BRANDICI. La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce. Gli aspetti topografici della carta

di Vito Ruggiero

 

GLI ASPETTI TOPOGRAFICI DELLA CARTA

Ora che la carta storica di Brindisi dal titolo Brandici non è più così sconosciuta alla città, ho il piacere di riportare alcune ulteriori considerazioni sull’opera, in gran parte già evidenziate nel libro che le ho dedicato.

Ritengo di aver raggiungo il principale obiettivo di divulgare l’esistenza dell’opera e ora mi auspico che questa possa stimolare gli appassionati di storia della città a fornire il loro contributo, in particolare sugli elementi topografici in essa riportati che necessariamente vanno collegati alla storia della città.

Rivediamo prima l’opera nell’immagine sotto.

Innanzitutto vorrei soffermarmi su un punto che ho affrontato nel mio libro in merito al fatto di aver definito l’opera come “la mappa più antica della città”. Avendo approfondito molto la cartografia esistente in merito a Brindisi, non poteva certo sfuggire nel mio studio il portolano turco di Piri Reis. La vediamo nell’immagine sotto.

Nel mio libro parto dalla considerazione che la prima opera in assoluto a rappresentare il porto di Brindisi, riferito al tempo in cui veniva disegnato, è il portolano turco Kitab-i Bahriye di Piri Reis. Si tratta del portolano manoscritto a cura del cartografo, capitano e ammiraglio Piri Reis al servizio del Gran Sultano ottomano, che contiene al tempo stesso una documentazione scritta e figurata, un documento fondamentale nella storia della cartografia nautica mediterranea, ritenuto il primo vero documento marittimo a descrivere l’insieme delle coste, dei porti e delle isole con tanti dettagli. Queste rappresentazioni ad opera di Piri Reis, non sono opere a stampa e, a mio parere, non possono essere ritenute delle cartografie, topografie o vedute della città, essendo esclusivamente dei portolani manoscritti destinati ai marinai e non rappresentando alcun elemento topografico della città di Brindisi. Infatti il nucleo urbano di Brindisi nel portolano di Piri Reis appare più che altro come una semplice raffigurazione simbolica ed è assente qualunque elemento caratteristico della città. Anche le altre città dello stesso portolano sono rappresentate nello stesso simbolico modo.
L’opera Brandici invece è un documento cartografico a stampa che offre diversi dettagli del porto, della città e dei dintorni, con i relativi toponimi, ricco di elementi rappresentativi sebbene con tutti i meravigliosi ed affascinanti limiti realizzativi della cartografia italiana del XVI secolo. Si tratta dunque di due rappresentazioni molto diverse, per scopo, per veduta d’insieme e per tecnica realizzativa, distanti solo tredici anni una dall’altra.
Basta osservare che intorno al nucleo urbano di Brandici troviamo: le colonne romane, la cattedrale, la Porta Reale e la strada verso la marina, Porta Lecce, la cinta muraria come effettivamente era, il castello Svevo, l’Arsenale, Santa Maria del Casale. Tutto questo è assente nel portolano di Piri Reis che, come detto, ha tutt’altro scopo.
Per queste ragioni, a mio avviso, Brandici può essere considerata la prima vera “mappa” della città di Brindisi, intendendo l’accezione della parola “mappa” non come termine specialistico geografico ma bensì nel suo utilizzo comune, che ho voluto scegliere per il titolo del mio libro perché più immediato e comprensibile e quindi più adatto a destare l’interesse di un’ampia platea. Altri termini, come “documento cartografico”, “cartografia o topografia a stampa”, “veduta a volo d’uccello” etc., sebbene più appropriati per il tipo di opera, non ho ritenuto che fossero adatti per il titolo del libro, visto lo scopo di voler divulgare a tutti l’esistenza di questo prezioso documento della cartografia rara cinquecentesca di Brindisi.

Sebbene il portolano di Piri Reis rimane quindi la prima opera a rappresentare l’area intorno al porto di Brindisi, la tavola di Brandici è la più antica rappresentazione ad oggi conosciuta della città (oltre che del porto), con precisi elementi topografici, la sola in grado di darci una immagine cinquecentesca di Brindisi, una delle poche città italiane che possono vantare un documento cartografico a stampa così antico.

E questo è solo il primo di tre elementi stupefacenti di quest’opera.

Il secondo, è che l’esemplare in questione è unico. Non esistono altre copie al momento conosciute.

Il terzo, che la carta racconta e fa riferimento ad un avvenimento storico ben preciso che Brindisi ha vissuto nell’autunno del 1538.

Tralascio ora i dettagli che riguardano la fantastica storia, descritta nel libro, di come Brandici sia arrivata fino a noi. Coloro ai quali dobbiamo la sua introduzione nella bibliografia italiana, all’interno dell’opera di catalogazione monumentale Cartografia e topografia italiana del XVI secolo, edito da Edizioni Antiquarius nel 2018, sono due tra i più noti studiosi e massimi esperti internazionali di cartografia storica cinquecentesca italiana, Stefano Bifolco e Fabrizio Ronca, mentre oltre i confini nazionali è allo studioso ungherese Tibor Szathmáry  che dobbiamo riconoscere il suo vero e proprio ritrovamento nel 1987, e la sua prima pubblicazione nel 1992.

Tralascio anche gli aspetti storici, legati alla battaglia di Prevesa e ai successivi spostamenti dell’armata di Andrea Doria fino all’arrivo nel porto di Brindisi, anche questi ampiamente documentati e raccontati nel libro, così come tralascio gli aspetti legati al contesto storico della piccola raccolta di tavole cui faceva parte, all’editoria veneziana dl XVI secolo, al tipografo Francesco Tommaso di Salò, e alle caratteristiche tecniche delle stesse.  Sono tutti punti sviluppati nel libro.

Vorrei soffermarmi invece su quelle che sono state le mie prime considerazioni sugli aspetti topografici riportati sulla carta stessa. Non essendo io uno storico, mi sono limitato ad alcune semplici considerazioni che richiedono ulteriori verifiche da parte degli studiosi.

Ritengo infatti che conoscenze più approfondite siano necessarie per poter affrontare tutti i dettagli topografici riportati dall’opera e sono ben lieto di lasciare agli attuali studiosi locali l’approfondimento su quanto possa scaturire di nuovo sulla storia della nostra città grazie a quest’opera.

E’ questo lo scopo di questo articolo.

Vediamoli in successione, dal basso verso l’alto, i vari elementi della carta, dopo aver visto l’opera a pagina intera.

 

L’armata di Andrea Doria nel porto esterno – ARMA DE ANDREA DORIA

Sono rappresentate nove galee nella carta.

