L’ACQUA E LE PIANTE DEL SOLSTIZIO
NELLE CREDENZE MAGICHE E NEI RITI
(alle origini dell’ “acqua di S. Giovanni” e altri rituali)
di Gianfranco Mele
L’ acqua di S. Giovanni, che alcuni chiamano anche “rugiada degli dei” per rimarcare le origini pagane del rito, secondo questa interpretazione sfrutta, con la sua preparazione in una notte particolarmente magica, la notte del solstizio, il potere di piante e fiori intrisi di rugiada divina. Come noto, questo rito è ritenuto propiziatorio ai fini della fortuna, dell’amore e della salute, e al tempo stesso purificatorio.
Un’altra denominazione è proprio “acqua del solstizio”, un’acqua preparata appunto con le piante solstiziali, così denominate perchè raggiungono nella notte del solstizio (in realtà in quel periodo) il massimo del loro potere, ovvero la maggior concentrazione di principi attivi in relazione al loro tempo balsamico.
Una variante (anche questa, derivata dalla tradizione magico-pagana) di questo rituale è quella del recarsi, sempre nella notte del Solstizio, o al sorgere dell’alba, quando comunque la pianta è ancora bagnata di rugiada, verso una “pianta solstiziale” bevendo la rugiada depositatasi o bagnandosene il viso. A seconda del “potere” che si vorrà acquisire ci si recherà verso una particolare pianta, per poter assumere le virtù ad essa attribuite dalla leggenda o dalle credenze magico-religiose. Si tratta di un rito oggi meno conosciuto e più in disuso rispetto a quello ritornato in auge (in maniera esemplificata) e popolare al giorno d’oggi. Vedremo, difatti, in questo veloce excursus, che le varianti utilizzate in passato sono numerose e anche più “pittoresche” e complesse rispetto alla pratica diffusa attualmente.
La “spina di San Giovanni” in Salento è l’infiorescenza del cardo che, raccolto alla vigilia di San Giovanni veniva utilizzata per un rituale piuttosto elaborato: prelevata in numero di diversi esemplari, i pappi venivano bruciati e posti sotto il letto dopo aver recitato delle preghiere. Se al mattino le bruciature erano scomparse, la sorte sarebbe stata propizia. In particolare, questo rituale veniva utilizzato dalle ragazze per sapere se si sarebbero maritate entro l’anno.
Nella notte di San Giovanni, le piante tipiche della stagione si sarebbero dotate di poteri particolari, e alcune di esse avrebbero addirittura sviluppato caratteristiche e partorito organi non rintracciabili se non in quella specifica notte. E’ il caso, ad esempio, dell’ Artemisia: si credeva che solo e unicamente in quella notte sotto le sue radici si sarebbe formato un carbone che chiunque avesse raccolto e portato in casa, avrebbe potuto utilizzare come un potente talismano. A questo leggendario “carbone” dell’artemisia erano attribuiti poteri come portafortuna in generale, e in particolar modo ai fine della protezione della casa dai fulmini e dalle pestilenze. Tutte le altre virtù magiche attribuite all’artemisia, si sarebbero sviluppate al massimo del loro potere se la pianta veniva raccolta nella notte di San Giovanni: ad esempio, il suo potere divinatorio (veniva utilizzata per capire se una persona malata sarebbe guarita o meno: si ponevano delle foglie sotto il cuscino dell’infermo e se si fosse addormentato subito quello era da considerarsi un segnale di prossima guarigione, mentre se fosse rimasto sveglio si presagiva la morte). Allo stesso modo, un altro potere attribuito all’artemisia, quello di far innamorare, avrebbe funzionato al massimo raccogliendo la pianta nella notte del solstizio.
