di Mirko Belfiore
Della raccolta pittorica sei-settecentesca di Casa Imperiali abbiamo già avuto modo di discutere in alcune recenti pubblicazioni: Gli Imperiali e l’arte. Uno studio sul collezionismo in Terra d’Otranto – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
e
due sedi dove si è cercato di approfondire un argomento ancora poco investigato e utile a comprendere il modus operandi che alcuni membri perseguirono nel collezionare opere d’arte.
Le modalità di accaparramento, sviluppate secondo il gusto e gli stili allora in voga, furono pressoché due: attingere dalla grande fucina artistica della Napoli vicereale e borbonica o fare leva sulle maestranze locali, “allevate” all’ombra del mecenatismo di famiglia e inviate nella capitale partenopea a imparare la maniera. Un chiaro elemento ostentativo che nelle province periferiche del Regno di Napoli venne coltivato come simbolo di potere, ricchezza e ovviamente cultura, un processo che ebbe come massimo esempio il collezionismo della corte reale napoletana.
Ciò che vogliamo condividere invece in questo articolo è un’indagine attributiva che si è fatta strada dopo le prime ricognizioni effettuate sui ritratti conservati nel castello di Francavilla e in previsione del futuro progetto di restauro.
Dopo aver calato dagli infissi i due enormi manufatti (220 cm x 150 cm), i presenti rilevarono fin da subito come il tipo di armatura (lo schema che determina il modo di intrecciarsi dei fili dell’ordito con quelli di trama), la struttura dei telai, la modanatura delle cornici e la tecnica pittorica, nel complesso avessero molti punti in comune. Analizzando più nel dettaglio, si è potuto evidenziare come le due grandi tele dipinte con colori ad olio, risultassero suddivise in quattro scomparti rettangolari realizzati in tessuto di juta e cuciti lungo il lato verticale (quattro su quattro) o orizzontale (due su quattro), una tecnica già in uso nelle botteghe della prima metà del 700’, in particolare per i ritratti di grandi dimensioni. Entrambe le superfici pittoriche risultavano inchiodate su un telaio ligneo fisso di tipo semplice provvisto di listelli di rinforzo agli angoli, che insieme alla cornice di colore marrone e dettagli in simil oro (pesantemente ridipinta e rattoppata in alcune parti), rimandavano a una tipologia realizzativa di matrice ottocentesca, che per motivi di gusto o necessità prese il posto dell’intelaiatura originale sicuramente più raffinata.
Alla luce di tutto questo e ricordando di come la tradizione storiografica giunta a noi ritenga ancora oggi le due tele riconducibili ai feudatari Andrea I e Michele III (quarto e quinto feudatario di Francavilla), l’insieme di alcuni elementi che adesso andremo ad approfondire, concorrono a far emergere alcuni interrogativi, mettendo in discussione una delle due attribuzioni.
Biografia e Iconografia
Se per la tela raffigurante il principe Michele III (1673-1738) sono molti gli indizi iconografici che ne confermano l’attribuzione (primo elemento): il contesto raffigurativo che evidenzia lo status sociale (l’abbigliamento ricco e sfarzoso degli incarichi che lo stesso assunse in vita presso la corte borbonica: Consigliere di Stato, Gran Camerario del Regno, Grandeza de Espagna e Gentiluomo di Camera d’entrata), la forza economica raggiunta dalla famiglia (messa in luce dagli arredi e dall’ambiente aristocratico) e l’innegabile verosimiglianza con gli attuali eredi, per il secondo ritratto raffigurante il nobiluomo ben vestito si aprono gli interrogativi di cui parlavamo prima. La tradizione lo indica come Andrea I, secondo Principe di Francavilla e padre di Michele III, il quale visse fra il 1647 e il 1678 e morì quando il figlio aveva solo cinque anni (secondo elemento). Il personaggio viene rappresentato come un giovane facoltoso, inserito in una complessa ambientazione da cui lo stesso emerge grazie alle luminose nuances del guardaroba, principale evidenza che ne attesta un certo rango. L’indumento in questione prende il nome di velada o giustacuore (terzo elemento) e divenne diffusissimo in Francia verso la fine del Seicento. Successivamente prese piede in tutta la Penisola italiana, da Venezia a Palermo, quando patrizi e borghesi cominciarono a rivaleggiare per farsi realizzare un abito di seta o di velluto dalle precise caratteristiche: aperto sul davanti con ampi bordi e maniche rivoltate, grandi tasche laterali finemente ricamate e slanciato fino all’altezza del ginocchio. In questo lavoro di sartoria, come in molti altri, i maestri del cucito dell’epoca poterono dare sfogo alla loro fantasia, impreziosendone i ricami con cristalli intagliati a imitazione delle pietre preziose o aggiungendo file di bottoni in oro, argento, acciaio brunito o porcellana policroma decorata con fiori o emblema. Il tutto veniva adagiato su una camicia di lino e una camisiola (farsetto di broccato d’oro, d’argento, seta o arabeschi), a cui si aggiungeva uno jabot di pizzo, delle brache (in casimir o nankin) indossate sopra calze bianche di seta, un tabarro (utilizzato solo nei mesi più freddi), scarpe con fibbie e infine un ampio tricorno. Insomma, parliamo di un secolo dove i toni scuri e austeri della moda “alla spagnola” furono sostituiti dai colori accesi e rococò degli habit à la française: il Settecento (quarto elemento).
