Sullo strano caso di tarantolismo esaminato dall’illustre medico cerusico Giuseppe Ferramosca in quel di Muro in Terra d’Otranto il 3 Giugno 1834
di Romualdo Rossetti
Nato a Muro[1] in provincia di Terra d’Otranto il 20 aprile del 1780 da Antonio Ferramosca, di professione medico-cerusico e speziale come lo era stato anche suo nonno Luca, e dalla nobildonna Teresa Foscarini, Giuseppe Ferramosca dimostrò fin da fanciullo di possedere lo sguardo di Asclepio[2] e quell’inclinazione all’esercizio dell’arte lunga ereditata dai suoi avi, tanto da decidere d’intraprendere gli studi medici a soli quindici anni d’età. Nel 1801 si trasferì nella capitale del suo Regno per perfezionarsi nella disciplina medica presso l’Università Regia degli Studi di Napoli. Lì divenne allievo del celebre medico filosofo massafrese Francesco Nicola Maria Andria[3] che lo orientò verso studi di carattere fisiologico che lo avrebbero più tardi avvicinato alla nuova concezione medica, per certi versi rivoluzionaria per l’epoca, legata alle concezioni di Philosophia Naturalis del medico scozzese John Brown che a partire dal 1778 aveva cominciato a elaborare una teoria iatrica detta “brownismo”o “eccitabilismo” basata sull’eccitabilità del cervello e delle fibre muscolari da parte dell’ambiente esterno.
Il medico scozzese si palesò sicuro delle sue tesi al punto da essere convinto che se gli stimoli esterni fossero venuti meno, si sarebbe configurata, conseguentemente uno qualsivoglia patologia fisica. Teorie, le sue che vennero combattute dai maggiori medici inglesi dell’epoca. Nonostante ciò si può affermare che il successo lo ricevette con gli interessi altrove, Italia compresa. Così, sulla scia del medico patologo parmense Giovanni Rasori, che nel 1792 aveva tradotto e divulgato in Italia gli Elementa Medicinae di John Brown, nel 1803, a Napoli, Ferramosca diede alle stampe la sua prima opera scritta intitolata: Il sistema di Medicina di Brown[4].
Secondo il “Brownismo” la vita nella sua essenza non era affatto uno stato normale e spontaneo ma, al contrario, andava concepita come fosse quasi uno stato artificiale, costretto e mantenuto da continui stimoli, per cui le condizioni di salute o di malattia dipendevano dalla dosatura degli stimoli, ovverosia dal grado di eccitabilità dei vari organi. Tuttavia, la pratica browniana palesava, di fatto quanto fosse arduo diagnosticare uno stato di astenia o di iperstenia e eventuali gradi eccitabilità in un paziente. L’accertamento dello stato di salute di un malato si basava principalmente su un’anamnesi di stimoli patiti in precedenza che erano inseriti in una vasta gamma di variabili, come potevano essere: le condizioni climatiche del luogo, il regime alimentare dell’individuo esaminato insieme al suo stile di vita, sulla misurazione del polso e soprattutto su “prove terapeutiche”, atte a esaminare la reazione fisica all’introduzione di sostanze stimolanti leggeri o forti. Secondo terapia browniana era necessaria una stretta e continua osservazione del paziente che di fatto risultava difficile da effettuare tanto in clinica quanto in ambito domiciliare. Oltretutto i trattamenti con stimolanti risultarono ben presto essere molto esosi per tutti quei malati non facoltosi. Anche il problema della dipendenza dalle droghe rischiava di divenire sempre più evidente. Alcuni commentatori contemporanei denunciarono alcuni eccessi di utilizzo di oppio e di alcol che finirono col nuocere ai pazienti. In ogni caso, con la sua enfasi sui trattamenti stimolanti e rinvigorenti il brownismo aveva generato anche dei seri dubbi sul valore della terapia evacuante classica costituita da prescrizioni di salassi, di purghe e di sostanze emetiche. Per molti pazienti indeboliti non solo dalla loro malattia, ma soprattutto dalla classica applicazione della dottrina galenica, risultò senza ombra di dubbio alcuno più vantaggioso un trattamento secondo i nuovi principi browniani. Fu proprio la vicinanza teorica all’eccitabilismo che fece diventare il Ferramosca un attento osservatore dei tanti casi di tarantolismo che ciclicamente affliggevano i contadini della sua terra, come vedremo più avanti nel dettaglio. L’anno seguente, nel 1804, a dimostrazione, del suo interesse per la scrittura e la ricerca medica pubblicò, sempre a Napoli un Trattato teorico-pratico sulla Podagra[5], male che affliggeva prevalentemente la classe agiata.
