d’Egitto21.
In seguito a queste trasformazioni, nella seconda metà del XV secolo i “micro-casali” della zona appaiono in difficoltà (per esempio Marsanello si era ridotto a soli tre fuochi tassabili su dieci totali, gli altri sette, probabilmente, erano troppo poveri per pagare le tasse); il loro dislocamento era stato, in passato, funzionale allo sfruttamento intensivo del territorio agricolo, in particolare alla coltivazione della vite, ma, verso la fine del Medioevo, esso si rivelò poco compatibile con il nuovo assetto agrario che si stava compiendo.
Tanti minuscoli villaggi, distanti tra loro meno di un paio di chilometri22, costituivano quasi un impedimento fisico alla creazione di grandi estensioni monocolturali in mano ai feudatari del luogo e mal s’inserivano nei processi economici che stavano cambiando il paesaggio rurale del Capo. Questa trasformazione si compì definitivamente nel corso del Cinquecento, quando la costruzione di innumerevoli frantoi ipogei ci testimonia l’avvenuto cambiamento del sistema agricolo ed economico salentino, ormai riconvertito alla produzione e commercializzazione del cosiddetto “oro liquido”.
Non è un caso se nel XVI secolo non si trovino più testimonianze su tanti centri documentati fino a pochi decenni prima. Molti di essi vennero abbandonati e al loro posto sorsero delle masserie più adatte al nuovo sistema agricolo: così accadde a Meliano (masseria Catti), a Macurano, dove, oltre alla masseria fortificata, restano diversi frantoi scavati nella roccia, e più tardi a Valiano. Altri, invece, si spopolarono gradualmente e scomparvero senza lasciare tracce evidenti della loro esistenza, proprio come avvenne al nostro casale di Marsanello.
In conclusione, anche il ristretto territorio da noi preso in esame pare confermare, grosso modo, le stesse dinamiche riscontrabili nel resto del Salento. Infatti se alla crisi del Trecento può essere imputata la prima fase di spopolamento, a cavallo tra XIV e XV secolo, le trasformazioni del sistema insediativo, agricolo ed economico che si compirono nel corso del Quattrocento paiono esser stati i fattori che determinarono gli abbandoni alla fine del Medioevo.
Note
1 C. Massaro, Sulla frammentazione dei poteri nel Mezzogiorno tardomedievale: alcune riflessioni su Muro Leccese, in Itinerari di Ricerca Storica, XXXIV/2 (2020), p. 132 e nota 67.
2 S. Ammirato, Storia della famiglia dell’Antoglietta, Firenze, 1846, pp.24-26.
3 M. Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le), 2004, p.18.
4 ASNa; Sommaria, Partium, vol.39, a.1494 foll. 6-7, et appendice p.545, in R. Fino, Il Capo di Leuca e dintorni tra realtà, storia e leggende, Galatina(Le), 2004, p.10.
5 R. Filangieri, I registri della Cancelleria Angioina, vol. XXVII, Napoli, 1979, p.76.
6I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di F. Ruppi, Lecce, 2010, pp. 198-200.
7 ASNa; Diversi, II numerazione, reg. 240, cc. 48v e 134, in C. Massaro, op. cit., 2020, p. 132 e nota 67.
8 S. Morelli, Il quaderno di Nucio Marinacio, erario del principe Giovanni Antonio Orsini da Lecce a Santa Maria di Leuca, anno 1461-1462, Napoli, 2013.
9Ibidem, p. 59.
10Ibidem, pp. 48-49.
11 Nel dettaglio: Arigliano aveva 3 fuochi de corpore, mentre 4 erano dislocati a S. Dana, 2 a Giuliano, 1 a Patù; Barbarano ne aveva 20 de corpore, 1 a Ruggiano, 2 a Patù, 4 a Salve, 3 a Giuliano; Gagliano 71 de corpore, 10 a Castrignano del Capo, 3 a Giuliano, 6 a Patù, 4 a S. Dana, 2 a Salignano; Montesardo 54 de corpore, 1 a Salignano, 1 a Barbarano, 3 a Meliano, 1 a Puteo Magno, 1 a Castrignano,1 a Morciano; Patù oltre ai 2 fuochi a Giuliano ne aveva 4 a Salignano; Presicce 1 a Montesardo.
12 A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce, 1994, p. 98.
13 Testimonianza orale raccolta in loco.
14 Il Sigliuzzo (op. cit., p. 227), trattando del casale di Pisanello, propone un’interpretazione diversa: ” Il villaggio di Pompiniano, nei dintorni di Muro, mentre era in pieno declino nel 1378, aveva assunto il nome di Pupignanello e Plusano, nei dintorni di Gagliano del Capo, ridotto agli estremi nel XIV secolo, figura ripetutamente sotto il nome di Pulsanello. Fenomeno identico si sarà verificato prima ancora dell’avvento dei Normanni per il villaggio di Pisano che, ridotto a poche famiglie, per la sua piccolezza avrà assunto il diminutivo”.
15 A. Marinelli, Contributo alla storia della romanizzazione del Salento, in Ricerche e Studi VIII, Quaderno n.8 del Museo Archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, Brindisi 1975, p. 157. Anche per questa località è attestata una frequentazione che va dall’età ellenistica a quella tardoantica (vedi: C. De Mitri, Inanissima pars Italiae. Dinamiche insediative nella penisola salentina in età romana, Oxford, 2010, p. 103).
16 D. Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di AlessanoI.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno accademico 2005-2006, pp. 93-94.
17 Emissione appartenente alla serie FEL TEMP REPARATIO, diritto: testa diademata di Costanzo; rovescio: soldato munito di lancia che sottomette cavaliere barbaro; probabile coniazione della zecca di Costantinopoli. Il reperto è stato consegnato alle autorità competenti.
18 Ci occuperemo nello specifico della sua zona più orientale considerando gli attuali territori comunali di Alessano, Corsano, Gagliano e Tiggiano.
19 Una più ampia analisi di queste dinamiche si trova in: P. Arthur, Verso un modellamento del paesaggio rurale dopo il mille nella Puglia meridionale, in Archeologia Medievale vol. XXXVII, 2010, pp. 215-228; G. Muci, Analisi quantitative per l’interpretazione delle dinamiche socioeconomiche in atto tra Medioevo ed Età Moderna nel basso Salento, in Atti del VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, vol.1, Lecce, 2015, pp. 65-70; P. Arthur, B. Bruno, G. Fiorentino, M. Leo Imperiale, G. Muci, M. R. Pasimeni, I. Petrosillo, M. Primavera, Crisi o resilienza nel Salento del Quattordicesimo secolo?, in Archeologia Medievale, vol. XLIII, Firenze, 2016, pp. 48-50.
20 ASNa, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1.
21 R. Segre, Documenti di fonte veneziana sugli ebrei in Puglia, in Sefer yuhasin 6 (2018) 93-121, Università Orientale di Napoli, p. 98.
22 Ricostruendo i percorsi antichi, possiamo stimare il tempo di percorrenza in circa 30-40 minuti a piedi (considerando lo stato delle strade dell’epoca). Queste sono le distanze rilevate tra Marsanello e gli abitati confinanti: Marsanello – Macurano, distanza 1.63km, tempo di percorrenza a piedi 20 min.; Marsanello – S. Dana, 1.580km in 18 min.; Marsanello – Valiano, 1.560 km in 20 min.
Vito Ruggiero, appassionato di cartografia, ha recentemente scovato due mappe di Brindisi, entrambe realizzate dalle famose stamperie di Venezia e collegate tra loro da un tenue, ma significativo, legame derivante dal particolare toponimo usato per caratterizzare la città salentina, vale a dire Brandici. E la cosa non è per niente banale, considerato che le novità documentali scarseggiano e che il materiale su cui si lavora per ricavare un’attendibile storia cittadina ristagna da tempo.
Va da sé che le due carte vadano pertanto esaminate con attenzione per ricavarne il maggior numero di informazioni possibili, da aggiungere a quelle già fornite dal suo scopritore. Tuttavia, rinviando ad altro momento un esame più minuzioso di queste stupende mappe, mi soffermerò in questa occasione solo su alcuni aspetti specifici in modo da collocarle nel contesto il più appropriato possibile. E, tanto per ambientarsi, inizio con una loro breve presentazione.
La prima (figura n. 1), che chiameremo convenzionalmente Brandici I, racconta dell’approdo del famoso ammiraglio genovese Andrea Doria nel porto esterno di Brindisi, di ritorno dalla battaglia di Prevesa che aveva visto impegnata nel 1538 la flotta della lega santa promossa da papa Paolo III contro quella ottomana condotta dal famoso corsaro Barbarossa. La carta era già nota agli specialisti del settore, essendo stata esaminata una cinquantina di anni fa da Tibor Szathmáry, uno studioso magiaro che l’aveva ritrovata insieme ad altre 13 mappe, e, in aggiunta, successivamente censita nel 2018 da S. Bifolco e F. Ronca, nella loro «Cartografia e Topografia Italiana del XVI secolo», vera e propria bibbia per chi s’interessa di cartografia.
Ciò nonostante, la carta era rimasta del tutto sconosciuta agli studiosi di storia cittadina e Ruggiero l’ha evidenziata per primo, narrandola nel libro che ha per l’occasione scritto, «Brandici. La più antica e rara mappa di Brindisi, che Brindisi non conosce».
Proprio la qualificazione utilizzata di «più antica e rara» ha suscitato le prime iniziali attenzioni per lo più di carattere polemico, considerato che si è posto l’accento sulla circostanza che c’è una carta del Piri Reis che la precede nel tempo. Il che è senza dubbio vero, sebbene l’affermazione di Ruggiero si riferisse al taglio di Brandici I che si differenzia in maniera evidente da quelle comunemente confezionate nello stesso periodo di tempo. Non entrerò nel merito di questa specifica questione, per altro di marginale importanza, preferendo piuttosto attardarmi sulla effettiva datazione della carta.
La seconda mappa (figura n. 2), che chiameremo sempre a titolo convenzionale Brandici II, è invece un disegno seicentesco del porto brindisino conservato negli archivi della British Library, che non credo sia mai apparso da nessun’altra parte e, pertanto, può dirsi a pieno titolo del tutto sconosciuto. Rispetto alla precedente carta offre minori spunti di discussione, per cui su di essa mi soffermerò lo stretto necessario.
Ben più interessante è infatti Brandici I, a mio modo di vedere unica come impostazione generale. Il che la rende originale sia da un punto di vista grafico, sia da un punto di vista storico in quanto, rispetto ad altra analoga documentazione, dà informazioni puntuali e inusuali su come si distribuiva la città di Brindisi sul suo territorio, distinguendosi così dalle mappe del tempo che in genere avevano come obiettivo quello di dare risposte pratiche sulla configurazione del porto e su questioni collegate alla navigazione.
Proprio la mappa di Piri Reis (figura n. 3), giustamente evocata da molti come la più antica rappresentazione di Brindisi, ha evidenti scopi pratici, tipici dei portolani del tempo, prestando la sua attenzione, non tanto alla città, quanto al suo porto di cui rappresenta la disposizione delle coste, delle insenature e, di tutti gli altri aspetti che avevano un ruolo cruciale per chi navigava. Non a caso Piri Reis dà della città di Brindisi un’immagine stereotipata, relegandola al ruolo marginale di spalla del porto che costituisce così la parte essenziale del lavoro grafico.
Brandici I è invece una effettiva veduta della città e, in luogo di scopi concreti per la navigazione, intende soddisfare interessi narrativi sulle potenzialità offerte dalle strutture cittadine, soprattutto quelle che ne componevano il sistema difensivo: mura, arsenale, castelli e torri che posiziona non in maniera generica.
In definitiva da questo punto di vista è davvero, come afferma Ruggiero, la più antica mappa di Brindisi, visto che si sofferma sulla configurazione generale della città e, per la prima volta, assegna un ruolo da comprimario al porto rispetto alla cornice cittadina.
Ciò detto c’è pero da chiedersi, quanto sia effettivamente vecchia Brandici I. Infatti sulla sua datazione mi sento di dissentire con chi sinora l’ha studiata, vale a dire Szathmáry, Bifolco e Ronca che danno per scontato che la carta sia stata stampata nel 1538. A mio avviso, se c’è qualcosa che si possa affermare con estrema certezza è proprio al contrario che la carta non può essere stata pubblicata nell’anno indicato dagli studiosi. E questo per il semplice motivo che non c’erano i tempi tecnici per produrla nel 1538.
Certo la data del 1538 è ben messa in evidenza sulla mappa ma, per me, non riguarda l’anno di stampa della stessa quanto quello in cui è avvenuto il fatto narrato. La venuta di Andrea Doria a Brindisi fa infatti parte di quegli eventi di cui è rimasta traccia e se ne conosce la datazione.
Come ricordato da tutti gli studiosi menzionati e dallo stesso Ruggiero, Andrea Doria aveva da poco partecipato alla battaglia di Prevesa, un avvenimento di grande rilievo capitato sempre in quel fatidico 1538 che aveva visto lo scontro tra le forze congiunte della cristianità opposte a quelle mussulmane, il cui esito creò molte discussioni sia tra chi aveva aderito alla lega santa sia, successivamente, tra gli storici. Nel corso della battaglia non c’era stata difatti grande coesione tra le potenze della lega santa tant’è che, sebbene in condizione di evidente superiorità, la coalizione non aveva saputo cogliere una vittoria che pareva scontata. E questo, a detta soprattutto dei Veneziani, proprio a causa del comportamento tenuto dall’ammiraglio genovese il quale si era sul più bello defilato dalla battaglia. C’è chi dice perché s’era convinto che non c’erano le condizioni per prevalere su Barbarossa — e quindi parla di condotta saggia — e chi, invece, afferma che, molto più egoisticamente, non se l’era sentita di rischiare le sue navi nello scontro. Qualunque siano state le motivazioni alla base della decisione presa, Andrea Doria, conclusesi le operazioni militari, intraprese il viaggio di ritorno e, approssimandosi l’inverno, si avviò verso lo scalo brindisino, dove vi approdò il 20 novembre 1538.
Ora, accettare che Brandici I sia stata pubblicata nello stesso 1538, vorrebbe dire confidare che l’editore sia riuscito in circa una quarantina di giorni, quelli intercorrenti festività comprese tra il 20 novembre ed il 31 dicembre, a fare le seguenti attività: aver appreso l’avvenimento, far disegnare Brandici I, far predisporre l’incisione, ottenere l’autorizzazione, procedere alla stampa e alla sua pubblicazione. Ebbene, se si considera che nel Cinquecento solo per venire a conoscenza di un evento di rilievo ci volevano giorni, se non addirittura settimane, figuriamoci quanti ne servirono per un fatto poco più che marginale, e non certamente in grado di suscitare la curiosità dei media del tempo, come un banale approdo. Si aggiunga poi che per preparare un’incisione su legno (ricordo che si tratta di una silografia) ci volevano settimane e che anche la stampa non si effettuava in giornata come adesso. In definitiva i tempi allora occorrenti erano di gran lunga superiori a quelli attuali e, senza scomodare casi in cui per fare magari qualcosa di poco più sofisticato ci si mise perfino anni, è del tutto inverosimile che quaranta giorni siano stati sufficienti per far vedere la luce a Brandici I.
Si può pertanto dare per certo che il 1538 riportato sulla carta non rappresenti l’anno di stampa di Brandici I ma quello in cui, come già riferito, si svolse l’evento, e quindi dati l’arrivo e la sosta di Andrea Doria a Brindisi. E che così sia è in parte confermato dalla mappa realizzata dallo stesso autore di Brandici I riguardante la rappresentazione della già citata battaglia di Prevesa. Pure lì è riportata la data del 1538 che coincide anche in questo caso con l’anno in cui ci fu lo scontro, avvenuto per la precisione nel mese di settembre. Come dire che in entrambe le occasioni l’autore decise di comportarsi alla stessa maniera dando risalto alla datazione degli eventi, con ogni probabilità perché fungesse da riferimento per i lettori.
Tale ipotesi appare congrua anche considerando la possibile epoca in cui lo stampatore svolse la sua attività professionale. Di lui, oltre il nome, Francesco Tommaso di Salò, non si sa molto di più e, sebbene anche gli anni in cui abbia operato siano motivo di discussione, i più ritengono che debbano essere comunque compresi tra il 1550 ed il 1574 che, di fatto, non concordano con le date riportate nelle mappe trovate da Szathmáry ed a lui attribuibili, tutte relative ad anni antecedenti al periodo appena citato. Il che è spiegabile solo se si ipotizza che Francesco Tommaso fosse solito menzionare l’anno di accadimento dei fatti disegnati, e non quello di stampa. Inoltre, poiché l’unico dato certo è che egli ancora nel 1574 faceva lo stampatore — cosa che non preclude che abbia esercitato la professione anche negli anni successivi — si può ragionevolmente presumere che non abbia potuto iniziare la sua attività più di trent’anni prima e che quindi nel 1538 Francesco Tommaso non avesse neppure intrapreso la professione che gli ha poi dato notorietà. Queste considerazioni spingono in prima approssimazione ad ipotizzare che l’anno di stampa di Brandici I debba essere compreso nel presumibile periodo di tempo in cui Francesco Tommaso operò, cioè a dire all’incirca tra il 1545 ed il 1574.
A tal riguardo occorre menzionare che, proprio per desumere il periodo di realizzazione, Ruggiero ha fatto eseguire alla Fondazione Fedrigoni Fabriano uno studio sulla filigrana e sulla carta su cui fu stampata Brandici I e che tale esame lascerebbe supporre che la mappa fu confezionata entro la prima metà del Cinquecento. Questo risultato, per quanto basato su dati di fatto, resta pur sempre una stima alquanto aleatoria per tutta una serie di considerazioni tecniche e statistiche che sarebbe qui troppo tedioso precisare. Basterà ricordare che i database usati per simili verifiche raccolgono solo i casi conosciuti e di conseguenza non lavorano su un campione statisticamente rappresentativo, l’unico in grado di offrire stime affidabili. Senza contare poi che con questi metodi si può stabilire con buona approssimazione che un certo tipo di carta non sia stato usato prima di un determinato periodo, ma non si ha nessuna garanzia che non sia stato utilizzato in tempi successivi. Soprattutto in momenti di penuria, come avveniva nel Cinquecento, è infatti abituale non gettare via nulla e adoperare usualmente materiale anche vecchio di anni.
Gli elementi contenuti nella mappa non forniscono invece alcuna indicazione utile a datarla, in quanto sono stati costruiti appositamente per rappresentare un avvenimento svoltosi nella prima metà del Cinquecento, e l’unica considerazione possibile è che non contengono dati palesemente anacronistici.
Anche lo stesso toponimo utilizzato, Brandici, non ci dà nessuna informazione aggiuntiva. A Venezia, dove Francesco Tommaso stampò la carta, la documentazione ufficiale del tempo utilizzava in genere il termine Brandizo per indicare Brindisi, ma la prassi non escludeva l’uso di altri toponimi. C’è da precisare che per identificare questa città venivano usati vari vocaboli, ivi compresi quello di Brindisi, che poi si affermò, e quello di Brandici che, pur usato raramente negli ambienti colti, sembra al contrario aver trovato buona diffusione tra la gente di mare.
Informazioni utili possono invece trarsi chiedendosi chi commissionò quest’opera e, soprattutto, perché se ne progettò la stampa.
C’è da presumere che, sebbene stampata a Venezia, la carta non sia stata realizzata per il mercato veneziano. Alcune considerazioni lo fanno pensare, prima fra tutte il fatto che Andrea Doria, proprio per l’atteggiamento tenuto nella battaglia di Prevesa, era malvisto dai Veneziani che non avevano nessun motivo valido per immortalarlo mentre approdava onorevolmente nel porto di Brindisi. In più un’opera del genere era di fatto invendibile a Venezia, in quanto non raccontava una storia di cui la città potesse gloriarsi più di tanto. Anzi Prevesa era una pagina da dimenticare, visto che nello scontro i Veneziani s’erano trovati in grossa difficoltà ed erano stati di fatto beffati da Barbarossa. Pertanto sarei indotto a credere che fu una richiesta fatta da fuori, presumibilmente proveniente da ambienti spagnoli, considerato che Andrea Doria guidava la loro flotta.
Per quanto poi riguarda i motivi che resero utile pubblicizzare un evento simile, si può solo ritenere che avessero una qualche attinenza con il timore che a quel tempo generava la potenza ottomana, la quale non nascondeva mire sull’Adriatico e su vaste zone dell’Italia. C’è infatti da ricordare che già qualche decennio prima, ritenendosi a seguito della conquista di Costantinopoli i legittimi eredi dell’impero bizantino, i Turchi si erano impossessati per un anno di Otranto pretendendo nel contempo che fossero loro consegnate le città del Salento che avevano fatto appunto parte dell’impero romano d’Oriente.
Per contrastare simili progetti s’era realizzata la santa alleanza che, però, non aveva fatto cogliere risultati apprezzabili. Malgrado ciò, in particolare la Spagna ed il papato, spingevano in maniera insistente perché la coalizione fosse riattivata per scongiurare una buona volta e per sempre i disegni espansionistici dei Turchi. Certo Prevesa era stata un’occasione che non s’era saputa cogliere ma c’era in ogni caso la necessità di riprovarci per non vivere nella perenne incertezza d’una invasione. E, non a caso, di lì a qualche anno si concretizzò la terza lega sacra che avrebbe portato alla vittoria di Lepanto nel 1571 che sancì il ridimensionamento dell’influenza ottomana nel Mediterraneo.
Tuttavia Andrea Doria era il personaggio meno indicato per riannodare i fili di una nuova coalizione visto che, per l’atteggiamento tenuto a Prevesa, era ritenuto dai Veneziani il colpevole dell’insuccesso della precedente alleanza. Per cui né gli Spagnoli, né tantomeno il papato l’avrebbero utilizzato per promuovere una nuova intesa tra le potenze occidentali. Pertanto pare del tutto improbabile che Brandici I possa essere servito espressamente ad un simile scopo e questo induce a pensare che non era l’approdo di Andrea Doria in sé che si desiderasse mettere in evidenza, quanto la città di Brindisi ed il suo porto. Non per niente s’è già considerato che , rispetto a tutte le altre mappe del periodo, Brandici I è peculiare in quanto si interessa piuttosto della città, tanto è vero che ne delinea i suoi elementi principali indugiando su tutte quelle caratteristiche che evidenziavano la sua invulnerabilità. Serve però ricordare che Brindisi viveva allora una situazione di grossa difficoltà a causa dell’inagibilità del suo porto interno, per l’interrimento del canale che lo metteva in collegamento con quello esterno, e dell’aria malsana generata dalle paludi che costellavano le sue coste. Ogni operazione portuale era così svolta nella rada che, però, trovandosi lontana dall’abitato cittadino rendeva complicate ed onerose anche le più semplici operazioni di carico e scarico. Tuttavia, a dispetto di questi indubbi limiti, nessuno dimenticava la posizione strategica posseduta dal porto brindisino e tutti lo consideravano il più adatto a difendere il Mediterraneo dal pericolo ottomano. Tanto è vero che, liberata nel 1481 Otranto dall’occupazione turca, gli Aragonesi avevano dato inizio a fortificare con una torre e successivamente con un castello l’isola di Sant’Andrea che gestiva gli accessi al porto brindisino. Tale impegno in opere difensive era proseguito in periodo vicereale ed era tuttora in atto quando Andrea Doria vi era giunto nel 1538. Brindisi era così un baluardo insormontabile e, in tale ottica, anche l’impraticabilità del porto interno faceva gioco rendendo la città ancor più difficile da conquistare.
C’era però chi riteneva che, di fronte al pericolo turco, non dovesse solo seguirsi una politica di passiva difesa ma che si dovessero al contrario attuare tattiche aggressive contrattaccando in maniera adeguata. In tal senso andavano le alleanze di volta in volta promosse ma anche progetti che vedevano Brindisi quale punto cruciale per riuscire in questo intento.
Proprio in quello stesso periodo Antonio Doria, cugino di Andrea ed anche lui al soldo degli Spagnoli, s’era reso infatti artefice di un progetto — presentato nel 1539 — che si poneva come obiettivo di formare una lega tra la Repubblica di Venezia, il pontefice (Paolo III) e l’imperatore Carlo V con lo scopo di armare una consistente flotta formata da 250 galere, ciascuna composta di 80 soldati e 60 marinai, oltre a corazzini (soldati corazzati), in grado a suo dire di annientare qualsiasi avversario. Antonio Doria sottolineava come la potenza ottomana si basava nella disponibilità di grande quantità di soldati, di denaro e di galere che consentiva loro di portare continui attacchi che coglievano spesso di sorpresa i navigli spagnoli che, sparpagliati nelle varie città, si trovavano sempre in inferiorità numerica ed erano ogni volta «costretti a fermarsi, et inchiudersi in qualche porto…lasciando comodità alle nemiche di andar dove vorranno depredando, rovinando et abrusciando tutte le terre Marittime, et massimamente delli Regni di Sua Maestà».
Il che comportava spese ingenti per fortificare tutte le zone della costa, senza però risolvere il problema. Per questo consigliava che il grosso della flotta spagnola, «ottanta, ò, novanta Galere», soggiornasse in un porto da cui si potesse intervenire con prontezza quando il pericolo si manifestava. Ed il porto più idoneo a svolgere un simile compito era, a suo avviso, senza discussione quello di Brindisi, purché qualcuno avesse voluto ricordare «à sua Maestà che facesse accomodare il Porto… e medesimamente attendere… alla purgatione di alcune paludi che causa malarie, et alla provisione di tutte le cose necessarie, alle Galere, acciò che non bisognassero loro andarle cercando in altro luogo».
Antonio Doria dava pure un rendiconto dettagliato delle spese da compiere per la ristrutturazione dell’approdo brindisino, ritenendo che fosse sufficiente pulire per benino il canale di collegamento per risolvere i problemi dell’interrimento dello stesso. Cosa che sappiamo non corrispondeva alla realtà.
Il progetto restò inizialmente lettera morta, tuttavia qualche anno dopo, sempre nell’ambito del discorso più generale di quale fosse la strategia migliore per contrastare il pericolo turco, questa diversa funzione di Brindisi, da baluardo di difesa tipica di una città di frontiera a strumento d’offesa e d’espansione, incominciò sia pur con difficoltà a prendere piede ed a conquistare adesioni.
Sino a quando nel 1560 Alfonso Guerriero, presidente di ruota della camera della Sommaria, propose formalmente lo stabilimento di una base navale in Brindisi. E forse fu proprio per questa occasione che fu fatta confezionare Brandici I con l’evidente intento di mostrare le potenzialità del porto brindisino, ma anche quelle della città che con il suo apparato difensivo poteva ospitare e garantire un adeguato riparo ad un numero consistente di navigli.
Il progetto non fu accolto per tutta una serie di motivi che non è il caso qui d’indagare, ma che mi riprometto di fare in un apposito articolo per le tragiche conseguenze che una simile decisione comportò per il futuro di Brindisi. Qui serve solo rilevare che, con ogni probabilità, Brandici I faceva parte della documentazione allegata al progetto, e questo, unito a tutte le altre considerazioni sviluppate, farebbe credere che l’anno di stampa sia molto prossimo al 1560. E, se così stanno le cose, si può pertanto concludere che la carta fu confezionata verso la fine della prima decade della seconda metà del Cinquecento, in definitiva tra il 1556 ed il 1560.
Questo piccolo svecchiamento — al massimo di una ventina di anni — non intacca in nessun modo la validità di Brandici I, né ne ridimensiona la sua significatività a livello informativo: resta in ogni caso l’unica carta conosciuta che fornisce una significativa rappresentazione cinquecentesca di Brindisi, oltre a contenere elementi preziosi in grado di chiarire aspetti controversi. Per tutti, sarà sufficiente qui rilevare, a mo’ d’esempio, la collocazione dell’arsenale che Brandici I pone in maniera inequivocabile a levante, e non a ponente come unanimemente ritenuto. Andando controcorrente, avevo già ipotizzato che in periodo medievale l’arsenale dovesse trovarsi a levante. Considerazioni banali mi spingevano a crederlo: l’arsenale è di ideazione successiva al castello e l’andamento del seno di ponente del porto interno brindisino di fatto rende impossibile che castello ed arsenale potessero coesistere. Se così fosse stato, l’arsenale sarebbe stato collocato lì dove la costa ha una pronunciata rientranza e questo l’avrebbe posto proprio sulla linea di tiro di chi occupava il castello. Circostanza questa da evitare, perché la presenza dell’arsenale in quella posizione avrebbe di fatto precluso la visuale del campo di battaglia a chi si trovava nel castello e, in aggiunta, sarebbe stato utilizzato come riparo da eventuali assedianti. In pratica avrebbe avvantaggiato doppiamente possibili nemici. Non a caso, si rendeva sgombra, spianandola, la zona vicina a qualsiasi opera di difesa.
Per questo stesso motivo, differentemente da quanto mostrato da Brandici I, non potevano esserci mura di fronte al castello dovendo esserci necessariamente uno spazio vuoto, appunto il cosiddetto guasto.
Per quanto riguarda invece Brandici II — un disegno seicentesco a mano di pregevole fattura — va detto che riproduce nel dettaglio ed in maniera precisa la struttura del porto, dedicando alla città solo qualche significativo schizzo.
Tramite il simbolo del naviglio ci fa sapere che a quel tempo era possibile ormeggiare solo nel porto esterno, in particolare dalle parti della costa Guacina (allora denominata Cala delle Navi). I segni di insabbiamento concentrati nei presi del canale di accesso chiariscono che questo non era transitabile, rendendo impossibile alle navi di entrare nel porto interno. Non a caso nei seni interni non è disegnato alcun naviglio, in modo da precisare, sempre che ve ne fosse stato bisogno, che lì non c’erano approdi.
Relativamente alla città, oltre ad evidenziare il castello di Terra e le mura, la carta tratteggia alcune costruzioni. Quella in primo piano non ho dubbi che sia la chiesa di San Giovanni dei Greci, per la vicinanza al molo (Barcaturo) che si trova appunto disegnato poco lontano alla sua sinistra. La seconda è di certo la Cattedrale. Poi sono riconoscibili le Colonne. Qualche dubbio pone la costruzione più lontana. Io ritengo sia il palazzo del duca di Atene — personaggio per niente simpatico ai Brindisini — che successivamente ospitò il tribunale, i regi governatori ed i giudici della città, assumendo per questo la denominazione di Case della Corte. Però potrebbe anche essere la chiesa allora dedicata a san Giacomo e, successivamente, dal 1669 a san Francesco da Paola.
Da questo mio breve esame si evidenzia come entrambe le carte scovate da Vito Ruggiero abbiano tanto da raccontare e meritino grande considerazione e studio.
Come per altro Brindisi, città piena di affascinanti storie. Molte ancora tutte da scoprire.
“Il castello di Otranto”, ovvero la nascita del romanzo gotico
Fra i tanti meriti che il Salento può vantare il meno noto, forse, è il fatto che esso è stato l’ispiratore, per quanto inconsapevole, della nascita del cosiddetto romanzo gotico, un tipi di narrativa in cui l’orrore trova la sua ambientazione nel Medioevo. è, se vogliamo, fatte le dovute distinzioni, l’antesignano del romanzo storico, il cui modello italiano è quello manzoniano, con propaggini che, fatte ulteriori distinzioni, giungono fino ai nostri giorni. Non a caso Horace Walpole (1717-1797), autore de Il castello di Otranto, Alessandro Manzoni (1785-1873), autore de I promessi sposi e e Umberto Eco (1932-2016), autore de Il romanzo dellarosa, ricorrono allo stesso espediente narrativo, fingono, cioè di aver ritrovato un manoscritto medioevale, la cui memoria, in qualche modo, non meritava di andare perduta.
Il castello di Otranto è unanimemente considerato come il primo romanzo gotico.
Pubblicato la prima volta nel 17641, nella seconda edizione, che seguì dopo un anno, e nelle successive comparve la vera paternita dell’opera, che, vivo l’autore, ebbe un numero notevolissimo di ristampe, successo editoriale che dura al momento in cui scrivo. La prima traduzione in italiano risale al 17952.
L’antiporta mostra questa immagine.
Con difficoltà, a causa della qualità di stampa più che per la scadente digitalizzazione, leggo le due firme in basso a destra e a sinistra.
Purtroppo ogni ricerca per saperne di più su questi due artisti, pur con tutte le sostituzioni possibili delle lettere di problematica decifrazione, non ha dato nessuna risposta. Solo una piccola conferma fornisce il disegno (fa parte di una collezione custodita nell’Università di Yale) che precedette la realizzazione della tavola.
In basso a destra (di seguito il dettaglio ingrandito) si legge Joino L e, a parte la conferma della paternità della tavola per quanto riguarda il disegnatore, possiamo dire con certezza, magra consolazione, qual era la lettera iniziale del suo nome.
Rimane la peculiarità della tavola italiana da cui il post è partito, come dimostra quella che è a corredo delle altre edizioni, compresa quella precedente alla nostra, in inglese, ma stampata in Italia3, del 1791, con prospettiva più ristretta che esclude totalmente la vista della Cattedrale.
E così pure, con l’aggiunta in calce della didascalia, nell’antiporta del secondo volume dei cinque che compongono l’edizione delle opere dell’autore inglese uscita appena un anno dopo la sua morte4.
(Il castello di Otranto. Da un disegno originale, come esso ora è nel regno di Napoli). A destra in basso risulta appena leggibile la seconda parola sculp(sit)=incise), facilmente deducibile dal fatto che le tavole di regola recano a sinistra il nome del disegnatore (qui assente), a destra quello dell’incisore.
___________
1 Col titolo chilometrico The Castle of Otranto, A Story. Translated by William Marshal, Gent. From the Original Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St. Nicholas at Otranto (Il Castello di Otranto. Una storia. Tradotto da William Marshal, gent. dall’originale italiano di Onuphrio Muralto, vescovo della Chiesa di San Nicola di Otranto).
2 Il castello di Otranto. Storia gotica, Molini, Londra, 1795.
3 The castel of Otranto, Printed by Bodoni, for J. Edwards, Bookseller of London, Parma, 1791
4 The woks of Horatio Walpole, earl Orford, G. G. anf J. Robinson, Paternoster-Row, and J. Edwards, Pall- Mall, v.II, London, 1798
Il Tarantismo, fra gesuiti, impostori e commedianti
In aure melos: d’una sympatica melodia per continuamente curarsi.
Il Tarantismo, fra gesuiti, impostori e commedianti
di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti
Un testo del 1661 mai fino ad ora studiato né citato sul tarantismo, vale a dire su quel complesso fenomeno storico, medico, antropologico, etnico e musicologico su cui nei secoli è stata prodotta una corposa bibliografia scientifica. Il testo, che fa un chiaro riferimento al tarantismo pugliese, è il Pregio XXV ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio, opera del gesuita milanese Ortensio Pallavicino tratto da I PREGI MARAVIGLIOSI DEL SANTISSIMO NOME[1]. Rosario Quaranta, nel suo saggio La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII – XVIII)[2], affronta il tema del tarantismo o tarantolismo nella predicazione sacra. In particolare l’autore propone alcuni testi tratti dalle opere di quattro famosi predicatori dei secoli XVII-XVIII. Di Caspar Knittel (Glatz/Klodzko 1644-Telc 1702), gesuita boemo, famoso predicatore, matematico e filosofo, propone l’opera Conciones Academicae in precipua totius anni festa[3], ovvero “Discorsi accademici per le principali feste di tutto l’anno”, stampato postumo nel 1718 a Praga. «Abbiamo ritrovato, con nostra grande meraviglia», scrive l’autore, «un discorso dedicato alla “Festa della Visitazione della Beata Vergine Maria” in cui egli si serve con disinvolta arguzia (ma non sappiamo con quanta efficacia da un punto di vista spirituale e pastorale) appunto della nostra Tarantola per costruire un discorso strabiliante rivolto “a sollievo e a utile diletto per tutti gli amanti della parola di Dio” e specialmente alla prima nobiltà e a tutti gli Accademici che si riunivano per ascoltarlo nell’Auditorium»[4]. Secondo Knittel, la Tarantola è «il Peccato Originale, anzi ogni peccato mortale, perché, come afferma San Giovanni Crisostomo “il peccato lascia nell’anima un veleno”»[5].
L’altro predicatore è il cappuccino fra Girolamo da Narni, al secolo Girolamo Mautini (Narni 1560 – Roma 1634), con la sua opera Prediche fatte nel palazzo apostolico (Roma 1632)[6]. «Con Girolamo da Narni la tarantola diventa protagonista di una predica tenuta nel palazzo apostolico vaticano, addirittura nella “corte Romana”, alla presenza del pontefice, in un mercoledì della terza domenica d’Avvento di un anno dei primi del Seicento. Argomento della predica è l’insuperabíl costanza del Battista, il quale, richiesto se fosse lui il Messia che gli Ebrei attendevano, seppe resistere con fermezza alle lusinghe dell’adulazione come un monte intorniato da venti da gli Euri da gli Austri. È proprio sulla suggestione che l’adulazione può provocare nell’animo umano, al punto da far perdere la reale consapevolezza delle proprie virtù, capacità e limiti che si inserisce la lunga digressione sulla tarantola»[7].
