La cripta e la chiesetta di masseria “Santoria” in quel di Torre Santa Susanna

di Michele Mainardi
Ci lasciamo alle spalle la campagna immota e vasta che fa silente mostra di sé dalle parti di “Sant’Antonio alla macchia”, a Nord-Ovest di San Pancrazio Salentino.
Sotto un sole di primavera che riscalda più del dovuto, ferme stanno le chiome dei pini che, a punti, si aggrumano boscosi conferendo amenità al paesaggio della Piana Messapica, che qui risplende alla grande. Fa apertamente trasparire la bellezza sua la terra lavorata intensamente. Calore raggiante si leva dai campi: per fortuna non vediamo i danni della Xylella, il fastidiosissimo batterio che sta colpendo il Salento intero.
Inoltrandosi nelle contrade olivate, o condotte a seminativo, l’energia che trasmettono non ci lascia indifferenti. Entrati a “Carcarone”, l’area il cui nome rimanda alla fornace da calce, un’occhiata alla carta dei beni archeologici ci segnala la presenza di una specchia, scoperta in séguito a saggi di scavo di una costruzione a pianta circolare in conci di tufo. Il luogo viene appellato “Sant’Angelo”. Superatolo, prendendo sentieri appena tracciati, ci dirigiamo verso la nostra meta, individuata per le sue emergenze culturali.
La masseria “Santoria”, quella vecchia (la nuova le sta non lontano, in agro di Mesagne, e ha tracce di una villa di età imperiale o tardo-antica), si fa notare per l’imponenza del fabbricato e per i recenti interventi di ampliamento a scopo agrituristico e ludico-ricreativo (“Castell Favorito”).
La struttura, completamente ammodernata, ricade nel feudo di Torre Santa Susanna, ma alcuni fondi debordano nel contermine sanpancraziese. Per una inezia, infatti, la cappella è fuori confine.
Colpisce per la scenografia che le è stata assegnata. La coppia di campaniletti, uno cieco l’altro con squilla d’ordinanza, fa teatro di rurale compagnia. L’affiancamento, nel racchiuso sagrato, dei parallelepipedi lapidei di apiario (qui spostati per far ambientazione rusticana), rende bene l’idea di voler ricreare una certa atmosfera. Il tronco di una autentica colonna romana, appoggiato sul muro di recinto che indulge a balaustra (c’è la chiesa, no?), conferisce dignità d’antico al sito, che trasmette un’aria classicheggiante che non guasta, anzi accresce il coinvolgimento.
Mettendo piede nell’auletta delle evaporate liturgie (cattolico-apostoliche, ovviamente) la sensazione di raccoglimento ti prende.
L’inginocchiatoio, il quadro di Maria Vergine (anche se non è l’originale, trafugato a suo tempo), l’altare tozzo, le pareti tufagne, la volta a botte: tutto rientra nel canone delle vecchie orazioni di masseria. Il tocco artistico del contemporaneo regista della rinascita del tempietto è lì a dirci che c’è ancora chi vuole a tutti i costi preservare (reinterpretandola) l’anima del luogo.
Far rivivere, con le esigenze proprie dell’oggi, quel passato devozionale dunque è lecito, basta intendersi che è una operazione di carattere culturale, benedetta sempre.
La stessa volontà di preservare i segni della fede, questa volta davvero remoti, a “Santoria” l’abbiamo evidente e “raddoppiata”.
La pulizia effettuata, il conseguente risanamento della cavità (artificiale) in campo magnificamente racchiuso, cesellato in pietre a secco, ha reso possibile di tenere lontano da  manomissioni l’ambiente della cripta, che ha subito nella sua lunga durata improprie utilizzazioni. Per accedervi si passa sotto la  porta architettata a monumento.
L’ingresso nella calcarenite è favorito da praticabile scalinata. Vagamente rettangolare è lo spazio abitabile, bipartito da pilastri quadrangolari su cui si intravedono lacerti anneriti di pitture. Le incrostazioni sono troppo pesanti.
Non potendo più ammirare le figure ieratiche di san Giovanni (il Battista), benedicente alla greca, e di san Leonardo (l’eremita del Limosino francese), effigiato con libro e catena (essendo il protettore dei carcerati), dobbiamo accontentarci delle fotografie dei testi di studio. Solo così ammireremo l’affresco del Cristo che instrada l’orante: “Ego sum via et veritas“.
Le parole in latino del Signore pongono l’utilizzo dell’incavo nella fase più tarda del trogloditismo rupestre. Peccato che dell’Evangelio dei monaci sia rimasta incisa solo una croce assalita dal verde.
La “buona novella” l’annuncia ugualmente quel simbolo indistruttibile di incarnata pietà, di vicinanza del Figlio dell’Uomo crocifisso per noi.
Deo gratias!
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