Reati e violenze nel Salento tardomedievale. Il Quaderno della capitania di Nardò di fine Quattrocento

di Pierluigi Cazzato

 

La conflittualità e la violenza che caratterizzavano la società del Salento tardomedievale, a cui abbiamo accennato trattando della terra de Galliano, trovano una più ampia e chiara documentazione in un registro quattrocentesco di area salentina conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli: il Quaderno della capitania di Nardò1.

Il documento, trascritto e pubblicato più di trent’anni fa da Santa Sidoti Olivo, ci offre “una vivace rappresentazione della società (anzi, di alcuni gruppi sociali), nelle sue manifestazioni quotidiane, e precisamente nei rapporti interpersonali, fatti anche di litigi, di ribellioni, di beghe, di furti, di ingiurie e bestemmie”2 del Salento di fine Medioevo.

Il registro riguarda l’anno 1490-91, è stato redatto dal notaio Giampaolo de Nestore trascrivendo quanto contenuto in due distinti quinterni, uno quello dell’erario Ragucio de Vito e l’altro del mastrodatti Pando de Pandis, entrambi appartenenti all’ufficio del capitano neretino, magnifico misser Locchino Caytano de Neapoli.

Nella prima parte del manoscritto, vengono elencati 608 procedimenti giudiziari, per ognuno di essi viene riportato il nome dell’accusato e dell’accusatore, spesso anche con la provenienza e la professione, la tipologia del reato commesso e la pena comminata, sempre di carattere pecuniario.

Ci troviamo di fronte ad uno spaccato di vita reale “che fotografa vicende personali e parentali, dinamiche relazionali, luoghi, momenti e contesti di esperienze vissute, ma anche precise identità sociali, etniche e culturali”3, imprescindibile se si vuole ricostruire la storia della mentalità e del costume delle società salentina tardomedievale. In aggiunta, essendo scritto in volgare, esso riporta una quantità di espressioni che erano di uso quotidiano tra la gente dell’epoca e che, in parte, si sono conservate nei moderni dialetti salentini.

Diamo ora uno sguardo più da vicino al documento neretino confrontandolo, per quanto possibile, con le notizie contenute nel Quaderno della bagliva di Alessano, di cui ci siamo già occupati.

 

I reati

Innanzitutto bisogna premettere che nei due registri si prendevano in esame solo di casi di giustizia civile; tutto ciò che riguardava l’amministrazione della giustizia criminale, cioè i casi più gravi che prevedevano la pena di morte, l’esilio, la mutilazione o un’ammenda pecuniaria superiore ad un augustale, non erano di competenza dell’ufficio della bagliva o della capitania.

Per semplificare il minuzioso elenco d’infrazioni registrate nel Quaderno di Nardò, si possono classificare i reati commessi in quattro categorie, secondo la suddivisione operata da Luciana Petracca4:

  1. reati contro lo stato (evasione fiscale e violazione delle norme vigenti) o contro l’ordine pubblico (sedizione e ribellione);
  2. reati contro la persona (ingiurie e minacce verbali, aggressioni fisiche e tentativi di omicidio);
  3. reati a sfondo sessuale (adulterio, maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale):
  4. reati contro il patrimonio (furto e danneggiamento, appropriazione indebita e mancati pagamenti).

Oltre la metà dei reati era di natura pubblica; molti i casi di evasione fiscale: frodi sul dazio del pane (li fraudao lo dacio de lo pane; pillao lo pane de lo furno sensa cartolina; la mulliere de Petro de Micheli incusata per lo dacieri che non li volce dire quanto pane ha facto; uxor Angeli de Stiacio incusata per notaro Bernardino, dacieri de lo pane, perché lu gabao), sui prodotti agricoli (non li feche noticia delle follie che vendio o de la bambace o de li fructi), sul vino (perché vendero vino musto sencza licencia) e sul pescato (portò pesse e non feche noticia al capitaneo; non portao pesse prima allo capitanio e vendiolo ad altri); comuni erano anche le contravvenzioni alle norme di igiene pubblica (gectao l’acqua bructa alla strata; iectao lo romato allo loco de Santo Martino), la violazione dell’obbligo di riposo durante i giorni festivi (intrao con lo caballo bardato de festa; trasio con la iumenta bardata la festa; intrao de festa dentro la terra con lo carro) ed altri reati minori (portava li bovi sensa campana; portao lu pullitro sensa spurtello5). Numerose infrazioni riguardavano l’ordine pubblico: il gioco d’azzardo (iucao alli dadi, ad carte, alli arunghi/runghi6), la renitenza al servizio di guardia (non andao alla guardia), la frequentazione notturna dei luoghi pubblici (andao da po la tercia hora sencza foco), il disturbo della quiete pubblica (per certo rumore feche in piacza; perché feche certo tumulto), l’entrata o l’uscita dalle mura cittadine senza permesso (trasio de sopta la porta; ensio de lo paraporto; perché foi trovato per lo capitanio de nocte che ensio de la porta), la caccia di frodo (Antoni de Cupertino, perché venne noticia alla corte, che pillava li palumbi), il porto d’armi (Dimitri Albanese, accusato per Cola serviente, perché lo trovao cu l’arme prohibita; che lo trovao cu l’arme depo la tercia) e la bestemmia (perché dixe yo incaco quillo chi stai in cielo; biastemao Santo Eloi; biastemò Santo Francesco). Non mancano neppure gli episodi di ribellione (inobediencia; feche desistencia alla corte), resistenza a pubblico ufficiale (per resistencia facta allo mastro iurato; Czachulli de lo Vecco iudio, incusato per lo masto iurato, perché non volce obedire et che li dede certi colpi) e i disordini di piazza (perché foi trovato chi facia rumore cu l’arme; per certo insulto et rumore facto alla piacza).