Quindi Mario de Bignoni (Venezia, 1601- 1660), noto anche come Mario da Venezia, predicatore cappuccino del Seicento, il quale scrive, fra le tante opere, I Serafici splendori[8]. Da quest’opera è tratto il brano dedicato alla tarantola, “precisamente dalla predica dal titolo: IL MARE CONGELATO. Gieroglifico de’ danni del Peccato, recitata nella terza Domenica di Quaresima”[9].
Ancora un altro autore è Luciano Montifontano (Lucien de Montafunertal, 1630-1716) frate cappuccino, che si occupa della tarantola nel libro di Sermoni domenicali e del Quaresimale[10]. Si tratta di un “discorso tenuto il mercoledì dopo la domenica di Passione sul tema: Tarantulae malum in viduis (la malattia della tarantola nelle vedove) sulla base di una citazione tratta dalla prima lettera di S. Paolo a Timoteo: Vidua quae in deliciis est vivens mortua est (la vedova che è nei piaceri è una morta vivente)”[11].
Veramente interessante notare come l’omiletica si fosse impossessata di un argomento che certo di sacro aveva ben poco, curvandolo a fini teologici.
E tuttavia Quaranta non cita il brano qui presentato[12].
Il milanese Ortensio Pallavicino (1608-1691) entrò nella Compagnia di Gesù nel 1624, insegnò retorica, filosofia e teologia nel collegio di Brera; compose panegirici latini e trattatelli dottrinali e devozionali[13]. In tutte le sue prediche raccolte nel libro spesso fa riferimento alla musica a fini retorici, in particolare nella predica Pregio XXV in cui, dopo essersi sinteticamente soffermato sugli elementi musicoterapici negli autori classici a partire da Pitagora, “Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè”, giunge poi a descrivere efficacemente il fenomeno del tarantismo – “stravagante e prodigioso il morso di quel ragno pugliese”-, attraverso un climax retorico che partendo dagli effetti malefici del morso della taranta e curativi della musica, procede con l’instaurare una similitudine tra la taranta e il peccato fino ad approdare ad una costruzione allegorica secondo cui vita è uguale a ragnatela dove s’annida perniciosa la taranta (ovvero il diavolo): “questa a vita una tela di ragni velenosi”. I mortali vengono aggettivati come “attarantati” che in quanto tali necessitano del suono salvifico della parola “Gesù”: “habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV in aure melos”. La musica è quindi la più efficace cura nel tarantismo. Rimanendo nell’ambito semantico-medico, Pallavicino più oltre scrive: “Et è l’istesso essere GIESU Salvatore e Salute che l’essere Medico e Medicina di tutti i nostri mali”[14].
Pallavicino spiega nella sua trattazione come il suono del nome Gesù sia per lui dolcissimo più di qualunque altro, paragonandolo ai cori angelici e lasciandosi trasportare nella sua esposizione dalla contemplazione estatica del mistero divino che gli fa trovare vibranti espressioni di giubilo. “È ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio”. Fa una lunga disgressione sugli effetti benefici della musica nei padri della chiesa [pp. 318- 321] e parlando dei filosofi, appunto dice:
Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè, che nella sua divina storia haveva descritto nella creatione del mondo la fabrica de’cieli fatta dall’onnipotente archetypo amore, concepì altissimo sentimento delle cose celesti. Ammirava il bell’ordine della successione della notte al giorno, la corrispondenza del maggiore, e minor luminare, la bellezza di quelli eterni pyropi, il pregio di quelle sfere d’incorrottibile zaffiro, gl’influssi, e movimenti di quel mondo fourano intorno a noi sempre pellegrinante, il regolato concerto di tanti maravigliosi oggetti, e gli pareva di sentire una sò quale harmonia, che di continuo gli feriva l’orecchio, e che quelle intelligenze motrici fossero innocenti cantatrici sirene. Ma in realtà, era un’intellettuale, e non sensibile harmonia sentita, e goduta dall’anima, a cui porgeva sommo diletto l’harmonioso concerto della providenza creatrice delle celesti maraviglie. Altra harmonia più che celeste fa sentire il nome sagratissimo di GIESV, mentre rappresenta non quello, quello, che dies diei eructat verbum, non quella, che nox nocti indicat scientiam, ma l’istesso Verbo increato fatto huomo, in quo sunt omnes thesauri sapientia,&scientia Dei , sussistente in due nature divina , & humana , quel Verbo ineffabile, che ha portato in un certo modo il cielo interra, e la terra in cielo: non il continuo pellegrinaggio delle sovrane sfere, mà l’immenso giro de’ meriti infiniti dell’unigenito Figlio di Dio [p. 322].
Una prosa infervorata, ridondante, barocca, come si può constatare, nello stile dei più ispirati predicatori del passato, i quali puntavano proprio sugli artifici retorici per colpire l’uditorio. Se pensiamo che il primo obiettivo dei predicatori era l’ammaestramento dei fedeli e che l’arma principale di cui essi disponevano era proprio l’ars oratoria, si comprenderà facilmente come i più bravi di essi fossero coloro che meglio padroneggiavano una simile arte, codificata in famosi trattati nella letteratura latina a partire da Cicerone e Quintiliano, fino a Sant’Agostino.
Pallavicino procede analizzando i riferimenti musicologici-musicoterapici in San Francesco e nella Grecia classica: Platone, Orfeo, Timotheo, Alessandro il Grande, Origene, ma sempre come contrappunto al “melodioso nome di Gesu” [pp. 323-328]. Scrive:
È stravagante, e prodigioso il morso di quel ragno pugliese, che con nome di tarantola comunemente s’ apella. Fà una ferita tanto occulta, e infonde un veleno tanto traditore, che il ferito, e avvelenato non se ne accorge. E veleno mortale sì, ma di longa vita: violento sì, perche micidiale, mà lento, viaggiando longo tempo prima d’arrivare al cuore: maligno, mà tanto codardo, e poltrone, che non vi uccide, anzi non dà segno, se non dopo molti / mesi de’ suoi interni assassinamenti fatti alla strada contra incauti, e sopiti passaggieri Mà più maravigliosa è la cura, curandosi i colpi mortali di questo picciolo malefico assassino di strada con l’harmonia del suono, ogni volta, che si truova una tale melodia, che sia sympatica col misero infermo, e si confaccia al suo genio; quasi che con un’ incantesimo innocente si disfaccia il nocevole. Siamo tutti miseri figli de gl’huomini nel pellegrinaggio per lo deserto infelice di questa vita attarantati mentre in particolare stiamo poco cauti, e in qualche modo sonnacchiosi. Ella è questa a vita una tela di ragni velenosi. Ova aspidum dice il santo, profeta ruperunt, telas aranearum texuerunt. Ogni anno della nostra vita è una tarantola che ci da un morfo homicida. co’l veleno a tempo. Ma quel, che è peggio, se non siamo svegliati, e cauti, resta anche l’anima attarantata da morsi scelerati, e maligni delle infernali suggestioni. Si che habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV inaure melos, ogni volta amiamo l’istesso GIESV; non essendo altro la sympathia, che il concorso di due vicendevoli amori, e se non manca il nostro, il suo non può mancare, perche egli è tutto infinito amore verso di noi. Eius nominis potentiam dice S. Giustino Martyre dæmones tremunt, e meglio la bocca d’oro di Giovanni Chrysostomo. Huiiusmodi incantatio non folum draconem a spelunca abigit, e in ignem coniicit, fed & vulneribus quoque medetur. Ufi pure l’astuto nemico con buggiardo, e traditore veleno tutta la malignità dell’arte sua. Si mens parata reperiatur disse quel Santo vescovo, Ut nomen Domini IESV serventi memoria retineat, et hoc sancto, gloriosoque nomine, tanquam armis adversus dolos usa fuerit, recedet diabolus fallax. S’hanno da vincere i demoni dell’inferno, come gl’effeminati Sibariti, con la melodia del canto, e del suono del dolcissimo, e potentissimo nome di GIESV. E che scioperaggine è la nostra havere nel solo nome di GIESV piamente proferito, e santamente invocato una bellissima musica di paradiso insegnataci dal divino amore, un’ harmonia più che celeste, che rallegra l’anima in qualunque stato d’afflittione, ch’ella sia, e la solleva alla melodia sovrana della trionfante città di Dio che accorda in’ pacifica consonanza gl’affetti nostri fra se più discordi, e di noi giurati nemici: che ci libera con pio, & innocente incanto dall’occulto veleno dei serpenti infernali che tutti i nostri nemici abbatte, e vince; e trascurare ingratamente favore sì segnalato, e gratia si incomparabile lo mi maraviglio più tosto, che ciascuno non desideri d’essere tutto anima, e lingua per amare, e lodare continuamente questo santissimo nome del Signore Iddio; almanco come con tutte le potenze dell’anima sua, tutti gl’affetti, tutti i pensieri, e tutte le membra del corpo, come con tante bocche eloquenti sempre non lo benedica co’l santo profeta Davide dicendo. Benedic anima mea Domino, & omnia, que intra me sunt nomini sancto eius. Facciamo dunque conforme il santo avviso al defimo, psallite nomini eius, quoniam fuave. Egli è il nome santissimo di ĠIESV soave, cioè una soavissima melodia d’ogni più ben concertata harmonia, diamoli perpetue lodi, e benedittioni, & assicuriamoci, che goderemo un’anticipato paradiso anche in questa terra; perche altro esercitio nõn hanno i beati cittadini delle celeste Sione, che lodare, e benedire il nome del suo Signore, & il nome di GIESV, che è il più dolce, & il più sagrosanto de ‘loro eterni cantici ; intimandosi a tutti, quando stanno per entrare in quella patria d’ogni bene, che questa farà la loro gloriosissima occupatione per tutti i secoli de’ secoli[15].
Fra oratoria biblica e citazioni latine Pallavicino mira a convincere il lettore di quanto sia melodioso il nome santissimo di Gesù, alla cui invocazione spira una musica di paradiso che riporta la serenità all’anima travagliata. Il suono di questo nome libera l’uomo dalle pene e dalle afflizioni quotidiane, perfino dal peccato, “l’occulto veleno dei serpenti infernali”, tanto che il religioso si chiede come mai ciascuno non desideri essere tutto anima e lingua per potere questo nome continuamente santificare. C’è la lezione di Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa, Crisostomo, tutti per altro citati, certamente quella di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino, ma si avverte soprattutto l’influenza della grande predicazione cristiana dovuta agli ordini religiosi medievali, su tutti i domenicani ed i francescani, grazie alla cui opera l’omiletica raggiunge la più alta perfezione, diviene prosa d’arte, in massima parte per l’interpretazione allegorica dei testi sacri: si pensi solo a Sant’Alberto Magno o a San Bonaventura da Bagnoregio, campioni di stile in questo campo. I sermoni che vibrano sulle bocche ispirate dei predicatori del Cinquecento e del Seicento sanno toccare le corde giuste di un uditorio predisposto, con un misto di esaltazione e ammonimento, sono come delle macchine di alta precisione, colpiscono nel segno, centrano l’obbiettivo della catechesi. Forse un punto di riferimento per il Pallavicino fu Egidio da Viterbo (1469–1532), cardinale agostiniano, il più grande predicatore dei suoi tempi, il quale grazie ad una straordinaria cultura multidisciplinare riusciva a confezionare dei sermoni che erano capolavori di oratoria sacra in cui disseminava citazioni dalle più svariate fonti, sacre e pagane, sortendo un effetto di corrispondenza ed entusiasmo nei suoi ascoltatori.
Non mancano altri passi in cui il gesuita, rifacendosi alla letteratura patristica, riprende il paragone Gesù-medico[16].
Un altro esempio di uso omiletico del tarantismo ci è fornito dal gesuita francese Etienne Binet (1569-1639) che nel 1615 pubblica in Francia I fiori dei salmi, tradotto in italiano nel 1661. In quest’opera, che è un commento dei salmi, il religioso invita il lettore a scegliere il versetto che si addice al proprio peccato ed è qui che si instaura la similitudine con il tarantismo:
quanti versetti, tante herbe medicinali per guarire le malatie dell’Anime nostre, che sono le passioni: Sciegliete quelle, che fanno à proposito per voi, e per il vostro humore peccante. Quelli, che sono morsicati dalla Tarantola, non guariscono, che per mano dell’harmonia pare un miracoloso ragguaglio il raccontarlo; e pure egli è verissimo, che talhora un bravo suonatore di liuto doppo, che hà fatto parlarė li suoi deti,e toccate mille ricercate, e canzoncine, se fi avviene in una per buona. forte che ferisce lo spirito della malato, lo guarisce, e ciascuno amalato vuole un suono particolare per il suo male”. Crea quindi il paragone peccato-demonio-tarantola:“noi tutti siamo stati morsicati mortalmente dalla Tarantola d’Inferno colà nel Paradiso, e che il peccato originale hà sconcertata tutta la bella, e dolce harmonia dei nostri corpi & anime?.
Il profeta Davide viene presentato come un dono di dio che con i salmi cura i peccatori come il musico cura gli attarantati[17]. Tra i mali indicati dal gesuita da sanare con i salmi appunto “vi sono divotioni bellisime per i Cartusiani” [Cartesiani][18].
Un caso di uso poetico barocco dell’exemplum del tarantismo ci è fornito dal gesuita e panegirista napoletano Giacomo Lubrano (1619-1693). Sotto lo pseudonimo di Paolo Brinacio, Lubrano, nelle sue Scintille poetiche, pubblica il sonetto La Musica Rimedia in parte a lor tossico[19]. Dello stesso Lubrano è un sonetto, Stravaganza velenosa della tarantola, che sempre in forma poetica ma senza finalità retoriche descrive gli effetti del morso della taranta pugliese: “De l’Appulo terren rettile maga, / picciola Erinni in velenosi umori,/ onde apprendesti ad eternar la piaga ,/ viva al ferire e postuma ai dolori ?// Mordi insiem e tradisci ; e pur non paga / di tesser bave e vomitar malori/ fai che di novi spasmi presaga/ […] Oh di strega natura empi dispetti !”[20]. Osserva Mina che il poeta “affianca il tossico dei ragni alle potenti fiamme estive, mostrando infine le piaghe della Ragione, la vana ambizione di ridurre fedelmente la realtà, che invece sfugge con inganni e i suoi enigmi”[21]. Va tenuto presente, come osserva Santoro, che la «cultura barocca considerava le malattie fisiche e mentali come l’espressione della presenza e “dissonanze” che facevano del corpo degli uomini una sorta di strumento male -accordato da sanare con una giusta intonazione coreutico-musicale»[22].
Un altro predicatore e apprezzato teorico, stavolta teatino, è il vescovo di Tortona Paolo Aresi. Si deve a lui, come evidenzia Doglio, l’ “archetipo” della “«predica a impresa» […] costruita su una «immagine significativa», simbolo o oggetto simbolico a valenza metaforica multipla”[23]. Aresi nel 1624 riprende il tema degli effetti del morso della taranta, “nelle parti della Puglia”, che si cura con la musica, che per l’infermo “ha diversa simpatia per diversi suoni”, quindi instaura l’analogia “tribolatione”- taranta: “Ne tutte con una sorte di suoni si risanano, altra canzone suonar bisogna al povero altra all’infermo”, e il predicatore si presenta al pari di un musico che sperimenta i vari suoni per infine concludere sull’unico suono salvifico:
ho fatto sentire varie corde hor il canto dell’amor divino , hor il basso della sua giustizia, hor il tenore della sua providenza, e hor l’altre dei suoni diversi attributi, Vi ho cercato diverse canzoni , della charità, della speranza, della fede, dell’utile, del dilettevole e dell’honesto, Non credo dunque vi sarà attarantato, che non habbia udito suono corrispondente al suo male”[24].
Il tema demonio-taranta non è certo originale, come segnala Luisa Cosi; lo ritroviamo in una tarantella a cinque voci con violini: Per la Nascita del Verbo di Cristoforo Caresana (Napoli 1670), quando era universalmente riconosciuta l’efficacia della iatromusica: “Il ragno apulo viene identificato con Lucifero, tarantola d’abisso tarantola ribelle, con suggestiva insistenza di certe relazioni simboliche (nido, ragno d’oscurità, pianti, tremori …) fra demonologia e rito attarantato. Dimostrazione efficace di certa capacità controriformistica di accomodarsi alla cultura del popolo, attuando un traslazione di significati”[25]. A p. 120, nota 22, è riportato il testo: “Tarantola d’abisso, empio serpente [ …] Tarantola ch’in cielo il nido avesti ma per troppo volar cadesti […] Tarantola ribelle, fulminata or che in terra la luce è nata”. Le cantate natalizie, come osserva Catello, “fanno esplicito riferimento al ritmo della tarantella e della tarantola, metafora dello spirito infernale che verrà cacciato sprofondando negli abissi”[26].
Anche nella letteratura spagnola si assiste ad una progressiva trasposizione retorica che unisce il tarantolato al demonio che nella drammaturgia del XVI secolo avrà grande fortuna, come documenta Casciano, tanto da fare della tarantata “un possibile archetipo”[27]. Spedicato individua nella presenza dell’episcopato spagnolo la via di trasmissione delle conoscenze del tarantismo pugliese in Spagna[28]. Tralasciando le molteplici trasposizioni drammaturgiche, che come è facile supporre sono il più naturale approdo delle manifestazioni del tarantismo, scevre di ogni implicazione clinico-patologica, il tarantismo stesso si può sinteticamente definire, come fa De Giorgi, una specie di “dramma sacro teatrico”[29].
Possiamo ora prendere in considerazione un certo uso retorico del fenomeno che ci è presentato da Scipione Ammirato, in due contesti differenti, quello poetico e quello della trattatistica. Il poeta, la cui ispirazione è sopita da altri impegni mondani, secondo un topos letterario, si rianima per aver ricevuto una lettera -il mittente è Angelo di Costanzo- con l’invito di portarsi a Napoli e intraprendere la redazione dell’opera Delle famiglie nobili napoletane, e come succede per un tarantato all’udire una certa melodia, anche in lui si ridesta l’ispirazione: “Vedeste un qua quì vui / Vecchio , o fanciul ,che mai l’avesse morso/Quel verme che taranta appeliam nui ; quando gran tempo è già passato e scorso,/se avvien poi che la cornamusa intenda, / Quasi Baccante agevolarsi al corso, /e porsi in sul ballar ? Simil comprenda / Chi’io mi divenni: e saltellarmi il core /sentì più di una volta entro sua tenda”[30]. Ma Ammirato ricorre all’analogia suono-taranta in un’altra sua opera, i Discorsi intorno a Cornelio Tacito (Libro III, Discorso II), laddove il buon governante è paragonato a un medico in grado di saper diagnosticare il male e curarlo con gli opportuni rimendi: “Conviene esser ricco di rimedi, perche cosi non nuoca coi troppo leggieri, come farebbe coi troppo aspri; nella qual quantità di rimedi ; mi occorre di raccontare per ispiegar bene il mio intendimento, come si medica il mai della tarantola in terra d’Otranto”, e continua “Cerchi dunque, & procuri la carità del buon Principe di trovare il suono , & il modo appropriato a i gravi mali onde giace inferma la sua Repubblica”[31].
Un’altra drammatizzazione, che trae origine da situazioni reali, è quella del tarantolato che si finge tale per accattonaggio e per ottenere elemosine, fenomeno molto diffuso anche in Italia, come scrive il domenicano Giacinto Di Nobili (1594-? ), sotto lo pseudonimo di Frionoro:
Fingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da cui son nominati), ed esser caduti in quella infirmità, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa, tremano con le ginocchia; spesso al suono cantano o ballano”, quindi chiosa amareggiato l’autore: “piacesse a Dio che io avessi guadagnato tanto in questo anno con li miei sudori, studj e fatiche, quanto questi furbi si portano alla patria [Puglia]”[32].
Infatti, in particolare nel teatro del XVIII secolo è frequente il personaggio che per opportunismo si finge tarantato/a mentre nel contempo diventa sempre più ricca la letteratura negazionista del tarantismo[33]. Pini e Frionoro ci offrono un esempio di approccio critico al fenomeno del tarantismo attraverso un’ottica satirica: anche in questo caso non mancano esempi d’autore di approcci agli effetti del morso della tarantola ad incominciare da Anton Francesco Doni che, attraverso il topos del viaggio nell’oltretomba e la visione del mondo ultraterreno, denuncia “gli inganni e i pericoli del mondo, in una prosa eccentrica e umoristica, volta alla rappresentazione allegorica della condizione umana”[34]. Per il nostro studio, è interessane un cameo sul tarantismo che ritroviamo nelle pagine dell’Inferno de’ mal Maritati e delli amanti. L’oggetto di “burla” è il matrimonio mal riuscito di chi non più giovane sposa una donna di piacevoli fattezze, tra satira e velati doppi sensi. Il tarantismo diventa metafora dell’amore non sempre disinteressato:
Ella è una mira che ciascuno vi radrizza l’occhio, tutti sospiran per lei [giovani, i ricchi , i galantuomini] i poeti con parole che espugnano il cielo , non che una donna aguzza l’ingegno di qua, e chi di là; tanto il suono della sua tartantola ; perché i versi son tanti che egli è forza che fa salti per qualche uno la liberalità, e un balletto dilettevole, l’oro ha il diavolo addosso, la giovinezza piace la bellezza non si disprezza”[35].
Un anonimo autore pubblica nel 1738 La rete de’ matti ordita (96 pagine) che con tono chiaramente ironico se non satirico dileggia l’astrologia e gli astrologi. Nel titolo stesso troviamo un primo riferimento al tarantismo, la “rete”, ma dopo l’avviso al lettore si promette l’uso della “Sapienza e della perfetta morale” che sono l’antidoto contro il veleno della Pazzia; anche qui i rimandi all’armamentario del tarantismo sono impliciti. Apre la sua trattazione dichiarando l’analogia tarantati-astrologi come due categorie di “Matti”:“Evvi una specie d’ insetto, che chiamasi da Latini Falangium, e dagl’ Italiani comunemente, Tarantola Si genera in qualche Paese caldo in specie nella nostra Puglia”. Quindi descrive le manifestazioni coreutiche del fenomeno soffermandosi sul fatto che tali manifestazioni spesso si concentrano in un dato giorno dell’anno: “Qui però non è tutto il mirabile di questi avvelenati, perchè ogni Anno, almeno per una volta, da lor risentesi il furore medesimo”: qui l’autore scrive di aver visto egli stesso degli “ attarantati “che ho vedu to anch’ io gli Attarantati, ed holli veduti annualmente replicare i furiosi lor balli”; ma, come chiarisce dopo, questi tarantati sono gli astrologi agitati all’approssimarsi della periodica apparizione di una certa formazione astrale[36].
Un esempio di dramma sacro, La Fenice d’Avila Teresa di Giesù, di Giuseppe Castaldo, musiche di Francesco Provenzale, in 3 atti, ripercorre la vicenda della monacazione contrastata di Teresa D’Avila. Tra i personaggi, il demonio tentatore che assume varie sembianze, ma anche Rodrigo, “un amante che in segreto soffre tace”, due popolani, ovvero Ciccotto Napolitano e Giampetro calabrese, i quali, sparsasi la voce del futuro matrimonio di Teresa, si preparano a recarsi alle nozze per approfittare del pranzo – “s’unchia la panza”-, presentandosi come musici. Passano in rassegna i vari balli e strumenti musicali per l’occorrenza e poi, per bocca di Giampetro, “Vajia la tarantiella/ che è la più bella”. Con la “Tarantella” eseguita da Ciccotto, Giampetro e il coro, si conclude, con la scena XVI, l’atto II:
Tarantola d’amore è un bel sembiante/Che lo core mi va pungendo /Tirititiritommola, /Che lo core mi và pungendo, e non le piante, / E lo punge senza pietà, /Tirititiritommola,/Tarantola mmardetta, e quando Scumpe?/E lo cuollo non te lo rumpe, /Tirititiritommola, /E lo cuollo non te lo rumpe, /Mamma mia, ca ntroppeca: / Chi me lega m’asciogliarrà, /Tirititiritommola. /Tarantula m’afferra a lu ienucchiu,/ Lu talluni mi muzzicau, /Tirititiritummula. /Lu taluni mi muzzicau, e mo gunucchiu/Non mi pozzu chiú frizzicà, Tirititiritummola./Tarantola d’amore è gelosia,/Che pian piano rodendo và, /Tirititiritommola./Che pian piano rodendo và la vita mia, /Gran veleno è la beltà. Tirititiritommola/ Tarantola me sciacca, e vò, ch’abballa, /Statte fitto te rumpe la spalla, /Tirititiritommola/ Amore me fa mpazzire, ahi cecavoccola /Me fa fà capotommola,/ Tirititiritommola. /Taranta mi grattughia a cuzzicuni, /E mi vinni la smangiasumi, /Tirititiritummula./E mi vinni la smangiasumi a li piduni, /Non mi stari chiù a stridià, /Tirititiritummula./ Tarantola vi batte, e dà tormento. /N’è tarantola nò, tirititiritommola, /N’è tarantola nò, ch’è abbattemiento: /Singhi aucisu. /M’havifte à sciacca, Tiritiritommola/[37].
Il testo di Castaldo non è che un esempio del fenomeno di “spettacolarizzazione che ha portato a Napoli i santi a teatro, soprattutto nella seconda metà del Seicento”[38]. La scena della tarantella era già stata da Castaldo rappresentata nella commedia dedicata a santa Rosalia (1670), ovvero Lacolomba ferita, che ambientava le vicende di Rosalia nella fastosa corte di Ruggero II. Anche in questo caso le musiche sono di Francesco Antonio Provenzale (1632-1704), “uno dei maggiori compositori d’opera e musica sacra del Seicento e tra i maestri più influenti nella catena didattica napoletana”[39].
Quelli proposti sono solo testi esemplificativi della capacità pervasiva del tarantismo che ben si presta a svariati usi e strumentalizzazioni[40]. La bibliografia è sempre in aggiornamento ed è facile restare impigliati nella sua rete tra dotte citazioni, plagiari di ogni epoca e sorte e contemporanei “tarantologi”, per finire di malavoglia come novelli Padron ’Ntoni andando “ tutto il giorno di qua e di là, come se [si ] avesse il male della tarantola”[41].
[3] Conciones Academicae In Praecipua totius Anni Festa: Ad primariam Nobilitatem, populumque Academicum, Pragae In Auditorio Academico, ab Authore dictae: Opus posthumum (Pragae 1707, 1711, 1718, 1722).
[4] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 2.
[5] Il curioso discorso sul “salto” della Tarantola del gesuita Caspar Knittel anche in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/25/un-curioso-discorso-sacro-sul-salto-della-tarantola/
[6] Prediche fatte nel palazzo apostolico dal M. R. padre F. Girolamo Mautini da Narni vicario generale dell’ordine de frati minori cappuccini terza editione Romana, 1639. Il libro, oltre a quella del 1632, ebbe diverse ristampe: a Venezia (1637) a Roma (1639) e a Parigi (1637).
[7] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 9.
[8] I Serafici splendori da gli opachi delle più celebri accademie e rilucenti tra l’ombre di vaghi geroglifici compartiti in concetti tratti dalle divine lettere, contrapuntati dalle professioni humane per li giorni ordinari di quaresima, noto anche come Quadragesimale, edito a Venezia nel 1649 e poi nel 1651, 1654, 1660, pp. 183-196.
[9] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 12.
[10] Sacrarum moralium concionum Dominicale, nec non Quadragesimale, quae tanquam aera minuta duo cum vidua paupere in ecclesiae Gazophjlacium primo deponit humiliter a. v. p. lucianus montifontánus Ord. FFr. Min. S. Francisci Capucinorum in Provincia Anterioris Austriae Sacerdos Concionator, Typis Ducalis Monasterij Campidonensis, Anno 1688, pp. 107-113.
[11] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p.15.
[12] Come pure non è citato in D. Rota, I Gesuiti eleTarantole, Lucca, Libreria musicale italiana, 2012. Nella lettura del tarantismo anche in ambito musicale, imprescindibile riferimento è il gesuita Athanasius Kircker (1602-1680), di cui si occupa la stessa Rota.
[13] Si veda: C. Sommervogel, Bibliothèque, IV, coll. 115-117, e XII, col. 1176, cit. in G. Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 217, nota 6. Ortensio Pallavicino fu chiamato a gestire la difficile posizione dei correligionari padri gesuiti vicini al movimento quietista dei Pelagini, che era stato tacciato di eresia. Questo movimento spirituale fu fondato dal laico Giacomo Filippo Casolo presso l’oratorio milanese di Santa Pelagia a metà del Seicento e si diffuse in Veneto e in Lombardia, caratterizzandosi per un’intensa attività devozionale basata sull’esercizio collettivo: Cfr. L. Roscioni, L’eresia della preghiera. Gesuiti e Pelagini tra Lombardia e Veneto nel Seicento, Ediz. Critica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021.
[14] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.
[15] Nelle trascrizioni si riporta esattamente la grafia originale del testo, senza alcun emendamento.
[16] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.
[17] La figura evocata dai predicatori è sempre Davide con riferimento alle valenze terapeutiche della musica, secondo quanto riporta il Primo libro di Samuele: “quando dunque lo spirito sovraumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui”. Samuele, I, cap .16, v. 23, in La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale CEI, Roma, Edizioni San Paolo, 1980, p. 246. Quanto invece a San Paolo, è ben noto l’episodio che ne giustifica il ruolo nel tarantismo ed è riportato negli Atti degli Apostoli, cap. 28, vv. 3-5: “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. La Sacra Bibbia, cit., p. 1116. Su tale episodio si innesta il rapporto San Paolo –Taranta: Cazzato e Vallone evidenziano come tale “equazione” si afferma nel Settecento e consolida nell’Ottocento a scapito di San Pietro che come documentano i due studiosi era in passato riconosciuto come protettore dai morsi della tarantola. M. Cazzato, Da San Pietro a San Paolo. La cappella delle “tarante” a Galatina, Galatina, Congedo Editore, s.d., p. 27, e G. Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso: dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Pref. di G. Galasso, Galatina, Congedo, 2004.
[18] [Petronio Ferrifiori], Fiori De’Salmi, Et Affetti D’un’Anima Santa. Con Due Modi Per Viuere in Gratia Di Dio, & Essere Sempre Contento. Composti Dal P. Stefano Binetti Della Compagnia Di Giesu’, Venezia Appresso Nicolò Pezzana, 1661. Scrittore gesuita, nato a Dijon, Francia, nel 1569, Binet morì a Parigi nel 1639. Entrò nella Compagnia di Gesù nel 1690 e fu rettore dei collegi di Rouen e Parigi, e provinciale di Parigi, Lione e Champagne. Fu amico di San Francesco di Sales: Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) bio-gráfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Madrid, Universidad Pontificia Comillas, Roma, Insititutum Historicum Societatis Iesu, 2001, p. 950. Come scrive Pellandra, “Binet è uno di quegli autori gesuiti sui quali grava ancora la riprovazione di Pascal”, che lo cita nella lettera IX delle Provinciali: C. Pellandra, L’usage de la maladie chez le Père Étienne Binet, in Littérature et pathologie, Saint-Denis: Presses universitairesde Vincennes, 1989 <http://books.openedition.org/puv/1236>.
[19] P. Brinacio, Scintille poetiche, o poesie sacre, e morali di Paolo Brinacio Napoletano. In Napoli, Con licenza de‘ Superiori, 1692, p. 65. Il primo testo a stampa del Lubrano era uscito molto tempo prima. Nell’opera Le egloghe simboliche (Lecce 1642) di Ascanio Grandi infatti, si trova un suo Elogium dell’autore. “Nonostante esprima una netta condanna degli eccessi della poesia marinista, il Lubrano delle Scintille si inserisce a pieno titolo in quel filone, di cui estremizza molti aspetti, riuscendo nel compito non facile di dare un’interpretazione molto originale di uno stile ormai giunto al tramonto. Supportato da un’inventività linguistica straordinaria (grazie alla quale conia un grandissimo numero di neologismi), mette in atto un’accorta strategia retorica, avvalendosi di figure già molto sfruttate nella poesia barocca [..]. Dal punto di vista formale va notata la grande ricchezza delle soluzioni retoriche (particolarmente sfruttata è la figura dell’antitesi), ben in linea con la tradizione della predicazione barocca”: Giacomo Lubrano, a cura di Luigi Matt, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 66, 2006 (on line).
[20] G. G. Ferrero, La Letteratura Italiana. Storia e Testi. Volume 37. Marino e i Marinisti, Milano, Ricciardi, 1954, p.1041. M. Niola, Il corpo mirabile. Miracolo, sangue, estasi nella Napoli barocca, Roma, Meltemi, 2002.
[21] G. Mina, Introduzione, in W. Katner, L’enigma del Tarantismo. La malattia del ballo, a cura di Gabriele Mina, Nardò, Besa, 2002, p.18.
[22] V. Santoro, Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Alessano, ItinerArti Edizioni, 2021, p. 76.
[23] M.L. Doglio, Premessa, in Predicare nel Seicento, a cura di M.L. Doglio e C. Delcorno, Bologna, Il Mulino, 2011, p.11.
[24] Lettioni di monsignor Paolo Aresi vescovo di Tortona nelle quali discorrendosi dell’essere, natura, cagioni et effetti della tribulatione, molti curiosi dubbi si risolvono, Appresso Nicolò Viola, 1624, pp. 817-818. Paolo Aresi (1574-1644) “è anche autore di Arte di predicare bene (Venezia 1611), edita più volte, anche nel compendio del confratello G. Morandi (Roma 1664)”: Paolo Aresi, a cura di Francisco Andreu, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 4, 1962 (on line).
[25] L. Cosi, Tarantole, folie e antidoti musicali del sec. XVII fra tradizione popolare ed esperienza colta, in Tarantismo, transe e possesione, musica, a cura di Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2001, pp. 57-58. Della Cosi, «Tirar con esca alla devozione». Musica e strategia missionaria dei Gesuiti nel Seicento, fra Napoli e Terra d’Otranto, in «L’Idomeneo», Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia – sezione di Lecce, n. 10, 2008, Galatina, Panico, 2008, pp.
[26] R. Catello, Il successo mondiale della tradizione del Presepe, in Patrimoni intangibili dell’umanità: il distretto culturale del presepe a Napoli, a cura di Stefano De Caro, Walter Santagata e Massimo Marrelli, Napoli, Guida, 2008, p. 175.
[27] B. Casciano, Tarantole e Tarantolati e tarantelle nella Spagna del “Siglo de oro”, Elison Paperback, 2021, p. 85.
[28] M. Spedicato,Chiesa e trasgressione: il tarantolismo in Terra d’Otranto in età post-tridentina, in Rimorso, La tarantola tra scienza e letteratura. Atti del convegno del 28-29 maggio 1991 a San Vito dei Normanni, Nardò, Besa, 2001, pp. 9-2. Si veda inoltre B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, Roma, Carocci editore, 2019, pp. 20-41.
[29] P. De Giorgi, Tarantismo e rinascita, Lecce, Argo, 1999, p. 89. Non è forse un caso che in era moderna prima della missione di Carpitella e De Martino del 1959, il tarantismo ritornò alla ribalta nazionale con il fotodocumentario Le invasate di Chiara Samugheo e testo di Emilio Tadini sulla rivista «Cinema Nuovo» del 1955.
[30] S. Ammirato, Costanzo non è forse ancora un mese, in Le Rime d’Angelo di Costanzo, Cavaliere Napoletano. Quinta edizione delle passate molto più illustrata, ed accresciuta. Si sono aggiunte le Rime di Galeazzo di Tarsia, Autore contemporaneo in Padova: appresso Giuseppe Comino, 1738, p. 114 (Alle pp. 114-124 si trovano le rime dell’Ammirato dedicate a Costanzo). Su Scipione Ammirato (1531-1601) si vedano tra gli altri, la voce a cura di Rodolfo De Mattei, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 3, 1961 (on line); R. De Mattei, Varia fortuna di Scipione Ammirato; Opere a stampa di Scipione Ammirato; Codici di Scipione Ammirato, in «Studi salentini», n. 8, 1960, pp. 352-407; Idem, Scipione Ammirato «Il vecchio» e Scipione Ammirato «Il giovane», in «Archivio Storico Italiano», vol. 119, n. 1, 1961, pp. 63-76, F. Tateo, Divagazioni sul Tacito di Scipione Ammirato, in «Esperienze Letterarie», vol. 28, n. 3, 2003, pp. 4-18; S. Ammirato, I trasformati, a cura di Paola Andrioli Nemola, Galatina, Congedo Editore, 2004; C. Vasoli, Note sugli «Opuscoli» di Scipione Ammirato, in Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, Atti del Convegno internazionale, Torino, 2003, a cura di Massimo Firpo, Firenze, 2005, pp. 373-396; Idem, Unità e disunione dell’Italia? Uno storiografo della Controriforma. Scipione Ammirato e la sua replica al Machiavelli, in Le sentiment national dans l’Europe méridionale aux XVIe et XVIIe siècles, a cura di Alain Tallon, Madrid, 2007, pp. 189-203; I. Nuovo, Otium e negotium: da Petrarca a Scipione Ammirato, Bari, Palomar, 2007, pp. 361-387; C. Continisio, Federico Borromeo lettore di Scipione Ammirato (con 17 lettere), in Storia, rivoluzione e tradizione. Studi in onore di Paolo Pastori, a cura di Sandro Ciurlia, Firenze, Edizioni del Poligrafico Fiorentino, 2011, pp. 311-338,
[31] S. Ammirato, Opere, a cura di Martino Capucci e Marco Leone, Galatina, Congedo Editore, 2002, p. 122.
