“I Frutti del Buon Governo”.
Curiosità, storia ed approfondimenti sul ciclo allegorico delle Virtù e delle Stagioni del pittore Liborio Riccio
di Santo Venerdì Patella
Gennaio 1884 Maglie. Ci troviamo nel palazzo del senatore comm. Achille Tamborino insieme al prof. Cosimo De’ Giorgi che riferisce di aver visto in questa sontuosa dimora alcune tele del pittore murese Liborio Riccio.
Ora, visto che i Tamborino all’epoca della realizzazione delle tele non erano ancora nessuno, ci si pone una domanda istintiva: cosa ci fanno, e più ancora da dove provengono, le tele del sacerdote don Liborio nel palazzo del Tamborino.
Occorre ritornare a ritroso nel tempo di esattamente 110 anni.
Siamo nell’Anno del Signore 1774, muore senza eredi l’ultimo dei Protonobilissimo, il principe di Muro Giovan Battista IV, tra il gaudio dei muresi per i motivi che verrò esponendo. Sconsolata invece la moglie Irene Pignatelli, non sappiamo se più per la morte del marito o perché, non avendo eredi diretti, il feudo fu devoluto al demanio regio quello stesso anno.
Per ben 80 anni il simbolo stesso dei principi, il Palazzo posto nella principale piazza del paese, quasi a ricordare con la sua mole la presenza costante della loro influenza sui popolani del tempo, rimase vuoto e forse di tanto in tanto visitato dai Governatori regi e principeschi o da loro fiduciari (c’è da precisare che il 3/10/1797 Ferdinando IV donò il feudo al principe Antonio Maria Pignatelli di Belmonte).
Donna Francesca Paolina Pignatelli, ultima erede dei Principi della terra di Muro, ed i suoi avi, non erano mai venuti a visitare Muro, poiché era solo un piccolo possedimento di cotanta proprietà di cui essi erano dotati. Infatti, differenza abissale tra i Protonobilissimo e i Pignatelli di Belmonte, era che i primi, a differenza dei secondi, amministravano i loro feudi da Muro, quasi fosse la piccola capitale del loro Principato.
Nell’anno 1854, parola di Luigi Maggiulli, il Cav. Achille Tamborino acquista Palazzo Protonobilissimo da Donna Francesca.
Inizio a sbrogliare la matassa creatasi con la domanda fatta innanzi.
Il Tamborino, facente parte di quella borghesia arricchita di metà Ottocento, che era disponibile ad accaparrarsi quanto il mercato gli offriva, acquistando, spesso vuoi da una nobiltà decadente, vuoi beni dei soppressi ordini religiosi, cercando con ciò d’elevarsi di rango tramite questa nuova forma di “Collezionismo di Rappresentanza”, non divenne solo proprietario della dimora principesca, ma di sicuro anche dei principeschi arredi e delle tele sopra mentovate.
A trattare di queste tele ritroviamo Antonio Antonaci (cfr. L’Arte e Storia a Muro Leccese, Edit. Salentina – Galatina 1974), ma senza però provarne concretamente la provenienza, con la menzione di quattro dipinti delle Stagioni e delle Virtù: Giustizia, Carità, Pace, Abbondanza, conservate in casa Tamborino a Maglie. In realtà le “Virtù” che l’Antonaci menziona sono tre, non quattro, e di queste, l’Amore verso Dio è confusa con la Pace (tra l’altro la tela raffigurante l’Amore verso Dio e presente anche nella chiesa matrice di Muro con gli stessi attributi iconografici). L’ultima, l’Abbondanza, non credo possa essere annoverata assolutamente tra le virtù.
Rettificato ciò, del ciclo delle stagioni invece voglio rendervi partecipi di una particolarità.
L’Inverno, a mio avviso, è stato pensato con una certa originalità. Si differenzia da tutte le altre tele non tanto per la postura, dove è stato utilizzato lo stesso disegno preparatorio del dipinto del profeta Isaia eseguito tra il 1759 e il 1760 sito nella zona presbiterale della chiesa della Purità di Gallipoli, quanto per l’utilizzo della figura d’una vecchia, che sembra esserne la sorella gemella, dall’uso cromatico di toni cupi e da un tratto pittorico più duro, appunto per significare l’austerità di tale stagione (vedi foto in basso).
