di Nazareno Valente
Quando si nomina un’antica regione si fornisce il suo coronimo e, per rendere più chiaro l’argomento, anche una sua caratterizzazione geografica. Nozioni queste che necessariamente si riferiscono ad un momento specifico e non tengono conto delle possibili evoluzioni intervenute nel corso del tempo. Per questo, quando si parla di periodi il cui intervallo è quantificato in secoli, le indicazioni date rischiano di risultare fuorvianti, in quanto si offre una situazione statica, mentre essa è di fatto soggetta a dinamiche che comportano a volte frequenti modifiche di denominazione ed anche di collocazione geografica. Di conseguenza i termini della questione vanno meglio precisati, anche se questo modo di procedere potrebbe far correre il rischio, almeno inizialmente, d’ingarbugliare ancor più la matassa.
Riferendosi alla penisola salentina, gli autori antichi e tardoantichi utilizzavano nomi diversi: Iapigia, Messapia, Calabria, terra dei Sallentini. L’unico che in antichità non le fu mai attribuito è quello di Salento che, invece, è il coronimo che in tempi moderni ha preso piede, spodestando tutti gli altri. C’è in aggiunta da ricordare che Messapia era il nome imposto dai Greci, Calabria quello che i nostri antichi concittadini s’erano scelto e, infine, terra dei Sallentini quello spesso usato dal mondo latino. Sappiamo inoltre che gli abitanti della Calabria — si preferirà nel prosieguo questo termine originato da una libera scelta dei nostri conterranei, rispetto a quello in genere più usato di Messapia coniato ed imposto da chi desiderava colonizzarli — si ripartivano, a seconda della zona d’insediamento in Calabri e Sallentini.
Per quanto riguarda la regione abitata dai Calabri e dai Sallentini, si indica in genere la zona contenuta dall’istmo che unisce la provincia di Taranto a quella di Brindisi, essendo questa di fatto la delimitazione all’incirca coincidente con quella attuale e con quella fatta da Erodoto nella più antica citazione a noi pervenuta1. Ed in effetti in epoca storica, salvo differenze di marginale entità, la Calabria s’è mantenuta sempre entro tali limiti, come rilevabile dalla maggior parte delle fonti narrative dell’epoca. Ciò non toglie che, in periodi antecedenti, la situazione era con ogni probabilità molto diversa, soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti dei Calabri.
Purtroppo l’argomento non ha destato — né desta tuttora — grande curiosità tra gli storici più accreditati, per lo più scoraggiati dalla oggettiva difficoltà di affrontare un discorso del genere per la scarsezza delle fonti utilizzabili, sicché, come logica conseguenza, non si è mai indagato se i Calabri avessero avuto mire diverse dallo stare confinati entro i limiti territoriali già più volte definiti. Ed in effetti sulla questione si ha la disponibilità di pochi frammenti narrativi, in più di difficile interpretazione perché slegati in genere dal contesto, che non sembrano, quindi, a prima vista capaci di fornire un quadro in qualche modo definibile, nemmeno in maniera vaga ed imprecisa.
Ciò nonostante, per quanto limitate e di non univoca interpretazione, le tracce di cui si è in possesso lasciano in ogni caso intravedere realtà talmente interessanti da stimolare ad un loro ulteriore esame, magari con un approccio diverso dal solito e senza i soliti pregiudizi. Per questo si è deciso di affrontare un percorso mai intrapreso prima, se non in maniera embrionale, nell’intento di desumere quantomeno nuovi spunti e nuove informazioni, tutti utili a comprendere meglio l’evoluzione storica delle genti del Salento e, in particolare, dei nostri concittadini Calabri di Brindisi.
Va tenuto infine presente che gli autori latini e quelli greci non utilizzavano una terminologia comune: i primi privilegiavano i coronimi e gli etnici coniati dagli indigeni; i secondi preferivano quelli da loro stessi ideati. Per questo i Latini, riferendosi al Salento attuale, parlavano di Calabria, mentre i Greci di Messapia. In più alcuni autori, obbedendo un po’ alle mode e, soprattutto, alle specificità del proprio tempo, assegnavano agli stessi termini accezioni diverse da quelle canoniche. Ad esempio Livio e Plinio utilizzavano il termine Sallentini in maniera non troppo precisa e, il più delle volte, estesa anche ai Calabri. Per cui, ad esempio, i residenti di Brindisi e di Lupiae (l’attuale Lecce) venivano detti Sallentini, mentre più precisamente erano Calabri. La stessa cosa avveniva nell’uso dell’etnico Messapi, con cui i Greci non sempre identificavano tutti i residenti della nostra terra, ma, in certi casi in prevalenza i soli Calabri. Tali variazioni sul tema andranno sempre tenuti a mente e, se del caso, richiamati, se non si vorrà incorrere in inevitabili incomprensioni.
