di Paolo Vincenti
La fava -nome tecnico vicia faba – è una pianta leguminosa che dà ottimi frutti, ovvero legumi, molto apprezzati specie alle nostre latitudini. Non tutte le varietà di vicia faba sono alimentari, cioè quella che noi mangiamo è la variante major Harz., con semi grossi, 1000 semi di peso superiore a 1000 grammi, il baccello è lungo 15-25 cm ed è pendulo e di forma appiattita e contiene 5-10 semi[1].
Ma perché ci occupiamo di fave? Varie sarebbero le motivazioni dell’articolo. La causa potrebbe essere l’ozio creativo, e sarebbe facile in questo caso rispondere, per via di quelle divagazioni erudite che spesso portano chi scrive a sprecare il tempo in bubbole. Potrebbe essere quella della notizia inedita, l’aneddoto curioso, la “chicca” che non si vede l’ora di divulgare ai pochi e barbogi amici che condividono la stessa amena occupazione pedantesca. A volte, dopo essere stati impegnati nella scrittura di un saggio scientifico con grande dispendio di energie nella ricerca archivistica e bibliografica, ci si vuole alleggerire e per contrasto si passa a dispensare bagatelle di cultura varia, innocenti divertissement, aria fritta insomma, quando la Musa iocosa, per dirla con Ovidio, rivuole la propria parte. E del resto è facile passare da un argomento all’altro per chi si ritrova preda del demone dell’eclettismo: nihil medium est, diceva Orazio nelle Saturae, a qualcuno “manca sempre la misura”, “tutto tutto niente niente”, direbbe Cetto La Qualunque-Antonio Albanese.
La semina delle fave si effettua in autunno o all’inizio dell’inverno, e poi la raccolta si ha in primavera. Nella civiltà contadina del passato le fave costituivano un alimento pregiato e ancora oggi questo legume compare spessissimo sulla tavola dei salentini, cucinato in vari modi, come le fave nette o come il gustosissimo purè preparato con le cicorie e un po’ di olio e divenuto un must per i ristoranti tipici salentini. E già sentiamo il suo inconfondibile profumino suppurare l’ambiente soverchiando quello – che i non addetti ai lavori potrebbero definire nauseabondo – della polvere e della carta rosicchiata dalle tarme. L’ambiente è infatti lo studio nel quale ci troviamo intenti a ponzare questo scritto. Chi ha superato gli “anta” inevitabilmente ritorna con la memoria alle assolate estati di tanti anni fa quando, da ragazzi, si stazionava (alcuni ci vivevano) molto più a lungo nelle campagne e quindi a contatto con quei prodotti che la nostra terra dà in abbondanza. Fra questi, appunto le fave, che noi raccoglievamo direttamente dalla pianta e mangiavamo anche in mezzo all’orto, se la fame era tanta.
Per i salentini la fava è l’ongulu, strano nome per un prodotto così semplice ed elementare. Ne parla Armando Polito in un “gustoso” articolo apparso in rete in cui afferma che «il Rohlfs[2] in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo[3]. Irene Maria Malecore propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino[4]. Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili, è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.[…] Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede[5]. Pure in Plinio (I secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi, al dito […][6]. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio, il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”[7]. Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…) tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione? Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore»[8].
Ma, come suggerisce il titolo, la ragione dell’articolo è quella di raccontare “la rava e la fava”, un modo di dire, più diffuso nel nord Italia, che sta ad indicare una ricerca dei dettagli, ossia della maggiore completezza possibile da parte di chi parla o vuol spiegare qualcosa. Insomma, quella pedanteria, di cui abbiamo detto sopra, che contraddistingue il saputone, il “tuttosalle”, come lo definiva Giovanni Papini, ossia colui che conciona ininterrottamente sui più svariati argomenti e pretende di saperla sempre più lunga di noi e spiegarci tutto[9]. “La rava e la fava”, canta anche Enzo Jannacci (ma in realtà è Paolo Rossi) nella sua canzone I soliti accordi.
Se poi volessimo spiegare l’origine di questo modo di dire, il discorso si fa più complicato. Il Dizionario Hoepli on line dice: «Si può supporre derivi dall’immagine di una pianticella descritta in ogni sua parte, dalla radice al frutto; da qui l’idea di partire dalle cose più importanti per arrivare alle minuzie, senza trascurare nemmeno le piccolezze. Per arrivare alla rima con fava si sarebbe trasformata in rava la voce dialettale “rama”, che in molte località sta per “rami”, quindi frasche e fogliame»[10]. Sappiamo che la ravagliatura è una particolare lavorazione del terreno ovvero un’“aratura più profonda dell’ordinario, eseguita con aratri speciali (ravagliatori) che approfondiscono il solco già aperto precedentemente e riportano alla superficie una nuova fetta di terra”[11]. Così sappiamo anche che il termine “ravanare”, che per assonanza è vicinissimo, significa “negli usi colloquiali, rovistare, rimestare creando disordine; usato anche in senso figurato”[12]. “Nel gergo giovanile andare in cerca di partner”, spiega il Dizionario Devoto-Oli[13]. La Treccani la dice “Voce settentrionale di etimologia incerta. Già attestata nel 1924”[14].