Passando alla sfera privata, i reati contro la persona erano costituiti in prevalenza da minacce verbali ed ingiurie che il nostro registro riporta fedelmente, in quanto oggetto del procedimento giudiziario, restituendoci così un vasto campionario di epiteti e di espressioni diffamatorie, specchio della mentalità e del contesto culturale salentino dell’epoca. L’espressione ingiuriosa poteva riguardare l’aspetto psico-fisico della persona (orbo, inbriaco, torto, paczo), l’onorabilità della famiglia (tu non fosti fillio de soroma; sorota non mi foi mulliere) o l’infedeltà coniugale (cornuto; perché li dixe ca Filippo de Pisani have havuta essa et la soro; perché li dixe ca li fili soi sono bastardi et sono fili de Gabrieli Spinello). La calunnia poteva fare anche riferimento a pesanti accuse come la menzogna e lo spergiuro (tu menti per la gula; tu hai facto iuramento falso), il tradimento (asino traitore; bructo traytore), il furto (latro tu meriti la furca; latro sassino menegodo), la prostituzione (puctana; rofiana puctana; marituma ti vede li homini chi tieni avanti la porta; puctana frustata tu teni cento innamorati) e la sodomia (Cola Fuecu, denunciato per Serafino Pictivino, perché li dixe le cose minime non le pilli perché pilli le cose grandi). Spesso si ricorreva all’insulto (cane filio de cane; ribalda gallioffa; pidocchioso), usando volgari espressioni di disprezzo (perché li dixe yo trovai le terre allo culo de mammata; tu mi li sconciasti), a volte accompagnate da gesti di scherno (li dixe, mostrandoli lo digito, ficcate quisto in culo; li mostrao le fiche) e versi offensivi (li feche un mugito in modo de beffa). Altrettanto ampio e colorito era il catalogo delle minacce: yo te vollio castigare; tu divi essere squartato; yo te derò tanti pughi in facie finchè te fazo cadere; che te spaccherò lo capo; tu vorria pistata; yo te vollio cachiare l’occhi; yo te derò più bastonate che te agio date; tu non ay una dia de vita; yo vollio talliare la fache a te e a molliereta. Accanto alle violenze verbali, nel registro vengono riportati frequenti casi di aggressioni fisiche: scaramucce e risse (minao le petre; fechero a punghi; lu pillao per petto), percosse (lu bactio; lo pillao per capilli et gectaolo in terra; li dè una piactonata; li dette certi calczi), liti familiari (Mactheo de Colella, denunciato per Alexandro de Colella, suo frate, perché li roppe la facie; Giorgio Albanese, denunciato per Marco Albanese perché, irato animo, li bactio la matre), inseguimenti (lo sequitao con arme; lo sequitao ad petre; lo sequitao con lo cortello), aggressioni a mano armata (li andò sopra con uno squartituro; li cagiao lu cortello), agguati premeditati (Czota, Serafino e Cola Albanese, accusati per Salamoncello iudio che lo asaltaro allo puczo de Santa Lucia; che lo andò adsaltare in mare; li andao adsaltare in casa con la lancza), regolamenti di conti (Silvestro Bontempo et Antonello Corteyse accusati che fecere ad cortellate da fore et non se ferero). Le conseguenze di queste azioni, a volte, potevano essere serie e le ferite non erano certo di poco conto: lu bactio e folli sango; li dede un pungho et fecheli sango, li roppe lo capo, lo assaltao con la spata et feriolo, lo ferio alla cosa, li roppe la testa.

Meno frequenti i reati a sfondo sessuale registrati nel manoscritto di Nardò, si possono contare con certezza solo due episodi: Fortuna Albanese che denunciò Antonio Presta perché le mise li mano violente addosso e Vucicco Schiavone molestato da Chicco de Crassono che prima lu tocao sconczamente e poi gli diede un pugno. Si registra anche un caso di violenza domestica: Ursino di Aradeo venne condannato, dopo un’indagine della curia, perché roppe la testa alla molliere con lo rocco7.

