Il Tarantolismo in uno studio del novolese F. Ferruccio Guerrieri

Ritratto di Ferruccio Guerrieri (il primo a sinistra in alto) in un gruppo di altri illustri studiosi salentini (in Almanacco Illustrato Il Salento, vol. VI a. 1932 p. 12, coll. privata).

 

di Gilberto Spagnolo

 

In questi ultimi anni un nuovo e grande interesse si è sviluppato per il fenomeno del «Tarantolismo» o «Tarantismo», fenomeno in Terra d’Otranto, di cui molti si sono occupati in diverse epoche con varie ricerche e particolari studi sia di carattere medico che antropologico (Ernesto De Martino dedicò nel 1961 una delle sue più belle e importanti opere intitolata La Terra del Rimorso).

Propongo perciò qui di seguito la lettura di uno studio sull’argomento non molto noto (se non addirittura quasi sconosciuto), compiuto da Francesco Ferruccio Guerrieri, novolese illustre (nato a Novoli il 24 luglio 1874 e morto a Bagnoli di Napoli il 15 gennaio 1957) e pubblicato sul rarissimo numero unico «LECCE 1898».

Questo libro fu dato alle stampe in occasione delle Feste inaugurali svoltesi a Lecce in quell’anno in «onore dell’arte e del lavoro»; fu curato da G. Doria e raccolse scritti dei più importanti studiosi salentini dell’epoca come G.F. Tanzi, C. De Giorgi, B. De Sanctis, L. Romano, A. Foscarini, N. Bernardini, L.G. De Simone ecc.

Copertina di Lecce 1898, Numero unico per le feste inaugurali nel giugno 1898, Tipografia Editrice Salentina Ditta Fratelli Spacciante 1898 (coll. privata).

 

Del novolese Francesco Ferruccio Guerrieri, lo studioso Carlo Villani in «Scrittori e Artisti Pugliesi» ebbe a scrivere di lui: «felice quel paese che può contare uomini somiglianti a Ferruccio Guerrieri, uomini cioè di maschio ingegno, di valore indiscusso, noncurante dell’io, ma entusiasti ed orgogliosi del patrio lido e dei propri conterranei».

Dalle notizie che si ricavano dall’orazione funebre recitata da don Emanuele Ricciato sul sagrato della chiesa matrice di Novoli, in occasione della morte del fratello Eugenio, sappiamo infatti che il Guerrieri (storico e letterato insigne, professore di lettere italiane e poi Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce nonché docente nell’Istituto di Cava dei Tirreni, autore di opere di una certa importanza su Terra d’Otranto) nacque da una delle più antiche ed importanti famiglie di Novoli, precisamente dal dott. Alessandro Guerrieri (chimico­farmacista) e da Lucilla Ruggio.

Il balcone dell’antica palazzina, dimora dei Guerrieri, esistente ancora nella piazza del Comune di Novoli accanto alla chiesa matrice di S. Andrea Apostolo.

 

Fu il secondo di una fratellanza illustre discendente dal gesuita Francesco Guerrieri pupillo di San Bernardino Realino, gran letterato, eccellente scrittore, amico del Tasso, valoroso ministro della parola di Dio, lume della greca e latina lingua; composta, oltre che da lui, da Giovanni (professore di Storia Patria nei licei d’Italia «uno dei più forti cultori delle patrie memorie»), dall’avvocato Luigi («giureconsulto insigne, onore e vanto del foro leccese») e, infine, da Eugenio (fisico, matematico e, soprattutto primo astronomo dell’Osservatorio di Capodimonte), autore di numerosissimi saggi conservati in gran parte (ben 69) presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, pubblicati su diverse riviste scientifiche dal 1904 al 1951.

F. FERRUCCIO GUERRIERI, Possedimenti temporali e Spirituali dei Benedettini di Cava delle Puglie, Parte I, Terra d’Otranto, Trani, Tipografia dell’editore V. Vecchi 1900. Copertina del testo a stampa (coll. privata).

 

F. FERRUCCIO GUERRIERI, La Penisola Salentina in un testo arabo di Geografia medioevale, Stabilimento tipografico Giurdignano, Lecce 1903, Copertina del testo a stampa (coll. privata).

