Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi*
di Nazareno Valente
Per i Greci non tutti i barbari erano valutati alla stessa stregua, nel senso che c’era, tra coloro che parlavano un idioma diverso dal loro, chi si distingueva potendo contare su antiche origini in un qualche modo riferibili a quelle greche. È il caso, ad esempio, degli Etruschi e dei popoli che risiedevano in Calabria che, ricordiamo, era la denominazione geografica data dai nostri antichi conterranei alla penisola Salentina — più comunemente chiamata Messapia, in onore del coronimo prescelto dagli “invasori”venuti dalla Grecia e che a quel tempo era abitata dai Calabri (residenti nell’Alto Salento e nella costa adriatica sino ad Otranto) e dai Sallentini (nel Basso Salento e in parte della costiera ionica).
Per Erodoto, i Calabri ed i Sallentini erano ritenuti discendenti dei Cretesi che, sorpresi da una tempesta, erano stati scagliati sulla costa salentina dove, non avendo più le navi per tornare in patria, avevano deciso di rimanere1. Con qualche variante, lo stesso mito era riportato da Conone2, e le stesse origini cretesi venivano assegnate agli abitanti del Salento da Strabone3, da Ateneo4 e da Solino5, Varrone6 e Verrio7 prevedevano, oltre ai Cretesi, il concorso di gente proveniente dall’Illirico e dalla Locride ed infine Plutarco8 aggiungeva ai Cretesi il solo apporto degli Ateniesi. In controtendenza con queste tesi il solo Nicandro di Colofone, il quale assegnava agli indigeni un’origine illirica. Raccontava appunto che Licaone, giunto sulle coste adriatiche con un esercito in gran parte formato da Illiri guidati da Messapio, aveva scacciato chi vi risiedeva e assegnato agli Illiri la regione della Messapia9.
Occorre in aggiunta premettere che le coste del Basso Adriatico erano rimaste estranee all’attività colonizzatrice dei Greci, non già perché questi non ci avessero provato, quanto piuttosto per il fatto che non erano riusciti a prevalere. I Calabri ed i Sallentini s’erano sempre saputi far rispettare ma ciò nonostante avevano dovuto subire l’influsso del mondo greco con cui avevano instaurato un rapporto prevalentemente di carattere commerciale. La via settentrionale, com’era chiamata la rotta che portava i Greci nel Mediterraneo occidentale, toccava pure i centri costieri dell’allora Calabria e, soprattutto, Otranto e Brindisi. Ed era forse da queste frequentazioni che trovavano alimento le leggende di fondazione via via confezionate. Far passare che un certo luogo aveva antiche origini assimilabili alle proprie, era in effetti un modo come un altro per i naviganti di metterci il cappello sopra e di potersi così servire di approdi più affidabili e sicuri. E forse proprio per questo aspetto, Brindisi, allora città di gran lunga la più rinomata della zona, fruiva di un particolare privilegio nella creazione dei racconti di fondazione che utilizzavano per altro anche figure mitiche e non solo generici coloni.
Una delle più fantasiose viene desunta da Stefano Bizantino10, un grammatico di Bisanzio, che faceva derivare il nome di Brindisi («Βρεντέσιον», Brentesion), oltre che dalla classica configurazione del suo porto simile alla testa d’un cervo, da Brento, figlio di Ercole («ἀπὸ Βρέντου Ἡρακλέους»). Quello stesso Brento che incontrollate dicerie vorrebbero addirittura in competizione con il padre nella costruzione delle Colonne, posizionate sulla collina settentrionale della città. Colonne che, in aggiunta, ancora adesso sono spacciate per terminale simbolico della via Appia. Ora, sebbene nessuna fonte narrativa antica dia per esplicito che Brento sia mai stato fondatore della nostra città, lo si vocifera, e la cronachistica locale lo reputa addirittura con certezza tale, ricavandolo in maniera forse sin troppo azzardata dalla sola ricostruzione dell’etimo compiuta da Stefano Bizantino.