La Calabria prima della fondazione di Taranto
Alla fine del V secolo a.C. la Calabria combaciava a grandi linee con l’attuale Salento, però la sensazione netta è che prima avesse avuto un’estensione decisamente maggiore. Lo si è già potuto intravedere dai miti che prevedono Diomede come fondatore o come avversario di Brindisi. In essi si è infatti rilevato che l’influenza della nostra città arrivava sino a toccare i possedimenti dei Dauni ed addirittura quella degli Apuli, di cui, a dar credito a Trogo era di fatto la città più illustre2. Se si considera che gli Apuli si trovavano a nord dei Dauni, anche se con questi erano a volte confusi, e che, in ogni caso, occupavano le zone del foggiano, questo fa credere che la Calabria faceva allora un tutt’uno con la confinante Peucezia. Ora, secondo i geografi d’epoca romana, il paese dei Peucezi, o dei Poediculi, a seconda che si segua la terminologia greca oppure epicoria, si estendeva a nord del territorio di Brindisi, sino al fiume Aufidus (Ofanto)3, il che fa presupporre che l’influenza politica di Brindisi andava ben oltre il Salento, occupando anche l’attuale provincia di Bari, e che la Calabria si estendeva di conseguenza sino a quei luoghi.
Il fatto che in epoca remota la Calabria e la Peucezia fossero un’unica entità geografica, emerge non solo dal compendio dell’opera di Trogo — che, occorre sottolinearlo, insieme ad Asinio Pollione faceva parte della frangia di storici che dava una versione non allineata a quella imposta dal sistema augusteo e diffusa dall’opera di Tito Livio, e per questo più interessata alle tradizioni dei popoli soggiogati dai Romani — ma è per altro confermato da un passo di Dionisio di Alicarnasso troppo spesso trascurato. Narra infatti il retore cario che diciassette generazioni prima della spedizione contro Troia, Enotro abbandonò la Grecia4. Insieme con lui era il fratello Peucezio, il quale, «sbarcata la sua gente dalle parti del promontorio Iapigio, che fu il primo approdo da loro incontrato in Italia, vi si stabilì, ed è da lui che gli abitanti di quella regione sono chiamati Peucezi» («Πευκέτιος μὲν οὖν, ἔνθα τὸ πρῶτον ὡρμίσαντο τῆς Ἰταλίας, ὑπὲρ ἄκρας Ἰαπυγίας ἐκβιβάσας τὸν λεὼν αὐτοῦ καθιδρύεται, καὶ ἀπ’ αὐτοῦ οἱ περὶ ταῦτα τὰ χωρία οἰκοῦντες Πευκέτιοι ἐκλήθησαν»5).
Secondo questa versione, appare pertanto evidente che in epoca mitologica i Greci usavano il coronimo Peucezia per indicare la Puglia centro-meridionale comprendente quindi la Peucezia e la Calabria d’epoca classica. Va inoltre rilevato che in effetti questa testimonianza non è nemmeno unica, essendoci altri scritti, anch’essi trascurati perché ritenuti oscuri dalla critica storica, che propongono una stessa ipotesi. In particolare Liciniano, nell’epitome fatta da Solino, afferma che la Messapia, poi conosciuta come Calabria, aveva tratto origine dal Greco Messapo tuttavia, inizialmente, Peucezio, fratello di Enotro, l’aveva chiamata Peucezia («Liciniano placet a Messapo Graeco Messapiae datam originem, versam postmodum in nomen Calabriae, quam in exordio Oenotri frater Peucetius Peucetiam nominaverat»)6. E pure Plinio il Vecchio, parlando della Calabria, riferisce qualcosa di analogo: «I Greci la chiamarono Messapia da un condottiero e, prima ancora, Peucezia da Peucezio, fratello di Enotro, che si era stabilito nella terra dei Sallentini» («Graeci Messapiam a duce appellavere et ante Peucetiam a Peucetio Oenotri fratre in Sallentino agro»7).