Come l’artemisia soltanto nella notte di S. Giovanni produceva il suo “magico carbone”, così si credeva che in quella notte la felce potesse partorire un fiore che avrebbe portato immensa fortuna a chi lo avesse colto. In altre varianti della leggenda, in quella notte la felce produce dei semi che hanno il potere di tenere lontani i malefici e di procurare forza e buona fortuna. I “semi” potevano dare al suo fortunato possessore anche il potere dell’invisibilità e quello della profezia. Ancora, la capacità di trovare tesori nascosti, di essere usati come strumento di invocazione della pioggia. E’ appena il caso di specificare che, in realtà, le felci non producono fiori, né frutti e semi, e si riproducono tramite spore.
Una delle tante piante magico-medicinali da raccogliere nella notte di San Giovanni (al di là e al di fuori della ricetta della cosiddetta “acqua di San Giovanni”) è l’Eliotropio, al quale erano attribuiti poteri come antidoto al morso dei serpenti, come erba profetica e divinatoria, e persino come pianta in grado di procurare invisibilità a chi la portasse addosso: queste ed altre qualità attribuite alla pianta, raggiungevano il culmine della affidabilità se la pianta veniva raccolta nella notte magica.
Senz’altro la tradizione dell’acqua di San Giovanni (detta anche guazza, un termine più arcaico che designa la rugiada copiosa) è mutuata da riti e pratiche più antichi e antecedenti il cristianesimo, e nella tradizione contadina di varie regioni italiane ricorrono riti diversi tra loro ma che hanno come comune denominatore l’utilizzo della “magica acqua”.
Già nel rituale oggi diffuso e rivitalizzatosi grazie alla circolazione di questa usanza attraverso il web, un elemento importante della “ricetta” è l’acqua nel quale devono essere immersi i fiori, e molti badano a sottolineare che in realtà l’acqua dovrebbe essere la (non facilmente reperibile) acqua prelevata da un fonte.
San Giovanni battezza Gesù con le acque del fiume Giordano, e questo è un altro elemento di collegamento del rito purificatorio sia al santo che all’acqua.
L’acqua nel’ antichità, anche precristiana, ha poteri curativi e purificatori in molteplici casi e in diverse tradizioni. Vi erano veri e propri culti delle acque, molte erano le divinità collegate alle acque, e si credeva che in esse risiedessero infondendovi anche i propri poteri.
Le aspersioni e le purificazioni con utilizzo di acqua e piante o estratti di piante sono comuni a diverse religioni, sono state utilizzate da greci e romani e son presenti a tutt’oggi nella liturgia cattolica. Tra le piante più utilizzate, l’issopo, l’olivo, il lauro.
Ritornando alla civiltà contadina, fino alla fine dell’Ottocento nell’Abruzzo e nelle Marche si usava , nella notte di S. Giovanni, immergersi nelle acque del mare o dei fiumi nella convinzione di acquisire salute e forza. In provincia di Pescara, in quella notte, si usava recarsi ad un fonte per lavarsi la faccia e le mani, e con un trancio di Clematis vitalba ci si cingevano i fianchi e la fronte per preservarli dal dolore. A Celano, in prov. di L’Aquila, ci si recava presso il Fonte Grande nella notte di S. Giovanni nella credenza che quell’acqua potesse guarire i reumatismi e la tigna. A Caramanico (PE) si usava attingere l’acqua dal fiume Orta, lavarsi e purificarsi con essa, darla da bere agli animali, intingervi dei rami di rovo e cingerli intorno ai fianchi. Sempre in Abruzzo, presso il fiume Giovenco ragazzi e ragazze andavano a lavarsi scambievolmente la faccia. Da Lanciano si facevano pellegrinaggi, a piedi o con gli antichi mezzi di locomozione, verso Fossacesia dove le ragazze, all’alba, si snodavano i capelli per lavarli nell’acqua del mare convinte che così sarebbero diventati folti e belli. In diversi paesi della Valle Roveto i giovani usavano recarsi a mezzanotte presso il fiume Liri per bagnarvisi e stringere il comparatico.
In altri paesi dell’Abruzzo, per vincere le emorroidi ci si strofinava il sedere sull’erba dei campi bagnata di rugiada.