 

GIOVANNI GUERRIERI, Lecce nel 1700. Conferenza letta nell’aula magna dell’istituto tecnico di Lecce il 24 marzo 1901, R. Tipografia Editrice Salentina Ditta fratelli Spacciante, Lecce 1901. Copertina del testo a stampa con dedica autografa a Luigi Maggiulli (coll. privata).

 

EUGENIO GUERRIERI, Statistica delle macchie solari isolate e in gruppi osservate durante l’anno 1908 nel R. Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Tipografia G.V. Cassone, Torino 1909. Copertina del testo a stampa (coll. privata) con dedica autografa all’ing. Novolese Francesco Parlangeli.

 

Tornando sull’argomento, al di là delle notizie più o meno conosciute sulle cause, sugli effetti e sulle dinamiche del morso della taranta (interessante, comunque, il riferimento all’uso dell’ammoniaca prima ancora che al ballo come «energetico diaforetico», cioè che favorisce la sudorazione) il lavoro del Guerrieri, come si potrà notare, è di notevole interesse per i riferimenti di carattere storico, medico e scientifico e, soprattutto, per la narrazione di alcuni casi dettagliati di tarantati accaduti a Otranto, nella stessa Novoli (addirittura con una bambina di tre mesi), a Lecce, a Manduria e anche a Bologna, fatti che in sostanza (secondo il Guerrieri), supportano la collocazione del tarantismo esclusivamente «nel campo della folcloristica» facendone «una delle caratteristiche superstizioni tradizionali di Terra d’Otranto».

Un’ulteriore annotazione va fatta sull’origine di questo studio del Guerrieri. Esso, in sostanza, può considerarsi la prima parte (a nostro avviso la più preziosa, ma passata inosservata) di un lavoro più organico su un commediografo bolognese, tale Francesco Albergati Capacelli, e in particolare su una farsa intitolata «La Tarantola», con la quale, l’autore ha voluto «mettere in burla sulle scene le comiche stranezze del tarantolismo leccese». Il pezzo conclusivo intitolato «II Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII» (stampato a Lecce dalla Tipografia Cooperativa nel 1904), è stato pubblicato sul «Bardo» (fogli di cultura) del luglio 1993.

P. VANDER, Provincia Hydruntina, 1764 (con le tarantole e i serpenti nel cartiglio, coll. privata).

 

Il Tarantolismo leccese (nella patologia, nella folkloristica e nella commedia)

Tolgo, per inserirle in questo Numero Unico, alcune pagine di un mio lavoro e che è uno studio su Francesco Albergati Capacelli, commediografo bolognese del secolo scorso (17281804), il quale ebbe una vita così ricca di casi e di avventure e nelle sue tragedie, nei suoi drammi flebili, nelle commedie, nelle farse, ci lasciò (nelle commedie principalmente) uno specchio fedele dei costumi e delle condizioni morali della società del suo tempo, lumeggiando tutti i tipi storici caratteristici di quell’età, dal Papa agli Enciclopedisti, dalla fanciulla patrizia monacata per forza alla dama galante, dalla poetessa alla ballerina, dagli abati erotici ai cavalieri d’industria, dagli Arcadi agli Ossianisti, dai monarchi filosofi ai cicisbei, dai giramondo diplomatici ai letterati, dai prelati gaudenti agli ex gesuiti volterriani. Tra i vari generi drammatici, quello che l’Albergati coltivò con una certa predilezione fu la farsa o commedia di un atto solo, in prosa. Di queste commediole, o burlette, come egli stesso le chiama, ne scrisse nove, di argomenti differentissimi, tolti dalla vita reale del suo tempo, e tutte condite di un certo brio, di quella satira comica che è l’anima di ogni lavoro piccolo e grande del nostro scrittore il quale per dirla col suo biografo E. Masi invasato dell’alto ufficio della commedia, non ha piccola composizione, anche d’un atto solo, in cui non si proponga qualche gran fine. Il Sismondi, che dell’Albergati ammirava l’ingegno per la vera commedia e pel dramma sentimentale, scrisse di lui: «fece ancora parecchie di quelle piccole composizioni dette farse, che meritatamente son collocate fra le più lepide del teatro italiano, perché l’Albergati seppe quivi accozzare colla festività nazionale e colla buffoneria del vecchio teatro, l’eleganza della maniera della buona società».

