Due preziose carte sulla Brindisi in declino

di Nazareno Valente

Vito Ruggiero, appassionato di cartografia, ha recentemente scovato due mappe di Brindisi, entrambe realizzate dalle famose stamperie di Venezia e collegate tra loro da un tenue, ma significativo, legame derivante dal particolare toponimo usato per caratterizzare la città salentina, vale a dire Brandici. E la cosa non è per niente banale, considerato che le novità documentali scarseggiano e che il materiale su cui si lavora per ricavare un’attendibile storia cittadina ristagna da tempo.

Va da sé che le due carte vadano pertanto esaminate con attenzione per ricavarne il maggior numero di informazioni possibili, da aggiungere a quelle già fornite dal suo scopritore. Tuttavia, rinviando ad altro momento un esame più minuzioso di queste stupende mappe, mi soffermerò in questa occasione solo su alcuni aspetti specifici in modo da collocarle nel contesto il più appropriato possibile. E, tanto per ambientarsi, inizio con una loro breve presentazione.

La prima (figura n. 1), che chiameremo convenzionalmente Brandici I, racconta dell’approdo del famoso ammiraglio genovese Andrea Doria nel porto esterno di Brindisi, di ritorno dalla battaglia di Prevesa che aveva visto impegnata nel 1538 la flotta della lega santa promossa da papa Paolo III contro quella ottomana condotta dal famoso corsaro Barbarossa. La carta era già nota agli specialisti del settore, essendo stata esaminata una cinquantina di anni fa da  Tibor Szathmáry, uno studioso magiaro che l’aveva ritrovata insieme ad altre 13 mappe, e, in aggiunta, successivamente censita nel 2018 da S. Bifolco e F. Ronca, nella loro «Cartografia e Topografia Italiana del  XVI secolo», vera e propria bibbia per chi s’interessa di cartografia.

Ciò nonostante, la carta era rimasta del tutto sconosciuta agli studiosi di storia cittadina e Ruggiero l’ha evidenziata per primo, narrandola nel libro che ha per l’occasione scritto, «Brandici. La più antica e rara mappa di Brindisi, che Brindisi non conosce».

Proprio la qualificazione utilizzata di «più antica e rara» ha suscitato le prime iniziali attenzioni per lo più di carattere polemico, considerato che si è posto l’accento sulla circostanza che c’è una carta del Piri Reis che la precede nel tempo. Il che è senza dubbio vero, sebbene l’affermazione di Ruggiero si riferisse al taglio di Brandici I che si differenzia in maniera evidente da quelle comunemente confezionate nello stesso periodo di tempo. Non entrerò nel merito di questa specifica questione, per altro di marginale importanza, preferendo piuttosto attardarmi sulla effettiva datazione della carta.

 

La seconda mappa (figura n. 2), che chiameremo sempre a titolo convenzionale Brandici II, è invece un disegno seicentesco del porto brindisino conservato  negli archivi della British Library, che non credo sia mai apparso da nessun’altra parte e, pertanto, può dirsi a pieno titolo del tutto sconosciuto. Rispetto alla precedente carta offre minori spunti di discussione, per cui su di essa mi soffermerò lo stretto necessario.

Ben più interessante è infatti Brandici I, a mio modo di vedere unica come impostazione generale. Il che la rende originale sia da un punto di vista grafico, sia da un punto di vista storico in quanto, rispetto ad altra analoga documentazione, dà informazioni puntuali e inusuali su come si distribuiva la città di Brindisi sul suo territorio, distinguendosi così dalle mappe del tempo che in genere avevano come obiettivo quello di dare risposte pratiche sulla configurazione del porto e su questioni collegate alla navigazione.

 

Proprio la mappa di Piri Reis (figura n. 3), giustamente evocata da molti come la più antica rappresentazione di Brindisi, ha evidenti scopi pratici, tipici dei portolani del tempo, prestando la sua attenzione, non tanto alla città, quanto al suo porto di cui rappresenta la disposizione delle coste, delle insenature e, di tutti gli altri aspetti che avevano un ruolo cruciale per chi navigava. Non a caso Piri Reis dà della città di Brindisi un’immagine stereotipata, relegandola al ruolo marginale di spalla del porto che costituisce così la parte essenziale del lavoro grafico.