[32] R. Frionoro, Il vagabondo, overo sferza de’ bianti, e vagabondi. Opera nuova, nella quale si scoprono le fraudi, malitie, & inganni di coloro che vanno girandoper il mondo alle spese altrui. Et vi si raccontano molti casi in diversi luoghi, e tempi successi. Data in luce per avertimento de’ semplici, In Venetia, appresso Anzolo Reghettini, 1627, pp. 51-52. Si riportano i testi sempre in trascrizione paleografica. L’opera, che avrà ampia fortuna anche fuori d’Italia, è una traduzione/rimaneggiamento dello Speculum cerretanorum di Teseo Pini, scritto probabilmente fra il 1484 ed il 1486, che conobbe solo circolazione manoscritta: T. Pini, Speculum cerretanorum, in Il libro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi,1980, pp. 39-40. Diversamente, Tommaso Campanella riteneva i tarantati non dei simulatori («io non credo che quei poverelli pagassero tanto l’anno per finzione a sonatori»): T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, p. 260, cit. in M. Combi, Tommaso Campanella, il morso della tarantola e la magia naturalis, in Antropologia e scienze sociali a Napoli in età moderna, a cura di Roberta Mazzola, Roma, Aracne editrice, 2012, pp. 20-21. Come scrive Di Mitri, il Frionoro ci trasmette un’immagine del falso tarantato “tra il picaresco e l’oleografico quasi che i protagonisti del racconto uscissero dalla commedia dell’arte o da una corte dei miracoli”: G.L. Di Mitri, Storia biomedica de tarantismo nel XVIII secolo, Firenze, Olschki, 2006, p.3.
[33] G. L. Di Mitri, Storia biomedica del tarantismo, cit., p. 2. Per un raffronto tra teatro e interpretazione del fenomeno: B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, cit., pp. 43-60. P. Sisto, La metafora della tarantola: storia e leggenda dello stellione fra antichi e moderni, in «Esperienze letterarie», Pisa- Roma, Fabrizio Serra editore, XLIII, n. 4, 2018, pp. 53-65.
[34] L. Spalanca, Il potere della parola. Gli Inferni di Anton Francesco Doni, in DNA – Di Nulla Academia Rivista di studi camporesiani, Vol. 2, n. 2 (2021), p. 30: Inferno e Post-Inferno I DOI: 10.6092/issn.2724-5179/ e A.F. Doni, I mondi e gli inferni / Anton Francesco Doni, a cura di Patrizia Pellizzari; introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994.
[35] Ibidem. Su Doni si veda Il segreto della Commedia dell’arte: la memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII. Secolo, a cura di Ferdinando Taviani, Mirella Schino, Firenze, La Casa Usher, 1986, p. 357.
[36] La rete de’ matti ordita da deliri del grande stolto celeste calcolata al meridiano, ed orizonte di Brescia, sopra l’anno bisestile 1738, In Brescia: per Giacomo Turlino, 1738, pp. 9-10.
[37] La Fenice d’Avila Teresa di Giesù melodrama sacro, del dottor Giuseppe Castaldo, Nella stampa di Michele Luigi Mutio (senza data), pp. 41-42. Croce ci fornisce alcune informazioni sulla fortuna di quest’opera da fonti d’epoca: B. Croce, I teatri napoletani: sec XV –XVII, Napoli, Presso Luigi Pierro 1891, p. 156; inoltre V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida editori, 1969, p. 202. Come osserva Surian, l’introduzione di elementi farseschi e di personaggi di carattere comico e coreografico e l’accostamento dell’aspetto agiografico spettacolare saranno fra i tratti tipici del teatro dal Seicento: E. Surian, Manuale di Storia della musica Vol. I Dalle origini alla musica vocale del Cinquecento, terza edizione riveduta, Milano, Rugginenti editore, 2002, p. 283. Su Castaldo: F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri: i santi nel teatro musicale sacro del Seicento a Napoli, in «Sanctorum: rivista dell’Associazione Italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia», n. 6, 2009, pp.116-119.
[38] F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri, cit., p. 93.
[39] Voce, a cura di Fabris Dinko, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 85, 2016 (on line).
[40] Vari sono i riferimenti al tarantismo riportati in F. M. Attanasi, Il tarantismo in musica: preliminari storici per un’indentificazione musicologica, in L’eredità di Diego Carpitella. Etnomusicologia, antropologia e ricerca storica nel Salento e nell’Area Mediterranea, Atti del convegno Galatina 21-23 giugno 2002, a cura di Maurizio Agamennone e Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2003, pp. 243-250. I. Nuovo, Presenze del tarantismo nella produzione letteraria umanistico–rinascimentale, in La Magia e le arti nel Mezzogiorno, a cura di Raffaele Cavalluzzi, Bari, Ed. B. A. Graphis, 2009, pp. 49-69. Una ottima bibliografia del tarantismo in G. Mina, La tela infinita: bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo, 1945-2006, Nardò, Besa, 2006.
[41] G. Verga, I Malavoglia, Introduzione e note di Nicola Merola, Milano, Garzanti, 1983, p. 47.
Vittorio Colletta e l’affresco di S. Andrea nella chiesa matrice di Novoli
Entrando nella chiesa matrice di Novoli, non si può non essere attratti dal pregevole e grandioso affresco che occupa quasi tutto il soffitto della stessa chiesa. L’affresco rappresenta il Martirio di S. Andrea, martirio che avvenne secondo la tradizione a Patrasso, nel 60, per ordine del proconsole Egea.
La chiesa matrice di Novoli, costruita forse verso la metà del ‘500, allorché il paese, avvicinandosi al migliaio di abitanti, sentì il bisogno di avere una chiesa più grande dell’attuale chiesa dell’Immacolata, allora chiesa parrocchiale con la denominazione di Chiesa Vecchia, risulta già dal 1640, secondo la visita parrocchiale di Mons. Luigi Pappacoda, intitolata a S. Andrea Apostolo.
L’affresco in questione nella sua iconografia rispetta fedelmente la tradizione religiosa e presenta il santo con un certo realismo nel drammatico momento del suo martirio. Anche se, a prima vista, dà la sensazione di essere un’opera di antica fattura, in realtà la sua realizzazione avvenne nel 1925, cioè all’epoca in cui iniziarono i primi restauri della chiesa matrice, retta in quegli anni da Mons. Francesco Greco, protonotario apostolico, detto per antonomasia il prete signore, per il suo comportamento e il suo tratto squisitamente signorile. L’autore fu, come si è potuto accertare, il pittore salicese Vittorio Colletta, la cui firma, con un po’ di attenzione, si può notare (assieme all’anno di esecuzione) sull’opera stessa, giù in fondo alla destra di chi entra in chiesa.
L’opportunità di accertare chi fosse veramente l’autore, mi fu data in occasione di una mostra dedicata proprio alla memoria del Colletta e organizzata nel 1982 dal locale Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali e dall’Assessorato Comunale alla Pubblica Istruzione, in occasione della 305a Fiera di Salice “Madonna della Visitazione”. Fra le numerose fotografie delle opere realizzate dal Colletta, figurava anche quella della chiesa Matrice di Novoli.
Che fosse un artista di valore lo dimostrano comunque le tante opere che si trovano nei comuni di Mesagne, Maruggio, Campi Salentina, Guagnano, Veglie, nel Convento dei Frati di Salice, nelle sontuose dimore dei D’Agostino, dei Leone e dei De Castris, antiche famiglie di Salice. Secondo quanto ha scritto Franco Colletta (pronipote dello stesso) in un suo articolo, il pittore nacque a Salice il 16 Dicembre del 1866 da Tobia, maestro decoratore del tempo. Studiò presso il Liceo Artistico di Lecce e, successivamente, all’Accademia di Belle Arti di Napoli senza, però, completare gli studi. A Lecce, lavorò e studiò presso un famoso pittore della scuola fiorentina (di cui, purtroppo, s’ignora ancora il nome) che in tale città era stato chiamato per impartire lezioni e per lavorare. Poi ancora molto giovane, assieme al fratello Francesco, cominciò a realizzare affreschi che gli procurarono subito grande fama. Il senatore De Castris, di cui era amico, gli fece affrescare la cappella patrizia del suo palazzo e qui vi dipinse le stupende figure degli Evangelisti. Sposò felicemente a Salice la nobildonna Ermelinda Capocelli. Fino a tarda età, continuò a produrre e a lavorare sodo con i giovani nipoti Agostino e Tobia Colletta, figli del fratello Francesco, morto nel 1931.
Morì in Salice il 20 Aprile del 1947, ultraottantenne. I Salicesi lo ricordano e lo amano in particolare per l’opera La Madonna della Visitazione (quadro di proprietà della famiglia Faggiano-Toma), che è una riproduzione “a memoria” del quadro attribuito a Paolo Calieri detto “il Veronese” e che andò distrutto il 29 luglio del 1895. Si racconta che il senatore De Castris, all’epoca Sindaco di Salice, non ritenendo che nel luogo vi fosse nessun artista in grado di riprodurre il quadro del Veronese si rivolse al pittore Montefusco di Napoli. Colletta, a proprie spese, per dimostrare il contrario realizzò il quadro e lo espose vicino casa, lo stesso giorno dell’inaugurazione di quello del Montefusco che si trova nella chiesa matrice. Il senatore lo supplicò di togliere il quadro e gli promise di fargli affrescare il suo palazzo (cosa che avvenne), Il quadro del Colletta, si differenzia da quello del Montefusco perché è, come è stato rilevato, più fedele all’originale.
Il Colletta eseguiva inoltre la realizzazione delle sue opere con la tecnica dello spolvero e con disegno a carbone.
L’affresco di Novoli, sarà stato certamente eseguito con la tecnica dello spolvero, ingegnoso sistema che consisteva nel bucherellare con uno spillo tutti i contorni del disegno, avendo cura di applicare nel contempo sotto il cartone altro foglio di carta che rimaneva a sua volta bucherellato nella stessa maniera. Battendo sopra i buchi di questo secondo foglio con un sacchetto pieno di carbone pestato (o di terra rossa verde o altra polvere) si otteneva sull’intonaco, o su un’altra superficie, tutta la serie dei forellini che, facilmente riuniti, ricostruivano con esattezza la 1inea generale di tutto il disegno.
Nonostante varie ricerche fatte nell’Archivio della chiesa matrice, non si son potuti trovare elementi utili per meglio documentare la presenza del Colletta a Novoli, e quindi sul perché della realizzazione di quest’opera. Solo nell’archivio della Chiesa della Madonna del Pane, molto tempo, fa, ci capitò di rintracciare una minuta scritta a matita, molto rovinata, fatta dall’Ingegnere Francesco Parlangeli nel 1904, e che era la liquidazione dei lavori di pittura eseguiti proprio da Vittorio Colletta però nella chiesa parrocchiale di Campi Salentina.
Da quella minuta si rileva che per incarico del Sindaco di Campi il sottoscritto ingegnere ha esaminato la nota presentata dal pittore Vittorio Colletta per i lavori di pittura testè eseguiti nel coro di questa chiesa parrocchiale. I lavori consistono in due passate di tinta bianca e due passate di ripolin bianco ed a colore sulle cornici e muri con riquadri nei fondi. In complesso la dipintura fu fatta sulla superficie di mq. 260; liquidata al prezzo minimo generalmente convenuto nelle private contrattazioni di L. 1.75 si ha l’importo di L. 445.000; onde riscontrata esatta ed equa la nota presentata dal Colletta per l’importo di L. 453.000 che l’amm. può pagare ad esso Sig. Colletta essendo stati i lavori eseguiti conformi alle regole d’arte”.
Il documento ha la sua importanza perché, anche se il Parlangeli morì nel 1916 ovvero diversi anni prima della realizzazione dell’affresco, nulla vieta, attraverso tale minuta, di intendere che probabilmente il Colletta e la sua arte furono portati all’attenzione dei Novolesi dallo stesso Parlangeli e che, verosimilmente, lo stesso abbia potuto eseguire, prim’ancora dell’affresco. di S. Andrea, forse nelle abitazioni (come era solito fare) di qualche Novolese, altri lavori conformi alle regole d’arte e che ora attendono di essere scoperti e valorizzati giustamente.
Per quanto riguarda ancora l’iconografia, si è scoperto infine che il Colletta si è totalmente ispirato, riproducendolo quasi fedelmente, ad uno dei tre affreschi conosciuti come le Storie di sant’Andrea, eseguiti per il coro di sant’Andrea delle Valle a Roma, negli anni 1650-1651, dall’artista Mattia Preti, detto Cavalier Calabrese, nato a Taverna il 24 febbraio 1613 e morto a Malta il 3 gennaio del 1699, il maggiore pittore napoletano del secondo seicento. L’affresco è appunto Il Martirio di Andrea ed è, insieme agli altri due (che rappresentano rispettivamente La Condanna ed Andrea legato alla Croce), uno degli ultimi lavori lasciati a Roma da questo artista prima di trasferirsi, per approfondire meglio i termini del proprio linguaggio, nell’Italia settentrionale. Artista in cui si riconosce, secondo gli studiosi, una certa matrice caravaggesca sulla scia di autori quali il Battistello e il Sellitto. Altre opere del Preti (autore anche di numerose tele) si trovano sempre a Roma (Galleria Corsini e Galleria Pallavicini), a Napoli (Museo di Capodimonte e Palazzo Reale), a Modena (affreschi nella chiesa di S. Biagio), a Malta (La Valletta e l’Oratorio dei Cavalieri) dove vi rimase per circa quarant’anni svolgendo anche l’attività di architetto.
L’affresco del Colletta, differisce da quello del Preti (come si può notare guardando le immagini di entrambi riprodotte) solo per lo sfondo in alto che il Colletta ha voluto semplificare sostituendo le complesse, numerose e stupende figure angeliche e di profeti del Preti con altre indubbiamente più semplici. Sono presenti, come nel Preti, i due angeli (molto diversi sia nelle forme che nella posizione) che consegnano al santo la palma e la corona del martirio, ovvero i segni che spettano ai martiri della fede, mentre più in alto alcuni cherubini sormontati da altri, reggono l’iscrizione “Domine suscipe me pendentem in patibulo”, che manca invece in quello dell’artista di Taverna. Il santo, è naturalmente caratterizzato in tutte e due le opere dal volto severo e barbato (rappresentazione giunta nella nostra penisola con l’egemonia bizantina tra il VI e l’VIII sec.), legato e con le braccia e le gambe allargate su una croce ad “X” (cioè la croce di Sant’Andrea decussata che la tradizione vuole essere stata prescelta da Andrea stesso per una maggiore agonia).
Due sono le tradizioni iconografiche, entrambe di origine greca sul martirio del santo: quello della croce latina e quella della croce ad X. Il primo tipo lo si ritrova soprattutto nelle chiese bizantine poiché appunto gli sono propri gli attributi della croce latina e del libro.
Di una croce biforcuta invece si comincia a parlare nella narrazione di S. Pietro Crisologo. Tale tradizione si afferma soprattutto in occidente, a partire dal quattrocento in avanti, specie nell’Europa Centrale a causa dell’affermarsi della dinastia burgunda (antico popolo germanico) che, come proprio emblema, ebbe infatti la croce di S. Andrea. A questa tradizione aderirono, in Italia, proprio il Preti ed anche il pittore Guido Reni.
Quali siano stati i motivi che hanno spinto il Colletta ad ispirarsi a quest’opera del Cavalier Calabrese non lo sappiamo. Non si può escludere comunque che tale raffigurazione, peraltro perfettamente riuscita dal punto di vista pittorico ed artistico, gli sia stata imposta o consigliata dal parroco di allora, forse rimasto favorevolmente conquistato dalla bravura e dalla capacità con cui egli aveva saputo fedelmente riprodurre molti anni prima, come si è visto, il quadro della Madonna della visitazione di Salice Salentino.
In “Il Salice”, quaderno della Biblioteca Comunale di Salice Salentino, Dicembre 2001 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 211-214, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici essenziali
Biblioteca Sanctorum, Roma 1961, vol. I (Istituto Giovanni XXIII nella Pontificia Università Lateranense). II santo sulla croce decussata appare su un sigillo recante la scritta “Parrocchialis Ecclesiae Terrae Santae Mariae de Novis (antico nome di Novoli)” apposto su due documenti inediti del settembre 1748 (collezione privata).
F. Colletta, Un nostro artista dimenticato, in “Salento Nord”, I, 5, Campi S. Ottobre 1982.
Id., Vittorio Colletta un pittore dimenticato, in “Quaderno di Ricerca”, Salice S. Aprile 1987. Molto significativo è quanto riporta il pronipote sulla vita del pittore salicese. In particolare si evidenzia come “… ancora molto giovane, insieme al fratello Francesco, iniziò ad affrescare con mirabili composizioni di figure di santi, decorazioni e paesaggi, le chiese madri e le dimore dei nobili e dei ricchi proprietari terrieri dell’antica ed estesa terra del Salento. Ammirevoli e durevoli segni del loro operare si trovano nei comuni di Novoli, Mesagne, Campi Salentina, Guagnano, Veglie, nel Convento dei frati in Salice e nelle sontuose dimore dei D’Agostino, dei Leone e dei De Castris. Molto amico del senatore De Castris, ne affrescò la cappella patrizia dipingendo le quattro figure degli evangelisti: lavori che conservano tuttora intatta l’antica bellezza”. A Vittorio Colletta pertanto, a nostro avviso, possono attribuirsi con una certa fondatezza, gli affreschi andati perduti e che qui si pubblicano in foto. Gli affreschi erano presenti nel palazzo padronale della “famiglia Russo” con prospetto su Via Pendino e oggi sede di uffici comunali. Il palazzo fu fatto costruire da Samuele Russo (per molti anni Sindaco di Novoli e precisamente dal 1846 al 1852 e dal 1855 al 1858) su progetto proprio dell’Ing. Francesco Parlangeli alla fine dell’Ottocento – inizi del Novecento. Il figlio di Samuele, Tommaso, gli costruirà accanto il complesso destinato poi a diventare sede “dell’Asilo Russo”.
C. De Carlo, In morte dell’ingegnere Francesco Parlangeli, Lecce 1916.
M. De Marco, La chiesa matrice di S.Andrea Apostolo, in “Camminiamo Insieme”, a. III, n. 2, Giugno 1989, pp. 6-12.
F. De Tommasi, Irestauri della chiesa matrice, in “La voce del pastore”, III, Lecce Settembre-Ottobre 1960.
Id., Nella ricorrenza della festa di S. Andrea Apostolo, in “La voce del pastore”, XXIV, Novoli Ottobre-Novembre 1984.
Dizionario Enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani dell’XI al XX secolo, Vol. IX, Torino 1975.
A. Politi, Delle Famiglie Novolesi: I Russo, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, n.u., a. XXV, 17 gennaio 2001, pp. 9-10 (con albero genealogico).
Scheda Bio-Bibliografica (a cura di R. Faggiano) della mostra fotografica delle opere di Vittorio Colletta realizzata nel 1982. Tale scheda, è stata redatta in base a testimonianze e ricordi acquisiti dai familiari, in particolare dalla nipote Leda Toma.
Sebaste F. – Spagnolo G., Un’intervista affettuosa e sincera, in Un seme sulla buona terra, a cura dell’Associazione Artigiani di Novoli, Novoli 1984.
Spagnolo G., Novoli, origini, nome, cartografia e toponomastica, Novoli 1987.
Note sul ciclo allegorico delle Virtù e delle Stagioni del pittore Liborio Riccio
Curiosità, storia ed approfondimenti sul ciclo allegorico delle Virtù e delle Stagioni del pittore Liborio Riccio
di Santo Venerdì Patella
Gennaio 1884 Maglie. Ci troviamo nel palazzo del senatore comm. Achille Tamborino insieme al prof. Cosimo De’ Giorgi che riferisce di aver visto in questa sontuosa dimora alcune tele del pittore murese Liborio Riccio.
Ora, visto che i Tamborino all’epoca della realizzazione delle tele non erano ancora nessuno, ci si pone una domanda istintiva: cosa ci fanno, e più ancora da dove provengono, le tele del sacerdote don Liborio nel palazzo del Tamborino.
Occorre ritornare a ritroso nel tempo di esattamente 110 anni.
Siamo nell’Anno del Signore 1774, muore senza eredi l’ultimo dei Protonobilissimo, il principe di Muro Giovan Battista IV, tra il gaudio dei muresi per i motivi che verrò esponendo. Sconsolata invece la moglie Irene Pignatelli, non sappiamo se più per la morte del marito o perché, non avendo eredi diretti, il feudo fu devoluto al demanio regio quello stesso anno.
Per ben 80 anni il simbolo stesso dei principi, il Palazzo posto nella principale piazza del paese, quasi a ricordare con la sua mole la presenza costante della loro influenza sui popolani del tempo, rimase vuoto e forse di tanto in tanto visitato dai Governatori regi e principeschi o da loro fiduciari (c’è da precisare che il 3/10/1797 Ferdinando IV donò il feudo al principe Antonio Maria Pignatelli di Belmonte).
Donna Francesca Paolina Pignatelli, ultima erede dei Principi della terra di Muro, ed i suoi avi, non erano mai venuti a visitare Muro, poiché era solo un piccolo possedimento di cotanta proprietà di cui essi erano dotati. Infatti, differenza abissale tra i Protonobilissimo e i Pignatelli di Belmonte, era che i primi, a differenza dei secondi, amministravano i loro feudi da Muro, quasi fosse la piccola capitale del loro Principato.
Nell’anno 1854, parola di Luigi Maggiulli, il Cav. Achille Tamborino acquista Palazzo Protonobilissimo da Donna Francesca.
Inizio a sbrogliare la matassa creatasi con la domanda fatta innanzi.
Il Tamborino, facente parte di quella borghesia arricchita di metà Ottocento, che era disponibile ad accaparrarsi quanto il mercato gli offriva, acquistando, spesso vuoi da una nobiltà decadente, vuoi beni dei soppressi ordini religiosi, cercando con ciò d’elevarsi di rango tramite questa nuova forma di “Collezionismo di Rappresentanza”, non divenne solo proprietario della dimora principesca, ma di sicuro anche dei principeschi arredi e delle tele sopra mentovate.
A trattare di queste tele ritroviamo Antonio Antonaci (cfr. L’Arte e Storia a Muro Leccese, Edit. Salentina – Galatina 1974), ma senza però provarne concretamente la provenienza, con la menzione di quattro dipinti delle Stagioni e delle Virtù: Giustizia, Carità, Pace, Abbondanza, conservate in casa Tamborino a Maglie. In realtà le “Virtù” che l’Antonaci menziona sono tre, non quattro, e di queste, l’Amore verso Dio è confusa con la Pace (tra l’altro la tela raffigurante l’Amore verso Dio e presente anche nella chiesa matrice di Muro con gli stessi attributi iconografici). L’ultima, l’Abbondanza, non credo possa essere annoverata assolutamente tra le virtù.
Rettificato ciò, del ciclo delle stagioni invece voglio rendervi partecipi di una particolarità.
L’Inverno, a mio avviso, è stato pensato con una certa originalità. Si differenzia da tutte le altre tele non tanto per la postura, dove è stato utilizzato lo stesso disegno preparatorio del dipinto del profeta Isaia eseguito tra il 1759 e il 1760 sito nella zona presbiterale della chiesa della Purità di Gallipoli, quanto per l’utilizzo della figura d’una vecchia, che sembra esserne la sorella gemella, dall’uso cromatico di toni cupi e da un tratto pittorico più duro, appunto per significare l’austerità di tale stagione (vedi foto in basso).
Comunque sia teniamo conto della formidabile idea di utilizzare a mo’ di attributi iconografici gli scaldini, o come si chiamavano a Muro “li scarfalettu”, posti: uno tra le gambe, quella visibile con la calza cadente, come era d’uso e l’altro tra le mani, occupa esattamente il posto del libro del profeta Isaia.
Cerchiamo ora di dipanare interamente la matassa e di approfondire l’argomento con deduzioni verosimili. Proprio per i motivi che prima ho descritto la nobil donna, estranea all’ambiente murese, vendette oltre al palazzo anche annessi e connessi.
Il segno, che può fornire una risposta definitiva al quesito prima sollevato e che mi fa pensare che il ciclo allegorico Riccesco provenga sicuramente da Muro e sia una precisa commissione del principe al pittore, non sono tanto le Stagioni, che hanno un chiaro intento decorativo, quanto le Virtù.
Il ciclo, probabilmente realizzato verso la fine degli anni Sessanta del Settecento, si inserisce nella consuetudine, diffusa tra le famiglie nobili, di rinnovare le proprie dimore per ragioni di prestigio. Lo si può immaginare collocato nel grande salone di rappresentanza, al piano nobile del palazzo, circondato da arredi altrettanto sontuosi che non sfiguravano certo accanto alle tele. In questo scenario, il principe accoglieva i suoi illustri ospiti, celebrando il fasto e il potere della propria casata.
Le Virtù, rappresentate nelle opere, possono essere interpretate come un’allegoria dei Frutti del Buon Governo, simbolo dei benefici che il principe, con il suo operato, era in grado di offrire ai propri sudditi. Non era affatto raro, infatti, che uomini di potere commissionassero cicli allegorici di questo tipo per esaltare la propria autorità e il loro ideale di governo.
Descrivo l’allegoria per come l’ho potuta sciogliere ad interpretare:
– Cominciamo con la Giustizia: è d’origine naturale, viene acquisita dalla persona e fa parte delle virtù di governo.
– La Carità verso il prossimo: è d’origine sovrannaturale, e fa parte delle virtù pubbliche.
– L’Amore verso Dio: deve prevalere sull’amore concupiscente e sugli interessi propri.
– Per concludere con l’Abbondanza, vale a dire i frutti del buon governo: che può manifestarsi se le tre virtù sono state attuate degnamente.
Ahilui queste virtù il Protonobilissimo, a quanto pare, non le ebbe mai, tanto che Re Ferdinando IV lo fece chiamare a Napoli, per giusto reclamo d’abusi che l’Università murese aveva presentato al monarca.
Stessa sorte capitò al ben più ampio e maestoso ciclo della “Gerusalemme Liberata” del Finoglio (1590-1645), appartenuto agli Acquaviva d’Aragona di Conversano. Venduto intorno agli anni ‘30 del ‘900, dopo non poche vicissitudini riacquistato dal Comune di Conversano nel 1974, ora fa bella mostra nel castello di quella città per la quale era stato realizzato.
Speriamo che almeno il ciclo allegorico delle “Virtù e delle Stagioni” del Riccio, (pensare anche al resto degli arredi credo sia quasi utopico) abbia la stesa sorte di quello di Conversano e ritorni al Palazzo Protonobilissimo, ora di proprietà comunale.
(Rivisitazione di quanto pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 2, dicembre 2003)
P.s. Liborio Riccio, esponente locale dello stile rococò, si ispirava frequentemente ai suoi artisti “preferiti”, le cui influenze si ritrovano chiaramente nelle sue opere. Primo tra tutti il suo maestro, Corrado Giaquinto (1703-1766), di cui aveva avuto accesso diretto a cartoni e bozzetti. Tuttavia, Riccio non disdegnava di trarre spunto anche da altri pittori, come Francesco De Mura (1696-1782), Francesco Solimena (1657-1747) e Luca Giordano (1634-1705), arricchendo così il proprio linguaggio artistico con suggestioni provenienti da diverse personalità del panorama pittorico napoletano e non solo.
MASINA: l’incredibile odissea etimologica e identificativa di un toponimo brindisino (2/2)
3) ERMANNO AAR1 , Gli studi storici in Terra d’Otranto, in Archivio storico italiano, Nuva serie, tomo II, anno 1878, Viesseux, Firenze, 1878, p. 475 [in una sezione dedicata alla correzione (!) di toponimi].
A appare evidente come ad otto anni dal mansio del Profilo l’Aar gli abbia reso onore italianizzando il suo accusativo (mansionem) con Mansione, a correzione di Masina, ma soprattutto, dell’orribile Massenza. È la prima volta che incontro l’emendamento di un toponimo ispirato da esigenze estetiche, senza, peraltro, ombra di giustificazione fonetica. Ma il danno era già stato fatto dal Profilo.
4) Bollettino della Società geografica italiana, Civelli, Firenze, 1901, v. 2 , p. 305
… del casale di Mansione, distrutto nel medio evo …
Bisogna attendere quasi un secolo per reincontrare Masina sottoposta ad ogni genere di visita ma totalmente trascurata nell’etimo dopo quello profiliano.
5) LUIGI SCODITTI2, Le note storiche sulle contraderurali, in Studi storici su Mesagne e il suo territorio, a cura di Domenico Urgesi, Studi e ricerche della biblioteca comunale” U. Granafei”/2, p. 403
La prima fonte citata è un atto del 1260 presente nel C.D.B. (Codice diplomatico brindisino4). Molto lungo, reca il titolo di Adnotatio bonorum omnim et reddituum ecclesiae Brundusinae facta per Forensem Ruinosum et Iordanum De Pironto de Brundusio statutos per Manfridum Regen administratores eiusdem ecclesiae cum inserta forma Regiarum litterarum (Nota di tutti i beni e redditi della chiesa brindisina fatta da Forese Ruginoso e Giordano De Pironto di Brindisi posti dal re Manfrdi come amministratori della medesima chiesa con la forma inserita delle lettere regie)
Ne riporto il dettaglio.
(Dalla chiesa di S. Nicola di Masina fuori Brindisi una libbra di cera5)
Oltre a questo documento per completezza (o per complicare ulteriormente le cose …) forse va preso in considerazione un altro, anteriore sia pur di pochi anni, sempre riportato dal C. D. B. (nell’edizione citata è il n. 52 a p. 83 del secondo volume). È un atto del 1239 recante il titolo Legatum Presbyteri Sellicti tarenorum auri quatuor quolibet anno solvendorum Capitulo Brundusino (Legato del presbitero Sellitto di quattro tareni d’oro da versare ogni anno al Capitolo brindisino). Ne riporto il dettaglio dal manoscritto (c. 173).
… habeat a Iacono Nicola filio quondam6 presbiteri Leonis de Masine greci7 sacerdotis nepote meo …
(… abbia da Iacono Nicola figlio del fu presbitero Leone di Masine sacerdote greco mio nipote …)
Al di là della mano che appare chiaramente diversa e della ulteriore conferma della presenza del rito greco, appare quasi impossibile attribuire a Masine una valenza patronimica oppure toponomastica.
La seconda fonte citata (M., 1. I, C 19) è un’opera del mesagnese Epifanio Ferdinando8 e fa parte di quelle, numerosissime, a tutt’oggi inedite . Una copia fatta da Ortensio De Leo nel 1752 (a c. 2r si legge: Hortensii de Leo 1752) è conservata nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi (ms. D/13) e reca il titolo di Antiqua Messapografia9.
La c. 3r col titolo mostra in alto a destra 1630, che non può essere che la data di composizione dell’opera presunta, non è dato sapere in base a quali elementi, dal De Leo o, più probabilmente, copiata anch’essa. A c. 64r si legge: Manca il resto nel presente codice lacerato. Troppo poco per capire se si trattasse o meno dell’autografo. Ad ogni buon conto la copia brindisina è l’unica tuttora conosciuta (non esiste traccia dell’autografo), il che mi fa presumere che lo Scoditti faccia riferimento proprio ad essa. D’altra parte, se fosse esistita altra copia, indipendentemente dalla volontà di collazione, sempre daIla brindisina sarebbe partito per la sua vicinanza fisica.
Il secondo controllo ha dato un esito molto simile al primo sulla citazione del Mazzella da parte del Profilo. Ancora una volta lo provo col dettaglio del manoscritto (c. 144r) di seguito riprodotto, appartenente alla sezione intitolata De veteris vicis vulgo casalibus urbi Messapiae subuectus.
Turboli et Masione olim casalia, nunc feuda unum versus Brundusium id est10 feudum Masinae, et aliud versus Uriam in territorio ambo Messapiae, et extat privilegium Regis Ferdinandi fol(ium) 98 in anno 1483 registratum in Cancellaria fol(io) 60, et feudatarii sunt Fornarii, et Baro Turris S(anctae) Susannae.
(Turboli e Masione un tempo casali, ora feudi, uno verso Brindisi cioè feudo di Masina e l’altro verso Oria, entrambi nel territorio di Messapia e resta un privilegio del re Ferdinando, foglio 98 nell’anno 1483 registrato in cancelleria fohlio 60 e sono feudatari i Fornari11 e il barone di Torre S. Susanna.
Dunque il toponimo, come mostra inequivocabilmente l’ingrandimento che segue, non è Mansione ma Masione e non si comprende, oltretutto, come lo Scoditti instauri una parentela strettissima con Masina sulla base di una semplice assonanza e sulle ali dell’eco di statio di profiliana congettura.
L’ingrandimento della parola evidenziata con la sottolineatura nell’immagine precedente fa leggere, inequivocabilmente, Masione (con -a) e non Mansione ( con –ã-).
Prima di procedere debbo soffermarmi un attimo, come avevo promesso in nota, sul punto interrogativo presente nella trascrizione dell’originale e, com’era naturale, nella traduzione.
Il segno evidenziato non è una nota a margine, peraltro mancante, ma un’abbreviazione per id est, secondo l’uso cinquecentesco presente anche nei testi a stampa.
Il passo appena riportato, poi, appare importante anche ai fini della individuazione della posizione di Masione. Le coordinate fornite non lasciano dubbi: ia differenza di Turboli che è verso Brindisi (dunque tra Mesagne e Brindisi), esso è verso Oria (dunque tra Mesagne e Oria), il che escluderebbe la sua identificazione con Masina, indipendentemente dal significato storico di feudo, sia che esso sia riferibile a tempi anteriori (olim) al Ferdinando o a lui contemporanei (nunc).
Nella mappa che segue ho sintetizzato quanto appena detto con l’aggiunta di M1 per Torboli e di M2 per Masione.
Lo Scoditti, poi, al quale va, comunque, riconosciuto il merito di essere stato il primo a ricordare le due e uniche fonti, per corroborare la sua tesi, cita Carabellesi12, il quale, a sua volta, si rifà, senza citarlo, a quanto si legge nel Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange, Favre, Niort, t. V, ai lemmi mansio, mansus e massa13.
Nell’ultimo capoverso, infine, Nel Duecento ritira in ballo lo stesso dello stesso documento citato all’inizio.
6) DOMENICO NOVEMBRE, Ricerche sul popolamento antico nel Salento con particolare riguardo a quello messapico, Milella, Lecce, 1971, p. 108
… tutti gli insediamenti rurali purtroppo in gran parte ignoti, anche se molti sono dimostrati dalla toponomastica prediale o da ritrovamenti archeologici; così, oltre a quello che possono suggerire i topmimi (tra Mesagne e Brindisi si conosce l’esistenza del casale di Mansione, impressa nel toponimo mass Masina) …
7) CESARE MARANGIO, La romanizzazione dell’ager Brundusinus, in Ricerche e studi 8, s. n., Brindisi, 1975, p. 117
… Più fitto appare il popolamento a sud dell’Appia; procedendo sempre da Brindisisiincontrano tracce di villae, principalmente di età imperiale a Masina (II-V sec d. C.; N. 11) ..
Riproduco di seguito dal testo la fig. 1, dove ho evidenziato con l’ellisse la posizione di Masseria Masina.
8) MARIA APROSIO, Archeologia dei paesaggi a Brindisi: dalla romanizzazione al Medioevo, SEU, Pisa, 2005, p. 220
Masseria Masina.La località è citata da un documento del 1200 a proposito della chiesa di San Nicola di Masina (CDB vol 1, n.78 ) . Il toponimo moderno secondo L. Scoditti deriva dal Casale di Mansione noto da un documento del 1487, che sarebbe da mettere in relazione con la presenza di una mansio. Secondo C. Marangio a Masseria Masina c’era una villa di età imperiale nel II-IV14 d. C. da identificare con le UT 180-189.
Dopo tre anni in Archeologia dei paesaggi a Brindisi: dalla romanizzazione al Medioevo, Edipuglia, Bari, 2008, p. 199
… casale di Mansione citato in un diploma di Ferdinando I del 1487. Questo toponimo richiama la presenza di una mansio la cui esistenza era già stata ipotizzata per l’insediamento romano situato a metà strada tra Mesagne e Brindisi. …
L’autrice nella prima pubblicazione elimina opportunamente la ripetizione presente nello Scoditti (e che poteva ingenerare confusione con altro documento esistente e genericamente indicato), ma nella secondo la data del diploma è passata al
1487 da quella corretta, 1483, tramandataci, come ho prima riportato, dal Ferdinando.