 

Non sono riuscito fino ad ora a trovare informazioni sulla effettiva composizione della flotta di Andrea Doria al momento del suo arrivo a Brindisi il 20 novembre 1538. Probabilmente erano molte di più visto che prima della battaglia di Prevesa era transitato a Corfù con 41 galee e 30 navi. Ovviamente quella sulla carta è solo una raffigurazione simbolica della sua armata.
Interessante notare i diversi simboli sulle bandiere a poppa, che spero qualche studioso possa meglio decifrare e spiegare. Quella in posizione più avanzata verso l’imboccatura del porto interno riporta abbastanza chiaramente, a mio avviso, lo stemma imperiale dell’imperatore Carlo V.

 

Le isole Pedagne – SCOI DE (F)VORA

 

Ritengo che quegli scogli indicati sommariamente, per la loro posizione, non possano che essere le isole Pedagne.

Tuttavia, qui le isole non vengono citate con il loro nome, che certamente era già in uso nel XVII secolo. A tal proposito, infatti, troviamo riscontro dell’utilizzo del termine “Pedagne” nella mappa di Blaeu (quella ben nota dal titolo errato Tarento) della fine del XVII secolo edita per la prima volta nel 1663 e poi nuovamente nel 1703 a cura di Mortier.

È molto probabile che anche in tutto il XVI secolo si chiamassero quei piccoli isolotti con il nome Pedagne, per quanto ho potuto dedurre dalla descrizione del porto di Brindisi nel portolano di Piri Reis, che intorno al 1518 riferiva: “non c’è porto più famoso di Brindisi. Infatti, davanti alla città c’è un bellissimo e grandissimo porto naturale che può dare asilo a trecento o quattrocento navi…Alla bocca del porto c’è un’isola rocciosa – l’isola di sant’Andre nella quale è stato costruito un piccolo castello fortificato da cannoni. Navi straniere non possono entrarvi: fra l’altro la bocca del porto è chiusa da catene. Ai due capi delle catene vi sono due grosse torri con cime alla sponda che danno a maestrale…Le grandi barche possono passare da questo stretto, essendo esso molto profondo verso la costa di nord ovest, distante mezzo miglio. Sulla riva dello stretto ci sono isolette che si chiamano Pedagne.” (Maria Sirago in “Il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità” cita A. Bausani, L’Italia nel Kitab-i Bahriye di Piri Reis, in Il Veltro, 1979, pp 173-175).

Probabilmente le isole Pedagne, il cui nome si attribuisce alla loro forma oppure al fatto che i fondali che le separano sono molto bassi e quindi possono essere guadati a piedi, erano così chiamate già all’inizio del XVI secolo o forse prima, ma non ho trovato riscontri e riferimenti più precisi. Di fatto nella tavola Brandici vengono citate con l’indicazione SCOI DE (F)VORA.

Su questo toponimo ho nutrito inizialmente diversi dubbi e il mio auspicio è che qualche studioso possa dare un utile contributo a spiegarne il significato in riferimento alle isole Pedagne.

La difficoltà nasce dal fatto che non ho certezza che ci sia la lettera “F” davanti alla parola “VORA”, e per questo la indico tra parentesi. Effettivamente sembra esserci un difetto di stampa nel carattere “F” stampato parzialmente, per cui il corretto toponimo sarebbe quindi SCOI DE FVORA – scogli di fuori- ad indicare propriamente gli isolotti più esterni, quelli che per primi si incontrano entrando nel porto di Brindisi. Questa è certamente la spiegazione più plausibile, forse l’unica realisticamente accettabile.

Non sono riuscito a trovare altre fonti che potessero confermare che nel Cinquecento le Pedagne potessero essere chiamate anche in quel modo, pertanto, se fosse effettivamente così, questa indicazione proveniente dal documento potrebbe essere una informazione particolare.

Inizialmente mi sono azzardato a fare anche un’altra interpretazione del tutto personale e fantasiosa, quasi certamente sbagliata, basata sull’ipotesi che non ci sia una “F” mancante e che sia effettivamente scritto SCOI DE VORA.

Descrivo brevemente questa assurda ipotesi solo per condividere con chi legge quanto ho appreso su un termine particolare che comunque esisteva su altre mappe dell’epoca, “VORA”, ma sono praticamente certo che quella corretta è la precedente.

VORA (buco) è un termine locale pugliese per indicare voragini o inghiottitoi dovuti all’erosione delle acque sui calcari o a sprofondamenti della volta di caverne. Tale toponimo era anche piuttosto diffuso nelle cartografie storiche locali.

A tal proposito vedasi la pubblicazione del 2 dicembre 2023 di Armando Polito sul sito www.fondazioneterradotranto.it dal titolo “Nardò: Vora, un toponimo perduto”. L’autore ci spiega come già nella cartografia degli inizi del XVII secolo, vedasi Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia, di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), si legge presso Nardò il termine VORA alla destra di un simbolo inequivocabile che corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato Vora del Parlatano. Un nome comune diventato un preciso toponimo. Questo termine è ancora presente in altre carte del Salento di poco successive, come quelle di Blaeu o Valck.

Stabilito quindi che, anche nella cartografia di poco successiva alla nostra tavola, esisteva questo termine per indicare una voragine, da qui la mia ipotesi estremamente fantasiosa. Ho collegato il termine “VORA” al fatto che su una delle isole Pedagne, denominata La Chiesa, si trova la Grotta dell’Eremita, con affreschi che rappresentano la Natività e che ora sono in forte degrado. Un tempo vi erano anche un vano dormitorio ed una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. L’insediamento era probabilmente utilizzato da un religioso che aveva deciso di condurre una vita solitaria ed era collegato con il monastero dell’Isola di Sant’Andrea, costruito nel basso medioevo.

Lascio agli appassionati ed esperti studiosi la verifica corretta del termine che indica le Pedagne nell’opera che stiamo osservando, ma resto fermamente convinto che sono indicate con il termine SCOI DE (F)VORA – scogli di fuori – ad indicare il gruppo di isolotti più esterni del nostro porto.

 

L’isola di Sant’Andrea – CASTEL-D-MAR e SCOIOGRANDO

 

Molto bella la rappresentazione del Castello di Mare, ovviamente il Castello Alfonsino. In questa rappresentazione lo vediamo in tutto il suo splendore.

Nel 1481 Ferdinando d’Aragona ordinò al figlio Alfonso, duca di Calabria, di costruire sull’isola di Sant’Andrea una fortezza in grado di difendere efficacemente porto e città. All’inizio fu solo una rocca, ma poi fu fatta ampliare con la costruzione di un antemurale con bastioni al torrione preesistente, con mura alte e molto spesse: alle due torri, cilindrica e quadrata, ne fu aggiunta un’altra poligonale così che il castello assunse una forma triangolare. Le torri e l’antemurale sono perfettamente rappresentati nella tavola Brandici.

