Intervista ad Antonio Ancora, Caporale della Vª Btg Div. Folgore classe 1921
Antonio Ancora racconta il contenuto della presente intervista a Romualdo Rossetti e agli operatori del Club per l’ Unesco di Galatina nel settembre del 2019
a cura di Romualdo Rossetti
Buona sera, signor Ancora, sono venuto affinché possa raccontarci della sua avventura bellica a El Alamein. È disposto a rilasciarmi un’intervista dettagliata?
Certo! Volentieri!
Ci può dire quando è nato, dove è nato, quanti fratelli aveva e che mestiere faceva prima del suo arruolamento militare?
Sono nato a Galatina il 9 aprile del 1921. Appartenevo a una famiglia molto numerosa. Mio padre faceva il colono agricolo e avevo sei fratelli, nell’ordine: Angela la maggiore, poi veniva Annetta, poi venivo io, poi Luigi, Pippi, Maria Luce e Totò, che era l’ultimo. Prima di arruolarmi ho lavorato in un’impresa di ristrutturazioni, con la quale lavorai tanto all’Arsenale militare di Taranto quanto all’aeroporto di Galatina.
Ci può raccontare, adesso come e quando ebbe inizio la sua avventura militare?
Quando sono stato chiamato dal distretto militare di Lecce per passare la visita di leva, io, insieme a molti altri miei amici, siamo stati mandati a Bari, presso la caserma di Artiglieria campale. Lì ci siamo fermati per una ventina di giorni e lì presi il brevetto di radiotelegrafista Dopo venimmo rispediti a Lecce, presso la caserma Santa Rosa se non ricordo male. Dopo qualche giorno giunse una circolare destinata a quanti avessero voluto arruolarsi nei paracadutisti. Io e tanti altri chiedemmo così di entrare nei paracadutisti come volontari. Dopo alcuni giorni giunse una lettera in cui era scritto che dovevamo andare a Napoli, alla caserma “Nino Bixio” del rione Pizzofalcone, dove c’era il 1° reggimento dei Bersaglieri. Lì ci vennero fatti tutti gli accertamenti di rito, le visite mediche e altri esami; poi ci venne consegnato un certificato di idoneità e ci rispedirono nuovamente a Lecce, dove cominciammo un primo corso di addestramento. Non terminammo nemmeno quel primo corso di addestramento, che giunse una circolare nella quale vi era scritto che saremmo dovuti andare in Albania, perché avevano bisogno di rinforzi militari. Quella circolare mi mise in apprensione perché io non volevo spostarmi dall’Italia, ma soprattutto perché avevo già fatto domanda per entrare nei paracadutisti, e avevo paura che, andando in Albania avrei dovuto abbandonare il mio sogno di diventare un paracadutista. Comunicai i miei dubbi al mio superiore, il quale mi disse: “Ora devi partire ma è probabile che ti richiamino in patria per farti fare il paracadutista!”. Così avvenne. Dovetti però partire e fermarmi in Albania per qualche tempo.
Ha conosciuto l’Albania allora! Che rapporto avevate voi Italiani con gli Albanesi?
Gli Albanesi non ci potevano sopportare perché erano stati invasi da noi; ci guardavano sempre in cagnesco. Di conseguenza nemmeno noi li potevamo sopportare. Vi era reciproca antipatia, diciamo!
Poi che successe?
Dopo quindici, venti giorni arrivò un’altra circolare, in cui era scritto che tutti quelli che avevano fatto domanda per entrare nei paracadutisti dovevano rientrare in Italia. Ci fecero imbarcare su di una nave da Durazzo, anzi per l’esattezza da una località chiamata “Erbasanta” e ci sbarcarono a Bari. Dovemmo, poi, raggiungere Viterbo dove arrivammo nei tempi stabiliti.
Ci può raccontare come si svolgeva il vostro addestramento militare?
