Non manca niente alla cappella del “Crocifisso”, in contrada “Coccaro” di Savelletri

di Michele Mainardi
Ci troviamo nel cuore dell’area del turismo di superiore livello, quella tra Torre Egnatia e Savelletri, punteggiata di strutture ricettive di lusso, dispensatrici di piaceri e di comfort. Resort stellati, scelti da ospiti che giungono specialmente dall’estero, fanno a gara per accogliere in modo suadente una clientela danarosa. I viaggiatori con larghe disponibilità amano immergersi nella quiete coccolata della campagna super accessoriata. Non se la scordano, la vacanza, una volta tornati a casa.
Avveduti imprenditori, fiutando le potenzialità delle amene risorse dei luoghi, hanno professionalmente rivisitato il vecchio mondo contadino in chiave di esclusiva offerta extralberghiera. Scommettendo sul patrimonio di paesaggio umano ereditato hanno centrato il target. Il segmento di mercato al quale si rivolgono dà frutti significativi che, stagione dopo stagione, maturano, si consolidano. Ne è discesa un’immagine del territorio fasanese vincente, celebre soprattutto per i matrimoni VIP apparecchiati.
Abbiamo voluto dar contezza dello specifico (e molto mediatizzato) fenomeno dell’ospitalità “deluxe” perché altrimenti come spiegheremmo l’ottima conservazione delle secolari chiesette di rimodulate masserie? Senza la dovuta contestualizzazione, nel presente invitante, sarebbe monca la nostra descrizione della cappella del “Crocifisso” di “Torre  Coccaro”.
Già dal portone, che immette nella corte, divenuta piazzale delle feste del fu organismo masseriale, notiamo il sigillo della religione; qui, i vecchi segni del sacro sono considerati valore di architettura. C’è la croce lapidea sul culmine del recinto della struttura, a lato della caditoia. Appena sotto di un concio trionfa la formella della Vergine col Bambino: un altorilievo che non puoi non vedere appropinquandoti all’arco incorniciato di bouganville.
Il viola tenero dei fiori che si arrampicano perimetralmente invitano a entrare. Il permesso è accordato. Il bianco-calce degli spalti che si spande tutt’intorno lascia presagire la meraviglia a portata di sguardo.
Varcato l’ingresso, adornato in tonalità magenta (una livrea che invita al sogno d’una fiaba d’altri tempi), si dispone giro giro lo slargo lo stupore. Colpisce la distinzione dell’oratorio. Moriamo dalla voglia di visitarlo, ma prima di varcare la soglia indugiamo sulla facciata, le cui linee riflettono armonia.
Il coronamento ha il classico timpano: netto, geometrico alla perfezione. La triangolarità, si sa, è elevazione: il cielo lo tocchi con un dito. Ma voliamo basso.
Sul portale si apre la finestra, grande col suo profilo mistilineo contornato da cornici aggettanti. Superiormente è alloggiata la lunetta; vi spicca il modellato a tutto tondo della figura del Cristo deposto: emerge dal sarcofago sorretto da due angeli. La pietra tenera del manufatto dà plasticità alla composizione, resa fulgente grazie al contrasto cromatico del niveo col rosso pompeiano. Il rafforzo iconografico mette tutto in asse: e l’equilibrio della forma se ne avvantaggia. L’eleganza dell’arredo scultoreo è prova indiscussa di cura nell’esecuzione, che rimanda al tardivo influsso di gusto rinascimentale nella periferia sud-orientale dello Stivale.
Goduto l’esterno passiamo all’interno, che merita la giusta attenzione.
L’aula ha volta a crociera con chiave costituita dal rosone. Gli stessi colori del fuori continuano nel dentro. L’altare ha però quel di più di celeste, che è perfetta cromìa risalente all’Altissimo, ripreso morente sul patibolo. Il legno, che è materia della croce, è stato sovrapposto sul dipinto, opera del pittore fasanese Ferdinando Schiavone, datata 1931. Raffigura le tre Marie piangenti ai piedi di Gesù, modellato in cartapesta.  L’epidermide del Messia è volutamente candida, forse troppo: in tal modo si volle far risaltare le piaghe, le ferite inferte sul costato e alle estremità del corpo adeguatamente plasmato. Sullo sfondo del Calvario spuntano le figure di due guardie romane, riprese a tinte scure per metterle in cattiva luce.
La macchina della mensa eucaristica ha al vertice il Sacro Cuore trafitto e avvolto nel sudario della Risurrezione. Un tripudio di arredi sacri, posti sui gradini della tavola liturgica, completano il colpo d’occhio. Gli ostensori, i candelieri, fanno parata al tabernacolo. La Parola di Dio sovrasta il tutto: è lì, nelle pagine aperte delle letture della santa messa.
Il senso del raccoglimento prende così l’occasionale visitatore, che non è un cliente del “Cinque stelle”. Ciò non toglie che non possa sostare nel presbiterio, raccolto e grondante di suppellettili ante riforma conciliare.
La gentilezza del “concierge” ci ha favorito. Si ha tutto il tempo per ammirare, sulla parete – a sinistra entrando – il lavabo a due vasche, che reca rilievi a motivi vegetali: lo sostiene una maschera che parrebbe di satiro. C’è l’indicazione di quando la doppia composizione fu scolpita: nell’Anno del Signore 1739. Possiamo allora non essere lontani dalla data dell’edificazione dello splendido tempietto di masseria che appartenne alla famiglia Indelli di Monopoli.
Terminata la visita ce ne andiamo soddisfatti: un altro tassello del mosaico della religione di vecchia campagna è al suo posto. Natale 2023 è alle porte: il “Crocifisso” di contrada “Coccaro” ci riconduce inevitabilmente alla Nascita…
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