In molti paesi della Sardegna, nella notte di San Giovanni le ragazze si recavano in solennità a raccogliere l’acqua dei pozzi per poi spruzzarla sulle case del villaggio, a fini di purificazione anche dagli spiriti malefici. Con quella stessa acqua, ci si lavava il viso. In diverse località sarde, inoltre, i malati venivano portati al fiume o al mare e là immersi per guarire.
E sempre in Sardegna, come in altre località, si usava sfruttare il potere della rugiada magica rotolandosi nei prati bagnati con lo scopo di guarire da malattie. Stessa usanza, è documentata in Umbria, dove all’alba di S. Giovanni ci si rotolava nudi sull’avena bagnata di rugiada.
La guazza di San Giovanni era ritenuta efficace contro le malattie della pelle ma anche contro quelle degli occhi e contro il mal di testa: per vincere queste ultime patologie, bisognava recarsi all’alba nei campi e strofinare palpebre, fronte e tempie con le erbe bagnate di rugiada. Questa credenza la si ritrova anche in Piemonte dove addirittura la rugiada raccolta nella notte di S. Giovanni veniva usata per impastare focacce medicinali contro il mal di testa.
Più in generale, la rugiada raccolta e conservata poteva essere utile contro varie malattie. In alcune regioni d’Italia le lenzuola dei malati venivano imbevute di questo “rimedio”, oppure la si utilizzava per applicazioni ripetute sulle parti malate. La rugiada raccolta nella notte magica e conservata, era ritenuta efficace nello specifico anche come rimedio antirughe e contro la caduta dei capelli. In Abruzzo, le ragazze dovevano pettinarsi all’alba della festa del santo in un canneto bagnato di rugiada, e avrebbero così avuto capelli belli e folti.
In Friuli si credeva che la rugiada di San Giovanni potesse rendere fertili le donne. Le ragazze in cerca di marito usavano bagnarsene le parti intime.
Benchè cristianizzato (almeno nella denominazione), il rituale della notte di San Giovanni, come altri riti mutuati nella tradizione contadina da più antichi riti pagani, nelle sue espressioni più vicine alle pratiche originali veniva stigmatizzato dalla chiesa: nel 1753 la Corte Pontificia di Roma emette un bando che mette fuori legge e punisce chi si dedichi nella notte di S. Giovanni alla pratica di recarsi nudi nei campi e bagnare i genitali di rugiada:
“Con l’autorità del nostro ufficio, a qualsiasi persona dell’uno o dell’altro sesso proibiamo che in detta notte veruno ardisca accostarsi alle vasche, ai rigagnoli, alle fontane, togliendosi le brache e accucciandosi sull’erba, pena: gli uomini tre tratti di corda da darsi in pubblico, e scudi 50 di multa; per le donne, tre colpi di frusta a’ posteriori in pubblico, e sì per gli uni, come per gli altri, senza remissione”.
Egualmente, la raccolta della felce ai fini magici nella notte di San Giovanni viene registrata nei verbali della curia di Oria nel 1679 come un atto di stregoneria poiché i denunciati hanno attivato un rituale di raccolta della pianta, con un misto di invocazioni ai santi e ai demoni, finalizzato a ricavare l’ “herba incantata”, ovvero un composto polverizzato che avrebbe dato il potere di far innamorare o assoggettare alla propria volontà una persona: occorreva, per raggiungere questo scopo, gettare addosso alla “vittima” la polvere magica ricavata dalla felce.
Un curioso esempio di magia imitativa praticata dai contadini in Umbria tra la vigilia e il giorno di S. Giovanni è il rituale per liberarsi dai calli: bisognava andare all’alba negli orti a pestare con i piedi nudi le cipolle (le cipolle rappresentano i calli).
BIBLIOGRAFIA
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Maria Antonietta Epifani Stregatura. Mentalità religiosa e stregoneria nel Mezzogiorno di antico regime, Besa Editrice, Nardò, 2001.