di Armando Polito
Dopo la storiella della ninfa Colimena (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/13/torre-colimena-wikipedia-ed-altro/) e quella di Archidamo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/21/manduria-e-cheronea-un-gemellaggio-imperfetto/) mi sono imbattuto in un’altra invenzione che si muove nell’alveo di una malintesa promozione turistica, perché scorretta, ingannevole e truffaldina.
Gli esempi cominciano ad essere troppi, tanto che ormai si può parlare non di esemplari isolati di bufale allo stato brado ma di un vero e proprio allevamento, per la cui emulazione (leggi gara a chi la spara più grossa) la rete funge da formidabile catalizzatore.
Il nome di Santa Maria di Leuca è legato ad una tra le più belle leggende che si narrano nel Salento. Essa racconta una storia di dolore e di vendetta in cui due innamorati vengono divisi per sempre. E’ la storia d’ amore che vede protagonista la fanciulla Leucasia, sirena di Leuca.
Nel tratto di mare che si stende tra Castro e la punta estrema della penisola viveva una bellissima sirena, tutta bianca e il suo nome era Leucàsia.
Il suo canto era particolarmente armonioso e mai nessuno era stato in grado di resisterle finché un giorno, un giovane pastore, non scese sugli scogli per portare le sue pecore a lavare. Si chiamava Melisso, era bellissimo e Leucàsia se ne invaghì.
Subito cominciò a cantare il suo canto più bello ma, Melisso, innamorato della bella e giovane Arìstula, non fece nessuna fatica a resistere alla tentazione dato che il suo cuore batteva solo per la sua amata.
La sirena non accettò il rifiuto, si infuriò e attese con pazienza il momento della sua vendetta. Un bel giorno i due innamorati scesero sugli scogli e subito Leucàsia scatenò una tremenda tempesta; le onde improvvise catturarono i due giovani e la perfida sirena fece in modo che annegassero e che finissero separati per sempre sulle due punte opposte di un ampio golfo.
Dall’alto del suo tempio, la dea Minerva vide tutto questo e si impietosì. Decise allora di pietrificare i corpi di Melisso e Arìstula, dando loro l’eternità: quelle pietre diventarono da allora per tutti e per sempre la punta Meliso e la punta Ristola che, non potendosi toccare fra di loro, abbracciano quello specchio di mare lì dove la terra finisce.
Anche Leucàsia finì pietrificata dal rimorso e si trasformò nella bianca città di Leuca.
Adesso immaginatevi questo scambio di battute tra Maurizio Crozza e la sua spalla Andrea Zalone nella spassosa imitazione del senatore Antonio Razzi:
Zalone –Senatore Razzi, cosa ne pensa di questa leggenda?–
Crozza/Razzi –Leggere è bello ma è pericoloso–
Zalone –In che senso?–
Crozza/Razzi –Tante volte ti aspetti d’incontrare una sirena e ti trovi davanti una bufala–
Pongo fine a questo scambio di battute perché incredibilmente Crozza/Razzi ha, pur inconsapevolmente, sintetizzato la nostra situazione.
Intanto parto dal lemma leggenda con un copia-incolla dal vocabolario Treccani on line (lo riporto integralmente anche se la cosa è lunga, ma una sua parte mi servirà alla fine):
s. f. [dal lat. mediev. legenda, femm. sing., propr. neutro pl. del gerundivo lat. legendus «da leggersi»; nei sign. del n. 3, sul modello del fr. légende]. –
1.
a. In origine, breve narrazione relativa alla vita di un santo, dove l’elemento storico è dalla fantasia popolare deformato o arricchito di elementi irreali, e della quale, a scopo edificativo o esemplare, si dava lettura il giorno della festa del santo: la l. di san Brandano (popolare racconto medievale che narrava la navigazione fantastica del monaco irlandese Brandano il quale, salpando di isola in isola, trova prima l’inferno, poi le isole Fortunate e infine il paradiso terrestre).