L’autore indica la restante parte dell’Isola di Sant’Andrea con il nome SCOIOGRANDO, e trovo che anche questo sia un modo molto particolare, se non inedito, per indicare l’isola di Sant’Andrea. Nel 1538 non esisteva ancora il Forte a Mare, la cui costruzione fu avviata nel 1558 a cura di Filippo II d’Austria, figlio di Carlo V. Nella carta Brandici questo trova evidenza dal fatto che l’unica rappresentazione nell’isola di Sant’Andrea è appunto quella del solo Castello Alfonsino. Pertanto, con SCOIOGRANDO si indica tutta la restante parte, quella dove avvenne la successiva edificazione del Forte a Mare ed il cosiddetto Lazzaretto.

Il termine veneziano SCOIO – scoi de (f)vora, scoiogrando – indicato sulla carta, ma anche il toponimo Brandicio, davvero molto vicino alla nostra Brandici,  trovano ulteriore conferma in alcuni testi ritrovati quali ad esempio gli ordini impartiti ai difensori del castello a salvaguardia del porto di Brindisi, che ci racconta  Francesco Grassetto da Lonigo nel suo Viaggio di Francesco Grassetto la Lonigo lungo le coste dalmate , greco-venete ed italiche nell’anno MDXI e seguenti, Venezia, stabilimento tipografico Fratelli Visentini, 1886, pag. 41-2 nel quale ricorda del 1511: “Nel intrar deli scogli al porto de Brandicio, dal castello del scoglio fune trato uno pasavolante per proa, et rumpete remi et magagnò li provieri, brusò una gomena e fracasò banchi e baville; et questo ferno perché non salutamo con bonbarde avanti intrasemo.”

 

Santa Maria del Casale – S – MARIA DE CASAL

 

Sulla meravigliosa chiesa sorta presso Brindisi all’inizio del Trecento e definita come una delle più belle ed originali che nel suo stile abbia l’Italia Meridionale non mi soffermo a dare informazioni.

La tavola indica la chiesa di Santa Maria del Casale con estrema chiarezza nella sua corretta posizione ed evidenzia anche una sorta di fortificazione a proteggerla. Infatti, il luogo dove essa sorgeva era solitario ed ameno e gli arcivescovi di Brindisi vi costruirono la loro dimora estiva. Dal 1310 la chiesa e i locali annessi furono utilizzati come “cancelleria” del processo contro i Templari. Successivamente nel XVI secolo i Frati Minori Osservanti vi fondarono il convento.

 

Torre Cavallo – TORE DI CAVALI

Non sono tante le cartografie storiche della città di Brindisi che riportano la rappresentazione di Torre Cavallo contestualmente al suo toponimo. Nella maggior parte dei casi l’inquadratura delle carte non arriva infatti fino a Punta Cavallo.

La torre la ritroviamo certamente nelle tavole di inizio Cinquecento del portolano turco di Piri Reis, e molto più recentemente nella tavola di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810.

Anche la mappa di Brandici, la più antica rappresentazione della nostra città, sembra rappresentare a prima vista la torre di Punta di Cavallo.

Al registro angioino risulta che nel 1275 un tale Pasquale Faccirosso, cittadino di Brindisi, morendo, lasciava con atto testamentario la cifra di 50 once d’oro perché nel luogo detto “Scoglio del Cavallo” fosse costruita una torre con faro “onde i naviganti potessero evitaregli infortuni navigando in quei paraggi”. La zona a sud di Brindisi, infatti, per via di secche e scogli era caratterizzata da frequenti naufragi. Le origini del toponimo “Lucaballus” risalgono infatti alla fine del XIII secolo, come documentato nella cancelleria angioina del 20 giugno 1277.

Al fine di terminare l’opera nel modo più veloce possibile, il re incaricò i brindisini Ruggero Ripa e Nicola Uggento. I lavori di costruzione furono supervisionati dai Templari, ma sfortunatamente la torre crollò subito dopo il suo compimento per venti, mareggiate e forse errori di progettazione. Dopo il crollo venne nuovamente ricostruita e terminata nel 1301 sotto il regno di Carlo II d’Angiò.

La torre crollò nuovamente e nel 1567 fu ricostruita sulla stessa base cilindrica di quella angioina, per volontà del viceré aragonese Perafan de Ribera nel suo grande progetto che prevedeva, oltre alla costruzione di nuove torri, anche la riqualifica di quelle già esistenti.

Mappa aragonese del XV secolo – particolare

 

Oggi la torre non esiste più. Impegnata per vari usi, l’ultimo documento sull’esistenza della torre è datato 1842. Probabilmente già diroccata e fatiscente, fu in seguito completamente demolita. Durante la Prima Guerra Mondiale fu costruita una batteria di artiglieria della Marina Militare, e sul sito, in piena zona industriale, si notano i ruderi. Ancora nel 1966, in base alle foto realizzate da Federico Briamo, si notavano alcuni resti della muratura basamentale della torre, attualmente non più esistenti.

Una prima osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione nella carta di Francesco Tommaso di Salò, della TORE DI CAVALI e sulla possibile identificazione della stessa con la Torre di Punta Cavallo è che le diverse descrizioni e ricostruzioni grafiche ottenute grazie ai documenti angioini (in ultimo la ricostruzione con stampante 3D di Francesco Iurlaro raccontata in un articolo de il7 Magazine del  4 marzo del 2022 di Giovanni Membola) mostrano la torre su base circolare mentre nella tavola di Brandici, diversamente da quelle del porto, anch’esse angioine, sembra avere base quadrata.

Una seconda osservazione scaturisce dalla lettura dell’interessantissimo articolo di Armando Polito “Brindisi e il suo porto in una carta del XVI secolo” pubblicato da fondazioneterradotranto.it il 15 febbraio 2017.

 

L’autore presenta alcuni dettagli di una copia settecentesca, inedita, di una mappa originale aragonese disegnata alla fine del XV secolo. La copia è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia. L’autore affronta e analizza tutti i numerosissimi toponimi presenti sulla carta.

Se ci soffermiamo sull’area intorno a Brindisi ed in particolare sulla zona a sud del porto osserviamo che sono indicate, con estrema precisione, due torri e non una. Quella più a sud è indicata come Torre del Cavalloccio, presso il luogo oggi denominato Punta di Torre Cavallo. Dalla sua posizione questa è senza dubbio la torre che a Brindisi è sempre stata identificata come Torre Cavallo, cioè quella sul sito oggi noto per le sfiammate della torcia dello stabilimento petrolchimico e dove, come detto, sono anche presenti i resti di una postazione della Prima Guerra Mondiale, che sorgevano sopra quelli della antica torre tante volte nominata a partire dai documenti angioini.

L’articolo di Armando Polito ci evidenzia che la denominazione e l’indicazione della Torre del Cavalloccio non è nuova e la ritroviamo su diverse altre carte successive a scala relativamente grande, come ad esempio quelle del Magini, Jonssonius, Bulifon, Hondius del XVII secolo, ed infine di Domenico De Rossi del 1714 che forse per primo la comincia a chiamare T. del Cavallo, come nota oggi anche se non più esistente da quasi duecento anni.

