di Nazareno Valente
Dapprima i fiumi e poi il mare costituirono in epoca preistorica ed arcaica le vie quasi obbligate utilizzate dai commerci, perché rendevano più agile e veloce il trasporto e lo scambio delle merci. Nel mondo occidentale non c’era infatti nessuna città che avesse assunto il ruolo di guida e che di conseguenza potesse farsi garante dell’edificazione e, soprattutto, della gestione delle strade che avrebbero reso più proficua l’alternativa delle vie terrestri. Sicché, sino a quando i Romani, basandosi sulle notevoli conoscenze ingegneristiche acquisite dagli Etruschi, non costruirono un efficace sistema viario di media e di lunga percorrenza, erano fruibili solo tragitti di difficile percorrenza per qualsiasi mezzo di trasporto. E questo favoriva le vie marittime, anche quale usuale itinerario per le comunicazioni, sebbene la navigazione utilizzasse mezzi (le navi) particolarmente vulnerabili in condizioni di tempo estremo, sia per la limitata stazza, sia per la propulsione, imperniata com’era in modo prevalente sulle vele e quindi nella sostanza condizionata dalle bizzarrie del vento.
Proprio a causa di tali restrizioni si andava per mare con estrema cautela, ben sapendo che era fonte di vita ma anche limite alla vita stessa e che inoltre la morte in mare negava uno dei pochi — se non l’unico — diritto allora acquisito, e in aggiunta particolarmente sentito, vale a dire una degna sepoltura. Per questo c’era tutta una serie di regole auree cui attenersi per non andare incontro alle peggiori sorprese. Le principali imponevano che non si prendesse il mare nelle cattive stagioni — di conseguenza d’inverno e in parte dell’autunno le navi rimanevano in terra a secco — e, a prescindere dalle stagioni, se le condizioni del tempo e del vento non erano propizie; che si affrontasse il mare aperto solo quando era strettamente necessario e che si navigasse per lo più tenendosi vicino alle coste — la cosiddetta navigazione di cabotaggio — in modo d’avere la possibilità, se il tempo subiva un cambio repentino, di guadagnare subito la terraferma cercando riparo in una ansa di un fiume o in una insenatura protetta da qualche altura rocciosa dai venti.
Erano questi ancoraggi di fortuna che, nella prospettiva migliore, offrivano solo attrezzature costituite da semplici pali di ferro o di legno a cui le imbarcazioni si ormeggiavano con funi. E la cui funzione primaria di asilo lo si ritrova nei termini portuali usati sia dai Greci, che hanno tutti in senso figurato il significato di rifugio, sia in parte dai Romani che continuarono a chiamare refugia le strutture di tale tipo.
Con l’andare del tempo i punti di ormeggio meglio posizionati lungo i percorsi seguiti dai mercanti furono sempre più attrezzati e strutturati per essere in grado, non solo di dare protezione ai naviganti e ospitalità alle navi, ma anche di offrire i servizi più essenziali di manutenzione e di approvvigionamento idrico ed alimentare, oltre allo spazio necessario per commerciare i prodotti trasportati.
Nacquero così i porti che rappresentavano la fortuna delle città che li gestivano, essendo un bene prezioso e in aggiunta alquanto raro, almeno sino all’inizio dell’era cristiana.
Solo una struttura capace di dare tutte le prestazioni elencate meritava d’essere chiamata dai Greci limén, e dai Romani portus, mentre la postazione che forniva solo i servizi essenziali e le più usuali possibilità di ormeggio veniva chiamata rispettivamente hormos e statio.
Sin dal periodo preromano, lo scalo di Brindisi riuscì ad ottenere questa specie di bandiera blu, visto che gli autori lo nominano sempre chiamandolo, in base alla lingua usata, limén o portus. Nel periodo romano poi si distinse ancor più, tanto da ottenere la qualifica di eulìmenon, letteralmente buon porto, concessa ai soli approdi di riconosciuto prestigio.