Al ritorno dalla sua parentesi universitaria partenopea, per la stima dei suoi concittadini divenne sindaco del suo paese dal 1827 al 1831e operò a favore delle politiche igieniche acquisite con l’abnegazione allo studio. Durante il suo mandato amministrativo individuò quale potesse essere migliore area dove erigere lontano dall’abitato il nuovo cimitero. Si scelse l’area adiacente al vecchio monastero basiliano di Santo Spirito che, ripristinato al culto cattolico e affidato alle cure dei Padri Predicatori dal feudatario Giovan Battista I° Protonobilissimo nel 1561[6], tanta fama aveva avuto in passato per la diligenza negli studi teologici e filosofici così come fedelmente ebbe modo di riportare lo storico Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese:
Alla parte del Nord di questo diruto Convento si costruì il pubblico Cimitero, e quest’opera che tanto interessa la pubblica salute, la religione e la mesta memoria dei nostri che furono, venne eseguita non appena gli Amministratori Comunali ne compresero l’importanza e l’utilità. Governava nel 1830 il Distretto di Gallipoli il Sottintendente Filangieri ed il Comune Giuseppe Ferramosca, ed in quell’anno appunto si gettarono le fondamenta del Cimitero.[7]
La dedizione all’arte medica fece sì che intorno alla figura del dottor Ferramosca si consolidasse una sorta di legenda aurea tanto da farlo paragonare a una specie di medico anargiro di antico stampo. Circolava voce che un giorno, udendo per caso, il canto cristallino di un suo emaciato compaesano carrettiere, avesse inviato una sua donna di servizio a fermarlo e a invitarlo nel suo studiolo. Una volta giunti in loco il dottor Ferramosca lo avrebbe invitato a chiudersi in uno stanzino e a defecare in un alto pitale in cui precedentemente aveva disposto sul fondo del latte di mucca insieme ad altre non meglio specificate sostanze. Alle rimostranze dell’uomo, il dottore gli avrebbe imposto la sua volontà riuscendo a liberare gli intestini del malcapitato da un lungo creatura serpentiforme che non si sa come avesse trovato in quelli collocazione. Con gli occhi di oggi, molto più disincantati di quelli del popolino agricolo di quel tempo, quel lungo essere serpentiforme altro non sarebbe stato che una taenia che da parassita naturale aveva colonizzato, a causa delle scarse condizioni igieniche alimentari, l’intestino del malcapitato carrettiere.
Fu presumibilmente intorno alla prima estate del 1834 o alla mezza estate precedente[8], che giunse a Muro presso il suo ambulatorio una donna proveniente da Otranto che lamentava varie tipologie di sofferenze, in primis un forte bruciore alla laringe. Il dottor Ferramosca ebbe modo di annotare tutto ciò che accadde in sua presenza per pubblicarlo poi presso una prestigiosa rivista medica milanese a cura di Carlo Giuseppe Annibale Omodei intitolata Annali Universali di Medicina. In quella sua nota diligentemente descrisse quanto segue:
Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile: si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e di uno sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua sofferenza. Le sostanze fetide aggravavaano le sofferenze, le quali non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da un altro medico, otto giorni dopo il principiar del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed i frequenti conati al vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto dietro uno sforzo di vomito e di tosse si vede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella. Sorpreso il dottor Ferramosca, cominciò ad indagare in qual modo la tarantola potè cacciarsi nella gola di quella donna, e rilevò, che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto con alcune sue giovani compagne, e colà avendo la prima trovato un grappolo di uva primáticcia già quasi maturo, pompa avendone fatto, accorsero le compagne perché di mano glielo togliessero, ed ella fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte, senza aver tempo di ben frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini d’uva. Il carattere dignitoso e grave del signor Ferramosca, già noto qual distinto pratico per varj suoi medici articoli, non permette che abbia a ritenersi questo fatto come immaginato per esaltare gli animi degli appassionati del tarantismo.