Diomede e Teseo tra i possibili fondatori di Brindisi
In quel periodo Brindisi non era un porto molto disponibile agli approdi ed ai commerci generalizzati, malgrado ciò la presenza soprattutto ionica vi era tuttavia evidente, rinvenibile per l’appunto nel patrimonio leggendario d’un lontano passato. E forse proprio questa assiduità delle popolazioni ioniche rappresenta di fatto una delle poche, se non l’unica, verità contenuta in questi miti delle origini, insieme alla propaganda di carattere politico e sociale di cui essi si facevano probabilmente strumento. Collegandosi ad età molto indietro nel tempo, i racconti prevedevano infatti il coinvolgimento di personaggi più mitici che storici, per cui per la fondazione di Brindisi gli autori antichi erano dibattuti se assegnarne il merito a Diomede o, addirittura, al leggendario Teseo. Per quanto riguarda il primo, occorre dire che il suo rapporto con Brindisi era però alquanto controverso.
Presentato come eroe civilizzatore, Diomede ricopre il ruolo di ecista in molte leggende delle città della costa adriatica sino all’estremo e misterioso Timavo, per quanto il suo culto era particolarmente vivo in Daunia. Brindisi, se fosse stata da lui effettivamente edificata, risulterebbe la città più a sud della costa occidentale e, in aggiunta, alquanto lontana dalle zone in cui l’eroe comunemente operava in queste vesti. Sebbene siano due le testimonianze che lo vogliono fondatore della nostra città, la più tarda di esse — quella di Isidoro — non è altro che un copia ed incolla succinto della versione di Trogo, pervenutaci tramite Giustino, che è quindi l’unica ad avere un certo valore documentario.
Nella sua epitome di Trogo, Giustino narra appunto che, «durante la spedizione compiuta in Italia da Alessandro il Molosso, il condottiero epirota fece per prima guerra agli Apuli. Tuttavia dopo aver saputo di quanto era avvenuto in passato alla loro capitale, decise di fare pace e di stipulare accordi con il loro re. Allora, infatti, capitale dell’Apulia era Brindisi, città fondata dagli Etoli guidati da Diomede, condottiero assai stimato e noto per la fama delle imprese compiute a Troia; costoro scacciati dagli Apuli, s’erano recati a consultare gli oracoli, ottenendo il seguente responso: il luogo che avessero chiesto in restituzione, sarebbe rimasto in loro possesso in eterno. Essi dunque tramite gli ambasciatori e dietro minaccia di guerra, intimarono agli Apuli di restituire loro la città. Ma quando gli Apuli vennero a conoscenza dell’oracolo, massacrarono gli ambasciatori e li seppellirono nella città, che divenne così per essi una perpetua dimora. E così, morti, possedettero a lungo la città, come previsto dal responso. Venuto a conoscenza di questa vicenda, Alessandro, in piena osservanza degli antichi fati, si astenne dalla guerra con gli Apuli» («Igitur cum in Italiam venisset, primum illi bellum cum Apulis fuit, quorum cognito urbis fato brevi post tempore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. Erat namque tunc temporis urbs Apulis Brundisium, quam Aetoli secuti fama rerum in Troia gestarum clarissimum et nobilissimum ducem Diomeden condiderant; sed pulsi ab Apulis consulentes oracula responsum acceperant, locum qui repetissent perpetuo possessuros. Hac igitur ex causa per legatos cum belli comminatione restitui sibi ab Apulis urbem postulaverant; sed ubi Apulis oraculum innotuit, interfectos legatos in urbe sepelierant, perpetuam ibi sedem habituros. Atque ita defuncti responso diu urbem possederunt. Quod factum cum cognovisset Alexander, antiquitatis fata veneratus bello Apulorum abstinuit»11)..
S’è riportato per intero il racconto di Giustino per consentire a chi lo desideri di analizzare in maniera del tutto autonoma il pezzo che contiene un possibile evidente errore. Brindisi era infatti al tempo in cui scrivono i due storici una località della Calabria e non dell’Apulia che, a grandi linee, corrispondeva all’attuale Puglia centro-settentrionale. Non solo, essi la indicano capitale (urbs) dell’Apulia. Ora, salvo che Giustino non abbia travisato il pensiero di Trogo sulla collocazione e sulle funzioni di Brindisi — ma parrebbe alquanto strano trattandosi d’una città tra le più famose e rinomate del tempo — l’unica possibilità è che abbia riassunto il passo in maniera troppo sommaria. Nel senso che abbia tralasciato di riferire, forse considerandole informazioni scontate per i lettori, perché mai Brindisi fosse considerata in quel contesto facente parte dell’Apulia, nientemeno poi nelle vesti di città principale, e come mai si trovasse ad esercitare una simile egemonia. In effetti, come vedremo in uno dei prossimi interventi c’è una possibile risposta a queste apparenti incongruenze, che indurrebbe a credere che con ogni probabilità non si ha a che fare con una svista o, peggio ancora, con un banale errore ma con un’incomprensione dovuta ad un eccesso di sintesi.