9) STEFANIA PESCE,La viaabilità romna nel Salento: una rilettura alla luce dei più recenti progressi nel campo della ricerca archeologica, in Spring Archaeology, Atti del Convegno, Siena 27-29 ottobre 2022, Archaeopress, Oxford, 2024, p. 120.
… a metà strasa tra Masseria San Giorgio e Masseria Masina. L’area, oggetto di scavo alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ha restituito una serie di ambienti con funzioni diverse gravitanti attorno ad una cisterna per la raccolta dell’acqua, poi destinata a magazzino per cereali (Volpi 1944: 69-80). In base alle caratteristiche strutturali e vicinanza all’asse viario, p stato identificato come un vicus di età tardo romana (III-IV secolo) all’interno del quale vi era una stazione di sosta per i viandanti che si dirigevano a Brindisi (Figura 7). La sopravvivenza del toponimo nella vicina Masseria Masina, nei pressi della quale bel Quattrocento è citato un casale denominato ‘di Masione’, farebbe pensare all’effettiva presenza in passato di una mansio lungo percorso della via Appia (Scoditti 1961: 40)
A parte il fatto che nello Scoditti (vedi n. 6) si legge un casale di nome Mansione, qui è diventato denominato “di Mansione” (su richiesta spiegherò la differenza a chi ritiene equivalenti le due locuzioni), evito di riprodurre la citata Figura 7 (oltretutto poco chiara) dopo quell’altra, meno pulita, rimediata ad Oxford, sempre che almeno lì non si siano abituati ad accettare come oro colato un altro ferro ancora più arrugginito (dopo tanti anni è normale) di quello profiliano.
Resto con un’angosciosa domanda: il passaggio dal Masenza del Profilo al Massenza dell’Aar è da attribuire ad un aumento della piovosità tra il 1870 e il 1878, con conseguente ingrossamento del fiume, prima di passare ad essere, spero per sempre …, il macilento Masina? Se qualche esperto pluviologo senza dati storici alla mano mi può aiutare …
P. S. (pure questo! …) Ulteriori risultanze archeologiche potrebbero integrare i dati acquisiti a riprova della bontà di un’ipotesi induttiva piuttosto scontata (statio nei pressi della via Appia e di un corso d’acqua). Nel contempo, non escludendo a priori l’origine prediale, andrebbe operata una ricerca mirata sugli atti notarili15). Per quanto può valere il mio giudizio, tuttavia, per me nulla cambierebbe (In fondo, se qualche volta pure un mago l’indovinano, perché non dovrebbe capitare ad un Peofilo di turno?) in permanenza del machiavellico principio che conta il merito (cioè il risultato, anche se frutto di pura, fortuita e fortunata combinazione) indipendentemente dal metodo. E quella merce astratta, che si chiama acribia e che è figlia della competenza sempre assistita dall’onestà intellettuale, già rara in passato e non parca nell’uso di avverbi come forse, probabilmente e, per quanto riguarda i verbi, del modo condizionale, rischia, paradossalmente, di annegare proprio a causa di quegli strumenti, oggi soprattutto informatici, che consentono una diffusione rapida ed agevole della conoscenza, quella sorretta almeno da serietà d’intenti.
1 Pseudonimo di Luigi Giuseppe De Simone (1835-1902), magistrato leccese.
2 (1896-1973)
3 Il saggio è reperibile integralmente in rete, ma in esso non compare la data di pubblicazione, anche se nella presentazione si legge che, fino allora inedito, era pronto nel 1961. Sul sito della biblioteca (https://www2.comune.mesagne.br.it/libri/biblioteca_comunale.htm), poi, il pulsante CATALOGO BIBLIOTECA porta ad una pagina che, se fosse stata trattata col latte di calce, sarebbe meno bianca.
4 Il manoscritto originale, del XVIII secolo, custodito nella biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi, consta di quattro volumi (mss. B57, B58 e B59). In essi sono raccolte copie di documenti antichi riguardanti Brindisi; in particolare quelli del primo volume vanno dal 492 al 1299, quelli del secondo dal 1304 al 1397 e quelli del terzo dal 1406 al 1499. Fu pubblicato a cura di Giovanni Maria Monti il primo volume, di Michela Pastore Doria il secondo e di Angela Frascadore il terzo per i tipi di Vecchi & C. a Trani nel 1940; ristampa fotolitica nel 1977; successivamente a tale data i volumi tranesi sono stati ripubblicati singolarmente con l’aggiunta della nota introduttiva degli ulteriori curatori. Nell’edizione del 1977 il documento in questione è il n. 78 e a p. 142 del primo volume.
5 La più frequente tra le pene pene comminate dal vescovo (Nei casi più gravi erano previsti il carcere e la scomunica) c’ersa anche la fornitura di una certa quantità dI CEera.
6 Del quondam qui appare solo la q iniziale perché la digitalizzazione perfetta avrebbe compromesso l’integrità della carta.
7 Di greci è visibile solo la g iniziale per la stessa ragione addotta nella nota precedente.
8 (1569-1638). Opere edite : Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611; De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Muzio, Napoli, 1612; Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni, Venezia, 1621; Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626).
9 Nessun riferimento al nostro toponimo è in Messapographia sive historia Messapiae di Digo Ferdinando (1611-1662), figlio di Epifanio . A differenza dell’opera del padre, rimasta inedita, l’autografo di Didaco (Diego), che feca la data 1655, è stato pubblicato da Domenico Urgesi, suo scopritore, col titolo Messapografia, ovvero Historia di Mesagne (1655), Società storica di Terra d’Otranto , Lecce, 2020. Nulla pure in Profilo historico dell’antichità di Mesagne, opera manoscritta del 1760 di Serafino Profilo, custodita nell’ Arrchivio della pa55occhia matrice di Mesagne.
10 A questo punto del manoscritto si legge una lettera preceduta e seguita da un puntino in posizionec entale. Su questo dettaglio vedi più avanti.
11 Su questa nobile famiglia brindisina di lontane origini genovesi vedi, per l’anno 1240, Pietro Vincenti, Teatro de gli huomini illustri che furono Protonotarii nel Regno di Napoli, Sottile, Napoli, 1607, p. 48-51 e Giambattista Lezzi, Ferdinando Forbari di Bribdisi , in Biografia degli uomimi illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1816,. t. III, s. p.
12 Senza il nome secondo un vezzo confidenziale ormai consolidato (pure di Einstein probabilmente, esisterà qualcuno con lo stesso cognome, anche se meno famoso di Albert, il quale, peraltro,potrebbe essere non a tutti noto …) la voglia di un controllo. Poi arriva un oscuro ex insegnate di latino e greco mezzo rincoglionito dall’età Sospetto, però, che sia un tacito accordo per scoraggiare, stavo per dire impedirere , ai non addetto ai lavori (gli addetti si guardano bene dalla reciproca invasione degli orticelli …) un controllo sulla scorta di dati bibliografici completi. Comunque, per tornare a Carabellesi, si tratta di Francesco, ma debbo notsare che, come già per il Ferdinando, l’indicazionEnon è preciso nemmeno il titolo dell’opera che è L’Apulia ed il suo comune nell’alto Medioevo, 1960, La citazione è tratta da p. 26.
13 Ne approfitto per ricordare che tutti e tre i lemmi sono connessi al latino mansus (participio passato di manère=restare) secondo una collaudata tecnica si formazione (p. e.: tèndere>tensus>tensio>italiano tensione; prèmere>pressus>pressio>italiano pressione, etc. etc.; in particolare mansio ha dato vita, attraverso il francese maison, all’italiano magione.
14 II-V si legge nel testo del Marangio.
15 Se di prediale si tratta, infatti, la sua origine dovrebbe essere relativamente recente e non riguarderebbe la centuriazione romana, data l’assenza del quasi canonico suffisso in –ano, nonostante una gens Masina sia attestata nelle antiche Dacia e Pannonia (CIL 03, 10765; CIL 03, 07644 e CIL 03, 10765)..
Una cappella in agro di Monteroni: S. Oronzo delli Franchi
Distante all’incirca due stadi dal centro abitato di Monteroni, fu eretta nel 1729, nel pieno periodo dell’incremento del culto di Sant’Oronzo, da Nicola Franco nel suo vigneto in località Le Vetrite a Monteroni.
“Essa era dotata di un altare di pietra (…), di un dipinto di S. Oronzo, dei simulacri lapidei dei Santi Fortunato, Giusto e Irene”. A. Putignano afferma che l’edificio era “lungo 26 palmi e largo 19” ed accogliente, con chianche in pietra calcarea, tre finestre, una sola porta ed un campaniletto ad arco. La struttura era coperta a volta. Inoltre, “un legato vi era stato fondato dal Franco il 2 settembre 1729”.
Nella breve ma esaustiva descrizione effettuata dal Putignano, si evince come fosse importante il culto di Sant’Oronzo in Terra d’Otranto: la cappella, pur non essendo sempre in ottime condizioni strutturali, era sempre provvista di arredi sacri e di campana. Oltre a questo, la cappella fu restaurata e dotata di catene di sostegno dalla famiglia Spedicati nel XIX secolo.
Una breve analisi ricostruttiva
Sarebbe difficile risalire alla localizzazione della cappella senza avere un campo più o meno circoscritto; fortunatamente il Putignano non solo ci fornisce la denominazione storica della zona, come già anticipato denominata le Vetrite e situata presso il feudo disabitato di Malcandrino, ma testimonia precisamente come l’edificio fosse collocato lungo la strada retrostante Villa Bruni, tutt’ora intitolata a S. Oronzo.
La storia della chiesetta cessò a causa di un cedimento della struttura, già da tempo fatiscente nonostante le cure dei proprietari. Dal crollo si salvò soltanto la tela raffigurante il santo titolare, oggi custodita presso la chiesa di Maria SS. Ausiliatrice.
Le misure fornite nella descrizione, convertite in metri, corrisponderebbero a una lunghezza di circa sei metri e a una larghezza di poco meno di cinque metri. Dimensioni simili ho osservato in uno spiazzo situato lungo la stradina che ospitava la cappella: sulla destra di quest’ultima si trova anche un pilastro a base quadrata, che conserva i resti di quella che sembra essere stata la base di una volta. Che possa trattarsi di un pilastro portante dell’antica cappella di S. Oronzo?
Presicce. La colonna votiva dedicata a S. Andrea Apostolo
La colonna votiva, dedicata a S. Andrea Apostolo, si trova nella piazza antistante la parrocchiale, in uno degli angoli più belli del paese.
Nel Salento questa tipologia di monumenti è assai diffusa. Celebre è la colonna di S. Oronzo del capoluogo, ma in quasi tutti i centri ne esistono o ne esistevano diversi esempi.
La diffusione delle colonne votive conosce grande fortuna nel periodo barocco, anche se è un fenomeno che comincia già nel Medioevo, con gli Osanna e le pietre fitte. Esse derivano direttamente dagli apparati effimeri (installazioni temporanee, in legno, cartapesta, stoffa o ghirlande vegetali) realizzati in occasioni di feste (mondane o religiose), processioni, funerali, ecc. Questi apparati, diffusissimi in epoca barocca, spesso progettati da illustri artisti (sono documentati apparati progettati anche dal Bernini), non di rado vengono tradotti in pietra, legno o stucco, decorando in modo permanente facciate e altari e, spesso, veicolati da bozzetti o incisioni, giungono anche nei piccoli centri.
A Presicce erano presenti diverse colonne votive. Nella piazza antistante la chiesa del Carmine, ad esempio, esisteva una colonna sormontata dalla statua lapidea della Vergine, oggi scomparsa, eppure sul finire del XIX sec. «diruta ma sistente»[1].
Ancora, vi era quella di S. Vincenzo Ferreri, collocata lungo la strada che conduceva ad Acquarica – l’attuale via Gramsci – poi distrutta per l’apertura di via della Repubblica nel ‘900. Oggi, la scultura lapidea del santo domenicano, orribilmente imbrattata, è custodita in un’edicola votiva di una privata abitazione.
Un’altra colonna votiva, tuttora esistente, è quella del Padre Eterno, che sorge nell’omonima piazzetta. In questo caso si tratta del riutilizzo di un’antica pietrafitta, probabilmente sormontata in origine da una croce: queste strutture, nate nel medioevo, prendono il nome di Osanna, per il fatto che la Domenica delle Palme erano il punto di ritrovo del corteo che con i ramoscelli benedetti intonava la celebre antifona.
Quando nel Settecento fu demolita l’antica parrocchiale per far posto all’attuale chiesa, gli antichi altari vennero smembrati e dispersi e la seicentesca statua lapidea raffigurante il Padre Eterno venne collocata sull’antica stele in quel rione.
La più importante colonna votiva è però quella dedicata a S. Andrea. Essa ha una genesi solo all’apparenza meno complessa: l’imponente monumento è dedicato al santo patrono; è uno dei più alti esempi di barocco leccese e venne fatto realizzare nel XVII secolo dalla nobile famiglia Bartirotti Piccolomini d’Aragona, principi di Presicce.
Diversi sono i racconti legati al motivo per cui il feudatario abbia commissionato l’opera: secondo quanto riportato da Carmelo Sigliuzzo (del quale però non ho trovato riscontri negli archivi parrocchiali), Gianfilippo Bartirotti, principe di Castellaneta, dopo il matrimonio contratto con D. Maria Cyto Moles – baronessa di Presicce, Salve e Pozzomauro, nel 1613 prese dimora nel castello di Presicce con la moglie e il figlio primogenito Andrea.
Sempre secondo il Sigliuzzo, all’età di quattro anni morì il piccolo Andrea, evento che indusse il principe a far erigere una colonna votiva a S. Andrea Apostolo in memoria del compianto figlioletto[2]. Tuttavia, l’analisi artistica del monumento ci porta a far slittare la sua costruzione alla metà del XVII secolo (pur considerando le preesistenze) e, mancando altri riscontri storici, è difficile collegare l’erezione del monumento all’ipotesi proposta dal Sigliuzzo.
Si tratta di un basamento ornato da fregi e mascheroni, sormontato da una balaustra, con agli angoli quattro putti in rilievo. Il lato sud reca lo stemma araldico dei Bartirotti, il lato nord reca uno stemma di difficile interpretazione, in quanto fortemente eroso.
I lati est e ovest recano rispettivamente un cartiglio ormai illeggibile. Sulla balaustra, ai quattro lati, quattro figure, probabili virtù, tre delle quali acefale, sovrastano dei pilastri recanti dei putti a rilievo.
All’interno della balaustra vi è un poderoso plinto che sorregge quattro figure leonine e due cherubini (disposti sui lati est ed ovest, mancanti nei lati nord e sud); da essi si sviluppa una massiccia colonna e un ricco capitello corinzio che sorregge una base decorata, sormontata dalla statua del Santo pescatore.
Sul plinto, sui lati nord e sud sono disposte rispettivamente due epigrafi, ormai illeggibili. Il fusto, il plinto e lo zoccolo sono in carparo, mentre le figure, il capitello, la balaustra e i bassorilievi, sono in pietra leccese.
La differenza tra le due tipologie di pietra, necessaria per ottenere dettagli nel modellato, era attenuata da finiture cromatiche che interessavano, come consuetudine, le superfici lapidee. Dalle indagini eseguite sul monumento, infatti, è emerso che i conci di carparo erano trattati con una scialbatura, al fine di uniformarli alle porzioni in pietra leccese.
Il Santo è raffigurato con la convenzionale iconografia che lo presenta vecchio, con una folta barba riccioluta, abbigliato all’antica; la mano destra regge un lembo del panneggio, mentre la sinistra reca il libro, attributo degli Apostoli, e un grosso pesce, emblema iconografico del Santo. Sulle spalle, poi, sono visibili i resti della croce decussata, mentre un dettaglio assai particolare è rappresentato dal piede destro, che calpesta un libro. Questo singolare particolare apre a diverse ipotesi di lettura: la mia idea è che rappresenti l’eresia calpestata dalla vera fede, personificata dall’apostolo.
Interessante notare come vi siano altre raffigurazioni coeve in cui in Santo è presentato nell’inconsueta raffigurazione del libro calpestato: il riferimento è ad un S. Paolo della chiesa di S. Francesco di Paola di Gagliano del Capo. Peraltro, sia la scultura gaglianese, sia il nostro S. Andrea sono da ricondursi al celebre scultore Placido Buffelli (1635-1693), uno dei protagonisti della stagione del barocco in Terra d’Otranto.
Interessanti, quanto insoliti, sono alcuni particolari del capitello corinzio: ai quattro lati le volute prendono la forma di quattro ippocampi, la cui testa sbuca dal ricco fogliame (la presenza dei cavalli marini potrebbe essere un rimando al santo pescatore); al centro del capitello il fiore dell’abaco è sostituito dalla figura di un aquilotto svolazzante, probabile riferimento al salmo (Sazia di beni la tua vecchiaia, come aquila si rinnova la tua giovinezza. Sal. 103).
Come già accennato, tra le quattro figure leonine alla base della colonna, sul lato est e sul lato ovest vi sono le figure di due cherubini, mentre i lati nord e sud presentano uno spazio vuoto. Eppure in una foto degli inizi del secolo scorso è visibile uno scudo araldico con lo stemma del feudatario, ma di questo particolare andato perduto non abbiamo più notizie, come anche delle tre teste mancanti delle figure dei quattro angoli della balaustra, per quanto alcune ricerche hanno evidenziato che agli inizi del ‘900 le due figure del lato sud presentavano entrambe la testa. Con molta probabilità le tre teste mancanti, le mani e gli attributi iconografici, delle figure sono andate perdute nel tempo, essendo facilmente accessibili e decisamente minuti e fragili.
Sui lati nord e sud del poderoso plinto sono visibili delle lastre aggettanti, ciò che resta di alcune epigrafi rese illeggibili da segni di scalfiture. La presenza di questi elementi all’interno della balaustra suggerisce che c’è stato un tempo in cui il plinto era sprovvisto di quest’ultima e questo consentiva la lettura del testo delle epigrafi.
Durante i lavori di consolidamento degli anni ‘80 del ‘900 vennero smontati il basamento e la balaustra: quest’apertura rivelò che il plinto è precedente e prosegue con una modanatura all’interno della struttura. Questo aspetto apre diversi interrogativi: personalmente, credo che l’attuale colonna, opera del Buffelli (statue, capitello, leoni, balaustra e cornici), inglobi i resti di un monumento preesistente, con ogni probabilità il basamento di una precedente colonna votiva, sostituita nella seconda metà del XVII sec. con l’attuale.
Il 30 novembre del 2022 le intense piogge e le forti raffiche di scirocco causarono il distacco e la rovinosa caduta della raggiera del santo, che si frantumò al suolo. L’episodio, letto dal popolo come infausto presagio, dato che avvenne nella mattinata del giorno della festa del santo, in realtà ha un ché di miracoloso, dato che non ci furono incidenti (basti pensare che nella serata precedente la piazza era gremita di gente, accorsa per l’uscita della processione e che solitamente, il giorno della festa questo luogo è sempre affollato).
Le precarie condizioni conservative del monumento e, nello specifico, le fessurazioni che interessavano la raggiera erano state più volte evidenziate, ma questo non sortì grandi attenzioni, e, come spesso accade, si finisce a lavorare solo nell’emergenza, così è stato necessario uno sprone dall’alto per sollecitare un restauro.
Ora la raggiera frantumata in diversi pezzi è conservata in una teca nella parrocchiale e sulla statua è visibile il grosso perno metallico che la assicurava ad essa.
Premesso che non è più possibile (per ovvi motivi tecnici) ricollocare la vecchia raggiera, lo stato di fatto ci pone davanti a un interrogativo, che deve trovare la risposta nella duplice funzionalità del restauro (conservativa da un lato, denotativa e connotativa dall’altro). Infatti il restauratore, quando esegue un intervento di conservazione (pulitura, consolidamenti, ecc.), è chiamato ad affrontare l’altrettanto delicato (quanto rischioso) lavoro di perpetuazione dell’opera e della sua leggibilità, attraverso risarcimenti e integrazioni plastiche e cromatiche che restituiscano al manufatto, per quanto possibile, la lettura e il recupero dei suoi valori formali.
Nel monumento vi sono diverse porzioni di modellato mancanti e numerose erano le lacune, grandi o piccole. Con il recente restauro, le piccole lacune e le stilature dei giunti sono state risarcite mediante nuove stuccature, mentre le porzioni più voluminose e soprattutto gli elementi irriproducibili, perché unici (le teste e le mani delle tre figure acefale, gli stemmi araldici mancanti, le porzioni del panneggio e della croce del santo, ecc.), non sono stati ricostruiti, seguendo la logica del “minimo intervento” e della irriproducibilità dell’ornato.
Per quanto i due concetti di “minimo intervento” e di “fruizione e lettura” sembrino contrapposti fra loro, in realtà essi sono complementari. Gli attuali orientamenti concettuali della disciplina, infatti, si muovono in prevalenza nella direzione della conservazione, vista quale unica garanzia di salvaguardia di tutta la “materia originaria” e, con essa, dei valori storici e documentari dell’opera. In altre parole, la scelta è di privilegiare una sola delle due istanze brandiane – quella storica – negando una serie di opportunità, come, appunto, la possibilità di agire per la corretta lettura dell’opera. L’appiattimento su una sola istanza rischia, quindi, di negare all’opera il recupero dei suoi requisiti formali (e simbolici) necessari per una corretta lettura e comprensione, riducendo l’opera d’arte a reperto archeologico.
Dopo anni di attività nell’ambito della conservazione dei beni culturali, alla questione fra conservazione e minimo intervento e recupero funzionale dei valori formali dell’opera, posso affermare con convinzione che non esiste una verità assoluta ma una risposta che viene di volta in volta suggerita dall’opera stessa, dalla sua storia e dalla sua fruizione (destinazione d’uso).
Nel restauro non esistono regole assolute dalle quali dedurre risposte automatiche, poiché ogni intervento rappresenta un caso a sé. Il caso del monumento di Presicce ne è un esempio emblematico: la ricostruzione della raggiera divide le opinioni, ma permetterebbe alla figura del santo di recuperare l’originario equilibrio compositivo oltre che iconografico.
Nello specifico, non esiste il rischio di “falso storico”: da un lato, infatti, vi è abbondante documentazione fotografica ed esiste ancora, se pur ridotta in frammenti, l’originale, e dall’altro, disponendo oggi di numerosi materiali e tecnologie che consentirebbero di realizzare una copia dell’originale raggiera, l’intervento obbedirebbe ai due concetti di riconoscibilità e reversibilità dell’integrazione.
Note
[1] Vito Stendardo, La Chiesa ed il convento dei Carmelitani di Presicce, ed.Leucasia, 2007.
[2]I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di RUPPI F., vol. I, ed. Grifo, 2010.
La cripta e la chiesetta di masseria “Santoria” in quel di Torre Santa Susanna
Ci lasciamo alle spalle la campagna immota e vasta che fa silente mostra di sé dalle parti di “Sant’Antonio alla macchia”, a Nord-Ovest di San Pancrazio Salentino.
Sotto un sole di primavera che riscalda più del dovuto, ferme stanno le chiome dei pini che, a punti, si aggrumano boscosi conferendo amenità al paesaggio della Piana Messapica, che qui risplende alla grande. Fa apertamente trasparire la bellezza sua la terra lavorata intensamente. Calore raggiante si leva dai campi: per fortuna non vediamo i danni della Xylella, il fastidiosissimo batterio che sta colpendo il Salento intero.
Inoltrandosi nelle contrade olivate, o condotte a seminativo, l’energia che trasmettono non ci lascia indifferenti. Entrati a “Carcarone”, l’area il cui nome rimanda alla fornace da calce, un’occhiata alla carta dei beni archeologici ci segnala la presenza di una specchia, scoperta in séguito a saggi di scavo di una costruzione a pianta circolare in conci di tufo. Il luogo viene appellato “Sant’Angelo”. Superatolo, prendendo sentieri appena tracciati, ci dirigiamo verso la nostra meta, individuata per le sue emergenze culturali.
La masseria “Santoria”, quella vecchia (la nuova le sta non lontano, in agro di Mesagne, e ha tracce di una villa di età imperiale o tardo-antica), si fa notare per l’imponenza del fabbricato e per i recenti interventi di ampliamento a scopo agrituristico e ludico-ricreativo (“Castell Favorito”).
La struttura, completamente ammodernata, ricade nel feudo di Torre Santa Susanna, ma alcuni fondi debordano nel contermine sanpancraziese. Per una inezia, infatti, la cappella è fuori confine.
Colpisce per la scenografia che le è stata assegnata. La coppia di campaniletti, uno cieco l’altro con squilla d’ordinanza, fa teatro di rurale compagnia. L’affiancamento, nel racchiuso sagrato, dei parallelepipedi lapidei di apiario (qui spostati per far ambientazione rusticana), rende bene l’idea di voler ricreare una certa atmosfera. Il tronco di una autentica colonna romana, appoggiato sul muro di recinto che indulge a balaustra (c’è la chiesa, no?), conferisce dignità d’antico al sito, che trasmette un’aria classicheggiante che non guasta, anzi accresce il coinvolgimento.
Mettendo piede nell’auletta delle evaporate liturgie (cattolico-apostoliche, ovviamente) la sensazione di raccoglimento ti prende.
L’inginocchiatoio, il quadro di Maria Vergine (anche se non è l’originale, trafugato a suo tempo), l’altare tozzo, le pareti tufagne, la volta a botte: tutto rientra nel canone delle vecchie orazioni di masseria. Il tocco artistico del contemporaneo regista della rinascita del tempietto è lì a dirci che c’è ancora chi vuole a tutti i costi preservare (reinterpretandola) l’anima del luogo.
Far rivivere, con le esigenze proprie dell’oggi, quel passato devozionale dunque è lecito, basta intendersi che è una operazione di carattere culturale, benedetta sempre.
La stessa volontà di preservare i segni della fede, questa volta davvero remoti, a “Santoria” l’abbiamo evidente e “raddoppiata”.
La pulizia effettuata, il conseguente risanamento della cavità (artificiale) in campo magnificamente racchiuso, cesellato in pietre a secco, ha reso possibile di tenere lontano da manomissioni l’ambiente della cripta, che ha subito nella sua lunga durata improprie utilizzazioni. Per accedervi si passa sotto la porta architettata a monumento.
L’ingresso nella calcarenite è favorito da praticabile scalinata. Vagamente rettangolare è lo spazio abitabile, bipartito da pilastri quadrangolari su cui si intravedono lacerti anneriti di pitture. Le incrostazioni sono troppo pesanti.
Non potendo più ammirare le figure ieratiche di san Giovanni (il Battista), benedicente alla greca, e di san Leonardo (l’eremita del Limosino francese), effigiato con libro e catena (essendo il protettore dei carcerati), dobbiamo accontentarci delle fotografie dei testi di studio. Solo così ammireremo l’affresco del Cristo che instrada l’orante: “Ego sum via et veritas“.
Le parole in latino del Signore pongono l’utilizzo dell’incavo nella fase più tarda del trogloditismo rupestre. Peccato che dell’Evangelio dei monaci sia rimasta incisa solo una croce assalita dal verde.
La “buona novella” l’annuncia ugualmente quel simbolo indistruttibile di incarnata pietà, di vicinanza del Figlio dell’Uomo crocifisso per noi.
Deo gratias!
MASINA: l’incredibile odissea etimologica e identificativa di un toponimo brindisino (1/2)
La storia che mi accingo a documentare di quella che per me rischia seriamente di essere una favoletta, è comunque emblematica di come il campanilismo esasperato, spesso ispirato da inconfessabili interessi, generi non solo i simpatici aneddoti con cui popolazioni vicine celebrano reciprocamente la loro presunta intelligenza, più spesso furbizia, contrapposta alla dabbenaggine altrui, ma induca in irresistibile tentazione pure gli storici di professione o, almeno, come tali riconosciuti.
Il fenomeno per motivi facilmente immaginabili è ravvisabile soprattutto tra gli storici locali e, sotto questo punto di vista, Nardò può vantare il suo più famigerato che famoso campione in Giovanni Bernardino Tafuri. Ma, se Nardò piange, Mesagne non ride …
Di seguito la cronotassi degli studi che si sono occupati dell’argomento sintetizzato nel titolo. Volta per volta aggiungerò le mie osservazioni e credo che il lettore comprenderà subito i miei continui rimbalzi, degni di una pallina da flipper, da un autore all’altro e dall’altro all’uno. I numeri che precedono ognuna delle tappe hanno il compito di agevolarlo in questa sorta di spola.
1) FRANCESCO MARIA PRATILLI1, Della via Appia da Roma a Brindisi, Napoli 1745, p. 493
2) ANTONIO PROFILO2, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, Tipografia editrice salentina, Lecce, 18703.
Siccome è proprio di questo autore la mistificazione più clamorosamente palese, ho ritenuto opportuno riprodurrei in formato immagine i dettagli dei brani coinvolti, nei quali. come in tutti quelli nei quali ho ritenuto opportuno seguire tale procedura, le evidenziature hanno lo scopo di rendere immediatamente visibile al lettore l’elemento principale. A p. 113 del primo volume, dopo aver riportato in sunto il Pratilli (vedi n. 1) con citazione corretta4 degli estremi bibliografici nella nota n. 12, di seguito scrive la parte che ho evidenziato col suo tratto finale (a partire da Masenza virgolettato).
Anche qui gli estremi bibliografici sono correttamente indicati nella nota n. 13:
In virtù delle virgolette di cui sopra chiunque si sarebbe atteso una citazione fedele.
E, invece, nel testo del Mazzella (lo riporto da Descrittione del Regno di Napoli, Cappelli, Napoli, 1586, p. 117, ma in tutte le altre edizioni il testo non cambia di una virgola; oltretutto bella nota il n. di p. 191 è in realtà il 186 dell’edizione sempre Cappelli, ma del 1601) si legge:
La cosa più grave, però, peccato mortale rispetto a quello veniale di gioventù che tempo fa ho stigmatizzato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/10/28/mesagne-laccademia-degli-affumicati-antonio-profilo-e-il-suo-quasi-plagio-nascosto-nel-poliorama-pittoresco/), è che la lettura fasulla fu perpetrata consapevolmente per confortare truffaldinamente un’ipotesi di lavoro, attribuendo ad un autore cosa da lui mai scritta; il tutto fidando nell’assenza di un increscioso controllo, peraltro, ai suoi tempi, non certo agevole materialmente pur in presenza di adeguata competenza. Poteva il Profilo immaginare che un anonimo (nel senso di sconosciuto, visto che firmando questo post, mi sono assunto tutte le responsabilità del caso) col supporto della rete ed in particolare del suo patrimonio di libri, e non solo, digitalizzato avrebbe un giorno neppure tanto lontano stigmatizzato una congettura che sarebbe più consono definire confettura adulterata, vale a dire frutto di una malafede che la scienza, direi per genetica avversione, dovrebbe aborrire? Certamente no, visto che anche autori del nostro tempo incorrono nello stesso peccato. per non parlare dei sedicenti divulgatori ed esperti imperversanti in tv, accattoni e piazzisti orgogliosi di sventolare il loro ultimo (purtroppo non nel senso che intendo io …) capolavoro.
Ormai lanciato sulla scia di questo Masenza, figlio degenere dell’incolpevole originale ma senza, lo storico mesagnese così prosegue (qui basta e avanza la trascrizione): Non essendoci notizie più precise intorno à questo fiume, noi congetturiamo che questo dovette negli antichi tempi avere la sua sorgente verso Torre S. Susanna percorrendo le campagne di S. Pancrazio e di Cellino, e di qui traversando quelle di Mesagne e Brindisi costeggiava il distrutto casale di Mansione (oggi masseria Masina) che in origine fu una delle fermate (mansio) lungo la via Appia mediterranea. Nel Medio Evo questo fiume essendosi nella massima parte esiccato cominciò ad appellarsi torrente di Masina, e canale del cefalo in questa parte verso Brindisi; e verso Cellino e Torre S. Susanna il predetto Corcia vuole si fosse appellato Canale del terzo, ed altri scrittori Cava. In verità dalle assunte informazioni questi due ultimi nomi s’ignorano affatto dagli abitanti di quei luoghi; epperò o non mai esistettero ovvero si sono convertiti in altri. Cero è però che percorrendo oggidì le campagne per dove si distendeva questo fiume, evidentemente si osserva il suo antico letto.
Dopo essersi affaticato col fonte, diventato la fonte di questo fantomatico Masenza, il Profilo diagnostica un dimagrimento del fiume (nella massima parte esiccato) responsabile di quello successivo del nome. A questo punto non si capisce se l’autore si riferisca ad un presunto passaggio Masenza>Masina o Mansione (da mansionem, accusativo del nominato mansio)>Masina. Se quest’ultimo passaggio fosse stato ispirato dalla contrapposizione, immaginata ma filologicamente inesistente, tra un presunto suffisso accrescitivo ed uno, altrettanto presunto, più che di paretimologia si tratterebbe di un errore ancor più clamoroso di quello, strumentale, di lettura da cui tutto è partito.
La solfa continua nel secondo volume, dove a p. 26 si legge: I Mansione(oggi Masseria Masina) e nella pagina successiva I Mansione. Del villaggio di Mansione sulla via che da Mesagne conduce a Brindisi avemmo l’opportunità di dare antiche notizie a noi pervenute. Impiantato ad oriente di Mesagne distava circa otto chilometri, a cavaliere del fiume Pactius, indi torrente di Massenza o Masina. Conservasi un privilegio di Ferdinando I d’Aragona, ricordato pure da Diego Ferdinando (2)5 e spedito nel castello nuovo di Napoli ai 10 ottobre 1487, per lo quale si concedeva al nobile Giovanni Greco di Ugento, pei servigi da lui prestati alla reale Corona, il villaggio appellato Mansione, e l’altro di cui parleremo di qui a poco, appellato Surbole6 … Infine il medesimo Ferdinando (3)7 riferisce, che ai tempi suoi questo feudo si possedeva dalla famiglia Pornerio8.
(2) Messapogr. tom. 2, lib. 2, cap. 2
La nota (2) fa riferimento alla Messapographia sive histotia Messapiae di Diego Ferdinando (1611-1662), rimasta a lungo manoscritta e pubblicata pochissimi anni fa9. Ne riporto il passo, in vista di un ulteriore confronto che farò più avanti, riprodotto dalla copia custodita nella Biblioteca “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/14).
Eadem Regina 10 Serenissimi Ferdinandi Regis Uxor concessit nobili Francisco11 Greco de Ogento duo feuda sita et posita in pertinentiis Messapiae, quorum alter12vulgariter dicitur Lo Survole apud viam, qua itur ad Uriam et alterum nominatur Mansione versus viam qua itur ad Brundusium ab eiusdem Serenissimae Reginae Curia devoluta ob rebillionem, et defetionem Salvatoris Zulli salvis fidelitate, feudali servitio et adhoa; cui etiam Ferdinandus Rex iuxta dictam Reginae concessionem privilegium et confirmationem fecit data in Castello Novo Neapoli X Octobris 1487 et registratus13 invenitur in privilegiorum primo f. 98 et reperitur in libro privilegiorum Messapiae fol. 60. Circa Ferdinandi Regis tempora plura notata digna ad Messapiae urbis dignitatem contigisse legimus. Nam anno 1467 pestis in ea ut per totum regnum …
(La medesima regina moglie del serenissimo re Ferdinando concesse al nobile Francesco Greco di Ugento due feudi siti e posti nelle pertinenze di Mesagne, dei quali l’uno è chiamato Lo Survole presso la via perla quale si va ad Oria e l’altro chiamato Mansione verso la via per la quale si va a Brindisi, devoluti dalla curia della medesima regina per la ribellione e la defezione di Salvatore Zullo fatti salvi la fedeltà, il servizio feudale e la adhoa14; a lui pure il re Ferdinando conformemente alla detta concessione della istituì il privilegio e la conferma emessi nel Castello Nuovo a Napoli il 10 ottobre 1487 e si trova registrato nel primo dei privilegi foglio 98 ed è reperibile nel libro dei privilegi di Mesagne foglio 60. Intorno ai tempi di re Ferdinando ho letto molte notizie degne ad onore della città di Mesagne. Infatti nell’ano 1467 in essa come per tutto il regno la peste …)
Per ora mi limito a dire che è singolare che il Profilo citi Diego Ferdinando piuttosto che suo padre Epifanio, che l’aveva preceduto nel trattare lo stesso argomento.15 Sulle discrepanze tra queste due fonti, che sono oltretutto le più antiche16 relativamente al dettaglio che ci interessa vedi il n. 5 nella prossima seconda ed ultima parte. Siccome è assurdo credere che il Profilo ignorasse l’opera di Epifanio, che era molto più famoso del figlio17, tanto più che, addirittura, afferma, non è dato sapere in base a che cosa, che essa fu portata a termine nel penultimo anno di sua vita18 sarò troppo malizioso a pensare che abbia deliberatamente omesso Ferdinando per corroborare la sua ipotesi e il connesso campanilismo? Dopo il caso del Mazzella sarebbe la seconda, anche se più nascosta, prova di una malafede sulla quale tornerò alla fine. Per ora vado avanti col repertorio cronologico.