Il singolare caso esposto dal Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina del 1835 sollevò la critica dell’opera di Carlo Giuseppe Annibale Omodei che ebbe modo di addurre alcune interpretazioni divergenti, proprie del mondo medico di altre zone della penisola italiana, riguardo l’effettiva utilità di quella terapia coreutica (il ballo) da sempre ritenuta dai medici pugliesi come l’unica capace di placare le sofferenze dei tarantolati. Si esibì come riprova anche la testimonianza del dottor Migliari che esaminando un caso di morsicatura da tarantola nel bolognese ebbe modo di osservare una ben diversa evoluzione della malattia che non vide certo il malcapitato ballare come accadeva invece nel Salento, il che lasciava supporre che la terapia coreutico-musicale appartenesse proprio all’etnos dei pugliesi e non a quello di altri popolazioni:
Cosi ancor la pensa il chiarissimo cav. Migliari, il quale per altro lungi dall’accreditar l’opinione volgare, che la tarantola costringe a ballare coloro che ne sono morsicati, inclina a credere, che la danza sia l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella indescrivibile smania, che al pari di quanto accade in altre malattie di cruccio, obblighi li pazienti a varj non indifferenti movimenti, che col saltellamento incominciano onde ritrarre dal dolore qualche sollievo. Inclina altresì a credere, che il ballo sia in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi, e non del morso della tarantola, e che il suono sia il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Confermasi egli in questa idea nel riflettere, che nel giovine morsicato dalla tarantola nel Bolognese (di cui esso parlò a pag. 99 del suo Osservatore Medico per l’anno 1825) si riscontrò in vece irresistibile tendenza al sonno ed estrema prostrazione di forze, e che senza ricorrere, anzi neppur pensare alla musica, guarj con rimedj tolti alla farmacia…
Nell’articolo degli Annali si rincarò la dose di deplorazioni riguardo quella terapia antiscientifica adducendo come riprova altre prestigiose testimonianze che ne smentivano, di fatto, l’efficacia:
…nel riflettere al coraggio del dottor Sanguinetti, che osò farsi dalla tarantola mordere nella più ardente stagione, senza riportarne alcun male: nel riflettere , che li due infermi ( O. M. pag. 144 , 1827 ) del dott. Spizzirri, di Marano, in Calabria, risanarono senza liuti, senza chitarre e senza medico, avendo ad essi un di quei ciurmadori apprestato un bagno coi vapori di vino aromatizzato; nel riflettere, finalmente, che il Wirtzmann in Odessa, ove si trovano molte tarantole, osservò pure, che i morsicati provavano del sollievo nell’eseguire un moto che ha qualche analogia col ballo. – Non volendo però noi defraudare i nostri leggitori della conoscenza di altri aneddoti, che hanno avuto luogo sul proposito, diremo, che il chiarissimo prof. De Renzi[9], nei 45 giorni, pei quali s’intertenne nella capitale della Francia, eccitato da lettera d’invito del dotto Segretario dell’Accademia di Medicina di Parigi, comunicò a questa il suo lavoro, di cui rendemmo conto nel cennato vol. LXVIII di questi Annali. Nel che la prelodata Accademia adottando un dottissimo rapporto dei suoi commissarj Andral e Virey, trovò riprensibile e quanto era stato detto circa talune particolarità nella storia naturale della tarantola, e riguardo alla etimologia di una tal voce, che intorno alle mediche conchinsioni da lui dedotte. Opinarono li valenti Commissarj Virey ed Andral Seniore (Numero XII 1834 dell’O. M. del chiarissimo cav. Migliari, e. num. XLIV. Agosto 1834 del Filiatre Sebezio), che gli aragni arabi comunicano nel morso un veleno col quale uccidono anche dei piccoli vertebrati, ma ch’essi fuggono l’uomo;
2.º che in niun’altra regione la tarantola è pericolosa;
3.º che i sintomi, che attribuisconsi alla tarantola, si debbano ripetere dall’amore, dalle passioni ardenti, ecc.
Al che anzi ne aggiugne il De Renzi, che il sig. Delle Chiaje non ha trovato nelle tarantole un apparecchio ghiandolare proprio per segregare un veleno, ma soltanto l’apparecchio ghiandolare comune. Li giornali francesi han trattato l’argomento, ciascuno secondo la sua opinione, senza tutti pro nunziarsi per la negativa assoluta. Resa poi di pubblico di ritto la istoria del dottor Ferramosca nel num. XII dell’O. M., di cui è qui parola, venne al prof. De Renzi drizzata una lettera anonima, che fu da lui nel quaderno di agosto 1834 del suo Filiatre originalmente trascritta, ed in cui figuravano alcune riflessioni critiche sulla Memoria del dottor Ferramosca.
Ma in risposta a queste critiche osservazioni altra lettera anche anouima è stata spinta al medesimo signor De Renzi, il quale bramoso di letteraria discussione che tenda alla ricerca della verità, bramoso di preferire i fatti alla sua propria opinione ed il bene della umanità al suo amor proprio, si è tosto dato premura inserirla nel fascicolo di gennajo corrente anno 1835 del suo Filiatre senza comento alcuno , riservandosi (son sue parole) di trattare più lungamente a suo tempo questo argomento.
Or delle due Note degli Anonimi in censura ed in apologia del Tarantismo, non che in censura ed in apologia del fatto riferito dal Ferramosca si avrebbe qui ora a tenere ragionamento critico. Siccome per altro ognun vede, che trattasi di un fatto, in cui non può portarsi giudizio senza dipendere dalle osservazioni altrui, cosi amando di rimetterci a chi voglia e sappia consultare con sana filosofia l’istoria dei fatti nella patria del tarantismo, attenderemo la novella gita, che colà si propone di fare sul subbietto il prof. De Renzi; ovvero attenderemo che per opera di chicchessia istituite vengano e rese di pubblico conto 320 imparziali osservazioni, ed in buon numero, e nelle debite norme dell’autenticità.