Altro aspetto interessante da rimarcare è che in genere erano i barbari a fare le spese di certi sofismi, sopraffatti dall’acutezza e furbizia dei Greci, mentre questa volta sono proprio gli indigeni che mettono in campo in modo perfido l’astuzia, sfruttando a proprio vantaggio il responso degli oracoli e rendendo così vani i tentativi degli Etoli di riappropriarsi della città. In ogni caso, questo fa capire ad Alessandro il Molosso che non si sta rapportando con degli sprovveduti, e ciò lo convince a scendere a più miti consigli ed a desistere dal condurre una strategia troppo aggressiva.
Tranne Trogo ed Isidoro, che però come già riferito non fa altro che copiarlo, nessun altro considera Diomede fondatore di Brindisi, che anzi il più delle volte si trova schierata in campo avverso e viene citata come città a lui ostile.
È per esempio il caso degli “Excerpta Politiarum” di Eraclide Lembo, dove Diomede combatte al fianco dei Corciresi contro i Brindisini12, oppure delle “Metamorfosi”, dove Antonino Liberale, forse ripetendo Nicandro di Colofone, fa intervenire l’eroe greco in aiuto dei Dauni impegnati a guerreggiare con i nostri concittadini ed i Messapi tutti13. In questo secondo caso, è ricordato il mito di Diomede che, di ritorno ad Argo dalle imprese compiute a Troia, viene a sapere dell’infedeltà della moglie Egialea, cosa che lo spinge a partire per l’Etolia. Qui giunto, dopo avervi compiuto l’impresa di rimettere sul trono il nonno Oineo, nel frattempo spodestato da Agrio, decide di ripartire per Argo. Una tempesta lo spinge però sulle terre dei Dauni ai quali dà appoggio nella guerra che stanno appunto sostenendo contro i Messapi, in cambio d’una parte del territorio che sarebbe stato conquistato14. Sbaragliati i nemici, Diomede riceve la terra promessa che distribuisce ai suoi compagni di viaggio15. Sicché più che da fondatore, Diomede si comporta da conquistatore ai danni dei Messapi e, quindi, dei Brindisini.
È da sottolineare che anche in questa occasione, i Brindisini parrebbero trovarsi fuori dal loro habitat usuale, perché occupano, all’arrivo dell’eroe greco, il territorio che in epoca storica era dei Peucezi, e non dei Messapi.
A parte questo, messi insieme i vari racconti, si può evidentemente desumere che Diomede strappò ai nostri concittadini parte del loro territorio, dove ebbero modo di stanziarsi gli Etoli che l’accompagnavano nelle sue peripezie; in seguito, tuttavia, i Brindisini si riappropriarono delle zone perdute riuscendo a scacciare gli invasori.
Molto più accreditato come fondatore appare così Teseo, sia per numero di testimonianze, sia per l’approccio che egli mostra d’avere con il territorio che intende colonizzare.
Il primo a parlarne è Strabone il quale ricorda che anche Brindisi, come altre città dell’allora Calabria, fu fondata dai Cretesi, solo che per essa giravano due diverse versioni: la prima rinviava a Cretesi giunti da Cnosso con Teseo; la seconda a quelli che ritornavano dalla sfortunata spedizione condotta da Minosse in Sicilia («Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος (λέγεται γὰρ ἀμφοτέρως)»16). In entrambi i casi, però, questi Cretesi non rimanevano a Brindisi ma finivano per abbandonarla intenzionati a dirigersi verso la Bottiea («οὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν»17).
In altra parte della sua opera Strabone precisa che non tutti, ma solo alcuni (τινὰς) di essi avevano poi raggiunto a piedi la Macedonia, dopo aver fatto il giro della costa adriatica, e si erano stabiliti lì assumendo il nome di Bottiei18.