Ma allora la Torre del Cavallo rappresentata poco più a nord, a est di Fiume Grande, nella carta aragonese custodita nella biblioteca francese che torre è? È evidente che trattasi di una torre distinta per la sua posizione, che risulta assente in tutte le altre carte prima accennate ed utilizzate dall’autore dell’articolo ai fini comparativi.

L’autore dell’articolo ipotizza quindi che, data l’estrema precisione della carta aragonese, questa seconda torre sia esistita e scomparsa nell’arco di pochi decenni, in quanto già mancante nelle carte del XVII secolo.

Tutto questo per dire che, a mio avviso, la posizione di quella che sulla nostra opera è indicata come TORE DI CAVALI potrebbe anche coincidere con quella indicata come Torre del Cavallo della carta aragonese custodita in Francia, che abbiamo detto essere una copia di una carta della fine del XV secolo, quindi molto vicina temporalmente alla rappresentazione di Francesco Tommaso di Salò.

 

In effetti, essa non sembra così lontana da quelle che ipotizziamo essere le Pedagne ed osservando la linea di costa non sembra essere su una punta così pronunciata come certamente era quella dove sorgeva la Torre del Cavalloccio, ossia Punta di Torre Cavallo.

Anche uno dei noti portolani turchi del Cinquecento (a destra) riporta la Torre Cavallo non sulla Punta Cavallo ma più a nord in una zona lineare della costa e non su un capo, quasi di fronte alle Pedagne. A mio avviso la sua posizione poteva essere nei pressi di Capo Bianco, ma resta tutto molto ipotetico e da verificare.

Portolano turco XVI secolo – particolare

 

Questa delle due torri è una affascinante ipotesi che lascio approfondire eventualmente a chi ha tempo e strumenti per fare ulteriori indagini ma, se così fosse, la nostra carta sarebbe, insieme a quella studiata da Armando Polito e forse al portolano turco suddetto, l’unica di mia conoscenza a rappresentare questa torre vissuta così poco tempo dal nome Torre del Cavallo, ben distinta da quella del Cavalloccio che in seguito le “rubò” il nome.

E forse questa ipotesi spiegherebbe anche la sezione quadrata e non circolare come quasi certamente era quella della Torre del Cavalloccio collocata a Punta di Torre Cavallo, denominata in seguito Torre del Cavallo quando la prima era ormai scomparsa.

Ad ogni modo, certo è che quella indicata sull’opera che stiamo studiando non può che essere una di quelle due torri.

Spero di aver spronato qualcuno a dare un riscontro più oggettivo di queste mie avventate teorie, almeno per capire se questa ipotesi è plausibile, o se effettivamente la torre della nostra tavola è quella di Punta Cavallo.

 

Le torri angioine – LITORE DEL PORTO

Sull’esistenza delle torri angioine all’imboccatura del porto si è scritto molto e si trovano diverse informazioni e citazioni storiche, per cui non mi soffermo troppo.

Le due torri furono realizzate da Carlo II d’Angiò nel 1301 lungo le due sponde del canale.

 

La torre maggiore era posta sul lato di ponente, mentre quella di minore era sul lato opposto a levante e tra le due torri era collegata una catena di ferro.

La catena, denominata catena angioina, è ben visibile nell’opera che stiamo esaminando, così come è chiaramente indicata nelle antiche piante della città già conosciute, ad esempio quella del 1703 di G.B. Pacichelli o la successiva di Orlandi, o quella del 1663 di J. Blaeu.

Le due torri avevano degli ingranaggi che permettevano di tendere la catena e chiudere l’ingresso nel porto interno; la stessa veniva mollata in acqua quando una nave si apprestava ad accedere o ad uscire. Questo tipo di sistema a catene era utilizzato all’epoca per chiudere gli ingressi anche di altri porti, come quello di Trani.

Un simile metodo di difesa con il passare del tempo divenne anacronistico e le due torri subirono nei secoli successivi riadattamenti. All’inizio dei lavori sul canale del sig. Pigonati, siamo nel 1779, si attesta ancora l’esistenza della maggiore, risistemata ad alloggiare le guardie della finanza, mentre quella di levante è quasi completamente distrutta e ne rimangono pochi avanzi. Il famoso dipinto di Hackert, che ci offre una fantastica e dettagliatissima vista del porto nel 1789, riporta la stessa situazione 10 anni dopo. Attualmente la catena angioina è conservata all’interno del Castello Svevo.

Unica osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione delle torri angioine nell’opera di Francesco Tommaso di Salò, che a mio avviso meriterebbe ulteriori approfondimenti, è il fatto che sul lato di levante sono rappresentate due torri e non una sola, come invece compare nella maggior parte delle altre citate piante storiche o nelle tavole dei portolani turchi di Piri Reis, in assoluto i più antichi a rappresentarle.

A parte la torre destinata a ricevere uno dei due capi della catena, è infatti rappresentata una seconda torre un po più arretrata.

Esistevano quindi, agli inizi del Cinquecento, due torri sulla sponda di levante mentre a ponente ne avevamo una sola, la maggiore, come così chiaramente riportato nell’opera Brandici?

La presenza così evidente di due torri a levante è abbastanza particolare e differente da tante altre piante; tuttavia, bisogna osservare che esistono anche alcune rappresentazioni nelle cartografie che non evidenziano una sola torre in corrispondenza di ciascun lato, ma una serie di costruzioni.

È il caso del portolano pubblicato dal cosmografo Coronelli Specchio di mare nel 1686. Troviamo riportato a lato un particolare dell’immagine del porto presente sul portolano.

Coronelli 1686 – Specchio di mare – particolare

 

Brindisi è circondata dal suo sistema difensivo e dai due seni, con i dettagli della costa indicati nel porto esterno, oggi porto medio, quali l’isola Sant’Andrea e le Pedagne. Sono chiaramente indicati i bassi fondali causati dai depositi di terra in corrispondenza dell’imboccatura che quasi ostruiscono il canale di ingresso al porto interno, e le torri ai lati. Ebbene, si può chiarissimamente notare che anche qui le torri indicate sul lato di levante sono due e non una. Anche sul lato di ponente sembrano esserci altre costruzioni nei pressi della torre.

Un secondo portolano, questa volta quello ben più noto del Roux Recueil des principaiux plans, des ports, et rades de la Mediterranee del 1764 sembra mostrare sul lato di levante una seconda torre affianco al toponimo “Petit tour”.

Roux 1764 – particolare

 

Analogamente, la bellissima rappresentazione del nostro porto nella tavola del portolano di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810, sicuramente molto ben dettagliata per l’epoca, mostra ancora una torre (Tower) sul lato di levante più arretrata all’interno rispetto al canale, probabilmente ormai ridotta a rudere o addirittura non più esistente, che certamente non poteva quindi essere quella che un tempo reggeva uno degli estremi della catena.