Troviam plausibili i dubbj, e giudizîose assai le riflessioni del chiarissimo estensore dell’Osserv. Medico, l’amico cav. Magliari ed i leggitori nostri il decidano. “Per comun consentimento di tutti si conviene, che il morso della tarantola comincia dal destare un atrocissimo dolore, una indescrivibile smania: ciò posto, qual meraviglia se colui che ne viene affetto cominci dal saltellare pel dolore e con qualche sollievo? E non è questo quanto avviene a chiunque è improvvisamente colpito da un vivissimo dolore? … e dimostra forse tranquilli nel loro letto coloro che sono vessati da forti dolori, specialmente intestinali? Non si vedono essi con sollievo aggirarsi per le loro camere?
Se dunque molte altre malattie spingono gli infermi a non indifferenti movimenti, perché far di questi movimenti un esclusivo fenomeno de’ tarantolati? … In Calabria in Odessa, ecc., il morso della tarantola non è innocuo, spinge gli infermi ad un movimento, ma non al ballo dei pugliesi, e guariscono senza la loro musica: non potrebbe forse star dunque, che il ballo sia l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi e non del morso della tarantola, e che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia?
D’altronde, quantunque sia ben vero, che il chiarissimo Compilatore del Filiatre-Sebezio l’amico prof. De Renzi, appoggiato a due casi non caduti sotto li suoi occhi e che non escono dalla sfera dei già osservati, si mostri nel suo primo lavoro piegato alla conchiusione di riconoscere il tarantismo, nulla di manco confessar fa d’uopo, ch’egli non mira ad accreditare in tutta la estensione loro i pregiudizj del volgo pugliese. Egli vi riconosce la prevenzione, l’esaltamento cerebrale, il prestigio della fantasia la dubbiezza di buona fede bene spesso dei pazienti, l’età della maggiore energia delle passioni. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantate per nascondere più grave ferita che le fa delirare. Ma ben plausibili troviamo li raziocinj di lui, e soddisfacentissima la spiegazione, che da suo pari ci offre dei fatti medesimi, siccome già facemmo riflettere in questi Annali (pag. 337, e seg. del vol. LXVIII).
Dopo le cose fin qui dette, ci asterremo dal portar giudizio qualsiasi sulle Note degli Anonimi più sopra enunciate, e che aggiransi a squittinare e la condizione della tarantola nel caso del sig. Ferramosca, e la condizion dell’esofago, e’ l modo onde in questo s’introdusse, e l’esistenza del veleno tarantolino, e la maniera con cui venne questo innestato nel caso in questione. Ma nella ipotesi di potersi ammettere con sobrietà casi ben rari di tarantismo, e di ammetterli modificati senza l’intervento di veruna moral passione, astenerci dovremo dall’esprimere con ingenuità le nostre dubbiezze sulla essenza del fatto riferito dal sig. Ferramosca? sulla essenza di un fatto, in cui non parlasi di alcun mal essere della paziente , dal sabato (in cui ingoliò il grappolo di uva con la presupposta tarantola) fino all’epoca del seguente giorno in cui venne scossa dal suon dell’organo della chiesa ed in citata al ballo? sulla essenza di un fatto, in cui , per tal modo di riflettere, si svolse la malattia dopo una lunga incubazione della causa ed in un ordine inverso di quadro fenomenologico? sulla essenza di un fatto, in cui sembra desiderarsi l’annunzio di sintomi indicanti il continuato morso o almen più volte ripetuto dal falangio ancor vivente? sulla essenza di un fatto, in cui non manca la prevenzione, essendasi il medico ordinario della famiglia più fiate impegnato a persuader di tarantismo il sig. Ferramosca ? in cui non manca l’energia di una passione amorosa (benchè forse destramente occultata) per tradimento di un amante, che venne pur chiamato a far parte del dramma? in cui da ultimo non mancano perciò i giuochi d’ illusione?
Dir forse non potrebbesi, che la inferma del sig. Ferramosca risanasse per una sagace destrezza della sua familiare in quel modo appunto, in cui risanò quel tale, di cui parla il Muratori (nel suo Trattato della forza della fantasia umana), e che avendosi fitto in mente gli fossero nate le corna saltò guarito dal luogo della magnifica operazione di seghe eseguita da un medico, ANNALI. Vol. LXXIV che gli fe’ veder le sue corna ai piedi? Dir non potrebbesi, che il buon uomo, il sig. Ferramosca (di cui d’altronde apprezziamo i talenti e le cognizioni) siasi questa volta fra l’oscurità delle tenebre lasciato illudere da una fantesca, e che per tal modo (come suol dirsi) abbia stretto al seno una nuvola invece di abbracciar Giunone? (Osserv. Med., Giugno , 1834). (Tonelli).