Per cogliere però quali fossero in antichità le reali configurazioni del porto brindisino e della città, occorre servirsi di un passo della narrativa antica a cui non è mai stato dato eccessivo peso perché, le poche volte che viene citato, è tradotto in modo talmente generico e convenzionale da non rendere per nulla il reale pensiero del suo autore.
Stando alle traduzioni, un ignoto geografo del II secolo a.C., ricordato come lo Pseudo-Scimno, fa in apparenza un’affermazione del tutto scontata visto che, riferendosi ad un’epoca arcaica, ribadisce qualcosa di già noto a tutti, cioè a dire che «il porto di Brindisi è dei Messapi» («Βρεντέσιoν ἐπίνειóν τε τῶν Μεσσαπίων»1). Asserzione quindi per niente originale, se si pensa che i Brindisini erano per certi versi i Messapi per antonomasia.
Le cose però cambiano radicalmente se, in luogo delle traduzioni, si ricorre al testo originale greco. Appare infatti subito evidente che lo Pseudo-Scimno non utilizza il solito termine generico di limén per caratterizzare l’approdo brindisino, ma quello meno usuale di epìneion.
Per quanto anche il significato principale di questo vocabolo sia porto, il ricorso ad un simile termine era fatto quando si volevano specificare meglio le caratteristiche dell’approdo. In particolare, gli autori antichi lo usavano nei casi in cui si era di fronte a sistemi portuali del tutto caratteristici, vale a dire quando il porto, pur facendo parte integrante della città, ne era al tempo stesso un elemento aggiuntivo del tutto separato. E ciò avveniva quando la città che lo gestiva non era stata edificata insieme sulla costa, ma distante qualche chilometro nell’entroterra. Ed appunto per precisare questa diversa collocazione tra città e suo porto che quest’ultimo veniva definito un epìneion.
In definitiva, diversamente da quanto generalmente si dà per certo, sono propenso a credere che in origine l’abitato di Brindisi era collocato in una zona completamente distinta da quella in cui si trovava il porto e che in definitiva, nel periodo arcaico preromano, la città era posta in posizione arretrata rispetto alla costa, probabilmente nell’attuale zona periferica situata a nord ovest, dalle parti, tanto per intenderci, della Commenda di una volta e del Paradiso.
Solo successivamente l’abitato fu spostato e congiunto al porto, e questo trasferimento avvenne quando i Romani, impossessatisi della città, fondarono nella seconda metà del III secolo a.C. la relativa colonia latina. In tale frangente, oltre a riedificarla secondo propri criteri costruttivi, la ribattezzarono con il nuovo nome di Brundisium, o meglio di Brundusium, riutilizzando di fatto il precedente nome indigeno di Brunda.
Occorre precisare che il porre l’abitato lontano dal suo porto era in tempi arcaici molto più usuale di quello che si possa credere. Basta pensare ad Atene, il cui porto, Il Pireo, era collocato ben distante dal centro cittadino, per comprendere che l’accorgimento era adottato con frequenza.
C’erano motivi di cautela che inducevano a farlo. Un porto era infatti una fortuna e, al tempo stesso, potenziale fonte di guai. Lo si può intuire dallo stesso termine usato dai Romani, portus, che si riconduceva al termine porta, vale a dire la porta delle mura cittadine — ricordiamo che l’uscio di casa era chiamato ianua — e quindi al tipico concetto latino di confine tra ciò che è noto e ciò che è ignoto o anche tra ciò che è favorevoli e ciò che è avverso. In definitiva, al pari del mare, un porto aveva in sé un duplice valore antitetico: apriva ai commerci ed ai guadagni ma nel contempo era un luogo vulnerabile da cui, come una qualsiasi porta cittadina, potevano agevolmente penetrare i malintenzionati, con tutte le brutte conseguenze del caso.
Tucidide, il celebre storico greco, giustificava tale accortezza per la presenza in tempi arcaici di una diffusa pirateria che depredava qualsiasi cittadina collocata sulla costa, riferendo in aggiunta che, sebbene non fosse una tattica più seguita ai suoi tempi (siamo nel V secolo a.C.), le città di più antica fondazione continuavano ad essere situate ancora nell’interno2. E, come già esposto, Atene ne era l’esempio più famoso.