Premesso che la trascrizione appena fatta è perfettamente coincidente, virgole incluse, con quella dell’autografo pubblicato nel 2024, faccio notare come il Masionem del padre è diventato Masione nel figlio, passo obbligato, ma falso …, per passare alla capra (Masina) salvando il cavolo (il latino mansio). (CONTINUA)
2 (1839-1901), avvocato mesagnese, fu autore pure di Vie, piazze, vichi e corti di Mesagne. Ragione della nuova loro denominazione, Tamborrino, Ostuni, 1894.
3 È il primo dei tre libri di cui si compone l’opera, pubblicato nel v XV della collana Scrittori di Terra d’Otranto diretta da Salvatore Grande; seguirono l’anno successivo gli altri due libri; infine col titolo di Memorie storiche di Mesagne per i tipi di Atesa a Bologna nel 1980.
4 Anche se, cosa allora abituale, mancano editore, luogo, data di pubblicazione.
5 Testo della nota: Messapogr. tom. 2 lib.u2 cap. 2
6 Torboli, invece, si legge nell’opera che sullo stesso tema aveva scritto Epifanio, suo padre, e della quale si dirà più avanti (vedi n. 3).,
8 Fornari, invece, si legge nell’opera che sullo stesso tema aveva scritto Epifanio, suo padre, e della quale si dirà più avanti (vedi n. 3).
9 Diego Ferdinando, Messapografia ovvero historia di Mesagne, a cura di Domenico Urgesi con la collaborazione di Francesco Scalera, Società storica di Terra d’Otranto, Lecce, 2020.
10 La concessione fu fatta dal re in Profilo.
11 Giovanni in Profilo, ma ancor più chiaro del Francisci del testo è il Franciscus della nota nel margine destro.
12 Col suo unum … alterum suo padre Epifanio sembra meno in difficoltà con il latino e le sue concordanze …
13 Registratus invece di registratum, in Diego altro problema di concordanza, anche se nella trascrizione del manoscritto edito da D. Urgesi si legge registratum.
14 Imposta dovuta al sovrano in base alla superficie o al reddito del feudo.
15 Si giustifica solo parzialmente con il fatto che il Profilo fu probabilmente il possessore del manoscritto edito da D. Urgesi, il quale afferma di averlo avuto in dono da Maria Profilo, nipote di Antonio.
16 Ai fini di questa indagine inutile è risultata la lettura di Messapografia del letterato salentino Epifanio Ferdinando accresciuta e tradotta da Antonio Mavaro, manoscritto inedito custodito anch’esso nella Biblioterca A. De Leo” di Brindisi ” (ms. D/4). Quella del Mavaro (1725-1812) più che una traduzione è un compendio e del testo originale in latino di Epifanio è riportato solo il primo capitolo del primo libro. Lo stesso è valso per Il profilo historico dell’antichità di Mesagne raccolto dal reverendo padre F. Serafino Profilo di Mesagne lettore theologo dei Minori Osservanti Riformati di S. Francesco della provincia di S. Nicola di Bari: e dedicato à Mesagne sua padria, inedito manoscritto custodito nell’archivio della parrocchia matrice di Mesagne. La cosa curiosa è che proprio Antonio Profilo nella sua opera messa in ballo al n, 2 (pp. V-VI) così si espresse nei confronti dell’autore e della sua opera databile verso la metà del secolo XVIII: Fortemente accecato da interesse municipale si studiò con sforzi degni dimigliore proposito a combattere gli scrittori patri delle città limitrofe evitando le gloriose loro tradizioni con la speranza d’innalxare in questo modo la patria sua. Perlocché spessissimo interpreta a sui particolare criterio gli antichi scrittori e sconvolse ka storia generale. Nonché renderci più spedita la via, questi la rese pià faticosa. Se anche lui fosse stato frate, chi o che cosa mi avrebbe trattenuto dal dire: Da quale pulpito viene la predica!” … . :
Pietro Marti nel Polesine con il suo giornale “Il Lavoro”
di Ermanno Inguscio
Nel panorama culturale delle esperienze fatte dal giovane professore-giornalista Pietro Marti in giro per la Penisola, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, il libro e il giornale costituivano due strumenti potenti per l’acculturazione delle masse e l’elevazione sociale di tutti i ceti popolari.
Di tanto fu convinto assertore l’intellettuale salentino se, a Comacchio, sul suo giornale “Il Lavoro”[1], tra le brume delle paludi del Po, non mancava di fare spesso riferimento ai libri e ai giornali. Questi erano strumenti formidabili per favorire l’istruzione delle giovani generazioni nel contesto di un’Italia post-unitaria alle prese con i primi grandi tentativi di sviluppo economico e d’integrazione tra popolazioni con bagagli di storie diverse.
Egli aveva accumulato esperienze di diversa natura sia in campo scolastico sia in campo giornalistico. E i riconoscimenti non erano mancati, se, uno per tutti, si era scomodato in suo favore, lo stesso “vate”, Giosué Carducci, che aveva portato lustro al “giovane e valoroso autore”[2].
Il Polesine gli fece conoscere un contesto assai diverso da quello delle sue origini, lui venuto al mondo sulle colline delle “serre” tra i mari dello Jonio e dell’Adriatico, a Ruffano. Si era così dovuto accostare al mondo dei pescatori di anguille, dei coltivatori di canapa e si era immerso, a livello scolastico, nel labirinto del difficile ambito linguistico (quattro varianti dei dialetti presenti, tutti del gruppo gallico italico) dei suoi alunni provenienti da centri abitati del ferrarese. Egli continuava, così, a dare alle stampe il suo foglio bisettimanale, “Il Lavoro” al tempo in cui la scuola pubblica, a Comacchio, era affidata al direttore didattico Cesare Fagli e le coeve scuole tecniche facevano sforzi considerevoli per contrastare le critiche di molti che ventilavano la creazione di un più prestigioso corso di Ginnasio-liceo[3].
Proprio in quel periodo, a Comacchio, in Corso Garibaldi, la sua “piccola Venezia”, egli aveva avuto la gioia di una figlia, Elia Emma Matilde, dalla moglie Erminia Casavola. Ma oltre alla figlia e alla sua “cattedra”, Marti spesso pensava ai contenuti urgenti da travasare nella sua “altra” creatura, il bisettimanale “Il Lavoro”. Al ruolo di puntuale divulgatore culturale sul territorio non disdegnava di accomunare l’opera del fratello Raffaele, come nel caso della pubblicazione dal titolo “ I Golfi di Taranto e Napoli e le Valli di Comacchio”[4].
Cultura e giornalismo per il professore salentino costituirono sempre un binomio ferreo per la sua attività culturale. Coeva de” Il Lavoro” fu un’altra pubblicazione, stampata a Lecce, “La modellatura della carta”. Trasferitosi a Taranto, dal 1897 al 1901, pubblicò nella città ionica L’Avvenire, L’Indipendente e La Palestra. Ma nella frenetica attività di docente sul campo e ancor più di giornalista Marti ebbe sempre presente la sua aurea concezione della funzione dei libri e quella insostituibile dei giornali per l’elevazione della cultura del popolo. Proprio sul suo foglio “Il Lavoro”, scritto spesso nottetempo sui canali di corso Garibaldi, a Comacchio, e dato alle stampe in terra estense, ribadiva il suo “credo”, a proposito di libri e di giornali.
Rimase sempre forte nel docente-giornalista Marti l’idea di una società civile da rendere sempre più evoluta con lo strumento delle scuole, pubbliche e private, a supporto di tutti gli strati popolari da riscattare dall’ignoranza e dalla povertà, con il concorso imprescindibile delle risorse dello Stato e l’abbattimento completo delle sacche di analfabetismo e di miseria umana. Aggiunse poi, in chiave molto moderna, la necessità di un’altra agenzia educativa sul territorio, fatta dai giornali e dalla comunicazione puntuale, magari giornaliera, caratteristica che a lui sarebbe tanto piaciuto, e che lo avrebbe tanto gratificato.
Così, proprio dalle colonne del suo giornale “Il Lavoro”, negli anni del suo soggiorno d’insegnamento a Comacchio, così definiva la sua idea di istruzione scolastica: “Un’istruzione orale, facile, piana e popolare, pochi libri, ma chiari, ponderati e ben composti…alcuni giornali rispettabili e rispettati, liberi da influenze estranee e corruttrici. Questa istruzione, questi libri, questi giornali, giungeranno anche a togliere dall’indifferentismo molti della classe dirigente e studiosa, che oggi si lasciano prendere la mano dagli agitatori ambiziosi e dal volgo artigiano, indotto e corrotto.[5] E lapidariamente così si esprimeva ai lettori e a tutte le persone di buon senso: “Noi crediamo che il libro e il giornale abbiano l’obbligo in questi tempi di accettare la discussione offerta, chiarire le nuove dottrine al popolo, quasi a solo scopo d’istruzione “. Che significava, che ai libri e ai giornali, spettava sempre l’insostituibile compito di fare “istruzione” al di fuori delle stesse aule scolastiche.
Note
[1]Nella Biblioteca “Ariostea” di Ferrara sono conservate centinaia di numeri del foglio bisettimanale di Marti “Il Lavoro”, a testimonianza dell’importante ruolo giornalistico svolto dal salentino in terra veneta. Si confronti pure di L. NAGLIATI, Repertorio bibliografico di cultura ferrarese dai periodici locali 1886-2003, Ferrara, Litografia Tosi, 2004.
[2] Al Carducci non sfuggì il valore del giovane autore pugliese, specie in concomitanza della pubblicazione dell’opera Origine e fortuna della Coltura salentina, pubblicata a Lecce nel 1893 dentro cui si potevano individuare in un intellettuale del Sud una grande padronanza della lingua italiana scritta.
[3] Su “La Gazzetta Ferrarese” del 18 settembre 1895, era stata riportata una petizione popolare, proposta da Giovanni Patrignani, che mirava alla istituzione in città di un Corso di Ginnasio-Liceo. E all’idea, in verità, non era neanche estraneo lo stesso Marti. Egli, com’è noto, era stato fondatore a Lecce di un Ginnasio-Liceo, gestito con alcuni dei suoi numerosi fratelli.
[4] R. Marti, I Golfi di Taranto e Napoli e le Valli di Comacchio, Lazzaretti Ed., Lecce 1896.
[5] P. MARTI, L’insegnamento e il patriottismo, istruzione socialistica, in “Il Lavoro –L’Indipendente”, 27 giugno 1896, p. 3.
Crapintare è la variante neritina di una parola che, come vedremo, non è di uso esclusivamente salentino. Con essa faremo una galoppata (datti tu all’ippica!, mi pare di sentire …) tra manoscritti e testi a stampa, saltando dalle religione alla medicina. Preliminarmente osservo che essa è parente strettissima, direi figlia di crièttu, parola della quale mi sono già occupato in un contributo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/10/11/dialetti-salentini-criettu/) del quale questo costituisce la naturale integrazione. Di seguito le varianti registrate dal Rohlfs nel suo vocabolario. Le riporto in formato immagine per fare più presto, ma soprattutto per evitare da parte mia errori di trascrizione, se non di lettura …
Al lemma crepentare, per quanto riguarda l’etimo, si legge dal latino *crepentare, derivato da crepare. L’asterisco, come ben sanno gli addetti ai lavori, sta ad indicare che si tratta di una voce ricostruita, cioè non attestata. Ma, se appartiene al latino parlato, non essendoci alcuna registrazione analogica e tanto meno digitale e no comparendo, neppure, almeno per ora, nel più scolorito dei graffiti pompeiani, mi chiedo quale potrebbe essere la trafila della sua formazione. Troppo comodo sarebbe liquidare crepentare come forma frequentativa di crèpere, pure esso attestato dal Rohlfs.
Questo crèpere, anche se il Rohlfs non lo dice, suppone un latino *crèpere che presenta un passaggio alla terza coniugazione dalla prima del classico crepare.
Il participio presente di quest’ultimo è crepans/crepantis (tema crepant-), quello di *crèpere sarebbe stato crepens/crepentis (tema crepent-). Il lettore noterà che alle due ultime non ho premesso l’asterisco, perché ho trovato, grazie alla rete e ai suoi testi antichi digitalizzati, la loro attestazione, quanto meno nel latino medioevale. Se il Rohlfs avesse avuto a disposizione i moderni sistemi informatici e, magari, anche un pizzico di intelligenza artificiale, sempre sotto il controllo della sua …, chissà dove sarebbe arrivato! A proposito di intelligenza artificiale trovo insulso il dibattito in corso sui rischi che essa comporterà e ridicola la pretesa di porre ad essi un freno. Dopo la bomba atomica e la plastica c’è poco da fidarsi, sicché da un lato quest’ultima diavoleria potrà aggiornare la data di nascita di una parola, finora provvisoriamente basata quasi esclusivamente su testi a stampa, utilizzando i dati emersi anche da manoscritti che essa stessa avrà provveduto a leggere ed a registrare nel suo archivio aggiornabile faxilmente e in continuazione, dall’altro, per quanto riguarda il settore qui coinvolto, dall’altro consentirà al solito disonesto di confezionare manoscritti, magari pure di spacciarli per antichi e di opere finora considerate perdute, addirittura metterne in vendita in rete l’immagine digitalizzata e per i più ingenui anche l’oggetto fisico. Anche per questo, visto che i tempi sospetti inesorabilmente si avvicinano, il lettore troverà soprattutto nell’appendice documentaria le immagini originali delle fonti utilizzate, il che è anche un furbesco espediente per evitare da parte mia errori, se non di lettura …, almeno di trascrizione.
Le osservazioni da me fatte poco fa sul participio presente sono strumentali, nel senso che esse hanno la funzione di aiutare il lettore non addetto ai lavori a comprendere meglio crèpitus, crepentes e crèperent, crepentium, los crepentes e losd no crepentes, crepentum (tutte forme, meno la prima, del participio presente di crèpere), per cui vedi in appendice, rispettivamente i bb, 1, 2, 3, 4 e 5.
Se i docunenti appena citati mostrano il perdurare delle forme latine nella letteratura dotta, per quelle in volgare la consacrazione letteraria avviene nella produzione in dialetto napoletano a partire dalla seconda metà del XVI secolo con Giulio Cesare Cortese e nel successivo con Giambattusta Basile e Gabrieke Fasano (vedi in appendice, rispettivamente, i nn. 6, 7 e 8).
A conferma, infine, della diffusione della voce nell’area meridionale vanno ricordati: 1) il siciliano schipintari, che, a seconda del luogo può significare spremere una pustola per estrarre la materia infetta oppure ridurre in poltiglia oppure, per finire in bellezza il senso traslato di mettere in campo un argomento dolente per saggiare la reazione dell’interlocutore nella locuzione schipintàrici ‘u canfùgghiu (alla lettera spremerci unforuncolo); 2) il calabrese crapentare, sinonimo di sbudellare.
APPENDICE DOCUMENTARIA
1
(si tratta di una inquisitio, cioè indagine o processo istruttorio dell’anno 1270 pubblicato da Antonio Muratori in Antiquitates Italicaemedi aevii, Ex typographia societatis Palatinae. Mediolani, tomo V, colonna 102)
(Nel giorno di sabato 17 gennaio Bennato de Portu di Francolino, della diocesi di Ferrara, davanti al predetto signor vescovo e a gran numero di persone giurò di dire la verità sull’infermità e guarigione di suo figlio Benvenuto di due anni d’età, ivi presente. E su giuramento disse che detto suo figlio era crepitus (**) e rimase affetto da quell’infermità, così aspramente che a stento si poteva muovere, per lo spazio di sei mesi e più, fino a pochi giorni dopo la morte del beato Armanno. E, quando egli sentì dire che Dio faceva miracoli per merito del beato Armanno, consacrò il figlio al predetto Dio e al beato Armanno promettendo che, se il suo bambino fosse stato guarito, egli gli avrebbe offerto una statua di cera con le sue sembianze
(**) era crepitus: cioè crepato, vocabolo del quale noi italiani siamo soliti servirci per indicare un enterocelico o sofferente di ernia)
Ricordo, anche per maggiore precisione, che enterocelicus nel latino classico è l’affetto da ernia intestinale) .A conferma di quanto specificato nella nota, ma pure come documentazione dei significati assunti da parole derivate dalla stessa radice, ecco quanto si legge nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che pià si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1789:
2
Johannes a Leydis (XV secolo), Chronicon Belgicum (edito nel 1854 da F. Sweeertius in Rerum Belgicarum annales, per l’anno 1374 si legge (l’immagine è tratta da Corpus documentorum inquisitionis haereticae pravitatis Neerlandicae, J. Vuylsteke ; ‘S Gravenhage, M. Nijhoff, Gent, 1896, p. 144):
(Pure nel medesimo anno [1374] una sorprendente ed inaudita calamità si manifestò ad Aquisgrana, a Colonia e nelle città intotno al Reno. Si mostrarono certi corizantia, persone di sesso promiscuo, cioè uomini e donne, così detti dai loro balli, che come i corizantia danzavano e alla fine cadevano a terra. Questi infatti vennero dapprima per la dedica in Aquisgrana della chiesa di Nostra Signora, dove saltavano davanti all’altare, alcuni fino alla sua altezza. Poi stando sulle sedie continuarono queste danze e queste cadute per lungo tempo, così che alcuni scoppiando morirono, altri pure perché non scoppiassero si cingevano strettamente intorni al ventre con delle fasce. E vennero al tratto superiore [del Reno]b ed a Leida e in altre città e, scoprto il capo, portavano certe corone e danzavano, più spesso animandosi col dire: Frijsch, Frijsc. E senza aggiungere altro andavano in chiesa vicino agli altari e davanti alle immagini della Beata Vergine Maria lì così danzado e molti e molte guardandoli si associavano e subito erano gravati dal medesimo turbamento. Alla fine da chi ne sapeva venne scoperto che costoro erano stati assediati o rapiti dal demonio e molti di loro furono guariti dagli esorcisti con giuramenti e preghiere e col vangelo di S. Giovannim circa tremila in diversi luoghi, alcuni più facilmente, altri meno e così poi quella pestifera piaga venne meno. Quando poi il demonio saliva nelle loro gambe, allora non potevano trattenersi dalla danza. Quando pveniva nel ventre, erano tormentati ferocemente ed assumevano allora un orribile aspetto. Talvolta uno o una di loro salì sulle spalle di un altro e disse di vedere in aria cose mirabili. Molti tali di primo mattino prima della festa di Ognissanti riuniti insieme nel loro consiglio decisero che nel giorno di Ognissanti che tutti insieme venissero nella chiesa di S. Lambeto a Leida e che lì uccidessero tutti i presbiteri. Ma Dio dispone soavemente tutto lo impedì. Anche uno di quei demoni, scongiurato di dire perché entrassero nei corpi di tali poveri e non ricchi o presniteri, rispose: chierici e presbiteri dico ogni giorno tante sante e belle parole ad ogni ora a noi contrarie e noiose che raramente entriamo nei loro corpi. Ma per fortuna dopo un mese saremmo entrati nei corpi dei ricchi ed avremmo mandato in rovina l’intero clero)
Nelle forme qui presenti (crepentes e creperent) crèpere è usato nel senso nativo di scoppiare. Quella sorta di cinti erniari, poi, è in collegamento semantico con la parte finale del documento 2.
3
Nell’immagine che segue il colophon di un manoscritto del XV secolo custodito nell’università di Innsbruck.
GaetanI de Thienis Vincentini philosophi preclarissimi metheororum Aristotelis libros expositioni ex originali excerpti finis impositus est per me Petrus Mauer norman(n)um Rothomagensem civem in preclaro studio Patavino die 6a augusti 1476
(La fine all’esposizione di Gaetano de Thienia illustrissimo filosofo vicentinob filosofo sui libri delle meteore di Aristotele dall’originale di un estratto è stata posta da me Pietro Mauerc normanno cittadino di Rotomagod nel famosissimo studio di Padova il 6 agosto 1476)
_____
a (1387-1465)
b In realtà nacque a Gaeta ed insegnò a Padova.
c (1400-1494)
d Rothomahus era il nome romano dell”attuale Rouen.
Questo il passo che ci interessa:
… simili modo fit lignorum viridium in ugne crepentium …
(In simile modo è il risultato dei legni verdi crepitanti nel fuoco)
Crepetium è il genitivo plurale di crèpere. La desinenza in -ium èin linea col suo valore aggettivale (sarebbe stato crescentum con un valore sostantivato).
4
Pedro Diaz, Proverbios y sentencias de L. A. Seneca, Steelsio, Anversa, 1552, p. 20:
Ebbene, il fuoco che il nostro Salvatore venne a mettere era un fuoco di amore e carità, o vuile sigbificare che si separerebbero e migliorerebbero i buoni e i pentiti dai cattivi e dai non pentiti.
Crepentes (dal latino nominativo plurale del participio presente di crèpere qui sta nel significato tralato di penitenti, pentiti).
5
Caecilii Cyprjani Carthaginiensis episcopi opera, Nivellio, Parigi, 1574, p. 162. Nel commento di Iacopo Pamelio alla lettera XXXII di Cipriano al suo clero:
(E invero non mi sfugge l’altro significato di questa voce in Prudenzio per gli stessi strumenti di tortura, mentre nell’inno sulla corona dice: dopo la violenza delle frustate crepitanti, dopo le cataste di fuco …).
Crepentum è il genitivo plurale del participio presente di crèpere. Dalla radice crepent– con l’aggiunta della desinenza dei verbi della prima coniugazione nasce, dunque, crepentare, mentre per la variante crapantarte (vedi primo dettaglio dal Rohlfs) si potrebbe ipotizzare una derivazione dal tema crepant- e, perciò, una maggiore fedeltà al classico crepare.
Questo parto di un verbo che dal suo participio presente ne genera un altro è un fenomeno abbastanza ricorrente già nel latino tardo; fra i tanti:
praesens/praesentis (participio presente di praeesse)>praesentare> italiano presentare; absens/absentis (participio presente di abesse>absentare>italiano assentare.
Per analogia, poi, in tempi più recenrti sono nati, fra i tanti:
contingens/contingentis (participio presente di contìngere)>contingentare; bulliens/bullientis (participio presente di bullire)>bollente>sbollentare e il più recente brillantare (da brillante, participio presente di brillare, che è forse dal latino beryllus).
6
Giulio Cesare Cortese (c.1570-1622), All’unico schiammeggiante, che pò’ rompere no becchiero co le Muse, De Bonis, Napoli, 1666, p. 91: … moro, arraggio, schiatto, e crepanto pe tene …
7
Giambattista Basile (1583-1632). Cito da Le Muse napolitane, egloghe di Gian Alessio Abbattutis, Macarano, Napoli, 1637.
Da Talia overo lo cerriglio egroca terza, p. 45: E che n’hà mmidia ne pozza crepantare
Melpomene overo le fonnacchere egroca quarta, p. 52: Schiatta, crepanta, sfonnola
e da Lo cunto de li cunti, I, 8, Muzio, Napoli, 1728, p. 88: … la quale visto quella bruta caira pelosa, happe acrepantare de spasemo …
8
Gabriele Fasano (1645-dopo il 1692): Lo Tasso napoletano zoe La Giorosalemme libberata de lo sio Torquato Tasso votata a llengua nosta da Grabiele Fasano, Raillard, Napoli, 1689, p. 351.
(XVIII, 99) Ma Rinaldo venire nforeatoa/vede, ed ognuno fuieb da lo bravazzo./Mo che ffarraggioc(disse)s’ostenato/songo so’ mmuprto,e mmuortod da no pazzo./E penzando a cchiù cose crepentato/diee lo passo a Ggoffredo lo Canazzo:/che lo secuta ammenaccianno, e fficca/la bannera a lo muro bella, e rricca.
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a infuriato
b fugge
c farò
d fatto morire
e diede
Di seguito la corrispondente ottava del Tasso, il cui cedea libero il passo il Fasano traduce con crepentato dielo passo, in cui crepentato sta nel significato di contrariato, risentito. Ma venirne Rinaldo in volto orrendo/e fuggirne ciascun vedea lontano:/ “Or che farò? Se qui la vita spendo,/la spando” disse “e la disperdo invano”./E in sé nove difese anco volgendo,/cedea libero il passo al capitano,/che minacciando il segue e de la santa/Croce il vessillo in su le mura pianta.
Il significato particolare (ma perfettamente in linea col nucleo concettuale) che crepentato assume nei versi del Fasano è confermato dalla definizione che accompagna il primo dei tre lemmi, tutti imparentati tra loro, registrati nel Vocabolario del dialetto napoletano … (vedi la parte finale del documento 1).
Storia della stampa leccese dalle origini (1631) al periodo postunitario
Sembra paradossale che in una terra ricchissima di tradizioni scrittorie e di famosi copisti i cui prodotti rappresentano i fondi manoscritti più prestigiosi delle più importanti biblioteche europee, l’introduzione della stampa sia avvenuta obiettivamente tardi. E questo nonostante un fervore culturale di respiro internazionale come nelle opere del francescano Pietro Galatino – il suo De Arcanis (1518) fu uno dei testi più letti dell’epoca e frequentemente ristampato – o in quella di Antonio de Ferraris detto il Galateo (De Situ Japigiae, Basilea 1558). Un altro salentino di Lecce, Scipione Ammirato che diventerà celeberrimo nella corte medicea di Firenze, stampò a Napoli nel 1562 Il Rota overo delle imprese – la sua prima opera a stampa – per quanto fosse stata composta a Lecce. Alle stamperie veneziane affidava le sue opere pubblicate, a partire dal 1505, l’averroista galatinese Marco Antonio Zimara. Gli esempi si potrebbero moltiplicare ma i letterati salentini continuarono a stampare da Napoli in su. E non soltanto i letterati. Il celebre umanista Belisario Acquaviva d’Aragona, duca di Nardò, fece stampare nel 1519 i suoi quattro trattatelli (De istituendis liberis principum; Paraphrasis in economica Aristotelis; De venatione et de aucupis; De re militari) da Joan Pasquet di Salò, operante con propria officina a Napoli.
È un fenomeno che non è stato mai indagato ma varrebbe la pena di chiarirlo anche perché Lecce, dalla metà del ’500, era pur sempre considerata la “secondogenita del Regno” e l’opera che con vigore argomentativo celebrava tale primazia, ossia l’Apologia Paradossica di Jacopo Antonio Ferraris composta tra il 1576 e il 1586, rimase stranamente manoscritta – ma citatissima e continuamente ricopiata – fino al 1707 (Lecce, Mazzei), l’anno della sua prima edizione a stampa: uno dei tanti misteri della stampa salentina.
Non è misteriosa, invece, l’introduzione della stampa in Puglia, certamente tardiva, ove si pensi che a Napoli si stampò a partire dal 1470-71, a Cosenza dal 1478 e a l’Aquila dal 1482. Il primo libro stampato in Puglia sono le Operette di N.A. Carmignano a Bari, del 1535, da parte di un tipografo ambulante, il francese Nehau. Ma la prima vera tipografia fissa pugliese è quella del copertinese G.B. Desa, la cui prima opera a stampa è i Successi dell’armata turchesca nella città di Otranto nell’anno 1480 del 1583, già ritenuta opera del Galateo.
L’ultima opera del Desa dovrebbe essere le Ordinationi per la chiesa et diocesi di Nardò del 1591: in poche parole l’attività di questo stampatore coincide quasi esattamente con l’episcopato del vescovo neretino Fabio Fornari. Da un punto di vista strettamente tecnico sappiamo che il Desa acquistò i caratteri e i fregi della sua tipografia da Venezia mentre il suo apprendistato fu romano. Né poteva essere, come abbiamo visto, altrimenti.
Si chiude così il ’500 tipografico pugliese ed è appena il caso di ricordare, tuttavia, che a Taranto il 1567 fu stampata la Divina predestinatione, opera di un cappuccino calabrese, Girolamo Dinami, composta appunto dal tipografo “Quintiliano Campo nel primo del mese di marzo 1567”: ma anche in questo caso siamo di fronte ad una stamperia ambulante.
Anche per G.C. Ventura che a Bari tra il 1603 e il 1607 stampò solo due opere, siamo di fronte ad un fenomeno del genere.
La prima vera tipografia pugliese del XVII secolo è quella importata a Trani dal romano Lorenzo Valeri che nella città adriatica giunse il 1619 e vi stampò il primo libro nel 1622. Nel 1627 si allontanò una prima volta da Trani per raggiungere Brindisi dove l’arcivescovo Falces gli commissionò un’opera di carattere ecclesiastico.
Da Brindisi il Valeri acquistò diverse casse di caratteri e fregi tipografici appartenuti alla dismessa tipografia copertinese del Desa. Nella bottega del Valeri, attiva fino al 1656, continuata poi dai suoi eredi, si fermarono e lavorarono numerosi giovani e tipografi. Qui – a Trani – era giunto già dal 1621 il borgognone Pietro Micheli che subito entra in contatto con il Valeri. Nel 1627 acquista caratteri a stampa, vuole, cioè, mettersi in proprio e, infatti, lo stesso anno si trasferisce a Bari dove si impianta un torchio tipografico secondo un contratto che va dall’agosto del 1629 allo stesso mese dell’anno successivo. A Bari si mette in società col tipografo bresciano Giacomo Gaidone col quale costituisce una società nel giugno del 1630 sciolta, tuttavia, appena un anno dopo (14 marzo 1631).
Col Gaidone il Micheli stampa alcune opere tra cui il Teatro morale e politico sopra le opere di P. Virgilio Marone (1630): poche opere, comunque, perché il Micheli pensava ad una piazza vergine dove poter operare in regime di monopolio e, finalmente, da solo. Comunque sia il Micheli, al quale si deve l’introduzione nel 1631 della stampa a Lecce, non si mosse da Bari fino a quando l’autorità ecclesiastica non concesse l’imprimatur per la stampa del celeberrimo Tancredi il “poema heroico” di Giulio Cesare Grandi i cui preparativi per la stampa risalivano almeno al 1628. La pubblicazione, laboriosissima, di quest’opera fu anticipata da una piccola opera i Carmina di Filippo Formoso dedicata ad Antonio Albrizzi Farnese, principe di Avetrana, marchese di Salice e signore di Torre S. Susanna patria del Formoso. Il dovizioso principe, in quegli anni, risiedeva a Lecce nella bella villa extraurbana già appartenuta al nobile Fulgenzio della Monica.
A parte l’ambiente leccese dove il Micheli ritrovò non pochi connazionali, fu la locale Universitas che, agendo sullo strumento fiscale, agevolò la sistemazione in città dello stampatore. Come ha documentato N. Vacca in un fondamentale saggio del 1965, a costui, annualmente, si concedeva un’abitazione e la franchigia della gabella “delle cose commestibili”, estesa a tutta la sua famiglia e questo “per avere introdotta la stampa in essa città”. Da quel 1631 il Micheli stampa ininterrottamente fino al 1688 quando, insieme al figlio Giacomo, testa, e del testamento in questione è possibile individuare casa e bottega che doveva essere quella accanto alla cappella di S. Leucio all’attuale via F. A. D’Amelio, ai civici 5-7 (proprio la casa dove abitò il grande poeta dialettale F.A. d’Amelio).
Ad assistere amorevolmente, padre e figlio ammalati, fu la loro serva Caterina de Palese di Salve che, riconoscenti “dei meriti acquisiti nella lunga milizia in casa Micheli”, è istituita erede universale (nello stesso notaio si trova anche la forma Caterina de Polaci).
Pienamente inserito nella realtà socio-economica della Lecce seicentesca, l’officina di Pietro fu continuata dagli eredi fino al 1696, secondo gli Annali pubblicati da G. Scrimieri nel 1976. Tale circostanza è stata confermata dal ritrovamento (G. Spagnolo) di un’opera sconosciuta, “ex officina haeredum Petri Michaelis”, datata appunto 1696 e che può essere considerata l’ultimo esemplare a stampa della gloriosa tipografia, attiva per poco meno di settant’anni, in assoluto la più longeva stamperia dell’arte tipografica leccese e, da un punto di vista contenutistico, senz’altro la più importante.
L’affermazione del Micheli fu impressionante e in parte fu dovuta al Tancredi, l’opera del Grandi già citata, probabilmente uno degli esiti provinciali più significativi di quel vastissimo movimento culturale, vivissimo specialmente nel Viceregno, che partiva dalla Gerusalemme del Tasso per caratterizzare la propria ispirazione letteraria: e Terra d’Otranto anche prima del Micheli, era stata quasi la patria delle celebrazioni provinciali del grande poeta. Non è un caso che il 1636 il tipografo fu costretto a pubblicarne una seconda edizione, circostanza rara a quei tempi.
Lo Scrimieri (Annali cit.) ha censito 234 opere a stampa del Micheli (alcune non ritrovate); successivi approfondimenti hanno permesso di aggiungere a quel catalogo qualche decina di edizioni sconosciute – per esempio Le Costituzioni del Conservatorio di S.Anna del 1685 (G. Spagnolo), Delle Orazioni, e Sermoni con le quattro domeniche dell’avvento di autore non identificato (G. Spagnolo), Mundus Traditus (F. Quarto), Il trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (G. Spagnolo), Una nuova edizione di Pietro Micheli: La Regola di Santa Chiara per le suore Cappuccine di Napoli e Lecce 1664 (G. Spagnolo) portando a circa 250 le opere complessivamente stampate dai Micheli dal 1631 al 1696. Che significò nell’ambiente cittadino questa vera e propria valanga libraria?
Sicuramente un aumento della predisposizione a leggere e a scrivere e quindi una maggiore alfabetizzazione.
Una maggiore circolazione del libro a stampa perché la tipografia locale abbatteva i costi: un libro espressamente richiesto a Venezia, per fare un esempio, doveva costare assai di più. Un libro stampato a Lecce costava meno, per ovvie ragioni, di un libro stampato a Napoli: c’era convenienza economica accompagnata ad una maggiore rapidità di stampa. Se nel 1634 il Micheli stampò cinque opere, l’anno successivo il livello era già giunto a otto – uno dei più alti di tutta la sua lunga attività, a dieci nel 1659: con il passare degli anni questo ritmo decrebbe notevolmente e, per fare qualche esempio, nel 1686 furono stampate solo quattro opere, nessuna nel 1687, una nel 1688, nessuna nel 1689 e due nel 1691: la crisi del ‘600 influì pure sul mercato librario.
Questi pochi dati sottolineano l’enorme favore che godette il Micheli nei primi anni di attività. Finalmente nelle biblioteche degli aristocratici locali comparirono le edizioni leccesi i cui autori furono, dunque, per questi, una vera e propria novità. Possediamo un elenco del 1663 della biblioteca privata dei Castromediano de Lymburg, marchesi di Cavallino e operosi committenti di opere stampate dal Micheli: le Orazioni funerali stampate il 1637 in occasione della morte di Beatrice Acquaviva d’Aragona “marchesa di Cavallino”; il Trionfo di Morte stampato lo stesso anno e per la medesima occasione come il Ragionamento del domenicano Basilio Pandolfi. Di particolare interesse tipografico è la Descrizione delle pompe funerali, sempre per la scomparsa dell’Acquaviva, stampate nel 1638. Il rapporto tra questa famiglia feudataria e il Micheli continua nel tempo e il 1660 A. Fusco stampa la Cronologia nobilissimae familiae de Castromediano; del 1676 è una specie di allegazione giuridica per sostenere le ragioni di Giusto Castromediano nei confronti dell’Ordine di Malta del quale voleva far parte. Si può pertanto affermare che i Castromediano furono i più illustri committenti della tipografia leccese del borgognone. E non finisce qui, il rapporto è tanto stretto che, come abbiamo anticipato, ed è noto da circa vent’anni, la biblioteca di famiglia possedeva un consistente numero delle edizioni del Micheli, quest’elenco è tratto dall’inventario del 1663: Lecce Sacra dell’Infantino (1634); Funerali della Marchesa di Caballino (1638); Vita di Tommaso Perrone (1641); Vergine desponsata del Grandi (1639-40); Lecce rosata (1656); il Tancredi e le Imprese del Grandi (1648); i Fasti Sacri di A. Grandi; l’opera poetica di G. Cicala, Cicada sive Carmina (1648-49). Sicuramente nella biblioteca esistevano altre opere del Micheli perché è stata conservata un’opera, attualmente nella Biblioteca Provinciale di Lecce, con un ex libris e lo stemma dei Castromediano sulla coperta che non compare nell’elenco del 1663: si tratta di un’opera di teologia tomistica di padre Dionisio Leone stampata il 1651 (sul frontespizio: ex bibliotecae marchionalis Caballini).