Lì l’addestramento militare si fece serio. Facevamo ginnastica tutti i giorni, trazioni alla sbarra, addominali, piegamenti, lotta a corpo a corpo, esercizi di mimetizzazione. mo mimetizzare. Dopo la colazione a base di latte e gallette ci obbligavano a fare una corsa forzata facendo circa 25 26 chilometri, tra l’andata e il ritorno. Poi passammo alle cadute sui materassi. Ci insegnarono come cadere, come fare corretamente le capriole, ecc. Salivamo su di una torretta, alta una trentina di metri, legati a due funi che alcuni nostri commilitoni reggevano dal basso. La corda era trattenuta da dei moschettoni. Se i nostri commilitoni si distanziavano tra di loro, la caduta era lenta, ma se si avvicinavano, diventava sempre più veloce. Gli istruttori facevano alternare i tipi di caduta, affinché imparassimo come comportarci. Era importantissimo ammortizzare e non cadere sui talloni. Poi, per rendere più verosimile l’ambiente, ci fecero esercitare in una carlingaa di aereo che aveva il motore acceso. L’aereo poggiava su di una base ad una certa altezza e noi, in fila indiana, ci entravamo dentro e aspettavamo la pacca sulla spalla dell’addestratore, che ci indicava il momento per saltare giù. Da un’altezza di circa venti metri cadevamo sulla sabbia per ammortizzare la caduta. Poi giunse il momento del lancio vero e proprio. Occorreva fare tre lanci per poter ottenere il brevetto di paracadutista. Il 14 giugno del 1942 ottenni il mio brevetto, n. 8198.
Si ricorda il suo primo lancio?
Certo che me lo ricordo. Il primo lancio è come il primo amore, non lo si scorda mai. Eravamo tutti tesi e ansiosi di provarlo. Vedevamo la campagna circostante in lontananza e tutto ci sembrò piccolo, piccolo. Una volta che mi fui lanciato, vissi una sensazione meravigliosa; mi sembrò quasi di volare. Mi sentii libero, nonostante avessi la responsabilità di fare bene la caduta e di raccogliere come si deve il paracadute.
I vostri istruttori militari erano del luogo o venivano da fuori?
Questo non lo ricordo… so solo che la stragrande maggioranza di loro si era formata in Libia e avevano fatto parte del Reggimento paracadutisti “Fanti dell’aria”, nato come battaglione su iniziativa di Italo Balbo, e che si erano esercitati a “Castel Benito”[1] vicino Tripoli.
È vero che dovevate chiamarvi “Cacciatori d’Africa”?
Si è vero! Poi a qualcuno venne in mente il nome “Folgore” e lo propose ai vertici militari. Quel nome piacque e ci chiamammo così, che sinceramente, è molto più bello!
Una volta terminato l’addestramento e ottenuto il brevetto da paracadutista che cosa accadde?
Accadde che giungemmo dal centro di addestramento di Tarquinia, a Villa Castelli, vicino a Grottaglie. Un bel momento, di notte, il sergente ci svegliò e ci disse: “Ragazzi preparatevi che dovete spostarvi!”. Ci caricarono sui dei camion gommati e ci portarono verso una destinazione top secret. Appena giunti, mi accorsi che il campo di atterraggio era quello di “Fortunato Cesari” di Galatina, dove prima di arruolarmi avevo lavorato per delle ristrutturazioni. Dissi: “Gesù mio qui a Galatina siamo!”. Sulla pista già molti aerei erano pronti per il decollo. Ognuno di quelli aveva una capienza di oltre 100 persone più i membri dell’equipaggio di volo e le nostre attrezzature di lancio.
Partiste dall’aeroporto di Galatina?