Per quanto riguarda i reati contro la proprietà le denunce per furto la facevano da padrona, i casi vanno dai piccoli furti (li livao la gunnella; li pillao la carne de lo furno; li livao la pallia; li livao l’uva de le vinghe; pillao certe chanche de lo palmento) ad episodi ben più gravi (li pillao lu cavallo dentro la chesura; li vendio uno bove e poi lu levao de facto). I danneggiamenti erano provocati per lo più in modo accidentale dalle bestie lasciate senza controllo (li magiaro l’orgio con li bovi; li magiaro l’olive ensete con li bovi; li porci soi li mangiaro la czafarana; li mangiò l’uva con li cani; li bebe l’acqua de la cisterna con li bovi), tuttavia non mancano alcuni episodi di natura dolosa (li petrigiao8 la casa; li talliao uno ramo de oliva). Il dolo, invece, era all’origine di tutti i fatti di appropriazione indebita (perché li arao la terra sua; perché li zappao le vinche soi ipso non visto), di mancato pagamento (accataro una pecora e denegariano de pagare) o di truffa (li dede parte ad uno crapecto et gabaolo; perrchè scanciao con ipso et po’ lu gabao).

A confronto con la città di Neritonio, le notizie in merito alla tipologia dei reati commessi nella civitas Alexani sono scarne e assai meno esplicite, disponiamo comunque di una lista di 12 persone denunciate per iniuriis e di 35 casi di uomini chiamati a pagare una multa per i danni provocati dalle loro bestie (soprattutto bovini ed equini) sulle proprietà altrui.

 

Le pene

Come detto, le pene erano sempre di carattere pecuniario. Per i reati minori, a Nardò, le multe non erano troppo elevate e, in genere, si attestavano tra i 5 e i 10 grani9. Così accadeva, per esempio, per l’evasione del dazio, per i piccoli furti, le ingiurie, il divieto di dispersione delle acque sporche ecc. Anche i giocatori d’azzardo di solito venivano multati con 5/10 grani, però in un’occasione le multe furono maggiori (1 tarì e 10 grani) e Calulli iudio fu condannato a pagare addirittura 1 ducato perché imprestao la casa ad questi che iucara.  Allo stesso modo pure le pene per le aggressioni fisiche potevano variare di molto, dai 5 grani fino a 3 ducati, in base alla gravità. Le contravvenzioni per i danni contro la proprietà arrivavano ad un massimo di 4 tarì, per i mancati pagamenti ad 1 tarì, per i reati sessuali ad 1 tarì e 10 grana. Più gravi, ossia puniti con multe maggiori, erano i reati che riguardavano la ribellione e la sedizione, le condanne potevano arrivare ad oltre un ducato ma nel caso di Federico de Sambiaso, che fece resistenza nel consegnare le armi al capitano Lucchino Caytano e pilliaose ad pecto con ipso, fu addirittura di 6 ducati.

Ad Alessano, invece, le ingiurie venivano punite con multe variabili tra i 3 grani e i 3 tarì, quelle che riguardano i danneggiamenti sono mediamente più elevate tanto da raggiungere una cifra massima di 9 tarì.

 

Accusati e accusatori

I 608 procedimenti giudiziari, su una popolazione di circa 600 fuochi fiscali10, sono la testimonianza più esplicita del clima di illegalità e violenza che caratterizzava la comunità neretina di fine Quattrocento: signori e contadini, locali e forestieri, funzionari e religiosi, uomini e donne, tutti sembrano esserne coinvolti tanto che nessun gruppo sociale sfuggiva alle strette maglie della giustizia dell’epoca o era immune a comportamenti brutali. Insomma si può senz’altro affermare che tutti gli strati sociali, dal domno alla meretrice, trovano rappresentazione tra le pagine del registro di Nardò, ed in parte anche in quello di Alessano.

Le classi più elevate erano spesso coinvolte in liti ed episodi di violenza spicciola, si fa menzione, per esempio, di misser Giovanni Francigina che si azzuffò con alcuni ebrei: fu condannato perché straczao la camisa ad un certo Calullo ma, allo stesso tempo, denunciò Jaco de Churi per ingiuria11. Accadeva anche che fossero o vittime di violenze fisiche, come domno Domenico che denunciò Antonio di Santo Donato perché lu pilliao per carina, oppure artefici di prepotenze, sull’esempio di misser Vincenzo de Mico che entrò auctoritate propria in casa di Filippo Barberi che per questo motivo lo denunciò. Più di frequente gli aristocratici erano coinvolti in questioni di carattere economico, infatti misser Cesare de Noha12 risulta esser stato denunciato dal castellano Iacobo de Capua perché non pagò la somma di 25 tarì, mentre Federico de Carignano e Guglielmo della Porta, utili signori de lo feudo de Flangiano, accusarono il notaio Nicola di Corigliano per il mancato versamento della decima del vino. Diverso pare il caso di Alessano dove il nobile calza sempre le vesti dell’accusatore, di colui che chiama in giudizio qualcuno oppure lo denuncia per i danni subiti, per esempio: domno Stefano Ceso che citò in giudizio il magister Nucio o domno Melchione Caballero che denunciò Cristoforo Cannabono per ingiurie e diversi altri uomini che gli avevano arrecato danni coi loro animali.