Si potrebbero aggiungere tante altre osservazioni come per esempio, il rapporto privilegiato dei Castromediano con i due fratelli Grandi, Ascanio e Giulio Cesare, ma è tempo di vedere cosa succede a Lecce quando anche gli “eredi Micheli” il 1696 chiudono definitivamente la loro gloriosa stamperia creando improvvisamente un vuoto che all’inizio del secolo successivo sarà in parte colmato dal chierico coniugato Tommaso Mazzei che acquista proprio dai Micheli l’attrezzatura tipografica, nel 1699, dimostrando che già a quella data aveva maturato un interesse reale nei confronti del settore, probabilmente proprio quando i Micheli cessarono di stampare.
Il Mazzei cominciò a stampare nel 1700: a questa data risalgono, infatti, due opere, le Cronache del Coniger, stampate, però, nella stamperia arcivescovile di Brindisi e il Quaresimale di M. Capuano, ristampato due anni dopo. Ma l’opera forse più importante del Mazzei è l’Apologia Paradossica del Ferrari, stampata la prima volta nel 1707 (la seconda nel 1728), operazione sostenuta da Giusto Palma “Principe dell’accademia degli Spioni”, sodalizio all’interno del quale era nata l’idea di dare finalmente alle stampe quella che veniva considerata una delle fonti principali degli studi storici locali.
Attento alla storia di Lecce, specialmente a quella sacra, nel 1714 dà alle stampe due opere, entrambe dedicate “all’illustrissima città di Lecce”, la Storia di S. Irene del Beatillo (stampata la prima volta a Napoli nel 1609), e I primi martiri di Lecce. Giusto Oronzio e Fortunato di C. Bozzi (l’opera era stata pubblicata per la prima volta dal Micheli nel 1672). Le due pregevoli edizioni sono accompagnate da altrettante incisioni dedicate ai protettori leccesi inquadrate da carnosi motivi floreali tenuti insieme in alto, come festoni, dalla valva di una conchiglia proprio come nelle architetture di Mauro Manieri: costui infatti disegnò e incise queste immagini che contengono vedute di Lecce. Tommaso stampa fino al 1719. L’opera fu continuata per un certo tempo dal nipote Francesco Egidio Mazzei che chiude definitivamente con la stampa, con la vendita della tipografia il 1740, dandosi al commercio librario in quel di Alessano.
Chi acquista è don Mauro Chiriatti, parente di Oronzo Chiriatti che il 1714 aveva iniziato una intensa ma breve attività culminato il 1723-24 con la pubblicazione delle due parti della Cronica de’ Minori osservanti riformati di P. Bonaventura da Lama e, il 1727, con il De Situ Japygiae del Galateo, prima edizione leccese, curata da Giovan Bernardino Tafuri. Ben più lunga e importante fu quella dell’erede del Chiriatti, ossia Domenico Viverito che quel 1740 ne aveva, attraverso lo zio don Mauro, acquisito torchi, caratteri e fregi.
Il Viverito era tuttavia in attività già dal 1731 con la stampa delle Quatuor centum laudes di Bonaventura da Lama. Dieci anni dopo stampa un libro capitale nel dibattito, diventato ormai europeo, sul fenomeno del tarantolismo, il De tarantulae anatome et morsu del medico campiota Nicola Caputo. Vent’anni dopo, in piena attività il Viverito stampa le Riflessioni su «lo spirito delle leggi» del Montesquieu, composte da Ermenegildo Personé, giurista, filosofo e polemista. Domenico scomparve nel 1777 ma da alcuni anni versava in difficili condizioni finanziarie.
I figli suoi, Pasquale e Giuseppe, continuarono l’attività paterna fino alla fine del secolo. Questo periodo si sovrappose, almeno dal 1795, all’attività di un altro significativo tipografo leccese, Vincenzo Marino che si associò con i fratelli compromettendo la già traballante situazione dei Mazzei, giungiamo, così, nel XIX secolo: ma è un periodo, questo, poco o nulla studiato. Vincenzo Marino, sciolta la società con i fratelli, continuò a stampare e nel 1824 pubblicò un’opera di carattere scientifico – i tempi erano veramente cambiati – l’Analisi chimica e medico pratica di un’acqua sulfurea in provincia di Lecce, di M. Micheli. Il Marino scomparve intorno al 1840, lo stesso anno della ristampa di un’opera agiografica di Oronzo Morelli su S. Oronzo (già pubblicata, sempre dal Marino, a Lecce nel 1796). Gli “eredi Marino” continuarono a stampare almeno fino al 1845. Ma negli stessi decenni della prima metà del secolo a Lecce erano sorte le seguenti tipografie: Agianese (nel 1814 stampa le Opere di F.B. Cicala); la Tipografia dell’Intendenza che nel 1832 stampa le celebri Puesei del D’Amelio (la stessa tipografia sarà denominata, più tardi, “Tipografia dell’Ospizio di S. Ferdinando nel palazzo dell’Intendenza” attiva, ovviamente, non dopo il 1859).
A queste, poco prima del 1843, si aggiunge la tipografia di Nicola del Vecchio i cui eredi stamparono, almeno, fino al 1878. In periodo borbonico nacque pure la tipografia di Alessandro Simone – 1850 – che diventò, dopo l’unificazione nazionale, la gloriosa tipografia Garibaldi presso “l’Ospizio Garibaldi alla strada S. Angelo” e poi “Tipografia Garibaldi Flascassovitti e Simone” così denominata almeno fino al 1868.
Ma dopo il fatidico 1860 il nuovo clima politico, economico e sociale della città porta in pochi decenni ad una vera e propria esplosione dell’attività tipografica che, per la prima volta, diventò uno dei principali settori dell’economia cittadina e anche questo è un fenomeno poco studiato della storia di Lecce da mettere in relazione con l’altrettanta impetuosa crescita dei periodici locali (alcuni esempi: Il cittadino leccese, dal 1861; Corriere Meridionale, dal 1890; La Gazzetta delle Puglie, dal 1881) senza contare la pubblicistica satirica e quella più specificatamente politica.
Nel ventennio successivo all’Unità d’Italia a Lecce operavano le seguenti tipografie: Simone-Garibaldi; Tip. Ed. Salentina (circa dal 1869); del Vecchio; Campanella, Lazzaretti; Scipione Ammirato e altre di minore importanza. Fino allo scoppio della prima guerra mondiale a quelle già enumerate si aggiunsero: Tip. Cooperativa; Tip. del giornale “La provincia di Lecce”; Tip. Sociale; Tip. Giurdignano; Dante Alighieri; Bortone; Masciullo; Bortone e Miccoli; Tip. del Popolo; Tip. dell’Azione Pugliese.
Al 1934 le imprese tipografiche operanti a Lecce erano queste: Buttazzo; Gallucci e Scorrano; O. Guido; Martano e Marasco; Madonna; Roberti e Mucciato; V. Conte; Cafaro; Buttazzo e Madonna; f.lli Guido; «La Celere»; l’Editrice del cav. Mannarini Sambuchi; Garrisi; G. Guido; F. Scorrano; Tip. Salentina: 17 stabilimenti che sicuramente davano lavoro a qualche centinaio di lavoratori e quindi era un settore trainante dell’economia cittadina che non conosceva, ancora, momenti di crisi in virtù del fatto che aziende del genere erano collocate, le più vicine, a Maglie, Gallipoli e Galatina e quindi la tipografia leccese aveva un bacino di potenziali clienti di quasi mezza Provincia e comunque, una capacità tecnica insuperabile. Bisogna aspettare infine gli anni sessanta del secolo perché si affermino le prime, vere, aziende editoriali con una fisionomia completamente diversa dalle tradizionali tipografie.
In Rotary Club Lecce. 60 anni di “service”. Omaggio alle Eccellenze Salentine, Congedo Editore, Galatina 2013 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 575-582, Novoli 2024.
Bibliografia essenziale
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M, Cazzato, La galleria celeste, Astrologia e Arte alla corte dei Castromediano di Lymburgh nel castello di Cavallino, Galatina, Mario Congedo Editore, 2016;
Idem, Dalle “antiquitate” al “museo” e alla “galleria”: per una storia del collezionismo aristocratico in Terra d’Otranto, in Residenze nobiliari. Italia Meridionale, a cura di M. Fagiolo, Roma 2010;
A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal cinquecento alla metà dell’ottocento, Lecce, Milella 2006;
R. Jurlaro, Nota sulla protostampa salentina dei Desa a Copertino tra il 1580 e il 1597, in Copertino: storia e cultura dalle origini al settecento, a cura di M. Greco, Lecce, Edizioni Grifo 2013;
A. Laporta, Settecento tipografico leccese (Note per la storia dell’arte della stampa a Lecce nel ‘700), estratto da Momenti e figure di storia pugliese. Studi in memoria di Michele Viterbo (Peucezio), vol. II, Galatina, Mario Congedo Editore 1981;
Idem, Saggi di Storia del libro, Lecce, Edizioni Grifo, 1994;
E. Panarese (a cura di), Una ricerca nella scuola dell’obbligo (Visita alla Biblioteca Piccino di Maglie), Maglie, Erreci Edizioni 1990;
E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi orientamenti”, XX, marzo-giugno 1989;
F. Quarto, Nuove emergenze tipografiche leccesi. Mundus Traditus. Bottega di Pietro Micheli 1686, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011;
G. Scrimieri, Annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Galatina, Editrice Salentina, 1976;
G. Spagnolo, Una sconosciuta edizione leccese (1664) del tipografo Pietro Micheli, in “Lu Lampiune”, X, 3, dicembre 1994;
Idem, Un’opera sconosciuta e non ritrovata di Pietro Micheli: le Costituzioni del 1685 per il Conservatorio di S. Anna di Lecce, in “Il Bardo”, XXI, 1, luglio 2011;
Idem, Per la storia dell’Editoria Salentina del ‘600. “Dell’Orazioni e Sermoni con le quattro domeniche dell’Avvento” del tipografo Pietro Micheli, in Studia Humanitatis Scritti in onore di Elio Dimitri, a cura di Dino Levante, Manduria, Barbieri Selvaggi Editori 2010; Il contributo pubblicato nel 1994 su “Lu Lampiune” fu determinato dal rinvenimento di una edizione sconosciuta del Micheli del 1664 mutila del frontespizio e di alcune pagine iniziali ma dotata del Colophon. La ricerca recente di F. Quarto indicata innanzi ha permesso di individuarne un esemplare completo presso la Biblioteca della Società napoletana di storia patria di Napoli. L’edizione è la seguente: Regola di Santa Chiara confermata da Papa Urbano IIII con le constituzioni, che si osservano nel Monastero di San Francesco delle Cappuccine di Napoli e si osserveranno dalle monache del nouo Monastero erigendo delle Cappuccine della città di Lecce, in vigore della Bolla di Nostro Signore Papa Alessandro settimo, spedita alli 17 di Dicembre 1663: In Lecce, appresso Pietro Micheli, 1664;
Idem, Per la storia dell’editoria salentina del ‘600: l’ultimo Micheli?, in “Il Bardo”, XV, 3, dicembre 2005;
Idem, Edizioni di Pietro Micheli nella “Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in “Il Bardo”, XXIV, 1, Marzo 2015;
Idem, Un’opera dispersa di Pietro Micheli: Il Trattato sui benefici ecclesiastici di Andrea Lanfranchi (1653), in “Il Bardo”, XXV, 2, Maggio 2015;
Idem, S. Francesco e “Il miracolo del pane” in un’edizione leccese (1754) del tipografo Domenico Viverito, in “Lu Lampiune”, XI, 1, 1995/1996;
Idem, Una scheda per gli annali tipografici di Domenico Viverito, in “Il Bardo”, XIX, 1, Giugno 2009;
Idem, I Domenicani a Novoli: un affresco e un’incisione della Vergine del Rosario, estratto da Il Rosario della gloriosa Vergine. Iconografia e iconologia mariana in Terra d’Otranto (secc. XV-XVIII), Lecce, Edizioni Grifo, 2016;
Idem, Storie di libri. Una nuova edizione di Pietro Micheli: la Regola di Santa Chiara per le suore Cappuccine di Napoli e Lecce (1664), in “Humaniora”. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta, Ed. Grifo, Lecce 2020, pp. 389-403;
Idem, Contributo alla storia della stampa leccese nell’Ottocento. Edizioni dai torchi Marino e Agianese, in “Rassegna Storica del mezzogiorno”, n. 5, Tipografia CMYK, Alezio 2021, pp. 307-346;
P. Sisto, Il Torchio e le lettere, Bari, Progedit 2016;
M.R. Tamblé, Sulle tracce di Pietro Micheli, tipografo borgognone in Terra Salentina, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011.
Le illustrazioni a corredo del saggio sono tutte tratte da “esemplari” appartenenti a Biblioteca privata. Il testo “Propositiones Geometricae”, considerato l’anno tipografico riportato sul frontespizio, è probabilmente la prima opera stampata da Vincenzo Marino e fratelli (“Typis novissimis”).
Molto probabilmente anche il vino, come la penicillina, è frutto di una scoperta casuale, ma questo strano gemellaggio non si ferma qui, perché, insieme con gli effetti benefici legati al loro uso sensato, vanno registrati anche quelli negativi, per non dire nefasti, quali, rispettivamente, l’alcolismo e la resistenza dei batteri. Un alimento siffatto non poteva bon trovare ospitalità in molti proverbi di diffusione nazionale, a partire da Nel vino la verità (traduZione del latino In vino veritas, a sua volta dal greco Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια) e continuare con Bacco, tabacco e Venere riduconol’uomo in cenere, Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, Nella botte piccola c’è il vino buono ed altri, in cui l’intento moralistico è una costante, come nelle due tavole che seguono.
Vi si legge uno degli Adagia (VII, 10) di Erasmo da Rotterdam (1466 c.-1536):
Plato, temulentiae deditis suadebat ut poti ad apeculum sese contemplarentur, ita fore ut ab eo vitio recederent, conspecta foeditate (Platone consigliava a quelli dediti all’ubriachezza di guardarsi allo specchio dopo aver bevuto, (diceva) che sarebbe sarebbe accaduto che, visto quello schifo, avrebbero abbandonato quel vizio)
SCORTATIO ET VINUM ENERVANT COR HOMINIS (Il libertinaggio e il vino snervano il cuore dell’uomo). Scortatio è da scortum=prostituta. In calce i due esametri Balnea, vina, Venus iuvenilia corpora sternunt./Exemplum tibi praebet in hoc audax Holofernes (I bagni, i vini, l’amore giovanile prostrano i corpi. In questo ti offre un esempio l’audace Oloferne). Qui auax ha una calenza se non sarcastica, almeno ironica perché a quanto si legge nella Bibbia, Oloferne fu decapitato da Giuditta dopo essere stato da lei ubriacato.
Olio e vino sono stati da sempre i prodotti di punta dell’agricoltura e se il primo sta ancora pagando lo scotto ad un batterio contro il quale non è stato ancora scoperto l’antibiotico efficace, il vino ha assunto una salda notorietà ed un indiscusso gradimento internazionale. I proverbi dialettali, non fosse altro che per riconoscenza, non potevano certo trattarlo col registro delle tavole appena viste. La dimostrazione è in questa piccola antologia.
Buon S. Martino a tutti e, se volete unirvi al nostro coro, cliccate sull’icona finale …
1) ALLU MALATU: BROTU TI IADDHINA/E SSCIROPPU TI CANTINA
Al malato: brodo di gallina e sciroppo di cantina (vino
2) BBUENU MIERU1 FINU A FFEZZA,/BBONA FEMMINA FINU A BBICCHEZZA
Buon vino fino alla feccia, donna buona fino a vecchiaia
3) BBUENU MIÈRU SINU A FFEZZA,/BBUENU PANNU SINU A PPEZZA
Buon vino fino alla feccia, buono panno fino a pezza
Ancora una similitudine forse meno galante di altri, ma, in fondo, pure il vino era ed è rimasto (almeno lui …) uno dei prodotti fondamentali della nostra terra.
4) CINCA2 ‘EVE MIERU PRIMA TI LA MINESSCIA,/SALUTA LU MIÈTICU TI LA FINESSCIA
Chiunque beve vino prima della minestra, saluta il medico dalla finestra
5) CI ‘OLE BBÌSCIA LU ‘MBRIACU VERU,/SUSU LU DOCE CU BBIA MIERU
Chi vuole vedere il vero ubriaco, che beva vino sul dolce
6) LA ‘OTTE TAE LU MIERU CA TENE
La botte dà il vino che tiene (contiene)
Vale, fra l’altro, per l’educazione (il fallimento non è imputabile all’allievo ) e per la politica (se un governo fallisce, la colpa è di chi lo ha formato).
7) LA SANITATE TI L’OMU GGH’È3 LA ‘UZZEDDHA4
La salute dell’uomo è la piccola boccia
Il diminutivo (uzzeddha) ridimensiona quello che poteva sembrare un inno all’alcolismo e che, al contrario, è un invito a bere, sia pur moderatamente il vino, le cui proprietà benefiche, se così consumato, sono state confermate scientificamente.
8) LU MIERU SI CHIAMA CARUSU5:/PRIMA SCENDE SOTTA E PPOI SALE SUSU6
Il vino si chiama caruso: prima scende sotto e poi sale su
9) MIERU ‘ÈCCHIU E UÈGGHIU NUEU
Vino vecchio e olio nuovo
10) QUANTI BICCHIERI TI MIERU MI BBEU,/TANTI PINSIERI TI CAPU MI LLEU
Quanti bicchieri di vino mi bevo, tanti pensieri dal capo mi levo.
La cura, però, ha effetti collaterali disastrosi quando i pensieri sono più di uno …
11) PICCA PANE E PPICCA VINU,/PICCA ZZAPPA LU MARTINU
Poco pane e poco vino, Martino zappa poco
12) SANTU MARTINU TI ROMA INÌA/CIRCAVA ‘LLOGGIU E NO ND’ABBÌA./SOBBRA PAGGHIA E SSOTTA SARMENTE,/FAMME PASSARE ‘STA TOGGHIA TI ‘ENTRE
Martino veniva da Roma, cercava alloggio e non ce n’era. Sopra paglia e sotto sarmenti, fammi passare questa doglia di ventre
Più che un proverbio (a mo’ di quest’ultimo sono risultati più spesso usati i due versi finali) appare come l’esito del progressivo dimagrimento di una historiola abbastanza diffusa, in cui il protagonista (a seconda dei territori, è ora Cristo, ora s. Martino, entrambi plausibili pensando a sarmente, sinonimo metaforico di vino). Nel corso di un viaggio è in una casa ospite, gradito per il marito, meno dalla moglie, che per punizione è colta da mal di pancia. Tuttavia l’ospite la libererà dal malessere per riconoscenza verso il marito. Questa trama si ricava dalla versione più estesa, che è quella di Stigliano (provincia di Matera). La riportiamo da Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959: Sante Martine de Roma venia/tutte mpusse ca forte chiuvia/sceve dicenne./Arrivate a na casa nova,/’o marite vulia, a mugghiere non volia./Pesce cutte se mangiai./’Nzott’acqua, sopa sarmente/fa passà stu dolore de ventre. (San Martino veniva da Roma, tutto bagnato perché pioveva forte. Andava dicendo l’Ave Maria. Arrivato a una casa sconosciuta, il marito voleva, la moglie non voleva. Si mangiò pesce cotto. Sotto acqua, sopra sarmenti fa’ passare il mal di ventre)
13) TICE FRIBBARU: “FRATE MARZU, FRATE MARZU, ‘MPRÈSTAME TTRE GGIURNI CA ‘ITI A ‘STA ‘ÈCCHIA CCE LLI FAZZU,/CA CI LI GGIURNI MIA L’ABBÌA TUTTI,/FACÌA QQUAGGHIARE LU MIERU INTRA ‘LLI ‘UTTI”
Dice febbraio: “Fratello marzo, fratello marzo, prestami tre giorni così vedi a questa vecchia che le faccio, che, se i miei giorni l’avessi tutti, farei cagliare il vino nelle botti”
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1 Dal latino merum=puro, quasi per sottolineare la differenza rispetto ai progenitori che di norma lo annacquavano.
2 Come l’italiano chiunque, dal latino quicumque.
3 Da egli per aferesi e passaggio –gl->-gh– come in ‘ccugghire” rispetto a cogliere.
4 Diminutivo di ozza (grande vaso di creta per conservare il vino), che ha il suo corrispondente italiano boccia, di etimo oscuro.
5 Carusu, che significa ragazzo, è voce siciliana di etimo incerto; il sua uso generico qui è in funzione della rima, probabilmente per la difficoltà a trovare un nome di persona terminante in -usu.
Per quanto esso possa valere, questo stesso post ne tradisce la sostanza, essendo io uno che non perde il suo tempo a fare recensioni solo benevoli. Quel suo scritto ha avuto uno sfortunato destino, perché, dopo aver trovato un editore coraggioso che lo pubblicasse senza che il suo autore sborsasse un solo euro, tutto è finito, con le bozze già pronte, con l’improvvisa dipartita di chi gli avrebbe assicurato una più o meno ampia conoscenza.
Lucio non ha mai nutrito sogni di gloria e, nonostante fosse stimato nel suo ambito di lavoro, non ha mai sgomitato e per questo avrebbe senz’altro, a mio parere, meritato molto di più. Per la mancata pubblicazione di quello che considerava una pausa diversiva già messa in soffitta, non se ne è mai fatto un cruccio.
Due anni fa, nel corso di una delle sue telefonate mensili, la cui durata era direttamente proporzionale alla innata sua piacevolezza ed al mio gradimento, mi mise al corrente, con quella monchalance che è invidiabile solo se è sincera, che un male, domato da decenni, aveva ripreso il sopravvento. Le telefonate successive non mi inducevano all’ottimismo, anche se i residui delle sue forze non gli stavano impedendo di preparare una sorta di versione molto personale di quello scritto. È quasi regola che l’autore di un’opera in prosa o in poesia sia il meno adatto a leggerla, ma chi poteva farlo meglio di Lucio col suo vissuto di sceneggiatore, regista e doppiatore? Mi accorgo di aver usato troppi tempi del passato per non tradire la consapevolezza che il forse del titolo non mette certamente in dubbio doveroso ma serve solo ad ammantare ricordo di una disperata speranza.
L’unica cosa che mi rimprovero è che un po’ per la vista precaria, un po’ per la mia scarsa per non dire nulla, pratica delle funzioni più semplici del cellulare, può sembrare impossibile ma è così, in dieci anni non ho memorizzato il suo numero e non conosco un solo amico comune. Da due mesi la rete quasi giornalmente mi dava di Lucio notizie già note, finché oggi ho appreso che il suo Un cammello a tre gobbe può deliziare altre persone diverse dal sottoscritto e da chi, magari per un motivo fortuito e fortunato com’è capitato a me, abbia avuto l’occasione di leggerlo.
Fino a qualche anno fa sulla vita di Geronimo Marciano, autore della celebre Descrizione di Terra d’Otranto, si conosceva poco o nulla; ora, grazie alle ricerche di Giovanni Cosi1, ai numerosi ed inediti documenti da lui rintracciati nell’Archivio di Stato di Lecce e in quelli parrocchiali di Copertino, Leverano, Veglie, Maruggio, Novoli molti dubbi sono stati chiariti e si ha certamente un quadro più chiaro e più completo della sua vita, delle sue peregrinazioni, delle diverse tappe della sua professione di speziale o di medico condotto (in precedenza solo M. Cazzato e D. Novembre2 avevano fornito notizie inedite ed esatte).
Le vicende storiche, umane e, soprattutto, “letterarie” del Marciano, o meglio dei Marciano (come vedremo), si arricchiscono oggi di un altro inedito documento, rintracciato presso l’Archivio di Stato di Lecce, ritengo, di grande utilità per un ulteriore sviluppo del discorso e non certamente privo di stimolanti riflessioni. Prima di parlarne, è opportuno però fare, anzitutto, qualche precisazione di carattere familiare. Sappiamo (attraverso le minuziose e puntuali ricerche del Cosi) che negli anni in cui Geronimo Marciano visse a Copertino, si sposò due volte ed esercitò l’arte dell’aromatario. Oltre alla figlia “Maximilla” avuta dalla prima moglie “Mita Pascalis” (o “Margaritae Paschalis”), ebbe altri cinque figli (quelli accertati attraverso i documenti ritrovati, ma non si esclude che possa averne avuti altri) dalla seconda moglie Diamante Miccoli di Copertino, sposata molto giovane. Essi rispondevano ai nomi di Luca Giovanni (nato a Copertino il 9 settembre 1588), Laura (tenuta a battesimo il 22 marzo 1600 a Veglie), Giovanni Francesco (15 giugno 1601 sempre a Veglie), Giulio Cesare (18 dicembre 1604 a Veglie) e ancora un Giulio Cesare (che ricorda il precedente defunto, sempre a Veglie il 21 gennaio 1607)3.
Per quanto riguarda Luca Giovanni Marciano (la cui nascita, come già detto avvenne il 9 settembre 1588), anche lui sulle orme paterne scelse il mestiere di medico (Artium et Medicinae Doctoris, come si diceva allora)4, cosa che non impedì – come non era stato d’impedimento al padre – di coltivare, in privato, altri “interessi” come dimostra l’inedito documento di seguito riportato.
Era il 19 giugno 1612, e di fronte al notaio Pietro Fulino di Copertino5 si presentano, per una Declaratio, il Sindaco (Silvestro Pala), gli Ordinati e gli Eletti che costituivano il Publico Regimento dell’Università di Leverano. Costoro, “in vulgari lingua” affermano “come è loro pervenuto ad orecchio la notizia esser stato Luca Giovanni Marciano AMD cittadino e padrizio dell’istessa loro padria per conto di certi versi che quello avesse fatti per burla, e che si pretende esser stato fatto citare in nome d’essa Università di Leverano (senza saputa d’essi Sindaco et ordinati), che però hoggi predetto giorno spontaneamente” – continuano nel dichiarare – “che né loro né alcuno di loro… hanno fatto istanza a nissuno tribunale contro del detto medico loro cittadino né sanno cosa alcuna di detta citazione, né mai hanno fatto procura né persona di nissuno per simile occasione”.
Quindi i “versi burleschi” del Marciano, a quanto sembra, non avevano procurato le ire dell’Università. In realtà, affermano, i dichiaranti, essi hanno “fatto procura in nome della di loro Università per la causa ch’essa tiene con il conte di Palmariggi (…) sopra alcune differenze civili e criminali et alle occorrenze d’essa Università e non per causa che si dia fastidio alcuno al detto medico” perché non “hanno havuto mai intenzione noiarli”. Purtroppo, non sappiamo – forse non lo sapremo mai – i contenuti dei versi burleschi del Marciano. Né sappiamo il motivo del contendere le differenze che vedevano antagonisti la povera Università di Leverano e il ricco, colto e “illuminato” conte di Palmariggi, ovvero Alessandro Mattei II che lo stesso Geronimo Marciano, padre di Luca Giovanni, ricorda nella sua Descrizione come “uomo di singolar dottrina, versato in tutte le scienze, nella greca e latina lingua eruditissimo, saggio e prudentissimo principe”, uomo con cui comunicò e discorse molte cose della sua Descrizione (anche se non è da escludere, dalle notizie che abbiamo su Alessandro Mattei II, risulta difficile pensare a un episodio di sopraffazione feudale)6.
Rileggendo più attentamente la “dichiarazione”, si ha però l’impressione che la questione doveva essere diventata abbastanza complessa, all’epoca, tanto da ingenerare grande confusione e pettegolezzi (“pervenuto ad orecchio”), se i dichiaranti sentono appunto la necessità di presentarsi spontaneamente da un notaio per chiarire il malinteso a beneficio dello stesso Luca Giovanni Marciano che aveva allora l’età di 25 anni.
Di versi, anche se non burleschi, ma certamente molto più famosi, sentiremo comunque parlare ancora, in seguito, per merito (seppur indiretto) del suddetto Luca Giovanni che arricchì l’albero genealogico della sua stessa famiglia con un’altra celebrità. Egli, come il padre (faccio ancora riferimento al saggio di Cosi), si sposò per ben due volte: il 10 febbraio 1613, a Maruggio, dove esercitava la professione di medico, sposò Silvia Palmarici di Mario e di Rebecca Sicardo da cui ebbe i figli Maddalena (7 gennaio 1614) e Geronimo (15 febbraio 1615). Successivamente, il 2 marzo 1631, sposò a Salice, Isabella Mavaro in quest’atto di matrimonio si precisa che è vedovo)7. Da questo secondo matrimonio (secondo quanto scrivono G. De Nisi e L. Quarta), sarebbe nato un altro Geronimo (dopo la morte del primo nato a Maruggio)8.
Quest’ultimo Geronimo, poi futuro parroco di Guagnano, soprannominato “Lu Mommu de Salice”, si distinse per averci lasciato quello che è considerato il più antico testo poetico dialettale salentino, ovvero “Viaggio de Leuche a lengua de Lecce compostu dallu Mommu de Salice, ed ultimamente dallu medesimu, rinuato mpiersu lu scegnu de Casaleneu deddicatu allu marchese d’Oria D. Michele Imperiale”. Michele Greco, bibliotecario della Gattiana di Manduria, lo ritrovò in un volume che faceva parte della raccolta di manoscritti messi insieme dal coltissimo e geniale geografo, storico e poligrafo mandurino Giuseppe Pacelli, raccolti indefessamente e pazientemente sin dalla sua prima gioventù. Questo volume fu donato in seguito da Giuseppe Gigli, poeta mandurino, nel 1897 al sac. Leonardo Tarentini, scrittore di storia mandurina e da questo affidato alla bilioteca Gattiana9. Lo stesso Greco successivamente, come scrive Enzo Panareo che del “bellissimo e vago componimentoeroico in lingua leccese” s’interessò in un suo pregevole saggio, “la pubblicò sia pure mutila per esagerati scrupoli relativi alla decenza – manifestandosi, pertanto, meno spregiudicato del Pacelli,vissuto circa un secolo prima – e non eccessivamente fedele all’originale, pose inrilievo, fornendo in tal modo una suggestiva ipotesi di lavoro, che si trattava del più antico testo poetico in dialetto salentino che finora si sia rinvenuto”10. Nel concludere, alla luce anche del documento, in precedenza segnalato e di quanto si sia sinteticamente esposto, non si può non constatare, a mio avviso, che risulta pienamente realizzata e tramandata, tra i Marciano, una significativa e indubbia eredità culturale, eredità che caratterizzerà e lascerà un’impronta tanto profonda quanto duratura sia nel campo della descrizione storica e geografica che in quello della dinamica letteraria.
Appare chiaro altresì (e questo può essere un’ulteriore suggestiva ipotesi di lavoro) che un eventuale e fortunato ritrovamento dei versi burleschi di Luca Giovanni Marciano (nel caso fossero stati scritti in dialetto e non in “vulgari lingua” – ipotesi più che possibile considerata la ragione per cui erano stati concepiti – e rivelassero una certa dignità letteraria) farebbe spostare di molti anni il momento della nascita della letteratura salentina in dialetto, collocato, com’è noto (in relazione al poemetto de “Lu mommu de Salice”) tra l’ultimo decennio del Seicento e il primo decennio circa del Settecento, cioè facendo riferimento alla cronologia dei personaggi illustri citati nel testo – Donna Teresa Erriquez sposa di Don Giovanni Filomarino, e Michele III Imperiali, Marchesi di Oria –, tra gli anni 1692 e 1714. Diversamente, avremmo invece un raro e simpatico esempio di satira seicentesca, quella satira che ancora oggi, è tanto e largamente utilizzata nei “numeri unici” che vengono pubblicati in occasione delle nostre feste patronali, dove i principali “satireggiati”, guarda caso, sono proprio i politici, gli uomini pubblici o i gruppi di potere.
In “Il Salice – Quaderno della Biblioteca Comunale”, Salice Dicembre 1998, pp. 43-48 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 47-52, Novoli 2024.
Note
1 G. Cosi, Nuovi documenti sulla vita di Geronimo Marciano, in “Contributi”, a. IV, n. 4, dicembre 1985, pp. 33 e sgg. (studio fondamentale sui Marciano in Terra d’Otranto). A questo saggio si rimanda, per un quadro più completo, anche per le indicazioni bibliografiche degli altri studi sul Marciano dei vari Cazzato, Novembre, Zacchino, De Giorgi, Laporta, Catamo e Zecca.
2 D. Novembre, Geronimo Marciano, corografo di Terra d’Otranto nel primo seicento, estratto dal fasc. XLIII-XLIV di “Studi Salentini” Lecce 1973.
3 G. Cosi, Nuovi documenti ecc. cit., p. 34, 36, 38, 40, 41.
4 I documenti che si riferiscono a Luca Giovanni Marciano sono quelli classificati con i numeri 8-10 (da questo risulta che viene cresimato in Leverano il 12 maggio 1593 – padrino don Donato Paladini) e 17 – G. Cosi, Nuovi documenti ecc. cit., p. 38, 39, 41.
5 Archivio di Stato di Lecce, Protocollinotaio Pietro Fulino di Copertino, 29/4, a. 1612, cc. 123v-125v.
6 G. Marciano, Descrizione, origini e successi della provincia di Terra d’Otranto, Napoli 1855, p. 472 (ristampato nel 1996 dall’ed. Congedo con introduzione di D. Novembre). Sulla figura e l’opera di Alessandro Mattei II consultare di chi scrive Storia di Novoli. Note e approfondimenti, Lecce 1990; Un cartografo in età barocca. Frate Lorenzo di S. Maria de Nove, Lecce 1992; Il Principe Perfetto: Giovanni Antonio Albricci III (Testimonianze dall’Ignatiados, poema eroico inedito di Francesco Guerrieri, illustre letterato salentino, in “Quaderno di Ricerca”, Salice S. Ottobre 1989, rispettivamente alle pp. 36-47 e pp. 48-49; e infine il recente M. Cazzato – G. Spagnolo, Profili di committenza aristocratica. Il caso dei Mattei Signori di Novoli, in “Camminiamo insieme”, a. XII, n.1, Novoli gennaio 1998, pp. 16-17.
7 G. Cosi, Nuovi documenti ecc. cit., p. 46.
8 G. De Nisi, Salice, Terrae Hidrunti, Ostia MCMLXVIII. Dalla nota n. 142 di pag. 97 di questo contributo si ricavano le seguenti notizie (non si dà però la fonte delle informazioni) su “Lu Mommu de Salice”: Si presume sia nato a Maruggio nel 1632, dove il padre, Luca Giovanni, esercitava la professione medica. Rimasta vedova, la madre Isabella Manaro (G. Cosi la riporta invece come Mavaro), si trasferì con i figli a Salice, che era il suo paese d’origine. Qui Geronimo intraprese, ad un certo momento, la carriera ecclesiastica. Dal 1669 al 1676 Geronimo fu arciprete di Guagnano. Ma per le condizioni di salute della madre, poi defunta nel 1677, Geronimo rinunziò all’arcipretura e rientrò nel Capitolo di Salice. Nel 1695, con atto del notaio Scipione Forte, Geronimo Marciano donò tutti i suoi beni ai nipoti, i quali risiedevano a Manduria. Qui si trasferì, infine, nel 1700 andando ad abitare con Marco Domenico Alemmo. Morì il 28 febbraio del 1714 e fu seppellito nella Chiesa Collegiata di Manduria”. Secondo il Quarta, il Marciano (“Lu Mommu”) nel 1666-1667 fece rappresentare in Salice, all’aperto, a spese del Capitolo, una “Passione di Cristo”, in versi, il cui manoscritto era conservato dall’Arciprete Gravili (Cfr. G.L. Quarta, Salice Salentino dalle origini al trionfo della Giovane Italia 1001-1860, Galatina, giugno 1989).
9 M. Greco, Lu Mommu de Salice e il suo“Viaggio de Leuche” a lengua noscia de Rusce, in “Rinascenza Salentina”, a. III, dic. 1935-XII, n. 5-6, pp. 253-266. Viene pubblicato il poemetto del Marciano e lo stesso Greco dà notizia del rinvenimento nell’Archivio Parrocchiale di Manduria (Necrolog. vol. I, C. 40) del suo atto di morte e con il luogo della sepoltura (“1714… Geronimo Marciano di Salice 28 Febraro in Ch. Colleg.”). O. Parlangeli lo ripropose poi in “Raccolta di testi dialettali salentini, in “Ottocento poetico dialettale salentino”, I vol., a cura di Ribelle Roberti, Galatina s.a. (ma 1954), pp. 229-251 (il testo è utile non solo per i componimenti in dialetto salentino successivi, ma anche per qualche testimonianza precedente il componimento del Marciano: Nniccu Furcedda, La Juneide, sedici sonetti inediti del ‘700 in dialetto leccese scoperti nel Museo Britannico di Londra scritti da un anonimo e pubblicati da Nicola Bernardini.
