di Armando Polito
Il passato ha sempre registrato l’attività truffaldina (altro attributo non so riservarle) di non pochi storici, soprattutto locali. Nardò può vantare un campione probabilmente insuperabile, Giovanni Bernardino Tafuri, la cui attività di produttore di documenti falsi è ben nota agli studiosi. Un falsario può essere spinto ad esercitare la sua nefasta attività da una miriade di motivi, tutti, però, riconducibili ad un illecito profitto, non necessariamente da identificare nel denaro. Quest’ultimo nel caso del Tafuri non gioca un ruolo diretto e personale (non ne aveva certamente bisogno); sono piuttosto altre le motivazioni, forse un pizzico di narcisismo (che manca solo nelle cosiddette bestie, nei vegetali e nei minerali …), la frequentazione di cattive compagnie (il compagno di merende Pietro Polidoro), l’intento di nobilitare le memorie patrie col fine di accrescere il prestigio della chiesa neritina, con tutti i vantaggi, anche economici, connessi. Siamo alla prostituzione più vergognosa di ciò che ci distingue, si dice, dalle cosiddette bestie, la conoscenza, quella autentica, che parte da dati reali, non inventati, anche se, poi, la loro interpretazione, sempre operata in buona fede …, resta, deve restare, libera.
Sistemati gli storici, passo ai divulgatori, che hanno una responsabilità di cui spesso, soprattutto quelli sedicenti, non si rendono conto.
E siamo ai letterati, intesi in senso ristretto, nella cui produzione la fantasia e, dunque, la finzione e l’invenzione hanno un ruolo fondamentale.
Ho lasciato per ultimi i lettori, destinatari, in fondo (è proprio il caso di dirlo, dell’attività dei primi tre e sempre più esposti al rischio di essere presi, questa volta ancora più in fondo, per i fondelli.
Tutti, però, si avvalgono, giustamente, degli strumenti che il loro tempo offre, per cui, se fino al recente passato la realizzazione e diffusione (e, dunque, la lettura) delle opere a stampa era molto limitata, oggi i mass media, nel bene e nel male e soprattutto con l’avvento della rete, hanno drasticamente contratto i parametri del tempo e dello spazio nella diffusione della conoscenza, ma, nel contempo, hanno dilatato in maniera esponenziale le possibilità di errore, equivoci, ambiguità e truffe.
Questa premessa è indispensabile per comprendere correttamente il titolo di questo post, quanto sto per argomentare e per collocare i protagonisti al posto giusto.
Qualche giorno fa, avendo incontrato il toponimo Tre casi nella lettura di un manoscritto (autentico ed inedito) del XVI secolo (nell’immagine di testa il ritaglio della carta dell’originale, al quale ho aggiunto il rettangolo evidenziatore del toponimo qui coinvolto), ho avvertito la necessità di aggiornare le mie conoscenze circa il suo etimo. Chiunque utilizzi la rete per le sue indagini sa benissimo che i motori di ricerca in casi simili ti portano dritto dritto, bene che ti vada …, a Wikipedia, a meno che uno non punti, subito dopo la comparsa del primo link, al filtro Libri.
E proprio da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Tricase#Origini_del_nome) riporto fedelmente con un copia-incolla quanto vi si legge:
” Tricase, anticamente forse denominato Treccase, poi Trecase, successivamente Tricasi o Tricasium, dovrebbe il suo nome all’unione di tre casali differenti che, unendosi, avrebbero dato origine ad un unico nucleo abitativo[7]. L’etimologia più accreditata tuttavia traduce il nome Tricase come inter casas, vale a dire, un paese formatosi in mezzo ad altri casali[8]. Secondo una nuova tesi, sostenuta dai documenti portati in luce dal ricercatore in studi Bizantini Giovanni U. Cavallera, l’origine del nome non avrebbe un’etimologia latina bensì greca, facendone risalire la genesi a Demetrios Tricás, giovane funzionario dell’Impero Romano d’Oriente, incaricato di monitorare la situazione del Capo di Leuca[9].“
Per farla completa, riporto di seguito anche il testo delle note:
“[7] Secondo gli storici Tasselli, Micetti, D’Elia e Marciano.
[8] Mons. Giuseppe Ruotolo, Ugento – Leuca – Alessano, Siena, Editore Cantagalli, 1952.