A ben vedere la stroncatura da parte della rivista omodeiana dell’insolita testimonianza del Ferramosca, nella quale si individuava il nesso scatenante il malessere della giovane donna idruntina nel morso di un ragno sopravvissuto alla masticazione del grappolo d’uva, e la risoluzione dello stesso, tramite l’espulsione fortuita dell’aracnide dalla laringe per mezzo di un colpo di tosse, fosse dipesa dal brownismo del medico murese malamente applicato al caso in questione oltretutto senza l’ausilio di alcun farmaco o terapia idonea e basato solo con l’eliminazione della causa materiale senza aver tenuto in debito conto il coinvolgimento socio-etno-psicologico come, invece aveva suggerito il De Renzi.
Va però, altresì ricordato che, qualche anno dopo la pubblicazione della nota del Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina, sul famoso Dizionario Classico di Medicina Interna ed Esterna edito a Venezia dall’editore Giuseppe Antonelli nel 1839 alla voce Tarantismo, tra le varie ipotesi inerenti alla presunta fattibilità terapeutica coreica e iatromusicale[10] adoperata nel Salento insieme ai riferimenti disincantati del De Renzi che giustamente pose la sua attenzione agli effetti propri del latrodectismo sulla ritualità propria del tarantismo, non mancò di venire riportata per intero la vicenda descritta dal dott. Giuseppe Ferramosca precedentemente trattata dalla rivista di Omodei a dimostrazione che l’opinione medica del tempo non fosse del tutto concorde sulla vexata quaestio. Alla voce Tarantismo quel dizionario riportò:
TARANTISMO, s. m. Indicasi con tal nome una malattia cui dicesi endemica della Puglia, e prodotta dalla morsicatura della tarantola, la quale risulta comune in quelle contrade. Siffatta malattia, aggiungesi essere caratterizzata principalmente da irresistibile tendenza al ballare, o dallo sfrenato desiderio di udire musica. Altri, all’opposto, asserirono che siccome il tarantismo o l’affezione pro dotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formossi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola che veniva espulso mediante il sudore provocato dalla danza. Comunque siasi la cosa, esperienze positive dimostrarono la innocenza della tarantola; forse che, nei paesi meridionali, essendovi certa predisposizione particolare, avvengano alcuni accidenti cerebrali in conseguenza della morsicatura di tale specie di aragno; è però avverato che se esistette od esiste nella Puglia una monomania endemica il cui straordinario bisogno di danzare costituisce il principal sintomo, non la si può attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Le osservazioni sul tarantismo di Puglia, formarono argomento pel dottor Salvatore de Renzi di una sua Produzione recitata nell’ordinaria seduta dell’accademia medico-chirurgica di Napoli il giorno 18 luglio 1832. L’egregio autore diede principio a questo lavoro con una breve, ma elegantissima descrizione topografica delle Puglie, della terra d’Otranto, e singolarmente di Taranto. Colà recatosi per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, volle trarre dalla sua itinerazione un profitto per il pubblico. Tra le numerose osservazioni che gli si offersero, trovò più degne della sua dotta, tenzione il costipo ed il tarantismo. Per costipo ivi intendesi qualunque reumatica affezione acuta, e le malattie di petto acute dal catarro alla polmonia. Vengono in quella regione favorite oltre modo siffatte affezioni per la variabilissima temperatura di quel clima, in cui ciascheduno mira a cautelarsene, tanto più che spesso prendono ivi tai morbi lo stato cronico, tal che le reumatalgie e le tisi, conseguenze di essi, sono fatalmente comuni della Provincia, ed un quarto di quei che scendono alla tomba vi trapassa per tisi in Lecce e Taranto. Stagion non era, in cui potesse l’autore esser testimone degli effetti che produce il morso del phalangio di Aristotele; ma usò ogni cura per prenderne indagini da persone degne di fede, e raccolse numerose spezie dell’animale istesso. È questo un insetto appartenente alla famiglia dei ragni, che presenta l’esterno di diversi coloriti. Ve n’hanno dei neri che sono più temuti, e di maggior volume, e portano la voce comune di saetlone; ve ne sono di bigi, giallicci e variegati. La più bella tarantola presenta l’addomine ed il dorso di un rosso vivo con un solco nero sul dorso; il rimanente del corpo e la grossa testa sono dipinti da una lucida vernice nera, segnata alla parte superiore da due linee bianche; nere sono le antenne, e la proboscide è nera, ma degli otto suoi piedi, i due anteriori terminano con bianco pelame, i quattro seguenti hanno la penultima maggior falange di un rosso di carne, ed i due ultimi sono di color cinerino. Posseggono esse otto occhi, dei quali quattro ne sono invisibili ad occhio nudo, e tengono inoltre due maggiori e due minori mascelle, fra le quali evvi nuda