Si, precisamente la notte del 7 luglio 1942, a bordo dell’aereo militare S.M. 82 partimmo da Galatina con destinazione “Africa Settentrionale – Primi Rami del Nilo”. Prima di decollare lanciai in un contenitore un messaggio, dove avevo scritto chi fossi e dove fossi diretto. Quel messaggio venne trovato e successivamente consegnato a mia sorella Annetta, che da sposata viveva a Soleto. Stavamo quasi per raggiungere la Libia, quando ricevemmo in volo un contrordine in cui si intimava di atterrare al più presto al più vicino aeroporto. L’aeroporto più vicino era quello di Barce[2], dove atterrammo. Una volta a terra ci ordinarono di consegnare il paracadute. Durante l’addestramento ci era stato detto che il proprio paracadute non lo si poteva consegnare a nessuno se non con l’esplicito ordine del proprio comandante; quella così avvenne. Chi li prese in consegna, dopo averli esaminati uno per uno, si accorse che a Viterbo o a Tarquinia vi era stato un sabotaggio. Qualcuno, di nascosto, era penetrato nei depositi e utilizzando dell’acido, avevano intaccato le funicelle di tutti i paracadute.
Vi erano state delle spie allora?
Si certo, in Italia quel sabotaggio era avvenuto presso i nostri centri di addestramento.
In Libia dove andaste?
Una volta messo piede in Libia rimanemmo a Tobruk per qualche giorno. Lì ci fecero visitare l’incrociatore San Giorgio che si era arenato dopo essere stato colpito dagli Inglesi. Quella nave fungeva da postazione antiaerea ed era dotata di moltissime bocche da fuoco.
In Africa settentrionale le venne affidato qualche incarico?
Si, mi venne affidato. Giunto in Libia, fui inviato insieme ad altri miei commilitoni a Bengasi per motivi di addestramento, e soggiornammo a spese dell’Esercito al maestoso Grand Hotel “Berenice” di Bengasi.
Come si chiamava il vostro comandante?
Giuseppe Izzo. Era salentino pure lui, perché era nato a Presicce. Un eroe nel vero senso della parola.
Può descriverci il vostro rapporto col deserto?
Fu un rapporto davvero terribile. Combattevamo con la sabbia che era così sottile da entrare dappertutto, armi comprese. L’acqua fu l’elemento più importante. Non potevamo sprecarla, quindi ci si lavava poco o niente. Di mattina faceva un caldo insopportabile e di notte sentivamo freddo. Dovevamo fare attenzione anche agli animali del deserto che erano velenosi. Nonostante tutto il deserto conservava un fascino tutto suo.
È mai stato preso dallo sconforto?
Si Come tutti. Vivere in quelle condizioni non era affatto semplice, provi un attimo lei a stare sempre col fiato sul collo, sapendo di poter morire da un momento all’altro, a vivere con pochissima acqua e pochissimo cibo, in un paese lontano in mezzo alla sabbia rovente, vestito con divise che giorno dopo giorno si trasformavano in stracci, tra la sporcizia, gli animali velenosi e le malattie contagiose, con l’ossessione di non poter rivedere più i propri genitori, i propri fratelli, le proprie sorelle, le proprie fidanzate. Una volta, preso dalla disperazione, arrivai a tirarmi addosso un bidone di benzina, sperando che mi fratturasse qualche osso, per poter essere ricoverato in infermeria nelle retrovie e magari riuscire a ritornare in Italia; e invece quel bidone mi graffiò solo di striscio. Un’altra volta cercai di prendermi la scabbia, per essere mandato in infermeria in un posto più tranquillo, e cominciai a strofinandomi su di un commilitone che l’aveva presa. Non la presi! Era destino che dovessi partecipare alla battaglia finale…e forse fu anche meglio, perché ora ve la posso raccontare.
Tiene a mente il nome di qualche famosa località nei pressi di dove eravate stanziati voi in Africa del Nord?
Come no! Da noi non era troppo distante la famosa “Oasi di Giarabub”, poi la “depressione di El Qattara”, “Gebel Kalakh”, “Deir El Munassib”, “Alam el Halfa” …
Come facevate a resistere alla sete?
Rubavamo di notte, di nascosto, dai camion tedeschi ma anche da quelli italiani, l’acqua dei radiatori. Aprivamo la valvola e lasciavamo che gocciolasse in alcuni contenitori di metallo, poi la filtravamo con dei panni, ma nonostante questo, puzzava sempre di carburante. La bevevamo lo stesso, però. Abbiamo sofferto tantissimo la sete.