Brandici I è invece una effettiva veduta della città e, in luogo di scopi concreti per la navigazione, intende soddisfare interessi narrativi sulle potenzialità offerte dalle strutture cittadine, soprattutto quelle che ne componevano il sistema difensivo: mura, arsenale, castelli e torri che posiziona non in maniera generica.

In definitiva  da questo punto di vista è davvero, come afferma Ruggiero,  la più antica mappa di Brindisi, visto che si sofferma sulla configurazione generale della città e, per la prima volta, assegna un ruolo da comprimario al porto rispetto alla cornice cittadina.

Ciò detto c’è pero da chiedersi, quanto sia effettivamente vecchia Brandici I. Infatti sulla sua datazione mi sento di dissentire con chi sinora l’ha studiata, vale a dire Szathmáry, Bifolco e Ronca che danno per scontato che la carta sia stata stampata nel 1538. A mio avviso,  se c’è qualcosa che si possa affermare con estrema certezza è proprio al contrario che la carta non può essere stata pubblicata nell’anno indicato dagli studiosi. E questo per il semplice motivo che non c’erano i tempi tecnici per produrla nel 1538.

Certo la data del 1538 è ben messa in evidenza sulla mappa ma, per me, non riguarda l’anno di stampa della stessa quanto quello in cui è avvenuto il fatto narrato. La venuta di Andrea Doria a Brindisi fa infatti parte di quegli eventi di cui è rimasta traccia e se ne conosce la datazione.

Come ricordato da tutti gli studiosi menzionati e dallo stesso Ruggiero, Andrea Doria aveva da poco partecipato alla battaglia di Prevesa, un avvenimento di grande rilievo capitato sempre in quel fatidico 1538 che aveva visto lo scontro tra le forze congiunte della cristianità opposte a quelle mussulmane, il cui esito creò molte discussioni sia tra chi aveva aderito alla lega santa sia, successivamente, tra gli storici. Nel corso della battaglia non c’era stata difatti grande coesione tra le potenze della lega santa tant’è che, sebbene in condizione di evidente superiorità, la coalizione non aveva saputo cogliere una vittoria che pareva scontata. E questo, a detta soprattutto dei Veneziani, proprio a causa del comportamento tenuto dall’ammiraglio genovese il quale si era sul più bello defilato dalla battaglia. C’è chi dice perché s’era convinto che non c’erano le condizioni per prevalere su Barbarossa — e quindi parla di condotta saggia — e chi, invece, afferma che, molto più egoisticamente, non se l’era sentita di rischiare le sue navi nello scontro. Qualunque siano state le motivazioni alla base della decisione presa, Andrea Doria, conclusesi le operazioni militari, intraprese il viaggio di ritorno e, approssimandosi l’inverno, si avviò verso lo scalo brindisino, dove vi approdò il 20 novembre 1538.

Ora, accettare che Brandici I sia stata pubblicata nello stesso 1538, vorrebbe dire confidare che l’editore sia riuscito in circa una quarantina di giorni, quelli intercorrenti festività comprese tra il 20 novembre ed il 31 dicembre, a fare le seguenti attività: aver appreso l’avvenimento, far disegnare Brandici I, far predisporre l’incisione, ottenere l’autorizzazione, procedere alla stampa e alla sua pubblicazione. Ebbene, se si considera che nel Cinquecento solo per venire a conoscenza di un evento di rilievo ci volevano giorni, se non addirittura settimane, figuriamoci quanti ne servirono per un fatto poco più che marginale, e non certamente in grado di suscitare la curiosità dei media del tempo, come un banale approdo. Si aggiunga poi che per preparare un’incisione su legno (ricordo che si tratta di una silografia) ci volevano settimane e che anche la stampa non si effettuava in giornata come adesso. In definitiva i tempi allora occorrenti erano di gran lunga superiori a quelli attuali e, senza scomodare casi  in cui per fare magari qualcosa di poco più sofisticato ci si mise perfino anni, è del tutto inverosimile che quaranta giorni siano stati sufficienti per far vedere la luce a Brandici I.