b. Per estens., qualsiasi racconto tradizionale di argomento religioso o eroico, nel quale i fatti e i personaggi, sia immaginarî sia desunti dalla storia (ma soggetti in questo caso a un’amplificazione fantastica che altera il dato storico), sono in genere collegati con luoghi e tempi determinati: la l. di Romolo e Remo; le origini di quel popolo si perdono nella l.; l’epopea di Garibaldi ha acquistato nella fantasia del popolo un sapore di leggenda; entrare nella l., di personaggio che, per il carattere eroico e straordinario delle sue imprese, è destinato ad acquistare, nel ricordo e nelle narrazioni, aspetto leggendario, mitico.
c. Cosa inventata, non vera: sono tutte leggende; si vanno spargendo molte l. sul suo conto.
d. Nel linguaggio giornalistico e antropologico, l. urbana (o anche metropolitana), racconto che circola e si diffonde rapidamente per via orale, ambientato in luoghi «comuni» (la città, un appartamento, un negozio, un’autostrada, ecc.) e che riguarda episodî (riferiti come realmente accaduti, ma incontrollabili) il cui nucleo centrale è rappresentato da un incidente, per cui, da un avvio banale, gli avvenimenti si svolgono in modo ora raccapricciante, ora angoscioso, ora misterioso, facendo leva su sentimenti primordiali.
2. In musica, termine a volte usato per designare brani di intonazione epico-lirica il cui soggetto è generalmente di carattere sacro.
3. (anche nella forma lat. legenda)
a. L’insieme delle parole, intere o abbreviate, disposte circolarmente lungo l’orlo del tondino o disco della moneta, al dritto e al rovescio; solitamente in relazione con il tipo figurato, comprende i nomi e i titoli del sovrano o il nome dello stato, nomi di santi, invocazioni, motti, imprese araldiche, ecc.; il complesso della leggenda e del tipo è detto impronta. Analogam., è detta leggenda l’iscrizione che si legge sulle medaglie, e, nei francobolli, quella, per lo più relativa al soggetto grafico, che eventualmente viene stampata oltre alle indicazioni dello stato di emissione e del valore nominale.
b. In araldica, designazione complessiva di tutti i motti, divise o gridi di guerra posti in un’arme.
c. Nelle carte geografiche, atlanti, grafici e sim., titolo sotto il quale sono riportati e spiegati i varî segni convenzionali, e la parte stessa, di solito chiusa entro un riquadro, dove sono date tali indicazioni.
d. Dicitura esplicativa posta sotto un disegno, figura, ecc.; più comunem. detta didascalia. ◆ Spreg. leggendùccia; pegg. leggendàccia.
Inizio dicendo che il leggenda del post incriminato dovrebbe corrispondere come significato ad 1b. Ho detto dovrebbe perché manca l’ingrediente fondamentale della locuzione racconto tradizionale, in cui l’aggettivo vive del lungo, in alcuni casi lunghissimo, respiro del tempo.
Un racconto di recente creazione, dunque, non può essere definito leggenda; infatti il triangolo (quello immortalato nella canzone da Renato Zero) di Melisso, Aristola e Leucasia è una pura invenzione partorita dalla mente di Carlo Stasi e registrata nel suo Leucasia uscito a Presicce per i tipi AGL nel 1993, 1996, 2001 e successivamente in Leucasia e le due sorelle, Mancarella, 2008.
Ora, un poeta può essere responsabile di tutto ma non di ciò che si inventa; è responsabile, invece chi quell’invenzione sfrutta a modo suo, anche se lo fa in buona fede, cioè per ignoranza.