Anche da prigionieri?
No, da prigionieri no, perché giungevano puntualmente dei camioncini con acqua pulita e generi alimentari.
Ha mai visto di persona il generale tedesco Erwin Rommel?
Si. l’ho visto più di una volta dal vivo, prima della battaglia finale però, perché quando avvenne la battaglia, lui non era in Africa.
Che aspetto aveva e come lo consideravate voi Italiani?
Aveva un aspetto buono e sorridente, non era mai arcigno. Era circondato sempre dai suoi attendenti. Noi lo tenevamo in grande considerazione. Era astutissimo tanto che lo chiamavano “La volpe del deserto”!
Di Churchill cosa pensavate?
Che era il nostro più grande nemico, ma che sapeva il fatto suo. Fu lui però a chiamare i paracadutisti della Folgore “I leoni di El Alamein” per il coraggio che avevamo dimostrato combattendo.
Winston Churchill insieme al Gen. Bernard Law Montgomery
Qual era il vostro equipaggiamento militare?
Noi eravamo abbastanza riforniti di armi automatiche; tenevamo il moschetto automatico Beretta mod. 1938 con il caricatore verticale, che era migliore di quelli a nastro. Avevamo il cannone anticarro Breda 47/32 Mod. 1935, la mitragliatrice Breda Mod. 5C, non mancavano fucili, pistole, bombe a mano. Durante la battaglia adoperammo di tutto, anche le bottiglie molotov.
È vero che molto spesso eravate voi Italiani a togliere d’impaccio le meglio equipaggiate truppe tedesche dell’Afrika Korps quando con i loro mezzi corazzati si insabbiavano nel deserto?
Tantissime volte, mica una volta sola, specie quando si inoltravano nei sentieri che noi chiamavamo delle “sabbie mobili”, erano zone pericolosissime. Andavamo con i mezzi nostri a tirare via i loro camion.
Voi durante la battaglia eravate posizionati sotto gli Inglesi?
Noi eravamo posizionati nel deserto; verso la litoranea c’erano altri Italiani, c’erano i bersaglieri, oltre ai Tedeschi ovviamente. Montgomery fece il tentativo di cacciarci via per due o tre volte, ma alla fine capì che non c’era nulla da fare. Noi resistevamo con tutto ciò che avevamo a disposizione, non cedemmo nemmeno di un millimetro. Provarono anche con la guerra psicologica; ci fecero giungere notizie che dicevano che noi della folgore dovevamo arrenderci perché le truppe di Montgomery erano già arrivate a Tobruk e Bengasi. Noi resistevamo anche a quello. Capimmo che erano solo menzogne.
L’ultima battaglia cominciò il 23 ottobre alle 10 di sera, vero?
Si cominciò di notte. Attraverso dei camminamenti, noi di notte uscivamo di pattuglia, per poterci avvicinare quanto più alle linee nemiche, nonostante i campi minati.
I campi erano minati?
Certo i campi erano tutti minati. I Tedeschi li avevano minati a forma di doppia S ed era pericolosissimo venirne fuori. Loro erano attrezzati a sminare col radar, noi invece adoperavamo i coltelli per tastare il terreno. Bisognava fare molta attenzione, perché le mine, come le toccavi, esplodevano ad altezza d’uomo e colpivano con le schegge a livello intestinale i malcapitati che le avevano pigiate.
Ci racconti cosa accadde.
Eravamo stati bersagliati da giorni. Ma noi non demordevamo, anzi eravamo disposti a vendere cara la pelle. Giunse il momento in cui ci accorgemmo che le munizioni stavano per finire. Volevamo però dare l’idea che non eravamo quasi disarmati, quindi un nostro superiore ad un certo punto ci disse che al suo segnale dovevamo sparare con tutto ciò che avevamo a disposizione, in tutte le direzioni, con una specie di fuoco incrociato. Così facemmo, al suo segnale non si capì più nulla; fuoco a volontà. Raffiche di mitraglia, colpi di fucili, insomma sparammo con tutto ciò che avevamo. Quella trovata riuscì, perché non solo le truppe nemiche si allontanarono, ma riuscimmo a fare addirittura alcuni prigionieri. Churchill e Montgomery capirono che eravamo dei duri, quindi mandarono a stanarci i migliori soldati che avevano, ma nemmeno con quelli riuscirono a farlo. Si creò, però, una situazione di stallo. Loro non riuscivano a farci indietreggiare, noi non avremmo potuto resistere a lungo; quindi gli Inglesi e i nostri superiori optarono per una resa onorevole. Ci fu tributato l’onore delle armi. Cosa che gli Inglesi non facevano molto spesso.