10 E. Panareo, Geronimo Marciano e la poesia dialettale salentina, estratto da “Quaderno di ricerca”, Salice S., Marzo 1986 (importante per una valutazione critica e letteraria dell’opera in cui scrive, il Panareo “… il dialetto del Marciano è tale da far pensare che la lingua del Salento può promuovere la realizzazione di una fascia di poesia” pp. 38-46. Uno studio aggiornato e ben documentato del “Viaggio” del Marciano con relativa traduzione in lingua italiana è stata fatta qualche tempo fa, da M. Marti prima con Il più antico testo letterario in dialetto salentino: il “Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano, in “Omaggio a Gianfranco Falena”, Padova 1993, pp. 1241-1264 e poi con “Il Viaggio de Leuche” di Geronimo Marciano”, in “Letteratura Dialettale Salentina – Il Settecento”, Galatina 1994, pp. 25-53. Utili altresì, per avere un quadro più completo sulla letteratura dialettale salentina, possono essere infine, i contributi di E. Pindinelli, Settecento Tipografico Leccese (19 schede per un repertorio delle edizioni), in “Nuovi Orientamenti”, a. XVII, n. 98, sett-ott. 1986, pp. 12-13 (per il sonetto di Oronzo Procacci, primo testo in dialetto pubblicato per le stampe – 1757 – tra i più antichi conosciuti) e di chi scrive il recente Settecento poetico inedito: un manoscritto e due sonetti “alla leccese”, in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, n. 8, Galatina 1998, pp. 243-245 (con la pubblicazione di un sonetto dialettale completamente inedito risalente al 1783).
Chi si approccia al fenomeno del tarantismo, non può non prendere in considerazione la figura di De Raho, ”medico dei tarantati” della prima metà del secolo scorso.
Francesco De Raho studia presso l’Università di Roma; nel 1906 consegue la laurea in Medicina e Chirurgia. Rientra, quindi, a Lecce, città natale, per esercitare la professione medica.
Si trova ad affrontare, così, la sintomatologia clinica del tarantati, presenti nel contesto salentino. Ne approfondisce gli aspetti biologici e ambientali. In verità al tema del tarantismo s’era appassionato già nel corso degli studi, tanto da farne argomento della tesi di laurea.
De Raho sostiene che il fenomeno, una reazione devastante con scosse e tremori del corpo dovuta secondo la tradizione popolare al morso del ragno, vada inquadrato “nell’isteria in senso lato”.
È un’impostazione che incontra l’interesse del mondo accademico romano, e non solo. Anche a livello internazionale gli studi di medicina si mostrano particolarmente attenti al tema della “Isteria”. Una scelta decisamente vincente: la sua tesi, verrà successivamente pubblicata con il titolo “Il tarantolismo nella superstizione e nella scienza”. Il saggio assumerà una rilevanza fondamentale per l’interpretazione del fenomeno: ancora oggi viene citato dagli studiosi della materia.
Francesco De Raho non si limita, tuttavia, ad esercitare con passione la professione medica. Appartiene a una famiglia di facoltosi proprietari terrieri, i baroni De Raho. Ragioni patrimoniali lo indurranno a intraprendere l’attività imprenditoriale nel settore agricolo, a cui finirà per dedicarsi in modo prevalente.
La conoscenza delle condizioni di vita del mondo rurale lo indurranno ad affrontare le relative problematiche secondo un punto di vista che va oltre l’aspetto prettamente clinico del fenomeno.
Per De Raho le radici del tarantismo vanno ricercate nel vissuto esistenziale e nel contesto sociale ed economico del tarantato. Un’espressione adottata dalla tradizione e dalla cultura salentina per risolvere situazioni di criticità emergente. Si tratta di un’intuizione che in qualche modo anticipa l’interpretazione del fenomeno come “sistema simbolico”, con cui più tardi si definirà la questione del tarantismo. L’obiettivo dichiarato da De Raho è rimuovere le implicazioni che il fenomeno ha assunto con la magia, la superstizione o le false credenze religiose, che condannano il tarantato all’emarginazione sociale e alla sofferenza fisica.
In sintonia con lo spirito illuminista e il pensiero positivista dominante, al medico preme formulare un giudizio sul tarantismo, libero da “credenze superstiziose” e in tal modo emancipare i tarantati da una condizione che interferisce in maniera negativa sulla condizione di salute. Per tanto s’impegna a fornire elementi di rigore scientifico alla sua trattazione: cita fonti autorevoli a sostegno della sua tesi, allega la descrizione di una serie di casi clinici direttamente osservati.
Infine esegue una vera e propria sperimentazione, facendo “mordere dalle tarantole raccolte molte cavie”. Il riscontro che gli animali “nulla presentavano degno di nota”, è riportato come prova a sostegno della sua tesi: l’azione tossica del morso del ragno non può essere ritenuta responsabile della sintomatologia del tarantismo.
De Raho intende, così, porre fine alla “ciarlataneria” sulla tossicosi da morso di ragno e alle tesi “assurde, per cui si scorgeva sempre nell’insorgere e nella natura dei fenomeni morbosi, l’influenza di forze occulte anzi addirittura diaboliche”. Il medico lamenta che “ molti giudicarono per induzioni vaghe su poche osservazioni altrui, in parte erronee ed esagerate, ed immaginarono, poiché la nevrosi per se stessa ne dà agio, cose ancora più favolose e più sorprendenti”. In sintesi, si propone di “razionalizzare” l’approccio al tarantismo. Classificato tra le Nevrosi, il tarantismo può ottenere il riconoscimento da parte della medicina ufficiale.
Ragione, Progresso e Scienza avrebbero sottratto i tarantati dal retaggio delle epidemie morali del medioevo, dalla stregoneria, dalla superstizione e dalla false credenze religiose.( cfr F. De Raho, Il tarantolismo nella superstizione e nella scienza, Besa ed.)
Lo stesso De Martino gli riconosce il merito di aver messo a profitto dei tarantati il sapere appreso sui libri di Charcot, di Gilles de la Tourette e di Pierre Janet” (cfr E. De Martino, La terra del rimorso). Un riconoscimento, che probabilmente ha contribuito alla maggiore notorietà di De Raho rispetto a quella di altri medici salentini che pure hanno mostrato interesse e dedizione per i tarantati. Al contempo, però, De Raho avverte anche il pericolo che inquadrare il fenomeno come isteria, poteva essere soggetto a trattamenti terapeutici anche severi, basti pensare all’uso delle “cure elettriche”. Una certa critica, infatti, ritiene che tale impostazione abbia favorito un’eccessiva medicalizzazione del fenomeno.
Le doti umanitarie, l’empatia verso la sofferenza e la formazione classica di Francesco De Raho rientrano nella figura del “medico umanista”, a lungo presente nella tradizione meridionale.
Un clinico e un intellettuale radicato nel territorio salentino, ma aperto e sensibile al clima culturale dell’epoca. Un testimone del tarantismo del primo Novecento, quando il fenomeno è ancora pienamente attuale e conserva buona parte delle caratteristiche della tradizione popolare originale, ma comincia a risentire del contraccolpo della cultura razionalista, che scardinerà le radici magiche e popolari, preparandone il suo epilogo.
Nota. Il tema del presente contributo è trattato dall’autore R. Lupo in Tarantismo senza tarantati, Musicaos Ed.: tutti i diritti di copyright sono riservati.
Torre Santa Susanna e la sua chiesetta di Sant’Antonio
Non dista molto la cappella di “Sant’Antonio” da Torre Santa Susanna. Il paese è lì, a pochi passi, con le sue ultime case cresciute a vista d’occhio negli anni dell’espansione urbana. Un chilometro o poco più separa l’abitato dal tempietto eretto per devozione al grande taumaturgo patavino nel 1940.
Sulla strada per San Pancrazio Salentino, che fila dritta dritta in un mare di campagne, all’altezza di “Casa Vazia”, Giuseppe Pinto pose la prima pietra sciogliendo in tal modo il voto per la grazia ricevuta: la vita salva al figlio sedicenne che contrasse il tetano. L’uomo, un contadino che si dava da fare nella negoziazione dei prodotti della terra (comprando e vendendo anche animali alle fiere), da solerte padre di numerosa famiglia (come le più allora) si spese per ringraziare a dovere il santo che “aveva sulla testa del letto”, in figura domestica sempre pregata.
“Sippuddu” (così era conosciuto da tutti, per via della sua bassa statura), aggrappandosi alle corde della fede, implorò l’intervento del dispensatore delle 13 grazie. La credenza popolare si rivelò d’aiuto, per il suo ragazzo che stava più di là che di qua.
La messa di ringraziamento, la prima, fu sentitissima ma non bastava: bisognava andare oltre; pertanto, il papà, non pago, attaccando l’asino al carretto (quello delle mercanzie), si portò a Lecce: una distanza che richiedeva il viaggio di un’intera notte. La meta era la bottega del cartapestaio, che lo accontentò vendendogli una statua di sant’Antonio non troppo costosa, di media grandezza. Andava bene, faceva al caso.
L’intenzione di onorare il miracoloso fraticello fu presto cosa fatta; pagato il dovuto, con il simulacro imballato (con le buche in agguato non si scherzava!) fece ritorno a casa (pregustando la contentezza dei familiari). L’opera di fine artigianato, dal formato abbordabile, rimase nello stanzone giusto il tempo necessario per porla in piedistallo d’altare, nell’aula liturgica che stava venendo su, bella e delicata, nel campo acquistato coi sudori d’una vita.
Fece la sua figura (eccome se la fece) quel manufatto apprestato da un nome di grido (esposto in vetrina di città blasonata), che per sentito dire aveva fama che travalicava i confini di provincia. Quale miglior “biglietto da visita” per i fedeli che, a partire dai tempi di guerra, ogni 13 di giugno (ricorrenza di calendario del Doctor evangelicus, divenuto tale per proclamazione di Pio XII nel 1946), processionalmente si portavano alla chiesetta extraurbana.
Oggi, però, che l’originale del santo non è più al suo posto (lo rubarono, i maledetti), la copia comunque sopperisce alla bisogna. La custodiscono i discendenti del devoto; la ricollocano nel dì della festa, lasciandola giusto per le ore dell’adorazione di coloro che non dimenticano l’appuntamento antoniano.
Sullo spiazzo, che funge da sagrato (tenuto a meraviglia, con l’erba rasata e gli alberi d’ombra che fanno cornice), il prete celebra ora come allora. Certo, non è facile reclutarlo per la funzione, ma alla fine la benedizione si fa, la si impartisce con grande soddisfazione dei parenti di Giuseppe Pinto. Essi, come insegnato dal loro indimenticato congiunto, offrono ai presenti il pane di sant’Antonio, che non è più quello dei poveri, ma è apprezzato lo stesso (anche dai ricchi) per il suo significato profondo, di attaccamento alla tradizione, che si tiene viva lasciando giorno e notte la porta aperta della chiesina, amorevolmente ripresa nelle sue linee architettoniche.
Si respira – verrebbe da dire – una sorta di seraficità tanto nel dentro quanto nel fuori del luogo sacro.
Condividere la preghiera facendo gioiosa comunità (popolo di Dio “in trasferta” dal paese) con un panetto sbocconcellato per rispetto del posto (gli altri pezzi si incartano per casa…), non credete possa essere un viatico per affrontare una camminata che alfine fa bene anche allo spirito? Provare non è una penitenza!
RispondiInoltra
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La larva convivialis di Vereto ovvero della romanizzazione del Capo di Leuca
Attraversando le esposizioni del Museo Archeologico Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce si possono scoprire alcuni peculiari reperti antichi che stupiscono e incuriosiscono anche il visitatore non appassionato di archeologia. Mi viene subito in mente lo splendido disco aureo proveniente dagli scavi di Roca (età del Bronzo Finale, XII/XI secolo a.C.), che fa bella mostra di sé in una delle sale principali del museo, oppure le famose Veneri di Parabita che, dopo millenni, restituiscono ancora il senso di quella che fu la religiosità delle genti salentine di epoca neolitica.
Tuttavia ci sono certi reperti che restano più nascosti, magari nell’angolo di una teca poco illuminata, ma non per questo sono da considerare meno importanti dal punto di vista storico e, soprattutto, meno affascinanti. Così, se si ha la pazienza di osservare con attenzione le decine di vetrine espositive del museo leccese, una volta arrivati alla sezione dedicata agli scavi di Vereto, s’incontra una vera rarità archeologica.
Si tratta di un piccolo manufatto di epoca romana, uno scheletro in bronzo alto appena una decina di centimetri, monco e un po’ deforme, che desta quasi il ghigno di scherno dell’osservatore. In realtà questo bronzetto è uno dei pochi esemplari esistenti al mondo di larva convivialis (se ne contano solo 10 esemplari sparsi tra Europa e Stati Uniti1), un oggetto che costituisce, a mio avviso, una chiara testimonianza di quanto la comunità veretina, una volta entrata nell’orbita romana, si fosse pienamente integrata nel sistema socio-culturale dell’Urbe. Inoltre questo strano reperto, all’apparenza poco significativo, offre l’opportunità di far luce, in modo parziale e non definitivo come spesso accade nella ricerca storica, su un periodo fondamentale della storia del Capo di Leuca: l’epoca della romanizzazione e della latinizzazione della penisola salentina.
Innanzi tutto occorre partire dall’uso e dal significato che a tali oggetti veniva attribuito nell’antica Roma; è noto che le larvae conviviales, o scheletri da banchetto, erano delle marionette snodabili in metallo, in genere argento o bronzo; esse rappresentavano degli oggetti di prestigio, infatti venivano usate esclusivamente sulle tavole delle classi più agiate durante i ricchi banchetti che caratterizzavano la vita sociale delle élites cittadine. Erano utilizzate in un particolare gioco di carattere conviviale e servivano per ricordare ai convitati la caducità della vita e, quindi, per esortali a godere a pieno dei suoi piaceri e dei suoi momenti lieti. Questo rituale, che a noi può apparire un po’ macabro, viene puntualmente descritto da Petronio nel Satyricon, nel famoso racconto della cena di Trimalcione, ricchissimo liberto romano, la cui mensa diventa teatro di scene comiche e grottesche che offrono uno spaccato unico della società dell’epoca. In uno dei suoi passi si legge:
“[…] Subito furono portate delle anfore di cristallo accuratamente sigillate al cui collo erano appese delle etichette con questa scritta: FALERNO OPIMIANO DI CENTO ANNI. Mentre noi leggevamo attentamente l’etichetta, Trimalcione batté le mani e disse: << Ahimè! Dunque il vino vive più a lungo dell’omuncolo! Ma allora non indugiamo a scolarcelo! Il vino è vita. […]>>. Mentre noi tracanniamo e osserviamo attoniti tutto quel ben di dio, arriva un servo con uno scheletro d’argento costruito in maniera tale che le giunture delle articolazioni e delle vertebre permettevano qualunque tipo di movimento. Dopo averlo buttato a più riprese sul tavolo facendogli assumere varie posizioni grazie alla sua struttura mobile, Trimalcione aggiunge: <<Ahimè, miseri noi, che cosa da nulla è un pover uomo. Noi tutti saremo così quando l’Orco (nda: divinità degli inferi) ci prende. Ma allora viviamo, finché possiamo stare bene>>2.
Questo brano ci da una visione realistica di quello che era il senso della vita e della morte presso una parte della società romana, l’alta borghesia nello specifico. Una società in cui, a partire del I secolo a.C., si diffonde il topos letterario della brevità dell’esistenza umana, tema centrale della filosofia epicurea.
Da Lucrezio al carpe diem di Orazio, nella letteratura latina vi è un susseguirsi di inviti a godersi la vita, di esortazioni a essere consapevoli che nulla dura in eterno e a cogliere l’attimo. In questo contesto filosofico-culturale s’inserisce il gioco dello scheletro da banchetto, un rito “di moda” nelle mense delle classi più agiate che serviva da monito, memento mori, e da incitamento a partecipare consapevolmente alle cose belle della vita3.
Dunque la larva convivialis di Vereto si colloca in un preciso contesto culturale di stampo prettamente latino. Essa proviene da una tomba scoperta nel 1961 nel territorio di Patù, in località Mariane, manca del braccio destro e della parte inferiore delle gambe4; dando per buona la datazione di I secolo d.C.5 che le attribuisce la Garcia Barraco, allora appare più chiaro come anche nell’estremo lembo sud-orientale della Penisola le élites locali, una volta passate sotto il giogo romano, si fossero precocemente latinizzate assumendo gli usi e i costumi dei conquistatori, ricalcandone i modi di pensare e, probabilmente, abbandonando l’uso della lingua messapica a favore del latino.
La penetrazione romana del Salento meridionale iniziò già nel III secolo a.C. (al 280 a.C. risale l’iscrizione della vittoria su Tarentini, Sanniti e Sallentini, al 267 a.C. quella sui soli Sallentini, al 266 a.C. quella del trionfo su Sallentini e Messapi), ma si trattò di un’occupazione piuttosto precaria tanto che le guerre annibaliche portarono diverse defezioni nel campo degli alleati di Roma: alcune città messapiche passarono presto con il condottiero africano, altre invece, rimaste fedeli, vennero assediate e distrutte dalle truppe puniche (in questo contesto si colloca la distruzione di Castro-Castrum Minervae e probabilmente anche del centro fortificato messapico di Montesardo). Tuttavia dopo le guerre sociali dell’inizio del I secolo a.C. l’antica Messapia sembra integrarsi nel sistema economico di Roma, infatti, con il passaggio dalla Repubblica all’Impero, cominciò a prendere forma, attraverso la colonizzazione agraria, il modello di organizzazione territoriale che caratterizzerà il Capo di Leuca per diversi secoli.
Nel Liber Coloniarum appaiono due notizie relative alla limitazione agraria del Salento: la prima senza data ma che in genere si colloca in età augustea, mentre la seconda è riferibile con certezza all’epoca di Vespasiano (69-79 d.C.) e menziona esplicitamente il territorio di Veretum6. Probabilmente proprio in questo momento la città più meridionale della regio secunda Apulia et Calabria (quest’ultimo era il nome con cui i Romani definivano il Salento, solo in epoca bizantina, alla fine del VII secolo d.C., esso andò a designare l’odierna Calabria7) diventava municipium8.
Dunque in epoca imperiale la città veretina, chiamata da Strabone Ouerhton policnh (oppidum Veretini), sembra integrata in modo completo nel sistema romano sia dal punto di vista politico, sia da quello economico come pure da quello culturale. Ne possiamo ricavare l’immagine di un piccolo centro attivo e vivace alla periferia dell’Impero, municipio sicuramente periferico rispetto a Roma ma ancora centrale nell’ambito dei commerci mediterranei, nello specifico per i collegamenti tra Grecia e Sicilia (funzione fondamentale che gli scali salentini, in particolare Otranto, conserveranno fino alla conquista araba di Siracusa 878 d.C.9), per questo aveva a disposizione due porti: quello di S. Gregorio e quello di Leuca con la grotta santuario della Porcinara10.
I collegamenti terrestri le erano garantiti da una strada para litoranea che collegava i principali centri della Calabria romana: attraverso la “via Salentina” si risaliva la costa ionica verso Uzentum fino a Tarentum, mentre a nord-est, verso Castrum Minervae e Hydruntum, portava quella che dai moderni viene chiamata ” via Traiana Calabra”11.
Da tutto ciò risulta chiaro che l’antica città messapica si era ben inserita nel sistema politico ed economico romano ed in questo contesto la nostra larva convivialis diviene una spia evidente di quanto, in epoca imperiale, la società veretina si fosse profondamente romanizzata accogliendo quei rituali di convivialità, dunque modi di pensare e di espressione attraverso i simboli, propri della civiltà romana. Si aggiunga inoltre che, come ci testimoniano le iscrizioni ritrovate nel territorio di Patù, sotto l’Impero era esclusivo l’uso della lingua latina indice che probabilmente il messapico non si parlava più12 sostituito dall’idioma dei conquistatori.
Già sotto i primi imperatori di Roma, Vereto era ormai un tipico municipium di stampo latino e i suoi abitanti erano diventati dei perfetti cittadini romani, avendone adottato le idee e i rituali nonché la lingua. E’ da supporre che tale profonda romanizzazione non fu una caratteristica del solo centro cittadino e delle classi più agiate ma, con ogni probabilità, essa coinvolse tutto l’ager Veretinus e la sua popolazione rurale. Un altro reperto proveniente da Patù e la toponomastica del Capo di Leuca ci autorizzano a formulare un’ipotesi del genere.
Nella chiesa di S. Giovanni Battista presso la Centopietre si trova ancora oggi un cippo romano che reca scolpita un’iscrizione latina databile al I/II secolo d.C., già pubblicata dal Mommsen nell’Ottocento. Oltre a documentare l’istituzione della municipalità veretina, infatti viene citata la magistratura del decurionato, essa fornisce lo spunto per fare ulteriori riflessioni. Riporto di seguito l’iscrizione come viene trascritta dal Daquino:
M.FADIO M.F.
VALERINO
POST MORTEM
FADIUS VALERIANO PATER
ET MINA VALERIANA MATER
D. D. D. (Locum Decreto Decurionis Dant)13
L’elemento per noi di maggiore interesse è il gentilizio Fadius. Questo nomen, che si ritrova anche in un’iscrizione proveniente da Rudiae, pare essersi conservato nel circondario come toponimo prediale, nella tipica forma terminante in -ana/-ano. Infatti, a pochi chilometri da Patù, in agro di Alessano, ritroviamo il nome “Faggiana-Fasciana” (Masseria Faggiana sulla cartografia IGM, località Fasciana/Fascianella negli atti notarili del Seicento, Fasciana nella parlata locale) che pare derivare da un fundum/predium Fadianum (= fondo, terreno, proprietà di Fadius14). Quindi si tratterebbe di un classico toponimo prediale cioè derivante dal nome personale o di famiglia del proprietario del terreno agricolo nei pressi del quale si è sviluppato, in seguito, un piccolo abitato.
Nello specifico, in antico il predium latino aveva il significato originario di “bene di garanzia” ma ben presto assunse comunemente quello di “possedimento terriero”, sinonimo di fundum. Si possono fare due ipotesi circa il nome all’origine del prediale: potrebbe essere quello del primo colono romano che ebbe in concessione il terreno che era stato strappato ai precedenti possessori attraverso la conquista militare oppure, più probabilmente, quello del proprietario che lo deteneva verso la fine dell’età imperiale, quando si formarono grandi latifondi gestiti da manodopera libera e servile.
Durante il Tardo Antico e l’alto Medioevo su questi latifondi crebbe il numero dei servi i quali, organizzandosi intorno ad un nucleo di case e capanne, diedero vita a delle comunità rurali autonome, i casali15. Questi piccoli nuclei abitati conservarono il nome del predium sul quale erano sorti ma a causa delle invasioni barbariche (prima la guerra greco-gotica, poi i Longobardi e infine gli Arabi furono la causa delle ripetute devastazioni che funestarono le campagne salentine) molti di essi scomparvero.
Una volta superata quest’epoca difficile, nel basso Medioevo, i nomi dei casali sopravvissuti vennero registrati e conservati nei documenti che sono giunti fino a noi. Dunque mi pare corretto affermare che i toponimi prediali sono delle vere e proprie “epigrafi incise nel suolo” capaci di testimoniare il grado di romanizzazione di un territorio.
Una volta appurato il significato di questa particolare categoria di toponimi, ritorniamo ad occuparci del circondario veretino facendo un elenco dei possibili prediali che si sono conservati intorno al territorio di Patù:
*Alessano: da un predium Alexianum, dal nome di origine greca Alexios, Alexis da cui il latino Alexianus e Alexionus attestati a Lupiae e Rudiae16.
*Arigliano: forse da Arellius o Aurelius, non documentato nelle iscrizioni latine del Salento17; il dialettale Trijanu invece presuppone un predium Atrilianum dal nome Atrilius18. In provincia ritroviamo sia una masseria Arigliani (nel territorio di Lecce) sia la località Trojano (Cavallino)19.
*Barbarano: dal cognomenBarbarus, poco attestato nell’antica Calabira ma molto comune a Roma e in Africa20.
*Bolano: contrada tra Corsano e Tiggiano, come l’omonima località ligure potrebbe derivare dal nomen Bolanus21 o da Volius.
*Cagniano/Cagnianello: località compresa nel feudo di Montesardo (strada vicinale Cagnani) ed attestata nel Seicento22, come Cagnano presso Porto Cesareo, pare derivare dal nomen Canius o Caninius23.
*Castrignano: dal nomen Castrinius non attestato nelle iscrizioni salentine24.
*Corsano: dal nomen Curtius che compare sia nel Salento (Rudiae) sia in Puglia. A Poggiardo troviamo la contrada Cursane25.
*Cosensano: località presso Salignano citata negli atti notarili seicenteschi26.
*Gagliano: deriva dal nomen Gallius abbastanza comune localmente27.
*Giuliano: dal nomen Iulius o dal cognomen Iulianus molto diffusi in tutte i municipia salentini: Rudiae, Valesium, Lupiae, Hydruntum, Callipolis, Neretum e Uzentum28. Si tratta di uno dei rarissimi gentilizi imperiali (membri della gens Iulia furono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone) presenti nella provincia.
*Macurano: forse dal nomen Magurius o dal cognomen Maioranus29 o dal gentilizio Maculus30. L’insediamento rupestre che porta ancora questo nome risulta frequentato da epoca bizantina31 ed è stato un casale durante il Medioevo.
*Malianu: contrada nel feudo di Tiggiano, vi si trovava un casale medievale attestato nelle fonti angioine (XIII-XIV secolo d.C.) con diversi nomi: Mamillani, Mammillani, Mammillari, Manimillani, Millani; nel Cinquecento si trasformò in Movigliano32 o Manigliano33. Il toponimo Magliano è frequente in tutta Italia34 e pare derivare da Malius/Mallius o Manlius35 oppure dal gentilizio Aemilius attestato a Vaste. In questa località si trova un’ampia area di frammenti fittili di età imperiale (II-V secolo d.C.) riconducibile ad un piccolo insediamento di carattere agricolo.
*Mardano: altra contrada tiggianese menzionata sulla cartografia IGM, il prediale deriverebbe dal nomen Martius attestato in Puglia ma non nel Salento36.
*Misciano: casale scomparso nel feudo di Gagliano37. Il toponimo Miggiano è assai diffuso in tutta la penisola salentina, deriverebbe da un nomen Maedius/Medium attestato in Puglia; tra l’altro nel 1310, le Rationes Decimarum della diocesi di Otranto citano Meyanum38.
*Morciano: potrebbe venire dal gentilizio Marcius39.
*Morsanu Ranne: come Masseria Moresano, nei pressi di Gemini, parrebbe un prediale che viene dal cognomen Mauricius/Maurisius/Mauritius40; nei testamenti del Seicento viene indicata semplicemente come Morsano41. Una ricognizione di superficie della zona, che si trova tra Montesardo e S. Dana lungo un asse viario antico, ha messo in luce un piccolo insediamento romano di carattere agricolo (sono stati rinvenuti abbondanti frammenti fittili databili tra l’età repubblicana e il V secolo d.C. e una moneta in bronzo dell’imperatore Costanzo II del 350-51 d.C.) e uno di età medievale (ceramica del XII-XIII d.C.).
*Porcigliano: contrada di Alessano come attestano i documenti del Seicento42, similmente agli omonimi casali che si trovavano in agro di Ostuni e di Lecce , pare derivare dal cognomenPorcilius43.
*Provigliano: casale medievale (nel XIII-XIV secolo viene indicato con il nome Priviliani) in territorio di Alessano, conserva i resti (frammenti di anfore e di ceramica da cucina) di una piccola fattoria romana di epoca imperiale44. Potrebbe derivare da Privius/Provius che però non mi risulta attestato nell’onomastica latina.
*Pulsano: la località, indicata col dialettale Prusano, si trova a Gagliano nei pressi della chiesa di S. Francesco, ha restituito ceramica romana databile tra il I secolo a.C. e il IV d.C. e una moneta di Costantino. Fu casale durante il Medioevo45. Potrebbe derivare dal cognomen Publicius attestato di frequente nelle iscrizioni salentine46.
*Ruggiano: dal nomen Rusius/Rudius, che a sua volta deriva dalla citta di Rudiae47, attestato nelle iscrizioni brindisine48.
*Salignano: dal gentilizio Salonius49 o Salinius50.
*Spiggiano: masseria sita tra Presicce e Ruggiano, fu casale tra il XII e il XIV secolo d.C.51.
Deriva dal nomen Spedius attestato da un’iscrizione brindisina52.
*Tiggiano: forse da Attidius che non risulta attestato nelle iscrizioni latine53 o dal gentilizio Tidius54.
*Tigliano: località di Patù55, forse da un Attilius.
*Turtigliano: contrada del feudo di Patù citata nei testamenti del Seicento56, potrebbe derivare da Rutilius o Tutilius.
*Vagliano: masseria in territorio di Alessano, fu casale, conosciuto con il nome di Baliano/Valiano, abbandonato alla fine del Cinquecento. Nei suoi dintorni rimangono le tracce di un insediamento romano, probabilmente una piccola fattoria databile tra il II e il V secolo d.C.57, e di una successiva presenza bizantina. Potrebbe derivare da un fundum Valianum dal nomen Vallius58.
Se ne ricava che dei 27 possibili prediali elencati almeno 5 (Malianu, Morsanu, Provigliano, Pulsano e Valiano) hanno conservano ancora sul loro territorio le evidenze archeologiche di piccoli insediamenti rurali di epoca romana, in genere databili tra II e V secolo d.C., nonché le prove di una successiva frequentazione in età medievale. Alla luce di questo, credo di poter affermare, con la dovuta cautela, che la maggior parte di questi toponimi trae origine da un praedium.
Ne consegue che in epoca romana l’area in questione, la parte centro-orientale dell’estremo Capo di Leuca, è stata sottoposta ad un’organizzazione agraria profonda e capillare, con latifondi appartenenti a famiglie che in genere risiedevano a Brindisi e a Roma, ed affidati in gestione a contadini di stato servile59.
Le tracce archeologiche di questo sistema agrario sono ancora ben evidenti sul territorio, infatti numerosi sono i siti che conservano i resti (frammenti fittili) di piccole villae romane ed ancora visibili sul terreno sono i segni della centuriazione antica. Tale sistema di sfruttamento dello spazio agricolo durò per diversi secoli tanto da lasciare evidenti tracce nella toponomastica locale. Esso influenzò anche il successivo popolamento del Capo di Leuca, visto che le popolazioni rurali aggregandosi intorno alle fattorie romane diedero vita ai villaggi del primo Medioevo, i casali.
In conclusione mi sembra che i dati fin qui messi in luce permettano di fare alcune considerazioni. Prima di tutto bisogna sottolineare ancora una volta che la romanizzazione dell’antica Calabria fu profonda e duratura, essa coinvolse non solo le élites cittadine ma anche la popolazione rurale. Occorre inoltre ribadire che il latino era la lingua che si parlava in modo corrente anche tra i ceti sociali più modesti infatti “[…] nessuna regione come il Salento ha oggi restituito un numero così elevato ed impressionante di iscrizioni servili e delle classi sociali inferiori, tutte incise sulla tenerissima pietra locale e con una scrittura assai sciatta, incline alle forme corsive, e con evidenti influssi dialettali: tutto questo dimostra che anche i ceti più bassi avevano imparato ad esprimersi in latino […]”60.
Da ciò ne consegue che l’ellenizzazione delle nostre contrade fu un fatto essenzialmente di epoca bizantina al quale ha contribuito non poco il monachesimo greco61. Rimane da approfondire questa fase di passaggio dalla lingua latina a quella greca che si dovette compiere in un lasso di tempo compreso tra la guerra greco-gotica (metà del VI secolo d.C.) e la seconda conquista bizantina (fine del IX secolo d.C.). Purtroppo le iscrizioni salentine di questo periodo sono scarsissime e non ci permettono di fare ulteriori valutazioni in merito62.
Il secondo punto che intendo evidenziare è la continuità tra gli insediamenti rurali di epoca romana e i villaggi medievali; credo infatti che, in quest’area del Salento meridionale in modo particolare, la maggior parte dei casali che ritroviamo nelle fonti angioine siano sorti in prossimità di un predium. La toponomastica, supportata dalle evidenze archeologiche, mi pare ci possa condurre ragionevolmente a questa conclusione, anche se rimane ancora da chiarire cosa avvenne in età bizantina. Di sicuro la metà del VI secolo d.C. rappresenta un momento di cesura in cui numerosi siti romani furono abbandonati. Altri invece sopravvissero e diventarono dei veri e propri centri abitati ancora esistenti.
Resta da fare un’indagine sul campo per ciascuna località per verificare caso per caso questa continuità insediativa63 in modo da comprendere meglio i motivi per i quali alcuni insediamenti ebbero maggior fortuna rispetto ad altri destinati a scomparire.
La visita al museo leccese e la “scoperta” della larva convivialis di Vereto mi ha offerto lo spunto per fare questo breve excursus sulla romanizzazione del Capo di Leuca e mi concede l’opportunità di fare un’ulteriore riflessione: un tempo essa ricordava agli antichi veretini che nulla è eterno e gli invitava a godere delle cose belle della vita, mentre oggi il piccolo scheletro da banchetto rammenta a noi moderni quanto il nostro territorio sia ancora ricco di importanti testimonianze storiche e ci esorta a prendercene cura e a valorizzarle prima che esse scompaiano. Penso che la vocazione turistica del Capo di Leuca sia innegabile ma l’offerta culturale proposta al visitatore troppo povera e legata ai soliti stereotipi salentini.
Allora perché non creare un piccolo spazio espositivo dove raccogliere i reperti di Vereto, sparsi chissà tra quanti musei, oppure quelli degli scavi di Leuca, Salve, Montesardo? Di certo servirebbe ad ampliare la proposta culturale del nostro territorio e permetterebbe di presentarci al visitatore in un modo un po’ diverso rispetto al solito “mare, sole e musica popolare”. E forse potrebbe anche servire a renderci consapevoli di quanto sia culturalmente stratificato e ricco di storia il luogo in cui viviamo, con l’auspicio che ci insegni a prendercene cura e a godere delle sue bellezze prima che esse vengano cancellate dell’ineluttabile scorrere del tempo.
Note
1M. E. Garcia Barraco, Larvae conviviales. Gli scheletri da banchetto dell’antica Roma, Roma 2020, pp.54-65.
2Petronio, Satyricon, XXXIV, 8 (traduzione in M. E. Garcia Barraco, op. cit., p.27).
3M. E. Garcia Barraco, op. cit., pp.9-34.
4C. Daquino, I Messapi e Vereto, Manduria (Ta) 1991, p.231.
5La datazione del manufatto rimane controversa: sul cartiglio del museo il corredo funebre viene datato agli inizi del IV secolo a.C., il Daquino definisce la tomba come messapica, De Mitri la colloca nel II secolo a.C. (cfr. C. De Mitri, Inanissima pars Italiae. Dinamiche insediative nella penisola salentina in età romana, Oxford, 2010, p.100) mentre Garcia Barrano data l’opera al I secolo d.C.
6A. Marinelli, Contributo alla storia della romanizzazione del Salento, in Ricerche e Studi VIII, Quaderno n.8 del Museo Archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, Brindisi 1975, pp.135-136. Le due differenti opere di limitatio sono state evidenziate anche dalla moderna ricerca archeologica, infatti si riconoscono due aree di centuriazione: una sulla costa adriatica da Acaya fino a Tricase (ma molto probabilmente giungeva fino ad Alessano), l’altra sul versante ionico nel territorio compreso tra Gallipoli e Castrignano del Capo (cfr. G. A. Neglia, Il paesaggio del Salento leccese. Struttura naturale e forme di antropizzazione, in Messapia. Forma del territorio e delle città del Salento meridionale, a cura di F. Defilippis e M. Montemurro, Modugno (Ba) 2006, pp.3-7.
7V. von Falkenhausen, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, in Studi sull’Italia bizantina, a cura di M. Di Branco e L. Farina, Roma 2022, pp.146-147.
8Un’iscrizione di epoca imperiale, proveniente da Patù, attestata l’esistenza di un Venerius servus Rei Publicae Berentinorum (cfr. Daquino, op. cit., pp.232-233; C. De Mitri, op.cit., p.25).
9V. von Falkenhausen, op. cit., pp.139-151.
10C. Daquino, op. cit., pp.131-150.
11G. Mastrocinque, Le città della Calabria tra l’età repubblicana e la prima età imperiale: aggiornamenti per uno sguardo d’insieme, in Annales de arqueologia cordobesa numero 30, Cordoba 2019, pp.79-80.
12“A quanto pare le guerre annibaliche che hanno interessato la Puglia […], con le conseguenze di recessione economica e sociale che ne sono conseguite, hanno sancito al contempo anche un progressivo declino della cultura scritta locale, che venne nel corso del II e I secolo rimpiazzata da quella latina nel processo di romanizzazione (cfr. S. Marchesini, Epigrafi messapiche del Salento, in Idomeneo, n. 19, 69-78, Lecce 2015, p.72). Già Ennio, padre della letteratura latina ma nativo di Rudiae, si vantava di parlare tre lingue: il greco, l’osco e il latino tacendo dell’idioma natio (cfr. C. Daquino, op. cit., p.66).
