Lavorare alla vigna della masseria “Calizzi” di Filippo De Raho

Un contratto agrario del 1889: 28 contadini di Novoli sottoscrivono di fronte al notaio Tommaso Russo un patto per campare la vita

 

di Michele Mainardi

Rovistando tra gli atti notarili è emerso un documento di concessione a titolo di fitto di una porzione della vasta possessione del nobiluomo Filippo De Raho denominata “Calizzi”. L’istrumento è del 6 gennaio 1889. Di fronte al notaio Tommaso Russo di Novoli, rogante nel suo studio sito nella strada detta del Pendino, si costituirono il proprietario della tenuta e 28 contadini, tutti domiciliati nel comune di sant’Antonio abate. Dall’esame della scrittura emerge uno spaccato interessante del processo di trasformazione fondiaria della campagna al tempo degli investimenti per la messa a profitto di terre spente, stante l’incolto pascolativo. dominante. Di pari passo vien fuori la tipologia dei patti agrari allora in essere, la cui bilancia pendeva dalla parte padronale.

Filippo de Raho

 

L’esempio sul quale vogliamo intrattenerci pone in luce le dinamiche proprietarie dell’innovazione in agricoltura, messe in pratica da avveduti imprenditori salentini negli ultimi decenni dell’Ottocento: un periodo che vide scommettere diversi esponenti di agiate famiglie aristocratiche sulla carta promettente della viticoltura.

I nostrani e corposi vini da taglio erano assai richiesti dal mercato dell’Alta Italia. Cominciava a irrobustirsi il flusso delle esportazioni. Partivano dalle stazioni ferroviarie (e da Novoli in particolare) vagonate di negroamaro e malvasia nera dirette a Milano e nel Triveneto. Prima che l’attacco della fillossera facesse i suoi danni, conveniva eccome metter soldi sugli impianti di vigneti.

Il barone De Raho capì presto che bisognava darsi da fare per appieno valorizzare la sua proprietà, distendentesi proprio sul confine del feudo di Lecce con quello di Novoli per ben 107 ettari, 74 are e 79 centiare. La misura ce la dà la legenda della planimetria dell’ingegnere Enrico De Cataldis, che non manca di riportare il dato espresso nella metrologia ante Regno d’Italia: 171 tomola locali e stoppelli.

prospetto della masseria Calizzi

 

Nell’arco temporale di un quindicennio, l’agrario portò a compimento il frazionamento dei terreni della masseria “Calizzi”: tra il 1885 e il 1899.

Venendo al nostro atto notarile emerge chiaramente l’intento di voler approfondire la piantagione già dispiegatasi nelle ritagliate quote “Calcara”, “Serra” e “Canale”. Nella zona detta “Vigneto del Pozzo” (confinante con la via Laparo) si assegnarono agli affittuari le rispettive porzioni da dissodare e mettere a frutto. Al folto drappello di coloni miglioratari, costituitisi per accettare la proposta contrattuale, venne spiegato punto per punto l’insieme delle clausole cui ci si doveva rigidamente attenere, pena l’annullamento immediato del patto avente valore legale. La durata dell’affitto era tale da legare al proprietario i contadini per un lungo periodo di tempo: 21 anni di filata, che sarebbero cominciati a decorrere dal 1° settembre 1889 per terminare il 31 ottobre 1910.

La superficie spezzettata in 16 quote uguali di ettari 1, are 25 e centiare 98 (equivalenti a due tomola della vecchia misura) era delimitata, in un primo lato, dalla strada pubblica che dal Convento mena a Trepuzzi e, in un secondo, dal vigneto del signor Federico De Nucci; per i restanti segmenti confinava coi terreni sativi della stessa masseria “Calizzi” e col vigneto dato a mezzadria a foresi di Arnesano e Monteroni.

Planimetria tenuta Calizzi

 

Stabilita la divisione, i fittaioli (alcuni accettanti in coppia) dovettero tenere bene in mente i termini di quanto sottoscrissero (con croce o con malferma firma). L’annuo estaglio venne stabilito in ragione di lire 25 e centesimi 50 a tomola per il primo quadriennio della fittanza; aumentava a lire 34 per i successivi 17 anni. La moneta del pagamento non poteva essere di bronzo.