Io qui intendo di far conoscere appunto una farsa del Capacelli, “la Tarantola”, ricca di bei elementi comici contro il nostro tarantolismo leccese e contro una classe di medici ciarlatani impostori che doveva essere molto diffusa nel secolo passato.

Ma per comodo di coloro i quali non abbiano una chiara conoscenza di questo tarantolismo, che è cosa tutta di casa nostra, mi si conceda di darne qualche notizia.

*     *     *

Che cosa è il tarantolismo, che per un certo tempo ha richiamato a sé l’attenzione non solamente dei folkloristi, ma anche di valenti patologi? Esso si ritiene generalmente per una nevrosi che regnò in Italia dal XVI al XVII secolo, e particolarmente endemica della Puglia, prodotta, come indica il nome, dalla morsicatura della tarantola, specie di ragno comune in Terra d’Otranto.

Negli affetti di tarantismo, dopo uno stato d’inquietudine, si nota l’affanno di respiro, ed un torpore muscolare, accompagnato da un sovreccitamento del sistema nervoso. Una irresistibile tendenza al ballo ed uno sfrenato desiderio, un bisogno potente di udir musica, sono altre caratteristiche manifestazioni della malattia. Ritiene anzi il volgo che ciascuna tarantola si muova ad un accordo particolare, e che i morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi, e che gli atteggiamenti delle mani che accompagnano il ballo, siano i medesimi che la tarantola fa colle sue falangi nel­l’intessere la tela. Si ricorse qualche volta all’uso dell’ammoniaca, che, come energico diaforetico, poteva dare dei buoni risultati pratici; ma la cura più spicciativa e più naturale, che il popolo ritrovò e adottò, fu quella del ballo. Mediante certe speciali suonate si fa scuotere l’ammalato, che danza, danza con movimenti strani e tumultuosi, sino a cadere spossato, bagnato di sudore profuso; allora può dirsi guarito. Il fatto che tale malattia coglieva e coglie tuttora di solito la gioventù, fece ammettere un certo esaltamento della fantasia, e si credette che vi avessero la loro parte anche le forti passioni di quell’età. Altri asserirono che, siccome il tarantismo, o l’affezione prodotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formassi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola, che veniva espulso appunto mediante il sudore provocato dal ballo.

Molti e valenti medici si occuparono di questo male nella prima metà del nostro secolo. Il Tonelli, in base ad una serie di esperienze positive, si persuase della innocuità della tarantola: secondo lui, se esisteva nella Puglia una monomania endemica, il cui straordinario bisogno di danzare ne costituiva il principale sintomo, non si poteva attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Alla opinione del Tonelli si accostò anche il Prof. Migliari, il quale, per molte prove, si persuase che non già la tarantola costringesse a ballare quei che ne erano morsicati, ma che la danza fosse l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella smania indescrivibile che obbligava i pazienti a vari movimenti; inoltre inclinava a credere anche lui che il ballo fosse in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei Pugliesi, e non della tarantola, che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Altri invece, di non dubbia serietà, giudicarono che il veleno della tarantola agisse realmente sul sistema nervoso e sanguigno, ed in conferma di tale opinione riportarono la testimonianza di osservazioni loro proprie e di fatti accaduti sotto i loro occhi. Notevole il caso avvenuto in quel di Otranto nel 1834 e riferito dal Dottor Giuseppe Ferramosca di Muro.

«Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che si alternavano con una specie di opistotono: la pupilla era mobile, si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e da un sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua soffocazione. Le sostanze fetide aggravavano le sofferenze, che non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da altro medico, otto giorni dopo il principiare del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò, sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed i frequenti conati di vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto, dietro uno sforzo di vomito e di tosse, si vede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella.