proboscide. Ma egli: “è vero, che il morso della tarantola produca gli effetti che comune mente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi? Ripiglia l’autore, da pochi porsi in dubbio quel che il filosofo del pari che l’idiota assicura no, e che testimonj si presentano quei medesimi, che vi andarono soggetti. Ritiene il volgo muoversi ciascuna tarantola ad un accordo particolare, e che li morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi; e che gli atteggiamenti che colle mani accompagnano il ballo, sono quei medesimi che la tarantola eseguisce colle sue falangi nell’intessere la sua tela. Riferisce l’autore il caso narra togli in Novoli di una bambina, che al terzo mese della età sua venne morsicata dalla tarantola. La bambina ne diviene in sulle prime inquieta, manifesta quindi un inceppamento nel respiro, ed un acuto pianto ed uno stridulo lamento caccia fuori fra le forti inspirazioni. Sintomi soffogativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizj della flogosi locale nel sito del morso, confermano gli afflitti genitori sulla natura della malattia. Si tenta il suono consueto, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione; si fa muovere allora per lungo tratto, finché a bondevole sudore viene a manifestar si sulla cute, e l’innocente fanciulla n’è defaticata, oppressa, avvilita. Coricata, si abbandona ad un sonno che diviene riparatore, e dal quale torna quasi sana ai teneri amplessi materni. Fa per altro osservare l’autore, che sono si oggidì diminuiti nel numero i fatti in confronto di quello narravasi per lo addietro, e che avvengono per lo più i medesimi in persone, della buona fede delle quali può talora dubitarsi, ed in età in cui sogliono le passioni spiegare maggiore intensità. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantolate per nascondere più grave ferita[11] che le fa delirare. Altro fatto interessante ci riferisce l’autore cui venne narrato da un colto medico di Lecce, che molto studio ha fatto sull’argomento, e che si diè perfino a pericolosi esperimenti. Egli avvicinò al piede di un mietitore dormiente una tarantola di quelle cui si attribuisce più efficace veleno, ed uccise poi e nascose l’insetto per non dar campo a riscaldamento di fantasia. Svegliasi il mietitore, e sentesi addolorato nel piede, ove osserva un circolare induramento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa. Fermossi col pensiero che fosse stato ferito da un’ape. Uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso, furono i sintomi che tosto si annunziarono. Oppresso, abbattuto, delirante, trovavasi nello stato il più miserandu, allorchè si tentarono i soliti accordi, i quali svegliarono il ballo consueto, che diè all’infermo compiuta e subita guarigione. E qui avvertasi non esser in tutto lieve cosa il distruggere gli effetti di questo veleno, poiché sovente la vita ne viene tratta all’estremo. Quindi è, che il saggio autore non arridendo all’opinare di alcuni scrittori francesi, che pretesero essere un tessuto di favole quel tanto si narra sul veleno della tarantola, invita a giudicarne partendo dall’esame dei fatti, che devonsi in tali quistioni unicamente consultare, e consultare con sana filosofia. Nè sembrano privi di solidità i raziocinii del dottissimo De Renzi, il quale di questi fatti medesimi emette una soddisfacentissima spiegazione, da suo pari; il veleno della tarantula sembra agire sul sistema nervoso; e quantunque per analogia di effetti possa assomigliarsi a quello della vipera, pur ne offre dei suoi propri e distinti, che annunziano l’azione sua più diretta sul nervo trisplancnico e sue dipendenze; da che le funzioni del respiro ne sono lese fino dal principio, ed una specie di torpore nel sistema muscolare sembra essere la conseguenza immediata del virus. Egli è, ripeto, sul sistema nervoso che si produce una specie di esaltamento, il quale, unito alla prevenzione, ne aumenta la intensità. Riunito per tal modo l’effetto reale del veleno, e l’esaltazione cerebrale, ne insorgono tutti gli effetti nervosi che hanno dello stravagante. Una energia suscitata nel sistema nervoso medesimo mercè della musica, il violento moto che attiva la circolazione ed apre la diaforesi, sono al certo i mezzi di cui la natura si serve per distruggere il morbo. Potrebbe l’arte a tali mezzi sostituirne degli altri, e specialmente de’ farmaci tratti dalla classe dei diaforetici; ma perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero di minor efficacia di quelli che sogliono d’ordinario in quel paese adoperarsi, ove è uopo curare l’effetto fisico del morbo, e quello che ne riceve il morale. Fiancheggia il chiarissimo autore un tale asserto con richiamar l’attenzione agli effetti della musica in sul sistema nervoso. E qui, con fino criterio e scelta erudizione, rammenta di volo, che fatti ne possiede la storia sacra e profana, non che la