di Giovanna Falco
Santa Croce e la Controriforma
Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2], è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.
Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.
La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563). Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Le cerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.
La possibilità di costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Le cerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].
La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.
A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 – non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Le cerimonie dei Monaci Celestini.
Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio, rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).
Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.
Note
[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.
[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.
[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.
[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono nel 1574) cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.
[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.
[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.
[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).
[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna 1590).
[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.
Per la prima parte vedi qui:
Molto interessante, lei conosce la storia della nostra terra.