[9] Cavallera U. Giovanni, Il viaggio di Tricàs, 2018”
Senza perdere tempo con le due precedenti (peraltro, la prima chiaramente incompleta nella sua sommarietà, oltre al fatto che gli autori risultano citati non in ordine cronologico, in parole povere, alla rinfusa) mi soffermo sulla nota 9 connessa con la parte di testo che ho colorato in rosso, evidenziato col grassetto e sottolineato (se potevo fare di più, fatemelo sapere …). Lì per lì mi sono pure vergognato di non essere a conoscenza di questa nuova tesi (!). Siccome non mi fido nemmeno di me stesso, ho voluto, come al solito, controllare e ho trovato in rete la riproduzione del libro citato (https://www.google.it/books/edition/Il_viaggio_di_Tric%C3%A1s/QhZpDwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=IL+VIAGGIO+DI+TRICaSE&pg=PA4&printsec=frontcover). Nonostante fosse parziale (le prime 22 pagine e l’ultima, la 91, contenente l’indice), essa ha fatto diventare quasi certezza i pesanti dubbi (a cominciare da quello iniziale sul passaggio Tricàs>Tricase) che via via emergevano. Mi hanno colpito, nell’ordine:
1 Il sottotitolo Un inedito bizantino dell’XI secolo, in cui spicca quell’intrigante inedito, che evoca subito l’idea di un manoscritto antico.
2) Il fatto che la stampa è stata curata da una di quelle aziende, spuntate come funghi in questi ultimi anni, grazie alle quali chiunque può pubblicare qualsiasi cosa, purché paghi. Ma, in riferimento al punto 1, se si fosse trattato di un saggio, perché l’autore, non nuovo a pubblicazioni scientifiche, avrebbe dovuto operare una scelta editoriale che condannava questo suo lavoro a non comparire registrato, come gli altri, in OPAC e, tutt’al più, godere dell’effimera gloria delle solite passerelle (https://www.facebook.com/photo/?fbid=1947615412021901&set=il-viaggio-di-tricas-di-giovanni-u-cavalleria-sabato-1-dicembre-scuderie-di-pala&locale=it_IT)?
3) Un’intera pagina ospita la pubblicità di un’azienda con il contributo della quale è detto chiaramente essere stato realizzato il libro.
4) La presentazione, in cui si fa una frittura mista, molto indigesta già al primo assaggio, di Romei, imperatore Basilio, un Giovanni, magistros e didaskalos, ultimo fra i grammatici (che si presenta come traduttore del testo in greco del manoscritto) e un Alessandro, gloria dei Domenicani. Chi, come me, ha avuto la fortuna di vivere in tempi in cui a scuola era obbligatorio leggere I promessi sposi, ricorderà senz’altro che il Manzoni nella parte introduttiva s’inventa l’esistenza di un dilavato e graffiato autografo, dal quale avrebbe poi deciso di tratto le vicende del suo romanzo.
5 L’attacco del testo vero e proprio, il cui stile e lessico Giovanni, per rendere più credibile per qualche secondo in più il tutto, avrebbe dovuto antichizzare: Il sole sorgeva dietro i monti dell’Epiro delineando lo scuro profilo della rocca di Dyrrachion …
Nonostante fossi più che certo delle mie conclusioni tutt’altro che benevoli per il furbesco sottotitolo, la mia, forse congenita, peccaminosa e perversa mania di accuratezza e precisione ha finito ancora una volta per prevalere. Così, pur non nutrendo nessuna speranza di trovarvi non dico la riproduzione di qualche carta dell’inedito bizantino, ma almeno qualcosa di vero, come la confessione dichiarata, sia pure alla fine, di un’invenzione, nelle Annotazioni e nella Nota storica che si leggono nell’indice, ho comprato il libro, la cui lettura integrale ha ulteriormente confermato ciò di cui ero più che certo. In aggiunta debbo dire che l’autore avrebbe fatto meglio, ma si tratta di un gusto mio personale, a chiarire da subito la natura del lavoro (onde diradare la nebbia del sottotitolo) nella controcopertina, occupata dalla solita, stucchevole scheda personale, che ormai accompagna tutte le pubblicazioni col pretesto di presentarsi educatamente prima di entrare in casa altrui, in realtà con finalità autoreferenziali e pubblicitarie. Per quanto riguarda, infine, il dotto corredo delle note, peraltro puntuale ed esaustivo, mi permetto di osservare circa quella dedicata a Trikàs , che sarebbe quanto meno strano che non sia sopravvissuto della famiglia proprio il nome di colui che avrebbe potuto aver dato il nome alla città, a parte il fatto che basare un etimo sulla coincidenza parziale o totale dei fonemi è pericoloso e fuorviante. Questa precisazione mi è sembrata doverosa solo in riferimento a quella velleità etimologica che certamente l’autore non ha, ma che, pur inconsapevolmente (leggi per leggerezza), Wikipedia gli attribuisce.