Si può pertanto dare per certo che il 1538 riportato sulla carta non rappresenti l’anno di stampa di Brandici I ma quello in cui, come già riferito, si svolse l’evento, e quindi dati l’arrivo e la sosta di Andrea Doria a Brindisi. E che così sia è in parte confermato dalla mappa realizzata dallo stesso autore di Brandici I riguardante la rappresentazione della già citata battaglia di Prevesa. Pure lì è riportata la data del 1538 che coincide anche in questo caso con l’anno in cui ci fu lo scontro, avvenuto per la precisione nel mese di settembre. Come dire che in entrambe le occasioni l’autore decise di comportarsi alla stessa maniera dando risalto alla datazione degli eventi, con ogni probabilità perché fungesse da riferimento per i lettori.

Tale ipotesi appare congrua anche considerando la possibile epoca in cui lo stampatore svolse la sua attività professionale. Di lui, oltre il nome, Francesco Tommaso di Salò, non si sa molto di più e, sebbene anche gli anni in cui abbia operato siano motivo di discussione, i più ritengono che debbano essere comunque compresi tra il 1550 ed il 1574 che, di fatto, non concordano con le date riportate nelle mappe trovate da Szathmáry ed a lui attribuibili, tutte relative ad anni antecedenti  al periodo appena citato. Il che è spiegabile solo se si ipotizza che Francesco Tommaso fosse solito menzionare l’anno di accadimento dei fatti disegnati, e non quello di stampa. Inoltre, poiché l’unico dato certo è che egli ancora nel 1574 faceva lo stampatore — cosa che non preclude che abbia esercitato la professione anche negli anni successivi — si può ragionevolmente presumere che non abbia potuto iniziare la sua attività più di trent’anni prima e che quindi nel 1538 Francesco Tommaso non avesse neppure  intrapreso la professione che gli ha poi dato notorietà. Queste considerazioni  spingono in prima approssimazione ad ipotizzare che l’anno di stampa di Brandici I debba essere compreso nel presumibile periodo di tempo in cui Francesco Tommaso operò, cioè a dire all’incirca tra il 1545 ed il 1574.

A tal riguardo occorre menzionare che, proprio per desumere il periodo di realizzazione, Ruggiero ha fatto eseguire alla Fondazione Fedrigoni Fabriano uno studio sulla filigrana e sulla carta su cui fu stampata Brandici I e che tale esame lascerebbe supporre che la mappa fu confezionata entro la prima metà del Cinquecento. Questo risultato, per quanto basato su dati di fatto, resta pur sempre una stima alquanto aleatoria per tutta una serie di considerazioni tecniche e statistiche che sarebbe qui troppo tedioso precisare. Basterà ricordare che i database usati per simili verifiche raccolgono solo i casi conosciuti e di conseguenza non lavorano su un campione statisticamente rappresentativo, l’unico in grado di offrire stime affidabili. Senza contare poi che con questi metodi si può stabilire con buona approssimazione che un certo tipo di carta non sia stato usato prima di un determinato periodo, ma non si ha nessuna garanzia che non sia stato utilizzato in tempi successivi. Soprattutto in momenti di penuria, come avveniva nel Cinquecento, è infatti abituale non gettare via nulla e adoperare usualmente materiale anche vecchio di anni.

Gli elementi contenuti nella mappa non forniscono invece alcuna indicazione utile a datarla, in quanto sono stati costruiti appositamente per rappresentare un avvenimento svoltosi nella prima metà del Cinquecento, e l’unica considerazione possibile è che non contengono dati palesemente anacronistici.

Anche lo stesso toponimo utilizzato, Brandici, non ci dà nessuna informazione aggiuntiva. A Venezia, dove Francesco Tommaso stampò la carta, la documentazione ufficiale del tempo utilizzava in genere il termine Brandizo per indicare Brindisi, ma la prassi non escludeva l’uso di altri toponimi. C’è da precisare che per identificare questa città venivano usati vari vocaboli, ivi compresi quello di Brindisi, che poi si affermò, e quello di Brandici che, pur usato raramente negli ambienti colti, sembra al contrario aver trovato buona diffusione tra la gente di mare.