13C. Daquino, op. cit., pp.217-218.
14A. Marinelli, op. cit., p.150; circa i processi linguistici che da Fadius portano a Fasciana/Fascianu cfr. G. Alessio, Problemi di toponomastica pugliese, in Archivio Storico Pugliese, 1953, pp.240-242.
15M.G. Valogiorgi I toponimi di origine prediale nella geografia della Toscana, in Rivista di Storia dell’Agricoltura, anno XXII, n.1, Firenze 1982, pp.161-162.
16A. Marinelli, op. cit., p.142.
17G. Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Bologna 1962, p.203.
18G. Rohlfs, Dizionario toponomastico del Salento, Ravenna 1986, p.126.
19P.Salamac, Toponomastica rurale del territorio leccese, Lecce 1993, pp.14 e 101.
22A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, Lecce 1994, pp.73 e 112.
23A. Marinelli, op. cit., p.146.
24A. Marinelli, op. cit., p.148.
25A. Marinelli, op. cit., p.149.
26A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.107.
27A. Marinelli, op. cit., pp.151-152.
28A. Marinelli, op. cit., pp.153-154.
29A. Marinelli, op. cit., pp.155-156.
30D.Ammassari, Carta archeologica del territorio a sud di AlessanoI.G.M. 223 I SE) e analisi strutturale della chiesa di Santa Barbara a Montesardo, Tesi di laurea in Topografia Antica, Lecce anno academico 2005-2006, p.14. Tuttavia sembra più convincente l’ipotesi che ricollega il toponimo al latino mucro/mucronis, punta, estremità aguzza, strapiombo sul mare, dunque un toponimo che deriva dalla morfologia del territorio e non un prediale.
31S.Calò, Paesaggio di pietra. Gli insediamenti rupestri delle Serre Salentine, Roma 2015, pp.101-108.
32S. Musio, Casali e Feudatari del territorio di Tricase. La dominazione angioina (Secoli XIII-XV), Tricase (Le) 2007, p.23 e nota 37.
33A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.69.
34G. Rohlfs, op. cit., p.83.
35A. Marinelli, op. cit., pp.156.
36A. Marinelli, op. cit., p.157.
37M.Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le) 2004, pp.9-11.
38A. Marinelli, op. cit., p.155.
39G. Susini, op. cit., p.204.
40A. Marinelli, op. cit., p.157.
41A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.98.
42A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.121.
43G. Rohlfs, op. cit., p.103; G. Colella, Toponomastica pugliese dalle origini alla fine del Medioevo, Trani 1941, p.307.
44 P. Cazzato, L’area archeologica di Provigliano e l’antico popolamento sulla Serra dei Cianci, in Controcanto, anno XIX, numero 1, Alessano (Le) 2023, pp.3-10.
45M.Ciardo, La storia di Gagliano del Capo. Dall’età Romana al Medioevo, Tricase(Le) 2004, pp.7-9.
46A. Marinelli, op. cit., pp.160-161.
47A. Marinelli, op. cit., p.161.
48G. Rohlfs, op. cit., p.107.
49A. Marinelli, op. cit., p.162.
50G. Susini, op. cit., p.205.
51I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di F. Ruppi, Lecce 2010, pp.274-279.
52A. Marinelli, op. cit., p.163.
53G. Susini, op. cit., p.206.
54G. Rohlfs, op. cit., p.124.
55G. Rohlfs, op. cit., p.124.
56A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Giustapane, D. Ragusa, op. cit., Lecce, 1994, p.61.
57P. Cazzato, Valiano. Dalle origini alla scomparsa di un casale del Capo di Leuca, in Controcanto, anno XVIII, numero 3, Alessano (Le) 2022, pp.3-12.
58G. Susini, op. cit., p.206.
59A. Marinelli, op. cit., p.138. “Dall’epigrafia abbiamo così, per la regione apula e salentina, una migliore conoscenza della compagine sociale dell’età imperiale romana […]; infatti moltissime sono le attestazioni di servi […] (il che) fa pensare che si trattasse di schiavi impiegati con diverse mansioni, nell’ambito di un’organizzazione prediale tanto sviluppata tecnicamente quanto socialmente conservativa.” G. Susini, Problematica dell’epigrafia classica nella regione apula e salentina, in Atti del I Convegno Associazione Comuni Messapici, Peucezi e Dauni, Bari 1969, p.48.
60G. Susini, Note di storia antica ed epigrafia salentina, in Studi Salentini XVIII, Lecce 1964, p.235.
61P. Stomeo, Lingua e cultura greca nel Salento (tradizioni e ipotesi), in Studi Salentini LV-LVI, Lecce 1979, p.14.
62Secondo il Panarese “i cognomi greci, le strutture morfo-sintattiche greco-bizantine amalgamate con quelle preesistenti romanze che attestano, nell’area magliese, una lunga fase di bilinguismo, in cui il romanzo alla fine riuscì a prevalere sul griko” (cfr. E. Panarese, Il toponimo “Maglie” e l’oronimia salentina, in Contributi. Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Maglie, Anno I, n.2, Galatina (Le) 1982, p.14).
63Ad esempio sia il centro di Alessano sia quello di Corsano appaiono strettamente legati con la viabilità in uso in epoca imperiale, ciò avvalora l’ipotesi che ambedue i paesi siano sorti da un precedente abitato romano.
Mesagne, l’Accademia degli Affumicati, Antonio Profilo e il suo quasi plagio nascosto nel Poliorama pittoresco
Il titolo può sembrare una pazza ammucchiata ma in realtà è solo la citazione in ordine cronologico dei protagonisti di questo post.
Sorvolando per ovvi motivi su Mesagne, va detto che dell’accademia in epigrafe mi sono occupato tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/) e ripeto qui che nulla ne sapremmo se non ce ne avesse lasciato memoria Antonio Mavaro (1725-1812) in un manoscritto integralmente trascritto e ampiamente commentato nel lavoro del link appena segnalato.
Nell’anno 1858 Antonio Profilo (1839-1901) pubblicava sul Poliorama pittoresco (n. 27, pp. 213-215), un contributo dal titolo Sull’Accademia degli Affumicati di Mesagne, ai miei giovanetti concittadini, che di seguito riproduco.
Per quanto riguarda la parte testuale il Profilo trae a piene mani dal Mavaro e il lettore che ne abbia interesse potrà rendersene conto, come ho fatto io, con con la collazione tra le due fonti. Per quanto riguarda la parte grafica le immagini dell’insegna dell’accademia e degli emblemi dei suoi soci non potevano essere a distanza di quasi un secolo quelle del Mavaro, non perché graficamente rozze e poco suggestive ma perché avrebbero tradito immediatamente il plagio. Così ad un lettore poco attento (magari anche allo studioso di storia locale che per un motivo qualsiasi non conoscesse il manoscritto del Mavaro) con questa sostituzione, con qualche rimescolamento nell’ordine di presentazione dei soci (vedi di seguito le tabelle comparative alla fine), e indirizzando ai giovani, dopo le avvisaglie del titolo, un’ulteriore spruzzatina di sacro patriottismo con riferimento alla gloria antica di Mesagne e senza mai citare la fonte che l’aveva dissetato, era sicuro di farla franca.
Non poteva certo immaginare che la rete (e che altro, sennò?) avrebbe permesso ad uno qualsiasi, come il sottoscritto, di smascherarlo? Questa sorta di copia-incolla ante litteram, che può essere come un peccato di gioventù, è però nulla rispetto a quello mortale di dodici anni dopo, cioè alla mistificazione (ora conoscete il nome del mistificatore) alla quale avevo accennato qualche settimana fa (questa volta non riporto il link per non essere tacciato, giustamente, di eccessiva autoreferenzialità) e che avrei già reso pubblica se nel rifinirla non mi fossi imbattuto casualmente in quel numero del periodico napoletano. So di non essere in grado di suscitare spasmodiche attese, ancor meno di soddisfarle, ma chi è curioso di conoscere un altro esempio di basso … profilo non resterà deluso .
Il Presepio della Passione nella chiesa dei Passionisti di Novoli
Una ricerca storica sulla fondazione del ritiro dei Padri Passionisti a Novoli, condotta da Carmelo Turrisi e da Mario De Marco e pubblicata nel 1987 per conto del Parametro Editore, permise all’epoca di conoscere, attraverso un avvenimento celebrativo centenario, non solo “Una comunità Religiosa nella storia di un paese alla fine dell’800”, ma anche l’eccezionale collezione di “santi in cartapesta”che la stessa chiesa dei Passionisti orgogliosamente conserva.
Chi ha il piacere di visitare questa chiesa si accorgerà che essa “è totalmente illustrata da statue e rilievi in cartapesta realizzati da Giuseppe Manzo, uno dei più rinomati artisti salentini, la cui produzione sacra raggiunse vette di alto prestigio fatto, questo, veramente unico e che spinge a considerare tale chiesa, come ha giustamente rilevato il De Marco, “a livello di pregevole museo, che nessuna istituzione civile è riuscita a realizzare, nonostante tanto blaterare sulla cartapesta di cui puntualmente si celebra il de profundis. La pietà e l’amore dei Padri Passionisti non solo ci hanno tramandato pregevoli opere d’arte e, di culto, ma offrono pure al pubblico questo volume, anch’esso memoria storica dell’arte dei Santi di carta”.
Questo singolare museo si è ulteriormente arricchito di un’altra preziosa testimonianza della pietà popolare, una nuova perla incastonata nella “ieraticaatmosfera” dominata da questo patrimonio di “santi di carta”e che vale certamente la pena di segnalare e particolarmente descrivere. Ci si trova di fronte ad una rarissima rappresentazione conosciuta comunemente come “Presepio della Passione”.Di questa particolare tipologia presepiale ne fu esposto un esemplare di “AnonimoLeccese”,realizzato in cartapesta e terracotta, alla “IVRassegna Internazionale del Presepe nell’arte e nella tradizione”,organizzata a Brindisi in occasione del Natale 1989, dall’Associazione Italiana Amici del Presepio e dall’Associazione Amici della Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” (una foto di tale esemplare fu pubblicata nel relativo catalogo).
Conosciamo il presepio come “la rappresentazione scenica della nascita del Messia”,immagine che deve la sua divulgazione a San Francesco d’Assisi che alla Vigilia di Natale del 1233, in una grotta posta in cima alla collina di Greccio, con l’aiuto delle genti del luogo creò il primo esempio di Presepio Vivente della storia. Presepio è dunque (si legge nel dizionario) “la ricostruzione di scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi, eseguita nelle chiese e nelle case in occasione delle feste natalizie”. Nel caso invece dei due presepi suddetti vengono invece realizzate scene o episodi riguardanti la “passione”di Gesù Cristo che, in un discorso più strettamente tipologico, non trovano facile giustificazione in una ben definita tradizione “iconografica”come per la nascita del Messia, con la grotta, la stella cometa, i pastori, il bue, l’asinello, la Vergine, San Giuseppe, i Magi, tradizione che è andata man mano evolvendosi nel corso dei secoli.
Si tratta quindi di “unicum” che esaltano, comunque, le ultime e drammatiche fasi della vita del Messia pur provocando, indubbiamente, suggestioni ed emozioni diverse. Allo stato attuale non abbiamo individuato altri esemplari simili. Abbiamo però fortunatamente rintracciato un accurato studio sull’argomento e che, con ricchezza di particolari, racconta la storia di questo tipo di presepe. Il testo è quello di Paolo Izzo dal titolo “Presepe di Pasqua.Simboli e presenze di una tradizione dimenticata”,finito di stampare nel mese di marzo 2010 per conto della Stamperia del Valentino di Napoli; libro in cui si evidenzia che “quel mercato che oggi vediamo cannibalizzato da raffigurazioni del Mistero Natalizio, un tempo aveva anche altro genere di frequentatori: le statuine destinate al Presepe di Pasqua, o Sepolcro a Personaggi, come lo avrebbero definito un Salvatore Di Giacomo o un Fausto Nicolini”.
In buona sostanza questa tipologia presepiale è l’alter ego speculare al presepe della natività, tradizione molto viva e presente a Napoli sicuramente, scrive Izzo, già prima del XVI secolo e diffusa anche nel resto del sud Italia. Il “Presepe di Pasqua” si concretizza in una vera e propria struttura presepiale con autonome regole compositive che narrano l’avventura del Redentore oltre l’evento tanto celebrato dell’incarnazione. Una serie di motivi (si legge ancora nel testo di Izzo) “spinsero la Controriforma a valorizzare maggiormente la rappresentazione della Natività relegando così quel fenomeno ad una dimensione dimessa, destinata a sopravvivere principalmente all’interno dei monasteri dove, accanto alla classica struttura presepiale, lo “scoglio” figurava anche l’altro, ovvero quello della Passione”.
Una differenza fondamentale con quello della Natività è che l’impianto di tale tipologia era strutturato in tante scene o quadri che potevano comprendere ad esempio l’Annunciazione, il Censimento, la visita a Santa Elisabetta, la Nascita, l’Ultima Cena, Gesù nell’orto del Getsemani, Cristo giudicato da Pilato, la Veronica, Gesù che cade, la Crocifissione, la Deposizione, il Sepolcro e la Resurrezione (come nel Presepe di “San Nicola alla Carità” di Napoli curato dall’anziano artigiano Giuseppe Russo). Ma anche altri quadri sono possibili come Barabba, i soldati giudei che arrestano Gesù, il Sepolcro violato, l’Assunzione al cielo.
Il Presepe di Pasqua, come già detto, consumò la sua funzione devozionale principalmente in luoghi chiusi al pubblico, ovvero principalmente all’interno dei monasteri femminili. Il Sepolcro casalingo, al pari del Presepe, era invece collocato sotto la classica campana di vetro o, addirittura, in bottiglia con una varietà e diversità di materie utilizzate (legno, strutture in avorio, cera, terracotta) “che erano preposte non semplicemente alla soddisfazione di un senso estetico ma rispondevano appunto ad una precisa e più profonda pulsione devozionale, pur mediata dal valore artistico dell’oggetto”.In definitiva un Presepe, ormai, in realtà “perduto”e una grande e preziosa testimonianza di tradizione popolare molto antica e dimenticata che ha accompagnato per secoli, con i suoi simboli e le sue presenze, la celebrazione cristiana della Pasqua.
Riguardo all’esemplare custodito nella splendida chiesa dei Padri Passionisti a Novoli, poche sono le notizie che consentono una sua attribuzione e una sicura datazione. Posto in una teca di vetro rettangolare, realizzato in cartapesta e terracotta, sappiamo solo che fu donato tra il 1964 e il 1965 dalla nobile famiglia Palmieri di Monopoli al padre Pietro Paolo dell’Immacolata (Saverio Scuccimarri) che, successivamente, nel 1990, lo portò con sé a Novoli, dopo la chiusura del convento in quella città e di cui era superiore.
Ben più complesso e più ricco di personaggi dell’esemplare dell’Anonimo Leccese, esso propone i momenti più significativi della “passione”, attenendosi il più possibile alle affermazioni dei Vangeli. Sono cinque le scene, sapientemente disposte su due piani, che l’anonimo artista ha realizzato con indubbia bravura e realismo e che vanno dalla “Passioneinteriore” vissuta da Gesù nell’Orto degli Ulivi (nel Getsemani) fino alla sua“deposizione”.Più in particolare, nel primo riquadro si vede Gesù che prega intensamente accanto ad alcuni alberi (il volto richiama con grande drammaticità anche il momento in cui entrerà in agonia “…e ilsuo sudore divenne come gocce di sangue che scendevano giù sulla terra”),mentre due apostoli (in basso a destra) riposano. Poiché nel Getsemani, Gesù, secondo i Vangeli, vi si recò assieme agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni (quest’ultimi figli di Zebedeo), è evidente che la statuina raffigurante il terzo apostolo mancante sia andata, purtroppo, perduta e non sia invece dovuta (tale mancanza) ad una dimenticanza dell’artista, data la ricchezza di particolari e la fedeltà ai testi evangelici che la composizione iconografica (cm. 100×50) denota, scindendosi nei due piani.
A poca distanza dagli apostoli dormienti, un “gallo”ricorda le parole con cui il Messia profetizzò il tradimento di Pietro: “Inverità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”.E Pietro gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”.Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli” (Vangelo secondo Matteo).
Sul piano superiore sono rappresentate le fasi più tragiche e più dolorose della “passione”: Gesù nel Pretorio, la Flagellazione, la Via crucis. La prima scena richiama certamente il momento in cui “… i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e intrecciata una corona di spine,gliela posero sulcapo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: Salve, re dei Giudei! E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo”(Vangelo secondo Matteo).
La parte centrale è dominata dalla flagellazione verso un Cristo particolarmente vivo e fortemente espressivo. Nei testi evangelici la flagellazione segue al rilascio di Barabba e precede il dileggio dei soldati (precedentemente descritto). L’anonimo artista invece, come si può notare osservando il relativo fotogramma, ha invertito, crediamo volutamente, la successione degli eventi (guardando da sinistra verso destra, dove c’è la costruzione che simboleggia il pretorio) volendo fare di questa immagine (considerate soprattutto le dimensioni fisiche del Messia che qui appaiono sproporzionate rispetto a tutti gli altri gruppi di figure) la scena simbolo, certamente la più emozionante e la più significativa.
Nell’ultima, Gesù è ai piedi del Calvario, tragicamente schiacciato dal peso della croce. A poca distanza, sono rappresentati Simone di Cirene (che fu costretto a prendere la croce), due figure femminili da identificarsi probabilmente in sua madre e nella sorella di sua madre, e infine Giovanni il discepolo che amava (“… Donna, ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco la tua madre. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” – Vangelo secondo Giovanni).
Le diverse fasi del racconto evangelico si chiudono infine con la “deposizione”,rappresentata al piano inferiore, sulla sinistra, accanto alla scena del Getsemani. La Madonna è vestita di lutto e indossa un abito particolare che, probabilmente, si richiama ai costumi del tempo in cui il presepio fu realizzato. Il corpo senza vita del Messia è stato straordinariamente modellato, nelle sue fattezze fisiche e dolorose ai piedi della madre “pietosa”, dall’anonimo artista che dimostra indubbiamente una buona mano e un indubbio talento.
Oltre al gruppo di angeli, in primo piano, due soldati romani simboleggiano sicuramente l’ordine di Pilato dato dopo che i sommi sacerdoti gli avevano manifestato le loro paure (“…Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò”– Vangelo secondo Matteo) e cioè quello di sigillare la pietra del sepolcro e di mettervi la guardia.
Il presepio è opera forse di un’artista locale ed è da collocare, presumibilmente a nostro avviso, tra la fine del 1700 e la prima metà dell’800. Su interessamento del compianto Padre Salvatore Semeraro, nel 1966-1967 il Presepe è stato restaurato dal cartapestaio Cosimo Casarano e, dopo diversi anni di permanenza nel coro e nella biblioteca, oggi può essere ammirato nel corridoio del ritiro di Novoli.
Un’ultima personale considerazione. In questa particolare e rara tipologia presepiale pare non essere estranea un’influenza della dominazione Spagnola (infatti in Spagna e, pure nell’America Latina e nelle Filippine, le manifestazioni pasquali sono sentite e si esprimono al Massimo). Lo testimonia, ad esempio, il vestito nella scena della “deposizione”, dell’Addolorata che tanto richiama con i suoi orpelli barocchi quello indossato dalla “Virgen de la Macarena” e dalle donne di Siviglia (in Andalusia) durante la processione della famosissima “Semana Santa” che comincia la Domenica delle Palme e finisce il Venerdì Santo e che si celebra sin dal secolo XVI.
Alcuni anni fa, infine, mi capitò di vedere e fotografare, visitando “Il Museo de Osma” durante la mia esperienza lavorativa in America Latina, in Lima (Perù), nell’antico distretto di Barranco, un Presepe simile a quelli appena descritti. Si tratta di una “Caja – baùl” (così viene denominata) che rappresenta nello stesso spazio urbano (come si può vedere nella foto) una piazza chiusa in cui sono rappresentate, con ricchezza di particolari e personaggi, le seguenti scene policrome che rappresentano i più significativi momenti dell’Infanzia di Gesù: Il Paradiso, l’Annunciazione, la Natività, il Battesimo, la fuga in Egitto, la Strage degli Innocenti, la presentazione nel Tempio, la Circoncisione.
In info@spazioapertosalento.it (sito di Rosario Faggiano con finestra news), 2 aprile 2021 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 531-536, Novoli 2024.
Riferimenti bibliografici essenziali
Aa. Vv., Catalogo della IV Rassegna Internazionale del Presepe nell’Arte e nella tradizione, Brindisi 1989.
M. De Marco, Il Presepe nella storia e nell’Arte,Lecce 1985.
M. De Marco – C. Turrisi, I Passionisti a Novoli (1887-1987),Galatina 1988.
P. Izzo, Presepe di Pasqua. Simboli e Presenze di una tradizione dimenticata, Stamperia del Valentino, Napoli 2010.
Il presente contributo completa le ricerche sul Presepio della Passione di Novoli già avviate e pubblicate sulla rivista “Lu Lampiune”, VII, n.1, Lecce, Aprile 1991 e su “Nord-Salento. Nuovi quaderni di Trepuzzi, Surbo, Squinzano, Campi S., Guagnano, Salice Salentino, Novoli”, n. 5, Dicembre 2002, LiberArs Editrice Multimedia.
Iniziative di promozione di questa antica tradizione popolare, nella nostra terra recentemente sono state promosse nelle cittadine di Mesagne e di Oria. A Mesagne (cittadina in cui la sera del Venerdì Santo si tiene la storica Processione dei Sacri Misteri della passione di Gesù che risale al XV secolo e organizzata dall’associazione SS. Crocefisso) nello scorso anno è stato realizzato (ma non presentato al pubblico a causa dell’epidemia) un Presepio della Passione dai maestri artigiani “Borgo dei Presepi” Damiano Magrì, Antonio Danisi e Giuliano Radaelli, sotto la direzione artistica di Maurizio Piro. Nel Presepe sono state rappresentate tutte le tappe della vita di Gesù. Stesso discorso vale per la cittadina di Oria che, grazie al “Gruppo di promozione umana”, dal 2016 organizza e promuove la mostra “Diorami di Pasqua o Presepi Pasquali” come evento associato alla rappresentazione della passione. In Puglia, va menzionata anche la cittadina di Canosa dove l’Associazione Italiana Amici del Presepio realizza I Diorami Pasquali (e relativo concorso fotografico) che mettono in scena appunto i vari momenti della Santa Pasqua: dal processo di Gesù alla salita al Golgota, all’incontro con la Veronica e con il Cireneo che lo aiuta a portare la croce, fino alla crocefissione vera e propria tra i due ladroni, alla deposizione, alla sepoltura e alla Resurrezione della Domenica (in numerose famiglie vige anche l’abitudine di fare l’albero anche a Pasqua con colorati ovetti di cioccolato).
La scomparsa di Rosario Jurlaro, rilevante figura nel panorama culturale salentino
Rosario Jurlaro è nato a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, il 23 marzo 1930.
Ha iniziato precocemente a pubblicare su riviste e quotidiani. Poco più che ventenne intraprende l’attività giornalistica a Roma, scrivendo articoli di cultura per “Il Tempo” e soprattutto per “L’Osservatore Romano”. Nella Capitale si specializza in paleografia e archivistica, punto di partenza del suo diuturno impegno di studioso di manoscritti e di bibliotecario.
Nel 1957 assume l’incarico di direttore della biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi, che ha guidato fino al 1993, trasformandola nel più attivo e prestigioso polo culturale della città, punto di riferimento non solo per studenti universitari, ma anche di numerosi ricercatori e studiosi italiani e stranieri. Sotto la sua direzione il patrimonio librario è passato da 15.000 a oltre 65.000 tra volumi e opuscoli, a cui vanno ad aggiungersi 11 incunaboli e 130 manoscritti. Jurlaro ha favorito, inoltre, numerose donazioni di collezioni private, anche di una certa importanza e di interesse bibliografico, a dimostrazione del rapporto fiduciario che è riuscito a conquistarsi nel tempo. Al fondo librario della biblioteca ha affiancato una cospicua fototeca storica, una preziosa emeroteca che raccoglie la stampa periodica locale e una notevole pinacoteca.
Nel 1958 dà vita all’Associazione Amici della “A. De Leo”, che nel giro di poco tempo registra numerose adesioni da parte di appassionati cultori delle patrie lettere e di storia e cultura locale. Tra i soci onorari vanno annoverati Dennis E. Rhodes della British Library di Londra, Paul Oscar Kristeller della Columbia University di New York, Gerhard Rholfs dell’Università di Tubinga.
Sotto la sua direzione la biblioteca si apre alla città accogliendo eventi pubblici di rilevanza scientifica e culturale: conferenze periodiche, convegni di studi, mostre fotografiche, pittoriche, di manoscritti e libri antichi, che vedono il coinvolgimento di specialisti di tutta Italia e di docenti universitari, soprattutto degli atenei pugliesi, con cui Jurlaro ha continuato a mantenere ottimi rapporti di scambi e collaborazione.
Alle attività dell’Associazione affianca le “Edizioni degli Amici della De Leo”, fondando e dirigendo collane di studi specialistici e di opere letterarie.
Nel 1969 fonda la rivista di studi storico-artistici “Brundisii Res”, da lui diretta fino al 1999, accolta con molto interesse dalla comunità scientifica nazionale. Nel 2002 fonda e dirige la rivista semestrale “Alba pratalia. Semenzaio delle memorie. Storia: Lettere – Arti – Scienze”, in seguito pubblicata dall’editore Forni di Sala Bolognese fino al n. 28 del giugno 2016. La rivista coagula intorno a sé studiosi e scrittori di tutta la penisola.
Di formazione storicistica e di ispirazione cattolico-liberale di matrice manzoniana, Rosario Jurlaro ha fornito contributi scientifici e letterari di notevole rilevanza in ampi settori di studi di area pugliese-salentina e mediterranea, che spaziano dalla storia all’arte, dall’archeologia alla numismatica, dalla religione all’antiquaria, dall’antropologia culturale alla letteratura. Si segnalano, in particolare, i suoi contributi sull’arte paleocristiana, sui Messapi e sui dialetti salentini, ampiamente presenti nei repertori bibliografici.
Ha curato la ristampa di opere rare, tra cui quella di G. Bax, Nniccu Furcedda. Farsa pastorale del XVIII secolo in vernacolo salentino (Firenze, Olschki, 1964); di A. Della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi (Bologna, Forni, 1967); di A. De Leo, Dell’origine del rito greco nella Chiesa di Brindisi (Brindisi, Edizioni Amici della “A. De Leo”, 1974); di P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana (Bologna, Forni, 1974); di G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva (Bologna, Forni, 1996), Il regno di Napoli nel 1799. Due fonti si rivoluzione repubblicana e controrivoluzione: “Le memorie” di Bartolomeo Cardini, il “Diario” di Vincenzo Durante (Bologna, Forni, 1999); di T.N. D’Aquino, Delle delizie tarantine (Bologna, Forni, 2008).
Rosario Jurlaro continua a contribuire attivamente a numerose associazioni di ricerca e studi: è stato vice presidente del Comitato scientifico del Centro Studi Salentini, socio onorario del Centro studi per la storia della ceramica meridionale, consigliere centrale della Società di Storia Patria per la Puglia dal 1974 al 2003.
Ha curato, tra l’altro, alcune voci del Dizionario biografico degli italiani dell’Istituto Italiano dell’Enciclopedia Treccani e ha collaborato con la Bibliotheca Sanctorum.
Autore di oltre 600 pubblicazioni, gran parte della sua produzione scientifica è apparsa su riviste specializzate, tra cui: “Archivio storico Pugliese” (Bari), “L’Arte” (Milano), “Arte Cristiana” (Roma), “Bollettino della Badia Greca” (Grottaferrata), “Faenza” (Faenza), “Historia” (Milano), “Jesus” (Alba), “Mediterranean” (Roma-Brindisi), “Miscellanea Francescana” (Roma), “Miscellanea Franciscana salentina” (Lecce), “Onomata” (Atene), “Rivista di archeologia cristiana” (Città del Vaticano), “Rocca” (Assisi), “Sefei Yuhasin” (Cassano Murge), “Studi Salentini” (Lecce), “Vetera Christianorum” (Bari), “La Zagaglia” (Lecce).
Jurlaro è anche autore di opere creative, ma non di pura immaginazione, in cui interseca felicemente la dimensione documentaria e quella narrativa, entro un impianto storicista e meridionalista e una visione autenticamente cristiana: L’utile canna. Diario intimo della gente del sud (Galatina, Congedo, 1975); La festa cresta. Dalle Palme al Sabato Santo con la gente del Sud (Ravenna, Longo, 1983); Fame e famiglia. Fami e famigghia. Mezzogiorno rurale: anni Cinquanta (Ravenna, Longo, 1986); Continente masseria. Alle radici del Sud Mediterraneo (Ravenna, Longo, 1995).
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti vanno ricordati in particolare il “Premio Piero Gobetti. L’editore ideale” conseguito nel 1978 e il “Premio Umanesimo della Pietra per la storia” nel 2003.
Uno degli impegni più recenti dell’illustre e apprezzato studioso è il saggio storico che introduce il volume Francavilla Fontana, pubblicato nel 2007 nella prestigiosa collana delle “Guide Artistiche Electa” della Mondadori.
Ancora attivo alla veneranda età di 87 anni, è quotidianamente impegnato negli studi, nella ricerca, nelle presentazioni di libri e mostre d’arte, nelle conferenze, così come continua a tenere relazioni nei convegni scientifici e a scrivere articoli e saggi per le riviste a cui continua a collaborare con lo stesso entusiasmo e la stessa passione degli esordi.
In occasione del suo ottuagenario, gli è stata dedicata la miscellanea di studi Tra Letteratura e Storia (Galatina, EdiPan, 2008), curata da Mario Spedicato, con i contributi, tra gli altri, di Giancarlo Vallone, Mario Marti, Alessandro Laporta, Dennis E. Rhodes, Gianfranco Liberati, Ettore Catalano, Antonio Lucio Giannone, Antonio Mangione.
(profilo diffuso dalla Società di Storia Patria per la Puglia)
Le pavimentazioni interne degli edifici rispecchiavano le capacità economiche dei proprietari. si passava così dai pavimenti in “chianche” di pietra di Cursi ai lastrici di calce, ai pavimenti in mosaico, alle pavimentazioni in lastre di marmo o in piastrelle di cotto maiolicato.
Il pavimento di notevole pregio più diffuso specialmente nelle unità immobiliari di tipo signorile era il
– lastrico di calce
Dopo aver preparato il letto di posa, sommariamente spianato con detriti tufacei adeguatamente costipati, si metteva in opera un massetto dello spessore di 7-8 cm. costituito da un impasto di malta grossa di calce, tufina setacciata con la rezza e cocciopesto ottenuto dalla frantumazione di embrici di terracotta.
Subito dopo si stendeva uno strato di intonaco di malta di calce e tufina finemente setacciata che veniva sottoposto in continuità, giorno e notte per qualche giorno di seguito, a lisciature con la cazzuola (non esisteva il fratazzo di acciaio) e battiture con l’uso di un attrezzo, il maglio di legno, mutuato dall’agricoltura dove veniva usato per stritolare le spighe di grano o i baccelli secchi di legumi per estrarne il frutto. La continua battitura e successiva lisciatura probabilmente serviva ad allontanare meccanicamente l’acqua in esubero che non partecipava così al processo di carbonatazione della calce e ad addensare le particelle con riduzione della naturale microporosità dovuta alla emissione dell’anidride carbonica sempre come effetto della carbonatazione della calce ed al ritiro naturale in fase di indurimento.
Per aumentare la durezza superficiale, a volte, si aggiungeva nella malta polvere di marmo oppure, per aumentare la brillantezza, si operavano le ultime mani di lisciatura con l’aggiunta di albume d’uovo. Anche se, in tutte queste operazioni, c’era la massima cura ed applicazione, non mancavano esiti negativi, a volte inspiegabili, come la formazione di bolle in un singolo vano di un complesso di quattro o cinque stanze che erano state pavimentate contemporaneamente, questo probabilmente o per l’accidentale impiego di qualche calderina di calce spenta male o per la presenza di correnti d’aria (la messa in opera del pavimento avveniva quando non erano stati ancora montati gli infissi) che avevano accelerato la fase di indurimento.
Un altro difetto ricorrente era causato dalle fessurazioni che si verificavano specialmente ai piani superiori sia per probabili cedimenti dei riempimenti delle volte murarie poco costipati che per probabili assestamenti strutturali delle masse murarie.
– lastricato solare
La pavimentazione dell’estradosso delle coperture dell’ultimo piano dell’edificio veniva realizzata con un lastricato di “chianche” di pietra di Cursi.
Le lastre (“chianche”) venivano ricavate tagliando a fette conci di pietra di Cursi, cavati nelle dimensioni di m. 0,63×0,40×0,32, per cui ogni lastra, dello spessore di circa cm. 5, aveva le dimensioni di m. 0,63×0,40. Le due lastre terminali (la prima e l’ultima) avevano una faccia perfettamente piana corrispondente all’azione della sega mentre l’altra faccia corrispondente alla originaria conformazione del concio di partenza, come proveniente dalla cavatura, era alquanto irregolare. Per questo motivo si sceglievano prima le lastre intermedie, a spessore costante (serratizze), per adoperarle nel rivestimento superiore dei muri d’attico o parapetti (livellini).
Le altre lastre adoperate per la pavimentazione solare venivano squadrate per regolarizzarne i bordi e per selezionarle in base alla larghezza variabile da cm. 37 a cm. 40. Questa operazione veniva eseguita con l’uso di una pialla (chianula), con coltello finemente dentellato, diverso da quello tagliente continuo che si usava nella finitura superficiale della faccia dei conci di pietra leccese nella muratura “a vista”. E’ da notare che tutti gli arnesi usati dagli scalpellini per la lavorazione della pietra leccese erano analoghi e, a volte, simili a quelli usati dai falegnami nella lavorazione del legno.
– la posa in opera
Sull’estradosso della volta muraria, per regolarizzare la superficie, si effettuava il riempimento utilizzando gli scarti di conci e detriti di tufo di varia pezzatura (ascuni, asche, fricciame, ecc.) fino alla quota dell’estradosso delle formate; quindi si procedeva a definire le pendenze dei compluvi (circa 1%) partendo dallo scarico al pluviale, con materiale via via più sottile fino alla tufina setacciata con la rezza che costituiva il letto di posa.
Le chianche venivano disposte sul letto di tutina in file regolari, ciascuna di larghezza costante (variabile da cm. 37 a cm. 40), con l’uso di una corda tesa (firazzulu) che definiva l’allineamento ed il piano di ciascuna fila. i giunti trasversali delle file contermini erano rigorosamente sfalsati. L’interstizio intercorrente tra le file e tra due lastre della stessa fila (comento dial. chiamientu) era della larghezza di circa cm. 1,5, ben più largo dei 7-8 mm. di norma prima dell’impiego del cemento.
Generalmente, la parte centrale della volta, la calotta (cueppu) fuoriusciva rispetto al piano del resto della pavimentazione di circa cm. 50 . Il lastricato di questa parte altimetricamente sporgente, veniva realizzato sempre a file regolari con raccordi perimetrali inclinati (anche di 30-40°) rispetto alla verticale, che facevano assumere al tutto, la forma di un tronco di piramide dove le lastre degli spigoli avevano il lato dello spessore, per poter combaciare, lavorato e tagliato a “cartabuono” per cui nella terminologia dialettale, i pezzi d’angolo venivano denominati “cartaponi”.
Terminata la messa in opera delle chianche, nei giunti aperti veniva colata una malta povera, di calce e tutina grossolana, molto fluida (beverone), versandola direttamente sulla pavimentazione e dirigendola nei giunti aperti con l’uso della cazzuola.
Successivamente, dopo circa un giorno, la malta rappresa presente nei giunti veniva costipata a forza, battendola con la mannaia per poi procedere al riempimento dei giunti in tre fasi:
a – si colava nei giunti una malta fluida cementizia che si lasciava indurire per qualche ora;
b – si costipava con le stesse modalità del beverone;
c – si stuccava il giunto con malta cementizia fine (sabbia calcarea finemente setacciata e cemento) per garantirne la tenuta a stagnezza.
Prima dell’impiego della malta cementizia, i giunti erano molto più stretti e, per la sigillatura, al posto della malta cementizia, si usava una malta avente caratteristiche idrauliche, costituita da calce e cocciopesto (embrici frantumati – pizzulame)
Tra le varie pratiche sperimentate per migliorare l’impermeabilizzazione dei lastrici solari c’era quella abbastanza efficace che consisteva nello strofinare sulla superficie dei cipolloni selvatici (cipuddhazzi). Successivamente, per spiegare questo effetto, si è scoperto che quei vegetali contengono acido ossalico che, combinandosi con il carbonato di calcio contenuto nelle chianche, forma ossalato di calcio che ha proprietà idrorepellenti.
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