La “Casa rossa”, fuori San Pancrazio Salentino, accoglie Nostra Signora di Lourdes, e la memoria va alla tradizione
di Michele Mainardi
La strada statale “7ter” da Guagnano dritta dritta ci porta a San Pancrazio Salentino. La vecchia via consolare Lecce-Taranto taglia il paese per tutta la sua lunghezza, ma noi ci arrestiamo un chilometro prima di entrare nell’abitato.
Siamo colpiti dalla figura tozza, terragnola, di quello che da lontano parrebbe un comune, piccolo fabbricato rurale. Avvicinandoci emerge la sua natura: è la chiesetta della “Madonna della Casa rossa”.
Il cartello segnalatore, posto a lato d’ingresso spartano, ce lo dice a chiare lettere, e ci aggiunge non l’anno, ma il secolo della costruzione: il diciannovesimo. Null’altro è dato sapere. Nell’assenza di spiegazioni entriamo, nel vano che offre spazio a sufficienza per starci in tanti.
La cappella, nel dentro, dà segni di ripresa della devozione: a Nostra Signora di Lourdes, la cui statuina, nuova d’acquisto di grandi magazzini, l’hanno collocata sopra il tabernacolo. L’altare è rifatto e rispecchia in pieno il sentire semplice della gente di campagna: un gradino di pietra leccese, il blocco compatto del paliotto di identica materia e la mensa eucaristica è bell’e pronta per il sacrificio della messa rusticana, sempre valida per l’oblazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo.
I fedeli dei nostri giorni continuano ad onorare la Santa Vergine, l’Immacolata Concezione che si rivelò a Bernadette Soubirous (la figlia del povero mugnaio), mettendosi d’impegno per non farle mancare i fiori, o meglio le piante che con due lumini ravvivano lo specifico culto mariano. La “bianca e celeste figurina” della Madre del Salvatore rivede così la luce di un tempo andato, di quando, dopo un periodo di sospensione delle liturgie, alla venuta del nuovo parroco, nel 1951, fu ripreso l’uso di celebrare in campo aperto, e precisamente in contrada “Inverno”.
Si deve quindi a don Luigi Spagnolo il ritorno della comunitaria condivisione del Pane e del Vino e del rito della processione, dalla cappella alla chiesa matrice, portando in spalla il simulacro di Maria. Recitando preghiere, innalzando canti ( “Va un dì Bernadetta fuscelli a cercar con due bambinette che il gel fa tremar”), la gente, a maggio inoltrato (sùbito dopo la festa solenne del venerato patrono Pancrazio, che cade il 12), completava il percorso devozionale accompagnando in religiosa fila la bella Madonnina di fuori le mura.
In testa, in coda, era tutto un litaniare, un tono monocorde di latinorum che saliva biascicante nell’alto dei cieli, nei profumati meriggi di avanzata primavera delle rose: Foederisarca, Turriseburnea, Stella matutina.
Facevano a gara, le pie donne, a prenotare la presenza della statua della Corredentrice nelle loro case. Dopo un giorno e una notte di orante sosta domestica si passava all’abitazione accanto, e così via via, addobbando le pareti degli edifici intercorrenti tra una fermata e l’altra.
La funzione all’aperto, celebrata dal prete organizzatore, col tempo buono maggiaiolo (ma niente maggiolate, per carità di Dio!), riusciva alla grande: l’ideale per mettersi il cuore in pace, facendo contenta tutta la famiglia, che si spendeva per non essere da meno. Le vicine, specie quelle del parentado, non lesinavano su niente. Ricamate lenzuola e preziose coperte venivano stese lungo il percorso, da porta in porta.
Poi, a conclusione del giro, si riaccompagnava, sempre processionalmente, a “Casa rossa”, la Madre Santa, che ivi stazionava, paziente, un anno intero, prima di riprendere il penitenziale cammino sanpancraziese.
Andava avanti in tal maniera, supplicante e dignitosa, la tradizione che si è persa, evaporata per consunzione di partecipanti. Ci resta però la vecchia foto della festicciola, più esattamente un intrattenimento agreste, che si teneva alla partenza, nello spazio di terra appena battuta facente sagrato contadino. Si vede il gruppo dei devoti, mamme papà e figlioletti al séguito, che fa goloso capannello intorno al carretto del gelataio, il popolare “Zzappettinu”, l’ambulante simpatico che dispensava felicità a buon mercato a grandi e piccini con la sua specialità: il cono al limone, una delizia da dieci lire.
Ad avvio dei Cinquanta, quando ancora da noi latitavano i frigoriferi (men che meno i portatili: roba americana), ci pensava il sorbettiere in triciclo, che tutti apprezzavano in paese, a vendere brividi di cremose dolcezze: davvero inarrivabili. Aveva sul fianco del suo prezioso, ghiacciato trabiccolo attaccata la striscia con stampato il saluto benaugurante alla giornata attesissima, che lo avrebbe reso conteso e consacrato protagonista. “Salve Regina!”, nostra zuccherosa dispensatrice di freddissime golosità.
“Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati”. Ci vollero 19 lunghi, lunghissimi anni prima che Battisti incidesse “I giardini di marzo”.
E a San Pancrazio, a maggio del ’53, già all’uscita dalla cappellina di zona “Inverno” (niente a che fare con la brutta stagione) ci si deliziava con la gelateria “a tre ruote” di Giuseppe Zattini. Brrr.
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