mitologia. Rammenta i numerosi esempi raccolti da Lictenthal nella sua opera “Sull’influenza della musica sul corpo umano”, ove apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite date malattie convulsive; rammenta gli speciali accordi della musica, con che Drahonnet, ed il professor Ruggieri videro risanati li loro infermi. Onde poi corroborare il concetto di analogia del veleno della tarantola con quello della vipera, accenna trovarsi in San Pietro a Galatina un pozzo, che, secondo la credenza degli abitanti, contiene un’acqua portentosa a guarire gli effetti del morso del falangio. Nè la utilità di quest’acqua si ripete dall’autore dalla sola influenza morale della bevanda, e dalle conseguenze del vomito che quell’acqua vi spiega, ma più dall’ammoniaca, di cui è pregna la medesima, perché raccoglie le acque imputridite della città, e perché ricca di sostanze animali putrefatte. Quindi è chiaro come siasi utilmente amministrata l’ammoniaca da alcuni nel morso della vipera, e come nel morso della tarantola sia stata con vantaggio prescritta dal dottor Giri. Conchiude quindi il nostro autore potersi con ragione affermare, che il veleno della tarantola sia vero e reale; che agisca sul sistema nervoso e sanguigno; che i suoi effetti non sono quasi mai mortali, e che sgombrar si possono mediante un trattamento energicamente diaforetico.
Seguì per intero, poi, la sovramenzionata nota del Ferramosca a dimostrazione della sua importanza sebben non certo del tutto accettata, in ambito medico:
Sul tarantolismo, comparve una nota del dottor Giuseppe Ferramosca, scritta da Muro nella terra di Otranto li 3 giugno 1834. Per riferire in compendio il fatto da essa esposto, ne toglieremo la breve de scrizione dal fascicolo gennajo 1835 del Giornale napolitano il Filiatre Sebezio, «Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in …convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile…
Dopo la dibattuta esperienza del tarantolismo ivi descritta, il dottor Ferramosca non concluse la sua indagine medico-sociale ma, al contrario, proseguì gli studi su altre patologie permanendo fedelmente nel suo indirizzo di ricerca. Dopo la sua nota sul tarantolismo pubblicò un trattato intitolato Sulla Speronetta[12] sul famoso giornale di scienze mediche edica Filiatre Sebezio nel 1842, un saggio sull’Avvelenamento per morso di vipera[13] nel 1834. Sempre per il “Filiatre Sebezio”, nel 1844 una Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro[14]. Molti altri suoi opuscoli vennero stampati su giornali medici francesi.
Il dottor Ferramosca perì in quel di Muro, circondato dai suoi affetti più cari il 16 aprile 1867. Lo storico murese Comm. Luigi Maggiulli, come riportato a pag. 152 della sua Monografia di Muro Leccese, lesse un elogio funebre dato poi alle stampe presso la tipografia Garibaldi di Lecce nel 1867 a cura del nipote del valente medico il Sig. Ettore Ferramosca.
L’autore ringrazia sentitamente il Dott. Antonio Basurto, suo fratello Avv. Alvaro Basurto – ultimi eredi del dottor Ferramosca -, il Dott. Marco Imperio, la Dott.ssa Angelica Serra, la Dott.ssa Emanuela Zitti e il Sig. Gigi Montinaro per la gentile collaborazione che ha permesso la realizzazione del presente lavoro di ricerca.
Note
[1] Ora Città di Muro Leccese.
[2] Particolare attitudine innata a cogliere a prima vista la condizione di salute dei malati, un tempo considerata una caratteristica ereditaria dei discendenti del nume greco Asclepio.
[3] Francesco Nicola Maria Andria fu un medico e un filosofo italiano. Egli nacque a Massafra nell’odierna provincia di Taranto, il 10 settembre 1747 e morì a Napoli, dove visse fin al 1814. Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli. Studiò a Napoli giurisprudenza, pubblicando nel 1760 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi orientandosi verso la medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata. Ad appena 27 anni concorse con il medico e patriota partenopeo Domenico Cirillo per l’ottenimento della cattedra di medicina pratica, che fu poi conferita a quest’ultimo. La sua attività di cattedratico, si svolse tra ‘700 e ‘800, nel contesto di un particolare periodo storico politicamente molto dinamico. Presso l’Università Regia degli Studi di Napoli Andria ricoprì vari incarichi d’insegnamento. Detenne la cattedra di storia naturale, di medicina teoretica e pratica, e di agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina molto apprezzate in diverse parti d’Europa. Nel 1808 prese a impartire lezioni di medicina teoretica e poi, nel 1811 di patologia e di nosologia. Malato ed ormai quasi del tutto cieco, venne congedato dall’insegnamento agli inizi del 1814, e insignito del titolo di Cavaliere dal Re di Napoli Gioacchino Murat. Il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove venne seppellito nella chiesa di Santa Sofia insieme al collega Antonio Sementini.