Sorpreso il Dottor Francesco Ferramosca, cominciò a indagare in qual modo la tarantola poté cacciarsi nella gola di quella donna, e rilevò che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto con alcune sue giovani compagne, e colà, avendo trovato un grappolo di uva primaticcia già quasi maturo, avendone fatto pompa, accorsero le compagne, perché di mano glielo togliessero, ed essa fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte senza aver tempo di frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini di uva». Il carattere dignitoso e grave del Dottor Ferramosca non permise di ritenere questo fatto come inventato, allo scopo di esaltare gli animi degli appassionati del tarantolismo.

Chi studiò il tarantolismo con maggiore interesse, forse, fu il Dottor Salvatore De Renzi, il quale su questa malattia tenne una conferenza a Napoli, nell’Accademia medico chirurgica, il 18 luglio 1832. Egli ci ha lasciato anche un’accurata descrizione della tarantola pugliese, la quale corrisponderebbe al Phalangio di Aristotele, un insetto della famiglia dei ragni, coll’esterno di diversi colori ecc.

Il De Renzi recatosi a Taranto, per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, ebbe occasione di studiarvi due malattie caratteristiche del Leccese, il costipo e il tarantismo. È vero si domandò dopo una serie di osservazioni, è vero che il morso della tarantola produca gli effetti che comunemente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi?. Constatò anch’egli che questi fatti si riscontravano per lo più in età in cui le passioni erano più intense, e ciò valse a fargli credere che non di rado l’amore rappresentasse la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrassero attarantolate per nascondere più grave ferita che le faceva delirare. Però contro l’opinione di alcuni francesi, i quali ritenevano un tessuto di pure favole quel tanto che si narrava sul veleno della tarantola, il De Renzi, partendo dall’esame dei fatti e di esperienza, dichiarò che il veleno della tarantola agiva sul sistema nervoso e propriamente sul nervo trispalncnico e sue dipendenze, e presentava effetti in parte simili a quelli prodotti dal veleno della vipera, in parte propri e distinti. Il disordine delle funzioni respiratorie, e quella specie di torpore del sistema muscolare erano appunto conseguenze immediate del virus, a cui si accompagnava anche una specie di esaltazione cerebrale. Il De Renzi consigliava l’uso di medicine diaforetiche; ma d’altra parte riconosceva che, perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero state queste meno efficaci dei mezzi che d’ordinario in Terra d’Otranto solevano adoperarsi, dove bisognava curare non solo l’effetto fisico del morbo, ma anche il morale.

Molte e remote sono le testimonianze degli effetti della musica sul sistema nervoso; ce ne offrono la storia sacra, la profana, la mitologia.

Per mezzo, di speciali accordi Drahonet e il Prof. Ruggieri videro risanati molti loro infermi; ed il Lictenthal, nella sua opera sull’influenza della musica sul corpo umano, raccolse numerosi esempi, dai quali apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite certe malattie convulsive. Tra i casi di tarantismo guarito colla musica, che il De Renzi raccolse da fonti autorevoli nel leccese, cito questi due. In Novoli una bambina al terzo mese della sua età fu morsicata dalla tarantola; e subito divenne inquieta, manifestò un inceppamento nel respiro ed un pianto acuto, uno stridulo lamento.

Sintomi soffocativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizi della flogosi locale nel sito del morso, assicurarono gli afflitti genitori sulla natura del male. Si ricorse al consueto rimedio del suono, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione, finché defatigata, oppressa, dà in abbondante sudore; messa a letto, si abbandona ad un sonno ristoratore, dal quale si sveglia perfettamente guarita. L’altro è un esperimento, fatto da un colto medico di Lecce. Questi avvicinò al piede di un mietitore che dormiva, una di quelle tarantole alle quali si attribuisce un veleno più efficace, uccise poi l’animale e lo nascose, per non dar luogo a riscaldamento di fantasia. Svegliatosi il mietitore, si sentì addolorato nel piede, dove si notò un circolare indurimento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa: uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso furono i sintomi che tosto si manifestarono. Sulle prime si credette ad una ferita d’ape, ma, crescendo l’oppressione ed il delirio, si tentarono i soliti accordi, i quali ridestarono il ballo consueto, che diede all’infermo una subita e compiuta guarigione.