Per quanto riguardava le modalità operative del lavoro, il De Raho impose precise disposizioni: la piantagione delle viti andava fatta a regola d’arte, e cioè rispettando la distanza di non meno di 1 metro e 32 centimetri (pari a 5 palmi) tra un trancio e l’altro, e con filari affiancati a rettifilo.

A ogni affittuario veniva richiesta la diligenza propria del buon padre di famiglia: non si dovevano seminare cereali nella vigna; solo per gli iniziali quattro anni erano permesse le piante leguminose (escluse i ceci). L’orzo “a pizzico” lo si poteva coltivare per il secondo e il terzo anno, facendo attenzione a che le viti non ne soffrissero. A partire dalla quinta stagione sino alla sedicesima, fra un ceppo e l’altro, veniva consentito lo spargere dei semi di fave o di piselli (ma senza esagerare).

Se la pota delle viti non fosse stata praticata come dovuto, il proprietario la faceva regolarizzare da persona perita di sua fiducia: a spese dei coloni.

Fu stabilito che il portamento delle piante non doveva essere diverso dalle “due sole braccie, e senza potersi lasciare a nessuna di esse la catena, o pure la così detta spinola, ed altro che sia di troppa fatica alle viti, e ciò per i primi sette anni”.

Ad avvio dei lavori di impianto occorreva che i fittuari raccogliessero le pietre del campo per poi trasportarle sullo stradone di mezzo della tenuta. Gli alzati muretti a secco di confine li avrebbero dovuti preservare.

Ai conduttori dei fondi venne espressamente proibito di far entrare nella vigna animali di qualunque natura: il pascolo era ovviamente aborrito.

Al fine di associare alla vite l’olivo (senza creare ostacolo alla produzione primaria) si impose ai coloni di impiantare – mettendo a loro conto, nelle rispettive quote – 34 mazzarelle per tomolo. Ogni fossa preparatoria per la messa a dimora della pianticella bisognava che fosse esaminata dal De Raho: egli ne controllava la giusta profondità e la relativa distanza intercorrente tra ognuna di esse, Non erano ammessi errori di sorta nello scavo.

Arrivato per l’olivo il tempo della rimonda, questa “dovrà farsi a cura e spese di essi coloni fittajoli, a piena ed intera soddisfazione del proprietario”.

Ai contraenti del patto agrario correva l’obbligo di dare – a titolo di prestazione – annualmente al concedente cinque chilogrammi di uva di buona qualità per ogni tomolo lavorato, portando la cesta nella casa del padrone, a Lecce.

Andava avanti con stringenti clausole la scrittura notarile, senza nulla tralasciare in merito alle varie ed eventuali. Venne concessa la dilazione di un anno per l’incasso dell’estaglio in caso di sofferenza per la perdita del frutto causa grandine.

Allo scadere dei 21 anni di vigenza contrattuale i viticoltori avrebbero dovuto non mancare ai propri doveri: consegnare la vigna in ordine. Nessuna mancanza di viti era tollerata. Filippo De Raho si sarebbe ripreso tutte le quote date in fitto ai 28 foresi di Novoli, “senza che potessero eccepire dritto di sorta per indennizzo delle migliorie fatte”.

Ci fu qualcuno che, spaventato per i pesanti oneri a carico, si tirò indietro al momento della sottoscrizione dell’atto. Si allontanarono dal tavolo del notaio Francesco De Pascalis fu Pietro e Marino De Lorenzo fu Giuseppe. In loro vece sùbito si presentò il contadino Domenico Parlangeli fu Francesco. Pare che stesse aspettando, in fondo alla sala: chissà, un compaesano avrebbe potuto far marcia indietro… A lui di certo non spaventava l’impresa vignaiola alla tenuta “Calizzi”, che presto diventò un modello di azienda vitivinicola dotata di innovativi mezzi meccanici mossi a vapore, prodotti dalla premiata Società Anonima del cavalier Giuseppe Garolla di Limena (Padova), un geniale inventore: una garanzia in fatto di macchinari per la lavorazione dell’uva e il trattamento del vino.

macchina del Premiato Stabilimento Meccanico Cav. Giuseppe Garolla di Limena (Padova)
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