di Armando Polito
Nessuna delle due immagini di testa, nemmeno la prima, è frutto di un fotomontaggio o parto … spiritoso di un’intelligenza artificiale ancora ingenua ma non per questo innocua. Il loro accoppiamento, allora, vuole alludere al disperato tentativo di sottrarre le memorie del passato alle ingiurie del tempo e degli uomini, quale può essere quello di far rivivere, senza cambiarne l’antico nome, una masseria fortificata ridotta ad un rudere in un resort di livello internazionale o, più modestamente, di affidare ad un nome comune dialettale il compito di veicolare l’attenzione del consumatore verso un prodotto che con quella parola ha una stretta connessione? I dubbi generano dubbi e, in un caso e nell’altro, c’è da chiedersi se l’intento pubblicitario, col fine legittimo del giusto profitto, alla fine soffochi ogni, sacrosanta quando c’è, aspirazione di promozione culturale non schiava di un rozzo consumismo. La stessa accoppiata proposta proprio all’inizio va interpretata esclusivamente come un furbesco espediente per suscitare curiosità nel potenziale lettore? E il testo che segue sarà in grado di fungere da commento alla seconda delle due immagini? Se le domande resteranno senza risposta (comunque particolarmente gradite saranno quelle a mio sfavore, purché non genericamente motivati), il post sarà stato come una bottiglia consumata tanto distrattamente da non rendersi conto di aver magari bevuto vino di pessima qualità e pagare il conto senza protestare. Unica differenza è che qui la consumazione non sarà costata nulla, se non una perdita di tempo, per la quale mi scuso, in caso di mia colpa provata, fin da adesso.
Il qualu del titolo è la varante neritina tra le numerose in uso in Salento e che hanno l’esatto corrispondente italiano in boccale, il cui albero genealogico appare ricostruito in tabella.
Come vedremo, non tutte le varianti salentine hanno subito quest’incrocio, ma, in compenso, sono state interessate da altri fenomeni, dei quali si rende conto dettagliatamente e con un ordine che anche visivamente dà l’idea del percorso più o meno lungo seguito da ogni singola variante, partendo, come scienza vuole, da baucalem, accusativo di baucalis.
VARIANTI CON INCROCIO
vuccale (Castrignano dei Greci, Galatina). Trafila: baucalem>*baucale>*bucale>*buccale>vuccale (normale passaggio b->v– ed altrettanto normale passaggio –em>-e. L’incrocio con bocca è tradito da –cc-.
vuccala (Galatina). Stessi fenomeni del precedente, ad eccezione di –em passato ad –e per regolarizzazione della desinenza al femminile.
uccali (Lizzano). Incrocio con ucca che, rispetto a bocca (che è dal latino buccam) mostra normalissima aferesi di b– attraverso un *vucca
VARIANTI SENZA INCROCIO
ucala (Parabita e Avetrana). Aferesi di b– e regolariizzazione della desinenza al femminile attraverso un *vucali
ucalu (Castro, Taurisano). Come il precedente, ma con regolarizzazione della desinenza al maschile.
uquala (Vernole). Come in ucala, ma con esito –ca->-qua–
qualu (Galatone, Nardò, Otranto, Seclì). Rispetto alle quattro varianti precedenti l’aferesi appare più imponente avendo interessato non un solo fonema ma l’intera sillaba. Due appaiono le trafile possibili: 1 baucalem>*bucale>*vucale>*vuquale>>*vuqualu qualu; 2) baucalem>*bucale>*bucalu>*vucalu>*vuqualu>*uqualu>l’uqualu>*lu qualu (errata discrezione dell’articolo indotta dalla pronuncia simile a quella del nesso precedente)>qualu. In più è da notare l’esito –ca->-qua-, come in: latino tardo caldària (attraverso un *calidària, a sua volta dal classico càlidus=caldo)>italiano caldaia>salentino quatàra.
calu (Otranto). Vale quanto detto per qualu, a parte la conservazione di –ca-.
Se le varianti salentine non incrociatesi con bocca mostrano maggiore fedeltà alla voce più antica, greca o latina che sia, ucala ha avuto l’onore di essere registrata da Antonio Casetti e Vittorio Imbriani in Canti popolari delle provincie meridionali, Loescher, Roma Torino Firenze, 1872, v. II, pp. 209 e 350, con tre canti d’amore raccolti il primo a Morciano, il secondo (variante del primo) e il terzo a Lecce e a Cavallino. Ne riporta il testo, corredandolo di note laddove mi è sembrato opportuno farlo.
Ohi, aceddhuzzua de la tramuntana,
‘nnucimene novab de ninella mia!
Li dici ca sto ‘mmienzu ‘na funtana,
sto ‘mmenzu l’acqua, e mme moru de site;
li dici mme nde manda ‘na vucala,
ca sulu l’acqua soa stuta la sitec.La pruvò puru ‘na vecchia macarad,
turnau de quindici anni caruseddhae.
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a uccellino
b recami notizia
c perché solo l’acqua sua smorza la sete
d strega. La voce è forma aggettivale sostantivata da maga.
e giovinatta
M’aggiu partutu ‘mposta de Putenza
pe’ visitare tie, cara speranza;
de l’angeli de celu nd’hai la scenza,
de Marta e Madalena nd’hai la stampaa.
Tie sinti ‘na ucala de Faenza,
fore stangatab e dintru la sustanza;
tie parli a tutti, a mmie nu’ mme dai ‘denziac,
beddha, nu’ mme levare la speranza.