Una categoria che compariva spesso sui nostri registri era quella dei funzionari e degli impiegati pubblici che, essendo tenuti a far rispettare le leggi e a mantenere l’ordine, erano quasi sempre citati tra gli accusatori, il che causava loro non pochi inconvenienti. A Nardò, per esempio, accadeva che fossero vittime di minacce, come successe al serviente Cola Lillo o al dacieri de lo pane Silvestro Bontempo, o di violenze, come il serviente Geronimo. A volte, però, erano essi stessi ad essere denunciati per poco zelo, come ad esempio il portararo Meo Caballo multato perché fece uscire un forestiero sencza bullecta. Lo stesso si può dire dei funzionari alessanesi; infatti i baiuli, che avevano il compito di sorvegliare le proprietà della curia, denunciavano coloro che erano sorpresi con le loro bestie in vineis … et aliis possessionibus della civitas (come avvenne nel caso di Nicolao Ventruto multato per la sue tre scrofe trovate nel fossato maiorj della città o del contestabili di Tutino il cui bove fece danni in territorio Alexani). Tuttavia i funzionari pubblici di Alessano furono coinvolti in vertenze di carattere privato in almeno due episodi: sia l’erario Francesco Strella (Storella)13, sia il notaio Giovanni de Gorgono14 denunciarono alcuni uomini per i danni subiti nelle loro vigne.

Nemmeno i membri della chiesa erano estranei al clima di violenza che caratterizzava la società salentina dell’epoca, ne abbiamo una plastica, e colorita, rappresentazione nel documento neretino: Matteo de Colella fu denunciato dall’abbate Francesco Funiati perché lu pilliao per pecto et dixili o male previte. Conferma si trova anche nel quaderno alessanese dove si fa menzione di un fratre Angelo che chiamò in giudizio Antonio Carroppa.

Le minoranze etniche sono chiaramente rappresentate in modo sproporzionato all’interno del registro di Nardò, tanto che tra i condannati il numero dei cittadini di origine straniera (ebrei, albanesi, greci e slavi) risulta superiore a quello degli autoctoni. Pare per questo condivisibile l’affermazione di Luciana Petracca secondo la quale “le minoranze etniche e religiose erano sottoposte a un più attento e serrato controllo da parte delle autorità locali, preoccupate di garantire l’ordine pubblico, la sicurezza e la pace sociale”15. Questo controllo si traduceva in un’ampia serie di denunce per tutti i tipi di reato, sia di carattere pubblico che privato. Così troviamo: albanesi ed ebrei multati per aver gettato l’acqua bructa per strada, slavi condannati per rissa, ancora ebrei accusati di frode o greci per aggressione. Ribellione e resistenza a pubblico ufficiale, ingiurie e minacce, nonché le violenze fisiche, sembrano esser state le infrazioni più frequentemente commesse da questi gruppi sociali. Omologa la situazione di Alessano: più del 20% (10 su 49) delle persone chiamate in giudizio appartenevano a minoranze etniche, si sale ad oltre il 40% (5 su 12) prendendo in esame le denunce per ingiurie16.

Larga rappresentazione, nel registro neretino, hanno le donne, sia nel ruolo di accusatrici che di accusate. Come abbiamo già visto, erano spesso vittime di ingiurie, che per lo più toccavano la loro onorabilità, minacce, violenze domestiche e aggressioni fisiche; ma tra gli abusi che subivano bisogna menzionare anche quelli contro i loro beni, “soprattutto quando la loro condizione vedovile le rendeva socialmente più deboli e indifese”17. Così accadde, ad esempio, alla vedova di Battista delo Prothomastro che venne privata delle sue terre da Filippo de Barbieri. Tra i reati commessi dalle donne, invece, la frode sul dazio del pane era quello maggiormente frequente, ma non mancano casi di insolvenza dei debiti, resistenza a pubblico ufficiale e violenze verbali e fisiche contro altre donne. Sul registro di Alessano le menzioni di donne in ambito giudiziario si contano sul palmo di una mano: Mita Mangiona che citò in giudizio il magistrum Battista, una certa Bellissimam portata in giudizio da Geronimo Blanco, Rada Sclaua (Slava) che denunciò Angelo Marsilio per ingiurie e Paciencia Perocta multata per lo stesso motivo.

 

Gio: Antonio Del Balzo, principe di Taranto (da Ritratti et elogii di-capitani illvstri, Roma 1646)

 

I moventi.