Liciniano e Plinio il Vecchio dettagliano pertanto ancor più il discorso di Dionisio di Alicarnasso rendendo note le dinamiche che avevano interessato le terre dei nostri concittadini, ponendo però in chiaro che il primo nome usato dai Greci per identificarle era stato Peucezia e, solo in seguito, Messapia.
In pratica alla situazione canonica della Iapigia suddivisa in Daunia, Peucezia e Calabria (o Messapia per dirla come i Greci) se ne contrappone una, valida con ogni probabilità prima dell’inizio della colonizzazione greca, nella quale i Peucezi ed i Calabri sono un tutt’uno e, in più, in non buoni rapporti con i Dauni. Ora, considerato che secoli dopo, al tempo di Strabone, come lo stesso autore pone in rilievo8, i popoli dei Peucezi e dei Dauni vivevano in sintonia ormai accomunati in una stessa regione, chiamata Apulia, c’è da ritenere che tali dissidi fossero sorti in precedenza a causa della politica aggressiva dei Brindisini e dei loro tentativi di allargare il proprio raggio d’azione. E che così fosse, vale a dire che i contrasti con i Dauni riguardassero i Calabri e non già i Peucezi, è confermato da un’altra annotazione fatta da Strabone quando riferisce che i Peucezi ed i Dauni s’allearono ai Tarantini, scesi in guerra contro i Messapi9.
Con buoni margini di certezza, si può in definitiva ipotizzare che in un’epoca passata, per le mire brindisine, la Calabria occupava la gran parte della Puglia centro-meridionale e che Brindisi cercava di estendere i propri domini anche nel nord della Puglia.
Il che sarebbe già di per sé innovativo rispetto a quanto si dice comunemente sull’argomento.
Ancor più sorprendente è, tuttavia, ciò che può desumersi da altre fonti narrative sinora dimenticate, le quali lascerebbero in aggiunta intuire che in epoca remota Brindisi avesse esteso i propri domini anche su entrambe le coste della Calabria attuale e che successivamente, sia pure molto ridimensionata dal flusso coloniale acheo e lacedemone, fosse rimasta stanziata in alcune località della Siritide almeno sino all’inizio della seconda metà del V secolo a.C.
Già da altri scritti, che hanno avuto la fortuna di essere ampiamente esaminati, si sono potuti rilevare evidenti segnali che, prima dell’arrivo dei Parteni, la zona di Taranto era abitata da Brindisini. Lo fa sapere in maniera esplicita Strabone ricordando che Brindisi s’era vista togliere gran parte del suo territorio dai Lacedemoni venuti con Falanto («Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων»10). Ma anche Trogo, per le parti conservate nel compendio di Giustino, dà una medesima informazione nel momento in cui annota che chi era stato depredato e scacciato dagli invasori tarantini aveva poi trovato riparo a Brindisi11.
Lo testimonia in aggiunta l’antichissima via istmica, utilizzata poi dai Romani per tracciare l’ultimo tratto della via Appia, che univa Taranto a Brindisi, la cui esistenza sarebbe risultata inspiegabile12, se a quel tempo i Brindisini non avessero esercitato una indiscussa egemonia nella zona. Allora non si facevano infatti molte vie, e quelle poche erano tracciate dalle città esclusivamente all’interno del proprio agglomerato, per lo più lontane dalle zone di confine: se Brindisi, prima dell’arrivo dei coloni, ne aveva costruita una sino a Taranto è un palese indice di come poteva disporre a suo piacimento di quelle terre. Per ovvi motivi di sicurezza, nessuna città costruiva di fatto vie in zone che non poteva controllare con certezza.