Heater 1810 – particolare

 

Sembra abbastanza evidente quindi che le due torri angioine ai lati dell’ingresso al porto erano state affiancate nel tempo da altre costruzioni e da un’altra torre sul lato di levante, anche se non è semplice ricostruire come fosse esattamente lo scenario ai lati del canale angioino nel 1538.

Che ci fossero altre edificazioni oltre alle due torri lo sostiene anche Ferrando Ascoli in La storia di Brindisi che a pag. 103, dopo aver descritto le due torri che reggevano la catena, dice “Oltre le torri, e probabilmente intorno a queste, il re Carlo dovè far costruire delle fortilizie di piccola mole; chè; il 6 di novembre del 1284, ordina al giustiziero di terra d’Otranto, Erberto d’Orleans, che da ora in avanti le torri del porto di Brindisi siano custodite da 10 inservienti.”

E ancora troviamo una conferma da una ulteriore mappa molto interessante, perché anch’essa non presente sulle pubblicazioni locali esaminate, ma disponibile in versione digitalizzata tramite il sito www.oldmapsonline.org di Gerard van Keulen dal titolo Porto Brundisi int groodt pubblicata in Olanda nel 1720 e messa a disposizione in forma digitale dalla Leiden University Library.

Porto Brundisi int groodt – 1720 Leiden University Library – particolare

 

Si tratta di una mappa suddivisa in 12 riquadri ciascuno rappresentante il piano di un porto di diverse città. Il nono di questi è quello di Brindisi e nella figura ho riportato il dettaglio del canale di ingresso del porto.  Si possono vedere chiaramente due torri sul lato di levante e altre fortificazioni a ponente. Anche questa mappa nel suo complesso richiederebbe uno studio approfondito, essendo certamente poco nota se non quasi sconosciuta.

Ulteriore riscontro della presenza di altre torri nei dintorni lo ritroviamo in una mappa del tutto inedita del 1630, anch’essa certamente del tutto sconosciuta alla città di Brindisi e a chi ha finora pubblicato cataloghi e articoli ed organizzato mostre sulla cartografia locale. In quest’opera sembrerebbero esserci addirittura tre torri sul lato di levante del canale, con diverse altre fortificazioni anche sul lato di ponente dell’imboccatura del canale.

Questa mappa l’ho ritrovata quando avevo praticamente concluso questo mio studio, è anch’essa di origine veneziana ed a mio avviso meriterebbe uno studio a sé perché di grande rilievo per la storia cartografica della città e perché mai comparsa nelle pubblicazioni locali. Maggiori dettagli e la sua inedita immagine sono forniti nella postfazione del mio libro.

Probabilmente esistono ulteriori descrizioni storiche specifiche che possono confermare la presenza di altre torri magari con più precisione in riferimento alla data del nostro documento, ma lascio anche questa verifica a chi eventualmente è interessato ad approfondire sulla storia di quella seconda torre a levante nel documento che stiamo descrivendo.

 

Il titolo in cartiglio – BRANDICI

È molto interessante e forse inedito, almeno nella cartografia, il nome che Francesco Tommaso di Salò attribuisce alla nostra città con il cartiglio dedicato. Non ho trovato alcuna pubblicazione o documento storico cartografico che chiama esattamente con il nome di Brandici la nostra città, anche se ci avviciniamo molto con altri toponimi.

 

Io credo che questo sia addirittura uno dei motivi per cui non è poi così immediato reperire la carta sui motori di ricerca del web, in quanto sappiamo che l’unico riferimento negli ultimi anni sono le informazioni dei siti delle gallerie che la propongono in vendita, giustamente con il nome indicato nella tavola, che però non è associato a Brindisi in nessun altro documento facilmente accessibile in rete.

È stato piuttosto divertente stilare un elenco di tutti i nomi che hanno identificato la città di Brindisi, partendo dalle sue origini. BRANDICI non l’ho mai trovato nelle fonti storiche esaminate.

Ci viene incontro una interessantissima ricerca di Nazareno Valente, I nomi che hanno identificato la nostra città (Brindisi), pubblicata sul sito Gruppo Archeo di Brindisi. Riassumo i nomi da lui identificati nell’articolo, senza indicare tutti i riferimenti bibliografici agli atlanti e portolani dell’epoca. Questi riferimenti sono ovviamente indicati dall’autore nella sua pubblicazione.

Innanzitutto, come ben noto, da “Bréntion”, che in lingua messapica indicava la testa di un cervo che molto probabilmente ha dato il nome alla nostra città per la particolare forma del porto, abbiamo le derivazioni greca di Brentésion e romana Brunda e quindi Brundisium. Questo toponimo nel medioevo ha subito numerosissime varianti: Brandisium, Brandisi, Blandizia e Branditia, poi Brundizio e Brandizio nel XIII e XIV secolo.

Brandizio è il toponimo utilizzato da Dante nella Divina Commedia che nel Purgatorio fa esclamare a Virgilio, “Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”. Nello stesso periodo si ritrovano anche altri toponimi come: Blandizo, Brandizo, Brundisia, Brandizia, Brandiz e Brandiço, mentre nel XV secolo i toponimi utilizzati furono: Branditio, Brandizi, Brundusio, Brondusio.

Alla fine del secolo XV compaiono Brindese o Brindise e, dal 1519 anche Brindisi. In quello stesso periodo ritroviamo anche Brindesi (la stampa di G.B. Pacichelli riporta questo nome) e Brindici, voce usata nell’History of Venice di P. Bembo.

In tutta questa lunga carrellata di identificativi nei secoli fino alle prime comparse del termine Brindisi, quasi contemporanee alla data della nostra carta, BRANDICI risulta assente. Ci siamo arrivati molto vicini con Brandizi e Brindici, ma possiamo affermare che alla lista suddetta si debba necessariamente aggiungere anche BRANDICI, citato sull’esemplare unico di cui stiamo parlando e forse su pochi altri documenti di origine veneziana che io non sono stato in grado di reperire ma che sicuramente esisteranno.

Abbiamo una incredibile e forse unica conferma dell’utilizzo di questo nome nella cartografia della nostra città anche nell’altra eccezionale mappa già accennata nel paragrafo dedicato alle torri del porto raccontato nella postfazione del mio libro. Risale al 1630 circa ed è quindi la conferma di come BRANDICI fosse certamente il toponimo usato per indicare la città di Brindisi sulle carte veneziane tra il XVI e il XVII secolo.

Maggiori informazioni su questa carta veneziana, come abbiamo detto, sono indicate nella postfazione del mio libro.