In rete, troviamo una citazione dal libro del grande linguista Gianluigi Beccaria, Il mare in un imbuto Dove va la lingua italiana (Torino, Einaudi, 2010): «raccontare la rava e la fava (all’origine l’espressione era un richiamo tipico dei fruttivendoli ambulanti di una volta, che insieme a frutta, verdura, vendevano anche «rape e fave»), vale a dire ‘raccontare di tutto, ogni cosa nei dettagli’, ‘una storia senza fine’. Una volta pronunciato rava, la fava nasce come una eco del significante che precede, e l’insieme del sintagma nel complesso sembrerebbe voler abbracciare, racchiudere specularmente una totalità, voler raccontare appunto ‘di tutto’»[15].
Una supposizione è che “da ravanare che si riferisce ad un metodo complesso di preparazione del terreno per alcune colture, quindi il detto la rava e la fava indica un discorso che parte da una base complessa e si sviluppa addentrandosi minuziosamente nei particolari”[16]. Insomma dalla rava alla fava il passo è lungo, almeno quanto quello dall’Italia settentrionale dove la voce è più attestata, all’Italia meridionale, in cui la fava, specie se unita al formaggio, scaccia tutti i cattivi pensieri, comprese le dotte disquisizioni di illustri dialettologi.
E alla fava sono attribuite l’etimologia del nome Puglia da alcuni commentatori dell’opera di Benjamin di Tudela, un viaggiatore ebreo spagnolo del XII secolo che nelle lunghissime peregrinazioni toccò anche la Puglia e Terra d’Otranto[17]. Secondo Tudela il nome Puglia deriverebbe da Pul, un nome biblico che compare in Isaia (66, 19), come mitica terra in cui un giorno Dio avrebbe inviato i suoi messaggeri. Tudela si rifaceva all’opera ebraica Sefer Yosefon in cui personaggi e nomi biblici vengono trasferiti nella storia di Roma, d’Italia e di altre regioni d’Europa[18]. Tuttavia alcuni commentatori di Tudela, come Benito Arias Montano e Costantino l’Empereur lessero pol, fava, facendo derivare il nome Puglia dall’abbondanza delle fave che caratterizzerebbe questa regione[19]. Ed ecco infine la notizia sfiziosa, con cui si vorrebbe dar la baia al lettore provveduto che se è arrivato fin qui lo ha fatto non per interesse colto ma solo per il gusto malsano di stroncare poi l’articolo appena ne avrà l’occasione.
Note
[1] Notizie tratte dalla rete.
[2] Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Galatina, Congedo editore, 1976, Vol. II, p.787, in Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
[3] Francesco Ribezzo, in «Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità», Napoli, v. 14, 1930, p. 108. Scrive Polito:“il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos”: Ibidem.
[4] Irene Maria Malecore, Proverbi francavillesi, Firenze, Olschki, 1974, p. 87. “Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttvia, rimane in alcune varianti: vùngulu, vùgnulu)”. Ibidem.
[5] Plauto, Epidichus, v. 623, in Ibidem.
[6] Plinio, Naturalis historia, XXXIII, 4: Ibidem.
[7] Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 32, 5: Ibidem.
[8] Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde, cit. Anche nel Dizionario dei dialetti del Capo di Leuca è riportato òngulu per “baccello verde della fava”: Gino Meuli, I Dialetti del Capo di Leuca, Galatina, Grafiche Panico, II Edizione, 2006, p. 191.
[9] Paolo Vincenti, Il saputone, in Idem, Italieni, Nardò, Besa Editore, 2017, pp. 185-186.
[10] Origine di: “La rava e la fava”, https://italian.stackexchange.com/questions/8704/origine-di-la-rava-e-la-fava
[11] Treccani on line, https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/ravagliatura/
[12] Treccani on line, https://www.treccani.it/vocabolario/ravanare_%28Neologismi%29/
[13] Devoto Oli Vocabolario della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Maurizio Trifone, Milano, Mondadori, 2015, p.2296.
[14] Treccani on line, cit.
[15] Origine di: “La rava e la fava” https://italian.stackexchange.com/questions/8704/origine-di-la-rava-e-la-fava
[16] Ibidem.
[17] L’opera di Benjamin di Tudela (1130-1173), Sefer ha-Masa’ot, ovvero Il libro dei viaggi, è considerata la prima relazione di viaggio di un europeo in Asia, dunque precedente a quella di Marco Polo, per questo molto importante per gli studiosi. Una delle versioni più recenti dell’opera di Tudela, che ha avuto una enorme fortuna critica nei secoli, è: Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa‘ot), a cura di Giulio Busi, Firenze, Giuntina, 2018.
[18] Cesare Colafemmina, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, in «Archivio Storico Pugliese», 28, 1975, p. 84. Lo stesso Colafemmina però in nota precisa: “Da notare che la lezione Pul del testo ebraico di Isaia viene dai critici corretta in Put sulla scorta di alcuni mss greci e della Vetus Latina. Put indicava una regione molto probabilmente situata sulla costa africana del Mar Rosso. Pul era anche il secondo nome di Tiglat Pileser III, re di Assiria (745-727 a. C. Cf. 2 Re 15, 19, 1 Cron 5, 26)”. Ivi, p. 84, nota 10.
[19] Ivi, p.84, nota 11.