Sappiamo che nel 1693 il celebre medico Clarizio, invitato ad un pubblico esperimento in Napoli da D. Domenico Sanguineto, si fece mordere dalle tarantole Pugliesi alle braccia, alle gambe, alle labbra, ma non ballò, non cantò, non sospirò. E diremo anche, senza andar per le lunghe, che oltre quelli già citati, altri moltissimi scienziati scrissero contro il tarantismo, tra cui l’Epifanius, il Peripatetico, il De La Hire, il Redi, ecc.: tutti questi d’accordo biasimano l’uso invalso nel Leccese di ricorrere in tali casi non già al medico, né alle cure suggerite dalla scienza, ma al ballo, ritenuto dal popolo una necessità assoluta.

Ai nostri giorni il tarantolismo, che nelle antiche patologie aveva tutto un capitolo a sé, è passato invece nel campo della folkloristica, e costituisce una delle più caratteristiche superstizioni tradizionali di Terra d’Otranto. È così frequente, massimo nei mesi d’estate, esser colpito per le vie dei nostri bianchi paesi, da uno strimpellare di violino, di organetto, di tamburello, accompagnato da un canto lamentevole, improntato ad una profonda mestizia, ad una delicata sentimentalità. Se ci avviciniamo a quella casa, ficcando lo sguardo attraverso le teste dei contadini e delle donnicciole che si affollano ritte sulla soglia, vediamo nel mezzo della stanza una donna, giovane ancora, una brutta figlia di campi, discinta, coi capelli pioventi sulle spalle, che, afferrando convulsamente una fune che pende dal tetto, gira intorno e si dimena con mille strani contorcimenti. E quando spossata, ansante, si ferma a pigliare un momento di riposo, la donna che suona il tamburello, o l’uomo che suona il violino, cantando, la incitano a riprendere il ballo; finché la paziente, dopo parecchie ore di quel martirio, cade su di un pagliericcio, in preda a un forte abbattimento. Questa donna è la nostra tarantata. Si è voluta ricercare l’origine di questo ballo in una speculazione assai raffinata, ed in una certa civetteria muliebre insieme; poiché alla tarantata si concede la scelta di un nastro smagliante, non solo, ma per un certo tempo era invalso l’uso che il padre, il marito o il fidanzato dovesse regalarle, dopo la guarigione, un abito dal colore del nastro scelto durante il ballo. E si credeva che la donna morsicata scegliesse sempre un nastro corrispondente al colore dell’animale che le aveva inoculato il veleno.

Trascrivo il racconto della sua malattia, che una povera donna del popolo di Manduria ripeté con tutta spontaneità al prof. Gigli, il quale ne fece una traduzione letteraria fedelissima.

«Raccoglievo con altre donne la spiga in un gran podere, il sole gettava onde di fuoco; a noi tutte mancava il respiro; tantoche, prima di mezzogiorno, lasciammo l’usato lavoro, e ci sdraiammo al rezzo d’un muricciolo. Mentre, dopo avere assaggiato un boccone di pane, cercavo di chiudere gli occhi al sonno, all’improvviso ebbi un sussulto, e nello stesso tempo intesi un forte dolore a una mano: mi levai in piedi, cercai la causa del dolore, ma non vidi nulla.

Capii subito però: ero stata morsicata dalla tarantola. Cominciai a piangere: povera me! Pei poveri quella è una grande sventura, perché è una malattia lunga, che vieta loro per lungo tempo il lavoro. Tornata a casa, cercai di porre qualche rimedio al male con medicature e decotti; ma non mi giovò niente. Dopo qualche tempo il male incalzava.

Compresi che un solo espediente mi restava: ballare. Da quel giorno non chiusi quasi più gli occhi al sonno. Un dolore continuo mi teneva in disagio tutta la persona. Ciò però era niente: il male principale era una profonda malinconia che mi assalse nell’anima. Mi pareva ogni cosa oscura: le persone tutte vestite di nero, dipinte di nero le cose. Il pensiero della morte mi prostrava l’animo; pensavo che, morendo, lasciavo un pover’uomo con quattro figli, l’ultimo dei quali ha solo due anni! Durante i due o tre giorni, in cui si fecero i preparativi per il ballo, non potetti toccar cibo.

