di Armando Polito
Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione telefonica un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa1 con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che gia mi era noto per averlo sentito dalla bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in grado individuare i riferimenti specifici, se non una generico indizione di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo baccillera (sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e baccillera, da sua nonna.
Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando altri non se ne sono occupati, primo fra tutti il Rohlfs, nel cui vocabolario sui dialetti salentini mancano non poche parole ancora oggi usate a Nardò, il che certamente non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi pare doveroso aggiungere, però, a conferma del dato per Nardò, che caissa (non baccillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente2, che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria]] donna cattiva; donna oppressiva.3
Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.
Di seguito le conclusioni alle quali sono giunto.
CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.
Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinse Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede conquistata da un gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).
Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.
Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.
L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750 (di seguito il frontespizio).
Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a patire dalla prima5.
Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.6
Ma, per tornare a noi, quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’artiicolo (queddha ggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non queddha gghìè caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!
BACCILLERA
Non mi pare un caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. sarcasmo de che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.
Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lop facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.-
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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/
2 Sono profondamente convinto, ma non è detto che abbia ragione, che la vera conoscenza si basa sul dubbio ricorrente, anche perché ciò che appare certo può non corrispondere al varo.
3 Ad essere precisi: in greco κακή–κακῆς (leggi kakè–kakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακή–κακῆς sostantivo.
4 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.
5 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.
6 Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?
E se uscissimo dall’idea (prevalente) dispregiativa e consideriamo “caissa” espressione dialettale di “che_essa” per tutte le possibili connotazioni e comunque con riferimento a persona (femminile) nota, eventualmente anche istruita? Circostanza questa che, considerato il tempo, era motivo di scandalo (e invidia …) conseguire il “Bachillerato” (sostantivo della lingua spagnola dominante il nostro territorio), da cui “baccillera”, con ogni possibile significanza.
Mi affretto a risponderle prima che il post, pubblicato per un equivoco nella versione provvisoria, sia sostituito, cosa che avverrà a breve, dal definitivo con la conseguente perdita del suo commento, che, se crede, potrà replicare sul nuovo. Nel frattempo, a proposito di “ca issa”, debbo dire che anch’io avevo formulato, proprio all’inizio, la sua stessa ipotesi, che, però, ho subito scartato e non più preso in considerazione, perché “essa” nel dialetto neritino non è “issa” ma “eddha” (corrispondente all’italiano “ella”) e mi è parso improbabile che un “ca issa” abbia prevalso su un “ca eddha”, che, oltretutto, sarebbe stato più sarcastico. “
Grazie per l’attenzione riservatami!
Ho avuto solo una fugace e, comunque, piacevole esperienza neretina (oltre cinquanta anni fa) percependo l’intelligenza sarcastica della giovane …
Poi il mio piccolo mondo è diventato romano con relative aderenze istituzionali europee, circostanza che mi hanno consentito una visione non provinciale dei problemini in cui ancora si dibattono italiche menti che si ritengono, loro, elevate.