Una inevitabile conseguenza nell’adozione di una simile strategia precauzionale è che l’epìneion era una struttura portuale che si poneva principalmente a difesa della città e, quindi, era una postazione fortificata, munita di solide mura, disponibile eventualmente ad ospitare una clientela selezionata.
Altra inevitabile conseguenza è che, a differenza di quanto ipotizzato da alcuni3, l’approdo brindisino non aveva un ruolo emporico, vale a dire di zona aperta ai commerci. Sebbene questi non fossero certo preclusi, erano però riservati come appena detto ad una clientela scelta in base a consolidate consuetudini o a formali alleanze, oppure limitati alla raccolta ed allo smercio delle mercanzie prodotte nelle zone limitrofe, ed in funzione in ogni caso secondaria rispetto a quella propria di epìneion.
Con ogni probabilità il mondo ionico frequentava l’approdo brindisino e di certo vi approdavano i navigli Ateniesi, facendo parte Atene della ristretta cerchia di comunità con cui Brindisi intratteneva rapporti più che amichevoli sin dai tempi precoloniali, come le fonti letterarie indicano in maniera più che manifesta. Mentre era di sicuro interdetto alle comunità achee e spartane, o doriche in genere, con le quali sussisteva uno stato di belligeranza quasi costante.
In tal senso appare significativo un passo in cui Polibio4 chiarisce in maniera perentoria che, prima della deduzione della colonia latina di Brundisium, il traffico proveniente dalla Sicilia e dalla Grecia era in grandissima parte convogliato a Taranto ed era nei porti dei Tarantini, che i naviganti facevano «i loro scambi e traffici». Oltre a questa esplicita considerazione, lo storico lascia in aggiunta intendere che a questi commerci il porto di Brindisi era del tutto estraneo.
Il che induce ad escludere che in periodo preromano l’approdo brindisino possa essere stato un emporion, nel senso che si dà a questo termine di luogo adibito e destinato principalmente al libero svolgimento di attività mercantili. D’altra parte il fatto stesso che fosse un epìneion fa di per sé cadere una simile ipotesi. Sicché la struttura portuale era munita di una solida cinta muraria che la metteva in condizione di rendere vani eventuali incursioni nemiche.
A differenza di quanto comunemente si riferisce, le mura di periodo messapico non dovevano cingere la sola collinetta collocata a nord della città, di fronte al seno di Ponente del porto interno, ma anche l’area meridionale del centro e la collinetta di Levante. Come infatti già emerso da rilievi archeologici5 anche la zona meridionale risultava in periodo arcaico già abitata. A questo si aggiungono aspetti strategici e di contesto che fanno propendere per una configurazione della struttura muraria ben diversa da quella presunta dalla cronachistica locale6.
Le due collinette erano infatti separate da una depressione (l’attuale corso Garibaldi) che in antichità dava origine ad una terza insenatura abbastanza stretta — alla quale non a caso si dà il nome convenzionale di canale della Mena — che però tagliava per lungo tratto l’approdo brindisino da est ad ovest. Sicché sarebbe stato alquanto imprevidente proteggere la sola zona a nord, lasciando nel contempo parzialmente indifeso il canale della Mena e del tutto senza protezione l’intero seno di levante. Cosa questa alquanto improbabile, se si considera inoltre che la collinetta meridionale si sarebbe trovata in posizione ben più elevata rispetto alla parte meridionale delle mura e quindi in condizione di creare grossi danni se fosse caduta in mano di eventuali assalitori. Un qualsiasi nemico avrebbe infatti potuto approdare indisturbato nel ramo di levante ed avere la possibilità sia di aggirare le mura, arrivando ad aggredire il centro abitato, sia di dare l’assalto al porto con il vantaggio di poterlo investire da una zona sovrastante che rendeva di fatto inutile la stessa protezione delle mura. In conclusione la cinta muraria doveva necessariamente proteggere anche gli approdi della parte meridionale del porto interno, e non solo quelli del ramo di ponente, se si voleva rendere imprendibile l’epìneion.