Nulla, perciò, ho da rimproverare a Carlo Stasi per aver messo in piedi una storiella “filologicamente credibile” a cominciare dall’abile trasposizione dei nomi dei protagonisti che vieppiù sembrano recuperare la loro probabile grecità nativa: così Mèliso diventa Mèlisso [così va letto se si vuol conservare l’accento del greco μέλισσα (leggi mèlissa)=ape], Rìstola si trasforma in Arìstula, più diminutivo del latino arìsta=spiga che connesso col greco ἀρίστη (leggi ariste)=la migliore. Va aggiunto che l’onomastico Μέλισσος (leggi Mèlissos), ma non riferito ad un personaggio mitologico, è attestato in parecchi autori tra cui Pindaro (I, 3, 9) e Platone,Teeteto, 183e.
E siamo a Leucasìa, parola piana se vogliamo conservare l’originario accento della corrispondente parola greca. Un Λευκασία, nome di un fiume della Messenia, è attestato in Pausania (Descriptio Graeciae, IV, 33: Per chi procede dalle porte (di Messene) a trenta stadi di distanza c’è la corrente della Balira. Dicono che il nome derivò al fiume quando Tamiri gettò lì la lira dopo l’accecamento, che è figlio di Filammone e della ninfa Argiope, che Argiope per un certo tempo abitò nelle vicinanze del Parnaso e dicono che si trasferì ad Odrisa dopo che rimase incinta, che Filammone non voleva accoglierla in casa. E per questo chiamano Tamiri Odrise e trace. La Leucasia e l’Amfito gettano le loro acque in essa.1
Un Λευκωσία (leggi Leucosìa), invece, è attestato come toponimo di isola in un frammento di Aristotele (IV secolo a. C.) tramandatoci da uno scolio ad Apollonio Rodio (III secolo a. C.), I, 917: La Samotracia prima si chiamava Leucosìa, come racconta Aristotele nella Costituzione di Samotracia.2
Λευκωσία s’incontra anche in Licofrone (IV secolo a. C.), Alessandra, 722-724, dove, parlando della fine delle sirene suicide per non essere riuscite ad ingannare Ulisse, così dice: Leucosìa, gettata sulla prominente sponda dell’Enipeo, occuperà per gran tempo l’isola che ha preso il suo nome.3
Come nome di una delle sirene è attestato nel De mirabilibus auscultationibus, 103, di un anonimo indicato col nome di Pseudo-Aristotele (IV-III secolo a. C.): Dicono che le isole Sirenuse giacciono in Italia vicino al tratto di mare di fronte allo stesso promontorio, il quale (tratto di mare) giace di fronte al luogo che si protende e divide i due golfi, quello che si trova intorno a Cuma e quello che comprende quella che è chiamata Poseidonia; in esso si trova anche un loro (delle Sirene) tempio ed esse sono onorate oltremodo dai sacrifici (fatti) diligentemente dagli abitanti dei dintorni; ricordandone i nomi chiamano una Partenope, l’altra Leucosìa, la terza Lìgeia.4
Questo brano verrà utilizzato da Stefano di Bisanzio (V secolo d. C.), Ethnikà, lemma Σειρὴνουσαι (Sirenuse): Isole in Italia giacenti intorno al tratto di mare di fronte alla stessa sporgenza del luogo prominente e che divide i golfi, quello che sta intorno a Cuma e quello che comprende quella che è chiamata Poseidonia, in cui vi è anche un loro (delle Sirene) tempio ed esse sono onorate oltremodo. E i loro nomi sono questi: Partenope, Leucosìa e Lìgeia.5
Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, II, 5, 19: Restanti più di queste in alto mare Pantelleria, Pianosa, Ischia, Procida, Capri, Licosa e altre siffatte.6; VI, 1, 1: Per chi naviga da qui (da Poseidonia) il tratto di mare (c’è) l’isola di Leucosìa, che ha un piccolo canale di fronte al continente, eponimo di una delle sirene spinta qui dopo il loro leggendario gettarsi in fondo al mare. Di fronte all’isola si stende il promontorio che forma per le Sirenuse il golfo di Poseidonia.7; VI, 1, 6: E Procida e Ischia si staccarono dal continente, come pure Capri, Licosa, le Sirene e le Enotridi.8
Λευκωσία, prima sirena e poi isola, è pure in Eustazio (XII secolo), Commentari all’Iliade e all’Odissea, 358: Poiché secondo Omero le sirene sono due e prive di nome, secondo altri poeti sono tre ed hanno i nomi di Partenope, Ligea e Leucosia; esse, quando Ulisse navigò vicino a loro e non si lasciò incantare dal loro canto, vinte dalla tristezza, si gettarono a capofitto nel mare e dopo essere annegate furono sbattute quale su un lido quale su un altro … Presso la foce di questo fiume (il Silaro, oggi Sele) … a cinquanta stadi vi è il promontorio di Nettuno da dove per chi naviga c’è l’isola Leucosia, staccata dalla terraferma, che prende il nome da una delle sirene.9
Trascrizione del greco Λευκωσία è il latino Leucòsia attestato in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, III, 37: Di fronte al golfo di Pesto c’è Leucosia, così chiamata dalla sirena ivi sepolta10 e in Ovidio, Metamorfosi, XV, 708: Raggiunge Leucosia e i roseti della tiepida Pesto.11
Insomma, si parte dalla sirena Leucosìa (pronuncia greca) o Leucòsia (pronuncia latina) attiva in Campania (ma molto probabilmente oriunda greca) e la si trasferisce a Leuca dopo l’opportuno maquillage fonetico della sostituzione della –o– con la –a– (e poi, anche se era un fiume, la prima fonte che ho citato non riporta una Leucasìa?) e, con accento latino, la nostra Leucàsia è bell’e nata. Una leggenda che, dunque, corrisponde al significato peggiore che la voce può assumere: di quelli citati all’inizio, 1c.
Per quanto riguarda l’etimo dell’originaria Leucosìa tutti sono concordi nell’indicare l’aggettivo λευκός/λευκή/λευκόν (leggi leukòs/leukè/leukòn)=bianco (stesso etimo di Leuca); il concetto di bianco, però, per alcuni sarebbe riferito alla schiuma che genera il mare battendo contro l’isola ex sirena, per altri al colore delle ossa dei poveri malcapitati che, a differenza di Ulisse, non seppero resistere al fascino del suo canto e che per lungo tempo imbiancarono la scogliera. Nella leggenda confezionata il sirena tutta bianca evoca certamente Leuca, ma chi ci garantisce che qualcuno non si senta autorizzato a supporre un caso di albinismo o, peggio, di anemia?
Forse sarebbe stato meglio non dirlo, perché chissà quale fantastico utilizzo ora ne verrà fuori …
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1 Cito il testo originale dall’edizione a cura di L. Dindorf, Didot, Parigi, 1845, p. 221: Σταδίους δὲ καταβάντι ἀπὸ τῶν πυλῶν τριάκοντα τὸ ῥεῦμά ἐστι τῆς Βαλύρας. Γενέσθαι δὲ τὸ ὄνομα τῷ ποταμῷ λέγουσι Θαμύριδος τὴν λύραν ἐνταῦθα ἀποβαλόντος ἐπὶ τῇ πηρώσει· παῖδα δὲ αὐτὸν Φιλάμμωνος καὶ Ἀργιόπης τῆς νύμφης εἶναι, τὴν δὲ Ἀργιόπην τέως μὲν περὶ τὸν Παρνασσὸν οἰκεῖν, ἐπεὶ δὲ εἶχεν ἐν γαστρί, ἐς Ὀδρύσας λέγουσι μετοικῆσαι· Φιλάμμωνα γὰρ οὐκ ἐθέλειν ἐς τὸν οἶκον αὐτὴν ἄγεσθαι. Καὶ Θάμυριν μὲν Ὀδρύσην τε καὶ Θρᾷκα ἐπὶ τούτῳ καλοῦσιν· ἡ δὲ Λευκασία καὶ Ἄμφιτος συμβάλλουσιν ἐς τὸ αὐτὸ τὰ ῥεύματα.
