di Andrea Erroi
La colonna votiva, dedicata a S. Andrea Apostolo, si trova nella piazza antistante la parrocchiale, in uno degli angoli più belli del paese.
Nel Salento questa tipologia di monumenti è assai diffusa. Celebre è la colonna di S. Oronzo del capoluogo, ma in quasi tutti i centri ne esistono o ne esistevano diversi esempi.
La diffusione delle colonne votive conosce grande fortuna nel periodo barocco, anche se è un fenomeno che comincia già nel Medioevo, con gli Osanna e le pietre fitte. Esse derivano direttamente dagli apparati effimeri (installazioni temporanee, in legno, cartapesta, stoffa o ghirlande vegetali) realizzati in occasioni di feste (mondane o religiose), processioni, funerali, ecc. Questi apparati, diffusissimi in epoca barocca, spesso progettati da illustri artisti (sono documentati apparati progettati anche dal Bernini), non di rado vengono tradotti in pietra, legno o stucco, decorando in modo permanente facciate e altari e, spesso, veicolati da bozzetti o incisioni, giungono anche nei piccoli centri.
A Presicce erano presenti diverse colonne votive. Nella piazza antistante la chiesa del Carmine, ad esempio, esisteva una colonna sormontata dalla statua lapidea della Vergine, oggi scomparsa, eppure sul finire del XIX sec. «diruta ma sistente»[1].
Ancora, vi era quella di S. Vincenzo Ferreri, collocata lungo la strada che conduceva ad Acquarica – l’attuale via Gramsci – poi distrutta per l’apertura di via della Repubblica nel ‘900. Oggi, la scultura lapidea del santo domenicano, orribilmente imbrattata, è custodita in un’edicola votiva di una privata abitazione.
Un’altra colonna votiva, tuttora esistente, è quella del Padre Eterno, che sorge nell’omonima piazzetta. In questo caso si tratta del riutilizzo di un’antica pietrafitta, probabilmente sormontata in origine da una croce: queste strutture, nate nel medioevo, prendono il nome di Osanna, per il fatto che la Domenica delle Palme erano il punto di ritrovo del corteo che con i ramoscelli benedetti intonava la celebre antifona.
Quando nel Settecento fu demolita l’antica parrocchiale per far posto all’attuale chiesa, gli antichi altari vennero smembrati e dispersi e la seicentesca statua lapidea raffigurante il Padre Eterno venne collocata sull’antica stele in quel rione.
La più importante colonna votiva è però quella dedicata a S. Andrea. Essa ha una genesi solo all’apparenza meno complessa: l’imponente monumento è dedicato al santo patrono; è uno dei più alti esempi di barocco leccese e venne fatto realizzare nel XVII secolo dalla nobile famiglia Bartirotti Piccolomini d’Aragona, principi di Presicce.
Diversi sono i racconti legati al motivo per cui il feudatario abbia commissionato l’opera: secondo quanto riportato da Carmelo Sigliuzzo (del quale però non ho trovato riscontri negli archivi parrocchiali), Gianfilippo Bartirotti, principe di Castellaneta, dopo il matrimonio contratto con D. Maria Cyto Moles – baronessa di Presicce, Salve e Pozzomauro, nel 1613 prese dimora nel castello di Presicce con la moglie e il figlio primogenito Andrea.
Sempre secondo il Sigliuzzo, all’età di quattro anni morì il piccolo Andrea, evento che indusse il principe a far erigere una colonna votiva a S. Andrea Apostolo in memoria del compianto figlioletto[2]. Tuttavia, l’analisi artistica del monumento ci porta a far slittare la sua costruzione alla metà del XVII secolo (pur considerando le preesistenze) e, mancando altri riscontri storici, è difficile collegare l’erezione del monumento all’ipotesi proposta dal Sigliuzzo.
Si tratta di un basamento ornato da fregi e mascheroni, sormontato da una balaustra, con agli angoli quattro putti in rilievo. Il lato sud reca lo stemma araldico dei Bartirotti, il lato nord reca uno stemma di difficile interpretazione, in quanto fortemente eroso.
I lati est e ovest recano rispettivamente un cartiglio ormai illeggibile. Sulla balaustra, ai quattro lati, quattro figure, probabili virtù, tre delle quali acefale, sovrastano dei pilastri recanti dei putti a rilievo.