Alla giusta obiezione che l’estensione delle mura sarebbe stata talmente imponente da creare non pochi problemi per difenderle adeguatamente in ogni settore, si può rispondere ricordando che Brindisi nel periodo arcaico era una città in grado di primeggiare, non solo nel contesto regionale che gli era proprio — si pensi che Floro la dichiara «capitale della regione»7 — ma anche in quello extraregionale — tanto è vero che Trogo la qualifica la città più prestigiosa dell’Apulia («urbs Apulis»8) — e quindi capace di mettere in campo un numero di effettivi non certo banale. Oltre ad aggiungere che i settori delle mura da presidiare in maniera assidua erano quelli che davano sul mare, essendo i soli da dove potevano giungere pericoli improvvisi.
I dati archeologici ed il contesto inducono pertanto a credere con una qual certa sicurezza che il circuito murario salvaguardasse tutte e tre le insenature. Tuttavia non forniscono nessuna indicazione sul percorso seguito dalle mura a sud della città, se non quella del tutto scontata che dovesse contenere al proprio interno la collinetta meridionale il cui apice era situato dove l’attuale via Taranto si affaccia sul porto.
La ricostruzione è pertanto del tutto ipotetica e si basa sull’usuale considerazione che, in alcuni settori (settentrionale, orientale ed in parte sud-orientale), la cinta muraria non dovesse discostarsi più di tanto dal tracciato delle mura romane e di quelle aragonesi. Mentre per gran parte del settore meridionale e, soprattutto, di quello occidentale, il suo percorso dovesse risultare con ogni probabilità in posizione molto più arretrata rispetto a quello delle mura edificate dai Romani e dagli Aragonesi.
In base a queste considerazioni, il circuito delle mura doveva percorrere via Camassa in direzione nord-est quindi, piegando verso sud-est, seguire un tragitto arretrato rispetto a viale Regina Margherita, sino a rasentare il pendio della collinetta dove si trovano le Colonne, per poi arrivare dove ora si trovano i giardinetti di piazza Vittorio Emanuele II. Avrebbe quindi costeggiato entrambe le sponde dell’insenatura della Mena proseguendo successivamente verso sud, sino a raggiungere e superare i pendii di via Taranto e di Porta Lecce. Tra via Gallipoli e via Giovanni XXIII avrebbe cambiato percorso indirizzandosi verso nord, ricongiungendosi così con il settore settentrionale; qui giunto, dopo aver svoltato verso est, seguiva con ogni probabilità via dei Mille e via Sant’Aloy.
Difeso da queste mura viveva l’avamposto della Brunda messapica con il compito di gestire le strutture portuali ed i commerci che si svolgevano con i popoli corregionali ed alleati, garantendo al tempo stesso il centro abitato da sgradite sorprese.
Come già sottolineato, Brunda, che i Greci chiamavano Brentesion, fu congiunta al suo porto quando i Romani, conquistatala nel 267 a.C., decisero circa un ventennio dopo di dedurvi una colonia di diritto latino.
E, come ricordato da Cicerone, fu il 5 agosto 244 a.C. che la Brindisi si collocò per la prima volta sul basso promontorio prospiciente il mare.
Note
1 Pseudo-Scimno (II secolo a.C.), Descrizione della terra, v. 364.
2 Tucidide (V secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 7, 1.
3 Si veda in tal senso g. carito, Brindisi. La storia del mare, Independently published 2022, p. 13.
4 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Le Storie, X, fr. 1.
5 G. Cera, Brindisi in età messapica e romana. Topografia della Città, L’Erma di Bretschneider, Roma 2022, p. 212.
6 G. Carito, Le mura di Brindisi: sintesi storica, in Brundisii res , vol. 13 (1981), pp. 33-41.
7 Floro, Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo, I 15, 1.
8 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo (I secolo a.C – I secolo d.C.), XII 2, 5/11.