di Mario Colomba
Le pavimentazioni interne degli edifici rispecchiavano le capacità economiche dei proprietari. si passava così dai pavimenti in “chianche” di pietra di Cursi ai lastrici di calce, ai pavimenti in mosaico, alle pavimentazioni in lastre di marmo o in piastrelle di cotto maiolicato.
Il pavimento di notevole pregio più diffuso specialmente nelle unità immobiliari di tipo signorile era il
– lastrico di calce
Dopo aver preparato il letto di posa, sommariamente spianato con detriti tufacei adeguatamente costipati, si metteva in opera un massetto dello spessore di 7-8 cm. costituito da un impasto di malta grossa di calce, tufina setacciata con la rezza e cocciopesto ottenuto dalla frantumazione di embrici di terracotta.
Subito dopo si stendeva uno strato di intonaco di malta di calce e tufina finemente setacciata che veniva sottoposto in continuità, giorno e notte per qualche giorno di seguito, a lisciature con la cazzuola (non esisteva il fratazzo di acciaio) e battiture con l’uso di un attrezzo, il maglio di legno, mutuato dall’agricoltura dove veniva usato per stritolare le spighe di grano o i baccelli secchi di legumi per estrarne il frutto. La continua battitura e successiva lisciatura probabilmente serviva ad allontanare meccanicamente l’acqua in esubero che non partecipava così al processo di carbonatazione della calce e ad addensare le particelle con riduzione della naturale microporosità dovuta alla emissione dell’anidride carbonica sempre come effetto della carbonatazione della calce ed al ritiro naturale in fase di indurimento.
Per aumentare la durezza superficiale, a volte, si aggiungeva nella malta polvere di marmo oppure, per aumentare la brillantezza, si operavano le ultime mani di lisciatura con l’aggiunta di albume d’uovo. Anche se, in tutte queste operazioni, c’era la massima cura ed applicazione, non mancavano esiti negativi, a volte inspiegabili, come la formazione di bolle in un singolo vano di un complesso di quattro o cinque stanze che erano state pavimentate contemporaneamente, questo probabilmente o per l’accidentale impiego di qualche calderina di calce spenta male o per la presenza di correnti d’aria (la messa in opera del pavimento avveniva quando non erano stati ancora montati gli infissi) che avevano accelerato la fase di indurimento.
Un altro difetto ricorrente era causato dalle fessurazioni che si verificavano specialmente ai piani superiori sia per probabili cedimenti dei riempimenti delle volte murarie poco costipati che per probabili assestamenti strutturali delle masse murarie.
– lastricato solare
La pavimentazione dell’estradosso delle coperture dell’ultimo piano dell’edificio veniva realizzata con un lastricato di “chianche” di pietra di Cursi.
Le lastre (“chianche”) venivano ricavate tagliando a fette conci di pietra di Cursi, cavati nelle dimensioni di m. 0,63×0,40×0,32, per cui ogni lastra, dello spessore di circa cm. 5, aveva le dimensioni di m. 0,63×0,40. Le due lastre terminali (la prima e l’ultima) avevano una faccia perfettamente piana corrispondente all’azione della sega mentre l’altra faccia corrispondente alla originaria conformazione del concio di partenza, come proveniente dalla cavatura, era alquanto irregolare. Per questo motivo si sceglievano prima le lastre intermedie, a spessore costante (serratizze), per adoperarle nel rivestimento superiore dei muri d’attico o parapetti (livellini).
Le altre lastre adoperate per la pavimentazione solare venivano squadrate per regolarizzarne i bordi e per selezionarle in base alla larghezza variabile da cm. 37 a cm. 40. Questa operazione veniva eseguita con l’uso di una pialla (chianula), con coltello finemente dentellato, diverso da quello tagliente continuo che si usava nella finitura superficiale della faccia dei conci di pietra leccese nella muratura “a vista”. E’ da notare che tutti gli arnesi usati dagli scalpellini per la lavorazione della pietra leccese erano analoghi e, a volte, simili a quelli usati dai falegnami nella lavorazione del legno.
– la posa in opera
Sull’estradosso della volta muraria, per regolarizzare la superficie, si effettuava il riempimento utilizzando gli scarti di conci e detriti di tufo di varia pezzatura (ascuni, asche, fricciame, ecc.) fino alla quota dell’estradosso delle formate; quindi si procedeva a definire le pendenze dei compluvi (circa 1%) partendo dallo scarico al pluviale, con materiale via via più sottile fino alla tufina setacciata con la rezza che costituiva il letto di posa.
Le chianche venivano disposte sul letto di tutina in file regolari, ciascuna di larghezza costante (variabile da cm. 37 a cm. 40), con l’uso di una corda tesa (firazzulu) che definiva l’allineamento ed il piano di ciascuna fila. i giunti trasversali delle file contermini erano rigorosamente sfalsati. L’interstizio intercorrente tra le file e tra due lastre della stessa fila (comento dial. chiamientu) era della larghezza di circa cm. 1,5, ben più largo dei 7-8 mm. di norma prima dell’impiego del cemento.
Generalmente, la parte centrale della volta, la calotta (cueppu) fuoriusciva rispetto al piano del resto della pavimentazione di circa cm. 50 . Il lastricato di questa parte altimetricamente sporgente, veniva realizzato sempre a file regolari con raccordi perimetrali inclinati (anche di 30-40°) rispetto alla verticale, che facevano assumere al tutto, la forma di un tronco di piramide dove le lastre degli spigoli avevano il lato dello spessore, per poter combaciare, lavorato e tagliato a “cartabuono” per cui nella terminologia dialettale, i pezzi d’angolo venivano denominati “cartaponi”.
Terminata la messa in opera delle chianche, nei giunti aperti veniva colata una malta povera, di calce e tutina grossolana, molto fluida (beverone), versandola direttamente sulla pavimentazione e dirigendola nei giunti aperti con l’uso della cazzuola.
Successivamente, dopo circa un giorno, la malta rappresa presente nei giunti veniva costipata a forza, battendola con la mannaia per poi procedere al riempimento dei giunti in tre fasi:
- a – si colava nei giunti una malta fluida cementizia che si lasciava indurire per qualche ora;
- b – si costipava con le stesse modalità del beverone;
- c – si stuccava il giunto con malta cementizia fine (sabbia calcarea finemente setacciata e cemento) per garantirne la tenuta a stagnezza.
Prima dell’impiego della malta cementizia, i giunti erano molto più stretti e, per la sigillatura, al posto della malta cementizia, si usava una malta avente caratteristiche idrauliche, costituita da calce e cocciopesto (embrici frantumati – pizzulame)
Tra le varie pratiche sperimentate per migliorare l’impermeabilizzazione dei lastrici solari c’era quella abbastanza efficace che consisteva nello strofinare sulla superficie dei cipolloni selvatici (cipuddhazzi). Successivamente, per spiegare questo effetto, si è scoperto che quei vegetali contengono acido ossalico che, combinandosi con il carbonato di calcio contenuto nelle chianche, forma ossalato di calcio che ha proprietà idrorepellenti.
Per le parti precedenti vedi qui:
Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)
L’arte del costruire nel Salento. La malta – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’intonaco nell’edilizia salentina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Il latte di calce nell’edilizia salentina – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto
Per favorire l’impermiabilizzazione si usava spennellare le chianche ben asciutte con una miscela di olio di sansa e latte un poco acido.