Ritornando al passo di Strabone c’è da rilevare come il geografo sottolinei che in quella occasione i Brindisini persero gran parte (πολλὴν) del loro territorio. Cosa che fa già pensare all’eventualità che Taranto non fosse l’unico possedimento a cui Brindisi dovette rinunciare a causa dell’arrivo dei coloni. Quali queste terre possano essere state, impossibile dirlo con precisione. Tuttavia una qualche ipotesi è possibile formularla, riesaminando i tanti passi ritenuti impenetrabili e, forse, troppo in fretta messi da parte e scarsamente valorizzati. Senza dubbio tali insediamenti arrivavano addirittura sino nel Bruzio, termine che sarà usato in maniera impropria per indicare la parte meridionale della Calabria attuale, al solo fine di non creare confusioni terminologiche con la Calabria antica. Va infatti ribadito che a quel tempo un simile termine non era stato ancora coniato, in quanto si usava la locuzione ager Bruttius per indicare la terra dei Brettii, solo in tempi successivi definita Bruzio.
Le fonti narrative dimenticate e La Brentesía
Sebbene la possibilità di uno sconfinamento degli Iapigi dalle proprie sedi storiche faccia parte degli avvenimenti presi in considerazione dagli storici, la questione è sempre stata presentata in maniera vaga, quasi si trattasse di eventi di scarso rilievo che, semmai accaduti, erano dovuti a circostanze del tutto occasionali o fortuite. Invece non sembra che così sia stato in realtà: lo certificano brani che, per quanto noti, hanno però il difetto di non avere un contesto definibile, neanche da un punto di vista cronologico. In pratica sono notizie che non si sa come collocare nel tempo e nello spazio.
C’è un passo di Strabone, più volte citato ma mai esaminato per quello che potrebbe implicare, che dà memoria dell’insediamento degli Iapigi ben oltre la prima fascia costiera del golfo ionico fino a lambire il Bruzio. Parlando della fondazione di Crotone, Strabone aggiunge appunto senza alcun preambolo: «A dire di Eforo, prima, a Crotone abitavano gli Iapigi» («ᾤκουν δὲ Ἰάπυγες τὸν Κρότωνα πρότερον, ὡς Ἔφορός φησι»13). Riporta quindi l’informazione en passant, ponendola in alternativa alla versione ufficiale, ampiamente accettata da tutti di Crotone colonia degli Achei, quasi che l’annotazione di Eforo fosse solo una lontana congettura. Di primo acchito sembra pertanto una semplice illazione o addirittura una invenzione che πρότερον (próteron), vale a dire prima o forse meglio anticamente, rispetto all’arrivo degli Achei, Crotone fosse stata abitata dagli Iapigi. E forse proprio per questa sensazione, dovuta a come Strabone presenta la notizia, se l’indicazione data da Eforo è ritenuta poco attendibile e meritevole d’essere accantonata senza eccessivi scrupoli.
Eppure per certi versi l’affermazione di Eforo trova una sia pure imprecisa conferma in altri autori.
In due frammenti di Ellanico, conservati rispettivamente in Stefano Bizantino14 e Dionisio di Alicarnasso15, viene infatti narrato che gli Ausoni, antichi abitanti della zona, furono costretti a lasciare le proprie terre scacciati dagli Iapigi ed a emigrare in Sicilia. Dal che si può evidentemente desumere che gli Iapigi s’impossessarono delle località abbandonate dagli Ausoni. Ellanico precisa pure quando il fatto avvenne «nella terza generazione prima della guerra di Troia, nel ventiseiesimo anno del sacerdozio di Alcione ad Argo» («τρίτῃ γενεᾷ πρότερον τῶν Τρωικῶν Ἀλκυόνης ἱερωμένης ἐν Ἄργει κατὰ τὸ ἕκτον καὶ εἰκοστὸν ἔτος»16), vale a dire presumibilmente nel XIII secolo a.C.
In aggiunta lo stesso Strabone menziona, nelle vicinanze di Crotone e del Capo Lacinio17, oggi Capo Colonna, l’esistenza di tre promontori chiamati espressamente Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκραι τρεῖς») che non si capisce perché avessero conservato dopo secoli un tale nome, se gli Iapigi non avessero mai vissuto in quei paraggi.
Sebbene queste informazioni abbiano goduto d’una certa fortuna tra gli addetti ai lavori, esse non sono mai state utilizzate per indagare sulle dinamiche cui fu soggetta la società degli Iapigi. Né a maggior ragione lo sono state quelle che godono di poca considerazione perché facenti parte di brani incomprensibili e che la critica ha ritenuto meritevoli d’essere emendate, a causa di ipotetici errori di trascrizione da parte di un qualche amanuense distratto.