In maniera molto più poetica il fatto è narrato anche da Lucano il quale, riferendosi a Brindisi, la dice «città un tempo posseduta dai coloni Dittei che, profughi da Creta, navi cecropie trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto» («urbs est Dictaeis olim possessa colonis, / quos Creta profugos vexere per aequora puppes / Cecropiae victum mentitis Thesea velis»19). Ora i Dittei, non sono altro che i Cretesi — Ditte è infatti l’antico nome di un monte di Creta — e, con la locuzione navi cecropie, il poeta intendeva indicare navi ateniesi, essendo Cecrope il mitico primo re di Atene. In pratica Lucano inserisce la fondazione di Brindisi da parte di Teseo all’interno della leggendaria impresa da questi compiuta per sconfiggere il Minotauro e, di conseguenza, liberare Atene dal tributo dovuto a Creta.
Più esplicito in tal senso è l’anonimo Secondo Mitografo Vaticano il quale narra20 che Atene, sconfitta da Minosse, era stata costretta a consegnare ogni anno ai Cretesi sette fanciulle e sette giovani perché fossero abbandonati nel labirinto di Cnosso e servire da pasto del Minotauro. Nel quarto anno, quando la nave che doveva trasportare le vittime era già pronta nel porto, Teseo, figlio del re ateniese Egeo, decise d’imbarcarsi a sua volta per risolvere la questione. Invano il padre cercò di dissuaderlo dall’impossibile impresa; ottenne solo di poter consegnare al nocchiero un nero vessillo da mettere sull’albero più alto della nave, con l’intesa, che qualora avessero sconfitto il Minotauro, sarebbe stato sostituito da una bandiera bianca. Teseo, con l’aiuto di Arianna, riuscì nell’impresa ma nessuno si ricordò di sostituire il vessillo, sicché, al loro ritorno, Egeo, trovandosi su un altissimo scoglio, vide sventolare la bandiera nera e, credendo che Teseo fosse stato ucciso dal Minotauro, per la disperazione si precipitò nel profondo del mare. Per questo quel mare prese da lui il nome di Egeo, e Teseo, a sua volta, «navigando via dalla patria venutagli ad odio, giunse in Italia e fondò Brindisi» («Theseus vero odio loci inde navigans; ad Italiam venit, et Brundusium condidit»21).
L’alleanza tra Brindisi ed Atene
L’aspetto più interessante da cogliersi nella versione inaugurata da Lucano è che la fondazione di Brindisi da parte dei Cretesi rende più esplicito il collegamento della città con Atene. Per tale motivo, è da ipotizzarsi che questa leggenda di fondazione faccia parte della propaganda ateniese per avanzare un qual certo diritto di possesso del luogo o, quantomeno, una priorità nell’uso del porto brindisino. Si deve infatti considerare che, almeno sino a quando le loro attenzioni non si volsero verso la Sicilia, gli interessi prevalenti ateniesi verso l’occidente erano i più remoti siti dell’Alto Adriatico che presupponevano, per giungervi, di poter fruire della ospitalità dei pochi scali certi che la costa occidentale dell’Adriatico offriva. La propaganda serviva inoltre a dare luce alla città di Brindisi, fiera antagonista di Taranto, a sua volta colonia di Sparta acerrima rivale di Atene, e darle un alone di nobiltà.
Il che manifesta in maniera evidente l’esistenza di un’alleanza tra Brindisini ed Ateniesi, avviata già in epoca arcaica, che con ogni probabilità permetteva a questi la certezza dell’uso dell’approdo brindisino nei loro viaggi commerciali verso l’estremo nord ed a quelli di godere, quando occorreva, dell’aiuto militare nello sforzo bellico compiuto per limitare l’espansione territoriale di Taranto e delle altre città italiote ad essa ostili.
Alleanza a livello istituzionale — occorre ricordarlo — per lo più negata dagli storici che, al massimo, la connettono a casuali accordi stipulati da qualche dinasta calabro, come avvenne nel caso di Artas, facente parte di una preziosa testimonianza tramandata da Tucidide nel contesto della spedizione decisa da Atene per soccorrere la propria armata impegnata con poca fortuna nell’assedio di Siracusa.