Ma chi è quindi il secondo uomo (o adolescente) raffigurato?
Se partiamo dal presupposto che sia stato Michele III a commissionare i due dipinti, da questo momento in poi e tenendo presente i quattro elementi di riflessione pocanzi elencati (le conferme iconografiche sul dipinto di Michele III, la giovane età di quest’ultimo alla morte del padre, l’abbigliamento e il Settecento), possiamo ragionare sulle tre diverse ipotesi che emergono dall’incrocio dei dati biografici in nostro possesso, utili a permetterci di provare in via preliminare a dare un volto all’uomo (o all’adolescente) raffigurato nel secondo ritratto incriminato.
Ipotesi uno: Andrea I
Michele III fa raffigurare il padre Andrea I (come tradizione vuole).
Quest’ultimo in vita fu un grande benefattore, ma di lui sappiamo veramente poco. Se proviamo a considerare il fatto che il figlio primogenito Michele III abbia voluto omaggiarlo postumo con un abbigliamento settecentesco (anche se Andrea I visse nel secolo precedente), dobbiamo però ammettere che forti sono i dubbi che emergono nell’osservare i lineamenti molto giovanili del soggetto in questione. Difficilmente si poteva pensare di esaltare un avo defunto e di tale importanza raffigurandolo con i tratti di una figura imberbe, contando poi che Andrea I morì a 34 anni, un’età se vogliamo “vegliarda” per quelle che erano le aspettative di vita dell’epoca. Da non escludere a priori, il fatto che fra le proprietà della famiglia ci potesse essere un dipinto di Andrea I fatto realizzato dallo stesso in vita e poi ereditato dai figli, ma di cui fino ad ora non esistono testimonianze di nessun genere.
Ipotesi due: Andrea II
Nel ritratto non è raffigurato Andrea I, ma il figlio di Michele Andrea II.
Egli visse fra il 1697 e il 1734 ed ebbe con il padre un rapporto molto burrascoso a causa di due caratteri posti agli estremi. Il primo era austero, iracondo e rigido in quelli che erano i doveri verso l’antica stirpe di cui portava fieramente il nome, mentre per il secondo tutto questo era superfluo, avendo un carattere sensibile e aperto al dialogo, qualità che gli valsero fra le altre cose il rispetto dei suoi sudditi. Se da una parte Andrea cedette nell’accettare le nozze imposte dal padre con la principessa Anna Caracciolo (da cui nacque il 7 luglio del 1719 l’amato erede Michele IV), dall’altra parte fece di tutto per fuggire dalla vita di corte, rifugiandosi a Torino in compagnia della moglie fino alla fine dei suoi giorni.
Ipotesi tre: Michele IV
Perché non pensare che il giovane “adolescente” abbigliato alla francese possa essere invece il caro nipote Michele IV (1719-1782)?
Dopo l’uscita di scena del figlio Andrea II, per Michele III l’erede designato e unica grande speranza per il futuro della dinastia in Terra d’Otranto divenne proprio il nipote prediletto, il quale crebbe come successore delle enormi proprietà quanto del forte sentimento di lignaggio che tanto premeva l’illustre capostipite. Lo stesso Michelino una volta prese le redini feudali fece di tutto per non disattendere le aspettative, aumentando il prestigio della famiglia presso la corte borbonica a Napoli.
In conclusione e rifuggendo dalla fantomatica e quanto mai inutile “leggenda” del fantasma nel castello, perché non pensare invece che il bellissimo orologio meccanico sorretto da una coppia di figure antropomorfe, che fa bella mostra di sé alla destra della giovane figura, possa essere un chiaro riferimento al tempo che scorre e alla sua ineluttabilità, un passaggio di consegne fra nipote e antenato, entrambi coinvolti nell’impegnativo governo di uno dei feudi fra i più estesi e influenti del Meridione, una vita spesa fra mille onori e oneri.
A voi la riflessione finale per quello che potremmo definire un cold case “senza vittime”, che potrà trovare soluzione grazie a questo attesissimo restauro, che ci auguriamo venga messo in opera il prima possibile dopo anni di progettazioni e viste le precarie condizioni dei due manufatti; un’operazione che avrà il suo massimo compimento con l’attivazione del laboratorio di restauro allestito in quel palazzo che fu il primo palcoscenico della genesi realizzativa delle due opere d’arte. Attendiamo fiduciosi e consci di come tutto ciò possa scrivere una nuova pagina sul patrimonio pittorico diffuso e a volte troppo nascosto della nostra amata Francavilla: in questo caso e ancora una volta la città degli Imperiali.
Un sentito ringraziamento allo studioso Giorgio Martucci, il quale con il suo lavoro di catalogazione delle opere d’arte francavillesi presente sulla rivista Italia Nostra, sezione messapia, ha ispirato quest’articolo.
BIBLIOGRAFIA
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