Comunque sia teniamo conto della formidabile idea di utilizzare a mo’ di attributi iconografici gli scaldini, o come si chiamavano a Muro “li scarfalettu”, posti: uno tra le gambe, quella visibile con la calza cadente, come era d’uso e l’altro tra le mani, occupa esattamente il posto del libro del profeta Isaia.
Cerchiamo ora di dipanare interamente la matassa e di approfondire l’argomento con deduzioni verosimili. Proprio per i motivi che prima ho descritto la nobil donna, estranea all’ambiente murese, vendette oltre al palazzo anche annessi e connessi.
Il segno, che può fornire una risposta definitiva al quesito prima sollevato e che mi fa pensare che il ciclo allegorico Riccesco provenga sicuramente da Muro e sia una precisa commissione del principe al pittore, non sono tanto le Stagioni, che hanno un chiaro intento decorativo, quanto le Virtù.
Il ciclo, probabilmente realizzato verso la fine degli anni Sessanta del Settecento, si inserisce nella consuetudine, diffusa tra le famiglie nobili, di rinnovare le proprie dimore per ragioni di prestigio. Lo si può immaginare collocato nel grande salone di rappresentanza, al piano nobile del palazzo, circondato da arredi altrettanto sontuosi che non sfiguravano certo accanto alle tele. In questo scenario, il principe accoglieva i suoi illustri ospiti, celebrando il fasto e il potere della propria casata.
Le Virtù, rappresentate nelle opere, possono essere interpretate come un’allegoria dei Frutti del Buon Governo, simbolo dei benefici che il principe, con il suo operato, era in grado di offrire ai propri sudditi. Non era affatto raro, infatti, che uomini di potere commissionassero cicli allegorici di questo tipo per esaltare la propria autorità e il loro ideale di governo.
Descrivo l’allegoria per come l’ho potuta sciogliere ad interpretare:
– Cominciamo con la Giustizia: è d’origine naturale, viene acquisita dalla persona e fa parte delle virtù di governo.
– La Carità verso il prossimo: è d’origine sovrannaturale, e fa parte delle virtù pubbliche.
– L’Amore verso Dio: deve prevalere sull’amore concupiscente e sugli interessi propri.
– Per concludere con l’Abbondanza, vale a dire i frutti del buon governo: che può manifestarsi se le tre virtù sono state attuate degnamente.
Ahilui queste virtù il Protonobilissimo, a quanto pare, non le ebbe mai, tanto che Re Ferdinando IV lo fece chiamare a Napoli, per giusto reclamo d’abusi che l’Università murese aveva presentato al monarca.
Stessa sorte capitò al ben più ampio e maestoso ciclo della “Gerusalemme Liberata” del Finoglio (1590-1645), appartenuto agli Acquaviva d’Aragona di Conversano. Venduto intorno agli anni ‘30 del ‘900, dopo non poche vicissitudini riacquistato dal Comune di Conversano nel 1974, ora fa bella mostra nel castello di quella città per la quale era stato realizzato.
Speriamo che almeno il ciclo allegorico delle “Virtù e delle Stagioni” del Riccio, (pensare anche al resto degli arredi credo sia quasi utopico) abbia la stesa sorte di quello di Conversano e ritorni al Palazzo Protonobilissimo, ora di proprietà comunale.
(Rivisitazione di quanto pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 2, dicembre 2003)
P.s. Liborio Riccio, esponente locale dello stile rococò, si ispirava frequentemente ai suoi artisti “preferiti”, le cui influenze si ritrovano chiaramente nelle sue opere. Primo tra tutti il suo maestro, Corrado Giaquinto (1703-1766), di cui aveva avuto accesso diretto a cartoni e bozzetti. Tuttavia, Riccio non disdegnava di trarre spunto anche da altri pittori, come Francesco De Mura (1696-1782), Francesco Solimena (1657-1747) e Luca Giordano (1634-1705), arricchendo così il proprio linguaggio artistico con suggestioni provenienti da diverse personalità del panorama pittorico napoletano e non solo.