di Michele Mainardi
Masseria “Salamina”, oggi relais “Villa Cenci”, è una fastosa casa padronale originariamente residenza di nobili proprietari, che ora offre ospitalità di charme in un contesto di verde curato immerso nell’oliveto, nella dolce campagna di Pezze di Greco.
Ristrutturata a castello, seguendo la tendenza del tardo Ottocento di riportare in vita lo stile architettonico gotico, ha nel coronamento merlato della torre e delle ampie terrazze il suo tratto distintivo.
La vedi, la traguardi, e non puoi non indugiare sulle sue linee medievaleggianti, sulla bifora del centrale corpo turrito che dà un tocco di Dugento. Se inquadri la splendida dimora ponendoti di fronte alla sua faccia, con la coppia delle palme svettanti che fanno Oriente, molle Levante mediterraneo, la cornice da fiaba è sotto gli occhi: sorpresi per l’imprevista immersione in uno scenario di incantesimo (ri)costruito ad arte.
Ti seduce la figurazione, il composto equilibrato del disegno, che apprezzi specie di sera quando dal parterre, dal vialetto misto-esotico, vedi le luci accendersi. Il gioco del chiaroscuro invita a sognare, a lasciarsi andare alle fantasticherie che pure i grandi hanno il diritto di esplorare di tanto in tanto. E l’immaginazione si trasforma in realtà, almeno per questa occasione.
Comunque non c’è mistero nei saloni del maniero. Tutto appare in superficie; le tenebre si sono dissolte, meno una: quella che sta dietro alla presenza (in nicchia di altare) del titolare della cappella, che sorge scenografica distaccata dall’edificio.
Non essendoci tela sopra la mensa eucaristica, a quale santo o madonna votarsi? Devono essersela portata via, o messa al sicuro, in sala, l’immagine a cui i committenti, nel lontano 1792 (l’anno è scolpito nel cartiglio in pietra, incastonato superiormente all’architrave della facciata, che vede la scritta “Charitas” a chiare lettere primeggiare), diedero assoluto valore di devozione.
Chissà, forse in qualche riga di visita pastorale, di monsignore assistito dal cancelliere di curia monopolitana, potrebbe esserci il riferimento alla figura in effigie: ma ci andarono mai i presuli in terrà così distante dall’Episcopio, appartata, confinata in agro fasanese?
Non potendo darci una risposta conviene limitarsi a ciò che appare: di bello, di armonioso, nelle fattezze del luogo di culto.
Cominciamo dall’esterno, che merita.
L’ampio, il veramente spazioso – quasi esagerato – affaccio del tempietto è esaltato dall’artistico puteale che si dispone poco a lato dello slargo che fa da sagrato dilatato. La vera del pozzo, del parapetto conformato a geometria di poligono, assume veste di lapidea sartoria, che maggiormente risalta grazie ai tre gradini di impostazione.
Dialoga alla perfezione con l’oratorio l’architettato manufatto di idrico umore. Sembra collocato apposta, messo in sintonia espressiva con il fabbricato sacro, quasi a voler combinare una corrispondenza di salutari sguardi, fatti anche di sensi, di intese. Un sorso d’acqua prima di entrare, perché no? Fa bene sempre rigenerarsi avanti il prendere la santa comunione. Depurarsi dai peccati, mondarsi dalle colpe, dopo aver tirato il secchio: una pratica che aiuta, che dovette essere benedetta dal prete, celebrante ebdomadario.
Forse esageriamo nella ricostruzione dei tempi andati, allorquando, nel giorno del Signore, la chiesetta veniva aperta per accogliere i fedeli, per la messa, col sacerdote ivi giunto dopo esser stato prelevato dalla sacrestia di concattedrale, e poi riaccompagnato a benedizione impartita, con il calesse del proprietario della masseria. La remunerazione del presbitero il padrone l’avrebbe corrisposta ad assoluzione impartita. .
Non c’è niente di strano a riannodare i fili della memoria eideticamente sollecitata, di stagioni che non abbiamo potuto vivere per questioni di anagrafe.
Viene quindi di getto stendere una cronachetta sulla (piccola) assemblea liturgica, nel periodo in cui “Salamina” non era castellata dimora, ma compiuto organismo nobile-residenziale con gli annessi e i connessi agricoli.
In quel raccolto vano di sacello (voltato a botte: a stella nel quadrangolo del presbiterio) si stava ognuno al proprio posto. Le sedie migliori spettavano ai familiari del proprietario, le panche ai servitori, ai coloni e alla loro prole. Ma dall’altare fiorito di riccioli (in pulita pietra locale) la Parola di Dio giungeva diretta al cuore di tutti: ricchi o bisognevoli di lavoro che fossero. Peccatori senza distinzioni.
L’intestatario del privato oratorio – che non era il possessore della tenuta cui si doveva l’obbligatorio rispetto – in dipinto, dal vertice dell’ara, nutriva per chiunque fosse lì a pregare un grande affetto, ricambiato dai penitenti. L’aureolato aveva – vien da credere – un occhio di riguardo per i più poveri (come da Discorso della Montagna). Pensiamo a san Francesco da Paola, l’eremita calabrese, in quanto lo scudo posto in capo di prospetto è quello voluto dal fondatore dei Minimi. Glielo porse l’arcangelo Michele, raccomandandogli di farne lo stemma del suo Ordine: un sole splendente, caritativamente dispensato, specie ai più miseri.
Che dite, ci sta la congettura?