In cosa consisteva una resa con l’onore delle armi?
Venimmo disarmati tutti, ma al nostro comandante fu lasciata la sciabola di ufficiale. Lui ci fece mettere in fila e sfilammo tutti davanti agli Inglesi che al nostro passaggio si misero sull’attenti. Quella scelta, nonostante fossimo stati battuti, ci riempì di orgoglio.
Si ricorda la scena più straziante a cui assistette durante la battaglia finale?
Durante la battaglia, un mio commilitone, mentre mi stava passando alcune munizioni, venne raggiunto da una scarica di mitraglia in pieno volto. Nonostante ciò, rimase per qualche tempo in vita e prima che morisse lo vidi strapparsi dei pezzi di carne dal viso esclamando: “mm …mmm…mia… mmmamm” forse voleva dire “mamma mia… non madonna mia!” Perché quando si sta per morire, si cerca sempre la mamma. Quel povero Cristo in breve spirò tra le nostre braccia, invocando la sua mamma!
Ebbe mai la consapevolezza di aver ucciso qualche nemico durante una sparatoria? Mi rendo conto che le sto ponendo una domanda stupida ma mi piacerebbe che mi rispondesse lo stesso!
Figlio mio! Come facevo ad avere la consapevolezza di aver ucciso qualcuno!? In guerra è così; ti sparano, tu spari! Quasi quasi non lo fai nemmeno per uccidere il nemico, lo fai per fermare l’attacco e metterti al riparo. In quei momenti non si pensa, si agisce d’istinto.
Ha avuto mai paura della morte?
Durante i combattimenti mai. Allora subentrava l’istinto di sopravvivenza. Quando ci fermavamo a riflettere speravamo di essere uccisi subito, per non soffrire come quel ragazzo mitragliato in faccia. Era peggiore l’attesa dell’attacco nemico… quella sì che ti logorava dentro!
Ci può parlare della sua prigionia? Come vi trattavano gli inglesi?
Per la verità gli Inglesi generalmente non ci trattarono male; anche se episodi brutti verso di noi non mancarono.
In che senso? Vuol farci credere che una volta prigioniero ha subito qualche forma di sopruso o violenza da parte dei suoi carcerieri?
Di questo non voglio parlare!
Ci parli di altro allora, di qualche episodio della prigionia che ricorda bene!
Una volta arresi ci portarono ad Alessandria d’Egitto in un campo di concentramento. Insieme ad altri Italiani rimasi prigioniero in Africa per tantissimo tempo, veramente tantissimo tempo. Un giorno, mentre stavamo marciando in fila indiana, mi trovai casualmente dietro una camionetta che portava viveri ai prigionieri. Senza essere visto infilai la mano nella cabina e rubai dei biscottoni, loro li chiamavano “cookies”. Come li prendevo, alcuni li tenevo per me, altri li passavo ad alcuni miei compagni. Lo feci una volta, una seconda, una terza, ma alla quarta una mano gigantesca di un australiano afferrò il mio polso! Mi chiamò “thief” ovvero “ladro”. Quel soldato era altissimo, con un cappellaccio a falde larghe. Quello cominciò a strattonarmi e a fischiare per chiamare la polizia militare che giunse subito. Mi ammanettarono e mi portarono subito dai loro superiori. Mi accusarono di furto e contrabbando e venni processato per direttissima. Fortuna volle che mi diedero un avvocato d’ufficio, che aveva una figlia che aveva studiato in Italia e aveva a buon cuore gli Italiani. Per farla breve quell’avvocato riuscì a farmi assolvere perché disse alla Corte che, se avevo rubato, lo avevo fatto non per contrabbando, ma perché spinto dalla fame. Fu così che venni graziato.