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a l’aspetto simile
b alla lettera stagnata, cioè smaltata, lucente
c udienza, ascolto
Lu bene mmiu, sta mete alla funtana,
stae intru l’acquaa e more de la site.
Dinni ca nni nde mandu ‘na ‘ucala,
de quist’acqua la mmia cci stuta siteb.
Ca ci nde bie ‘nu malatu, sana
e ci nde bie ‘nu mutu, nde faeddhac;
e ci nde bie ‘na vecchia masciarad,
‘ddentae de quindici anni caruseddha;
e si nde bie quiddha giojuzza cara,
nde tornaf li surdati de la ‘uerra.
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a La punteggiatura va corretta così: Lu bene mmiu sta mete, alla funtana
stae intru l’acqua (Il mio bene sta mietendi, sta alla fontana dentro l’acqua)
b con quest’acqua ci smorza la mia sete
c favella, parla
d strega.La voce è forma aggettivale sostantivata da mascìa=magia
e diventa
f ne fa tornare
Di più fresca, anche se non durevole, memoria è forse il proverbio che recita: Tantu vae e bbene l’ucala ti intra ‘llu puzzu, ca ‘nci lassa l’àsula (Tanto sale e scende il secchio dentro al pozzo, che ci lascia il manico). Da notare l’adattamento metaforico di ucala per secchio e di àsula1 per manico). Tale uso metaforico, però, non appare esclusivo del Salento, come mostra lu calu (tal quale la variante prima registrata per Otranto) di una poesia di Giovanni Meli (1740-1815), che di seguito trascrivo (da Opere, Di Marzo, Palermo, 1857, p. 282) con l’aggiunta, anche qui, di qualche nota.
L’Ingratitudine, o la Vecchia e lu Porcu
‘Na vecchia, chi tiratu
si avia da un puzzu l’acqua,
nni sdivacavaa lu calu
‘ntra un lemmub, e poi si sciacqua.
Un Porcu arsu di siti,
vidennu l’acqua scappa,
e senza offerti, o inviti,
arriva e si l’appappa.
Nun pensa farci mali
la vicchiaredda piac,
e godi ca dd’armali
si sazia e si arricriad.
Vivennu quantu pòe,
lu Porcu poi nun lassa
fari da pari sòf;
lu lemmu cci fracassa.
La Vecchia a sta vindittag
si pilah e si contorci,
dicennu mesta e afflitta:
Faciti beni a Puerci!
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a svuotava. Sdivacare, in uso pure a Brindisi, è dal latino vacuare con prostesi di ben due preposizioni (ex e de) con la funzione di amplificare il concetto di base. A Nardò la variante sdiacare mostra la sincope di v intervocalica.
b catino di terracotta. Nel Salento è limmu (a Nardò la variante con dissimilazione limbu) parallelo al femminile limma (con differenza solo dimensionale), che è dal greco λίμνη (leggi limne)=palude, stagno, lago; da notare la poetica trasposizione metaforica che fa del catino uno stagno in miniatura.
c generosa, caritatevole.
d e ha piacere che quell’animale si sazi e si ristori.
e può.
f non smette di comportarsi da pari suo.
g offesa.
h letteralmente: si strappa i peli, metaforicamente: se ne duole grandemente.
Non posso fare a meno di chiudere con un’ ulteriore nota a conferma dell’antico gemellaggio tra la Sicilia e il Salento. L’immagine del porco che fracassa il lemmu dopo essersi dissetato è parallelo a Lu puercu ‘bbinchiatu ota la pila capusotta (il porco dopo essersi saziato capovolge il trugolo) e l’amara conclusione del verso finale (estratta dal detto Fai beni a porci e ‘limosina ai parrini=Fare bene a porci e elemosina a preti) trova il suo gemello salentibo Fa’ bbene a ppuerci! (Fa’ bene a porci!).
p. s. (pure questo! …)
Un neritino che ben conosco e che vuole mantenere l’anonimato, nonostante egli affermi di non cercare visibilità, sfruttando la mia al momento solo planetaria, mi ha passato la poesia che allego, con preghiera di inserirla nel post, nella tracotante certezza della pubblicazione di quest’ultimo. Ho colto nella sua preghiera una sfumatura di disperato ricatto e, comunque andrà, nessuno mi potrà accusare di istigazione al suicidio …
LU QUALU
di Anonimo neritino
Lu bbicchieri no’ mmi serve, so’ ssinceru,
no’ sta bbi parlu ti acqua ma ti mieru,
e ggh’è ssicuru ca an cielu mi ‘ndi salu,
quandu mi lu bbeu t’intra a ‘nnu qualu.
Iò cu llu mieru no’ ffazzu lu razzista
basta iddhu cu bbessa sempre in vista;
poi, cu bbessa gnorumaru o primatiu,
sulu quandu mi manca iò quasi mi cciu.
Ma, quandu nc’è, lu qualu m’aggiu inchire;
già lu tissi, bbi l’aggiu rripitire?
Brindamu allora alla salute noscia:
qualu, tu faci la vita menu moscia!
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1 Come l’italiano àsola, è dal latino tardo ànsula(m), a sua volta diminutivo di ansa (da cui la voce italiana)=manico, occhiello delle scarpe, arpione, appiglio e, in senso figurato, opportunità; evidente la connessione col verbo àngere=stringere, a sua volta connesso col greco ἄγχω (leggi ancho) con lo stesso significato. Alla radice, molto prolifica, appartengono anche angina, angolo, angoscia, angusto e angustia e ansia.