Il libro, comunque, vivrà, difficile dire per quanto tempo, il suo momento di fasulla gloria scientifica su questa che, purtroppo, è l’enciclopedia più consultata di tutte le altre (compresa la Treccani) disponibili (da un po’ di tempo, però, col ricatto dell’accettazione dei biscotti; io, che non so parlare, chiamo così i cookies. E poi qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia e parecchi ingenui ci hanno pure creduto …) in rete, grazie alla dabbenaggine di chi ha compilato la scheda relativa a Tricase. Tutto questo, lo ribadisco, sicuramente senza che lo volesse l’autore e a tal proposito debbo supporre che alla data odierna egli non ne sia a conoscenza, non essendo intervenuto, se non per una querela, almeno per una richiesta di rettifica, prima che a qualche laureando o a qualche aspirante accademico di ultima generazione venga la tentazione di fare scellerato uso di simile ghiottoneria. Insomma, un caso di malarete, simile a due altri dei quali mi ero occupato alcuni anni fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/13/torre-colimena-wikipedia-ed-altro/) e che, per restare nell’ambito salentino, espone agli stessi rischi della saga su Arthas di Fernando Sammarco. Per Leucasia all’epoca non lessi (né comprai …) il libro: ero meno rincoglionito o sono oggi più dotato di spirito critico, che si nutre di dubbi, suscettibili di diventare certezza o, per quanto umanamente possibile, verità, dopo aver superato i vagli più disparati?
E mi piace chiudere, a dimostrazione che nemmeno a me manca la fantasia, certamente meno raffinata di quella esibita dal creatore di Tricàs, con un messaggio all’estensore della voce wikipediana, che potrà aggiornare pure la scheda relativa a Nardò, aggiungendo, a proposito dell’etimo del toponimo, queste poche righe, possibilmente, se ne è capace, con un copia- incolla, per evitare errori che nel campo della divulgazione, soprattutto scientifica, sono esiziali : Secondo una nuova tesi il toponimo non avrebbe un etimo latino o greca o messapico, e pure tutta l’acqua messa in campo con la radice nar- è, ormai, acqua passata sotto i ponti, per giunta sporca, ragione per cui va buttata, mentre il bambino, cioè l’etimo, è tra le braccia sicure di Armando Polito il (ri)cercatore, per qualcuno presto ricercato(re), abitualmente di funghi e casualmente di manoscritti, come quello dell’età della pietra da lui rinvenuto in una caverna. Esso conserva il ricordo di Odràn (i genitori l’avevano chiamato Udràn, ma era stato proprio lui a cambiarlo in Odràn perché il suono della u gli sembrava più cavernicolo di quello della o), giovane cavernicolo dotato di capacità profetiche, appassionato di enigmistica, nonché di italiano antico e poetico (odràn), come mostra il suo nome, udite!, udite! (l’aveva pronosticato …), letto all’incontrario.
A breve, non appena avrò trovato uno sponsor all’altezza per la pubblicazione del saggio già pronto, sarà mia cura inviare tutti i dati necessari per la doverosa integrazione con una nota bibliografica.
Buongiorno, questo articolo mi ha fatto pensare all’utilità di un “repertorio della bibliografia inaffidabile” nella quale iscrivere i libri e gli articoli contenenti informazioni errate con la relativa recensione giudicante che evidenzia le informazioni errate pubblicate.
La facilità di produzione bibliografica permette a chiunque di stampare il proprio libro; forse questi scrittori sono incoraggiati dalla consapevolezza che sono pochissime le persone che leggono i libri oltre al titolo e a qualche didascalia delle figure…
Finalmente! Uno studioso non provinciale/curiale/domestico della Cultura Salentina, inflazionata dalla presunzione di conoscenza di tanti studiosi (anche accademici, aggettivo sostantivato ormai di moda) del “particular” per il general caporal.