Il toponimo stesso BRANDICI per la sua particolarità è certamente un’altra ragione che rende unico e prezioso il documento in questione. La conferma che tale nome fosse effettivamente utilizzato a Venezia tra il XVI e il XVII secolo, grazie al ritrovamento di una seconda mappa con quello stesso nome, anche questa praticamente sconosciuta, è stato motivo di grande soddisfazione.

 

Cartiglio di sinistra – EL VERO SITO DI BRANDICI IN PVGLIA

Nel cartiglio di sinistra si possiamo leggere:

  1. VER. SITO. DI. BRANDICI. IM PUGLIA. STAMPATO IN VENETIA. PER. FRANCESCO LIBRAR. DALA. SPERANZA. A. M.DXXXVIII.

 

L’arsenale nel seno di levante ­– L ARSENAL

Questa è forse la novità più rilevante sugli elementi topografici della carta. A mio avviso, non esistono altre rappresentazioni nella cartografia storica di Brindisi fino ad oggi conosciuta che mostrino questo grande arsenale costruito in epoca angioina ed ampliato nel tempo sul seno di Levante nei pressi della stazione marittima. Ho trovato diverse indicazioni sulla sua esistenza provenienti dai registri angioini e poi riprese da Ferrando Ascoli ne La storia di Brindisi. Nicola Vacca in Brindisi Ignorata ipotizza anche la sua esatta posizione.

 

Riporto testualmente quanto reperito sul sito della Provincia di Brindisi, nell’articolo pubblicato mercoledì 10 settembre 2008 relativamente al castello a mare angioino (o di S. Maria del Monte), che conferma la posizione di un arsenale nei pressi della stazione marittima, seppur non sia indicata la fonte specifica. Lo stesso testo virgolettato è riportato su brindisiweb.it nella scheda storica a cura di Roberto Piliego relativa al Castello Alfonsino o Aragonese.

“Carlo I d’Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, prima re di Sicilia, poi anche d’Albania e di Gerusalemme, vincitore degli Svevi nel 1266 a Benevento e nel 1268 a Tagliacozzo (sarebbe poi stato sconfitto dagli Aragonesi nel 1284), fece costruire a Brindisi, nel 1268, un castello con sei torri merlate che si affacciava sul seno di levante, in località Belvedere. Fu questo il Castello di S. Maria del Monte (nel quale era incorporato il palazzo reale), detto Castello a mare per distinguerlo da quello di “terra”, lo Svevo di Federico II, che pure si affaccia sul mare. Nel 1410 il castello aveva già bisogno di riparazioni e divenne inutile (fu disarmato e demolito) dopo la costruzione del Castello Alfonsino ad opera degli Aragonesi. Carlo I d’Angiò, che attuò con scarsa fortuna una politica espansionistica in Oriente, costruì ai piedi del Castello un grandioso arsenale, nello stesso luogo dove si trovava l’arsenale romano e dov’è ora la stazione marittima.”

Ferrando Ascoli a pag. 106 del suo libro La storia di Brindisi riferisce “Oltre il castello, dov’è oggigiorno il bagno penale, conosciuto sotto il nome di castello di terra, un altro castello era dalla parte opposta, nelle vicinanze dell’attuale ufficio del porto. Qui, infatti, si sa essere stato l’arsenale costruito dai Romani, e rifatto da Carlo I. Fabbricandovi si scopersero diversi oggetti, varie opere che dimostrano questo. Inoltre, nell’ordinazione di lavori di riparazione in questo castello si nomina la torre che sta nell’arsenale. Quest’altro castello doveva essere assai importante, a giudicare dai lavori che il re, l’8 maggio del 1277, stando a Brindisi, stabiliva vi si dovessero fare dai Brindisini Ruggero De Ripa, e Nicolò di Ugento.”

A questo punto Ferrando Ascoli riporta da pag.106 a pag.109 il dettagliatissimo elenco dei lavori al castello, al palazzo al suo interno, alle torri, e a quella “che sta nell’arsenale, che è della stessa grandezza ed altezza si faranno le stesse costruzioni.”

Sempre Ascoli, a pag. 111 ci dice che “Importantissimo era a questi tempi l’arsenale marittimo, riattazione, e ampliazione dell’arsenale romano, che sorgeva nella località, dove ora termina il tronco ferroviario alla marina.” A seguire ne descrive molto in dettaglio tutti i lavori di ampliamento.

Anche lo storico Nicola Vacca in Brindisi Ignorata a pag. 155-158 e 161-162 ci parla del Castello della collina di Santa Maria del Monte, affermando che “Il castello era costituito da ben 6 torri merlate: …2) una torre dalla parte dell’Arsenale (ch’era, come vedremo, contiguo al palazzo)”.

Già all’inizio del ‘400 il castello doveva essere malridotto e infatti nel 1410 fu ordinato di eseguire riparazioni alla fortezza di mare nonché ai suoi ponti ed alla sua catena. Vacca sostiene che probabilmente fu disarmato e demolito dopo la costruzione del castello dell’isola, poiché “il nuovo castello difendeva più razionalmente del primo il porto e la città dalla parte di mare”.

Ed infatti a pag. 161 Vacca conclude che, “…sul Belvedere stesso era il torrione, non so perché chiamato del sangue, registrato come Belvedere al n.12 delle didascalie della stampa del Blaeu, in cui graficamente viene riportata una torre diruta; non è azzardato congetturare che sia una delle relitte torri del castello angioino”.

Il Vacca a pag. 158 descrive con chiarezza l’arsenale, posizionandolo con molta precisione. “A piè della collinetta di Santa Maria del Monte, dove è oggi la stazione ferroviaria del porto, sorgeva l’arsenale angioino (domus tarsianalus). Invero qui era stato l’arsenale dei tempi di Roma. Nello stesso sito sorse poi quello di Federico II di Svevia. Carlo d’Angiò, per la sua politica di espansione in Oriente, fece sorgere come abbiamo visto un altro castello, e potenziò ed allargò notevolmente il vecchio arsenale svevo”. Di seguito il Vacca riporta che il Moricino scriveva: “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico arsenale, e vi dura anche il nome, opera certo magnifica degli antichi romani… era stato doppo ristorato per l’occasioni continue di navigare in Terra Santa per tutto il tempo di Federico e ultimamente Carlo l’aveva molto ben risarcito e quasi rifatto di nuovo…Era questo arsenale nel sinistro corno delli due che cingono la città sotto l’istesse mura , luogo però diritto alla bocca di esso porto…” Il Vacca ci dice quindi che i documenti angioini confermano quanto scriveva il Moricino, poiché il re Carlo d’Angiò ordinò il rifacimento del vecchio arsenale e lo ingrandì con altri 37 edifici, che furono costruiti nel luogo cosiddetto “Pizzuto”, come indicato nei registri angioini (a. 1272 fol. 210).