La notte che precedette il ballo, fui costretta a stare in piedi, camminando continuamente per la casa. Mi sentivo mancare il respiro, come se una mano di ferro mi stringesse il seno e il cuore. All’alba mi sentì un poco meglio, e mi sdraiai sul letto. Dopo mezz’ora però un improvviso sussulto mi fece saltare in terra, e da quel momento non ebbi un istante di requie. Si mandarono subito a chiamare i suonatori, e si distesero innanzi a me dieci o dodici fazzoletti di vari colori. Cominciai a ballare. Chi può dire quel che soffersi? Il colore dei fazzoletti non leniva il mio spasimo: segno che nessuno di essi corrispondeva al colore della tarantola. All’improvviso diedi un grido: avevo visto un giovane vestito di nero. E m’intesi un poco meglio. Quel nero era il colore che dovevo guardare fissamente, perché la tarantola era nera, dopo tre giorni di continuo ballo, stetti bene».

Riporto anche un canto dialettale, condito di parecchi italianismi, col quale in quel di Manduria si accompagna il ballo della taranta, e che lo stesso Giglio raccolse dalla bocca di una di quelle cantatrici di mestiere:

Malinconicu cantu, e allegru mai,

caccciami fora ‘sti malincunii.

Comu l’aggiu a cacciari, quannu tu sai?

Aia un cori e lu dunai a te.

Bella, iu partu, arrivederci, addiu,

nu ’ti scurdari ci ti cori t’ama

nu ti scurdari di lu nomi miu,

mentri la sorti luntanu mi chiama.

Ci hai la noha ca muertu so’io,

bella, ca ti la caccianu la fiama…

ma tu ninfosi la finisci a Dio

mentre ca campu iu, stu cori t’ama!

“La Tarantola” in un’incisione acquerellata settecentesca (coll. privata).

 

Ma il tarantolismo, oltre i patologi ed i folkloristi, ha interessato anche i commediografi, ed ha fornito al bolognese Albergati Capacelli la materia per una brillantissima farsa: La Tarantola, nella quale, nel giro di 14 scene e nello spazio di poche ore si svolge un’azione tutta arguzia, verità, naturalezza.

Se noi sapessimo che il tarantismo fosse stato una malattia esclusivamente pugliese, non dovremmo meravigliarci che l’Albergati ne avesse avuta conoscenza, data la versatilità del suo ingegno, la cura che mettea nella ricerca di tutto ciò che di comico offrisse la società del suo tempo.

F. FERRUCCIO GUERRIERI, Il Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII, Tipografia cooperativa, Lecce 1904. Copertina del testo a stampa (coll. privata).

 

Ma il tarantismo si conosceva anche nel Bolognese, poiché nell’Osservatore Medico del 1895 alla pagina 99, il professor Migliari parlò di un caso avvenuto in quel di Bologna, servendosene di prova, insieme con altri, per dimostrare come il suono, il ballo fossero qualche cosa di estraneo assolutamente alla morsicatura della tarantola, ed un effetto solo di idee preconcette.

R. MEAD, Opera Medica, Napoli 1752. Tavola con il disegno della Tarantola, fig. 5 allegata alla “Dissertatio” (coll. privata).

 

“Lycosa Tarentula” (laboratorio Codex).

 

 