2 Cito il testo originale da Fragmenta historicorum Graecorum, a cura di C. Müller, Didot, Parigi, v. II, p. 158: Ἡ δὲ Σαμοθρᾴκη ἐκαλεῖτο πρότερον Λευκωσία, ὡς ἱστορεῖ Ἁριστοτέλης ἐν Σαμοθρᾴκης πολιτεῖᾳ.
3 Cito il testo originale dall’edizione a cura di G. Kinkel, Teubner, Lipsia, 1880, p. 30: Ἀκτὴν δὲ τὴν προὔχουσαν εἰς Ἐνιπέως/Λευκωσία ῥιφεῖσα, τὴν ἐπώνυμον/πέτραν ὀχήσει δαρόν …
4 Cito il testo originale dall’edizione a cura di Gabriella Vanotti, Edizioni Studio Tesi, Pordenone-Padova, 1997, p. 44: Φασὶ τὰς Σειρηνούσας νήσους κεῖσθαι μὲν ἐν τῇ Ἰταλίᾳ περὶ τὸν πορθμὸν ἐπ’αὐτῆς τῆς ἄκρας, [ὅς κεῖται πρὸ] προπεπτωκότος τοῦ τόπου καὶ διαλαμβάνοντος τὸυς κόλπους τόν τε περιέχοντα τὴν Κύμην καὶ τὸν διειληφότα τὴν καλουμένην Ποσειδωνίαν· ἐν ᾧ καὶ νεὼς αὐτῶν ἵδρυται καὶ τιμῶνται καθ’ὑπερβολὴν ὑπὸ τῶν περιοίκων θυσίαις ἐπιμελῶς· ὧν καὶ τὰ ὀνόματα μνημονεύοντες καλοῦσι τὴν μὴν Παρθενόπην, τὴν δὲ Λευκωσίαν, τὴν δὲ Λίγειαν.
5 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, Reimer, Berlino, v. I, p. 559: Σειρηνούσαι· νήσοι ἐν τῇ Ἰταλίᾳ περὶ τὸν πορθμὸν ἐπ’αὐτῆς τῆς ἄκρας κείμεναι προπεπτωκότος τοῦ τόπου καὶ διαλαμβάνοντος τὸυς κόλπους τόν [τε] περιέχοντα Κύμην [καὶ] καὶ τὸν διειληφότα τὴν καλουμένην Ποσειδωνίαν· ἐν ᾧ καὶ νεὼς αὐτῶν ἵδρυται καὶ τιμῶνται καθ’ὑπερβολὴν. Ὧν καὶ τὰ ὀνόματα ταῦτα, Παρθενόπη καὶ Λευκωσία καὶ Λίγεια.
6 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, Teubner, Lipsia, 1852, v. I, p. 164 Πολὺ δὲ τούτων λειπόμεναι πελάγιαι μὲν Πανδατερία τε καὶ Ποντία, πρόσγειοι δὲ Αἰθαλία τε καὶ Πλανασία καὶ Πιθηκοῦσσα καὶ Προχύτη καὶ Καπρίαι καὶ Λευκωσία καὶ ἄλλαι τοιαῦται.
7 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, op. cit., p. 346: Ἐντεῦθεν δ᾽ ἐκπλέοντι τὸν κόλπον νῆσος Λευκωσία, μικρὸν ἔχουσα πρὸς τὴν ἤπειρον διάπλουν, ἐπώνυμος μιᾶς τῶν Σειρήνων, ἐκπεσούσης δεῦρο μετὰ τὴν μυθευομένην ῥῖψιν αὐτῶν εἰς τὸν βυθόν. Τῆς δὲ νήσου πρόκειται τὸ ἀντακρωτήριον ταῖς Σειρηνούσσαις ποιοῦν τὸν Ποσειδωνιάτην κόλπον.