Iniziamo da quella che, pur contenendo una notizia di rilievo per la nostra indagine, non è stata neppure mai presa in considerazione.
Tra le tante questioni dibattute dagli storici c’è quella riguardante la Megale Hellas, vale a dire la Magna Grecia, che pone problemi geografici (quali zone essa comprendeva?), cronologici (quando il termine fu coniato?) e di altra svariata natura. Nell’ampia e vivace discussione che ha fatto seguito, viene a volte citato un passo della “Chrestomazie”, un’epitome comprendente molti brani dell’opera di Strabone18, per affermare che la sola area del Capo Lacinio — promontorio distante pochi chilometri da Crotone — sarebbe stata definita Magna Grecia dai discepoli di Pitagora, per il fatto che vi aveva lì soggiornato il loro maestro. E sin qui parrebbe che non ci sia nessun aggancio con il nostro argomento, in quanto si parla espressamente d’un soggiorno avvenuto press’a poco vicino al Capo Lacinio della Brettia, vale a dire del Bruzio («ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἄκρον τῆς Βρεττίας»).
Però una noticina fa sapere che, in effetti, il testo originale non riportava «ἄκρον τῆς Βρεττίας» (promontorio della Brettia) ma «ἄκρον τῆς Βρεντεσίας» (promontorio di Brindisi) e poiché Brindisi non si trova vicino al promontorio citato, la lezione Βρεντεσίας (Brentesías) è stata ritenuta un errore del copista e, di conseguenza, emendata senza tante discussioni in Βρεττίας (Brettías).
I Veneti a questo punto potrebbero per certi versi dire che xe pèso el tacòn del buso, letteralmente, è peggio il rammendo del buco, come dire che, nella fattispecie, la correzione appare forse ancor più scorretta dell’errore. Infatti il termine inserito non pare coerente al periodo, vale a dire il VI secolo a.C., in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, per il semplice motivo che se Brindisi, seppur collocata in tutt’altra zona, almeno esisteva, i Brettii non avevano ancora fatto la loro comparsa nella storia e, di conseguenza, non esisteva ancora una regione chiamata Brettia.
Di là, però, dalla correzione magari inappropriata, appare in effetti strano questo accostamento del Capo Lacinio con Brindisi, anche se andrebbe osservato che il termine emendato, Brentesías, sembrerebbe piuttosto un coronimo, e quindi riferirsi ad una regione più che ad una città. Come se l’autore avesse voluto dire, non tanto un promontorio della città di Brindisi, ma piuttosto della regione brindisina o del brindisino. In ogni caso, Brentesías è un toponimo di cui non si hanno precedenti riscontri e che non è dato di sapere se sia stato coniato al momento dallo sconosciuto compilatore dell’epitome oppure se da lui ripreso da un autore più antico.
Tuttavia, andando a valutare altri riscontri letterari oscuri ci si può imbattere negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone” contenenti sviste dello stesso tipo. Vero che si tratta di evidenze letterarie tarde, attribuite come sono ai fratelli Tzetze, grammatici bizantini del XII secolo, tuttavia presenti in commentari di epoca precedente — a volte anche imperiale — per cui sono informazioni antiche o tardo-antiche Ad esempio in uno è affermato «e consacrerà ad Atena Iapigia ovvero Calabra, dea del bottino e della guerra, un cratere bronzeo da Temesa, città della Calabria»19 e come si può notare il vocabolo Iapigia è usato come sinonimo di Calabria, e quindi nell’accezione tipica del periodo antico. In un altro si afferma espressamente che Temesa è città della Iapigia ovvero della Calabria e quindi, in definitiva situata nel Salento.
Sappiamo però che Temesa non si è mai trovata nel Salento, essendo ormai assodato che essa era una città degli Ausoni sul litorale tirrenico della Calabria attuale, proprio nel versante opposto a quello in cui si trovano Capo Colonna ed i tre promontori Iapigi. Se non bastasse, lo stesso errore è contenuto in un altro scolio, dove ancora una volta Temesa è presentata come città dell’antica Calabria20, e non del Bruzio.