Nota bibliografica

AA.Vv., Lecce 1898, Numero Unico per le Feste Inaugurali nel giugno 1898, Lecce R. Tipografia Editrice Salentina Ditta Fratelli Spacciante, 1898. Più specificatamente per Novoli ritengo opportuno richiamare quanto scrive L.G. De Simone nella sua Vita della Terra d’Otranto, pubblicata a puntate a Firenze nella seconda metà dell’800 sulla Rivista Europea e ora ristampata dalle Edizioni del Grifo. Scrive testualmente il De Simone a proposito del ballo della Taranta: «Prima di compiere queste descrizioni, ho io chiamati ed interrogati i due più celebri musicisti della Taranta, ne’ nostri contorni; essi sono un cieco, Francesco Mazzotta da Novoli (il violino), Donata Dell’Anna di Arnesano (il tamburieddhu). Il Mazzotta conta trent’anni di esercizio della sua professione e dice che i «temi» e i muedi ha appreso dai vecchi violinisti del suo villaggio che li avevano imparati da’ più vecchi di loro; per modo che la sua musica immemorabile è arrivata a lui per tradizione o per scrivere la sua frase, per filios filioru (filios filiorum. Egli dice che a Novoli è la vera «pianta della taranta» e che per ciò sempre vi sono stati «Fabbricanti di violini» (così dicendo mostrava il suo, costruito da uno Stradivario di Novoli). La celebrità dell’arco suo lo ha fatto peregrinare «sempre dietro richiesta» per Torchiarolo, Arnesano, Campi Salentina, Trepuzzi, Squinzano, San Pietro Vernotico, Cellino San Marco, Surbo, Nardò, Monteroni di Lecce, San Pietro in Lama, Lequile, Guagnano, San Donaci, San Pancrazio, a suonar «Le Tarante»; ed in tutti questi luoghi ha operato meravigliose guarigioni, a sentirlo! Non ha mai voluto prestare i soccorsi dell’arte in Melendugno, Sava, Manduria, Martina Franca, San Giorgio sotto Taranto, Monteparano, Lizzano, Montemesola, Castellaneta, Grottaglie, Francavilla Fontana, Brindisi» dove il muedu è sempre lo stesso, ma manca la vera tradizione dell’arte «perché luoghi molto lontani da Novoli». (Cfr. G. Spagnolo, Per Filios Filioru. Tra fabbricanti di violini e balli della Taranta, in “Lu Puzzu te la Matonna”, Numero Unico, a. III, 21 luglio 1996;

N. Caputi, De Tarantulae Anatome et Morsu..., Lycii, Typis Dominici Viverito, MDCCXLI;

L. Chiriatti, Morso d’Amore (Viaggio nel Tarantismo Salentino), Capone Ed. 1995. Questo libro è l’importante ricerca (minuziosa e aggiornata) sul fenomeno del Tarantismo che l’autore «ha vissuto sulla propria pelle»;

E. De Martino, La Terra del Rimorso, 1961 (opera straordinaria che con un’ampia e preziosa bibliografia documenta l’apparizione della taranta e del suo morso velenoso, il ricorrente al suo esorcismo musicale, richiamando tra l’altro le opere dei più importanti autori di Terra d’Otranto come il Marciano, il Giovene, il Baglivi, Epifanio Ferdinando, N. Caputo, il Serao, ecc. La ricerca fu compiuta nell’estate del 1959 e la sua équipe stabilì che i tarantati, all’epoca, nel Salento, erano non più di 100;

B. Montinaro, San Paolo dei serpenti. Analisi di una tradizione, Sellerio Ed., 1996;

F. Ferruccio Guerrieri, Il Tarantolismo in una farsa del secolo XVIII, Tip. Cooperativa, Lecce 1904 (Lo stesso articolo è stato riproposto in Il Bardo, Fogli di Cultura, luglio 1993;

F. Ferruccio Guerrieri, Il tarantolismo leccese (nella patologia, nella folkloristica e nella commedia), in Lecce 1898, R. Tipografia Editrice Salentina Fratelli Spacciante, Lecce 1898. Il suddetto articolo qui riproposto, non risulta inserito nei repertori bibliografici dei testi da noi consultati che si sono occupati del tarantismo;

G. Spagnolo, E ballanu e ballanu, inLu Lampiune”, a. XII, 1996;

G. Stefani (a cura di), Intense Emozioni in Musica, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, Bologna 1996 (nell’intervista fatta a Giorgio di Lecce ad Assisi 21 marzo 1995, vi è un ulteriore riferimento al Tarantismo a Novoli dove «c’era uno che esplorava nell’ambito di dodici arie») p. 111.

 

In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XXIII, 17 luglio 2016, pp. 17-21 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 345-352, Novoli 2024.

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