Vacca critica quindi Ascoli, il quale aveva sostenuto (pag.115) che “Pare impossibile ora con sì pochi dati, e senza alcun vestigio di questo arsenale, lo stabilire la ubicazione, la forma e l’importanza.” Il Vacca, infatti, sostiene che “E’ ovvio riconoscere il luogo detto “Pizzuto” nell’estremità a forma di angolo quasi acuto (“pizzuto” nel dialetto salentino ha questo preciso significato) che nella cortina muraria della città forma uno sperone e che nella Mappa del 1739 è chiamato “Bastione dell’Espontone”, che credo traduzione in spagnolo della dialettale parola “puntone” (angolo, cantone). Il “torrione dello Spontone” esisteva ancora nel 1864. In quell’angolo, dunque, erano i 37 edifici del tarsianatus costruiti dall’angioino.”

Vacca conclude l’argomento sull’arsenale riferendo che “Nulla si sa circa l’epoca del disarmo e della demolizione dell’arsenale”.

Ed è qui che torniamo alla nostra carta di Brandici, che a mio avviso sul tema arsenale risulta essere una testimonianza importantissima. La carta di Brindisi che stiamo esaminando, che ricordiamo è riferita al 1538, non riporta nulla del castello se non, forse, i torrioni già citati, ma mostra invece in grande evidenza l’arsenale nella posizione descritta da Vacca.

L’arsenale era dunque l’unica struttura di origine angioina ancora esistente almeno fino alla data del 1538.  Sono certo che il Vacca avrebbe molto apprezzato questo documento se lo avesse potuto vedere.

Un ulteriore studio sulla presenza e l’evoluzione dell’arsenale ci viene fornita con parecchi dettagli e riferimenti bibliografici anche da Maria Sirago ne il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità in un testo scritto in occasione di una conferenza tenutasi il 31 ottobre 1996 presso la Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi.

Citando i registri angioini (cit. VIII 1272) e Ferrando Ascoli (cit. pag. 111-114) viene evidenziato che nel 1272 Carlo I D’Angiò ordinava che fossero risistemati i più importanti arsenali, tra cui quello di Brindisi. Brindisi in quel tempo divenne infatti il centro della ricostruzione della flotta Regia. Ferrando Ascoli, a pag. 111-114, cita una lettera del 12 aprile 1274, in cui si parla di due officine già costruite per i diversi gruppi di operai addetti all’arsenale e si ordina di costruire 7 piloni e fra un pilone e l’altro sei archi e sulla facciata marina un arco capace di far passare galere e teridi. Poco dopo ordinò di ampliare con altri 17 edifici l’arsenale di Brindisi che, dopo quello di Napoli, era il più importante del regno (Ascoli, pag. 114-115).

Maria Sirago ci dice anche che, nel periodo Aragonese, il re Alfonso decise di potenziare ulteriormente gli arsenali di Brindisi e Taranto, anche perché è a Brindisi che il Grande Ammiraglio, da cui dipendeva tutta la marina del regno, aveva la casa dell’Ammiragliato (C. Massaro, cit. p. 295, e I Schappoli, Napoli aragonese: traffici e attività marinare, Napoli 1972).

Tutto questo a conferma che il nostro arsenale non solo è “sopravvissuto” certamente fino all’epoca Aragonese, ma che invece in quell’epoca veniva ancora potenziato. La sua imponente presenza sulla carta di Brandici lo evidenzia pienamente.

Poiché l’arsenale non è più rappresentato nelle più note mappe del Seicento e poiché lo stesso Moricino scrive “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico Arsenale”, io credo si possa supporre che il disarmo e quindi la demolizione sia avvenuta tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del successivo.

 

Il Castello Svevo – EL CASTEL

Ovviamente non poteva mancare il Castello Svevo di Federico II nella nostra carta. Voluto da Federico II di Svevia fu fatto poi restaurare da Carlo I che, come ci attestano i registri angioini, provvide ad innalzare le torri e costruire un palazzo reale all’interno.

 

Il primo vero e proprio ampliamento si deve a Ferdinando I di Napoli che nella seconda metà del XV secolo fece costruire un’ulteriore cinta muraria, più bassa e spessa della precedente munita di torrioni bassi e circolari.

Il disegno nell’opera che stiamo esaminando è molto semplificato, ma visto il periodo della tavola e visto che sono evidenti le costruzioni all’interno delle mura, desumo che voglia rappresentare il castello con l’inclusione dell’antemurale.

 

Le Colonne Romane, Porta Reale e la Cattedrale – VES COVA

All’interno della cinta muraria appaiono alcuni elementi caratteristici della nostra città, sebbene il loro reciproco posizionamento risulti abbastanza approssimativo.

 

Innanzitutto, troviamo le due colonne romane, stranamente in una posizione piuttosto arretrata rispetto al porto, quasi ad evidenziare la loro centralità (erano già il simbolo della città). Una delle due colonne risulta chiaramente crollata, essendo rappresentata con il solo basamento più una piccola parte ancora eretta.

Siamo esattamente a 10 anni di distanza dal suo crollo, avvenuto il 20 novembre 1528, senza apparente motivo. L’episodio fu pronosticato come l’arrivo di prossime sciagure.

È molto probabile, ma andrebbe meglio verificato, che quello che stiamo esaminando è in assoluto il primo documento della storia di Brindisi a rappresentare graficamente le due colonne romane, di cui una caduta.

In primo piano, davanti all’imboccatura del porto, possiamo osservare chiaramente la Porta Reale fatta edificare insieme alla cinta muraria intorno al 1474 da Alfonso, figlio del re Ferdinando, perciò chiamata Reale, già scomparsa tra la fine del XVIII e l’inizio del successivo.

In posizione leggermente arretrata rispetto alle colonne troviamo poi la Cattedrale, identificata dal toponimo VES COVA, ad indicare appunto la cattedra del vescovo della città, consacrata da Urbano II nel 1089, completata nel 1143 e poi quasi completamente ricostruita in seguito al terremoto del 1743. La chiesa è infatti anche l’unica nella tavola a presentare annesso un grande campanile.

I pozzi o le fontane

All’interno della cinta muraria sono ben evidenti due elementi caratteristici, purtroppo privi di descrizioni o toponimi. A mio avviso rappresentano dei pozzi o delle fontane.

Da quel che sappiamo (Andrea Della Monica Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi) nel 1538 ancora non esistevano fontane vere e proprie che potessero distribuire acqua corrente all’interno della città, queste erano infatti collocate fuori dalle mura.

Si deve infatti al governatore spagnolo Pietro Aloysio de Torres la costruzione, nel 1618, delle condotte finalizzate a portare l’acqua alle prime fontane all’interno delle mura.