L’aspetto curioso è che questa strana dislocazione di Temesa non compare solo negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone”, ricorre pure nei commentari all’opera di Omero fatta da Eustazio, arcivescovo di Tessalonica e pubblico professore di eloquenza. Infatti, parlando della Temesa citata appunto da Omero nell’Odissea, il retore ci fa sapere che si tratta della Temesa italica: «Come ora alcuni dicono Brindisi» («Τὸ νῦν ὥς τινές φασι Βρεντέσιον»21). E, poco oltre, utilizza anch’egli il termine usato nelle “Chrestomazie”, vale a dire «ἡ Βρεντεσία»22 (la Brentesìa), lasciando chiaramente intendere che si riferisce ad una regione; non ad una città.
C’è da sottolineare che ad un lettore moderno Temesa potrebbe risultare del tutto sconosciuta. Così non era invece in antichità. Il fatto stesso che ne avesse addirittura parlato Omero, indicandola meta ambita dai Greci per l’approvvigionamento del rame, l’aveva resa leggendaria, soprattutto tra i letterati, i quali ne facevano motivo di approfondite discussioni. Il dibattito era in particolare incentrato sulla sua collocazione geografica, lasciata vaga da Omero: c’era così chi la considerava una città cipriota e chi la riteneva italica. Detto che alla fine la ricerca storico-archeologica è stata concorde nel riconoscere che l’antica Temesa fosse in Italia, e precisamente tra i fiumi Oliva e Savuto, nella parte centrale della costa tirrenica dell’attuale Calabria, resta il fatto, a prima vista sconcertante, che c’era chi, prevedendola italica, l’accostasse come detto a Brindisi che si trovava in una regione completamente diversa.
Ora a tutti può capitare di sbagliare ma che inciampassero nello stesso banale errore rinomati intellettuali del periodo imperiale, i fratelli Tzetze, ignoti epitomatori e, in aggiunta, celebri retori pare qualcosa di poco credibile. Anche perché, a ben guardare, i più non affermavano che Temesa si trovava in Calabria, nelle vicinanze di Brindisi, ma che essa era, al pari di Brindisi, città Calabra. In definitiva non sembra parlassero del suo posizionamento geografico, che con ogni probabilità davano per scontato fosse il Bruzio, né desideravano identificare l’antica Temesa con la Brindisi del loro tempo ma, con ogni probabilità, solo sottolineare un qualche altro aspetto che collegava le due località.
Quale fosse questo legame, è tutto da stabilire; tuttavia tra le tante risposte possibili una sembra la più plausibile: si considerava Temesa città Calabra perché in tempi remoti essa dipendeva politicamente dai Calabri provenienti da Brindisi. In altre parole, si può ipotizzare che, prima dell’avvento dei coloni achei e lacedemoni, Brindisi avesse esteso i suoi domini sino a Crotone — come per altro ricordato da Eforo che, nello specifico, aveva parlato più genericamente di una occupazione iapigia della città — e che nel suo territorio era compresa anche la città di Temesa. In definitiva il collegamento tra Temesa e Brindisi era dovuto al fatto che la prima si trovava nella Brentesìa, vale a dire nella zona in cui i Calabri di Brindisi erano egemoni.
Messe così le cose, risulterebbe più comprensibile pure il passo di Strabone, quando menziona i tre promontori Iapigi23 collocati in territorio crotoniate, e quindi Iapigio; si darebbe valore pure ai frammenti di Ellanico, quando narra di una offensiva verso sud degli Iapigi che avrebbe costretto gli Ausoni a migrare in Sicilia e a lasciare quindi l’uso del loro territorio agli invasori. Consentirebbe infine di ripristinare la lezione Βρεντεσίας, emendata come visto in Βρεττίας. nel passo delle “Chrestomazie” che dichiarava il Capo Lacinio facente parte del territorio brindisino, oltre a chiarire il perché dell’uso di un coronimo per indicare un’entità, Brindisi, a cui non ci si rivolgeva mai considerandola una regione.
Più in generale l’ipotesi formulata — opinabile quanto si vuole ma, viste le premesse, del tutto coerente con esse — non appare per nulla priva di consistenza, anzi è supportata da testimonianze talmente concrete da renderla più che verosimile.