8 Cito il testo originale dall’edizione a cura di A. Meineke, op. cit., p. 354: Καὶ γὰρ ἡ Προχύτη καὶ Πιθηκοῦσσαι ἀποσπάσματα τῆς ἠπείρου καὶ αἱ Καπρίαι καὶ ἡ Λευκωσία καὶ Σειρῆνες καὶ αἱ Οἰνωτρίδες.
9 Cito il testo originale da Geographi Graeci minores, a cura di C. Müller, Didot, Parigi, 1861, v. II, p. 280: Ὅτι κατὰ μὲν Ὄμηρον αἱ Σειρῆνες δύο καὶ ἀνώνυμοι, κατὰ δὲ τοὺς ἄλλους ποιητὰς τρεῖς, καὶ ὀνόματα αὐταῖς Παρθενόπη, Λίγεια καὶ Λευκωσία, αἳ παραπλεύσατος αὐτὰς τοῦ Ὀδυσσέως καὶ μὴ θελχθέντος οἷς ἐμελῴδουν, νικηθεῖσαι τῇ ἀθυμία κατέρριψαν ἑαυτὰς εἰς τὴν θάλασσαν, καὶ ἀποπνιγεῖσαι ἄλλη ἀλλαχοῦ ἐξεδράθησαν … Μετὰ δὲ τὸ τοῦ ποταμοῦ τούτου στόμα … ἐν ν’ σταδίοις ἡ Ποσειδωνιὰς ἄκρα, ὅθεν ἐκπλέοντι νῆσος Λευκωσία ἐστιν, ἠπείρου καὶ αὐτὴ ἀπόσπασμα, ἐπώνυμος μιᾶς τῶν Σειρήνων.
10 Cito il testo originale dall’edizione a cura di Francesco Della Corte, Giardini, Pisa, 1984, p. 150: Contra Paestanum sinum Leucosia est, a sirene ibi sepulta appellata. Va detto che Leucòsia (e non Leucàsia come si legge in alcuni codici) è la lezione oggi generalmente accettata.
11 Cito il testo originale dall’edizione Antonelli, Venezia, 1844, p. 759: Leucosiamque petit, tepidique rosaria Paesti.
la sua arroganza supera di gran lunga l’ignoranza che lei attribuisce a chi romanticamente racconta la “leggenda” di Leucasia con lo stesso entusiasmo con cui lei si sforza di certificare la mitologia come se fosse storia
Qualsiasi rielaborazione “romantica” o, se vuole, poetica di una leggenda, quando non dichiarata da chi la cita (nel nostro caso da chi, tra l’altro, si firma Daniela, senza cognome, cosa che nemmeno Dante a suo tempo si permise …) e quando, peggio ancora, è dettata, come nel nostro caso, da un intento di promozione turistica (stavo per dire pubblicità, lascio giudicare agli altri quanto ingannevole) è solo mistificazione e tentativo di suggestionare, con uno spaccio di bassa lega e con un entusiasmo che andrebbe riservato ad operazioni più serie, non i sognatori, tra i quali mi colloco indegnamente pure io, ma i creduloni, gli ignoranti e gli imbecilli.
Quanto alla certificazione della mitologia come se fosse storia (sui rapporti tra loro intercorrenti non mi attardo per non annoiare qualsiasi lettore che abbia un minimo d’intelligenza) la invito a cercare su un buon dizionario tutti i significati di “fonte” perché col suo scritto dimostra di conoscerne solo il valore sinonimico di “vena d’acqua che sgorga dal suolo”.