All’interno della balaustra vi è un poderoso plinto che sorregge quattro figure leonine e due cherubini (disposti sui lati est ed ovest, mancanti nei lati nord e sud); da essi si sviluppa una massiccia colonna e un ricco capitello corinzio che sorregge una base decorata, sormontata dalla statua del Santo pescatore.
Sul plinto, sui lati nord e sud sono disposte rispettivamente due epigrafi, ormai illeggibili. Il fusto, il plinto e lo zoccolo sono in carparo, mentre le figure, il capitello, la balaustra e i bassorilievi, sono in pietra leccese.
La differenza tra le due tipologie di pietra, necessaria per ottenere dettagli nel modellato, era attenuata da finiture cromatiche che interessavano, come consuetudine, le superfici lapidee. Dalle indagini eseguite sul monumento, infatti, è emerso che i conci di carparo erano trattati con una scialbatura, al fine di uniformarli alle porzioni in pietra leccese.
Il Santo è raffigurato con la convenzionale iconografia che lo presenta vecchio, con una folta barba riccioluta, abbigliato all’antica; la mano destra regge un lembo del panneggio, mentre la sinistra reca il libro, attributo degli Apostoli, e un grosso pesce, emblema iconografico del Santo. Sulle spalle, poi, sono visibili i resti della croce decussata, mentre un dettaglio assai particolare è rappresentato dal piede destro, che calpesta un libro. Questo singolare particolare apre a diverse ipotesi di lettura: la mia idea è che rappresenti l’eresia calpestata dalla vera fede, personificata dall’apostolo.
Interessante notare come vi siano altre raffigurazioni coeve in cui in Santo è presentato nell’inconsueta raffigurazione del libro calpestato: il riferimento è ad un S. Paolo della chiesa di S. Francesco di Paola di Gagliano del Capo. Peraltro, sia la scultura gaglianese, sia il nostro S. Andrea sono da ricondursi al celebre scultore Placido Buffelli (1635-1693), uno dei protagonisti della stagione del barocco in Terra d’Otranto.
Interessanti, quanto insoliti, sono alcuni particolari del capitello corinzio: ai quattro lati le volute prendono la forma di quattro ippocampi, la cui testa sbuca dal ricco fogliame (la presenza dei cavalli marini potrebbe essere un rimando al santo pescatore); al centro del capitello il fiore dell’abaco è sostituito dalla figura di un aquilotto svolazzante, probabile riferimento al salmo (Sazia di beni la tua vecchiaia, come aquila si rinnova la tua giovinezza. Sal. 103).
Come già accennato, tra le quattro figure leonine alla base della colonna, sul lato est e sul lato ovest vi sono le figure di due cherubini, mentre i lati nord e sud presentano uno spazio vuoto. Eppure in una foto degli inizi del secolo scorso è visibile uno scudo araldico con lo stemma del feudatario, ma di questo particolare andato perduto non abbiamo più notizie, come anche delle tre teste mancanti delle figure dei quattro angoli della balaustra, per quanto alcune ricerche hanno evidenziato che agli inizi del ‘900 le due figure del lato sud presentavano entrambe la testa. Con molta probabilità le tre teste mancanti, le mani e gli attributi iconografici, delle figure sono andate perdute nel tempo, essendo facilmente accessibili e decisamente minuti e fragili.
Sui lati nord e sud del poderoso plinto sono visibili delle lastre aggettanti, ciò che resta di alcune epigrafi rese illeggibili da segni di scalfiture. La presenza di questi elementi all’interno della balaustra suggerisce che c’è stato un tempo in cui il plinto era sprovvisto di quest’ultima e questo consentiva la lettura del testo delle epigrafi.
Durante i lavori di consolidamento degli anni ‘80 del ‘900 vennero smontati il basamento e la balaustra: quest’apertura rivelò che il plinto è precedente e prosegue con una modanatura all’interno della struttura. Questo aspetto apre diversi interrogativi: personalmente, credo che l’attuale colonna, opera del Buffelli (statue, capitello, leoni, balaustra e cornici), inglobi i resti di un monumento preesistente, con ogni probabilità il basamento di una precedente colonna votiva, sostituita nella seconda metà del XVII sec. con l’attuale.
