Dialetti salentini : “iata a” o “iat’a”?

di Armando Polito

Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.

Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.).
Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione)  può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’a mme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jata forma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.

Sulle orme del Rohlfs si muove il Garrisi.

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