di Michele Mainardi
Dista un soffio da Trepuzzi la masseria “Case Bianche”, che con la sua chiesetta langue, consumata dall’abbandono. La raggiungiamo facilmente: la strada provinciale “246”, quella che si innesta sulla Surbo-Casalabate, la sfiora sul ciglio, e non è un bel vedere; ma non è sullo sconquasso del fabbricato e dell’oratorio, depredato e “visitato” da impropri esploratori, che vogliamo intrattenerci. Assistere alla scena della vandalizzazione dell’aula liturgica fa male.
Il nostro cammino è indirizzato ad una sosta di religiosità popolare di nuovo conio: la cappella votiva di san Pio da Pietrelcina, che sorge nell’areale della vecchia tenuta di “Case Bianche”. Essendo ben curata e onorata, stride il confronto con la precedente (eretta 97 anni prima, nel 1909).
L’hanno voluta Raffaele Renna e Francesco Conte, devoti del santo con le stimmate.
La scelta del sito su cui costruire il tempietto (benedetto il 19 marzo 2006, festa di san Giuseppe) è ricaduta in un luogo portato ad amenità: la pinetina che, sfilacciandosi, si distende in territorio di Trepuzzi, proprio sul limitare di quello di Lecce.
L’atmosfera di quiete, si sa, è maggiore se tutt’intorno il verde fa corona. La protezione degli alberi aiuta eccome il dialogo interiore.
Il posticino, difatti, asseconda il silenzio che si ricerca. Stare a pregare, o a raccogliere i propri pensieri, nello spazio ristretto della cappellina, viene di getto: l’ambiente dice molto; per il resto tocca alla buona intenzione di chi, anche per caso, vi si imbatte, dopo un giretto per campagne (a dir il vero piuttosto malandate).
Presi dalla particolarità del costruito, non possiamo indugiare nel restare fuori, magari seduti in panchina (ve ne sono quattro appoggiate al muro di recinzione, armonizzato in pietre di tipo a secco): anche se è dallo slargo viario che la figura tozzetta del rifugio spirituale fa scena di micropaesaggio. La porticina (che ha in architrave riassunto l’intero messaggio di identificazione del sacello) invita a entrare: non c’è lucchetto nella chiusura. D’altronde, perché serrare l’uscio? Che senso avrebbe? L’intento è quello di dare piena ospitalità ad ogni viandante: quindi libertà di accesso. I malintenzionati, al cospetto della selva di simulacri e quadretti, disposti a semicerchio di parete, dovrebbero indietreggiare: questo non è posto per loro. Padre Pio, dall’altarino rasoterra, li fulminerebbe con lo sguardo: i suoi occhi penetranti, la statuina li ha messi in evidenza, fedeli all’originale. Al titolare della cappelluccia non mancano di certo i mezzi per farsi rispettare, né di altro per chiamare a sé chiunque desideri avvicinarsi con cuore puro.
Nessuno si azzarderebbe a toccare niente del sovrabbondante che arreda l’aulettina. Ne siamo sicuri.
E, allora, stiamoci un pochino a meditare. Credenti e non credenti, cercando la pace, resteranno colpiti dalla situazione raccolta che qui si tocca con mano. Sulla rustica panca si sta divinamente, da soli (non più di quattro persone ci entrano “comode”, fronteggiandosi in coppia), a riflettere, a ragionare sui passi da fare, piccoli o grandi che siano.
Usciamo sollevati dall’angusto luogo di spiritualità. Prima di andarcene però traguardiamo, dal lato posteriore, il minuscolo tempio del frate cappuccino: la squilla del campaniletto è in linea con la crocetta del coronamento terragnolo. Padre Pio, issato sul picco della torretta che a stenti si vede, è visibile di suo. Non ha bisogno di piedistallo.
Il vertice (della fede incarnata) si riverbera pure a tre metri (e mezzo?) dal suolo: centimetro più, centimetro meno…