La “Madonna del Buontempo” la invocano nella chiesa della omonima masseria, nella campagna di Francavilla Fontana
di Michele Mainardi
Andiamo a “Buontempo”, masseria il cui nome dice tutto. Prendiamo la strada provinciale “26”, che da Francavilla Fontana va a Ceglie Messapica. Usciti dallo svincolo della Via Appia, la statale “7”, dopo poco siamo a destinazione. Percorrendo stradelle carreggiabili, quella per la contrada benaugurante ci porta senza problemi nel luogo che definiamo della distensione. Eh, sì, è questa la sensazione che si prova entrando nella tenuta, verdeggiante e ben curata.
Si allenta ogni agitazione: lo stato di riposo lo avverti appena fai due passi; percepisci di colpo la quiete del posto. L’armonia del costruito ti si para davanti: dialoga benissimo con gli spazi arborei circostanti. Il giardino chiuso e i coltivi senza accanto i vialetti delle amene passeggiate non sarebbero quello che sono: il frutto di anni e anni di sapiente lavoro.
La sontuosa villa Carissimo domina la scena dell’architettato quadro delle colture: è il cuore che governa lo spazio progettato a regola d’arte. Rimirando la magione senti un impulso: una spinta di sereno coinvolgimento estetico, che si spande e ti prende.
Solida nella struttura, senza appesantimenti di fronzoli nella facciata (giusto l’essenziale per far neoclassicismo), con il suo impianto razionale di fine Ottocento-inizi Novecento, è capace di farti rilassare. Solo a guardarla dal portale di accesso all’acciottolato spiazzo ti resta impressa. Lo stile dell’architettura – è vero – edifica bellezza, che poi contagia l’animo predisposto ad ascoltare l’eufonia dell’intorno. Si diffonde allora la gentilezza del segno, che invita a proseguire nella strada maestra del fare (agricoltura, allevamento).
La lietezza del tratto, dell’abitare, la vediamo riverberata nel campo.
Fu attivo villaggio rurale “Buontempo”, e dei suoi elementi costitutivi se ne legge la sostanza. La vecchia masseria, appartenuta alla facoltosa schiatta dei Bottari (e poi dai Margarita trasmessa per eredità agli attuali proprietari), accolse l’imponente dimora che oggi vediamo brillare. E al fervore delle lavorazioni cerealicole, viticole, oleicole e di stalla si aggiunse il piacere del vivere in signorile residenza. A contatto diretto con le produzioni, i padroni ne trassero ulteriori giovamenti (meglio controllando i raccolti).
Gli affari però non erano tutto. Bisognava sostenerli, dunque accompagnarli con i ringraziamenti verso Colei che, invocata dai possidenti e dai loro fittavoli e mezzadri (e da tutta la servitù), non mancava di provvedere dal Cielo.
La “Madonna del Buontempo”, ospitata in simulacro nella annessa cappella, veniva processionalmente portata nei fondi per preservarli dallo spagliarsi delle acque del Canale Reale. Alle piene rovinose si assommavano altre calamità naturali. L’impeto dei venti iemali (la micidiale tramontana) bruciando le gemme vanificava le rese. L’intervento della Beata Vergine richiedeva incessanti preghiere. Ieri come oggi è alla intercessione mariana che ci si affida: con cuore devoto e disposizione alla penitenza.
Lo sapeva benissimo Giovanni Filippo Bottari, che nel 1767 avanzò formale richiesta alla Curia vescovile oritana di poter riedificare nella sua masseria un acconcio oratorio in luogo dell’antica chiesa, per comodo delle genti che a lui sottoposte prestavano servizio.
Ebbene, a distanza di tanti anni (e a interventi non lontani di restauro) percepiamo ancora l’afflato dei fedeli verso la loro bella “Madre contadina”, soccorritrice alla bisogna. Quando la sferza delle intemperie arriva inattesa, è sempre a Lei che ci si raccomanda: “apri il tuo manto Madonna del Buontempo, ripara il coltivo dal nostro pianto”.
Sta scritta a chiare lettere, incorniciate in quadretto, l’invocazione. La supplica è a disposizione di chiunque entri nel tempio per impetrare l’aiuto risolutivo.
Avviciniamoci dunque all’altare (marmoreamente configurato) ponendo la dovuta attenzione alla statua in cartapesta della titolare; rimarremo colpiti da ciò che ha in pugno: la spiga di grano e il grappolo d’uva. Anche il Bambino (incoronato come la Genitrice, che è quindi regina del Cielo) ha nella manina il simbolo della vita dei contadini di quaggiù: il ramoscello d’olivo, frutto da preservare per continuare a sperare.
La devozione verso la Corredentrice, che benigna soccorre negli accidenti dell’anno agrario, trova aggiuntiva visibile conferma nei tre inquadrettati dipinti a olio che la vedono parte preminente nel figurato ispirato. Sono appesi a destra e a sinistra della mensa eucaristica.
Ritraggono la Madre ora inginocchiata accanto al Figlio, che aiuta Giuseppe, ripreso nei lavori di falegname; ora nelle vesti di Immacolata, con le mani giunte al petto, il mantello azzurro e la luna crescente: ai piedi schiaccia la testa del serpente. I tratti canonici li ritroviamo pure nella terza pittura, quella dell’Annunciazione. Bellezza, grazia, proporzione in piccolo si distinguono. La scena sembra pervasa da un clima di familiarità, che si rispecchia nella relazione dei due raffigurati: Maria e Gabriele. Tutto merito del pittore a noi ignoto.
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