Ci parli del suo trasferimento da prigioniero.
Era trascorso tanto tempo da quando ci avevano presi prigionieri e la situazione internazionale era cambiata. Quelli che erano nostri amici, erano diventati nostri nemici, e i nostri nemici collaboravano con noi. Noi eravamo, però, sempre prigionieri loro, anche se cercarono di farci collaborare nelle retrovie. Decisero di spostarci altrove. Nel frattempo noi avevamo fraternizzato con alcune guardie carcerarie inglesi, che ci avevano detto che molto presto ci avrebbero trasferiti in Italia.
Ad un certo punto, proprio quando stavamo per imbarcarci dal porto di Alessandria d’Egitto, arrivò un allarme con relativo ordine di non accendere nessuna radio, perché nei paraggi si aggirava un sottomarino nemico, che era partito dalle vicinanze di Malta. Dopo qualche tempo venimmo imbarcati su di una grande nave. Gli Inglesi avevano chiamato in soccorso due incrociatori, affinché ci scortassero alla nostra destinazione, senza incappare nelle mire del sottomarino nemico.
Appena giunti a destinazione, guardai fuori dall’oblò e mi accorsi che le guardie del campo non ci avevano mentito. Con grande stupore compresi che stavamo per attraccare nel porto di Taranto. Deve sapere che la Marina Italiana aveva subito gravi perdite durante un bombardamento alleato…
Si sta per caso riferendo alla famosa “Tragica notte di Taranto” fra l’11 e il 12 novembre del 1940? Quel bombardamento era successo qualche anno prima. [
Sì! Quella notte vennero messe fuori uso le navi da battaglia “Conte di Cavour”, la “Littorio” e la “Duilio”, e ci furono morti e tantissimi feriti, ma ritorniamo a noi…dicevo che mi accorsi che eravamo giunti a Taranto, dove avevo lavorato per tanto tempo, presso l’arsenale militare, prima di partire soldato e dove avevo alloggiato in via Adua 72. Una volta attraccati, ci fecero scendere in fila indiana e salire su di un’altra nave, che ci avrebbe condotto prigionieri chissà dove. A un certo punto mi fermai e mi inginocchiai per allacciarmi i lacci delle scarpe. Venne subito un soldato inglese, forse australiano non so, che parlava mezzo inglese e mezzo italiano e mi disse gridando: “Don’t stop….Don’t stop. Not from here…non da qui…quella parte tu andare!” e mi spinse verso la parte opposta…io obbedii al suo ordine e mi accorsi che quel soldato mi aveva indicato la via verso la libertà. Ero libero…facendo la massima attenzione, sgattaiolai fuori, non dando nell’occhio. Ero riuscito a fuggire, ero in una città che conoscevo; ma dove andare? Si capiva subito da come ero vestito che ero un reduce di guerra italiano. Mentre pensavo a tutto ciò, incontro un tizio che mi fa: “Senti …ma tu non sei uno di quelli che…” Ed io istintivamente risposi volgarmente: “Tu pijate li c…. toi! Che vai cercando da me? Vedi di andartene o finisce male!” Ma quello continuò dicendo: “No… no…stai calmo. Volevo solo dirti che in fondo a questa strada c’è un cancello…se vai lì e bussi c’è un grande frantoio, se cerchi il proprietario che è di Soleto, Mesciu ‘Ntoni Nuzzaci[3], è possibile che ti possa aiutare!” .
Gli inglesi, nel frattempo, si erano accorti della sua fuga?
Non ancora, ma se ne accorsero dopo…purtroppo per mio fratello!
In che senso?