Siamo nel 413 a.C. quando Demostene e Eurimedonte conducono la flotta di soccorso raggiungendo le Cheradi, isole dette della Iapigia, dove imbarcano sulle navi centocinquanta lanciatori di giavellotto messapi, forniti appunto dal dinasta Artas, dopo aver «rinnovato un antico patto di amicizia» («ἀνανεωσάμενοί τινα παλαιὰν φιλίαν»)22.
Il passo di Tucidide ha dato origine ad un ampio dibattito esegetico e topografico, in particolare su come debba essere inquadrata cronologicamente la palaià philia (antica amicizia) citata nel testo, e sulla possibile identificazione delle citate isole Cheradi.
Per quest’ultimo aspetto, considerato che nella penisola salentina vi sono solo due gruppi di isole che fanno al caso nostro — o quello di fronte al Mar Grande di Taranto o le Pedagne di fronte al porto di Brindisi — non ci dovrebbe essere grande imbarazzo nella scelta che sembrerebbe obbligata per il piccolo arcipelago brindisino. Le isole tarantine si trovavano infatti in una zona preclusa sia agli Ateniesi sia ai Calabri di Artas, per le ovvie ragioni che la città ionica era nemica giurata di Brindisi e parimenti ostile ad Atene, in quanto colonia spartana e in più alleata a Siracusa. Pertanto le uniche isole adoperabili per l’incontro erano le attuali Pedagne, in territorio calabro. Al contrario gli storici, in maniera forse azzardata, valutano che l’abboccamento e l’accordo tra Artas e gli Ateniesi sia avvenuto in territorio dichiaratamente nemico, tanto è vero che, proprio in base a questa loro certezza, all’arcipelago tarantino è stato attribuito poi il nome di Cheradi. Appare, però, di fatto bizzarro che Artas e gli Ateniesi, pur disponendo di altri luoghi da utilizzare per avere un vertice, abbiano deciso di farlo proprio in territorio nemico. Ne consegue che parrebbe del tutto scontato che le isole citate da Tucidide non possano che essere le Pedagne.
Tale ipotesi è tra l’altro confermata dal fatto che, in un precedente passo, lo storico dichiara espressamente che Taranto e Locri non fecero entrare gli Ateniesi nel loro abitato, né accordarono loro acqua e ormeggio23, e in definitiva impedirono anche il semplice approdo nel territorio di loro competenza. A maggior ragione, appare improbabile che potessero consentire lo scalo ai Calabri di Artas, loro tradizionali nemici.
Altra strana interpretazione viene data in merito al termine “antica” adoperato da Tucidide nell’indicare il patto di amicizia in atto tra Ateniesi e Messapi. A tale termine non viene infatti assegnato il significato che gli è più proprio, vale a dire di qualcosa di avvenuto in epoca remota, quanto piuttosto in un periodo vicino ai fatti narrati. Di conseguenza gli storici sono per lo più categorici nel negare la possibilità che i patti richiamati fossero stati stipulati in un lontano passato. Eppure le poche prove di cui si è in possesso indurrebbero a credere esattamente il contrario.
È storicamente accertato che anche nei secoli precedenti Atene aveva interessi commerciali nelle città dell’Alto Adriatico e, quindi, la necessità di trovare sicura ospitalità nelle poche strutture portuali disponibili sulle coste del versante italiano. Ed in tale ottica grande importanza rivestiva appunto la costa salentina del Basso Adriatico, dove si arrivava dopo avere affrontato il mar aperto: l’impossibilità di fruire di approdi certi in quel luogo avrebbe potuto mettere a repentaglio una navigazione, allora prevalentemente basata sul cabotaggio, e costituire un rischio talmente elevato da precludere ogni possibile viaggio in quella zona. Per cui parrebbe evidente che gli Ateniesi si siano dovuti premunire esercitando un controllo di un qualche tipo sui principali approdi calabri ed in particolare su quello di Brindisi, essendo essenziale per la buona riuscita della loro attività mercantile. Dal momento poi che Brindisi e le località calabre e salentine con essa alleate, seppure influenzate dal mondo greco, non subivano egemonie politiche di sorta, un tale controllo poteva essere attuato solo venendo ad accordi pacifici con la gente del luogo. Per evitare infine brutte sorprese, è evidente che non poteva trattarsi di accordi presi di volta in volta, oppure lasciati al caso o alla volontà di singoli dinasti, quanto piuttosto di intese attuate in maniera organica ed a livello istituzionale.
