Rifulge la chiesa di “Casa Resta”, già “Casina Braccio”, alle porte di Francavilla Fontana

di Michele Mainardi
La strada statale “7”, l’Appia, oggi rubricata “E 90” (l’europea, il cui segmento italiano finisce a Brindisi), ci porta comodamente a destinazione, essendo di prima.classe. A Francavilla Fontana non entriamo: ce la lasciamo a Ovest. L’abitato ha quasi raggiunto la contrada “Centorizzi”, l’area in cui sorge l’attraente posto ove è presente la cappella padronale voluta da Giovanni Filippo Resta.
L’aristocratico e facoltoso signore la edificò nel secondo decennio dell’Ottocento per il comodo della messa in villa, che la fronteggia in arioso spazio giardinato. L’esponente dell’importante famiglia scelse con giudizio il sito nel quale porre le fondamenta per dimorare amenamente. L’aria buona e il verde impiantato dialogavano a meraviglia con la circostante ubertosa campagna, ricca di testimonianze storiche. Qui, già sul finire del XVIII secolo furono ritrovati reperti archeologici di età messapica. Godendo della visione dei resti della necropoli venne su con tutti gli agi l’elegante dimora (ora ampliata a location per ricevimenti). Esaltata dal cornicione balaustrato, la magione è architettonicamente qualificata dalla loggetta con bifora pensile.
L’armonia si spande dal disegno delle linee della facciata al tutt’intorno. Non poteva la chiesetta essere da meno: la finezza del prospetto parla da sé. Fa delicata scenografia il sagrato, che ha l’ovale accennato del recinto sagomato con balaustrini. Le capitozzate statue laterali, pur avendo perso il volto dei santi, lo stesso trasmettono quel tocco di aerea leggiadria. L’ornato dei panneggi comunque basta e avanza: la pietra gentile lo esalta rendendo indistruttibile il grosso delle fattezze corporee delle mute figure. E pazienza se non è più possibile sapere chi fossero quei due aureolati: ognuno può dire la sua sulla loro identità.
Meglio sta l’altra coppia santa che vediamo in alto di fastigio. I simulacri lapidei, issati per abbracciare il vasto spazio di pertinenza dell’oratorio (che è da considerarsi a tutti gli effetti luogo sacro), la testa non se la sono vista portare via. Stanno al sicuro al vertice del coronamento. Scampato l’affronto della decollazione, resistono al pericolo. Nessuno osa scalfirne la sagoma. Troppi metri li separano dai malintenzionati che restano a terra, avendo difficoltà pure a correttamente nominarli. Una scultura è di certo di una donna; anche la seconda ne ha le sembianze. Ci vorrebbero mezzi tecnici adeguati (un teleobiettivo) per “venirne a capo”, per riconoscerne i tratti e i relativi attributi iconografici. Ma non disponiamo della relativa attrezzatura.
Lasciamo perdere. Le sante perdoneranno la nostra mancanza. Rimediamo plaudendo all’accordo tra gli elementi compositivi dell’apice del frontale. Notiamo altresì che nel retro del prospetto spicca il grazioso campanile a vela, inquadrato da un balconcino ondulato: una vera preziosità, una insolita inserzione dell’architetto.
Restiamo favorevolmente colpiti dai rapporti tra le parti, di un esterno distinto che prelude al séguito dell’interno.
L’aula liturgica è immersa in uno splendore: di marmi, di stucchi, di dorature. Le cornici degli ovali rendono fastose le raffigurazioni pittoriche. La firma dei cinque dipinti che si dispongono ai lati dell’altare (due per parte più l’ultimo in apice, in unghia di volta del presbiterio) è di un artista francavillese apprezzato al tempo suo, noto per ritrarre con sentimento le figure di carattere sacro. Si tratta di Vincenzo Zingaropoli (1779-1836). Le movenze non affettate con cui delinea gli effigiati appoggiano a una sobrietà delle tinte: cosa che aiuta a meglio comprendere il narrato di pennello.
La tela principale, quella che indulge ad ancona, evidenzia al meglio il linguaggio del Nostro: il Transito di san Giuseppe è reso plastico dal gesto teatrale di Gesù, che conforta il padre putativo portando il braccio sinistro in alto, in direzione del Cielo, in cui svolazza la diade di angioletti, pronta ad accogliere in Paradiso colui che si affida alla Buona Morte. Maria, da premurosa moglie, è china sul letto dell’agonizzante: lo assiste confidando nel buon Dio, l’Eterno Padre.
La pala d’altare vede al margine di destra riprodotto lo stemma della famiglia Resta, committente desiderosa di vistosamente apparire: ce lo rammenta il cartiglio devozionale che si mostra a sinistra.
Lo sposo casto e fedele della Beata Vergine si prende giustamente la scena essendo il titolare del tempio, ma è la Corredentrice la maggiormente rappresentata: compare in tutte le tavole in parete. Ora è Regina Coeli, assisa con il Bambino in un manto di nubi; ora è Madonna del Carmine con ai piedi san Vito e una sconosciuta nimbata. Nostra Signora riceve pure le incessanti e infiammate suppliche delle Anime purganti; ascolta parimenti le raccolte preghiere di san Lorenzo, il martire con la graticola bene in vista: non riconoscibile è la seconda presenza santa.
Problemi di decifrazione non ne abbiamo per l’ultima opera, quella della Pietà, a cui non mancano i dettagli dei ferri del patibolo di Cristo. Bravo, meritevole è stato il dipintore!
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