Informazioni utili possono invece trarsi chiedendosi chi commissionò quest’opera e, soprattutto, perché se ne progettò la stampa.

C’è da presumere che, sebbene stampata a Venezia, la carta non sia stata realizzata per il mercato veneziano. Alcune considerazioni lo fanno pensare, prima fra tutte il fatto che Andrea Doria, proprio per l’atteggiamento tenuto nella battaglia di Prevesa, era malvisto dai Veneziani che non avevano nessun motivo valido per immortalarlo mentre approdava onorevolmente nel porto di Brindisi. In più un’opera del genere era di fatto invendibile a Venezia, in quanto non raccontava una storia di cui la città potesse gloriarsi più di tanto. Anzi Prevesa era una pagina da dimenticare, visto che nello scontro i Veneziani s’erano trovati in grossa difficoltà ed erano stati di fatto beffati da Barbarossa.   Pertanto sarei indotto a credere che fu una richiesta fatta da fuori, presumibilmente proveniente da ambienti spagnoli, considerato che Andrea Doria guidava la loro flotta.

Per quanto poi riguarda i motivi che resero utile pubblicizzare un evento simile, si può solo ritenere che avessero una qualche attinenza con il timore che a quel tempo generava la potenza ottomana, la quale non nascondeva mire sull’Adriatico e su vaste zone dell’Italia. C’è infatti da ricordare che già qualche decennio prima, ritenendosi a seguito della conquista di Costantinopoli i legittimi eredi dell’impero bizantino, i Turchi si erano impossessati per un anno di Otranto pretendendo nel contempo che fossero loro consegnate le città del Salento che avevano fatto appunto parte dell’impero romano d’Oriente.

Per contrastare simili progetti s’era realizzata la santa alleanza che, però, non aveva fatto cogliere risultati apprezzabili. Malgrado ciò, in particolare la Spagna ed il papato, spingevano in maniera insistente perché la coalizione fosse riattivata per scongiurare una buona volta e per sempre i disegni espansionistici dei Turchi. Certo Prevesa era stata un’occasione che non s’era saputa cogliere ma c’era in ogni caso la necessità di riprovarci per non vivere nella perenne incertezza d’una invasione. E, non a caso, di lì a qualche anno si concretizzò la terza lega sacra che avrebbe portato alla vittoria di Lepanto nel 1571 che sancì il ridimensionamento dell’influenza ottomana nel Mediterraneo.

Tuttavia Andrea Doria era il personaggio meno indicato per riannodare i fili di una nuova coalizione visto che, per l’atteggiamento tenuto a Prevesa,  era ritenuto dai Veneziani il colpevole dell’insuccesso della precedente alleanza. Per cui né gli Spagnoli, né tantomeno il papato l’avrebbero utilizzato per promuovere una nuova intesa tra le potenze occidentali. Pertanto pare del tutto improbabile che Brandici I possa essere servito espressamente ad un simile scopo e questo induce a pensare che non era l’approdo di Andrea Doria in sé che si desiderasse mettere in evidenza, quanto la città di Brindisi ed il suo porto. Non per niente s’è già considerato che , rispetto a tutte le altre mappe del periodo, Brandici I è peculiare in quanto si interessa piuttosto della città, tanto è vero che ne delinea i suoi elementi principali indugiando su tutte quelle caratteristiche che evidenziavano la sua invulnerabilità. Serve però ricordare che Brindisi viveva allora una situazione di grossa difficoltà a causa dell’inagibilità del suo porto interno, per l’interrimento del canale che lo metteva in collegamento con quello esterno, e  dell’aria malsana generata dalle paludi che costellavano le sue coste. Ogni operazione portuale era così svolta nella rada che, però, trovandosi lontana dall’abitato cittadino rendeva complicate ed onerose anche le più semplici operazioni di carico e scarico. Tuttavia, a dispetto di questi indubbi limiti, nessuno dimenticava la posizione strategica posseduta dal porto brindisino e tutti lo consideravano il più adatto a difendere il Mediterraneo dal pericolo ottomano. Tanto è vero che, liberata nel 1481 Otranto dall’occupazione turca, gli Aragonesi avevano dato inizio a fortificare con una torre e successivamente con un castello l’isola di Sant’Andrea che gestiva gli accessi al porto brindisino. Tale impegno in opere difensive era proseguito in periodo vicereale ed era tuttora  in atto quando Andrea Doria vi era giunto nel 1538. Brindisi era così un baluardo insormontabile e, in tale ottica, anche l’impraticabilità del porto interno faceva gioco rendendo la città ancor più difficile da conquistare.

