La chiesa dei tre altari a Montalbano Vecchio di Ostuni

di Michele Mainardi
Non è difficile arrivare a “Montalbano Vecchio”, l’antica masseria-villaggio riconvertita a location  per matrimoni, che rimangono impressi per la dispensata arte dell’accoglienza, palpabile in ogni suo aspetto di charme.
Usciti da Ostuni per la strada statale “16”, quella che ci conduce a Fasano, percorsi all’incirca nove chilometri si giunge a destinazione: svoltando a sinistra, immettendosi in una via che poi si dirama nelle contrade “Scategna” e “Canemazzo”.
Non ci dilunghiamo sulla consistenza fascinosa della struttura di ricevimenti, sulla magia della scenografia nell’aperto della corte curata fin nel dettaglio: di verde, di luci, di arredi. Basta scorrere la galleria delle immagini postate sul sito per restare ammaliati dall’avvolgente disporsi degli elementi, dai tavoli alle casette dei contadini divenute ambienti di ospitalità coccolante.
Ci siamo sin qui portati per una ragione che non ha niente a che vedere con il godere di una giornata spesa per immergersi nel luxury di una cerimonia nuziale: è la chiesa della masseria, d’un tempo ormai remoto, la nostra meta. E che meta!
Non perdiamoci in preamboli, dobbiamo restringere il campo: c’è troppa materia figurativa da esaminare. La sintesi è quindi necessaria. Cominciamo come d’uso dall’esterno.
Si accede al tempio salendo i sette gradini della scalinata, che è rientranza di abitazioni coloniche disposte ai lati dell’ampio spazio lastricato destinato alla vita comunitaria dell’altroieri: oggi qui si banchetta.
La facciata della cappella è linda, di bianco-calce spalmata. Il portale è inscritto in piatta cornice di pietra viva. L’architrave ha in rilievo tre rosette: su di esso si erge il timpano scolpito a elementi vegetali. Alleggerisce il prospetto il grande oculo, ora schermato con un giro di luminarie, che serve per dare multicolore alle serate delle nozze al chiaro di luna. Ad apice si eleva il campanile a vela con squilla d’ordinanza. Chissà se i rintocchi scandiscono i momenti clou della celebrazione gourmande, del mangiare e del bere fragorosamente per tutta la notte.
Entriamo nell’aula liturgica lasciando la risposta all’indefinito dell’interrogativo. Di certo, qui dentro, è affermativo il silenzio, che si spande e ti prende. L’alto volume del fuori, del sonoro gridato delle musiche, al prete (che è figura di un lontano ricordo) di sicuro non sarebbe stato gradito.
Avrebbe storto il naso pure il committente dei nuovi affreschi (eseguiti nel 1904 dal pittore Giuseppe Montrone), il facoltoso signore Giovanni Tanzarella-Soleti, il cui altolocato nome di casata – con stemmi riprodotti e accoppiati – è a chiare lettere impresso sopra la porta d’ingresso, in controfacciata. Il suo patronato andrebbe silentemente rispettato, avendone sacrosanto diritto di ascendenza.
Si resta ammutoliti sotto il cielo della volta, che è a botte, unghiata nella sezione presbiteriale. In alto si rincorrono i santi. Nel catino poligonale della terminazione star dietro alle figure è un problema. Nell’azzurro stellato, tra schiere di angeli riconosciamo Leonardo e Caterina, Giovanni e Teresa, Vincenzo (Ferrer) e Chiara e ancora Rita: degli altri aureolati abbiamo perso il conto. Nei medaglioni della navata ci sono poi i volti ispirati dei Padri della Chiesa, quattro per la precisione: Agostino, Ambrogio, Girolamo e Tommaso (l’Aquinate). Limpidi nel tratto, delineato con maestria, li riconosciamo dai loro attributi iconografici. I colori accesi rendono luminosi i lineamenti, come quelli dell’Eterno Padre assiso tra i serafini, i più vicini al trono di Yahweh. Ma si farebbe torto agli apostoli, a Pietro e a Paolo, ritratti ai lati dell’altare maggiore, se non li si citasse, vista la posizione primaziale che assumono anche nella parete di fondo.
E che dire ancora della titolare della cappella, la Beata Vergine del Rosario, a cui rimanda la corale pittura della battaglia di Lepanto, che giganteggia su una parte della struttura della copertura? La sua statua in cartapesta è in teca, a esaltazione del tabernacolo. La veste che la adorna è immacolata: celeste-avorio, trapuntata in pizzo; il panneggio è ricercato. Non sfigura di certo se messa a confronto con l’ornato raffinato del paliotto, in cui sfolgoreggia lo stemma marmoreo di Giulio II Acquaviva d’Aragona, quattordicesimo conte di Conversano. A lui, grande feudatario, si devono i lavori di ricostruzione dell’edificio sacro, approntati a chiusura del XVII secolo.
Quante attenzioni si sono riversate nel corso degli anni per rendere onore alla folla degli eletti, ai nimbati, che si incasellano in pitture e simulacri; anche se è al Signore, al Crocifisso, pianto dalle tre Marie, nella nicchia dell’altare laterale destro, che va la massima considerazione di fine arte devozionale. E sant’Antonio di Padova, con il Bambino, lui non merita il suo cantuccio privilegiato, da grande taumaturgo qual è? Indubbiamente. Nessuno osa scansarlo dalla vetrinetta della terza ara, disposta entrando a sinistra. Griderebbe allo scandalo il presbitero che volesse dal pulpito in legno policromo lanciare l’ammonimento ai malintenzionati!
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