[4] John Brown (1735-1788) che fu allievo di William Cullen ideò un vero e proprio sistema medico nel quale intese la vita come una conseguenza degli stimoli interni di origine viscerale ed esterni provenienti dall’ambiente e delle risposte date dalla eccitabilità dell’organismo. Quando la risposta allo stimolo era eccessiva si formava uno stato di malattia che definì “iperstenico” e quando la risposta era troppo debole lo definì “astenico”. Le astenie erano di due tipi: diretta se la eccitazione mancava per carenza di stimolo, indiretta quando l’organismo stimolato in eccesso esauriva la sua capacità di rispondere eccitandosi. Una “omeostasi” tra fra eccitamento ed eccitabilità rappresentava per lo scozzese lo stato di salute ideale. Ebbe l’ardire di esprimere Il grado di eccitamento matematicamente per mezzo di una scala che andava da zero a ottanta, con quaranta gradi che rappresentavano lo stato di salute. Forti stimolanti utilizzati in quella terapia furono l’oppio e l’alcol, generalmente somministrati in combinazione con laudano. Stimolanti alternativi furono invece l’etere, la canfora, l’ammoniaca e il muschio. Una dieta proteica ricca di carne era da Brown spesso prescritta come misura “di sostegno”. Anche i metodi decongestionanti ‒ come la flebotomia, le purghe e gli emetici, che erano indicati nelle malattie steniche ‒ erano considerati come degli stimolanti blandi. Cfr. E. Frasca, L’eco di Brown. Teorie mediche e prassi politiche (secoli XVIII-XIX), Roma, Carrocci Editore, 2014.
[5] Nella vecchia terminologia medica, lo stesso che gotta, considerata nella sua forma clinica più tipica, con interessamento iniziale e prevalente all’articolazione tra metatarso e falange dell’alluce. Cfr. G. Ferramosca, Trattato teorico-pratico sulla Podagra, Napoli 1804.
[6] Cfr. R. Rossetti, Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese, Fondazione Terra d’Otranto, pubblicazione on-line del 17 settembre 2012.
[7] L. Maggiulli, Monografia di Muro Leccese, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, MDCCCLXXI, p. 147.
[8] Periodo in cui maturerebbe l’uva “primaticcia” presente nel racconto della donna.
[9] Illustre medico e storico della medicina (Paternopoli 1800 – Napoli 1872), professore a Napoli, prima di Patologia generale e Igiene, poi di Storia della medicina. A lui si debbono, tra l’altro, una Storia della medicina in Italia (1845-48), una Storia documentata della Scuola Medica di Salerno (1857) e l’importante raccolta documentaria Collectio Salernitana (5 voll., 1852-59).
[10] Nel lemma in questione si riportarono a favore della terapia tradizionale salentina dei casi particolarissimi di tarantolismo come quello di una infante di Novoli che, a causa della sua tenerissima età mal avrebbe potuto risentire psicologicamente del coinvolgimento socioculturale dei suoi prossimi. Si cercò, poi, di comprendere, anche, le ragioni chimiche ed emetiche dell’acqua del miracoloso Pozzo di San Paolo di Galatina da sempre ritenuta curativa nei casi di tarantismo
[11] Riferimento esplicito alla lacerazione dell’imene da primo rapporto sessuale al di fuori, o precedentemente al matrimonio religioso, che in un contesto rurale rappresentava una grave onta gravante sulla donna che lo aveva subito e che poteva emarginarla dal proprio contesto sociale di appartenenza con tutte le conseguenze del caso. A tal proposito si consiglia l’interessante interpretazione dello studioso magliese Oreste Caroppo intitolata Tarantismo e perdita del primus e della verginità. Alla ricerca del vero profondo rimorso della tarantata. http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/
[12] G. Ferramosca, Sulla Speronetta, “Filiatre Sebezio”, Anno XII, Napoli 1842, p.129..
[13] G. Ferramosca, Avvelenamento per morso di vipera, “Igea Salentina”, Volume I, Napoli 1843, p. 216.
[14] G. Ferramosca, Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro, “Filiatre Sebezio”, Anno XIV, Napoli 1844, p. 65.
Vorrei se possibile venire in contatto con i signori Basurto eredi di G.Ferramosca.Grazie
Contatti su facebook l’Avv. Alvaro Basurto.
Buongiorno Andrea, sono Alvaro Basurto
mi puoi scrivere sulla mia mail: alvaro.basurto@alice.it
A presto
Bellissimo articolo