C’era però chi riteneva che, di fronte al pericolo turco, non dovesse solo seguirsi una politica di passiva difesa ma che si dovessero al contrario attuare tattiche aggressive contrattaccando in maniera adeguata. In tal senso andavano le alleanze di volta in volta promosse ma anche progetti che vedevano Brindisi quale punto cruciale per riuscire in questo intento.

Proprio in quello stesso periodo Antonio Doria, cugino di Andrea ed anche lui al soldo degli Spagnoli, s’era reso infatti artefice di un progetto — presentato nel 1539 — che si poneva come obiettivo di formare una lega tra la Repubblica di Venezia, il pontefice (Paolo III) e l’imperatore Carlo V con lo scopo di armare una consistente flotta formata da 250 galere, ciascuna composta di 80 soldati e 60 marinai, oltre a corazzini (soldati corazzati), in grado a suo dire di annientare qualsiasi avversario. Antonio Doria sottolineava come la potenza ottomana si basava nella disponibilità di grande quantità di soldati, di denaro e di galere che consentiva loro di portare continui attacchi che coglievano spesso di sorpresa i navigli spagnoli che, sparpagliati nelle varie città, si trovavano sempre in inferiorità numerica ed erano ogni volta «costretti a fermarsi, et inchiudersi in qualche porto…lasciando comodità alle nemiche di andar dove vorranno depredando, rovinando et abrusciando tutte le terre Marittime, et massimamente delli Regni di Sua Maestà».

Il che comportava spese ingenti per fortificare tutte le zone della costa, senza però risolvere il problema. Per questo consigliava che il grosso della flotta spagnola, «ottanta, ò, novanta Galere», soggiornasse in un porto da cui si potesse intervenire con prontezza quando il pericolo si manifestava. Ed il porto più idoneo a svolgere un simile compito era, a suo avviso, senza discussione quello di Brindisi, purché qualcuno avesse voluto ricordare «à sua Maestà che facesse accomodare il Porto… e medesimamente attendere… alla purgatione di alcune paludi che causa malarie, et alla provisione di tutte le cose necessarie, alle Galere, acciò che non bisognassero loro andarle cercando in altro luogo».

Antonio Doria dava pure un rendiconto dettagliato delle spese da compiere per la ristrutturazione dell’approdo brindisino, ritenendo che fosse sufficiente pulire per benino il canale di collegamento per risolvere i problemi dell’interrimento dello stesso. Cosa che sappiamo non corrispondeva alla realtà.

Il progetto restò inizialmente lettera morta, tuttavia qualche anno dopo, sempre nell’ambito del discorso più generale di quale fosse la strategia migliore per contrastare il pericolo turco, questa diversa funzione di Brindisi, da baluardo di difesa tipica di una città di frontiera a strumento d’offesa e d’espansione, incominciò sia pur con difficoltà a prendere piede ed a conquistare adesioni.

Sino a quando nel 1560 Alfonso Guerriero, presidente di ruota della camera della Sommaria, propose formalmente lo stabilimento di una base navale in Brindisi. E forse fu proprio per questa occasione che fu fatta confezionare Brandici I con l’evidente intento di mostrare le potenzialità del porto brindisino, ma anche quelle della città che con il suo apparato difensivo poteva ospitare e garantire un adeguato riparo ad un numero consistente di navigli.

