La grotta dell’Angelo a San Pancrazio Salentino

 

di Michele Mainardi

Usciamo da San Pancrazio Salentino prendendo la strada provinciale “65”, stretta e non trafficata arteria che si innesta sulla via che va, a destra, a Erchie e, a sinistra, ad Avetrana. Poco dopo l’abitato, superata la statale “7 ter”, avvistiamo la nostra meta, che è a portata di sguardo: ci è facile raggiungere “Masseria Torre Vecchia”, una struttura agrituristica immersa nel verde; ma noi non siamo qui per un soggiorno, un ristoro in ameno ambiente; ci ha spinto il desiderio di visitare il gioiello storico-artistico inglobato nel perimetro del complesso extralberghiero.
La grotta “dell’Angelo” si presenta ai nostri occhi in tutto il suo (residuo) splendore. Anche se molto col tempo è andato perduto dei suoi affreschi parietali, che ne fecero una cripta (da antro probabilmente utilizzato come tomba a camera in età messapica: l’interrogativo è d’obbligo), resta intatto il fascino del luogo sacro. Scopriamone il perché.
Si accede alla cavità, approfondita nel tufo, mediante scalini ormai consumati. Sùbito ci appare una colonna, un grosso pilastro che sostiene la volta, in parte già crollata. La copertura in PVC, messa a protezione, di certo è un freno all’ulteriore degrado chimico-fisico del terreno.
Entriamo nel dettaglio dello spazio che funse da aula di liturgie per religiosi di vita eremitica. Ha due entrate: a tramontana e a scirocco. La larghezza, occhio e croce, è di cinque metri per cinque; l’altezza è a sufficienza per starci senza problemi: giusto per le dimensioni di una persona. La forma tende al circolare; nel pavimento, in posizione centrale, spicca il vuoto di un pozzetto interrato. L’acqua necessitava per chi nello speco trovava rifugio, in anima e corpo, vivendoci notte e giorno.
Venendo alle tracce di pittura degli effigiati se ne possono individuare forse una decina. Si tratta di santi con vesti panneggiate all’orientale: ampi mantelli di non si sa quali aureolati. La figura del Signore parrebbe la sua; l’indizio iconografico è tale da non esserne sicuri, ma ci sta: come non potrebbe presidiare la chiesa rupestre il Salvatore, il Cristo Pantocratore? L’Onnipotente è dunque presente anche se i secoli ne hanno appannato il volto.
Ben visibile invece è quello di san Vito, che ha pure il corpo integro e gli attributi suoi: il cane col pane gli è devotamente ai piedi, pronto per soccorrerlo al bisogno. Per fortuna il plausibile titolare di oratorio incavato resta il testimone indiscusso del passato: lui, il martirizzato, l’adottato, nel culto, dagli anacoreti venuti da Oriente, dall’Egeo periglioso, e stabilitisi nella Piana Messapica, e in gran parte del Salento, negli anfratti di gravine e di serre (intese nell’accezione di deboli alture).
Prima di uscire “allo scoperto”, dalla grotta delle  evaporate preghiere,  un’occhiata al soffitto va obbligatoriamente data: il cielo stellato e fiorito (con rosette), è vero, è un po’ offuscato, ma le croci sparse ci dicono che l’Empireo, nei tempi andati, i monaci solitari dovettero alfine scorgerlo; bastava alzare il capo in atto di ringraziamento al buon Dio, che da quaggiù lo stesso lo si vedeva assiso in trono tra i cherubini, in tutta la sua maestà, potenza e sacralità: e la beata visione al calar delle tenebre confermava nella fede.
Ali angeliche sostenevano battiti di profonda spiritualità tra gli oranti di sottoterra…
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