Il riesame dei vari brani rende in definitiva evidente come i Calabri di Brindisi esercitassero una qual certa supremazia all’interno dei gruppi iapigi e, sia pure in modo sfumato, delinea il quadro delle loro eventuali conquiste. Chiarisce inoltre che gli interessi di Brindisi s’erano rivolti non solo a nord dell’istmo che l’univa a Taranto, come si può evincere dai miti di fondazione relativi a Diomede, ma anche oltre la fascia costiera tarantina e la Siritide, sino a toccare i litorali della costa nord del Bruzio, come i passi rivalutati sul Capo Lacinio e su Temesa lascerebbero intuire.
Infine, potrebbe essere letto in questo senso anche il famoso frammento di Varrone, reso noto dalla Pseudo-Probo sulla genesi della nazione salentina, che si riporta per intero perché in parte talmente indefinito che può dare luogo a diverse interpretazioni. «Nel terzo libro delle Antichità umane [Varrone] così riferisce: “Si dice che la nazione Salentina si sia formata a partire da tre luoghi, Creta, l’Illirico, l’Italia. Idomeneo, cacciato in esilio dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi, giunse con un folto esercito nell’Illirico presso il re Divitio. Ricevuto da lui un altro esercito, e unitosi in mare, per la analogia delle loro condizioni e dei progetti, con un folto gruppo di profughi locresi, strinse con essi patti di amicizia e si portò a Locri. Essendo stata la città evacuata, per timore di lui, egli la occupò e fondò diverse località tra le quali Uria e la famosissima Castrum Minervae. Divise l’esercito in tre parti e in dodici popoli. Furono chiamati Salentini, perché avevano fatto amicizia in mare”» («[Varro] in tertio Rerum Humanarum refert Gentis Salentinae nomen tribus e locis fertur coaluisse, e Creta, Illyrico, Italia. Idomeneus e Creta oppido Blanda pulsus per seditionem bello Magnensium cum grandi manu ad regem Divitium venit ad Illyricum; ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis, Locros appulit. Vacuata eo metu urbe, ibique possedit aliquot oppida et condidit: in queis Uria et Castrum Mineruae nobilissimum. In tres partes divisa copia in populos duodecim Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint»24).
Per quanto in maniera vaga anche Varrone offre un quadro diverso da quello usuale, collocando i nostri antichi concittadini fin nella Locride, dove occuparono appunto Locri, questo perché c’era stata comunanza d’intenti anche con un gruppo di profughi Locresi.
Ne consegue che non è azzardato ipotizzare che Brindisi, prima dell’arrivo dei colonizzatori achei e lacedemoni, fosse una delle principali potenze della zona che divenne poi in buona parte greca.
(1 – continua)
Note
1 Erodoto, Storie, IV 99, 5.
2 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XII 2, 7; n. valente, Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi, https://www.academia.edu/103297158/Brindisi_arcaica_i_miti_di_fondazione_e_le_origini_ateniesi
3 Tolomeo, Geografia, III 1, 13.
4 Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane, I 11, 2-3.
5 Ibidem, I 11, 4.
6 Granio Liciniano (II secolo d.C. -…), Reliquiae, edidit N. Criniti, Leibzig 1981, apud solino, Collectanea rerum memorabilium, II 12.
7 Plinio il vecchio, Storia Naturale, III 11, 99.
8 Strabone, Geografia, VI 3, 8.
9 Ibidem, VI 3, 4.
10 Ibidem, VI 3, 6.
11 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.
12 M. Lombardo, La via istmica Taranto-Brindisi in età arcaica e classica: problemi storici, in Atti: Salento porta d’Italia, Lecce 1989, pp. 167/192.
13 Eforo, fr. 140 Jacoby, apud strabone, Geografia, VI 1, 12.
14 Ellanico (V secolo a.C.), fr. 79a Jacoby, apud stefano bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Sikelìa.
15 Ellanico, fr. 79b Jacoby, apud dionisio di alicarnasso, Antichità Romane, I 22, 3.
16 Ibidem.
17 Strabone, Geografia, VI 1, 11.
18 Chrestomazie, VI 281, 6.
19 Tzetze, Scholia in Lycophronis Alexandram, v. 853.
20 Ibidem, 854.
21 Eustazio di Tessalonica (XII secolo d.C.), Commento ad Omero – Odissea, I 185.
22 Ibidem, I 184.
23 Capi Le Castella, Rizzuto e Cimiti.
24 Varrone, Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, Apud PS –PROBO, in Vergilii Bucolica, VI 31.