Il progetto non fu accolto per tutta una serie di motivi che non è il caso qui d’indagare, ma che mi riprometto di fare in un apposito articolo per le tragiche conseguenze che una simile decisione comportò per il futuro di Brindisi. Qui serve solo rilevare che, con ogni probabilità, Brandici I faceva parte della documentazione allegata al progetto, e questo, unito a tutte le altre considerazioni sviluppate, farebbe credere che l’anno di stampa sia molto prossimo al 1560. E, se così stanno le cose, si può pertanto concludere che la carta fu confezionata verso la fine della prima decade della seconda metà del Cinquecento, in definitiva tra il 1556 ed il 1560.

Questo piccolo svecchiamento — al massimo di una ventina di anni —  non intacca in nessun modo la validità di Brandici I, né ne ridimensiona la sua significatività a livello informativo: resta in ogni caso l’unica carta conosciuta che fornisce una significativa rappresentazione cinquecentesca di Brindisi, oltre a contenere elementi preziosi in grado di chiarire aspetti controversi. Per tutti, sarà sufficiente qui rilevare, a mo’ d’esempio, la collocazione dell’arsenale che Brandici I pone in maniera inequivocabile a levante, e non a ponente come unanimemente ritenuto. Andando controcorrente, avevo già ipotizzato che in periodo medievale l’arsenale dovesse trovarsi a levante. Considerazioni banali mi spingevano a crederlo: l’arsenale è di ideazione successiva al castello e  l’andamento del seno di ponente del porto interno brindisino di fatto rende impossibile che castello ed arsenale potessero coesistere. Se così fosse stato, l’arsenale sarebbe stato collocato lì dove la costa ha una pronunciata rientranza e questo l’avrebbe posto proprio sulla linea di tiro di chi occupava il castello. Circostanza questa da evitare, perché la presenza dell’arsenale in quella posizione avrebbe di fatto precluso la visuale del campo di battaglia a chi si trovava nel castello e, in aggiunta, sarebbe stato utilizzato come  riparo da eventuali assedianti. In pratica avrebbe avvantaggiato doppiamente possibili nemici. Non a caso, si rendeva sgombra, spianandola, la zona vicina a qualsiasi opera di difesa.

Per questo stesso motivo, differentemente da quanto mostrato da Brandici I,  non potevano esserci mura di fronte al castello dovendo esserci necessariamente uno spazio vuoto, appunto il cosiddetto guasto.

Per quanto riguarda invece Brandici II — un disegno seicentesco a mano di pregevole fattura — va detto che riproduce nel dettaglio ed in maniera precisa la struttura del porto, dedicando alla città solo qualche significativo schizzo.

Tramite il simbolo del naviglio ci fa sapere che a quel tempo era possibile ormeggiare solo nel porto esterno, in particolare dalle parti della costa Guacina (allora denominata Cala delle Navi). I segni di insabbiamento concentrati nei presi del canale di accesso  chiariscono che questo non era transitabile, rendendo impossibile alle navi di entrare nel porto interno. Non a caso nei seni interni non è disegnato alcun naviglio, in modo da precisare, sempre che ve ne fosse stato bisogno, che lì non c’erano approdi.

Relativamente alla città, oltre ad evidenziare il castello di Terra e le mura, la carta tratteggia alcune costruzioni. Quella in primo piano non ho dubbi che sia la chiesa di San Giovanni dei Greci, per la vicinanza al molo (Barcaturo) che si trova appunto disegnato poco lontano alla sua sinistra. La seconda è di certo la Cattedrale. Poi sono riconoscibili le Colonne. Qualche dubbio pone la costruzione più lontana. Io ritengo sia il palazzo del duca di Atene — personaggio per niente simpatico ai Brindisini — che successivamente ospitò il tribunale, i regi governatori ed i giudici della città, assumendo per questo la denominazione di Case della Corte. Però potrebbe anche essere la chiesa allora dedicata a san Giacomo e, successivamente, dal 1669 a san Francesco da Paola.

Da questo mio breve esame si evidenzia come entrambe le carte scovate da Vito Ruggiero abbiano tanto da raccontare e meritino grande considerazione e studio.

Come per altro Brindisi, città piena di affascinanti storie. Molte ancora tutte da scoprire.

 

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