Prendiamo ora in esame il contesto socio-economico salentino dell’epoca cercando di formulare alcune ipotesi circa le cause di questo alto tasso di conflittualità. Come detto, ci troviamo di fronte ad una società in fase di espansione demografica ed, in una certa misura, di crescita economica, infatti sotto il governo di Giovan Antonio Orsini del Balzo, si realizzò una buona integrazione tra economia feudale ed economia mercantile, il che permise la crescita degli scambi commerciali dando così la possibilità ai prodotti agricoli in eccesso di trovare sbocco sia nel mercato interno sia all’estero. Lo sviluppo economico portò ad un mutamento anche sociale, un nuovo ceto “borghese” emerse nei piccoli e grandi centri di Terra d’Otranto: i funzionari dell’amministrazione orsiniana, in particolare i notai. Questi uomini, che avevano un adeguato grado istruzione (sapevano leggere e scrivere in latino, far di conto, avevano delle nozioni di diritto civile e conoscevano le consuetudini locali), godevano di una certa ricchezza e prestigio sociale in virtù dell’ufficio che ricoprivano, tanto da poter ascendere ai gradi della feudalità minore18.

Dunque, all’interno di un contesto di crescita economica e di mobilità sociale, ci pare logico ricondurre la maggior parte delle liti e delle violenze, poc’anzi descritte, a cause di natura economica e, usando le parole della Petracca, affermare che “dietro le aggressioni e le denunce, dietro le minacce e i tentativi di omicidio si potevano, sì, celare banali antipatie, invidie, gelosie e inimicizie, ma avranno senz’altro rappresentato un più forte pungolo le ragioni di carattere economico, l’ambizione alla ricchezza, l’incremento patrimoniale, e quelle di ordine sociale”19.

Prova ne sia il fatto che nel registro di Nardò sono numerose le dispute che riguardano i confini o i titoli di possesso di terreni agricoli, i casi di truffa e di mancato pagamento, i furti e i danneggiamenti sulle proprietà private (particolarmente evidenti anche nel registro alessanese), tutti episodi che di sicuro avranno costituito la causa delle denunce e delle liti di cui ci sfuggono i moventi.

In una società rurale e patriarcale, come quella dei piccoli centri salentini, un altro frequente motivo di litigio era costituito dalle questioni di onore familiare, in primis l’onorabilità della donna, come tipico delle civiltà contadine. La bona fama della famiglia era assicurata dal controllo e la tutela delle donne di casa, spose o figlie, e qualsiasi offesa contro di loro scatenava risentimenti e conflitti che si protraevano nel tempo20.

Abbiamo già messo in evidenza come, sia nel registro neretino sia in quello alessanese, le minoranze etnico-religiose siano rappresentate in modo sproporzionato rispetto agli autoctoni. La causa principale è da ricercare nel maggior controllo a cui erano sottoposte le comunità allogene, ma è altresì palese che le differenze di carattere etnico e religioso costituivano motivo di continue tensioni e risentimenti che spesso sfociavano in violenza verbale e/o fisica. Insomma, in una società multietnica, la diffidenza verso lo straniero o verso colui che praticava un culto diverso rendevano difficile, ieri come oggi, la convivenza tra le diverse comunità, autoctoni, ebrei, slavi, greci e albanesi.

Particolarmente scomoda doveva essere la condizione degli ebrei (basti pensare che da lì a pochi anni saranno cacciati da tutto il regno aragonese) e ciò traspare in modo chiaro specialmente nel registro neretino.

A titolo di esempio riportiamo l’episodio che coinvolse Cale iudio de Imbeni il quale, sol perché aveva osato affermare una verità lapalissiana (che tuttavia pareva inaccettabile nel mondo cristiano di fine Medioevo) dicendo che “Christo fo trentatre anni iudio”, venne multato per un tarì (stessa ammenda che fu comminata a Valentino Serrato, un cattolico, che invece pronunciò una frase altamente blasfema: “Yo incaco chillo chi stai in cielo”). D’altro canto non bisogna nascondere il fatto che molto spesso liti e violenze vedevano coinvolte persone che facevano parte dello stesso gruppo etnico, ma la comune appartenenza non impediva che gli scontri fossero particolarmente accesi e si trasformassero in vere e proprie faide. Ci pare opportuno citare ancora un episodio tratto dal quaderno di Nardò: l’acceso litigio che vide Abracha Perdici de Corfo infierire ripetutamente contro Sabbatai de Corfo. Si tratta con tutta evidenza di due ebrei dalla comune origine, l’isola greca di Corfù, nonostante ciò il primo personaggio si accanisce sul secondo prima dicendogli “yo te ferò portare adtacato ad Lecche”, in più li mostrò le fiche21, poi gli disse alla barba sua e gli entrò in casa a rubargli degli anelli, infine, non contento, lo minacciò pesantemente “yo vollio talliare la fache ad te et ad molliereta”.

 

La lingua

La lingua utilizzata nel Quaderno del capitano di Nardò, come detto, è il volgare salentino tardomedievale. Il principale motivo d’interesse, sotto l’aspetto linguistico, risiede nel fatto che il documento riporti ingiurie e minacce fedelmente trascritte che, a distanza di oltre cinque secoli, ci restituiscono frammenti del parlato quotidiano nel Salento di fine Medioevo. Per lo studio linguistico del testo rimandiamo al recente ed esaustivo articolo di Vito Luigi Castrignanò22; in questa sede ci limitiamo a segnalare alcune espressioni volgari e modi di dire gergali che si sono conservati nel dialetto moderno.