Il 30 novembre del 2022 le intense piogge e le forti raffiche di scirocco causarono il distacco e la rovinosa caduta della raggiera del santo, che si frantumò al suolo. L’episodio, letto dal popolo come infausto presagio, dato che avvenne nella mattinata del giorno della festa del santo, in realtà ha un ché di miracoloso, dato che non ci furono incidenti (basti pensare che nella serata precedente la piazza era gremita di gente, accorsa per l’uscita della processione e che solitamente, il giorno della festa questo luogo è sempre affollato).
Le precarie condizioni conservative del monumento e, nello specifico, le fessurazioni che interessavano la raggiera erano state più volte evidenziate, ma questo non sortì grandi attenzioni, e, come spesso accade, si finisce a lavorare solo nell’emergenza, così è stato necessario uno sprone dall’alto per sollecitare un restauro.
Ora la raggiera frantumata in diversi pezzi è conservata in una teca nella parrocchiale e sulla statua è visibile il grosso perno metallico che la assicurava ad essa.
Premesso che non è più possibile (per ovvi motivi tecnici) ricollocare la vecchia raggiera, lo stato di fatto ci pone davanti a un interrogativo, che deve trovare la risposta nella duplice funzionalità del restauro (conservativa da un lato, denotativa e connotativa dall’altro). Infatti il restauratore, quando esegue un intervento di conservazione (pulitura, consolidamenti, ecc.), è chiamato ad affrontare l’altrettanto delicato (quanto rischioso) lavoro di perpetuazione dell’opera e della sua leggibilità, attraverso risarcimenti e integrazioni plastiche e cromatiche che restituiscano al manufatto, per quanto possibile, la lettura e il recupero dei suoi valori formali.
Nel monumento vi sono diverse porzioni di modellato mancanti e numerose erano le lacune, grandi o piccole. Con il recente restauro, le piccole lacune e le stilature dei giunti sono state risarcite mediante nuove stuccature, mentre le porzioni più voluminose e soprattutto gli elementi irriproducibili, perché unici (le teste e le mani delle tre figure acefale, gli stemmi araldici mancanti, le porzioni del panneggio e della croce del santo, ecc.), non sono stati ricostruiti, seguendo la logica del “minimo intervento” e della irriproducibilità dell’ornato.
Per quanto i due concetti di “minimo intervento” e di “fruizione e lettura” sembrino contrapposti fra loro, in realtà essi sono complementari. Gli attuali orientamenti concettuali della disciplina, infatti, si muovono in prevalenza nella direzione della conservazione, vista quale unica garanzia di salvaguardia di tutta la “materia originaria” e, con essa, dei valori storici e documentari dell’opera. In altre parole, la scelta è di privilegiare una sola delle due istanze brandiane – quella storica – negando una serie di opportunità, come, appunto, la possibilità di agire per la corretta lettura dell’opera. L’appiattimento su una sola istanza rischia, quindi, di negare all’opera il recupero dei suoi requisiti formali (e simbolici) necessari per una corretta lettura e comprensione, riducendo l’opera d’arte a reperto archeologico.
Dopo anni di attività nell’ambito della conservazione dei beni culturali, alla questione fra conservazione e minimo intervento e recupero funzionale dei valori formali dell’opera, posso affermare con convinzione che non esiste una verità assoluta ma una risposta che viene di volta in volta suggerita dall’opera stessa, dalla sua storia e dalla sua fruizione (destinazione d’uso).
Nel restauro non esistono regole assolute dalle quali dedurre risposte automatiche, poiché ogni intervento rappresenta un caso a sé. Il caso del monumento di Presicce ne è un esempio emblematico: la ricostruzione della raggiera divide le opinioni, ma permetterebbe alla figura del santo di recuperare l’originario equilibrio compositivo oltre che iconografico.
Nello specifico, non esiste il rischio di “falso storico”: da un lato, infatti, vi è abbondante documentazione fotografica ed esiste ancora, se pur ridotta in frammenti, l’originale, e dall’altro, disponendo oggi di numerosi materiali e tecnologie che consentirebbero di realizzare una copia dell’originale raggiera, l’intervento obbedirebbe ai due concetti di riconoscibilità e reversibilità dell’integrazione.
Note
[1] Vito Stendardo, La Chiesa ed il convento dei Carmelitani di Presicce, ed.Leucasia, 2007.
[2] I manoscritti di Carmelo Sigliuzzo, a cura di RUPPI F., vol. I, ed. Grifo, 2010.
Sempre bravo, preciso, scrupoloso e mirabilmente professionale, Andrea, complimenti!