Mamma che pesantezza, fossero questi i problemi della promozione turistica del nostro Salento (a mio avviso è molto più tossico lo slogan “Lu sule, Lu mare, lu jentu”, poiché limita l’anima del Salento a questi tre singoli elementi, rendendolo un mero parco divertimenti senza identità e cultura)! Ben vengano i vari “Andersen” salentini che creano leggende nuove e originali, che piaccia o meno quest’ultime fanno parte (o faranno parte, prima o poi) del folclore locale tanto quanto le leggende “autentiche” e “genuine” partorite tra il “volgo comune”.
Signor Arthas, molto probabilmente ha scelto il suo altisonante pseudonimo dopo aver letto la saga di Fernando Sammarco sul condottiero messapico. Pure il romanzo storico, però, è “pericoloso” se l’autore stesso non aiuta, con gli strumenti che ritiene più opportuni, il lettore a distinguere tra realtà storica e finzione; purtroppo non è facile emulare, per fare un solo esempio, il Manzoni. Ancora più “pericolose” sono le “favolette moderne”, soprattutto quelle propalate, per soddisfare le velleitarie pretese di un talento inesistente, da sedicenti scrittori sponsorizzati da politici appena un palmo più ignoranti di loro. Così la cultura mutilata del suo rigore scientifico, viene prostituita al profitto, in nome di una promozione turistica in cui essa si riduce ad un pezzo di arredamento falso spacciato per autentico, a beneficio (!) di spettatori facilmente suggestionabili, non più in grado di cogliere la differenza tra apparenza ed essenza, in balia di veggenti e truffatori, senza che muova un dito chi ancora, forse, conserva un minimo non dico di spirito critico e coscienza civica, ma, almeno, di buonsenso.
P. S. Quanto al “mare” dello slogan da lei stigmatizzato, l’invito ad informarsi sull’etimo della parola “Salento” e, se crede, mi faccia sapere …
Qua l’unica cosa di altisonante è il suo linguaggio (inutilmente pomposo e appositamente addobbato, presumibilmente per rendere più spesso un pensiero che è scarno alla base), e soprattutto la sua presunzione (Arthas non è una creazione di Fernando Sammarco ma un personaggio storico citato nelle fonti antiche, dunque chi le ha detto che io ho scelto il mio nickname dopo aver letto l’opera dello scrittore? Voli basso, personaggio). Chi ha mai detto poi che io stigmatizzo il mare in quanto tale? Io mi riferivo allo slogan “lu sule, lu mare, lu jentu”, che è l’incarnazione di una mentalità tossica (partorita in seno al nostro sterile sistema turistico) secondo cui il Salento sarebbe una mera entità geografica riducibile esclusivamente a questi tre singoli elementi, e non un territorio dotato anzitutto di una propria specificità storica ed etno-culturale. Il fatto che lei non sia riuscito a comprendere quanto detto dal sottoscritto evidenzia il vuoto che si cela dietro i suoi papiri da intellettualoide, e soprattutto testimonia il fatto che lei, in fondo, non è diverso dalla gente cui attribuisce scarsa sete di cultura (essendosi istintivamente e immediatamente scagliato in difesa del tanto venerato “mare”, senza nemmeno aver compreso l’oggetto della mia critica). Anziché continuare a trincerarsi dietro questa artificiosa dialettica da parruccone incipriato, si faccia un bagno di umiltà e cominci a dialogare seriamente con i suoi interlocutori, altrimenti i suoi monologhi barocchi e sordi finirà col farli davanti allo specchio.
PS: So benissimo che, secondo Varrone, i Sallentini dovrebbero il loro nome al fatto che avrebbero stretto alleanza “in salo” (“in mare”), tuttavia Varrone non è la Bibbia e nessuno conosce ancora con certezza l’etimologia del nostro etnonimo (e del coronimo che ne deriva).
Alla faccia della pompa barocca a scoppio ritardato! Quanto tempo ha sprecato per continuare arthatamente a dire nulla! Comunque, io sono abituato a confrontarmi con persone e anche con personaggi che firmano tutto, fesserie comprese, con un nome ed un cognome quanto meno normali, suscettibili, fra l’altro, di verifica per quanto riguarda la loro autenticità, e non curo minimamente lo sfiatato ruggito dei novelli leoni di Messapia, anzi lo stridulo zigare dei conigli della tastiera.