Particolarmente colorite sono le minacce yo te vollio cachiare l’entrame, “io ti voglio sventrare”, dove l’entrame sono gli intestini, e yo te vollio cachiare l’occhi, “io ti voglio cavare gli occhi”, conservatesi nel moderne espressioni te ne cacciu le ntrame/l’occhi, usate per lo più in tono goliardico. Un’altra minaccia molto singolare è yo te trovarò l’acqua, “ti darò una lezione”, “ti sistemerò per le feste”; anche questo modo di dire è usato ancora oggi: te trovu l’acqua, “ti rimetto in riga”, conserva ancora il suo significato di avvertimento e di velata minaccia.

Risulta più complicato determinare l’esatto significato della frase questa fantasia te l’achio de caciare, forse da interpretare come “devo soddisfare questa tua voglia”, nel senso di “ti darò ciò che ti meriti”; lo stesso tipo di costruzione si ritrova nel dialetto moderno: sta curiosità me l’aggiu cacciare, “devo sapere questa notizia” (letteralmente “devo soddisfare la mia voglia di sapere questo pettegolezzo”). Infine pare istruttivo riportare la maledizione che l’ebreo Bracha lancia contro Sabbatai Greco (dal nome parrebbe un altro ebreo, di origine ellenica): malanno habia ipso et l’anima de suisa et lo parentato sua, tipica ingiuria che colpisce tutta la parentela dell’avversario come, ancora spesso, capita di ascoltare nelle accese discussioni di paese.

 

Alcuni casi paradigmatici

Alla fine di questo nostro excursus attraverso i registri giudiziari di Alessano e Nardò, vogliamo ora portare all’attenzione del lettore alcuni personaggi citati ripetutamente dalle nostre fonti, le cui vicende, a nostro parere, possono chiarire meglio alcuni aspetti dei costumi e della mentalità del tempo.

Partiamo da due alessanesi: Angelo Grasso e Antonio Carroppa. Il primo apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà23 che, nel Quattrocento, pare aver perso parte del suo vecchio prestigio; infatti, nei nostri documenti, nessun titolo nobiliare veniva attribuito agli uomini di questa casata anche se un Giovanni Grasso viene indicato come notaio e scrivano, dunque un appartenente al ceto notarile. Angelo Grasso, che possiamo allora annoverare tra i notabili del paese, viene menzionato ben 10 volte nel registro della bagliva alessanese: egli citò in giudizio otto persone (gli ebrei Yasca, Matthia e Samuy, Giovannuccio Giaccari, Nicola Ventruto, Giovannuccio Quattropani -2 volte- e Stefano de Cuniano), a sua volta venne chiamato in causa da Antonio Giaccari e infine denunciò l’ebreo Yose de Chully per ingiurie. Sembra quasi, che con tutte le sue denunce, il Grasso tenti di proteggere il suo status economico e conservare il prestigio sociale della sua famiglia all’interno della civitas. Antonio Carroppa, invece, era probabilmente un allevatore di cavalli che godeva di una certa disponibilità economica. Su di lui troviamo addirittura 16 menzioni in ambito giudiziario: per 3 volte egli viene citato in giudizio, da Nicola Gatto di Corsano, da Matafone e da fra’ Angelo; gli episodi rimanenti riguardano i danni provocati dalle sue bestie. Il nostro Antonio sembra esser stato un recidivo impenitente, infatti con i suoi cavalli e cavalle arrecò, in un anno, danneggiamenti su dieci proprietà diverse, accumulando multe per un totale di 23 tarì e 12 grana (pari a circa 60 giornate lavorative di un bracciante agricolo). Tra tutti i suoi guai giudiziari, particolarmente grave e prolungata fu la “faida” che ebbe con Giovanni Buffello: infatti per ben 5 volte, con i suoi cavalli, distrusse le coltivazioni di Giovanni, il quale, forse per vendetta, si rifece ingiuriandolo (e per questo fu condannato a pagare una multa di 3 tarì, la più alta tra quelle comminate per ingiurie) e facendo pascolare, in due differenti occasioni, i suoi buoi sulle terre di Antonio. Alla fine, pare che questa lite si fosse in un certo modo ricomposta visto che i due contendenti ricevettero la grazia dalla principessa Anna Colonna (domnam principissam), moglie di Giovan Antonio Orsini del Balzo, che condonò loro parte delle multe ricevute. Non stupisce che, in un contesto rurale come quello alessanese, tra i principali motivi di discordia ci fossero gli sconfinamenti nelle proprietà altrui e che gli scontri tra allevatori e agricoltori si verificassero con grande frequenza.