Ci sono pure riscontri concreti che valorizzano una simile ipotesi.
L’intenso commercio avviato da Atene con Adria e Spina è già di per sé un importante dato di fatto, ma anche il ritrovamento nelle coste adriatiche del Salento e nelle zone limitrofe di ceramica protocorinzia e ionica, rende manifesta la penetrazione culturale greca nella zona e, al tempo stesso, è un chiaro indice di come gli intensi commerci nell’Alto Adriatico non potevano prescindere da una assidua frequentazione dei punti più strategici del Basso Adriatico. C’è poi da rilevare che Thurii, unica colonia della Magna Grecia di ispirazione ateniese, è anche la sola tra le città italiote ad essersi alleata formalmente con Brindisi, come attestato dal caduceo conservato al Museo Nazionale di Napoli. Il fatto che nel V secolo a.C. ci fosse un unico caduceo, e quindi uno stesso araldo, del δαμόσιον Θουρίων (popolo dei Turi) e del δαμόσιον Βρενδεσίνον (popolo brindisino) testimonia di come si fossero subito istaurati buoni rapporti tra le due comunità. In maniera talmente spontanea da lasciare intuire preesistenti e operativi accordi tra Brindisini ed Ateniesi.
In definitiva, i miti di fondazione collegati alla figura di Teseo, eroe di chiara matrice ateniese, rendono evidente come Brindisi ed Atene trovarono naturale allearsi tra loro, condividendo una evidente e comune inimicizia per il mondo spartano.
I miti di fondazione che si rifanno a Diomede fanno invece presagire che forse la storia arcaica di Brindisi vada in parte riscritta. Diversamente da quello che in genere si racconta, prima della colonizzazione greca, l’egemonia esercitata dalla città non si limitava alle località a sud dell’istmo che la unisce a Taranto ed i suoi possedimenti erano, con ogni probabilità, ben più consistenti. Cosa questa che analizzeremo in futuro rivalutando alcuni frammenti narrativi cui la critica storica ha concesso in passato poco credito o scarsa importanza, oppure li ha ritenuti talmente oscuri da alterarne i contenuti, emendandoli.
* Tratto da N. Valente, Brindisi sconosciuta, Grenzi editore, 2023 (in vendita su Amazon https://amzn.eu/d/gmSjIxJ)
Note
1 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, VII 170.
2 Conone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), fr. 1. XXV, apud fozio (IX secolo d.C.), Biblioteca, 186, 25.
3 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 5.
4 Ateneo (II o III secolo d.C.), Deipnosofisti, XII 24 523a.
5 Solino (III secolo d.C.), Raccolta di cose memorabili, 2, 10.
6 Varrone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, apud ps –probo (…), in Vergilii Bucolica, VI 31.
7 Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. II, Londra, pp. 807-808.
8 Plutarco (I secolo d,C. – II secolo d.C.), Moralia, 298-299.
9 Nicandro di Colofone (…),fr. 47 Schneider, apud antonino liberale (…), Metamorfosi, XXXI 1/3.
10 Stefano Bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Brentesion.
11 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo, XII 2, 5/11.
12 Eraclide lembo (II secolo a.C.), Excerpta Politiarum, 27 ed. Polito.
13 Antonino liberale, Metamorfosi, XXXVII 1/3.
14 Ibidem, XXXVII 2.
15 Ibidem, XXXVII 3. Il mito prevede anche conclusioni meno a lieto fine: in una addirittura Dauno contravviene ai patti e, dopo aver consegnato la terra concordata, se la riprende. In questa versione Diomede muore, ucciso da Dauno, ed i suoi compagni vengono trasformati in uccelli simili ai cigni, in Tzetze (XII secolo d.C.), Scholia in Lycophronis Alexandram, vv. 594/632.
16 Strabone, Geografia, VI 3, 6.
17 Ibidem.
18 Ibidem, VI 3, 2.
19 Lucano (I secolo d.C.), La guerra civile, II vv. 610/612.
20 Secondo Mitografo Vaticano (tra il IX e il XIII secolo), II 124-125.
21 Ibidem, II 125.
22 Tucidide (V secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, VII 33, 3-4.
23 Ibidem, VI 44, 2.