La risposta “a scoppio ritardato” è dovuta al fatto che, normalmente, ho altro da fare. Per quanto riguarda l’anonimato su internet, stai tranquillo che non ho alcun problema a dirti le cose in faccia o ad espormi pubblicamente. Sono Matteo Albano, e la mia mail è matteoalbano45@gmail.com
Se hai voglia contattami direttamente lì e organizziamoci per un caffè face-to-face (offerto dal sottoscritto). Così magari “coniglio” me lo dici guardandomi dritto negli occhi, fenomeno.
Esilarante il passaggio da “voli basso, personaggio!”, a “guardami dritto negli occhi, fenomeno!”, quest’ultimo da consumare, grazie alla sua spocchiosa e buffonesca generosità, in un sordido saloon probabilmente frequentato da avventori poco raccomandabili anche dal punto di vista culturale. L’alternativa patetica, poi, proposta dal pistolero ex Arthas di dirottamento del duello su email è l’ingenuo espediente di chi mira ad insultare in assenza di testimoni. Ho il gusto particolare di accettare non i complimenti, che potrebbero essere ipocriti, ma la critica più spietata, purché adeguatamente motivata, solo se almeno un terzo sufficientemente attrezzato sia in grado di fungere da giudice imparziale, dote che a questo blog non manca. Se crede, continui pure a replicare, cosa che io non farò, nemmeno a scoppio ritardato, per quanto appena detto e anche perché “normalmente ho altro da fare”. E lei i suoi insulti “finirà col farli davanti allo specchio”.
Il “voli basso” era riferito alla tua arrogante presunzione di voler a tutti i costi collegare il mio nickname all’opera di Fernando Sammarco, senza nemmeno conoscermi e continuando imperterrito con battutine infantili riguardo “i leoni di Messapia”. Qua l’unica persona spocchiosa sei tu, che ti ostini a trincerarti dietro un’artificiosa dialettica da parruccone incipriato nel vano tentativo di intorbidare le acque e renderle apparentemente più profonde, e rifiutando ogni contraddittorio. Ne è la prova il fatto che, dopo aver letto il mio primo commento in cui esponevo il mio legittimo punto di vista, sei partito in quarta etichettandomi subito come “lettore di Sammarco”, ed erigendo quindi un muro tra me e te (cosa che, dopo una rapida sbirciata agli altri tuoi interventi in questo sito, ho notato essere una tua prassi). Anche in quest’ultimo messaggio, tanto per cambiare, hai scritto una supercazzola iper barocca e forzatissima che poteva essere lunga la metà, evidentemente ti piace darti un tono tessendo ghirigori sul nulla assoluto che è il tuo pensiero. Per quanto riguarda il “dirottamento del duello” sulla mia mail, cercavo semplicemente di tutelare la tua privacy qualora tu avessi accettato un incontro col sottoscritto fornendo dettagli sul luogo di ritrovo. Ma come volevasi dimostrare, sei il classico personaggio che riesce a gonfiare il petto solo da dietro uno schermo, per poi cagarsi addosso alla sola prospettiva di incontrare nella vita reale il proprio interlocutore. Dopo aver confezionato questa bella figura fecale da “coniglio della tastiera”, puoi tranquillamente tornare a rosicare sulle gioie e i successi di Stasi, Sammarco e tutti gli altri scrittori salentini che sono riusciti ad avere più spazio di te (non che ci voglia molto). Certo, dal profondo della tua solitudine continuerai a cantartela e a suonartela su quanto i tuoi scritti siano culturalmente più elevati dei loro, ma de facto continuerai a essere schiacciato sotto il loro tallone nel più totale anonimato. Ora eclissati, personaggetto.