Passando al quaderno di Nardò, uno dei personaggi che compare più spesso risulta essere l’ebreo Calullo. Le sue vicissitudini giudiziarie si snodano lungo tutto l’anno indizionale 1490-91 e ci paiono paradigmatiche del rigido controllo a cui erano sottoposte le minoranze etniche, ma anche dell’alto tasso di illegalità e di violenza che le caratterizzava. Ripercorriamo, in ordine cronologico, tutti i guai che Calullo ebbe con la legge: dapprima, come già visto, fu vittima della protervia del nobile Giovanni Francigina che denunciò; poi fu multato perché in casa sua si giocava d’azzardo; ricevette un’altra condanna per certo rumore che fece con Guglielmo Morra; in seguito fu denunciato per diffamazione; poi multato per aver gettato acqua sporca sulla pubblica strada; lo ritroviamo ancora protagonista di una lite con l’ebreo Cullo de Inbeni, ma questa volta vestì i panni del denunciante; per finire litigò aspramente con Benedetto Tiso, i due si minacciarono  e denunciarono reciprocamente e furono condannati, inoltre due ulteriori denunce sporte dal Tiso, per minacce e diffamazione, erano ancora in attesa di una sentenza. Il totale delle ammende accumulate da Calullo fu di 1 ducato, 2 tarì e 10 grana, pari a circa 70 giornate di lavoro di un bracciante agricolo, il che ci suggerisce che le sue disponibilità economiche fossero buone. Quindi Calullo era un ebreo benestante (mercante?, artigiano?) e, seppur appartenente ad una minoranza religiosa spesso vessata sia dal potere pubblico che dai privati cittadini, non esitava a litigare violentemente con esponenti dell’aristocrazia (misser Francigina) e del notabilato locale (come pare essere il Tiso) o a commettere reati di natura pubblica. Il carattere del nostro Calullo doveva essere particolarmente fumantino tanto che non gli erano nemmeno estranei i diverbi con membri della sua stessa comunità etnica.

 

Conclusioni

Spesso la nostra percezione del presente influenza l’idea che ci facciamo del passato. Così, per esempio, chi è convinto della decadenza della società contemporanea tende ad idealizzare le civiltà antiche. Lo stesso schema mentale si ripropone quando, davanti a casi di efferata violenza a cui non si riesce a dare una logica, sentiamo affermare con sicurezza che in passato tali episodi non accadevano, che la vita delle comunità salentine dei secoli passati, fondata sui valori tipici della civiltà contadina (la famiglia, la Chiesa, ecc..) e su forti legami di solidarietà sociale, era più pacifica e meno soggetta ad atti di violenza. L’idea che ci siamo fatti, leggendo i registri di Nardò e Alessano, è totalmente opposta. Verso la fine del Medioevo, nei piccoli e grandi paesi del Salento regnava un clima tutt’altro che tranquillo, i salentini dell’epoca non solo erano esposti alla violenza delle ripetute guerre e ai pericoli delle frequenti epidemie, ma dovevano anche guardarsi dai propri concittadini. Era normale andare in giro armati ed usare le armi di fronte ad un’offesa o per far valere le proprie ragioni, la vendetta era prassi comune, come pure farsi giustizia da soli, e si poteva facilmente venire alle mani per questioni economiche o di prestigio sociale. In definitiva, tutti gli elementi analizzati ci portano a ritenere che la società dell’epoca fosse caratterizzata da un elevato tasso di conflittualità e da un’asprezza di costumi che non trova paragoni in quella contemporanea.

Tutto ciò ci ricorda ancora una volta l’importanza delle fonti e ci stimola a continuare lo studio di questi registri quattrocenteschi che, a prima vista, potrebbero apparire come degli sterili elenchi di nomi e di cifre ma, ad una più attenta analisi, si rivelano una miniera inesauribile d’informazioni che interessano la storia istituzionale e del diritto, l’evoluzione della mentalità, del costume e della lingua, la struttura sociale ed economica, le relazioni di genere e i rapporti tra i diversi gruppi etnici.

 

Note

1 ASNA (Archivio di Stato di Napoli), Sommaria, Relevi ed Informazioni, Libro Singolare 242, ms., cc. 207r – 227v. Cfr. L. Petracca, Giustizia e società nel Meridione d’Italia: prime indagini alla luce di un registro giudiziario di area salentina (XV sec), in Itinerari di ricerca storica, a. XXXV, 2021 n°1 (nuova serie), pp. 75-94; S. Sidoti Olivo, Per il “Libro dei baroni ribelli”. Informazioni da Nardò. I. Testi, in Bollettino Storico di Terra d’Otranto, 2 (1992), pp. 137-174.

2 S. Sidoti Olivo, op. cit., p. 138.

3 L. Petracca, op. cit., 2021, p .80.

4 L. Petracca, ibidem, p. 80.

5 Nel primo caso ci si riferisce all’obbligo di munire di campane tutti i buoi al pascolo, nel secondo a quello di legare con un sacco, lo spurtello, la bocca dei cavalli durante la trebbiatura (il dialetto di Salve conserva il termine spurtiddu, sacco con cui si lega la bocca al bue nel lavoro della trebbiatura; cfr. G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Martina Franca (Ta), 2007, p. 686).

