“Acquaro” brindisino, da masseria a castello con attigua chiesa che è una meraviglia

di Michele Mainardi
Usciamo da Mesagne per la via  che porta alla stazione ferroviaria di San Vito dei Normanni, la provinciale “44”; non dobbiamo fare molta strada per arrivare alla masseria “Acquaro”, oggi ridenominata “Castello”, a motivo della profonda ristrutturazione attuata sul finire degli anni ’20 del Novecento.
Fu il comandante della Regia Marina Aslan Granafei – discendente dell’antica e nobile schiatta dei marchesi di Serranova, intestataria di vasti possedimenti in Terra d’Otranto – a dare una svolta imprenditoriale alla tenuta (seguendo in questo le orme del padre, Giuseppe), la cui storia ha radici ben piantate sin da quando un suo avo, Giacomo Antonio, acquistò l’organismo masseriale nel lontano 1571.
Non vogliamo addentrarci nelle specifiche vicende che portarono alla radicale conversione degli assetti agro-fondiari; né tanto meno intendiamo soffermarci sulla ridefinizione degli immobili in residenza castellata. Rimettiamo alla pubblicistica storica il compito di sviscerarne i dettagli, come quelli delle funzionali strutture per la trasformazione dei prodotti agricoli (nuove stalle, oleificio, locali per la lavorazione della foglia del tabacco, cantina vinicola e pozzi artesiani e altro ancora).
Per il fine circoscritto della nostra escursione, è sufficiente sapere che siamo di fronte a un riuscito esito di processo di miglioramento e di innovazione di terre e fabbricati,
conseguenza di pianificate azioni di bonifica. Possenti lavori hanno nel tempo portato al rifiorimento colturale dell’estesa proprietà, che oggi continua (con altro nome) a essere all’altezza del suo passato.
“Acquaro”, comunque, sollecita ulteriori riflessioni, che lasciamo agli storici del territorio dipanare: come il toponimo di per sé parlante (rinvia al guazzatoio per l’abbeveramento degli animali). D’altronde, gli studi ci dicono che nella contrada – avanti il sorgere della masseria, nei periodi del grande caldo, quando la siccità disseccava le erbe – il bestiame, specie il bovino (più esigente dell’ovino), dalle aree contermini veniva condotto a pasturare. Grazie al richiamo della refrigerante presenza della grande cisterna, solitaria nel campo – tra il folto della macchia – ivi confluivano gli armenti.
Abbiamo così assolto al dovere della contestualizzazione del luogo. Possiamo dunque procedere oltre: alla visita della cappella, dotata di una sontuosa aula liturgica, in linea con l’importanza del casato committente.
Anche per l’oratorio conviene rifarsi alle carte d’archivio che ce lo descrivono con dovizia di particolari. Ubicato a Levante, fuori del corpo della masseria, ben adorno di stucco, con le due porte  e i tre altari, ora, come forse meglio di prima, qualifica oltremodo il sito. Le are sono dedicate alla Vergine Santissima posta sotto il titolo di Costantinopoli (la centrale), a san Giuseppe suo casto sposo e al Crocifisso (le laterali).
La chiesa è stata restaurata in modo esemplare: già dal prospetto è evidente. Il verde curato la incastona tra le siepi e lo spicchio di cielo che ne esalta la figura: solida nella facciata, elegante nell’interno. Nulla è qui fuori posto: tra la navata e il coro è tutto uno splendore, di pavimento maiolicato e di pareti immacolate. Il bianco con cornici di decoro in giallo spicca e traluce. Vengono in tal modo a risaltare le targhe marmoree (sopra acquasantiera) che ricordano i lavori di riattamento voluti dai devoti proprietari: nel 1959 per iniziativa della duchessa di Bagnoli José Sanfelice Granafei; nel 1991 per volontà della subentrante famiglia Rosato.
Ogni elemento, ogni arredo liturgico (dalla carta gloria: “Initium Sancti Evangelii secundum Joannem” alla lampada votiva della mensa eucaristica), è messo in debita luce; ma più ancora si distingue, nell’angolo dell’entrata, il tavolino di metallo e marmo che accoglie la squilla (non più riparabile) del campanile, staccatasi a causa di un forte temporale abbattutosi nell’inverno del 2018. La si è voluta conservare per far memoria, per renderle giustizia. Essendo vecchia di 329 anni se lo merita: “Commissionata dalla famiglia Granafei nell’anno 1695 con i suoi rintocchi ha richiamato a sé nella Chiesetta di S. Maria di Costantinopoli i fedeli”. Per così tanto tempo che non si può far finta di niente.
Non si finisce di restare stupiti per la cura che si riversa nell’aula delicata: rose rosse e tappeto fine e sedie imbottite. E che dire poi della tela dell’abside? Una meraviglia del 1790, che vede la titolare, la Madre di Dio con il Bambino, trionfare in un mare di nubi inghirlandato da un tripudio di angioletti. Ai piedi della Madonna la città turrita è in preda alle fiamme, con il Turco che soccombe. C’è una vela in ormeggio: porterà in salvo gli assediati.
Conosceva bene l’iconografia costantinopolitana il bravo pittore a cui si affidarono i Granafei, signori di alto lignaggio e amanti delle Belle Arti.
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