Mi lasci finire e capirà…mi comportai come mi aveva suggerito quell’uomo. Arrivai davanti a quel grande cancello, suonai e uscì un uomo, forse un nachiro[4] che mi disse: “Hei amico mio, non c’è nulla da fare, oggi qui è già tutto pieno!” Io gli risposi: “No… guarda che ti stai sbagliando, io non cerco un lavoro, io vorrei parlare con Mesciu ‘Ntoni!”. “E chi sei tu che vuoi parlare con Mesciu ‘Ntoni?” – mi disse – ed io subito: “Digli che c’è il fratello di Annetta Ancora, di Galatina, che gli vuole parlare!”. Dopo aver pensato come fare, quell’uomo andò a chiamare Mesciu ‘Ntoni. Appena giunse, gli spiegai la mia situazione e mi disse: “Guarda io non posso portarti a Galatina perché ci sono moltissimi posti di blocco Alleati; se mi beccano con t,e per me saranno guai, perché ci sono dei controlli rigorosissimi. Tu puoi fare solo una cosa, qui c’è un treno merci che porterà vettovaglie, patate ed altro al capo di Leuca, che parte da Roccaforzata, qui vicino; cerca di salirci sopra, poi ti renderai conto tu quando scendere. Nel frattempo farò in modo d’informare tua sorella e tuo cognato”. Così avvenne. Presi insieme ad altri quel treno merci carico di patate e riuscii, nascondendomi, a raggiungere Zollino, praticamente alle porte di casa. A Zollino incontrai mio cognato Masi che era stato già avvisato, e mi venne incontro. Lui mi fece salire sul suo biroccio e, nascondendomi, mi portò a casa sua. Stetti un poco da loro, poi decisi di andare in giro latitante, perché sapevo che se fossi andato a Galatina, prima o poi gli Inglesi sarebbero venuti a prendermi, perché risultavo come fuggiasco.
Stetti in giro parecchi giorni, presso vari amici, poi decisi di andare dai miei a Galatina, preoccupandomi di trovare il modo di scappare, se per caso fossero venuti a prendermi. Quando giunsi a Galatina, il caso volle che arrivò contemporaneamente a me mio fratello Luigi, in licenza da Bologna. Venivano spesso le guardie a cercarmi a casa, ma io appena le sentivo arrivare, mi nascondevo.
Una notte mentre dormivamo tutti, sento l’esigenza di andare in bagno. Mentre ero fuori – perché il bagno lo tenevamo in cortile – sento un frastuono dentro casa. La polizia militare inglese aveva fatto irruzione e aveva incatenato mio fratello Luigi, scambiandolo per me. Mio padre disperato gridava. “Lasciatelo stare…non è Antonio, questo è Luigi …vi state sbagliando!” e per il nervoso si mordeva le mani. Ma loro imperterriti lo incatenarono e se lo portarono via. Fortuna volle che vicino a casa di mio padre abitava un noto carabiniere, che anche lui si trovava in licenza. Fu lui ad andare al comando inglese e a testimoniare in favore di mio fratello. Fu così che lo rimisero in libertà!
Poi che accadde?
Accadde che a guerra finita tutto si risolse a mio vantaggio.
Vedo che si è stancato parecchio; credo che l’intervista possa finire qui. Grazie di tutto sig. Ancora. Lasci che mi complimenti con lei per la memoria ferrea.
Grazie, quando si vivono certe esperienze, queste ti rimangono dentro per tutta la vita. Ho visto la guerra e la pace…molto meglio la seconda. Ai ragazzi dico sempre che è meglio puntare sulla pace e mai sulla guerra. Altre guerre mai!
Note
[1] Ora città libica di Ben Gascir.
[2] Ora chiamato Al-Marj che durante il periodo del colonialismo italiano venne ridenominato Barce in onore dell’antica colonia greca di Barca, era una cittadina della Libia orientale, nota come Cirenaica.
[3] Mastro Antonio
[4] Nocchiero, un grado dei lavoratori dei frantoi salentini.
Grande uomo non è colui che Accumula molti beni materiali Grande è colui che con il suo sacrificio, il suo coraggio e il la sua abnegazione ci sta permettendo di vivere in pace e prosperità.