6 L’arunghio, aliosso in italiano, runchiu in salentino, è un osso animale (l’astragalo della zampa posteriore degli ovini) che in antico veniva usato come pedina o dado in diversi tipi di gioco.

7 Roccu, strumento munito di uncini che serviva a ripescare un secchio dal pozzo; gancio utilizzato per abbassare i rami (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 554).

8 Salentino petrisciare, prendere a sassate, lapidare (cfr. G. Rohlfs, op. cit., p. 487).

9 Si tenga conto che la giornata di lavoro di un bracciante agricolo veniva pagata in media 8/10 grani.

10 Nel 1508 a Nardò furono censiti 602 fuochi fiscali (cfr. M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988, p. 84).

11 In questo caso è curioso notare la differenza delle ammende comminate: il signore, per un atto di violenza, venne condannato a pagare 11 grani; mentre l’ebreo, solo per aver pronunciato le parole “yo faczo stima de te como de questa terra” (ingiuria che a noi moderni appare davvero di poco peso), pagò quasi il doppio, 1 tarì (corrispondente a 20 grani).

12 L’antica casata dei De Noha risulta attestata nel Salento già nel XIII secolo; signori feudali dell’omonimo casale, nel Quattrocento, la loro signoria comprendeva Merine, Francavilla, Padulano e Giurdignano (cfr. L. Petracca, op. cit., 2021, p. 87).

13 Omonimo e probabilmente avo del filosofo Francesco Storella (Alessano 1525? – Napoli 1575).

14 Il notaio Giovanni de Gorgono fu capitano di Roca e di Castro nel 1446 e poi, per ben due volte (nel 1456 e nel 1458) tesoriere della città di Lecce; suo figlio Nicola de Gorgono fu anch’egli notaio e, come il padre, ricoprì diversi incarichi: tesoriere di Brindisi nel 1458, erario generale del principe per la circoscrizione compresa tra Lecce e Taranto nel 1460-61 (cfr. L. Petracca, Il ceto notarile in una provincia del Mezzogiorno d’Italia (sec. XV). Formazione, carriere e mobilità sociale, in Stud. hist., H.a mediev., 41(1), Salamanca, 2023, pp. 165-186). Era una delle famiglie più importanti di Alessano e probabilmente tra le più ricche visto che Giovanni possedeva una giovane vigna (pastano) e il figlio un palmento.

15 L. Petracca, op. cit., 2021, pp. 80-81. In cui si afferma anche: “E’ noto tra l’altro, che nel Mezzogiorno la condizione degli ebrei non fosse sempre facile a causa dei ripetuti episodi di intolleranza, anche da parte degli ufficiali regi, e soprattutto nei momenti di più acuta crisi economica e/o politica”.

16 Nel primo caso si trattava di nove ebrei ed uno slavo, nel secondo erano quattro ebrei ed uno slavo. Se consideriamo invece gli accusatori, le percentuali scendono nel primo caso al 10% (5/49), nel secondo al 16% (2/12). Gli ebrei residenti ad Alessano che vengono citati nel quaderno della bagliva sono 15 (famiglie: Arris, de Arpa, de Chully, de Helia, de Nachaniully, Paparo), verosimilmente i membri della comunità giudaica alessanese dovevano avvicinarsi alle 50 unità, circa i 10% della popolazione totale della città.

17 L. Petracca, op. cit., 2021, p. 92.

18 L. Petracca, op. cit., 2023, pp. 172-179.

19 L. Petracca, op. cit., 2021, p. 89.

20 D’altra parte ogni tentativo da parte della donna di sfuggire al destino che le era stato assegnato, di sposa fedele e madre feconda, veniva immediatamente stigmatizzato, e la figura femminile veniva bollata come puctana o isterica.

21 Il gesto richiama alla memoria il dantesco “le mani alzò con amendue le fiche” (Inf. 25.2).

22 V. L. Castrignanò, Ingiurie e minacce in un registro giudiziario salentino del tardo Quattrocento, in Medioevo Letterario d’Italia, 13, 2016, pp. 97-113.

23 Un Guglielmo Grasso è citato come feudatario di Alessano già nel Catalogus Baronum (seconda metà del XII secolo), nel XVI secolo i Grasso saranno ancora possessori del feudo rustico di Provigliano, nei dintorni di Alessano.

 

Il presente scritto è da intendersi come l’appendice all’articolo “La terra de Galliano all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo” apparso nel precedente numero di Controcanto e su questo sito:

La terra de Galliano all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

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2 Commenti a Reati e violenze nel Salento tardomedievale. Il Quaderno della capitania di Nardò di fine Quattrocento

  1. Complimenti all’autore per aver saputo coniugare felicemente il rigore documentario con un’esposizione lineare, chiarissima e accattivante nel confronto, su vari piani, tra passato e presente.

  2. Salve prof. Polito,
    la ringrazio per i complimenti e sono davvero felice che l’esposizione le risulti comprensibile. Temo sempre di essere poco chiaro e “autoreferenziale” per questo le sue parole mi fanno particolarmente piacere. Saluti
    Pierluigi

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