Tuttavia,  almeno un pozzo all’interno della città certamente già esisteva dai tempi del periodo imperiale, anche se nel 1885 alcuni esperti in condotte attribuirono la sua costruzione ad epoca medioevale (XIII o XIV secolo). Si tratta del  Pozzo di Traiano che, almeno fino al 1700, era ancora il serbatoio idrico a cui attingevano i cittadini di Brindisi. Il Moricino diceva che Traiano, durante la sua attesa in città prima di imbarcarsi da Brindisi per l’impresa contro gli Armeni e Parti, probabilmente fece costruire il pozzo “che fino al giorno d’oggi somministra copiosissime acque ai Brundusini” (cito Brundarte.it, Via Pozzo Traiano a Brindisi, 13 agosto 2021).

Questo pozzo, quasi certamente in funzione fino a che non furono realizzate le prime fontane, potrebbe essere quello indicato nella figura a sinistra. L’alimentazione era collegabile a sorgive ma analisi eseguite nel 1828 e 1928 evidenziarono la loro non potabilità.

 

Ne troviamo poi un altro sul lato destro, più a occidente, non lontano dalle mura nella zona del castello, ma non riesco a fare alcuna ipotesi in merito.

Entrambi i pozzi sembrano sorgere in delle piazze sulle quali si affaccia anche una chiesa.

 

La città, le fortificazioni e la chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte

Ho descritto tutti i particolari dell’opera a mio avviso degni di rilievo e chiudo la carrellata con un commento generale sulla visione di insieme della città, sulle fortificazioni e qualche ulteriore dettaglio sulla possibile identificazione di una chiesa.

La cinta muraria è perfettamente definita. Era stata appena potenziata da Carlo V intorno al 1530 con la costruzione dei bastioni di San Giorgio, San Giacomo (fuori dalla mappa), i fortilizi e le cortine di Porta Lecce.

 

Possiamo certamente affermare che l’opera di Francesco Tommaso di Salò ci presenta davvero una città dalla cinta muraria appena ristrutturata e potenziata, alla sua massima efficienza, tanto che il nuovo sistema difensivo di Brindisi era ritenuto veramente difficile da espugnare ed infatti i turchi rinunciarono ad invaderla nel 1537.

Sul lato di levante vediamo poi i bastioni ormai scomparsi (probabilmente Bastione Arruinado, Bastione dell’Espontone e Bastione dell’Escorciatore, citati nella famosa mappa spagnola di Amat Poulet del 1739).

All’interno della città, oltre alla Cattedrale chiaramente identificata, si possono scorgere altre chiese grazie alla presenza di una croce sul tetto, ma ritengo sia impossibile attribuire un nome se non con ipotesi piuttosto azzardate che preferisco evitare.

Forse l’unica altra chiesa a cui possiamo dare un nome è quella appena al di fuori dalle mura in prossimità della fine del seno di levante e quindi di Porta Lecce, chiaramente visibile nell’angolo alto a sinistra della figura successiva, che a mio avviso è la Chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte, in stile romanico con annesso un monastero. La chiesa fu fondata da Margarito da Brindisi, ammiraglio normanno, come rilevasi da una lettera di Celestino III del 4 febbraio 1195, e fu un monastero di padri premonstratesi ai quali era affidata l’educazione dei bambini poveri della città. Il grande complesso, secondo Ascoli, fu in gran parte demolito intorno al 1777 durante i lavori di colmamento e bonifica delle paludi e poi distrutta del tutto verso la fine del XIX secolo.

Fuori dalle mura infine qualche casetta nelle campagne ed alcune barche locali nel porto interno.

Le mie considerazioni sugli aspetti topografici terminano qui.  Per tutte le altre considerazioni ed aspetti inerenti quest’opera rimando al libro appositamente dedicatole.

Sono perfettamente cosciente e quasi sicuro di aver commesso anche errori nelle mie interpretazioni, forse grossolani, che spero possano essere corretti da chi ne ha invece le giuste competenze.

Ma il primo obiettivo, quello di comunicare alla mia città l’esistenza di un documento di enorme rilevanza, del tutto assente in tutte le precedenti pubblicazioni e ricerche locali, è stato pienamente raggiunto.  Questo è il mio personale tributo alla città nella quale sono cresciuto.

Ho sentito il dovere di fare il possibile per divulgare, quasi gridare, l’esistenza di questa opera cinquecentesca su Brindisi, al fine di stimolare chi invece ha le competenze e la passione per approfondire molto meglio di quanto abbia potuto fare io, come il rarissimo documento certamente merita.

Accettando qualunque possibile critica, mi auguro vivamente che tutto il mio lavoro sia seguito dall’apporto di studiosi ed appassionati locali, che spero di aver stimolato e che certamente conoscono bene quali fonti, cartografie, documentazioni pastorali, notarili o di qualsivoglia tipo serve interpellare per approfondire gli elementi che provengono da questo documento.

La tavola in questione, se da un lato fornisce tante certezze e trova riscontri storici ben precisi, dall’altro lascia diversi dubbi o meglio curiosità che meriterebbero una risposta o magari l’approfondimento di studiosi preparati.

Ho voluto esplicitare i più evidenti di questi riscontri, lanciando anche qualche azzardata ipotesi, con la certezza che non siano gli unici e con la consapevolezza di non avere gli strumenti e la padronanza adeguati per affrontarli meglio.

Mi auguro che qualcuno voglia esporsi su questi punti che per me restano piuttosto oscuri, aggiungendo le proprie conoscenze e certezze. Il mio è un vero e proprio appello agli storici locali a verificare, rettificare ed integrare quanto da me riportato in queste pagine.

Ed infine il mio è soprattutto un appello alle amministrazioni della Città e della Provincia di Brindisi, affinché vogliano raccogliere e contestualizzare tutte le informazioni possibili per fare tesoro dell’esistenza di questo documento rarissimo fino ad oggi sconosciuto alla stragrande maggioranza dei brindisini e degli appassionati di storia locale.

 

Articolo tratto dal testo BRANDICI – La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce, pubblicazione indipendente a cura di Vito Ruggiero. Brandici di Vito Ruggiero | Cartaceo (youcanprint.it)

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Un commento a BRANDICI. La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce. Gli aspetti topografici della carta

  1. Una trattazione tanto preziosa quanto l’oggetto dell’argomento, nella quale basterebbe un minimo di sensibilità per cogliere i nobili propulsori: l’amore autentico, perché disinteressato, e la rispettosa curiosità per la memoria di chi ci ha preceduto nell’avventura della vita, l’uno e l’altra vivificati dall’altruismo di chi, senza esibizionismo, mette le sue conoscenze al servizio degli altri. In questo spartito perfetto, però, nonostante l’umana debolezza che spingerebbe anche me al compiacimento,sento, quasi come una stonatura, la citazione del mio nome, ma, purtroppo, anche la nota, spero solo per me dolente, dell’appello finale a chi dovrebbe promuovere, immediatamente dopo la salute, la scuola, cioè la cultura. Ma, come fu solennemente e non solonamente sentenziato, con la cultura (quella vera, aggiungo io) non si mangia … ,

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